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Lo stress dei genitori di bambini con diagnosi di autismo

Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli.

Bernardi Laura – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Dai primi approcci che dagli anni ’50 hanno affrontato lo studio dell’impatto della disabilità sulla famiglia, si è andata affermando in letteratura l’idea di un impatto necessariamente negativo della disabilità sulle vite delle famiglie che ha poi guidato la ricerca sull’argomento dando centralità a concetti quali dolore, lutto e tristezza cronica (Kearney e Griffin, 2001). Fino agli anni ‘80 la letteratura in questa prospettiva ha assunto come base la sola dimensione negativa del fenomeno disabilità, sviluppando un’ipotesi di reazione disadattiva allo stress che ha ribadito l’ineluttabilità di una risposta patologica delle famiglie.

Lo stress nelle famiglie di bambini autistici

A questo proposito si trova un’ampia rassegna di studi che indagano i principali eventi della vita dei soggetti autistici e descrivono le reazioni dei familiari. Le famiglie di bambini autistici duramente colpite dai molteplici deficit dei loro figli vivono stress a livello individuale, coniugale, genitoriale e rispetto alla relazione con altri figli (DeMyer, 1979). Sembra che la natura della sindrome autistica renda questa patologia particolarmente stressante per le famiglie rispetto a molti altri tipi di disturbi (Bouma e Scweitzer, 1990; Fisman et al., 1996; 2000; Kasari e Sigman 1997; Sanders e Morgan, 1997). Numerosi studi hanno constatato come, i genitori di figli con disabilità e con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, mostrino elevati livelli di stress rispetto a famiglie con figli con un normale processo di sviluppo (Hastings, Honey  e McConachie 2005; Dumas, 1991; Koegel, 1992; Konstantareas, 1992; Sanders e Morgan, 1997) osservando, in generale, che i padri riportano minori livelli di stress rispetto alle madri (Bristol, 1988; Gray e Golden, 1992; Konstantareas, 1992; Moes, 1992).

Altri studi su famiglie di bambini autistici rilevano un’associazione positiva tra sintomatologia autistica e stress genitoriale (Bebko, Konstantareas e Springer, 1987;  Konstantareas e Homatidis 1989; Szatmari, Archer, Fisman e Steiner, 1994; Kasari e Sigman 1997; Hastings e Johnson 2001). I caregiver stessi riferiscono che i loro figli hanno un temperamento più difficile e riportano, rispetto a caregiver di soggetti normodotati e soggetti con Sindrome di Down, livelli più elevati di stress associati alle caratteristiche del bambino (Dunn, Burbine e Bowers, 2001; Kasari e Sigman, 1997).

Un primo motivo di stress è la mancanza d’interazione (Dumas, Wolf, Fisman e Cullig,1990; Kasari e  Sigman, 1997). Vera o apparente che sia, questa indifferenza del bambino autistico rivolta ai famigliari, provoca nei genitori sentimenti di rifiuto, d’inutilità e di amore non corrisposto. Kasari et al. (1997) hanno osservato, inoltre, che i caregiver che giudicano i propri figli autistici dal temperamento difficile si impegnano meno nelle interazioni con i bambini. Anche Dumas et al. (1990) hanno rilevato che, nelle famiglie di bambini autistici, le madri non sorridono in risposta al sorriso dei figli così spesso quanto le madri di bambini normali. Nello studio di Gray (1994) l’assenza delle abilità di linguaggio è indicata dalle famiglie di bambini autistici come il fattore maggiormente stressante. È il fallimento nello sviluppo normale del linguaggio a spingere molti genitori a un consulto medico (DeMeyer, 1979).  Tuttavia, per alcuni genitori di questo studio, il deficit di linguaggio del loro bambino rimane una fonte di stress anche dopo la diagnosi. Sebbene molti genitori arrivino ad accettare che la condizione di loro figlio comporti più di un disturbo del linguaggio, il fallimento del bambino nello sviluppo delle abilità linguistiche normali resta uno degli aspetti più frustranti dell’autismo (Gray, 1994).

Baker et al. hanno osservato questa associazione in bambini di età pre-scolare con ritardo nello sviluppo (Baker et al., 2002; 2003). Altri hanno trovato che i comportamenti problema sono per i genitori stressor più importanti della gravità della disabilità (Willoughby r Glidden, 1995; Essex et al., 1999; Hastings, 2002). Purtroppo la relazione tra comportamenti problema e stress genitoriale in soggetti con disturbi dello spettro autistico ha ricevuto scarsa attenzione in letteratura. Uno studio più recente di Lecavalier, Leone e Wiltze (2005), che esamina i correlati dello stress nei caregiver di un ampio campione di bambini e adolescenti con disturbi dello spettro autistico, riporta che i comportamenti problema sono i fattori maggiormente associati allo stress rispetto a tutte le altre caratteristiche misurate in bambini e caregiver. Condotte problematiche e assenza di comportamenti prosociali sono i più fortemente legati allo stress (Lecavalier, 2005). I risultati di questo studio rilevano, inoltre, che comportamenti problematici e stress rimangono stabili e si aggravano l’un l’altro nel corso di un anno.

La preoccupazione per il futuro

La famiglia di soggetti affetti da autismo fa fatica o è impossibilitata a svolgere una vita normale e, a causa della natura permanente del disturbo, resta perennemente angosciata dall’incertezza sia per il futuro prossimo del proprio bambino, o addirittura dell’indomani, sia per quello più lontano della vecchiaia e della morte. La terapia che si protrae per tutta l’esistenza e l’assenza di cure implicano che le famiglie si occupino del figlio disabile per molti anni. Decidere dove il proprio figlio autistico vivrà da adulto, è una delle questioni più difficili che le famiglie con bambini autistici devono affrontare. Uno studio recente (Harper A et Al.2013), ha dimostrato che i genitori dei bambini con un disturbo dello spettro autistico sono a maggior rischio di altre coppie di avere livelli di stress più elevato e una minore qualità della vita coniugale. Risulta interessante valutare come un intervento a sostegno del loro lavoro quotidiano di cura del figlio sia stato suggerito come un modo per contribuire ad alleviare lo stress.

Questo studio ha valutato la relazione tra la quantità e la qualità del sostegno alla famiglia e la qualità della vita coniugale, e poi il potenziale di stress in termini complessivi e lo stress della madre o del padre come variabili intermedie. I risultati hanno mostrato che la quantità di sollievo dall’accudimento è stata positivamente correlata alla qualità della vita coniugale sia per i mariti che per le mogli. Questa relazione è stata significativamente correlata alla misura dello stress percepito e al sollievo avvertito da ambedue: marito e moglie. Viceversa, maggiore presa in carico è stata associata ad un aumento dello stress; e maggiore stress è stato associato ad una ridotta qualità della vita coniugale. Inoltre il numero dei bambini con autismo in famiglia è stato associato ad un ulteriore incremento dello stress ed aumenta ogni giorno la riduzione della qualità relazionale.

Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2

In questa seconda parte della nostra risposta a Farina affrontiamo l’ipotesi che tra psicopatologia del trauma e relazione terapeutica come strumento di cura ci sia un rapporto privilegiato, e consideriamo i rischi e vantaggi di questo rapporto.

Sappiamo che questo collegamento è almeno in parte di una forzatura, e che trauma e relazione terapeutica non vanno per forza a braccetto. Sappiamo che ci sono colleghi che sottolineano l’importanza della relazione terapeutica senza pensare che il trauma sia il principale fattore psicopatologico e che ci sono altri colleghi che privilegiano il lavoro sul trauma senza però ritenere che si debba operare soprattutto sulla relazione terapeutica.

Sappiamo infine che relazione terapeutica è un concetto ancor più ampio di quello di trauma, che comprende varie cose, dall’alleanza di lavoro alla relazione spontanea fino alle rotture interpersonali tra paziente e terapista. Insomma, sappiamo che si tratta di una palude immensa la cui analisi dettagliata esula dallo scopo di questo articolo.


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Trauma e relazione terapeutica

Prendiamo però in esame il caso speciale in cui tra trauma e relazione terapeutica sia ipotizzato un legame teorico e clinico forte. Un modello traumatico fondato sull’ipotesi del deficit potrebbe proporre che la terapia non possa limitarsi all’individuazione e all’apprendimento di una funzione male utilizzata –come farebbe un terapista cognitivo comportamentale- ma deve riparare  strutture deficitarie o mal-funzionanti. E in questo modello la ricostruzione avverrebbe soprattutto in una  relazione -beninteso una relazione professionalmente terapeutica- e questo perché a sua volta la fase in cui nel passato le funzioni ora deficitarie del paziente avrebbero dovuto svilupparsi fu soprattutto una fase relazionale; insomma una relazione di sicurezza, protezione e contenimento con figure significative per la crescita, una relazione –alla Winnicott, ma anche alla Farina e Liotti (2011)- di cooperazione.

L’apprendimento del buon uso delle funzioni male utilizzate non si realizzerebbe se non è preceduto dalla ricostruzione delle strutture che permettono l’integrazione o comprensione della mente altrui. E dove avverrebbe questa ricostruzione? In una relazione, probabilmente, perché li avrebbero dovute essere costruite nell’infanzia perduta del paziente le impalcature deficitarie, e solo li possono essere ri-costruite.

La terapia come relazione

La terapia come relazione ci dice che siamo dalle parti di Winnicott e di Mitchell più che di Beck ed Ellis. Sicuramente anche in terapia cognitivo-comportamentale il monitoraggio della relazione e gli interventi di riparazione sono previsti, utili, a volte necessari, per mantenere la terapia cognitiva on the track (Waller, 2009). Ed è vero che Farina e Liotti (2011) hanno sempre insistito sul carattere di cooperazione della relazione terapeutica, quasi a evitare un eccessivo appiattimento sul transferale riproporsi in terapia del good enough mothering di Winnicott. Ed è infine vero che Safran e Muran (2000) sottolineano come la relazione sia un’esperienza non solo affettiva ma anche di crescita metacognitiva attraverso fasi drammatiche di rottura e riparazione. E poi, anche uno degli autori di questo articolo ipotizzò a suo tempo che potesse essere utile ricostruire la storia passata dell’apprendimento disfunzionale delle credenze distorte in specifici stili di conoscenza (Lorenzini e Sassaroli, 1995). Ci sono dati in linea con queste considerazioni, ad esempio Horvath ha trovato una robusta correlazione tra working alliance ed esito della terapia (Horvath & Bedi, 2002; Horvath, Del Re, Flückiger & Symonds, 2011). Anche se poi i suoi effetti sono minori  del previsto (Beutler, 2009), principalmente legati all’accordo su scopi e compiti della terapia più che sul legame relazionale (Webb et al., 2011), specie affiancata al contributo di altri predittori, tra i quali perfino la bistrattata tecnica terapeutica (Lambert & Barley, 2002).

Il paradigma di riferimento

Questi però sono i dati e qui ci preme sottolineare che il problema è anche di paradigma di riferimento e quindi di interpretazione dei dati e, conseguentemente, di chiarezza dell’operare clinico. Partiamo dal presupposto che mantenere una buona relazione sia un dato trasversale e indiscutibile, comune a tutti gli approcci terapeutici. Non abbiamo notizia a oggi di un approccio psicoterapeutico che teorizzi il maltrattamento strategico del paziente. In questo è una competenza di base. Oltre questa competenza di base possiamo identificare due scenari contrapposti sul binario trauma-relazione.

(1) Da un lato una terapia che mira alla ri-costruzione di buone relazioni per riparare meccanismi cognitivi malfunzionanti  (a seguito di esperienze traumatiche) e conseguentemente restituire al paziente il potere di cambiare. L’intervento di cambiamento dei meccanismi cognitivi è posticipato, se necessario, come ultima tappa di un lavoro realizzato in buona parte altrove, ovvero nella relazione e nella costruzione di esperienze emozionali correttive.

(2) Dall’altra parte terapie cognitivo-comportamentali che mirano al cambiamento di scopi, credenze, stili di pensiero e di reazione alla sofferenza emotiva, comprensibilmente sorte per far fronte a un contesto difficile o esigente (e nel 30% dei casi traumatico), là e allora persino utili, ma che non hanno tolto al paziente il potere di cambiare, per quanto possa non esserne pienamente consapevole. L’intervento relazionale, oltre alla competenza di base, diventa uno specifico intervento, se necessario, a favorire un ritorno, certo cooperativo, al processo di cambiamento nella relazione con i propri stati mentali.

Tuttavia, potrebbe forse obiettare un relazionalista, come ci si può aspettare che i pazienti siano in grado utilizzare meglio le loro malcomprese funzioni mentali, se le mura portanti della loro mente cadono a pezzi? I calcinacci della mente ci cadono in testa e questi cognitivisti stanno li a mostrare che si possono manovrare gli interruttori della luce e del gas!

È una posizione legittima, anzi proprio a livello teorico il confronto sui dati si farebbe interessante e florido. Ma per garantire un confronto con un paradigma cognitivo, occorre riconoscere che- almeno in parte- si esce fuori dal paradigma cognitivo. Ripetiamo: nulla di male in questo. Semmai, il rischio che paventiamo è quello di muoversi nel mezzo di un ecletticismo teorico, una miscela di teorie, tecniche e prospettive, talvolta aggregate senza consapevolezza piena della loro diversa prospettiva di riferimento. Questo è anche il rischio che potrebbe condurre a una sovrageneralizzazione del  pur utile concetto del paziente “difficile”, intuizione di Carlo Perris. Naturalmente non neghiamo l’esistenza di una percentuale di pazienti cosiddetti difficili. Tuttavia l’accumulo eclettico di tecniche di diversa origine può ridurre la consapevolezza del professionista su quali siano le basi stesse del proprio paradigma di riferimento.

Senza una visione chiara del proprio paradigma di riferimento (in altri termini della propria unità di analisi) che delinei l’orizzonte, chiunque si troverebbe in maggior difficoltà nel definire obiettivi primari del proprio operare, selezionare strategie adeguate, mantenere il focus attentivo sulla meta del processo terapeutico. Esito finale: confusione e incertezza e passaggio inconsapevole tra un paradigma e un altro (magari non condiviso esplicitamente con il paziente) e tutti i pazienti che diventano difficili, o per meglio dire, si perde la capacità di discriminare gli uni dagli altri.

Questo rischio ci pare concreto a prescindere dalla prospettiva di riferimento: può trasformare la relazione terapeutica in un costrutto vago e astratto, può trasformare l’applicazione di tecniche cognitive in un esercizio sommario e non aderente. Di quest’ultimo aspetto parleremo in un successivo articolo.

In ogni caso, rimaniamo consapevoli che trauma e relazione sono cose diverse. Infatti, a ben vedere, ci pare che negli ultimi tempi la psicotraumatologia stia ottenendo risultati significativi nell’intervento su sintomi associati a trauma, percorrendo una terza strada (Sensorimotor, EMDR) che prevede il recupero di interventi molto strutturati e che però non si fonda sulla forza curativa della relazione terapeutica o sulla gestione consapevole delle funzioni cognitive.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli, Giovanni Maria Ruggiero

 


Leggi il resto della discussione:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017

Relazione terapeutica vignetta

Una tecnica optogenetica in grado di modificare il comportamento animale

La ricerca mostra la possibilità di utilizzare una tecnica optogenetica per la selezione di cellule target nel cervello adulto in un modello animale.

 

I ricercatori di UW Medicine hanno sviluppato una tecnica per l’inserimento di un gene in specifiche cellule target utilizzato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e modificare i comportamenti in un modello animale. Il metodo ha consentito agli scienziati di capire meglio quali ruoli, determinati tipi di cellule, giocano nel complesso insieme dei circuiti neuronali. La prospettiva futura dei ricercatori è quella di utilizzare tale approccio per sviluppare trattamenti per i disturbi come l’epilessia, che potrebbero divenire curabili mediante l’attivazione di un piccolo gruppo di cellule.

I lavori recenti mostrano che l’approccio può essere usato per alterare la funzione dei circuiti cerebrali e per modificare il comportamento.

