expand_lessAPRI WIDGET

Il processo decisionale in Tribunale: cosa guida il ragionamento del giudice?

Al di là di quello che immaginiamo debba essere il giudice e come debba mettere in atto il suo processo decisionale in Tribunale, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Giada Fratantonio

 

Essere giudice: tra il ruolo e la persona

L’etimologia della parola “giudice” è da ricercarsi nella lingua latina: iudex, iudicis, orig. ‘colui che pronuncia (da dicere) la formula religiosa di giustizia (ius, iuris)’.

Partendo da qui e pensando a quello che a tanti evoca il termine stesso, non si sbaglia se si dice che il giudice, dall’alto del suo seggio, è sempre stato percepito come portatore sano di razionalità ed imparzialità, caratteristiche che istintivamente si possono attribuire a quella giustizia, che come una formula, il giudice dovrebbe possedere ed essere in grado di restituire.

Al di là di quello che sappiamo o che immaginiamo debba essere il giudice, riflettendo sulle sue caratteristiche, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, che fa il suo ingresso nelle aule del Tribunale con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Si tratta di fattori che solitamente non si palesano, ma guidano, stando un po’ in sordina, le trame del ragionamento che sfocerà nella decisione finale.

Quando la distanza tra la verità storica e la verità processuale diventa significativa, il giudice tenderà ad affidarsi, in maniera automatica, ai propri pregiudizi, alle proprie inclinazioni personali, al proprio sistema di credenze.

È nell’esperienza di tutti noi che il prendere decisioni non è cosa semplice, dalla banalità di scegliere un capo da indossare la mattina al decidere se sposare o meno una persona, etc etc, e ci viene incontro anche la scienza, dimostrando come molto spesso dietro giudizi apparentemente razionali e ponderati, si nascondano in realtà errori cognitivi e fallacie di non facile individuazione.

Alla difficoltà propria dell’essere umano, quale appunto è il giudice, si aggiunge, all’interno del contesto giudiziario, la difficoltà connessa alla variabilità dei dati e all’estrema eterogeneità dell’ambiente in cui le decisioni devono essere prese.

Come funziona il processo decisionale del giudice

Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1978, disse che il processo decisionale è un’attività cognitiva in cui vengono attivati meccanismi volti alla selezione di un corso d’azione tra quelli possibili, che consenta di ottenere un risultato soddisfacente (Simon 1956). I meccanismi coinvolti nella presa di decisione sono del tutto analoghi a quelli implicati nella soluzione dei problemi, ma in quest’ultimo caso non viene selezionata un’alternativa bensì viene generata una strategia idonea al raggiungimento dello scopo indicato dal solutore.

Secondo Simon (1976) tale processo decisionale consta di tre fasi principali. La prima è quella in cui avviene la raccolta di informazioni sul contesto del problema; la seconda fase riguarda l’esplorazione e l’analisi delle formulazioni alternative del problema; la terza consiste nella selezione della situazione problematica che dovrà essere risolta.

Più recentemente (Bonini-Rumiati 1992) sono state meglio articolate le fasi del processo decisionale. La decisione prevede una fase di diagnosi, corrispondente ad una sorta di categorizzazione del problema, una fase di strutturazione o di editing del problema decisionale, in cui il decisore si fa un’idea più precisa riguardo alle possibili azioni da intraprendere, una fase di elaborazione in cui vengono messi in atto quei processi che permettono di adottare le modalità di soluzione del problema decisionale, infine, la scelta e il controllo delle conseguenze della scelta medesima. Analisi, quindi, che ben si adatta all’esame di una situazione cognitivamente complessa come il processo penale.

Le distorsioni nel processo decisionale in tribunale: il ruolo delle euristiche

Nel volume curato da Kahneman, Slovic e Tversky (1982) “Judgment under uncertainly. Heurustics and biases”, viene posto in rilievo il fatto che le prestazioni dei decisori, siano essi ingenui o esperti, non corrispondono alle procedure formali prescritte che dovrebbero garantire un giudizio o una scelta razionali. In termini molto generali, ciò si verifica proprio per il fatto che il sistema cognitivo non consente di trattare tutte le informazioni necessarie e di aggregarle in maniera corretta.

In tal modo si osservano degli errori sistematici (biases) o “illusioni cognitive”. Gli elementi di ogni illusione cognitiva sono:

  • Una regola formale che specifica come determinare una risposta corretta ad una domanda intellettiva;
  • Un giudizio, eseguito senza l’aiuto di strumenti fisici, che risponde all’interrogativo;
  • Uno scarto sistematico tra risposta corretta e giudizio espresso.

Un esempio di trappola cognitiva è dato dall’insensibilità alla “frequenza di base”, da cui discende l’euristica della rappresentatività.

Gli individui, quando devono fare delle previsioni, possono agire in due modi: o fondano i propri giudizi a partire dalla frequenza con la quale è stato osservato l’esito critico (analisi delle serie storiche), oppure facendo ricorso ad un qualche dato specifico relativo al caso in esame (Tversky-Kahneman 1982).

Ad un’attenta analisi si può vedere come gli individui tendano ad incappare nell’euristica della rappresentatività per cui le stime di un certo evento dipendono dal grado con cui esso è simile nelle sue caratteristiche essenziali alla categoria di appartenenza oppure riflette le caratteristiche salienti da catturare l’attenzione dei soggetti da indurre questi ultimi a pensare che la testimonianza nel processo venga resa in un modo simile a quello in cui i risultati della prova del testimone sono stati generati.

Negli anni settanta del secolo scorso gli studi degli psicologi cognitivi Amos Tversky e Daniel Kahneman dimostrarono che, nell’adozione di decisioni complesse, ogni individuo fa ricorso a precise strategie, definite “euristiche”.

Un esempio di euristica, applicabile al mondo della giustizia, è stato documentato da uno studio di ricercatori dell’Università di Trento che hanno dimostrato l’esistenza di una tendenza dei giudici donna a liquidare in favore delle mogli somme maggiori, a titolo di mantenimento, rispetto a quelle liquidate ai mariti (C. Bona, B. Bazzanella, 2008).

Si è parlato della cosiddetta euristica della disponibilità che condiziona le decisioni sulla base della salienza degli eventi cioè del loro grado di rilevanza nel ricordo del soggetto. Sarebbe dunque la disponibilità di esempi nella mente del decisore a condizionare le decisioni medesime; è quindi più facile per un giudice di sesso femminile crearsi o recuperare nella memoria l’immagine di una donna in difficoltà piuttosto che non quella di un uomo.

Sistemi e stereotipi nel processo decisionale in ambito giuridico

Due diversi sistemi presiederebbero il processo decisionale degli individui: un Sistema 1 o Sistema Euristico ed un Sistema 2 o Sistema Analitico (M. Mortellini, F. Guala, 2011).

Il primo dei due opererebbe con modalità rapide, intuitive, impulsive, associative ed automatiche, difficili da controllare o modificare, non particolarmente impegnative in termini di sforzo razionale. Il secondo implicherebbe processi consapevoli più ponderati, più lenti e quindi più faticosi. Si ricorre sempre a quest’ultimo quando si affronta un calcolo matematico, quando si deve risolvere un problema che implica una serie di passaggi procedurali. Si ricorre, invece, al primo di tutti gli altri casi e ciò è particolarmente evidente nel cosiddetto ragionamento esplorativo dove si salta velocemente alle conclusioni.