Gregory Horwitz, professore di fisiologia e biofisica presso l’Università di Washington School of Medicine di Seattle, ha guidato il team di ricerca. Horwitz afferma che il cervello è costituito da una grande varietà di cellule che svolgono funzioni diverse e sostiene che una delle grandi sfide per le neuroscienze è trovare le giuste modalità per studiare la funzione di specifici tipi di cellule target senza influenzare la funzione di altri tipi di cellule vicine. Lo studio del professore dimostra che tramite questa tecnica optogenetica è possibile selezionare cellule target cerebrali capaci di influenzare il comportamento quasi nell’immediato.

Horowitz e i suoi colleghi del Washington National Primate Research Center di Seattle hanno inserito un gene nelle cellule del cervelletto, coinvolto nell’apprendimento e nel controllo motorio, nel linguaggio, nell’attenzione e in alcune funzioni emotive, come le risposte alla paura o al piacere. Ma la funzione primaria del cervelletto è controllare i movimenti motori e se il suo funzionamento viene compromesso generalmente si va incontro alla perdita di coordinazione. Recenti studi suggeriscono che il cervelletto può essere importante anche nell’apprendimento ed essere probabilmente coinvolto in condizioni come l’autismo e la schizofrenia.

Le cellule selezionate dagli scienziati per lo studio sono chiamate cellule Purkinje. Queste cellule, a cui è stato dato il nome del loro scopritore, l’anatomista ceco Jan Evangelista Purkinje, sono alcuni tra i neuroni più grandi del cervello umano e dotati di un intricato complesso di arborizzazioni dendritiche; sono in grado di elaborare segnali provenienti da centinaia di migliaia di altre cellule cerebrali. La loro caratteristica è quella di essere neuroni inibitori, capaci di regolare i movimenti complessi e coordinati, impedendo l’attuazione di movimenti troppo bruschi.

Il gene inserito, chiamato canalrodopsina-2 (ChR2), codifica per una proteina sensibile alla luce che si inserisce nella membrana della cellula cerebrale. Quando viene esposto alla luce, permette agli ioni – entità molecolari elettricamente cariche – di passare attraverso la membrana. Ciò permette alla cellula cerebrale di attivarsi.

La tecnica optogenetica è comunemente usata per studiare la funzionalità cerebrale nei topi. Ma in questo studio il gene deve essere introdotto nella cellula embrionale del topo. Horwitz afferma:

Questo approccio transgenico si è rivelato prezioso nello studio del cervello. Se deve essere usata per curare la malattia, dobbiamo trovare un modo per introdurre il gene in una fase più tardiva della vita, quando si presentano la maggior parte dei disturbi neurologici.

La sfida per il suo team di ricerca era di cercare di capire come introdurre ChR2 in un tipo specifico di cellule in un animale adulto. Per ottenere questo risultato, hanno utilizzato un virus modificato che trasporta il gene per ChR2 insieme ad un promotore – regione di DNA costituita da specifiche sequenze dette consenso, alla quale si lega la RNA polimerasi per iniziare la trascrizione di un gene, o di più geni segmento.

Il promotore stimola la cellula ad esprimere il gene e a produrre la proteina di membrana ChR2. Per assicurarsi che il gene fosse espresso solo dalle cellule Purkinje, i ricercatori hanno utilizzato un promotore fortemente attivo in tali cellule, chiamate L7 / Pcp2 – proteina 2 delle cellule Purkinje.

Nel loro lavoro, i ricercatori hanno riferito che, iniettando il virus modificato in una piccola area del cervelletto delle scimmie macaco Rhesus, l’espressione selettiva di ChR2 veniva a verificarsi esclusivamente nelle cellule Purkinje. I ricercatori hanno poi dimostrato che esponendo le cellule trattate alla luce, attraverso una fibra ottica, erano in grado di stimolare le cellule ad attivarsi a velocità differente, influenzando anche il controllo motorio degli animali.

Tali risultati dimostrano l’utilità del vettore virale L7-ChR2 nel rivelare i contributi delle cellule Purkinje nel funzionamento del circuito cerebrale e nel comportamento, dimostrando la fattibilità delle manipolazioni genetiche, su un tipo specifico di cellula target, nei primati.

Con questa scoperta, il prossimo obiettivo dei ricercatori sarà quello di utilizzare diversi promotori per indirizzare altri tipi di cellule coinvolte in differenti comportamenti.

Metacognizione e cambiamento terapeutico nel disturbo borderline di personalità

Dopo vari studi di processo che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Abbiamo così condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline.

 

A partire dalle riflessioni di Semerari e colleghi (1999) la metacognizione, ovvero la capacità di riconoscere i propri stati mentali, quelli degli altri, rifletterci su e regolarli, è stato considerata un possibile predittore di cambiamento.

Da un lato pazienti con migliore metacognizione avrebbero dovuto rispondere meglio alla psicoterapia, dall’altro sarebbe stato necessario aggiustare l’azione terapeutica al livello metacognitivo laddove esso fosse stato carente.

La metacognizione in pazienti Borderline

Dopo vari studi di processo, sia pure in assenza di misure formalizzate di outcome (Carcione et al., 2011; Dimaggio et al., 2009; Semerari et al., 2003; 2005) che hanno mostrato come la metacognizione possa aumentare in una terapia di successo, era necessario testare l’ipotesi se la metacognizione predicesse il cambiamento. Con i colleghi di Losanna, abbiamo condotto uno studio pilota su 10 pazienti Borderline sottoposti ad un trial clinico randomizzato di Good Psychiatric Management (Gunderson & Links). Abbiamo utilizzato la SVAM-R (Carcione et al., 2010) per valutare la metacognizione nella prima e nella penultima delle dieci sedute di cui era composto il trattamento.

Il primo dato è che i pazienti avevano livelli estremamente bassi di metacognizione, quasi a livelli psicotici. Si trattava di pazienti estremamente compromessi, molti dei quali senza lavoro, con situazioni familiare compromesse e spesso in comorbilità con abuso di sostanze. Il secondo dato importante è che il miglioramento nella metacognizione è stato minimo, solo riguardante le abilità di Mastery (capacità di regolazione basata sulla conoscenza mentalistica) di tipo più semplice.

Questo fa pensare che il cambiamento terapeutico non avvenga in tutti i trattamenti nello stesso modo e che trattamenti che non mirano a migliorare le capacità metacognitive oppure promuovono il cambiamento per altre vie, cosa che però naturalmente non si può concludere da questo studio, sono meno efficaci. Riguardo alla capacità di predire il trattamento, solo la capacità di capire la mente degli altri è stata trovata collegata al miglioramento terapeutico. Chi aveva migliore lettura della mente andava incontro a un livello di cambiamento leggermente superiore.

Va detto che sia per quanto riguarda il cambiamento metacognitivo minimo osservato, sia per quanto riguarda la capacità della sola lettura della mente degli altri di predire il cambiamento, che si tratta di un protocollo di sole 10 sedute. Rimane possibile, e ritengo probabile, che in trattamenti di più lunga durata si osservi a maggiore cambiamento nella metacognizione e che l’impatto iniziale delle carenze metacognitive abbia più effetto. È ancora più probabile, e in linea con gli studi che hanno utilizzato misure del concetto simile a quello di metacognizione, ovvero la funzione riflessiva, che terapie volte a migliorare la comprensione e regolazione degli stati mentali, siano più efficaci in questo dominio.

Infezione da HIV: effetti psicologici e psicopatologie associate

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. 

Anna Greppi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Infezione HIV e AIDS: uno sguardo al fenomeno

Il virus dell’immunodeficienza umana HIV (HIV, sigla dell’inglese Human Immunodeficiency Virus) è l’agente responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita, AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome).

È un retrovirus del genere lentivirus, che da origine a infezioni croniche, che sono scarsamente sensibili alla risposta immunitaria ed evolvono lentamente e progressivamente. Se non trattate, possono avere un esito fatale. In base alle conoscenze attuali, l’ HIV è suddiviso in due ceppi: HIV-1 e HIV-2. Il primo dei due è prevalentemente localizzato in Europa, America e Africa centrale; HIV-2, invece, si trova per lo più in Africa occidentale e Asia e determina una sindrome clinicamente più moderata rispetto al ceppo precedente.

Nel 2012 si stima che circa 35,3 (32,2-38,8) milioni di persone nel mondo vivono con l’ infezione da HIV, numero che risulta essere in costante crescita. Sono calate del 33% le nuove infezioni da HIV rispetto al 2001 – da 3,4 milioni di persone a 2,3 (1,9-2,7) milioni circa-. Per quanto riguarda i bambini, negli ultimi 11 anni le infezioni sono calate del 53% (sono 260mila nel 2012). Si è riscontrata anche una diminuzione del 30% i decessi collegati all’ AIDS rispetto al picco del 2005 – sono 1,6 (1,4-1,9) milioni nel 2012 (Global Report 2013 del Joint United Nations Programme on HIV/AIDS UNAIDS,ONU).

Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 2012 risultano esserci circa 94.146 persone affette in Italia da HIV o AIDS, di cui il 70,1% sono maschi e l’84,3% sono di cittadinanza italiana. La modalità di trasmissione più frequente è quella eterosessuale nella percentuale del 37,2%, i Men who have Sex with Men (MSM – uomini che fanno sesso con gli uomini) sono il 27,7%, mentre i consumatori di sostanze per via iniettiva (INU) sono il 28,5% (Raimondi et al., 2013)

Con l’introduzione, nel 1996, in Italia, delle nuove terapie antiretrovirali (HAART- Highly Active Antiretoviral Therapy) è aumentata la sopravvivenza delle persone che vivono con l’ infezione da HIV ed è diminuito il numero dei decessi correlati all’ AIDS, trasformando così l’ infezione da HIV in una malattia cronica.

Il presente articolo si propone di evidenziare gli effetti psicologici e le possibili psicopatologie correlate all’ infezione da HIV, passando in rassegna alcuni studi in questo ambito.

Patologie psichiatriche associate a infezione da HIV

Nei pazienti sieropositivi si osservano diverse patologie psichiatriche, suddivisibili in patologie secondarie all’ infezione da HIV e all’ingresso in AIDS conclamato e patologie più generiche che possono colpire tutti quanti soffrono di malattie croniche. Al primo gruppo appartengono mania secondaria, psicosi, delirium e demenza complex. Al secondo reazione acuta da stress, disturbo dell’adattamento e depressione maggiore.

Psicopatologie secondarie all’infezione da HIV

La mania secondaria si presenta con una prevalenza del 1,2% nei sieropositivi e del 4,8% nei soggetti con AIDS. E’ un disturbo psichiatrico che segue ad alterazioni organiche o assunzioni di farmaci, che per essere definito tale deve perdurare per almeno una settimana ed è caratterizzato per la presenza di umore elevato o irritabilità e da almeno due dei seguenti sintomi: iperattività, logorrea, grandiosità, insonnia, distraibilità e alterato giudizio.

Nel paziente HIV possono svilupparsi psicosi funzionali, considerate reazioni a infezioni da HIV, collegate all’azione diretta del virus a livello del SNC (diminuite in era HAART). Per ultimo si può manifestare il Delirium e la Demenza Complex, complicazione tardive della malattia.

Il trattamento d’ elezione per questo tipo di patologie è quello farmacologico, spesso complementare al trattamento dell’intero quadro sintomatologico. Il trattamento psicologico e psicoterapico subentra in questo caso con la funzione di gestione dell’intera malattia.

Patologie generiche tipiche delle malattie gravi e croniche

La malattia cronica viene spesso vissuta come un’esperienza che “esplode” dentro, come una realtà che opprime e fa sentire impotenti. Nascono nell’individuo degli interrogativi nuovi relativi al significato dell’esistenza e a ciò che ha guidato fino a quel momento la vita personale e relazionale del paziente.

In concomitanza l’individuo, divenuto “paziente”, sperimenta l’impatto con le cure. La persona malata inizia quindi a vivere sospesa tra un tempo presente, vissuto come un “non tempo”, e padrone assoluto del suo esistere, e un tempo passato carico di obiettivi, a volte di progetti che spesso non è stato possibile portare a compimento (Borgna, 2000).

Il paziente si trova a fare inevitabilmente i conti con il sentimento del limite dei suoi progetti di vita e ad interrogarsi sulla necessità dei progetti passati, in un confronto critico sui valori che hanno informato la sua esistenza fino a quel momento.

La malattia, dunque, rappresenta un tipo particolare di evento di vita stressante che può mettere seriamente alla prova le capacità di adattamento del singolo individuo.

La reazione adattativa ad una malattia richiede sempre al paziente un lungo lavoro emotivo e fisico, intenso e difficile, e tiene conto di vari elementi quali: tipo e stadio della malattia, ospedalizzazione o altro tipo di assistenza, consapevolezza della malattia, struttura della personalità, meccanismi di difesa e loro livello evolutivo e funzionale.

Per quanto riguarda la sieropositività, all’atto della comunicazione della diagnosi, il paziente può  presentare diverse reazioni psicologiche (Spizzichino, 2008).

Lo shock per la diagnosi ricevuta, si manifesta con agitazione, collera, pensieri ed espressioni di incredulità e pianto. Il paziente può entrate in uno stato confusivo che non aiuta in un momento in cui è necessaria concentrazione per prendere decisioni importanti rispetto alla propria salute. Confusione che tende ad abbassarsi in presenza di una buona comunicazione alla diagnosi e l’offerta ed inizio di un buon percorso psicologico.

Si possono riscontrare rabbia e frustrazione relative al fatto di essersi infettato, per le nuove restrizioni nello stile di vita, per doversi sottoporre sempre alle terapie, per l’incertezza sul futuro, per l’ostilità, il pregiudizio degli altri.

Può manifestarsi il senso di colpa nell’interpretare l’accaduto come una punizione, per i comportamenti a rischio avuti, per la paura di poter infettare gli altri.

E’ spesso presente l’ansia e la paura riguardo alla prognosi incerta e il decorso severo, per gli effetti collaterali legati alla malattia, per la paura del rifiuto sessuale, per la perdita della capacità cognitive, fisiche e lavorative.

Si può presentare poi depressione legata all’idea di dover fare i conti con una malattia cronica, l’impossibilità di guarigione, con i limiti imposti dalla malattia, con un possibile rifiuto sociale La diminuzione dell’autostima, perdita dell’identità e di sicurezza sono altre reazioni spesso riscontrabili all’atto della comunicazione della diagnosi.

Infine, raramente, si possono manifestare disturbi ossessivo compulsivi nella forma di pensieri continui e disturbanti relativi alla morte, il fallimento, la ricerca di nuovi trattamenti, terapisti e medici, controlli ripetuti per sintomi sempre nuovi (Spizzichino, 2008).

Alcune di queste reazioni possono essere transitorie, altre più durature e potranno andare a caratterizzare l’intera vita con il virus. E’ possibile che la vulnerabilità sia legata anche a precedenti esperienze del paziente riguardo a malattie e traumi. Altre variabili che possono determinare il tipo di reazione sono la personalità, il temperamento, la flessibilità, le risorse sociali, famigliari e occupazionali, il sostegno disponibile.

La reazione all’ infezione da HIV e il processo di accettazione

Sono stati individuati alcuni stili di reazione all’ infezione da HIV, ed è stato riscontrato che lo stile adottato è predittivo dell’eventuale successivo benessere psicologico e fisico (Spizzicchino, 2008).

I pazienti che utilizzano lo stile evitante hanno livelli in generale più elevati di preoccupazione riguardo alla salute, ai problemi esistenziali, verso gli amici e verso se stessi. Manifestano notevole depressione, autostima bassa e difficilmente ricevono del sostegno psicologico. I pazienti invece che adottano uno stile attivo-cognitivo costruiscono delle difese mentali e fanno affidamento sul pensiero cognitivo e spesso sviluppano pensieri ossessivi e ruminazione.

Infine gli individui che sono capaci di sviluppare uno stile attivo-comportamentale hanno un migliore tono dell’umore, un minor numero di preoccupazioni, una più alta qualità della vita percepita e livelli di autostima più alta.

L’evoluzione psicologica del paziente con infezione da HIV dovrebbe terminare con la fase di accettazione e adattamento. Tale evoluzione può essere spontanea ma è certamente facilitata da più variabili individuali e ambientali, quali le caratteristiche di personalità del paziente, le caratteristiche socioculturali del paziente e la presenza di un adeguato supporto sociale e in particolare la presenza di persone affettivamente significative

Questa fase è caratterizzata da un abbassamento del livello di tensione emotiva che consente la modificazione dei comportamenti a rischio e alla corretta applicazione alle norme profilattiche. Non è una condizione stabile e dipende dal decorso della malattia.