Nel processo decisionale, la tendenza in tutti noi, infatti, è quella di avvalerci del Sistema Euristico, come primo approccio e questo comporta inevitabilmente più errori ed imprecisioni. Tale modalità nel decidere è pervasa dall’enorme influenza delle impressioni di natura intuitiva, inconscia ed automatica. Se lo riteniamo necessario, in un secondo momento dello stesso processo decisionale, utilizziamo il Sistema Analitico, fondato sui criteri della logica formale e destinato ad introdurre elementi più affidabili di giudizio. La maggior parte dei nostri errori decisionali infatti il prodotto dei giudizi intuitivi del Sistema 1 che non sono passati al vaglio del Sistema 2.

Nonostante il Sistema 2 cerchi di giustificare ex post la “razionalità” dei nostri comportamenti, la maggior parte di questi è determinata dal Sistema 1.

E poi ci sono gli stereotipi. Questi possono entrare facilmente in campo anche quando, in sede giudiziaria, si devono prendere delle decisioni e diventano addirittura fattori condizionanti nella valutazione delle prove e nella ricostruzione del fatto oggetto del giudizio. In particolare è stato studiato il ricordo dei dati probatori a favore o a sfavore della colpevolezza di un imputato, a seconda della sua appartenenza etnica, e l’influenza che tale ultimo fattore può avere sul modo in cui i giurati emettono il verdetto finale. Ne è dunque emerso che tutti, in modo inconsapevole, ed a prescindere da fattori di carattere ideologico, venivano condizionati dallo stereotipo come modalità di semplificazione del giudizio. Usavano lo stereotipo come fattore aggregante attorno al quale venivano verificate le prove che fossero coerenti con esso ed erano trascurate sistematicamente le evidenze processuali che lo disconfermavano (G.V. Bodenhasen, M. Lichtesnstein, 1987). Insomma una sorta di “cecità attentiva” nei confronti dei riscontri probatori che potevano falsificare il fondamento del loro pregiudizio etnico che, nello specifico, era rivolto a soggetti di origine ispanico-americana.

Il processo decisionale nel giudice

Quanto precedentemente detto per far capire come anche nel mondo della giustizia come nella realtà quotidiana, scorciatoie di pensiero piuttosto che pregiudizi o background del giudice possono influenzare prepotentemente i suoi processi di ragionamento, ma questo avviene anche per sentimenti ed emozioni.

Troviamo il magistrato analitico, il quale, relatore di un processo, mette in evidenza particolari così minuti da stupire l’avvocato più attento, ma, quando va a formulare il suo giudizio, è deviato da queste dispersioni di attenzione sui punti fulcrali. In questo caso la capacità di comprendere non può confondersi con la capacità a giudicare, proprio perché alcuni soggetti, inclini all’indagine analitica, pur arrivando all’esatta individuazione degli elementi compositori di un avvenimento, non sanno poi graduare gli stessi nella loro importanza così da comporli in un quadro armonico. L’analisi, in questi soggetti, rappresenta un fattore meccanico e superficiale di selezione degli elementi, priva di una loro valorizzazione intelligente che consenta la ricomposizione in una sintesi comprensiva delle circostanze salienti.

Vi è poi il magistrato sintetico che ha la tendenza alla generalizzazione e che è spesso portato a confondere le analogie con le identità.

Giudicare significa pervenire al convincimento attraverso due processi principali: l’analisi, con la scomposizione di tutti gli elementi che vengono assunti, e la sintesi, con l’assimilazione di questi elementi. Dalle percezioni dei fatti, degli avvenimenti, da una loro analisi, da un loro coordinamento, il giudice, attraverso un lavoro di sintesi, perviene alla sentenza.

Nel nostro sistema giuridico (sistema accusatorio) la prova si forma durante il processo. Non si tiene però conto del fatto che il Giudice d’appello comincia molto prima, fuori addirittura dalle regole del gioco processuale, a formarsi una sorta di convincimento. Nel processo d’assise poi il Giudice togato è un giudice che ha una velocità di accesso ai documenti e una possibilità di ispezione dai documenti stessi che non è in concreto, né lo può essere, uguale a quella degli altri sei giudici popolari. Quindi, non solo vi è una pre-cognizione del processo, ma vi sono tra gli stessi giudici (popolari e laici) corsie differenziate di accesso all’informazione che diventano spazi di divaricazione a forbice nella conoscenza, anche in relazione alla dimensione del processo stesso e alla lontananza del Giudice popolare d’assise d’appello dalla sede di giudizio.

C’è poi un ulteriore punto da prendere in considerazione e cioè i rapporti tra opinione pubblica e sentenza: allorquando le sentenze sono in buona consonanza con le opinioni del pubblico, la reputazione dell’amministrazione della giustizia cresce e sulle persone giudicate pesa, oltre che la stigmatizzazione del sistema, la squalifica sociale (Lanza 1988).

Al contrario, però quando il giudice perde il contatto con il popolo e non c’è più questa armonizzazione tra cultura del buon senso e decisione giudiziaria, il sistema repressivo si svilisce e i perseguiti diventano perseguitati e vittime.

Gli individui, nessuno escluso, decidono prima maturando la decisione, poi argomentandola. E così farebbe anche il magistrato del Pubblico Ministero, il quale intuitivamente decide, e poi, a posteriori, cerca di validare la fondatezza del giudizio con argomenti che spesso forzano le evidenze processuali. Il meccanismo è quasi automatico e comunque involontario.

Il magistrato del Pubblico Ministero si fa quindi già un’idea, prende dentro di se, in maniera inconscia una decisione, sentendo le dichiarazioni rilasciate dai vari individui chiamati a testimoniare e poi, va alla ricerca di elementi che possano corroborare la sua ipotesi di partenza, in maniera da poter argomentare la sua decisione.

Arriviamo al cosiddetto “bias egocentrico”, che è  determinato dalla tendenza della gente a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze durante un processo decisionale.

Così anche i giudici spesso pensano di essere in grado di prendere decisioni meglio di quanto siano veramente in grado di farlo.

Interessante è lo studio di Guthrie, Rachlinski, Wistrich (2001) che chiedevano a dei giudici quanto ritenevano probabile il rovesciamento in appello della sentenza dagli stessi emessa.

I partecipanti nel 56% dei casi fornivano una stima che si collocava nel quartile più basso e il 31% dei casi si collocava nel secondo quartile più basso. Appena il 7,7% dei partecipanti si collocava nel secondo quartile più alto e il 4,5% al quartile più alto. Quindi circa l’87% dei giudici partecipanti manifestava il bias egocentrico.

Si capisce quindi quanto possa essere difficile scardinare un’idea iniziale per il magistrato del Pubblico Ministero, una volta che questo si è creato tale idea, magari utilizzando delle euristiche e partendo dalle prime dichiarazioni rilasciate dai teste coinvolti in un processo. Dopotutto questo è perfettamente in linea con il concetto di “risparmio cognitivo”, quel risparmio che il nostro sistema cerca sempre di mettere in atto, per il quale è più semplice cedere alle lusinghe della certezza che non arrovellarsi alla ricerca di qualcosa che mini le nostre convinzioni di partenza.

Sutherland, studioso inglese, dice che la razionalità di una decisione dipende dalla completezza del quadro conoscitivo di chi la prende (Sutherland S., 2010).

Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti durante un processo decisionale, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni.

Si apprezza, allora ed ancor di più, il valore fondamentale dell’obbligo di motivazione della decisione giudiziaria (Sutherland S., 2010).

E’ in forza della motivazione che la decisione del magistrato del Pubblico Ministero risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. E’ sempre in forza della motivazione che il giudice dà conto del suo sapere, anche solo opinabile e probabile, ma proprio per questo confutabile e controllabile non solo dall’imputato, ma anche dalla società (Forza A., 2011).

La rabbia, un’emozione intensa: l’intervento in ottica cognitivo-comportamentale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Elena Santoro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’emozione di rabbia: conseguenze negative e aggressività

La rabbia è una delle sette emozioni di base, un’emozione universale che appartiene all’esperienza umana comune e condivisa a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La ricerca condotta negli ultimi tre decenni ha mostrato che essa però può essere problematica e divenire disfunzionale (Averill, 1983; Plutchik, 1980).

DiGiuseppe e Tafrate (2007) hanno definito la rabbia:

Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo (p. 21).

In letteratura il termine rabbia e quello di aggressività sono stati spesso utilizzati in modo interscambiabile, anche se essi non coincidono sempre.

La rabbia, come descritto sopra, è uno stato emotivo mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. L’aggressività coincide con l’attacco fisico e verbale mentre la rabbia con il forte sentimento di malessere rappresentando la faccia soggettiva dell’aggressività. La rabbia può esitare in comportamenti aggressivi (ad es. urlare, lanciare oggetti) e di certo aumenta la probabilità di metterli in atto (Anderson & Bushman, 2002). Questi comportamenti a loro volta possono portare a esiti negativi, come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche. Dunque, le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno una probabilità maggiore di incorrere in esiti negativi (Deffenbacher, Oetting, Lynch, & Morris., 1996).

La violenza rappresenta l’esempio più drammatico delle conseguenze negative della rabbia, la forma di gestione più distruttiva (Korn & Mùcke, 2001). Detto ciò, però, l’emozione di rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi in assenza di rabbia (ad es. nel caso di una rapina in cui l’aggressione è puramente strumentale). Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive: una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Averill (1983) in uno studio sulle cause e sulle conseguenze della rabbia con studenti universitari scoprì che solo il 10% delle 160 esperienze di rabbia sfociava in aggressioni o punizioni fisiche, il 49% in aggressioni verbali mentre nel 60% dei casi in risposte non aggressive (es. parlare dell’accaduto).

L’emozione di rabbia sia che sfoci in azioni aggressive e violente sia che permanga a livello soggettivo come esperienza emotiva duratura e persistente,  si associa spesso a una serie di avverse conseguenze a livello psicologico e sulla salute fisica. L’esperienza personale di rabbia è di solito descritta come sgradevole (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002) e problematica (Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005). Infatti, le persone irritate sono più propense a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002), ad esercitare una scarsa capacità di giudizio (Kassinove, Roth, Owens, & Fuller 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile (Deffenbacher, 2000).

McDermut e colleghi (2009) hanno indagato in uno studio con 1.687 pazienti l’associazione tra il tratto elevato di rabbia (HTA) e i disturbi di Asse I (SCID). Il 35,2% dei partecipanti con HTA non aveva però ricevuto alcuna diagnosi di disturbo in Asse I associato con rabbia/aggressività (PTSD, BDI, BPII- Bipolarismo II, GAD- Disturbo di ansia generalizzato) né Disturbo Borderline di Personalità (BDP) o Disturbo Antisociale di Personalità (ASPD). Nonostante ciò, la rabbia rappresentava uno degli indicatori principali della compromissione psichiatrica e del funzionamento psicopatologico dei pazienti, spiegandone una percentuale significativa di varianza.

Infine, la letteratura documenta una forte associazione tra alti livelli di rabbia e problemi di salute, in particolare ipertensione e malattia coronarica (Suls & Bunde, 2005).

La rabbia: un costrutto multi-dimensionale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Novaco (1978, 1997) e Howels (1998) descrivono la rabbia come un costrutto multi-dimensionale costituito da diversi domini: fisiologico (attivazione generale), cognitivo (pensieri automatici, credenze, immagini), fenomenologico (consapevolezza soggettiva, etichettamento) e comportamentale (il linguaggio del corpo, le espressioni facciali). Queste dimensioni interagiscono tra loro influenzando l’esperienza individuale di rabbia (o la sua assenza).

Le modificazioni fisiologiche consistono in un’accelerazione del battito cardiaco, nell’aumento della tensione muscolare, nella sensazione soggettiva di calore e irrequietezza; tali modificazioni sono dovute all’attivazione del sistema nervoso autonomo e predispongono l’individuo all’azione.

Per quanto riguarda invece la manifestazione comportamentale della rabbia a livello mimico e corporeo è simile a quella osservata negli animali. Gli studi di Ekman e Oster (1979) hanno dimostrato che l’espressione facciale della rabbia è simile e facilmente riconoscibile in persone di culture molto diverse. I cambiamenti del volto comprendono: l’aggrottare violento delle sopracciglia, lo scoprire e digrignare i denti, lo stringere le labbra mentre gli occhi appaiono lucidi.

La dimensione cognitiva gioca un ruolo prioritario nell’esperienza di rabbia, infatti i pensieri negativi che si attivano automaticamente nell’individuo in risposta a un evento/stimolo rinforzano le emozioni negative sfociando talvolta in azioni distruttive (Beck, 1999). Già Izard nel 1977 aveva identificato come possibili cause della rabbia alcuni sentimenti, pensieri ed eventi: essere trattati male, costretti a fare qualcosa contro la propria volontà, essere abbandonati, venire delusi, essere traditi, sapere di essere odiati, essere oggetto di attacchi fisici o verbali, essere criticati, sentire di aver fallito, vedere andare male i propri progetti, assistere ad azioni stupide o violente e fare qualcosa che non viene apprezzato. La variabile cognitiva è determinante nell’esperienza e nell’espressione della rabbia in quanto è una risposta emotiva ad uno stimolo che viene percepito e dunque interpretato dall’individuo come provocatorio (Novaco, 1975).

La rabbia si attiva quando l’individuo interpreta un evento come ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo o quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto, un danno (D’Urso & Trentin, 2001). La rabbia rappresenta un segnale di allarme, indica la presenza di un ostacolo al raggiungimento degli scopi che l’individuo si prefigge o la violazione dei suoi diritti. In altri casi, la rabbia ha la funzione di avvisare della presenza di una minaccia all’autostima, all’immagine sociale e alla possibilità di essere vittima di un’ingiustizia, in modo tale da poterla affrontare ed eliminare alla fonte. Averill (1982) ritiene che le valutazioni del soggetto circa la responsabilità, intenzionalità e consapevolezza attribuite alla persona che compie l’azione ingiusta vadano ad incrementare il senso di ingiustizia e con esso l’emozione di rabbia.

La rabbia si attiva tutte le volte che si pensa di aver subito un torto ed esso è ritenuto: intenzionale, malevolo, immotivato e compiuto da una persona indesiderabile. Ci si arrabbia raramente nei confronti di oggetti e più di frequente verso le persone proprio perché attribuiamo loro la consapevolezza e la volontà di arrecare un danno (Averill, 1982). Inoltre, in linea con la teoria dell’inferenza corrispondente (Jones & Davis, 1965; Jones & Harris, 1967) e l’errore fondamentale di attribuzione (Ross, 1977) le persone tendono a rintracciare le cause del comportamento altrui (ingiusto o dannoso) nelle loro disposizioni e nelle caratteristiche di personalità, sottovalutando invece i fattori situazionali. Ciò porta le persone a compiere attribuzioni interne di colpa e responsabilità più spesso che esterne, anche quando sono evidenti le potenziali cause situazionali e contingenti.