L’avvento degli antiretrovirali ha apportato delle grandi trasformazioni nella vita delle persone sieropositive. Grazie ai benefici della terapia farmacologica alcune delle persone abituate a convivere con l’incertezza del futuro e con la precarietà della salute e della vita stessa, persone che cercavano si prepararsi alla morte, si trovano a doversi confrontare con i problemi e le situazioni, anche positive, che questa pone. Il trattamento farmacologico nel momento in cui si è dimostrato efficace nel prolungare la sopravvivenza e nel migliorare la qualità della vita ha dato la possibilità di iniziare una seconda vita e ha dato luogo in molti pazienti della sindrome di Lazzaro.

E’ stato dimostrato attraverso l’uso della metodologia dei focus group che la prospettiva delle terapie HAART rende necessario rinegoziare le speranze e le aspettative riguardo al futuro, i ruoli e le identità sociali, le relazioni interpersonali e la qualità della vita. Emergono soprattutto tematiche relative ai rapporti sentimentali (possibilità di diventare genitori, avere l’aspettativa di rimanere abbastanza in vita per poter crescere un figlio) e l’assunzione di nuovi ruoli sociali.

Tutti questi fattori possono rappresentare un motivo di stress o di disturbi mentali (Brashers et al., 1999). Studi successivi sull’impatto psicosociale dell’HAART hanno evidenziato il ruolo centrale della speranza del futuro (Fernandez, 2001) anche se permane nelle interviste incertezza ed ansia circa i benefici sulla salute e quindi sul senso della speranza. In un altro lavoro (Rabkin et al., 2000) si è osservata un’evoluzione positiva dello stato psicologico nei termini di tono dell’umore, speranze e soddisfazione in chi non mostrava un miglioramento con la terapia. Gli autori ipotizzano che la prospettiva di seconda vita porta con sé una serie di difficoltà potenzialmente stressanti per chi vede confermato il miglioramento fisico anche dai numeri (conta dei CD4) rispetto a chi ritiene di avere ancora poco tempo da vivere poiché i parametri continuano a essere poco confortanti.

Non è stata verifica una correlazione diretta tra salute mentale e infezione HIV. Ci sono delle persone che nonostante siano affette da HIV conservano la speranza, sperimentano un maggiore senso di benessere, partecipano più attivamente alla gestione della malattia e si dimostrano in grado di occuparsi della propria salute (Carson et al., 1990). Una ricerca che prevedeva una serie di interviste a donne sieropositive (Siegel & Schirimshaw, 2000) ha evidenziato che , pur riconoscendo le conseguenze negative dell’infezione, molte di loro riferivano che la malattia aveva cambiato le loro vite in modo positivo e riportavano un generale miglioramento della loro vita che si è concretizza in un aumento del numero di relazioni instaurate e coltivate, una maggiore forza percepita, un più alto senso di responsabilità e più capacità di entrare in relazione con altri.

La valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV

E’ centrale attuare un’attenta valutazione psicologica delle persone con infezione da HIV anche per evitare diagnosi di patologie non presenti, etichettature scorrette, interventi non necessari o risposte standardizzate.

La difficoltà consiste nel fatto che dei sintomi somatici correlati alla presenza del virus e degli effetti collaterali delle terapie richiamano ai disturbi psicologici veri e propri. Le reazioni depressive in questa popolazione si caratterizzano spesso come un senso di disperazione riguardo al futuro o una percezione di mancanza di controllo sul corso della propria vita. I disturbi somatici correlati ad esse (anoressia, insonnia, depressione, disturbi della memoria, sudorazione notturna) sono molto difficili da differenziare dalle manifestazione delle infezioni. Lo stesso si osserva nel caso dei disturbi d’ansia. Questa difficoltà diagnostica in alcuni casi ritarda i percorsi di presa in carico psicologica e psicoterapica.

Altro elemento da tenere in considerazione nella valutazione clinica, è il rischio suicidario. Le  motivazioni possono essere diverse a seconda della fase in cui si trova il paziente. In uno studio con poco meno di 3.000 sieropositivi (Carrico ed al., 2007) si è riscontrato che il 19% di essi ha ideazioni suicidarie nella settimana precedente.

I disturbi più frequenti in pazienti con HIV

I disturbi più frequentemente diagnosticati in persone con infezione da HIV sono i seguenti:

  • Il disturbo acuto da stress può presentarsi in qualunque fase della malattia anche se è più frequente immediatamente dopo la diagnosi o in concomitanza con degli aggravamenti. Il quadro sintomatologico può consistere in rabbia, senso di colpa, paura, diniego e disperazione. Data la variabilità dei sintomi non è possibile reperire dati sulla prevalenza di questo disturbo.
  • Il disturbo dell’adattamento è caratterizzato da ansia, insonnia e depressione e di solito ha un decorso benigno. L’incidenza si attesta intorno al 4-10 % (Lipsitz et al. 1994) e nelle popolazione sieropositiva che si rivolge ai servizi di salute mentale è di circa il 30%.
  • Per quanto riguarda i disturbi depressivi i dati sulle prevalenze sono divergenti in quanto variano tra il 30% e il 61% (Rosenberger et al., 1993; Dew et al., 1997). Nell’ambito dei disturbi di ansia si riscontrano episodi di ansia della durata di un mese o la prevalenza è molto è bassa  se si prendono in considerazione strettamente i criteri del DSM-IV-TR e potrebbe dar conto della disparità dei diversi risultati dei vari studi sul tema (4-73%) (Cohen et al., 2002). Abuso di sostante e alcol sono presenti nella popolazione sieropositiva rispettivamente nella percentuale del 22%-64% e nel 29%-60% e si presentano tendenzialmente in comorbidità con altri disturbi. La variabilità dei tassi di prevalenza dei diversi disturbi può essere messa in relazione con l’eterogeneità metodologica degli studi presi in considerazione ( Spizzichino, 2008).

Secondo la letteratura internazionale le donne sieropositive risultano essere più a rischio per quanto riguarda i disturbi psichiatrici rispetto agli uomini. E’ stato dimostrato che le donne positive presentano più spesso degli uomini ansia, depressione, eccessiva sensibilità, disturbi paranoidi e somatizzazione. E’ stato sottolineato inoltre che  le donne si rivolgono ai servizi sociali per la salute mentale meno degli uomini (Havens et al., 1996).

Sono state fatte varie ipotesi su questa distribuzione. Uno studio (Faithfull, 1997) ha riscontrato tre fattori ulteriormente stressanti per le madri con infezione da HIV quali la difficoltà di rivelare la propria sieropositività ai figli, la paura di infettarli e la possibilità che la malattia infici la capacità di prendersene cura e di crescerli.

In letteratura si riscontra la presenza di almeno un disturbo psicologico nella vita di una persona con HIV in percentuali che vanno dal 38% al 73% di tutti i pazienti che sono stati studiati (Gallego et al, 2000). L’esordio della psicopatologia nella maggior parte dei casi è antecedente alla sieroconversione (Rosenberger et al., 1993). Sono stati identificati dei fattori associati allo sviluppo dei disturbi mentali nelle persone positive quali il supporto sociale scarso, la storia psichiatrica precedente, l’uso di meccanismi quali l’evitamento e il diniego, una rapida progressione dell’infezione ed esperienza di lutto per AIDS.

Uno studio in quattro città degli Stati Uniti, su un campione di 1000 donne HIV, ha messo in luce una relazione tra la sintomatologia depressiva e l’esperienza di sintomi fisici dell’infezione e loro grado di intrusività percepita nella vita dei pazienti (Remien et al., 2006). Il benessere psicologico delle persone positive in terapia antiretrovirale dipende più che dalla situazione in sé da variabili cognitive e comportamentali, quali la soddisfazione riguardo al sostegno sociale, l’idea della punizione relativa alla malattia e il grado di integrazione della malattia nella propria vita e nella percezione di sé (Safren et al, 2002).

Molti lavori hanno analizzato l’associazione tra problemi di salute, strategie di coping e reazioni allo stress durante il decorso di malattie come il cancro, l’artrite reumatoide, l’infarto del miocardio e l’ infezione da HIV. Sono stati riscontrati risultati molto simili tra le diverse patologie. Generalmente le forme di coping evitante sono associate a maggiore stress mentre quelle focalizzate sulle emozioni sono a livelli minori di quest’ultimo. Una posizione attiva e l’attitudine a considerare nel modo più positivo possibile la situazione hanno delle influenze benefiche sul tono dell’umore rispetto alla fuga e all’evitamento.

Nello specifico dell’infezione dell’HIV si è potuta osservare una correlazione positiva tra la percezione di un buono stato di salute e tre stili di coping: il focalizzarsi su altro, il pensiero positivo e la gestione della malattia (Phillips et al. 2001). E’ stato verificato che strategie di coping maladattive da parte di persone sieropositive diminuiscono notevolmente la qualità della vita  relativamente al funzionamento cognitivo, salute mentale e stress legato al lavoro.

In conclusione, dalla rassegna presentata, emerge come la sieropositività sia ancora un problema largamente diffuso, sia nel mondo che sul territorio italiano e di come la scoperta dell’infezione vada ad incidere non solo sulla salute fisica ma anche su quella mentale. Occorre quindi, da parte di tutti gli operatori, che si occupano a vario titolo delle persone sieropositive o malate di AIDS, porre attenzione non solo al livello generale di salute ma anche al benessere psicologico, messo in pericolo dalle conseguenze di una malattia cronica ed a oggi incurabile. Ciò per costruire e implementare percorsi di accompagnamento psicologico e psicoterapico che consentano a questi pazienti di raggiungere il miglior livello di benessere possibile e che si integrino ai percorsi tradizionali di cura previsti per chi soffre di questa patologia.

Perché l’isolamento sociale aumenta il rischio di malattia?

L’ isolamento sociale comporta conseguenze negative a livello di salute, non solo negli esseri umani ma nella maggior parte delle specie animali. Tra gli effetti iatrogeni si riscontrano l’abbassamento delle difese immunitarie, il decremento della quantità e della qualità del sonno e un aumento sia del rischio di contrarre patologie che di mortalità.

 

L’isolamento sociale e gli effetti sulla salute

Proprio per tali motivi la società gerontologica americana ha definito l’ isolamento sociale un “killer silenzioso”, a fronte del quale sono stati ideati programmi per aiutare le persone, soprattutto anziane, a mantenere contatti con la propria comunità.

Questo fenomeno è in crescita negli anziani dei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, in cui circa la metà della popolazione sopra gli 85 anni vive da sola sperimentando la perdita di opportunità di socializzazione dovute a una minore mobilità.

Ricercatori della scuola Perelman di medicina presso l’università della Pennsylvania (Brown, Strus, & Naidoo, 2017) hanno trovato una possibile spiegazione della correlazione tra isolamento sociale e rischio di malattia. Lo studio di riferimento è stato effettuato su moscerini da frutta, Drosophila melanogaster, nel quale si riscontrava una correlazione tra isolamento sociale e perdita di sonno che comportava uno stress cellulare tale da attivare un meccanismo di difesa chiamato “unfolded protein response” (UPR). Quest’ultimo aiutava a proteggere le cellule dallo stress se attivato per brevi periodi, al contrario un’attivazione cronica determinava un’infiammazione cellulare. Sembra che tale meccanismo fosse collegato a problematiche relative all’età, per cui gli autori hanno ipotizzato che la combinazione di età elevata e isolamento sociale determinasse una doppia battuta d’arresto a livello cellulare e molecolare. Effettivamente in moscerini socialmente isolati i livelli di attivazione dei marker biologici del UPR erano più alti rispetto a quelli di moscerini della stessa età ma integrati in un gruppo.

Tra i marker dell’attivazione del UPR era presente la proteina BIP, un chaperone che assicurava una corretta piegatura delle proteine ​​all’interno delle cellule. Infatti le proteine, dopo essere state sintetizzate come semplici catene di amminoacidi, assumono una forma funzionale spesso complessa.

Questo processo si modificava quando le cellule erano sottoposte a stress, comportando una dannosa scomparsa di proteine ​​complesse.
Dunque uno stress cronico può ostacolare la normale funzionalità cellulare fino alla morte delle cellule stesse.

Ma perché l’ isolamento sociale funge da attivatore del meccanismo UPR? Studi precedenti hanno mostrato due risultati: la mancanza di sonno è correlata all’attivazione del UPR e l’ isolamento sociale induce la perdita di sonno. Di conseguenza, l’ isolamento agisce sul UPR.

Gli autori stanno continuando ad analizzare le connessioni tra i fattori età, sonno, UPR e il loro impatto sul rischio di ammalarsi. Anche se l’età di per sè sembra attivare l’UPR, in realtà questo potrebbe essere dovuto al fatto che all’aumentare dell’età peggiora la qualità del sonno, confermando quanto riscontrato nelle ricerche sopra citate.

Cold War Freud: Psychoanalysis in an Age of Catastrophes (2016) di Dagmar Herzog – Recensione del libro

Dagmar Herzog segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino.

 

Come i cambiamenti politici hanno condizionato la psicoanalisi

Probabilmente poche discipline sono state condizionate dagli eventi politici più della psicoanalisi; perlomeno nella loro espansione sul territorio mondiale. La psicoanalisi era fino al 1906 una curiosità per pochi medici ebrei austriaci. Nel 1909 era abbastanza nota per meritare a Freud (e Jung) l’invito per un ciclo di conferenze negli USA.

Dopo il 1918 aveva cominciato ad affermarsi in modo omogeneo, soprattutto in Europa, spinta anche dal successo ottenuto nel curare le nevrosi di guerra. Questa omogeneità venne meno nei decenni successivi, proprio a causa di svolte decisive nella storia politica europea: l’affermazione del nazismo in Germania (e successivamente l’Anschluss, cioè l’annessione dell’Austria al territorio tedesco) da una parte; l’avvento dello stalinismo in URSS dall’altra.

L’Istituto Psicoanalitico di Berlino era diventato il principale centro mondiale di ricerca clinica e formazione degli analisti quando venne subitaneamente chiuso e sostituito dal cosiddetto Istituto Goering. Il cugino del comandante della Luftwaffe era infatti uno psichiatra e a sua volta divenne il referente amministrativo della psicoterapia tedesca sotto il nazismo. La psicoanalisi, teorizzata da un ebreo e praticata soprattutto da ebrei, veniva considerata una “scienza degenerata” e venne di fatto sradicata dal territorio del Reich.

Pressoché tutti gli analisti tedeschi, se volevano salvare la propria identità professionale (e la loro stessa vita, in realtà) furono costretti a emigrare tra il 1933 e il 1934: la stessa sorte toccò ai colleghi austriaci, compreso Freud, nel 1938. In Unione Sovietica, la psicoanalisi aveva inizialmente attirato l’attenzione di un certo numero di validi studiosi, tra i quali il giovane Alexander Lurija. Gruppi di analisti avevano iniziato un’attività sia clinica che di confronto teorico in diverse città, tra le quali Mosca e S. Pietroburgo-Leningrado. Anche Trotzkij riteneva la psicoanalisi compatibile con il marxismo. La sua opinione, del resto, era condivisa anche da diversi marxisti dell’Europa occidentale, tra i quali Wilhelm Reich e tutto il gruppo della Scuola di Francoforte, guidata da Max Horkheimer, Theodor Adorno, Erich Fromm (e in seguito Herbert Marcuse).

Nel corso degli anni trenta, tuttavia, lo stalinismo mise sostanzialmente all’indice la psicoanalisi, considerandola una disciplina borghese. Fu così che Lurija, invece di divenire un analista, finì per passare alla storia come uno dei padri della neuropsicologia.

Dagmar Herzog: la psicoanalisi durante la Guerra Fredda

Dagmar Herzog (2016) segue le conseguenze della migrazione degli analisti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare nell’ottica di come il clima della Guerra Fredda influenzi la ricezione di Freud, nel periodo che vede la massima affermazione planetaria della psicoanalisi e, successivamente, l’inizio del suo declino. Si potrebbe peraltro osservare che le conseguenze dello sradicamento degli psicoanalisti più importanti sono già visibili da prima.