Diversi studi empirici confermano che le persone che sperimentano elevati livelli di rabbia e aggressività in effetti, tendono a fare attribuzioni più negative e ostili rispetto alle persone non violente o non aggressive (James & Seager , 2006; Moore, Eisler & Franchina, 2000; Witte, Schroeder & Lohr, 2006).

Il trattamento della rabbia in ottica cognitivo-comportamentale

L’assunto fondamentale della psicoterapia cognitiva, postulato per la prima volta negli anni 60’ da Beck (1967) e Ellis (1962), sostiene che le rappresentazioni mentali del paziente (pensieri automatici, credenze e schemi cognitivi) spiegano il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. I disturbi emotivi vengono spiegati tramite l’analisi delle relazioni fra pensieri, emozioni e comportamenti. Le distorsioni di tipo cognitivo influenzano le reazioni emotive che causano sofferenza alla persona e ne perpetuano il disagio. La patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali (Mancini & Perdighe, 2008).

Le emozioni di base, fra cui la rabbia, sono filogeneticamente determinate, hanno una base innata e una funzione adattiva, tuttavia possono diventare causa di sofferenza quando la loro intensità è molto elevata e si protrae nel tempo. La rabbia diviene disfunzionale per la persona se la sua manifestazione ne compromette le relazioni sociali o la spinge a compiere azioni dannose verso sé, gli altri, oppure verso cose. Lo stato emotivo e la relativa sofferenza sono determinati dal significato che la persona attribuisce agli eventi, infatti, come già anticipato, la persona prova rabbia nel momento in cui percepisce e dunque interpreta un determinato evento come un torto subito o una violazione dei suoi diritti.

Alla luce di quanto detto, la psicoterapia cognitiva utilizza come strumento principale di cambiamento l’intervento sulla variabile cognitiva. Lo scopo della terapia è aiutare il paziente in primis, a riconoscere i pensieri automatici negativi e i processi cognitivi disfunzionali che si attivano in lui (maggiore consapevolezza) e poi, a modularli e modificarli. L’intervento cognitivo ha l’obiettivo di insegnare al paziente sia a riconoscere sia a disputare i pensieri, le credenze e le interpretazioni da cui hanno origine i comportamenti problematici e la sua sofferenza psicologica.

Diversi studi sul trattamento di problemi connessi alla rabbia e all’aggressività hanno confermato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Lipsey, 2009; Litschge, Vaughn, & McCrea, 2010; Özabaci, 2011). La CBT utilizza diverse tecniche per intervenire e modificare i processi cognitivi e i comportamenti del paziente (Beck, 2011). Queste tecniche si focalizzano sul riconoscimento delle distorsioni e dei bias cognitivi da parte del paziente, in combinazione con l’apprendimento di cognizioni adeguate (Landenberger & Lipsey, 2005). Infatti, il lavoro in terapia rinforzato dagli homework a casa sollecita il paziente a riconoscere la catena di pensieri (B) e reazioni emotive e comportamentali (C) che si attivano in situazioni diverse (A), in relazione a stimoli esterni o interni (modello A-B-C di Ellis). Il paziente è poi incoraggiato dal terapeuta a disputare i pensieri automatici negativi e disfunzionali, le credenze rigide e generalizzate con cui interpreta le situazioni e gli eventi verificandone la veridicità, la giustificabilità (confronto con i dati di realtà) e la loro utilità. La parte finale della terapia in genere comporta la generazione di credenze alternative a quelle ormai riconosciute dal paziente come disfunzionali e la loro messa in pratica nelle situazioni in cui vengono percepite delle provocazioni.

Gli interventi per la gestione della rabbia si focalizzano sul modo in cui i pazienti percepiscono le provocazioni interpersonali e spesso promuovono la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro in modo tale che non venga percepito come ostile o colpevole (Day, Howells, Mohr, Schall & Gerace, 2008). Il perspective taking è uno dei processi cognitivi centrali coinvolti nell’empatia e i deficit di perspective taking rappresentano target importanti per il trattamento di coloro che commettono atti violenti (Jolliffe & Farrington, 2004; Zechmeister & Romero, 2002).

Nello studio di Mohr et al. (2007) il perspective taking è stato identificato come predittore sia della rabbia di tratto sia della modalità di espressione e di controllo della rabbia. Coloro con maggiori capacità di perspective taking manifestavano meno la rabbia all’esterno, minori strategie di sopressione mentre facevano un maggiore uso di strategie adattative di controllo. Dunque, la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro sembra essere associata non solo ad una minore espressione delle emozioni di rabbia a livello comportamentale e ad una minore tendenza a reprimere negativamente la rabbia, ma anche a risposte più adattative per la sua risoluzione.

Spesso, a supporto del lavoro sulla dimensione cognitiva, vengono insegnate al paziente tecniche di rilassamento per controllare l’eccitazione fisiologica (DiGiuseppe & Tafrate, 2003). Le tecniche di rilassamento e/o la mindfulness associati al protocollo CBT sembrano rendere ancora più efficaci gli interventi per problemi connessi alla rabbia e all’aggressività (Deffenbacher, 2011; Pellegrino, 2012).

Inoltre, si propongono ai paziente training sulle abilità di problem solving e l’identificazione di comportamenti alternativi, ad esempio attraverso il role playing (Blake & Hamrin, 2007; Landenberger & Lipsey, 2005; Sukhodolsky, Kassinove, & Gorman, 2004).

Per concludere, la letteratura scientifica ha verificato che la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta l’approccio di elezione per la gestione e il trattamento dei problemi connessi alla rabbia; infatti, diverse meta-analisi hanno identificato un effect size moderato (Beck & Fernandez, 1998; Del Vecchio & O’Leary, 2004; DiGiuseppe & Tafrate, 2003; Sukhodolsky, Kassinove & Gorman, 2004). Ad esempio, la meta-analisi di Beck e Fernandez (1998) sull’efficacia degli interventi di terapia cognitivo-comportamentale sulla rabbia, ha indagato 50 studi che includevano 1640 partecipanti tra detenuti, partner o mariti violenti, delinquenti giovani, persone con disabilità intellettive, ma anche studenti universitari con problemi di rabbia. La maggior parte degli studi prevedeva l’uso combinato della ristrutturazione cognitiva e di alcune tecniche finalizzate al rilassamento fisico. Gli autori hanno identificato un effect size moderato (d=0.70) ovvero, un cambiamento positivo e un miglioramento nella gestione della rabbia post-trattamento cognitivo-comportamentale.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva – Report dal seminario di Genova

Sabato 13 Maggio 2017 si è svolto a Genova presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova”dove il dott. Sapuppo ha parlato di “la relazione terapeutica nella terapia cognitiva”.

 

Il concetto di alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica è l’insieme dei processi interpersonali in azione all’interno di una psicoterapia che agiscono in parallelo con le specifiche tecniche di quel particolare tipo di trattamento (Lingiardi, 2002).

Molteplici studi hanno rilevato che la “qualità” dell’alleanza terapeutica risulta essere strettamente correlata all’outcome del trattamento (Priebe & McCabe, 2006). In particolare, una buona alleanza terapeutica è associata all’esito positivo della terapia, indipendentemente dal tipo di trattamento.