Nel Regno Unito si assiste alla prima svolta politica fondamentale nel movimento psicoanalitico, a seguito del trasferimento di Anna e Sigmund Freud a Londra nel 1938. La polemica tra Anna Freud e Melanie Klein aveva indotto quest’ultima a trasferirsi in Inghilterra già anni prima. Melanie Klein sosteneva la possibilità e l’opportunità di una vera e propria analisi infantile, mentre la figlia di Freud riteneva i procedimenti kleiniani basati sul gioco una sorta di analisi selvaggia. Anna Freud propugnava per i bambini una sorta di educazione ispirata dal pensiero psicoanalitico. La presenza delle due rivali sullo stesso territorio dette origine alla contrapposizione di due gruppi  in forte frizione teorica. Ne nacquero le cosiddette Discussioni controverse, in origine destinate a stabilire chi dovesse assumere la leadership teorica in seno alla British Psychoanalytic Association (King & Steiner, 1991).

Il risultato fu del tutto inaspettato: qualcosa come il “Cuius regio eius religio” della Guerra dei Trent’anni. Nel 1600, le Guerre di Religione si erano concluse senza un vero vincitore e con un compromesso: ogni nazione europea avrebbe osservato la religione del proprio re. Allo stesso modo, nella società inglese e poi nell’International Psychoanalytic Association, non vi sarebbe più stata una teoria unica di riferimento, ma ogni gruppo avrebbe potuto legittimamente espandersi indipendentemente, formando i propri analisti alla luce delle proprie idee. Di fatto i gruppi britannici furono subito tre, perché oltre agli annafreudiani e ai kleiniani si costituì un gruppo di Indipendenti (tra i quali, peraltro, avrebbero militato i più importanti analisti britannici: Winnicott, Fairbairn, Guntrip e Bowlby).

In USA, l’adattamento della psicoanalisi a un ambiente culturale profondamente diverso da quello europeo produsse delle conseguenze profonde. Da una parte i cosiddetti neo-freudiani avevano iniziato un processo di relativizzazione del pensiero di Freud. Per esempio, Erich Fromm (1941) aveva teorizzato il concetto di “carattere sociale”, cioè il principio per cui la personalità può essere fortemente influenzata dalle condizioni storico-sociali nelle quali una persona vive. Karen Horney (1937) aveva sottolineato come le personalità nevrotiche americane presentassero caratteristiche e problemi molto diversi da quelli riscontrati tra i tedeschi. Dall’altra parte anche il mainstream della psicoanalisi stava apportando delle importanti modifiche all’impostazione originaria di Freud.

Heinz Hartmann (1927; 1939), fondatore della Psicologia dell’Io, fin dagli anni viennesi aveva cominciato a porre le basi di una teoria psicoanalitica meno incentrata sulla sessualità e più sull’adattamento. Il radicarsi della Psicologia dell’Io negli USA accentuò sicuramente questa tendenza. Hartmann e la sua scuola si impegnarono nel tentativo di far affermare la teoria freudiana nell’ambiente accademico, cercando di sviluppare la psicoanalisi come una psicologia generale (il che significava, all’inverso, limitare il suo carattere di teoria psicopatologica, volta a evidenziare i lati perversi e nevrotici di ogni essere umano).

Tuttavia, l’affermazione su larga scala della psicoanalisi negli USA passò anche attraverso altri canali, ampiamente analizzati da Dagmar Herzog: uno dei più importanti fu costituito dalla capacità di far accettare la psicoanalisi come una teoria compatibile con la religione cristiana. Vale la pena di segnalare un fatto abbastanza paradossale. Dagmar Herzog segnala come i due epocali discorsi tenuti da Pio XII tra il 1952 e il 1953 sul rapporto tra cristianesimo e psicoterapia furono accolti in America come un’apertura nei confronti della psicoanalisi e probabilmente contribuirono alla sua diffusione. La stessa cosa, però, non avvenne in Europa, e in Italia in particolare, dove prevalse l’interpretazione di Agostino Gemelli (1953), che vide negli stessi discorsi una netta condanna sia di Freud che di Jung. Le posizioni di Gemelli sostanzialmente impedirono ai cattolici italiani di accostarsi alla psicoanalisi fino agli anni sessanta.

Un aspetto abbastanza singolare dell’evoluzione della psicoanalisi durante il periodo della Guerra Fredda e descritto da Dagmar Herzog è l’atteggiamento paradossalmente conservatore, se non reazionario, riguardo al comportamento sessuale. Un tale atteggiamento spinse gli psicoanalisti americani a criticare severamente sia i contributi di Kinsey (et al., 1948; 1953) che quelli di Masters e Johnson (1966), che ciò nonostante contribuirono in maniera fondamentale alla liberazione sessuale. Una pagina particolarmente oscura è stata scritta dagli psicoanalisti americani con la loro resistenza a considerare l’omosessualità come normale (e molte delle resistenze a derubricarla dalle perversioni nel Manuale Diagnostico-Statistico della Malattie Mentali furono dovute agli analisti presenti nella task force del DSM). Il che sembra abbastanza strano, a posteriori, considerando la concezione dell’essere umano come fondamentalmente bisessuale propugnata da Freud.

Forse, però, la storia più singolare raccontata dal libro di Dagmar Herzog è legata a un imprevedibile legame tra i campi di concentramento nazisti e le Guerra del Vietnam. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, i sopravvissuti dei campi di concentramento incontrarono notevoli difficoltà a vedersi riconosciuto un risarcimento per i danni psicologici subiti. Ciò avvenne perché il fatto che la condizione di particolare difficoltà psicologica seguiva generalmente un periodo di apparente riadattamento alla vita sociale. I periti interpretavano questo iato come la prova di un mancato legame tra l’esperienza nei campi e la disperazione successiva. Fu solo quando i reduci dal Vietnam cominciarono a tornare che fu possibile osservare in vivo la dinamica di ciò che infine venne classificato come Disturbo da stress post-traumatico: un periodo, per così dire, di incubazione psicologica, tra evento traumatico e reazione, è caratteristico di questo tipo di disturbo.

La saggezza della lumaca: paranoia e complottismo

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La Lettura de Il Corriere della Sera del 4 giugno 2017

 

Cos’è la paranoia?” chiesi a un perverso discografico. “La paranoia è solo la realtà su una scala più sottile”, mi rispose Philo Gant in Strange Days. Il film mi insegnò un’altra massima: “Il punto non è se sei paranoico… il punto è se sei abbastanza paranoico”.

Diffidare, sospettare, immaginare trame malevole ai nostri danni. E poi leggere le azioni degli altri come segno di un’intenzione di sottometterci, umiliarci. Starci male, sentirsi come una zanzara spiaccicata e poi ribellarsi, contrattaccare se possibile. L’essenza della paranoia è questa. Nasce come un meccanismo protettivo utile, necessario: chi ci garantisce che il sorriso dello straniero che bussa alla porta sia reale e non un’infida maschera? Ma in presenza di una tendenza cronica a sentirsi vulnerabile, diventa un modo di vedere il mondo. Per una lumaca senza guscio il cielo è fatto di tacchi minacciosi. La distanza che separa diffidenza e paranoia è quanto ci percepiamo vulnerabili. Non stupisca che il più grande specialista di tutti i tempi sia stato Stalin. Il potere non lo ha mai reso sicuro, nota Leonardo Tondo in “Qualcuno ce l’ha con me”. Non sono i milioni di omicidi che ha commissionato per paura a colpirmi, ma che abbia preso il suicidio della seconda moglie come un’offesa personale, un’umiliazione pubblica.

Il paranoico soffre. Gli somiglia per diffidenza e attribuzione di cattive intenzioni il complottista, disegnato da Rob Brotherton in “Menti sospettose”, che però non sta male, piuttosto si compiace del suo smascherare trame oscure, contro le quali, naturalmente, può solo proclamare un supponente: “Non mi fanno fesso”. Le lobby dei vaccini, i Savi di Sion, il Nuovo Ordine Mondiale.

Mi concedo una personale forma di complottismo: sono convinto che un élite di plutocrati incompetenti decida le sorti del mondo seduta, una volta all’anno, a un ristorante di una spiaggia di Antigua durante una pantagruelica cena dei cretini.

 

Quei neuroni che aiutano a distinguere la realtà dall’immaginazione

I neuroni della corteccia prefrontale laterale, associati ad un funzionamento atipico nelle psicosi, sembrerebbero essere importanti anche per aiutare le persone a distinguere la realtà dall’ immaginazione così come dimostrato da un recente studio pubblicato nella rivista Nature Communications.

 

I ricercatori hanno dimostrato come il cervello codifichi le informazioni visive provenienti dalla realtà creando un match con le informazioni astratte conservate in memoria.

Il Dr. Julio Martinez-Trujillo principale professore e ricercatore alla University of Western Ontario’s Schulich School of Medicine & Dentistry riferisce quanto segue:

Ora puoi vedere la mia t-shirt, e anche se io mi dovessi spostare al di fuori del tuo campo visivo, fino a quando i tuoi occhi saranno aperti potrai continuare a vedere il colore della mia t-shirt con la mente.

Questo è possibile grazie alle rappresentazioni generate dalla working memory, o memoria di lavoro: si tratta di rappresentazioni immaginarie e non reali ma presenti nella mente.

Queste si oppongono alle rappresentazioni percettive che fotografano gli oggetti presenti nella realtà. L’obiettivo della ricerca è capire se esistono neuroni nel nostro cervello deputati alla distinzione tra ciò che è reale e ciò che fa parte della nostra immaginazione.

Per lo studio ai partecipanti è stato chiesto di svolgere due compiti:

  • Un primo compito in cui veniva richiesto di riportare la direzione del movimento di una nuvola formata da punti che appariva su uno schermo;
  • Un secondo compito in cui dovevano riportare la direzione della nuvola pochi secondi dopo che questa scompariva sulla base del ricordo mnestico dell’immagine.

I ricercatori hanno scoperto che i neuroni nella corteccia prefrontale laterale codificano le informazioni percepite e le informazioni memorizzate secondo combinazioni diverse e con intensità diversa.

In conclusione potremmo aspettarci che esistano neuroni che si attivano contemporaneamente sia per la percezione di un oggetto reale che per la sua memorizzazione; oppure che esistano neuroni deputati esclusivamente alla percezione e altri alla memorizzazione.

Neuroni che distinguono il reale dall’immaginario: implicazioni nel trattamento della schizofrenia

I ricercatori sottolineano che abbiamo neuroni specifici per la percezione, neuroni per la memoria e anche neuroni che lavorano contemporaneamente su entrambe le informazioni.

E’ stato dimostrato che la corteccia prefrontale laterale è disfunzionale in individui con schizofrenia, un grave disturbo mentale caratterizzato da sintomi quali allucinazioni e /o deliri. Tuttavia, fino ad ora i ricercatori non sono stati in grado di identificare la causa di questa disfunzione.

Utilizzando l’apprendimento computazionale secondo un approccio connessionista, il team di ricerca ha sviluppato un algoritmo per sistemi computerizzati che potrebbe essere in grado di leggere il modello dei neuroni che si attivano nella corteccia prefrontale per determinare in modo affidabile se un partecipante sta guardando una nuvola di punti in tempo reale o ricordando ciò che aveva visto prima.

Martinez-Trujillo spera che identificando i neuroni specifici responsabili della distinzione tra realtà e fantasia, si potrebbe essere più in grado di trattare disturbi come la schizofrenia che portano i pazienti a confondere ciò che è reale da ciò che non lo è.

Vorrei sostenere che la schizofrenia non è un disturbo neurochimico di tutto il cervello – ha detto Martinez-Trujillo – È solo un disturbo neurochimico in parti specifiche del cervello

 

L’uso della musica rap in terapia di gruppo con adolescenti aggressivi: la Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività.

Di Arianna Ferretti, Luca Pelusi – OPEN SCHOOL , Studi Cognitivi Modena

Introduzione: la musica rap e il mondo degli adolescenti

La terapia di gruppo con gli adolescenti continua ad essere un trattamento molto efficace che predispone i ragazzi all’acquisizione di strategie di problem-solving, alla socializzazione e all’acquisizione di nuove conoscenze in un contesto peer, quindi tra coetanei (DeCarlo,2001). La musica è stata utilizzata in svariati ambiti: per costruire le capacità di resilienza, per prevenire la delinquenza e la devianza giovanile (Dutton, 2000).

Tra tutti i generi musicali il rap è stato più volte scelto come strumento da utilizzare nei gruppi che usano la musica per interventi con adolescenti e giovani adulti. Si tratta di un genere che nasce in un clima urbano del South Bronx, un quartiere di New York intorno agli anni ’70. La popolarità di questa cultura cresce esponenzialmente e molti gruppi distinti da differenti etnie e da un livello socio-economico simile iniziano ad identificarsi con il suo messaggio di fondo, con lo stile e con l’intera cultura Hip-Hop. Inizia, così, ad essere definito come un vero è proprio movimento anticonformista capace di esprimersi attraverso uno strumento molto potente: l’arte.

La musica, il ballo, la moda, il linguaggio e le arti visive portano dentro di sé tutto il mondo valoriale, morale, espressivo, emotivo ed esperienziale appartenente al cuore di questo movimento (Rose, 1994). Il rapper e/o l’MC (Masters of Ceremonies) scandisce versi seguendo un beat, ovvero una specifica successione di note realizzata dal beatmaker attraverso vari metodi e strumentazioni che vengono suonate da un DJ.

Il rap e l’hip-hop sono diventati, pian piano, rilevanti per i terapeuti che utilizzano la musica come strumento di sostegno non solo per la crescente popolarità di questa cultura, ma anche perché il rap è definito come una forma sociale che dà voce alle diverse tipologie di alienazione culturale e politica (Rose, 1994). Alcuni studi che hanno approfondito la relazione tra musica rap e comportamento criminale hanno riscontrato che i testi rap vanno ad influenzare le emozioni ed i sentimenti delle persone senza, tuttavia, portare a condotte problematiche (Gardstrom, 1999). Hadley e Yancy sostengono che la musica rap rappresenti un importante veicolo in grado di mantenere la sanità mentale e che sia diventato un mezzo attraverso il quale i giovani abbiano la possibilità di riconoscersi, di condividere, di interpretare ed elaborare la propria vita (Handley e Yancy, 2011).

La Group Rap Therapy

La Group Rap Therapy (GRT) è una pratica di intervento creata da DeCarlo in America che utilizza la musica rap come strumento terapeutico per adolescenti residenti in contesti a rischio e caratterizzati da un elevato tasso di violenza e all’interno dei gruppi terapeutici penitenziari con giovani arrestati per aggressività (DeCarlo, 2013).

Il presupposto centrale della Group Rap Therapy è quello di usare la musica come strumento psicologico in grado di sfruttare la sua potenzialità di ridurre l’ansia e alleviare il senso di dolore e paura (Aluende e Ekewenu, 2009). Originariamente la Group Rap Therapy è stata progettata come trattamento di supporto per i carcerati giudicati colpevoli per aggressioni e omicidi con la finalità di sviluppare in loro consapevolezza e successivamente andare a lavorare sulla disfunzionalità dei pensieri connessi all’uso della violenza come unico strumento risolutore di conflitto.

Il terapeuta che conduce questi incontri necessita, pertanto, di quattro caratteristiche essenziali: affidabilità, interattività, competenze culturali e autorevolezza. E’ dunque importante creare un clima altamente interattivo in cui il terapeuta sia in grado di riconoscere il modo in cui la razza, l’etnia, il linguaggio, le credenze, i comportamenti, le emozioni ed altre variabili possano operare nella vita dei partecipanti in relazione al contesto di appartenenza. Altro elemento indispensabile è la fiducia che chi conduce il gruppo deve essere in grado di instaurare con e tra i membri del gruppo stesso. Inoltre, i partecipanti all’attività di Group Rap Therapy mostrano la necessità di percepire l’ambiente di lavoro come abbastanza sicuro così da poter esprimere liberamente le proprie paure, debolezze, preoccupazioni, speranze e sogni. E’ consigliabile un atteggiamento autorevole da parte del terapeuta anziché punitivo, rigido o eccessivamente carico di regole. Saranno la conoscenza e le abilità del terapeuta stesso che porteranno al rispetto delle regole della Group Rap Therapy e ad un clima di benessere e sicurezza, andando ad arginare reazioni eccessive, elementi di disturbo e a regolare l’ansia dei partecipanti (DeCarlo & Hockman 2003).

Il presupposto specifico di questo approccio alla terapia di gruppo è quello di portare i pazienti ad una presa di consapevolezza di quei pensieri irrazionali e disadattivi che sostengono e determinano i loro agiti aggressivi. In questo modo è possibile interrompere la catena pensiero-emozione-comportamento disfunzionale per sostituirla con una maggiormente funzionale (Meichenbaum, 1995). DeCarlo ha scoperto che attraverso l’analisi dei testi delle canzoni rap, in un contesto terapeutico, è possibile sviluppare e raffinare le skills sociali andando a lavorare su frammenti di testo che trattano temi delicati come l’abuso, la violenza sulle donne, la gestione della rabbia, il controllo degli impulsi, il ragionamento, le regole sociali e morali, la responsabilità, l’identità e l’empatia (DeCarlo & Hockman 2003).

Group Rap Therapy: la procedura

Le sedute della Group Rap Therapy hanno generalmente la durata di un’ora con cadenza bisettimanale per sei settimane consecutive.

All’inizio di ogni settimana è prevista una seduta psicoeducativa in cui i pazienti, o il terapeuta, scelgono un topic da trattare, come ad esempio l’uso e/o l’abuso di droghe, l’aggressività, l’identità, e così via. Il gruppo, pertanto, si impegna ad affrontare la tematica scelta cercando di esprimersi con spirito critico in un clima di rispetto e apertura al dialogo.

Successivamente ad ogni partecipante viene chiesto di scegliere quattro canzoni interpretate dai propri rapper preferiti senza porre alcun limite alla selezione dei brani. Viene data una carta sulla quale è riportata una tematica specifica: abuso, gestione degli impulsi, controllo della rabbia e altri temi. A questo punto ognuno di loro ascolta uno scorcio di un brano rap, ininterrottamente, insieme al terapeuta. Infine, ogni membro appartenente al gruppo viene chiamato dal terapeuta per identificare e spiegare come il tema riportato sulla carta a lui assegnata possa essere messo in relazione allo scorcio di canzone ascoltato e infine alla propria esperienza personale (DeCarlo 2013).

Illustrazione di un caso trattato con Group Rap Therapy

Ad un ragazzo, che chiameremo Mike, incarcerato per agiti aggressivi viene data una carta con il tema dell’aggressività e viene selezionata la canzone “Before I Self Destruct” di Curtis Jackson che dice:

            You see Im’m a psycho, a sicko, I’m, crazy

            I said I got my knife, boy, I’ll kill you if you make me

            They wanna see me shot up, locked up then cage me

            I come back bigger, stronger and angry.

Terapeuta: Mike, hai il tema relativo all’aggressività. Puoi dirci quali sono i tuoi pensieri riguardo alla gestione della rabbia? Riesci a metterli in relazione alla canzone che hai appena ascoltato?

Mike: Bene, il cantante dice che è molto arrabbiato. Dice che ha un coltello e che ti ucciderà se provi a fregarlo. Una persona deve essere molto arrabbiata per dire una cosa del genere. Per me, quando dice “Sono tornato più grande, forte e arrabbiato” è come se sfidasse la persona a cui si riferisce nel testo.

Terapeuta: Ok, Mike. Come pensi che l’autore di questo brano gestisca la rabbia che esprime nella canzone?

Mike: So come si sente, so quello che pensa. E’ come se ci fossero troppe cose intorno a te che tu non riesci a controllare. Anche se provi a fare la cosa giusta, sei comunque bersaglio delle persone sbagliate che ti mettono in situazioni scomode e, talvolta, ti portano a fare del male agli altri e tu lo fai sapendo di farlo per proteggere la tua famiglia. Capisci cosa intendo? [tutto il gruppo fa cenno di sì con il capo]

Terapeuta: Quindi, Mike, tu hai detto “So quello che sente”. In che modo sei in grado di gestire la tua rabbia?

Mike: Devi solo cercare di calmarti prima che qualcuno ti faccia scoppiare. E’ come se io sapessi di essere un uomo che si arrabbia facilmente, ma non sono stato in grado di capire quanta rabbia portassi dentro finché non sono stato arrestato e ho avuto tempo per pensare. So che può sembrare strano ma è stato un bene che sia finito in prigione prima di fare dei gesti estremi fino a, magari, uccidere qualcuno. Davvero, dottore, il gruppo mi sta aiutando molto perché ascoltare musica mi tranquillizza per un po’. Quando sei calmo puoi parlare di un sacco di cose.

Discussione del caso

Il caso appena descritto dimostra come, grazie alla Group Rap Therapy, il gruppo sia in grado di riconoscere ed esprimere le proprie esperienze di vita riscontrate all’interno dei lyrics delle canzoni rap utilizzate per l’attività. In questo modo viene facilitata la scoperta di fattori personali che emergono a partire dalla tematica riportata sulla carta assegnata e che vengono, infine, discussi di fronte agli altri membri. Attraverso la condivisione di vissuti simili da parte dei partecipanti al gruppo è possibile lavorare sulle skills sociali producendo, inoltre, un senso di comprensione e sfogo.

Parlando delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti relativi ai cantanti, i partecipanti lavorano con più semplicità sui propri schemi di pensiero che veicolano il corredo emotivo e comportamentale. Il dialogo dimostrativo tra Mike e il terapeuta porta Mike ad un insight: ascoltare musica tranquillizza per un po’.  A tal proposito la relazione tra musica ed emozione è forte e già nota da tempo: ricerche neurobiologiche mostrano il modo in cui la musica vada a provocare risposte emotive di benessere e gratificazione (Mitterschiffhaler, 2007). Secondo Schneck e Berger’s (2006) i processi cognitivi coinvolti nell’ascolto di musica attivano una condizione psicologica di calma che, conseguentemente, rende più recettivi alla Group Rap Therapy. Le canzoni molto ritmate sembrano attivare e inviare informazioni al sistema uditivo e corticale andando, così, ad interagire con il sistema nervoso autonomo, determinando una sensazione di calma e benessere. Inoltre l’attivazione dei sistemi appena citati sembra influenzare positivamente la frequenza cardiaca, la pressione del sangue, la respirazione ed il consumo di ossigeno (Bernardi et al., 2006).

Sistemi e processi di Memoria a Breve Termine fonologica e semantica

Attraverso questa nuova ricerca, i ricercatori sono stati in grado di individuare le diverse aree del cervello coinvolte sia nel mantenimento dell’informazione fonologica che di quella semantica nella memoria a breve termine.

 

I meccanismi della memoria per acquisire nuove informazioni

Secondo un recente studio, quando proviamo a memorizzare nuove informazioni, siamo facilitati nella memorizzazione se queste posseggono qualcosa di significativo piuttosto che tramite un processo di mera ripetizione.

Il Dottor Jed Meltzer, autore principale dello studio e scienziato di neuro-riabilitazione presso l’Istituto di Ricerca di Baycrest di Rotman afferma che nell’apprendimento di nuove informazioni il nostro cervello può attivare due diverse vie per ricordare il materiale per un breve periodo di tempo: una mediante la ripetizione mentale dei suoni delle parole, l’altra mediante l’acceso al significato delle parole. Nonostante entrambe le strategie siano efficaci nel mantenere le informazioni nella memoria a breve termine, concentrarsi sul significato sembrerebbe più efficace nel mantenimento delle informazioni.

Studi precedenti hanno esaminato il ruolo della ripetizione nella creazione di memorie a breve termine, ma i risultati suggeriscono che l’utilizzo del significato della parola aiuti maggiormente a trasferire i ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Questa scoperta è coerente con le strategie utilizzate dai campioni mondiali di memoria, che creano storie ricche di significato per ricordare informazioni casuali, come l’ordine di un mazzo di carte.

I sistemi della Memoria a Breve Termine fonologica e semantica

Attraverso questa nuova ricerca, i ricercatori sono stati in grado di individuare le diverse aree del cervello coinvolte sia nel mantenimento dell’informazione fonologica che di quella semantica nella memoria a breve termine.

Secondo il Dottor Meltzer, questa constatazione dimostra che esistono meccanismi cerebrali multipli che supportano la memoria a breve termine, sia per le informazioni basate sul suono che per quelle basate sul significato. Ciò potrebbe indurre a pensare che se in pazienti con danni cerebrali conseguenti ad ictus o demenza, è solo uno dei due meccanismi ad interrompersi, queste persone potrebbero imparare a compensare affidandosi alla via alternativa per formare ricordi a breve termine.

Per distinguere l’attività cerebrale coinvolta nel mantenimento dell’informazione fonologica rispetto a quella semantica, è stata effettuata una registrazione magnetoencefalografica durante tre diversi compiti di ripetizione di frasi manipolate sperimentalmente per avere un diverso grado di coinvolgimento delle risorse semantiche. Lo studio ha registrato le onde cerebrali di 25 adulti sani durante l’ascolto di frasi ed elenchi di parole che, dopo un periodo di 5 secondi, dovevano ripetere parola per parola. Dopo la magnetoencefalografia, i partecipanti hanno completato un compito di richiamo dello stimolo target verificando quanto si ricordassero di ogni frase. Attraverso le scansioni cerebrali, i ricercatori hanno identificato l’attività del cervello legata alla memorizzazione attraverso il suono e il significato.

I risultati hanno evidenziato diversi aspetti della memoria a breve termine:
1. Attività oscillatoria in bande di frequenza distinte durante il mantenimento di frasi e di elenchi di parole nella memoria a breve termine.
2. Maggior attivazione della corrente dorsale (via del dove/come) nella prova fonologica e attivazione, seppur più limitata, della corrente ventrale (via del cosa) per il mantenimento dell’informazione semantica
3. I pattern di attivazione base per l’ascolto e il mantenimento della frase, hanno una lateralizzazione emisferica maggiore a sinistra; tuttavia, si è osservata l’attivazione di regioni omologhe nell’emisfero destro. Questi risultati potrebbero suggerire che in assenza di supporto semantico, quando i partecipanti devono impiegare maggiori risorse per riuscire a mantenere gli stimoli in memoria, vengono reclutate aree dell’emisfero destro per portare a termine il compito.
4. La memoria semantica può essere mantenuta per più secondi senza un firing neuronale sostenuto rispetto a quella fonologica. I risultati mostrano che la memoria a breve a termine semantica utilizza un meccanismo sinaptico piuttosto che elettrico a conferma dell’ipotesi di Potter e Lombardi (1990), i quali hanno suggerito una distinzione tra memoria a breve termine fonologica e semantica. Essi propongono che la forma verbale di una frase non possa essere attivamente “memorizzata” semanticamente prima della ripetizione, ma piuttosto “rigenerata” dalle rappresentazioni semantiche attivate precedentemente. I risultati del presente studio sostengono questa ipotesi, suggerendo che forme di memoria a breve termine sinaptica piuttosto che elettrica sembrino influenzare maggiormente le componenti semantiche rispetto a quelle fonologiche.

Grazie a questi risultati il prossimo passo del Dottor Meltzer sarà quello di esplorare tramite la stimolazione cerebrale se è possibile potenziare la memoria a breve termine dei pazienti con ictus. Studi successivi potrebbero indagare quale tipo di memoria a breve termine risponda meglio al trattamento farmacologico o di stimolazione cerebrale valutando il grado di miglioramento ottenuto.

La valutazione dello sviluppo nella prima infanzia: le scale Griffiths III. Report, Roma, 16 e 17 giugno

Monica Rea, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, attivamente impegnata nel percorso di adattamento dello strumento al contesto italiano, dedica due interessanti giornate di formazione per presentare le Griffiths III ai professionisti del settore. La dottoressa le descrive come uno strumento di screening, particolarmente indicato nel primo livello di valutazione dello sviluppo globale del bambino, che permette l’individuazione di un Quoziente di Sviluppo, che rispecchia la somma dei punteggi grezzi individuati nelle diverse sottoscale.

Ilaria Cosimetti, Agnese Pirola

 

Le Scale Griffiths III per la valutazione dello sviluppo nella prima infanzia

Le Scale Griffiths sono note a chiunque si occupi di valutazione dello sviluppo nella prima infanzia poichè da diversi anni sono un punto di riferimento affidabile per discriminare punti di forza e di debolezza nel bambino in età prescolare e fungono da base di partenza per la stesura di programmi di intervento mirati.

A seguito di un lungo lavoro di ristrutturazione delle Griffiths Mental Development Scales (GMDS) da parte dell’Association for Research in Infant and Child Development (A.R.I.C.D.), il panorama testistico si è arricchito della nuova versione di questo prezioso strumento: le scale Griffiths III.

In Italia sono attualmente alle prese con la traduzione dei manuali e dei protocolli di notazione ed è iniziato anche il lavoro di adattamento e di validazione statistica per il contesto nazionale, con la promessa di raggiungere questi obiettivi nel corso del 2018.

Monica Rea, dottore di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, attivamente impegnata nel percorso di adattamento dello strumento al contesto italiano, dedica due interessanti giornate di formazione per presentare le Griffiths III ai professionisti del settore.

La dottoressa le descrive come uno strumento di screening, particolarmente indicato nel primo livello di valutazione dello sviluppo globale del bambino, che permette l’individuazione di un Quoziente di Sviluppo, che rispecchia la somma dei punteggi grezzi individuati nelle diverse sottoscale.

Tale valutazione non solo rispetta la vivace evoluzione tipica di questa fascia di età ma permette di pianificare un intervento mirato o di suggerire ulteriori indagini diagnostiche. Le scale possono essere nuovamente somministrate dopo 6 mesi per un follow-up e dopo un anno con finalità diagnostiche. Mirano insomma a quella fusione tra valutazione e intervento che, soprattutto in età evolutiva, sembra ormai essere l’unica modalità di presa in carico sensata.

Ma quali sono le novità rispetto alla precedente versione?

La nuova batteria è di più facile somministrazione, in quanto ridotta nel numero di item del 36%, la somministrazione più chiara e semplice e i materiali sono stati modernizzati per renderli più accattivanti. Il tempo richiesto per la somministrazione si è ridotto a circa 90 minuti.

Le Griffiths III si sviluppano lungo 5 scale, una in meno rispetto alla versione precedente con due principali novità: le scale Performance (E) e Ragionamento Pratico (F) sono confluite in un’unica Scala A ( Fondamenti dell’apprendimento) e la Scala D (Personale-sociale-emotiva) ambisce ad una valutazione molto più sofisticata che non si accontenta di valutare il solo comportamento adattivo ma mira alla valutazione della capacità di leggere le espressioni emotive, dell’empatia, della teoria della mente, della consapevolezza di sé, della capacità di auto giudizio e di moralità.

Sottoscale dello strumento Griffiths III

Le nuove 5 Sottoscale (immagine tratta dalle slide presentate al corso)

La fascia d’età presa in considerazione (0-6 anni) è più ristretta rispetto allo strumento precedente che era rivolto a due gruppi di età (0-2 e 2-8), ritenendo l’identificazione di possibili disturbi o ritardi nello sviluppo superflua tra i 6 e gli 8 anni.

Durante le due giornate di formazione è stato possibile familiarizzare con il protocollo di registrazione già disponibile in italiano e, attraverso la visione di filmati in cui la dottoressa utilizzava lo strumento con i bambini, sia a sviluppo tipico che atipico, prendere confidenza con le modalità di somministrazione e quindi di scoring.
Rimaniamo in attesa della chiusura dei lavori di taratura italiana, prevista nel 2018, per mandare quindi in pensione le vecchie scale e migliorare la qualità del nostro lavoro con le nuovissime Griffiths III.

La neofobia alimentare: un riflesso psico-fisiologico ancestrale che potrebbe causare carenze nutrizionali?

La neofobia alimentare, ovvero la riluttanza ad ingerire nuovi cibi, è una caratteristica degli animali onnivori, incluso l’essere umano. Il rischio di ingerire risorse alimentari tossiche, consente di approcciare ai nuovi alimenti in maniera cauta e, quando possibile, evitarli in favore di cibi familiari e conosciuti.

 

La neofobia alimentare, ovvero la riluttanza ad ingerire nuovi cibi, è una caratteristica degli animali onnivori, incluso l’essere umano. Questi organismi, esposti al rischio di un ambiente in cui molte risorse alimentari possono essere tossiche, consente di approcciare ai nuovi alimenti in maniera cauta e, quando possibile, evitarli in favore di cibi familiari e conosciuti.