Ripercorrendo storicamente il concetto di alleanza terapeutica le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate negli stessi aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912). Rogers (1965) sottolinea in seguito come la percezione dell’empatia dell’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale alla terapia. Si deve però a Orlinsky e Howard (1975) la visione tridimensionale dell’alleanza: si parla di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione mentre qualche anno dopo Bordin (1979) ha definito una tripartizione dell’alleanza terapeutica in obiettivo, processo e legame.

Oltre a quelle precedentemente descritte esistono numerose altre concettualizzazioni dell’alleanza terapeutica e ognuna differisce dall’altra o presenta punti in comune, in base alla teoria dell’autore di riferimento.

Le terapie di matrice psicoanalitica più tradizionali e ortodosse considerano l’interpretazione e il relativo insight come i fattori curativi più importanti o addirittura unici nel trattamento dei pazienti, specialmente di quelli con disturbi nevrotici. Tuttavia, in alcuni modelli terapeutici psicodinamici l’aspetto relazionale è stato affiancato a quello dell’insight; in particolare, i trattamenti che si basano sulle teorie della relazione oggettuale e sulla psicologia del sé hanno rivalutato la funzione della relazione terapeutica in maniera positiva. Attualmente la psicoanalisi si pone la questione circa il valore da attribuire alla relazione terapeutica: essa va considerata come presupposto affinché possa essere efficace l’interpretazione o come fattore terapeutico di per sé? (Lingiardi, 2002). Per la maggior parte degli psicoanalisti contemporanei l’alleanza è considerata importante per entrambe le motivazioni:
1) il paziente sarà maggiormente ricettivo verso le interpretazioni e con più probabilità otterrà l’insight;
2) l’esperienza di una nuova relazione oggettuale positiva può essere di per sé terapeutica.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha attribuito un’importanza crescente al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali (Liotti 1987; Safran e Segal 1990; Safran 1998; Safran e Muran 2000; Gilbert 2000; Leahy 2001; Young et al. 2003; Gilbert e Leahy 2009; Cotugno e Sapuppo, 2012).

In generale, I fattori che in maggior misura determinano la qualità e la solidità della relazione terapeutica sono:
1) il legame affettivo e la collaborazione;
2) la condivisione di obiettivi e compiti;
3) la storia relazionale dei partecipanti.

Come si sviluppa la relazione terapeutica? Gilbert e Leahy (2007) identificano tre fasi principali attraverso le quali si sviluppa la relazione terapeutica:
1) Stabilire la relazione;
2) Sviluppare la relazione;
3) Mantenere la relazione.

Queste fasi devono essere considerate in modo ciclico, in quanto, per esempio, a causa della rottura della relazione potrebbe essere necessario tornare alla prima fase (stabilire la relazione).

Se si assume il fatto che la relazione terapeutica è un fattore trasversale ai vari orientamenti terapeutici, è necessario stabilire in che modo tale fattore è in relazione alle tecniche specifiche di un determinato trattamento, in quanto è proprio il tipo di attività prevista da uno specifico tipo di terapia che necessiterà di una qualità altrettanto specifica di alleanza tra paziente e terapeuta.

Gli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali devono utilizzare le proprie abilità relazionali soprattutto per introdurre, educare e guidare i propri pazienti verso il difficile ma necessario apprendimento delle tecniche cognitivo-comportamentali.
In psicoterapia psicodinamica la buona qualità della relazione terapeutica è fondamentale in particolar modo per favorire l’efficacia delle interpretazioni e, in generale, per sensibilizzare il paziente all’uso della regola fondamentale delle libere associazioni.

In base al modello di alleanza proposto sono state costruite varie scale di misurazione. Ogni scala, dunque, differisce dall’altra proprio perchè misura aspetti e dimensioni propri di quel particolare modello di alleanza.

I principali strumenti utilizzati per “misurare” l’alleanza terapeutica sono: il Penn Helping Alliance (Luborsky e coll.) utilizzato per misurare l’alleanza di tipo 1 e l’alleanza di tipo 2 o il California Psychotherapy Alliance Scales (Marmar, Marziali, Gaston, Weiss) utilizzato per misurare la capacità di lavoro e l’impegno del paziente, il consenso sulla strategia di lavoro, la comprensione e il coinvolgimento del terapeuta. Altri strumenti sono il Working Alliance Inventory (Horwath, Greenberg) che valuta il Legame (Bond), i Compiti (Task) e gli Obiettivi (Goal), il Therapeutic Bond Scales (Orlinsky, Howard, Saunder) che misura invece l’Alleanza di lavoro, la Risonanza empatica e l’Affermazione reciproca e la Vanderbilt Therapeutic Alliance Scale (Hartley, Strupp e coll.) che valuta il Contributo del terapeuta, il Contributo del paziente e l’Interazione terapeuta/paziente.

L’impatto della differenza di genere sulla relazione padre-figlio

La corteccia cerebrale dei padri si attiva in modo differente per le figlie rispetto ai figli di sesso maschile. Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista Behavioral Neuroscience, mostra che il genere di un figlio può influenzare la relazione quotidiana con il padre.

 

Come cambia l’interazione dei papà con i figli maschi e femmine

La maggior parte degli studi precedenti ha esaminato le differenze di genere dei figli in relazione al rapporto madre-figlio. Questo nuovo studio esamina il comportamento del caregiver, comparando i padri di figli e i padri di figlie in situazioni di vita quotidiana e l’attivazione neuronale in risposta alla visione di stimoli raffiguranti i propri bambini.

Jennifer Mascaro, ricercatore post-doc, professore associato di medicina familiare e preventiva presso la scuola di medicina Emory di Atlanta, GA, ha condotto questa ricerca con i collaboratori dell’Università di Emory e dell’Università dell’Arizona a Tucson. Hanno preso parte allo studio 52 padri di bambini, di cui 30 femmine e 22 maschi insieme alle loro madri. Anche se alcuni dei partecipanti avevano più di un figlio, i dati presi in esame si sono concentrati sulle loro interazioni con un figlio o una figlia.

Nella prima fase dello studio è stato richiesto alle madri di rispondere ad alcune domande mediante un questionario self-report, mentre gli sperimentatori scattavano foto ai bambini impegnati in una fase di gioco in ambiente naturale. In una sessione separata ai papà è stato consegnato un dispositivo di registrazione audio mobile, l’Electronically Activated Recorder (EAR), con l’indicazione di indossarlo, agganciandolo sulle proprie cinture, una volta nel fine settimana (domenica) e un’altra il primo giorno della settimana (lunedì). Il dispositivo registrava i suoni per 50 secondi ogni 9 minuti. È stato chiesto anche di caricare il dispositivo nella stanza del bambino in modo tale da registrare eventuali interazioni padre-figlio durante la notte. In una terza sessione è stato chiesto ai papà di compilare un questionario self-report; successivamente, all’interno dello scanner MRI, venivano mostrate loro delle sequenze di immagini: un bambino sconosciuto, un adulto sconosciuto e il proprio figlio con le varie espressioni facciali (triste, felice e neutro) al fine di rilevare la loro risposta neurale.

I risultati mostrano che rispetto ai padri con figli maschi, i padri di figlie sono stati più responsivi e attenti verso i loro bisogni mostrandosi più sensibili, in particolare, di fronte a manifestazioni emotive di tristezza, riuscendo ad utilizzare un linguaggio più aperto alle emozioni. I ricercatori affermano che questo potrebbe essere dovuto al fatto che i padri riescono ad accettare maggiormente i sentimenti delle ragazze rispetto a quelli dei ragazzi. Le immagini funzionali della corteccia evidenziano che quando i padri osservano un’espressione felice sui volti delle loro figlie, avviene una maggior attivazione cerebrale in quelle aree coinvolte nella regolazione emotiva e nella ricerca delle ricompense (corteccia orbito-frontale mediale e laterale).