E’ stato quindi suggerito che la neofobia alimentare abbia una funzione protettiva, che agisce tramite comportamenti alimentari di messa in sicurezza (Schulze, 1995). La risposta neofobica non è presente fin dalla nascita, bensì inizia a manifestarsi attorno alla fine del primo anno di vita, per toccare l’apice tra i 2 e i 5 anni. In questo periodo i bambini passano dall’essere totalmente nutriti di latte materno (e protetti a livello alimentare), all’essere esposti ai primi cibi solidi. Sebbene essi vengano selezionati per lo più dai genitori, la rapida crescita e acquisizione di autonomia e motricità, nonché le aumentate occasioni sociali (asilo, feste di compleanno ecc..) rendono ben presto i bambini in grado di esplorare il mondo e pertanto anche in grado di “procurarsi” il cibo da soli (in cucina, dalle mani degli amichetti, o nei barattoli lasciati su tavolini e ripiani ad esempio). Inoltre la neofobia alimentare sembra proteggere le scelte alimentari fintanto che non vengono acquisite alcune regole alimentari base, di cucina e composizione dei cibi, che possono far selezionare come “cibi buoni” gli alimenti che assomigliano e richiamano cibi già noti per le loro caratteristiche.

La neofobia alimentare dovrebbe piano piano ridursi e scomparire spontaneamente durante il proseguimento dell’infanzia. Tuttavia, anche alcuni adulti sembrano mantenere atteggiamenti neofobici nei confronti dei cibi nuovi, con nette preferenze per le pietanze note e familiari, nonostante non ci siano reali motivi per mantenere attivo tale comportamento difensivo.

Ciò fa pensare che un prolungarsi dell’atteggiamento neofobico possa produrre conseguenze nocive per la salute, in quanto meccanismo responsabile di una dieta alimentare poco varia e restrittiva. Scoprire quali fattori influenzano il grado di reazione neofobica può rappresentare un importante elemento per favorire lo sviluppo di un’alimentazione sana e variegata in bambini ed adulti.

Fattori che influenzano la neofobia alimentare

Informazioni indirette ed dirette

E’ stato rilevato che i cibi ben accetti sono solitamente quelli che sembrano buoni al gusto e che sembrano portare benefici all’organismo (due caratteristiche opposte a quelle di disgusto e pericolo che guidano l’evitamento di cibi nuovi). Pertanto, qualsiasi fattore situazionale che induca l’aspettativa di buon gusto e sicurezza di un cibo dovrebbe ridurre la neofobia alimentare. Tuttavia, le ricerche eseguite in questa direzione portano a conclusioni contrastanti.

Uno studio condotto da Pelchat e Pliner (1995) non rilevava incrementi di predisposizione al nuovo assaggio, in un gruppo di studenti a cui veniva mostrato del cibo, in una caffetteria, con indicazioni sulle proprietà nutrizionali benefiche dell’alimento. Per contro, lo stesso Pliner, in una successiva ricerca (McFarlane e Pliner, 1997) mostrava che le informazioni sulle conseguenze positive di un cibo aumentavano la predisposizione all’assaggio del nuovo cibo quando tali informazioni erano giudicante importanti o rilevanti per i soggetti. Inoltre, sembra che il fornire informazioni sia efficace soltanto con alcuni tipi di alimenti, mentre altri ne sono totalmente immuni. Ad esempio, Martins e colleghi (1997) rilevarono un’invariata propensione all’assaggio di nuovi cibi di origine animale.

Più coerenti appaiono invece le ricerche riguardanti il ruolo svolto dalla pura esposizione a cibi nuovi, intesa come reale prova di assaggio. Birch e colleghi si sono a lungo occupati di questo fattore, rilevando la notevole influenza ed effetto positivo di ripetute esposizioni a nuovi alimenti (Birch, 1982; 1987;1998). Questi risultati sono stati interpretati in termini di “sicurezza appresa”, per cui ripetute esposizioni insegnano che l’alimento è sicuro e non produce conseguenze negative.

Solitamente i soggetti anticipano che un cibo nuovo avrà un cattivo gusto. L’esposizione a nuovi cibi gustosi potrebbe aiutarli a modificare le loro aspettative negative nei confronti di altri nuovi cibi, le quali spesso non hanno un reale fondamento. Le esperienze positive con nuovi cibi potrebbero venir generalizzate anche ad altri alimenti, e pertanto produrre una riduzione della tendenza neofobica in maniera globale e duratura.

Influenza sociale

Vari studi sostengono il forte effetto dell’influenza sociale sulle scelte alimentari. I bambini seguono spesso un “modello di riferimento”, finendo per selezionare gli stessi cibi o sviluppare le stesse preferenze. Ma succede lo stesso anche per quanto riguarda i nuovi cibi? In uno studio di Harper e colleghi (1975) i bambini erano più propensi ad accettare un cibo nuovo se lo avevano visto mangiare prima dalla mamma. Hendy e colleghi (2000) hanno invece sondato l’ambiente scolastico, rilevando che i piccoli seguivano l’esempio della maestra, assaggiando nuovi alimenti, soltanto se questa esprimeva in maniera entusiasta commenti sull’alimento, mentre non ne venivano influenzati se il cibo veniva mangiato in silenzio.

Somiglianze familiari nella neofobia alimentare

I genitori giocano un ruolo importante nello sviluppo delle abitudini alimentari dei figli. Vari studi hanno esaminato le somiglianze familiari in termini di preferenze alimentari (Birch, 1980b; Pliner 1983). Tuttavia i risultati mostrano soltanto una modesta relazione tra le preferenze genitoriali e dei bambini, mentre più consistenti sembrano essere le somiglianze di preferenze alimentari tra fratelli. Sembra invece confermato il dato per cui genitori con maggior grado di neofobia alimentare da adulti, scelgono un’alimentazione maggiormente selettiva e abitudinaria per il nucleo familiare, che di conseguenza ne viene influenzato, apprendendo la preferenza per cibi familiari.

Implicazioni cliniche della neofobia alimentare

Effetti sulla salute

Dal momento che il rifiuto di nuovi cibi probabilmente diminuisce la varietà della dieta, ci si aspetta che la neofobia alimentare abbia delle ripercussioni nutrizionali. Uno studio condotto da Galloway e colleghi nel 2003 rilevava una correlazione negativa tra neofobia alimentare e consumo di verdure in bambine di 7 anni. Similmente, Cooke e colleghi, nel 2004, mostravano una correlazione negative tra neofobia e il consumo di frutta e verdura in bambini di età pre-scolare. In entrambi gli studi, il ridotto consumo di vegetali sembrava correlare con carenze vitaminiche.

Trattamento della neofobia alimentare

Visto che in alcuni casi la neofobia alimentare può compromettere un sano introito nutrizionale, predisporre strumenti in grado di ridurla sembra essere una valida alternativa. Conoscere i fattori che influenzano la neofobia diventa quindi essenziale. Sulla base di quanto emerso dalle ricerche citate nei paragrafi precedenti, strategie in grado di ridurre la neofobia alimentare dovrebbero focalizzarsi sul: fornire informazioni positive ed accattivanti sui nuovi alimenti, favorire l’esposizione diretta e ripetuta ai nuovi cibi e presentare i nuovi alimenti in situazioni familiari.

A livello di setting clinico, è possibile trattare la neofobia alimentare come un’altra fobia specifica, combinando pertanto tecniche tradizionalmente usate nei disturbi d’ansia (rilassamento, gerarchia espositiva, desensibilizzazione sistematica, ristrutturazione cognitiva e modelling) con educazione alimentare e nutrizionale. L’idea è quindi quella di esporre gradualmente il soggetto ai cibi temuti, mentre si modella il comportamento alimentare corretto, si sfidano le distorsioni cognitive e si previene l’evitamento (Pliner et al.,1983).

Conclusioni

Sebbene la neofobia alimentare sia chiaramente un riflesso adattivo per la specie, è possibile sostenere che la cultura abbia assunto gran parte della funzione protettiva svolta dalla neofobia. Tranne in rari casi, la cultura impedisce lo scontro con cibi pericolosi e tossici, rimuovendoli dall’ambiente o etichettandoli come nocivi. In un certo senso, la neofobia avrebbe perso un po’ la sua utilità.  E’ stato infatti rilevato che in vari casi, le limitazioni causate dalla neofobia alimentare provocano rischi e carenze nutrizionali. Le ricerche devono ancora chiarire la rilevanza di questo meccanismo, tuttavia può essere vantaggioso sviluppare strategie per ridurlo.

La diagnosi di disortografia evolutiva: in cosa consiste e gli strumenti diagnostici

La disortografia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento della scrittura, in cui il bambino ha difficoltà nel tradurre i suoni in simboli grafici, pur essendo intatti i vari sistemi (cognitivo, sensoriale, neurologico, ecc.) e avendo avuto normali opportunità educative e scolastiche. La disortografia va distinta dalla disgrafia, dove invece sono presenti problemi grafo-motori e dalla disprassia, in cui si evidenziano problemi motori e il soggetto fatica a compiere correttamente gesti coordinati e diretti a un determinato fine.

Patrizia Bagatti, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Dysorthography – Abstract

Dysorthography is a specific scholastic learning disability whose etiology is recognized to be neurodevelopmental. However, the disorder do not derive from patent deficits at sensory, motor or mental level. The disorders also do not derive from injury or a pervasive developmental disorder. Even though the definition of the disorders in the classifications excludes a cultural, social, economic, pedagogic or psychological etiology, this is not to say that such factors do not play a role.

Genetic factors, cognitive functions, psychological structuring and the familial and social systems contribute together to the development of skills in the child. The complementarity of those approaches should enable overall management of the child in cognitive terms and in terms of the child’s relationship with his/her environment.

Diagnosis frequently calls for the skills of various professionals working as a pluri-disciplinary team given the complex nature of the disorders and the frequent existence of associated disorders. The open-care professional networks frequently offer that pluri-disciplinary approach coordinated by a referring physician.

Screening for scholastic learning disabilities can only begin when the children have begun to learn, in other words after the start of primary school class CP (6–7 years). Screening during the obligatory examination at age 6 years is thus most frequently a screening for risk factors for specific learning disabilities. Screening for risk factors (such as spoken language disorders) may also be conducted by the maternal teachers or developmental Psycologists during the examination of infants in nursery school classes PS (3–4 years) or MS (4–5 years). Physicians with training in the field may be requested. During schooling, the network for specialized assistance to children in difficulty (consisting of a psychologist and specialist teachers) contributes to individual identification and screening.

La diagnosi della disortografia

In italiano la computazione di una parola comporta la traduzione della stessa dalla stringa orale a quella scritta, o viceversa. In linea generale, essendo una lingua trasparente, vi è un elevato grado di corrispondenza tra la sequenza di fonemi che compongono una parola e la stringa di lettere che ne caratterizza l’ortografia.

Nonostante ciò la nostra lingua, anche se in misura inferiore ad altre, presenta un discreto numero di stringhe fonologiche potenzialmente ambigue nell’ortografia, cosicché la traduzione fonema- grafema non sempre risulta automatica. Tali eccezioni riguardano le parole omofone non omografe come quelle che iniziano con l’h (es. hanno e anno) o le parole accentate (es. sì e si), o ancora parole precedute dall’articolo apostrofato (es. l’ago, lago).

In questi e altri casi, riferibili ad esempio alla pronuncia di alcune aree linguistiche, la soluzione ortografica corretta è rintracciabile solo analizzando il contesto semantico o sintattico.

Il protocollo generale di valutazione della disortografia è costituito da:
• Colloquio e anamnesi;
• Valutazione psicometrica del livello intellettivo;
• Valutazione psicometrica delle abilità di lettura, scrittura e calcolo, da essa interessate;
• Valutazione delle condizioni scolastiche di insegnamento/apprendimento.

Le valutazioni sopra accennate della disortografia si compongono di parametri costruttivi ed esecutivi; dove i primi includono il tipo di segno usato dal bambino e la relativa quantità, nonché verificare il valore sonoro convenzionale delle lettere che il bambino scrive; mentre per parametri esecutivi si intendono la direzionalità della scrittura, l’organizzazione dello spazio sul foglio e l’orientamento delle lettere nello spazio, oltre all’adeguatezza nell’utilizzo nel corsivo, del maiuscolo, minuscolo, ecc.).

Le prove utilizzate si differenziano in base all’età di valutazione e sono incluse in batterie come la Batteria per la valutazione della scrittura e dell’ortografia in età scolare (1 ^ elem-3^ Media) (Tressoldi e Cornoldi,2000), la Batteria per la valutazione della dislessia e disortografia evolutiva (2^ elem-3^ Media) (Sartori, Job e Tressoldi,1995) e la Batteria per la valutazione della scrittura (1 ^ elem-5^ elem) (Rossi e Malaguti,1998), composte di dettati ortografici, di parole, di non-parole, di parole omofone non omografe, dettati di frasi e autodettato.

La diagnosi di disortografia viene fatta per quei bambini che presentano una scrittura lenta o eccessivamente scorretta, che però non è imputabile a una scarsa velocità del gesto motorio, sempre tenendo presente che l’errore non va considerato in merito a fattori esterni, ambientali o psicologici, che, se presenti, possono essere un fattore accentuante.

La Consensus Conference prescrive di valutare componenti diverse in base alle fasi evolutive: all’inizio dell’alfabetizzazione è necessario valutare i processi di conversione fonema-grafema, mentre durante la scuola primaria le parole intere fino alla presenza di errori di conversione grafema-fonema. Questi in particolare, se riscontrati alla fine della scuola primaria, rappresentano un elemento diagnostico di gravità del disturbo.

Materiale diagnostico e osservativo per la valutazione della disortografia

Per valutare la scrittura si utilizzano prove di dettato (brano e frasi con difficoltà ortografiche), prove di scrittura spontanea (immagini da descrivere o sequenze narrative) e prove di velocità di scrittura. E’ importante rilevare la tipologia di errore, la cui definizione orienta l’intervento successivo.

In classe si potrà intervenire prestando attenzione agli aspetti meta-cognitivi (osservazione con i bambini delle caratteristiche del corsivo, considerazione sulla sua utilità, ricerca settimanale della pagina più bella e perché, caratteristiche di “eleganza”ecc.) e leggibilità di ogni lettera. Altri aspetti da considerare sono quelli ergonomici (disposizione del banco, postura, prensioni delle dita..), analizzabili anche attraverso esercizi grafici preparatori.

Si consiglia di presentare le lettere per famiglie e compiere esercizi per ogni famiglia, sottolineando i collegamenti tra lettere, soprattutto il passaggio dalle lettere con collegamento alto (b -v – o) e i collegamenti tra gruppi di lettere più frequenti (sc, gl, gn). Inoltre verranno presentate le lettere straniere ed eseguito un ripasso finale.

Eventualmente si consiglia l’uso di strumenti specialistici (righe quaderni speciali, penne..).

Una prova velocemente realizzabile per testare la collocazione individuale della competenza grafo-motoria è quella della velocità. Consiste di tre consegne. Nella prima si chiede al bambino di scrivere in modulo continuo (senza staccare la penna dal foglio) e in corsivo, la sillaba le: CeCeCeCeCe… per un minuto. Nella valutazione poi si conta il numero di coppie corrette (in cui siano riconoscibili entrambi i grafemi) e si moltiplica per 2. Nella seconda consegna si chiede al bambino di scrivere la parola uno, in corsivo, per un minuto: uno uno uno… Nella valutazione si conta il numero dei grafemi riconoscibili. Nell’ultima consegna, infine, il bambino viene invitato a scrivere i numeri in ordine, partendo da uno, per un minuto. Si tratta di un compito complesso per la pianificazione richiesta. Nella valutazione poi si conta il numero dei grafemi riconoscibili.

Per l’analisi generale dei comportamenti e della prestazione di scrittura può essere utilizzata la seguente Check-list:
Alunno ……………………….Data…………………..Classe ………………
• 1 – Scrive lettere in dimensioni troppo grandi.
• 2 – Scrive lettere in dimensioni troppo piccole.
• 3 – Scrive lettere in dimensioni diverse e irregolari.
• 4 – La sua scrittura non si tiene entro i margini della riga.
• 5 – Non rispetta i margini del foglio.
• 6 – Quando scrive a stampatello lascia spazi irregolari fra le lettere.
• 7 – Lascia spazi insufficienti e irregolari fra parola e parola.
• 8 – Il tratto della matita/penna è troppo forte.
• 9 – Il tratto della matita/penna è troppo tenue.
• 10 – Il tratto della matita/penna è a strappi.
• 11 -Il tratto della matita/penna è con altre forme di irregolarità.
• 12 – Scrive senza scorrevolezza
• 13 – La presa della penna/matita non è corretta.
• 14 – Non tiene la mano allineata col foglio e con la spalla.
• 15 – Non guarda ciò che scrive.
• 16 – Non tiene una posizione eretta del corpo e normale della testa.
• 17 – Scrive con le lettere fortemente inclinate a destra.
• 18 – Scrive con le lettere fortemente inclinate a sinistra.
• 19 – Scrive con le lettere irregolarmente inclinate.
• 20 – Non scrive, nel corsivo, le maiuscole più grandi delle maiuscole.
• 21 – Non unisce fluidamente, nel corsivo, le varie lettere di una parola.
• 22 – La forma delle lettere presenta angolature eccessive.
• 23 – La forma delle lettere presenta forme troppo ricurve.
• 24 – La forma delle lettere presenta i tratti iniziali poco leggibili.
• 25 – La forma delle lettere presenta i tratti finali mal segnati.
• 26 – Presenta difficoltà a chiudere le lettere (“a”, “b” , “f ” , ecc.).
• 27 – Presenta cattiva chiusura delle punte superiori (la “l” fatta come una “t”, la “e” fatta come una “i”).
• 28 – Presenta la chiusura non richiesta di tratti (la “i” fatta come una “e”).
• 29 – Rende dritti tratti verso l’alto che dovrebbero essere incurvati (la “n” fatta come la “u”; la “c” come la “i”).
• 30 – Presenta difficoltà nel tratto finale (non portato in su oppure in giù, non reso orizzontale a sinistra).
• 31 – Presenta la parte alta troppo breve (nelle lettere b, d, h, k).
• 32 – Presenta difficoltà nell’incrociare la “t”.
• 33 – Presenta lettere troppo piccole.
• 34 – Presenta chiusura di lettere a curva aperta come c, h, u, w
• 35 – Presenta omissione di parte di una lettera.

Disortografia vs disgrafia e disprassia

Nel diagnosticare una disortografia è importante differenziarla dalla disgrafia, e dalla disprassia.

La disgrafia è un deficit esclusivamente grafico, di riproduzione di segni alfabetici e numerici. Essa può talvolta essere legata ad un disturbo della coordinazione motoria o secondaria ad una lateralizzazione incompleta.

La disgrafia si manifesta all’incirca a partire dalla terza elementare, quando il bambino inizia ad aver automatizzato i gesti di scrittura, che viene personalizzata.

I bambini affetti da disgrafia hanno spesso un’impugnatura scorretta della penna e faticano a organizzare lo spazio sul foglio, lasciando spazi irregolari tra i simboli grafici, le parole, scrivendo in salita o in discesa e non riuscendo a regolare la pressione della mano sul foglio e, frequentemente, invertendo la direzione del gesto.

Altre difficoltà sono presenti:
– nella copia e produzione autonoma di figure geometriche e riproduzione di oggetti o copia di immagini, che risulta carente di particolari;
– nella copia di parole e di frasi;
– inversioni nella scrittura dei grafemi;
– errori attribuibili a una scarsa coordinazione oculo-manuale;
– il ritmo di scrittura è alterato (eccessivamente lento o veloce) e il gesto non è armonico e frequentemente interrotto con una perdita della naturale curvilineità.

La disgrafia è il disturbo specifico dell’apprendimento più difficile da valutare con parametri oggettivi.

L’equipe di Ajuriaguerra ha messo a punto un metodo oggettivo di rilevazione della disgrafia attraverso due scale: la scala D e la scala E. La prima non tiene in considerazione l’età anagrafica del ragazzo perché la disgrafia ha specificità che non sono in relazione con l’evoluzione della scrittura; è composta da 25 items divisi in tre gruppi:
• cattiva distribuzione nello spazio ( 7 items)
• maldestrezza (14 items)
• errori nella forma e nelle proporzioni (5 items).

La gravità del problema viene valutata attraverso un conteggio matematico degli item.
La scala D può essere utilizzata a partire dall’ottavo anno di età del bambino, periodo in cui è possibile fare una diagnosi certa di disgrafia. E’ tuttavia possibile fare una valutazione delle abilità grafomotorie in fase precalligrafica; se si rivelano anomalie è consigliabile intervenire il prima possibile per rieducare la scrittura.
La scala E rileva l’età grafomotoria del bambino, ossia la sua consapevolezza nell’acquisizione di una propria grafia.

La disprassia consiste invece in un deficit nella coordinazione dei gesti automatici e volontari, che può influenzare anche il modo di apprendere di un bambino a scuola.

Secondo il DSM IV la disprassia solitamente rientra nella classificazione dei Disturbi della Coordinazione Motoria, che colpiscono il 6% della popolazione infantile tra i 5 e gli 11 anni, comportando goffaggine, problemi nell’organizzare il lavoro e nel seguire delle istruzioni.

La disprassia è caratterizzata dalla non corretta esecuzione di una sequenza motoria che risulta alterata nei requisiti spaziali e temporali, risultando in un’attività motoria che può essere del tutto inefficace e scorretta, nonostante siano integre le funzioni volitive, la forza muscolare e la coordinazione.

Le ricerche finora condotte suggeriscono che la disprassia sia imputabile a un’ immaturità dello sviluppo neuronale del sistema nervoso centrale. Oltre alla corteccia cerebrale, la parte più diffusa del cervello, sarebbe coinvolto il sistema limbico, in particolare l’ippocampo, responsabile dei processi di memorizzazione ed apprendimento. Un’immaturità del sistema limbico causa reazioni sovra o sotto dimensionate degli stimoli sensoriali, intaccando i livelli di attività di controllo fisico ed emozionale, con conseguenti reazioni quali iperattività e perdita di attenzione.

Essendo un disturbo motorio, la disprassia viene valutata per mezzo di un esame neurologico della struttura anatomica che sostiene l’azione e la sua modalità di esecuzione e di un esame psicomotorio, che valuta il comportamento motorio nei suoi vari aspetti e l’espressione globale della sua personalità in rapporto all’età e ai parametri dello sviluppo psicomotorio. I parametri presi in considerazione sono:
– il rapporto che il bambino ha con sé stesso, con gli oggetti, con lo spazio e con gli altri;
– gli aspetti legati alla motricità;
– il livello di autonomia;
– le competenze relazionali;
– le competenze logico-cognitive.

I videogames possono cambiare il nostro cervello?

Sappiamo che i videogames sono una forma sempre più comune di intrattenimento, e diversi studi evidenziano che tale forma di intrattenimento ha un effetto sul nostro cervello e sul nostro comportamento.

 

I videogiochi stanno diventando sempre più usati anche dagli dagli adulti, l’età media dei giocatori è aumentata ed è stimata intorno ai 35 anni. Molti giocatori giocano su computer o console, ma ne è emersa una nuova tipologia, ovvero quelli casuali, che giocano su smartphone e tablet in momenti vuoti della loro giornata, come il loro viaggio per raggiungere scuole/lavoro di mattina.

Quindi, sappiamo che i videogames sono una forma sempre più comune di intrattenimento, e diversi studi evidenziano che tale forma di intrattenimento ha un effetto sul nostro cervello e sul nostro comportamento.

In particolare alcune ricerche suggeriscono che i videogames possono cambiare le regioni del cervello responsabili dell’attenzione e delle capacità visuospaziali e renderle più efficienti. I ricercatori hanno anche esaminato studi che esplorano le regioni del cervello associate al sistema di ricompensa e come queste sono legate alla dipendenza da videogames.

Gli effetti dei videogames sul cervello

Palaus e collaboratori, in uno studio recentemente pubblicato, hanno voluto approfondire e analizzare le tendenze che erano emerse dalla ricerca riguardo l’effetto dei videogmaes sul nostro cervello e sul nostro comportamento. I ricercatori hanno raccolto i risultati di 116 studi scientifici, di cui 22 che prendevano in considerazione i cambiamenti strutturali nel cervello e 100 che esaminavano i cambiamenti nella funzionalità cerebrale e / o del comportamento.

In generale, da questa review emerge che i videogames possono modificare il funzionamento e anche la struttura del cervello.

Ad esempio, l’uso di videogiochi influenza la nostra attenzione, e alcuni studi hanno rivelato che i giocatori mostrano miglioramenti in diversi tipi di attenzione, come ad esempio nell’attenzione selettiva. In particolare, sembrerebbe che le regioni del cervello coinvolte nell’attenzione lavorano in modo più efficace nei giocatori di videogames e richiedono una minore quota di attivazione per sostenere l’attenzione nei compiti impegnativi.

Ci sono anche evidenze secondo cui i videogiochi possono aumentare la dimensione e l’efficienza delle regioni del cervello implicate nelle competenze visuospaziali. Ad esempio, l’ippocampo destro si è dimostrato più ampio in giocatori di videogames.

Il rovescio della medaglia: videogiochi e dipendenza

Tuttavia dalle ricerche emerge che i videogiochi possono anche portare a forme di dipendenza. In tal senso i ricercatori riscontrato tra diversi studi che vi sarebbero cambiamenti funzionali e strutturali nel sistema di ricompensa neurale nei soggetti dipendenti dal gioco. Questi cambiamenti cerebrali sono fondamentalmente uguali a quelli osservati in altri disturbi da dipendenza.

Tuttavia, la ricerca sugli effetti dei videogames è ancora agli albori.

È probabile che i videogiochi abbiano sia aspetti positivi (su attenzione, capacità visive e motorie) sia aspetti negativi (rischio di dipendenza) ed è essenziale che si comprenda questa complessa dualità – spiega Palaus.

 

Il Trauma e il Corpo. L’intervento che cura – Report del seminario con Kekuni Minton

L’Istituto Gestalt Therapy Kairos ha organizzato, lo scorso 10 e 11 giugno, un seminario incentrato sulla presentazione di come il trauma venga trattato secondo l’approccio della psicoterapia sensomotoria; si tratta di un approccio elaborato da Pat Ogden, che si avvale dell’integrazione di vari contributi, tra cui quello del terapeuta gestaltico Ron Kurtz.

 

Dopo l’apertura dei lavori, effettuata dalla dottoressa Giovanna Silvestri, e l’intervento del vice presidente dell’Enpap Federico Zanon, i direttori della Scuola, il dottor Giovanni Salonia e la dottoressa Valeria Conte, effettuano una relazione volta a mettere in luce l’importanza fondamentale che sia le parole che i processi corporei rivestono in ambito psicoterapeutico; questi ultimi rappresentano la chiave d’accesso ai vissuti più profondi del paziente.

La giornata di studio si va ad inserire nell’attività di confronto tra l’approccio gestaltico ed altri approcci, rispetto alle pratiche terapeutiche; in questo contesto di confronto intellettuale e professionale il dott. Kekuni Minton, didatta del Sensorimotor Psychoterapy Institute, illustra alcuni aspetti del trattamento, soffermandosi su come la psicoterapia sensomotoria vada ad intervenire sulla psiche e sul soma della persona che ha subito un trauma. I lavori del seminario si concludono con una tavola rotonda in cui tutti i relatori rispondono alle domande formulate dai partecipanti e si confrontano vicendevolmente sulle tematiche in esame.

Il trauma secondo la psicoterapia sensomotoria

Il trauma, nella prospettiva della teoria sensomotoria, va ad interferire con la nostra capacità di assimilare nuove informazioni e di creare nuove rappresentazioni della realtà: la persona traumatizzata rimane legata ai ricordi traumatici, che necessitano di essere sottoposti ad un adeguato processo di rielaborazione. Si tratta di un processo molto delicato, dato che implica la riattivazione di memorie traumatiche, le quali possono generare nel paziente un vissuto interno di minaccia: lavorare sull’elaborazione del trauma può essere vissuto come un riproporsi dell’evento traumatico originario, dal cui ricordo doloroso la persona cerca di difendersi.

La psicoterapia sensomotoria lavora non solo con le memorie dichiarative (le memorie esplicite, ossia i ricordi consapevoli che vengono richiamati alla memoria attraverso processi cognitivi e verbali), ma, anche e soprattutto, con le memorie implicite (gli apprendimenti procedurali, cui è possibile avere accesso attraverso processi somatici). In questo quadro viene mutuato da Daniel Siegel il concetto di “integrazione orizzontale”: si integrano i processi cognitivi di attribuzione di significato, attuati dall’emisfero sinistro del cervello, con i processi emotivi, legati alla corporeità e alla regolazione degli affetti, in cui è implicato l’emisfero destro.

Il processo di rielaborazione del trauma con la psicoterapia sensomotoria

La psicoterapia sensomotoria opera in base al presupposto che nel trattamento delle memorie traumatiche il limitarsi al solo parlare con il paziente di quanto accaduto, per favorire un processo di consapevolizzazione, possa rivelarsi controproducente, accentuando i processi di disregolazione emozionale e irrigidendo i meccanismi di difesa che agiscono, in modo automatico ed inconsapevole, a livello corporeo.

Il terapeuta lavora con i vissuti corporei del paziente, oltre che con la storia di vita; si avvale di memorie implicite e cerca, nella fase iniziale del trattamento, di stabilizzare il paziente a livello corporeo, ripristinando il senso di sicurezza personale, minato dal trauma, e un adeguato livello di arousal, ossia di attivazione.

La persona che ha subito un trauma può presentare uno stato di allarme, di eccessiva attivazione (iperarousal), mediato dal sistema nervoso simpatico, oppure una condizione di scarsa attivazione, debolezza, mancanza di energia (ipoarousal), mediata dal sistema nervoso parasimpatico; può verificarsi anche uno stato denominato “freeze” (congelamento), in cui il livello di attivazione è alto (uno stato di iperarousal), ma la reazione osservabile è di immobilità, “difesa di congelamento”, di fronte ad un pericolo imminente. Nella fase iniziale del trattamento il terapeuta cerca di riportare la persona in uno stato di arousal (attivazione) ottimale, denominato “finestra di tolleranza”; il trattamento segue le linee guida postulate già da Pierre Janet nel trattamento del trauma e si struttura in tre fasi: riduzione e stabilizzazione dei sintomi, trattamento delle memorie traumatiche e, infine, reintegrazione della personalità.

La cornice teorica neurobiologica viene mutuata dalla teoria polivagale, elaborata da Stephen Porges, il quale definisce “neurocezione”, la modalità che l’essere umano ha di rapportarsi agli altri e all’ambiente circostante, attuando un processo di interazione, in assenza di pericolo, o mettendo in atto dei meccanismi di difesa (attacco/fuga, o immobilizzazione) in presenza di un pericolo; si tratta di un processo che avviene in modo automatico, al di fuori della coscienza, attraverso circuiti neurali che individuano, nell’ambiente, una situazione di sicurezza, di pericolo o di rischio di vita, determinando una risposta adattativa corrispondente.

Il processo terapeutico viene denominato “bottom up”: mentre nei processi “top down” l’intervento si focalizza in prima battuta sulle funzioni verbali e cognitive, legate alla corteccia frontale, per poi “scendere” ai processi emozionali (sistema limbico) e, infine, ai processi corporei, nella psicoterapia sensomotoria si parte dal “ basso” (bottom), ossia dai vissuti corporei, per poi salire, progressivamente, alla consapevolezza emozionale e alle funzioni verbali e cognitive di attribuzione di senso.

Il verificarsi di un evento traumatico può determinare uno stato di dissociazione strutturale della personalità: una parte del sé della persona è implicata nella vita quotidiana e mette in atto normali condotte di interazione con l’ambiente (condotte di esplorazione, attaccamento, sessualità, regolazione dell’energia etc.), mentre un’altra parte del sé è rimasta “fissata” all’esperienza traumatica e mette in atto condotte di difesa (attacco/fuga, freezing, sottomissione etc.) quando qualcosa, nell’esperienza presente del soggetto, rievoca il trauma; il terapeuta lavora con le parti dissociate, che vanno riportate alla coscienza, e che emergono sia sotto forma di memorie somatiche, che nella relazione terapeutica, attraverso agiti e identificazioni proiettive.