Al contrario i padri dei bambini maschi impegnati in giochi di movimento, utilizzavano un linguaggio legato alla “realizzazione” per incitarli al successo e alla vittoria; inoltre, la loro risposta neuronale era più forte nella corteccia orbito-frontale mediale, di fronte alla visione di espressioni facciali neutre. Questo dato correla in maniera positiva con i giochi di movimento in cui sono impegnati i propri figli. Il risultato può essere interpretato come la possibilità che i papà vengano maggiormente influenzati, in maniera positiva o negativa, dalle espressioni facciali neutre dei loro figli maschi.

Questi risultati migliorano la comprensione delle basi neurali in relazione alla cura paterna evidenziando come i sistemi neurali rispondano in maniera differente a seconda che si tratti delle figlie o dei figli. Inoltre, l’uso dell’EAR ha rivelato differenze nel comportamento paterno e nell’uso del linguaggio che possono influenzare i risultati sociali, emozionali e cognitivi dei propri figli. La ricerca futura potrebbe impiegare questa metodologia per un’esplorazione più approfondita sull’impatto delle differenze di genere nelle risposte neurali paterne in relazione al benessere dei bambini.

La mindfulness nell’età evolutiva: l’efficacia della meditazione nei bambini

La ricerca sugli interventi mindfulness nei bambini e adolescenti è ancora agli albori. Ciononostante esistono evidenze che testimoniano l’adattabilità e l’efficacia di questo tipo d’interventi, sia in campioni clinici che non, di bambini e adolescenti (Black e collaboratori, 2009).

Elena Cristina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

I contributi della letteratura sulla mindfulness nei bambini

I più giovani hanno naturalmente motivazioni e bisogni differenti rispetto agli adulti, pertanto si rendono necessari opportuni adattamenti del protocollo MBSR (di John kabat-Zinn), specialmente nelle modalità e nei tempi. Fabbro e Muratori (2012) propongono di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo, gli esercizi devono essere semplici, adeguati alle capacità dei destinatari, alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze e delle eventuali difficoltà. La competenza trasversale ai vari programmi di mindfulness nei bambini è il diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012). Esistono inoltre tecniche e procedure di meditazione specifiche a seconda delle varie fasce d’età (5-8 anni, 9-12 anni, 13-18 anni) (Hooker, 2008).

Un recente contributo in letteratura è quello di Eline Snel (2015), terapeuta olandese e fondatrice dell’Academy for Mindful Teaching (AMT) con sede a Leusden (Paesi Bassi), autrice del libro “Calmo e attento come una ranocchia”(2015). La Prefazione del volume è curata dallo stesso John Kabat-Zinn che ne dichiara “un simile allenamento mentale ed emotivo non era mai stato accessibile ai bambini prima d’ora”. Il libro è una guida molto pratica per imparare cos’è la mindfulness e applicarla nella vita di tutti i giorni dei più piccoli in maniera molto giocosa; include un CD-ROM con 11 meditazioni guidate che genitori e bambini possono ascoltare ed esplorare insieme o da soli, in base alle proprie preferenze: 3 pratiche audio sono per bambini dai 5 ai 12 anni di età, 6 tracce audio vanno dai 7 ai 12 anni, 2 tracce vanno bene per bambini di qualsiasi età. La durata varia dai 4 ai 10 minuti. Le meditazioni guidate rappresentano il fulcro del programma ed insegnano ad essere più consapevoli in qualunque momento della giornata.

Le prime due tracce, n.1 Calmo e attento come una ranocchia e la n. 2, La piccola ranocchia, costituiscono la meditazione di base.
La traccia n.3, Attenzione al respiro, insegna come dirigere e spostare l’attenzione; la traccia n.4, Gli spaghetti, è un esercizio di rilassamento corporeo; la n.5, Premi il tasto Pausa, ha come obiettivo quello di imparare a non reagire impulsivamente; la n.6, Pronto Soccorso per sensazioni sgradevoli, per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni; la traccia n.7, Un posto sicuro, è un esercizio di visualizzazione; la n.8, La fabbrica dei pensieri, per calmare il turbinio mentale; la n.9, Un piccolo incoraggiamento, per quando le cose sembrano non andare bene; la n.10, Il segreto della stanza del cuore, esercizio sulla gentilezza ed infine la n.11, Dormi bene, un piccolo esercizio di accompagnamento al sonno.

Non casuale è la scelta del simbolo della rana per rappresentare l’essenza della mindfulness.

“La rana è un animale davvero straordinario. E capace di fare salti enormi, ma sa anche stare ferma, calma e immobile. Si accorge di tutto ciò che succede intorno a lei, ma non reagisce subito ogni volta. La rana rimane ferma e respira. Risparmia le energie e non si lascia trascinare da tutte le idee che le passano per la testa. Resta calma e ferma, e intanto respira. La sua pancia si solleva e si abbassa, si gonfia un po’ e poi si sgonfia. Se può farlo una rana, puoi farlo anche tu. Tutto quello che ti serve è un po’ di attenzione, attenzione al respiro, attenzione e calma”. (p. 38)

Lo stesso Suzuki Roshi, grande maestro zen giapponese, in una delle sue principali opere, “Mente Zen” (1976), scrive:

“Dovete essere come una rana. Ecco il vero zazen1. […] Se siamo come una rana, siamo sempre noi stessi. Ma persino una rana a volte perde se stessa, e allora fa una brutta smorfia. E se qualcosa le passa accanto, lo afferra e mangia. Perciò credo che una rana stia sempre a chiamarsi. E penso che anche voi dovreste farlo. Persino nello zazen può capitare che perdiate voi stessi […] Siccome perdete voi stessi, il vostro problema diverrà un vero problema per voi. Se non perdete voi stessi, anche se avete delle difficoltà, in effetti non c’è alcun problema di sorta […].
Quando voi siete voi stessi, vedete le cose così come sono, e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda. Lì si trova il vostro vero sé. Lì possedete la vera pratica; possedete la pratica di una rana […] E’ per questo che dobbiamo sempre richiamarci a noi stessi come un medico che si ausculta”(p.66-67).

Il libro “Calmo e attento come una ranocchia” funge da filo conduttore e da approfondimento rispetto alla pratica; si articola in 10 brevi capitoli: introduzione alla mindfulness; come essere genitori più consapevoli; l’attenzione comincia dal respiro; allenare l’attenzione; dalla testa al corpo; superare la tempesta interiore; gestire le emozioni difficili; la fabbrica dei pensieri; è bello essere gentili; pazienza, fiducia e capacità di mollare la presa. Per ogni sezione vengono indicate le tracce audio con cui fare pratica formale e altri consigli pratici con cui allenare le capacità di mindfulness e compassione, quotidianamente, in maniera informale, attraverso degli espedienti ludici, da attuare in qualunque circostanza (mentre si lavano i denti, si fa la spesa, si mangia, osservando il respiro in diverse situazioni, etc.). Un esempio è la pratica dell’accorgersi della propria scortesia” in cui si utilizza un braccialetto da mettere al polso destro come promemoria, per ricordarsi di essere gentili con se stessi e con gli altri. Ogni volta che ci si comporta in maniera sgarbata, l’invito è quello di spostare il braccialetto sull’altro polso, con un sorriso. Un’altra pratica è quella del “guardare più in là” in cui ci si prende del tempo per pensare e trovare una caratteristica positiva in una persona che ci è antipatica o ci infastidisce.
“Calmo e attento come una ranocchia” è dunque un modo semplice, fantasioso e divertente per avvicinare i più piccoli alla coltivazione della presenza mentale, fisica ed emotiva e la connessione con se stessi, gli altri e il mondo.
Il contributo di Eline Snel è pensato per l’educazione e la crescita dei propri figli da parte di genitori che vogliono anch’essi diventare sempre più consapevoli.