Oltre che con il corpo si lavora, in una fase successiva del percorso, con i vissuti di attaccamento; il terapeuta individua l’esperienza di attaccamento che manca al paziente e la offre, come “esperimento”, per aiutare il paziente a familiarizzare con un vissuto nuovo: relazionarsi con una figura di attaccamento che risponde ai suoi bisogni.

Il trattamento è finalizzato all’acquisizione della capacità, da parte del paziente, di attuare una corretta autoregolazione, di entrare in contatto e in intimità con l’altro e di avere un senso di integrazione del sé.

La famiglia del tossicodipendente: tra terapia e ricerca – Recensione

La famiglia del tossicodipendente: Gli autori considerano il sintomo del giovane tossicomane da eroina in un’ottica trigenerazionale, che mira ad esplorare non solo le componenti insoddisfacenti della relazione coniugale e le sue dirette risultanze nella relazione con i figli, ma anche le problematiche relative al rapporto di ciascuno dei genitori con la propria famiglia d’origine nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.

La famiglia del tossicodipendente: le relazioni di attaccamento tra genitori e figli e i meccanismi di difesa

La prima edizione di questo volume rappresentava uno dei primi manuali completi sulla tossicodipendenza, esaminata nell’intreccio dei diversi fattori che contribuiscono alla sua insorgenza. Il testo presentava una ricerca/intervento che rintracciava alcuni scenari familiari, su tre generazioni, utili nel trattamento degli uomini tossicodipendenti da eroina. L’aggiornamento del volume vent’anni dopo la prima edizione, attraverso numerosi casi clinici che tentano di chiarire le elaborazioni teoriche riconducibili all’orientamento psicodinamico e sistemico-relazionale, ha consentito di approfondire alcune teorizzazioni e procedure sorte in seno alla terapia familiare, alla teoria dell’attaccamento e all’infant research, accogliendo nella propria esperienza clinica nuovi studi, come quelli di Liotti o Lorna Smith Benjamin per esempio.

I cambiamenti che hanno coinvolto i consumatori di droghe, relativi alla qualità delle sostanze usate e alla loro diffusione capillare, hanno generato un intreccio di problemi non più circoscritti ai servizi per le tossicodipendenze, ma allargati ai consultori per adolescenti, ai servizi sociali, alle scuole e naturalmente agli ambulatori privati, ai quali le famiglie portano richieste di consultazione, a causa di figli tossicodipendenti di ogni età. Il testo attuale si propone anche di allargare l’attenzione ai percorsi familiari delle donne dipendenti dall’eroina, nonché di sottolineare la necessità di non perdere di vista i rischi che corrono i figli dei tossicodipendenti. L’attenzione con cui il libro è stato accolto venti anni fa è stata indirizzata su molteplici aspetti, ma forse quello che ha colpito di più è stata l’efficacia del richiamare sulla scena il padre del giovane tossicodipendente, tradizionalmente periferico nella famiglia e lasciato spesso in disparte anche dai terapeuti.

Gli autori considerano il sintomo del giovane tossicomane da eroina in un’ottica trigenerazionale, che mira ad esplorare non solo le componenti insoddisfacenti della relazione coniugale e le sue dirette risultanze nella relazione con i figli, ma anche le problematiche relative al rapporto di ciascuno dei genitori con la propria famiglia d’origine nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza.

I ricercatori nell’analisi del problema della tossicodipendenza, evidenziano: “il meccanismo tipico di tale percorso, attraverso il quale si pongono le basi della scelta tossicomanica, è quello secondo cui entrambe le generazioni, quella dei genitori e quella del figlio tossicodipendente, risultano caratterizzate da un disturbo nella relazione d’attaccamento alle rispettive figure genitoriali (in una sorta di circolo autoperpetuantesi, così come descritto da Fromm-Reichmann,Bowlby, Main, Holmes e molti altri), le cui conseguenze tuttavia vengono poi negate per mezzo di vari meccanismi difensivi, tra i quali occupano un posto centrale l’idealizzazione e la scissione a livello individuale e la minimizzazione a livello familiare.

Gli stadio dello sviluppo della tossicodipendenza e la famiglia del tossicodipendente

Gli autori descrivono minuziosamente gli stadi di sviluppo eziopatogenetico della tossicodipendenza, suddividendolo in 7 stadi:
1° stadio Le famiglie di origine
2° stadio La coppia genitoriale
3° stadio Il rapporto madre-figlio nell’infanzia
4° stadio L’adolescenza
5° stadio Il passaggio al padre
6° stadio L’incontro con le sostanze stupefacenti
7° stadio Le strategie organizzate sul sintomo

In base alla ricerca svolta dagli studiosi circa la famiglia del tossicodipendente, sono stati individuati anche tre sottogruppi di famiglie che presentavano i seguenti aspetti:
-nel primo sottogruppo, che rappresenta la maggioranza delle famiglie, apparentemente c’è un accudimento ineccepibile sul piano formale, mentre è inadeguato su quello sostanziale. Sono presenti esperienze traumatiche non sufficientemente elaborate;
-nel secondo sottogruppo, invece, i genitori risentono delle esperienze deludenti avute con la loro famiglia di origine, ed è presente una strumentalizzazione dei figli da parte dei genitori;
-il terzo sottogruppo riguarda, principalmente, la famiglia del tossicodipendente multiproblematica.

I ricercatori, considerati gli stadi sopra descritti, hanno cercato di mettere in evidenza la possibile esistenza di tre percorsi verso la tossicomania:
-1 percorso : l’abbandono dissimulato;
-2 percorso: l’abbandono misconosciuto;
-3 percorso : l’abbandono agito.

Secondo gli autori, analizzando le differenze tra i tre diversi percorsi eziopatogenetici, “emerge con chiarezza come la caratteristica che meglio qualifica la tossicodipendenza, isolata come comportamento sintomatico a sé stante, sia la componente di abbandono affettivo, in vario grado oggettivabile, sperimentata dal soggetto all’interno del percorso relazionale familiare.”

Relazione tra tossicodipendenza e disturbi di personalità

Interessanti gli approfondimenti sulla comorbidità tra tossicodipendenza e disturbi di personalità riportati nel testo, per sottolineare che l’operatore, quando si trova di fronte a manifestazioni tossicomaniche concomitanti a disturbi psicotici, o a comportamenti antisociali all’interno di un tessuto di marginalità sociale, ha meno problemi a farsi una ragione della presenza della droga. Le tossicodipendenze che risultano invece ascrivibili al percorso 1 (la stragrande maggioranza quindi), invece, suscitano maggiori perplessità, dal momento che i soggetti che presentano il sintomo appaiono spesso affetti unicamente da problemi di droga all’interno di contesti familiari e sociali del tutto “normali”, e non infrequentemente sono addirittura inseriti in ambiti lavorativi o approdati a relazioni affettive extrafamiliari sufficientemente stabili.

Tuttavia ad un’indagine più approfondita, traspare la difficoltà, da parte di questi soggetti, a superare forti conflitti interni relativi all’ambivalenza degli affetti (strutture nevrotiche di personalità) o ad affrontare un processo di integrazione di affetti scissi e contrapposti (strutture di personalità borderline). Tali pazienti, secondo gli autori, tendono a utilizzare la droga con lo scopo autoterapeutico di proteggersi dalla sofferenza che inevitabilmente insorgerebbe nel momento in cui dovessero affrontare la conflittualità nevrotica o integrare le componenti affettive scisse e inconciliabili.

 

Lettere tra C.G. Jung e Victor White, a cura di A. C. Lammers e A. Cunningham – Recensione

L’importanza del dialogo a distanza con Victor White è legata alla sua identità di teologo cattolico, che orienta il contenuto delle lettere sul rapporto tra psicologia e religione, argomento chiave nel percorso teorico junghiano. Se infatti per Freud la religione è illusione, per Jung essa riveste un profondo significato nell’esistenza umana.

 

Negli ultimi anni si è assistito a una sorta di Jung-Renaissance italiana (ma non solo) che ha condotto alla disponibilità nel nostro paese di numerosi volumi ascrivibili allo psicologo svizzero ma non compresi nelle pur abbondanti Opere pubblicate da Bollati Boringhieri. Oltre al Libro rosso, che ha attratto l’attenzione di un pubblico anche non specializzato per la sua singolare componente iconografica, sono stati pubblicati di recente anche i Seminari sullo Zarathustra di Nietzsche (4 voll.) e sui Sogni dei bambini (2 voll.) che affiancano quelli da più tempo disponibili sui Sogni e sullo Yoga Kundalini (tutti editi da Bollati), oltre a quelli sulla Psicologia analitica (il primo tenuto da Jung, nel 1924), sulla Visione, sull’Ombra (editi invece da Magi).

Anche la disponibilità degli epistolari si è allargata: oltre alle fondamentali Lettere tra Freud e Jung, pubblicate negli anni ’70 e mai fuori disponibilità, sono state recentemente ristampate le Lettere di C. G. Jung (3 voll., a vari corrispondenti), ritradotte le Lettere tra Jung e Pauli e infine pubblicate per la prima volta le Lettere tra C. G. Jung e Victor White, oggetto di questa recensione. Certamente non si deve sottovalutare l’importanza della raccolta delle Lettere di C. G. Jung, che contengono spunti e anticipazioni sulle opere edite e specifiche opinioni espresse dallo psicologo svizzero su temi diversi. Peraltro si tratta di un “ritratto realizzato dal pittore di corte” (Lemmers, 2007, p. 39): sia perché sono presenti solo le lettere di Jung e non quelle dei suoi interlocutori, sia perché la prosa junghiana originale è stata modificata dai curatori a fini estetici e non scientifici. La maggior parte delle lettere furono infatti redatte in inglese da Jung, che non era madrelingua, e contengono elementi idiosincratici la cui eliminazione, se rende forse più letterario il risultato, potrebbe comportare anche la perdita di contenuto.

Gli scambi epistolari con Freud, Pauli e White costituiscono invece altrettante occasioni per illuminare da tutti i lati dialoghi con figure culturalmente molto significative del Novecento. Non vale la pena neanche di accennare all’importanza specifica delle lettere scambiate con Freud, che hanno chiarito diversi aspetti prima oscuri del rapporto tra i due. Delle lettere con Wolfgang Pauli, uno dei più importanti fisici della sua generazione, si è già parlato qui su State of Mind.

L’importanza del dialogo a distanza con Victor White è legata alla sua identità di teologo cattolico, che orienta il contenuto delle lettere sul rapporto tra psicologia e religione, argomento chiave nel percorso teorico junghiano. Se infatti per Freud la religione è illusione, per Jung essa riveste un profondo significato nell’esistenza umana. Il fondatore della psicoanalisi sognava un mondo definitivamente affrancato dalle credenze religiose, da lui ritenute un fardello frutto di un tentativo dell’umanità di trovare un sostituto paterno. Il teorico della psicologia analitica, al contrario, ritiene la religione un’esigenza autentica, archetipica, e cerca piuttosto di interpretarne il contenuto in chiave positiva. In ogni caso, secondo Junguna terapia a orientamento puramente biologico non è sufficiente e richiede un completamento spirituale” (Jung, 1952a, p. 288).

In quest’ottica, singolarmente, Jung trovò un interesse relativamente marginale tra i protestanti, pur essendo egli stesso luterano e figlio di un pastore. “I teologi protestanti” scriveva infatti Jung proprio a White, nel 1945, “ancora non hanno deciso se condannarmi in quanto eretico, o sminuirmi definendomi un mistico. Come saprà, gli eretici e i mistici godono entrambi di una pessima reputazione tra i protestanti, perciò ormai il mio caso è senza speranza” (Lammers e Cunningham, 2007, p. 49). Al contrario, le sue opere ricevettero grande attenzione da parte cattolica. Alcuni teologi ritennero che il suo pensiero potesse essere armonizzato con la fede: tra di essi Hugo Rahner (fratello maggiore del più famoso Karl e più volte presente ai convegni di Eranos) e appunto Victor White. Altri invece, soprattutto in Italia, videro subito in Jung un potenziale pericolo per il Cattolicesimo e ne stigmatizzarono il pericolo: esempi famosi di questa tendenza furono Pintacuda (1965) e Gemelli (1953).

White giunse al punto di pubblicare un libro, dedicato a una lettura in chiave teologica della psicologia analitica, dal titolo Dio e l’inconscio, per il quale lo stesso Jung scrisse una prefazione. Jung, peraltro, si dimostra ben cosciente che “la via che conduce a un punto di incontro [tra psicologia e religione] è troppo lunga e anche troppo difficile perché possa sorgere senz’altro un’intesa” (Jung, 1952a, p. 290). White, in effetti, riteneva che la psicologia analitica potesse essere armonizzata con il pensiero neotomista. In questo senso il dialogo era destinato a naufragare fin da principio, soprattutto per la diversità di vedute su una questione della massima importanza sia per la teologia che per la psicologia: il problema della presenza del male nel mondo.

Per il neotomista White, il male non è che privatio boni, assenza del bene, ed è impossibile ricondurne il manifestarsi nel mondo all’intenzione divina. Al contrario, dal punto di vista di Jung il male ha un’identità positiva, sia sul piano umano che su quello divino. Nell’uomo, l’Ombra, la personificazione degli aspetti negativi dell’uomo, riveste un ruolo fondamentale nel processo di individuazione, ovvero in quel percorso che conduce l’essere umano a esprimere tutte le sue potenzialità. In ambito teologico, Jung è talmente lontano dal concepire il male come privatio boni, da proporre persino l’idea che Satana possa costituire il quarto membro della divinità cristiana. Lo psicologo svizzero, infatti, si era convinto che la storia del pensiero occidentale dimostrava l’esigenza (psicologica) di passare da un Dio trinitario a un Dio quaternitario. Il Demonio sembrò allora in un primo tempo a Jung il personaggio più adatto da cooptare tra le Persone divine (Jung, 1942/1948, p. 183 e p. 190). Allorché, tuttavia, la Chiesa decise la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria Vergine, Jung ritenne che in qualche modo questo passo sancisse la divinità della Madonna (Jung, 1951): la Quaternità era stata ottenuta per un’altra via.

Oltre alla questione del male, un’altra idea junghiana costituì un elemento di forte contrasto con la teologia ufficiale. Jung, infatti, sostenne in Risposta a Giobbe (1952b) che Dio, prima della creazione del mondo, doveva essere sostanzialmente inconscio, e solo attraverso l’uomo avrebbe raggiunto la piena autocoscienza. Il pensiero religioso di Jung si rivelava quindi definitivamente come incompatibile con la teologia classica e lo psicologo svizzero accettò su di sé senza obiezioni l’etichetta di eretico che diversi critici gli affibbiarono, anche se negò vibratamente di poter essere definito uno gnostico (Jung, 1952c, p. 463). Si capisce quindi come i contatti con un cattolico, per quanto aperto, come White dovettero raffreddarsi molto, anche se non si fermarono del tutto fino, in pratica, alla morte del più giovane teologo, nel 1960.

Sembra necessario segnalare una svista nell’edizione italiana, che genera equivoci nella comprensione di alcuni passi delle lettere tradotte. L’opera di Jung Trasformazioni e simboli della libido (Wandlungen und Symbole der Libido, 1912) viene più volte (Lammers e Cunningham, 2007, pp. 51 e nota, 52, 65, 84) menzionata erroneamente con il titolo Psicologia dell’inconscio, (cui corrisponde invece Über die Psychologie der Unbewussten, 1943). L’equivoco è generato dalla circostanza per cui Trasformazioni e simboli della libido è noto in inglese come The Psychology of the Unconscious: A Study of the Tranformations and Symbolisms of the Libido, mentre il titolo inglese del testo tradotto in italiano come Psicologia dell’inconscio è On the Psychology of the Unconscious. In effetti, Trasformazioni e simboli della Libido, nella sua versione originale, non è presente nelle Opere di C. G. Jung, dove invece è tradotta, al volume 5, l’edizione definitiva (Jung, 1952d), dal titolo originale Symbole der Wandlung). Psicologia dell’inconscio è invece collocata nel volume 7. Vale la pena di chiarire tutto ciò al fine di emendare la altrimenti incomprensibile nota 14 a p. 51, in una eventuale seconda edizione del volume delle Lettere tra C. G. Jung e Victor White.

 

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