I programmi di mindfulness nei bambini

E. Snel ha messo a punto un corso di formazione sulla mindfulness nei bambini nelle scuole, intitolato Mindfulness Matters (La consapevolezza conta), basato sul programma per adulti di JKZ. A tale programma, anch’esso di otto settimane, avevano partecipato 300 bambini e 12 insegnanti. Il corso prevedeva mezz’ora di lezione didattica (frontale) a settimana e dieci minuti di esercizi giornalieri, nei quali i bambini venivano invitati a mettere in pratica i concetti appresi in aula. Sia i bambini che gli insegnanti hanno riscontrato cambiamenti positivi: un’atmosfera più serena in classe, una maggiore concentrazione, fiducia e una maggior apertura, gentilezza ed indulgenza con se stessi e con i compagni.

Sebbene al di fuori di un setting scolastico, Lo e collaboratori (2016) hanno recentemente messo a punto un modello di disegno sperimentale che prevede l’implementazione del programma Mindfulness Matters di Eline Snel per bambini affetti da ADHD e i loro genitori, che parallelamente ricevono un training di Mindful Parenting. L’innovatività del protocollo sperimentale di Lo e colleghi consiste nel rivolgersi a bambini molto piccoli, dai 5 ai 7 anni di età, diversamente dagli studi presenti in letteratura che coinvolgono bambini sopra gli 8 anni. Secondo il loro disegno di ricerca, i bambini vengono suddivisi in piccoli gruppi di 4-6 partecipanti; le sessioni hanno durata di un’ora e durante la quarta e sesta classe sono previsti 30 minuti di attività condivisa in cui è data la possibilità ai genitori di praticare in vivo le abilità di mindfulness con i bambini, valutate da appositi ricercatori tramite apposite griglie di registrazione.

I principali obiettivi dei trattamenti mindfulness sono il miglioramento di tre aspetti fondamentali dell’attenzione nei bambini, ovvero la capacità di orientamento attentivo, l’attenzione sostenuta e le funzioni esecutive, mentre nei genitori una maggior autoregolazione, la riduzione del comportamento di “harsh parenting”, caratterizzato da ostilità e sentimenti negativi in risposta ai comportamenti di sfida dei bambini con ADHD, spesso responsabile dell’insorgenza di pattern disfunzionali di interazione alla base di disturbi oppositivi-provocatori e disturbi della condotta.

L’efficacia della mindfulness nei bambini e gli esiti positivi

La maggior parte degli interventi mindfulness-based implementati in età evolutiva sono difatti applicati al contesto scolastico, dal momento che bambini e ragazzi vi trascorrono la maggior parte del loro tempo.

Zenner e colleghi (2014) hanno condotto una meta-analisi che ha messo in luce un effetto positivo della mindfulness sia su variabili cognitive sia su variabili più prettamente psicologiche, come lo stress, le capacità di coping, la resilienza e l’accettazione. Tuttavia gli autori hanno evidenziato una serie di aspetti metodologici che impediscono di dichiararne una vera e propria efficacia: primo fra tutti, un’estrema eterogeneità dei diversi programmi analizzati, la variabilità degli strumenti di misura, l’instabilità delle misure di outcome (che in età evolutiva cambiano rapidamente), la sostanziale qualità degli studi pilota (non RCT), l’assenza di un gruppo di controllo, la bassa numerosità campionaria. A complicare ulteriormente il quadro sembrerebbero intervenire altre variabili, scarsamente controllabili, come il background socioculturale dello specifico contesto scolastico, la preparazione degli insegnanti e/o l’inserimento di eventuali esperti esterni nel corpo docenti, la possibilità di usufruire di tempi e spazi al di fuori della scuola. Pertanto sono difficilmente individuati quegli elementi (“ingredienti”) degli interventi mindfulness in grado di produrre degli effetti positivi; sembrerebbero maggiormente intervenire fattori non specifici come il supporto percepito dei pari, la novità del programma ed un generale rilassamento.

Nonostante la mancanza di omogeneità di dati, la pratica di mindfulness nei bambini produce effetti sulle funzioni cognitive ed emotive. Nello specifico, la letteratura evidenzia un effetto positivo della pratica di presenza consapevole sui bambini che mostrano difficoltà nelle funzioni esecutive, coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.

Un trattamento che si è dimostrato efficace nel miglioramento delle funzioni esecutive è il programma Inner kids di Flook et al. (2010). Anche il programma ideato da Susan Kaiser Greenland (2010), ispirato al programma MBSR di JKZ, che si propone di incrementare sia gli aspetti di attenzione che di consapevolezza e compassione, attraverso attività di gioco e movimento, specificamente pensate per i bambini in età evolutiva oltre che per il contesto scolastico, produce effetti positivi sulle variabili di metacognizione e regolazione del comportamento, misurate con il questionario Behavior Rating Inventory of Executive Function o BRIEF (Gioia et al., 2000), somministrato a genitori ed insegnanti. L’autrice ha riscontrato un miglioramento significativo in entrambe le scale, specialmente per coloro che in baseline mostravano valori più bassi, su un campione di bambini tra i 7 e i 9 anni prima e dopo la partecipazione al training di Mindfulness in età evolutiva.

Anche Saltzman e Goldin (2008), applicando il programma MBSR for children (della durata di 8 settimane) su un campione di 30 bambini, hanno ottenuto risultati incoraggianti per diverse problematiche di natura emotiva, riscontrando una minor reattività emotiva, una minore tendenza all’autocritica ed anche una maggiore compassione verso di sé e verso gli altri dopo il training di Mindfulness.

I programmi di mindfulness per adolescenti

Anche per quanto concerne la popolazione adolescente, sono stati ideati eterogenei programmi mindfulness-based applicati al contesto scolastico.

Come già illustrato da Andrea Bassanini in un articolo del 2013, “Mindulness: effetti del programma di pratica per la scuola”, praticare la mindfulness a scuola riduce i sintomi depressivi, lo stress e migliora il benessere percepito degli adolescenti. Citando lo studio di Kuyken, W., Weare et al. (2013), frutto della collaborazione tra l’università di Exeter, Oxford e Cambridge, condotto su un campione di 522 ragazzi inglesi, dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria, i ragazzi a cui è stato inserito il Mindfulness in Schools Programme nel proprio curriculum formativo, contrariamente a chi ha mantenuto il curriculum standard, hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala CES-D (Center for Epidemiologic Studies Depression Scale) della depressione e al follow-up (a due e a tre mesi), livelli bassi di stress nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, hanno ottenuto punteggi più alti di benessere, misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-Being Scale (WEMWBS).

Il Mindfulness in Schools Programme, rientrando a pieno titolo nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP), prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza settimanale. Tuttavia è anche stato strutturato nel rispetto dei principi guida del lavoro con gli adolescenti: una maggior esplicitazione dei concetti, il riadattamento degli interventi in forme più brevi e quindi più fruibili dai destinatari, un forte uso dell’interazione e della componente esperienziale, il ricorso a strumenti informatici che consentissero di esportare i temi appresi durante il corso nella vita quotidiana: un libretto informatico con i temi principali, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.

Dal presente studio, emerge significativa la variabile relativa al grado di pratica personale svolta dai partecipanti tra una sessione e la successiva ed una correlazione positiva tra questa e il miglioramento del benessere personale, l’abbassamento dei livelli di stress e l’abbassamento dei livelli di depressione al follow-up di tre mesi.

In un ulteriore articolo, scritto da Linda Confalonieri “Mindfulness a scuola & minor rischio depressivo negli adolescenti”, si presentava una ricerca belga di Raes e collaboratori (2013), pubblicata sulla rivista Mindfulness, su un ampio campione di studenti adolescenti (N=400) che hanno seguito un training di mindfulness a scuola (ben diverso dal classico setting clinico) e che presentavano, a termine del programma, minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi nei mesi successivi, rispetto al gruppo di controllo. Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti a dei test prima dell’intervento, dopo la conclusione e a sei mesi di distanza (follow-up). Al pre-test entrambi i gruppi (sperimentale e di controllo) hanno presentato percentuali simili di sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale: 15% contro il 27% di soggetti con sintomi depressivi nel gruppo di controllo. Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi: 16% contro il 31% del gruppo di controllo. Il più grande limite dello studio di Raes et al., (2013) è che i ragazzi adolescenti facenti parte del gruppo di controllo non hanno ricevuto alcun tipo di trattamento; oltre alle ricadute in termini di correttezza metodologica dell’impianto di ricerca emerge anche una questione etica nel non offrire i potenziali benefici derivanti dalla partecipazione ad un programma di mindfulness.

Una soluzione a questo aspetto è stata trovata dal gruppo di ricerca di Karen Bluth e collaboratori (2015), i quali hanno formato un gruppo di controllo con i soggetti in lista d’attesa, beneficiari anch’essi dell’intervento di mindfulness ma in un tempo successivo ai soggetti sperimentali.
Lo scopo delle autrici del Nord Carolina è stato testare la praticabilità, l’accettabilità e gli outcome psicosociali preliminari dell’adattamento del programma per adulti Mindful Self-Compassion alla popolazione adolescente, ribattezzato col nome Making Friends with Yourself (MFY, acronimo)

Nella ricerca sono stati reclutati 34 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni. La maggior parte erano ragazze (26). Tutti i ragazzi provenivano da famiglie con un alto livello di scolarizzazione (laurea, master, titoli post-laurea, dottorato). Come criterio d’inclusione nello studio è stato scelto un punteggio inferiore a 13 ad una versione modificata della scala KADS (Kutcher Adolescent Depression Scale; LeBlanc et al. 2002) , con una suddivisione interna degli item riguardanti comportamenti autolesivi e comportamenti suicidari, e la risposta negativa all’item “nell’ultima settimana, solitamente hai mai avuto pensieri o compiuto azioni suicidarie?”. I partecipanti sono stati assegnati tramite randomizzazione ad un gruppo sperimentale e ad un gruppo di controllo (lista d’attesa). L’assessment è stato effettuato tramite una somministrazione online di una batteria di test prima e dopo la conclusione del programma (prima del gruppo sperimentale e poi del gruppo di controllo). La frequenza al programma e la sopravvivenza del campione sono state usate come misure della praticabilità dell’intervento; mentre le audio-registrazioni della classe, della durata di 6 settimane, sono state analizzate per determinare il grado di accettabilità per la popolazione adolescente.

I risultati mostrano come, a confronto con la lista d’attesa dei partecipanti (soggetti di controllo), il gruppo di soggetti che ha ricevuto l’intervento ha ottenuto punteggi statisticamente significativi alle misure dell’autocompassione, della soddisfazione di vita, un più basso punteggio ai test di depressione rispetto ai soggetti di controllo (lista d’attesa), in concomitanza ad una maggior capacità di mindfulness e connessione sociale, più bassi livelli di ansia.

Attraverso un’analisi congiunta dei dati ottenuti dal gruppo dei soggetti di controllo con i dati del primo gruppo di soggetti sperimentali, si evince un incremento significativo nelle capacità di mindfuness, di autocompassione e un decremento altrettanto significativo dei livelli di depressione, ansia, stress percepito e stati affettivi negativi dopo la partecipazione al programma.
Inoltre, i risultati della regressione dimostrano che l’autocompassione e la mindfulness predicono un decremento nei livelli di ansietà e di depressione, nello stress percepito, e un aumento nella soddisfazione di vita a seguito della partecipazione al programma MFY.

Il “Making Firends with Yourself” è un programma della durata di 6 settimane, con frequenza settimanale, ogni incontro della durata di 90 minuti. Similmente al programma per adulti (Neff and Germer, 2013), ogni sessione settimanale è incentrata su un tema specifico. Il 1° incontro consiste in una presentazione generale del programma, l’introduzione alla mindfulness e all’autocompassione tramite una serie di pratiche e attività che incoraggiano l’autoscoperta dei partecipanti di queste abilità. L’incontro n.2 si focalizza principalmente sulla mindfulness e introduce una serie di pratiche tradizionali come il respiro consapevole e la consapevolezza alle sensazioni fisiche del corpo. Il 3° incontro s’incentra sul cervello dei teenagers e include una presentazione didattica di come i due sistemi cerebrali (il sistema di controllo cognitivo e il sistema motivazionale) si sviluppano in stadi differenti dello sviluppo cerebrale nel corso dell’adolescenza. Il sistema di controllo cognitivo include lo sviluppo della corteccia prefrontale (pensiero logico, decision-making) mentre il sistema motivazionale implica lo sviluppo del sistema limbico e dell’amigdala (ad esempio nella regolazione delle risposte di attacco o fuga). Viene dunque incoraggiata la discussione in merito alle conseguenze di questi cambiamenti sul temperamento del ragazzo, sul suo comportamento e sui rapporti familiari. La sessione n.4 si focalizza sull’autocompassione intesa come qualcosa di diverso dall’autostima e come la prima sia un modo migliore e più efficace di rapportarsi a se stessi. A tal proposito vengono utilizzati anche strumenti video per metterne in luce le differenze tra i due costrutti. Nella 5° sessione, ci si focalizza sul sentimento di gratitudine presentato come valore nucleare dell’adolescenza e dell’intero spirito del programma.

Le differenze del programma per adolescenti, rispetto alla versione per adulti, sono la maggior brevità del trattamento, gli accorgimenti legati all’età dello sviluppo (un maggior utilizzo di attività, anche manuali, e dall’uso di meditazioni guidate più brevi) ed un affondo specifico sulla natura del cervello dell’adolescente.

Gli adolescenti sono stati gradualmente introdotti alla pratica della mindfulness, attraverso una serie di pratiche di natura sia formale sia più informale. Nel primo caso, per esempio, è stata consegnata una traccia audio per la pratica di autocompassione tramite un body-scan, invitandoli a portare calore e affetto ad ogni parte del loro corpo, semplicemente notando le sensazioni emergenti in quella zona del loro corpo. Un esempio di pratica informale è rappresentato dalla pratica “A Moment for Me”; ai ragazzi è stato insegnato come fare un gesto amorevole, ad esempio sgranchirsi le braccia o le gambe, mentre ricordano a se stessi di fare tre cose: il riconoscere la loro sofferenza nel momento in cui sta accadendo, il riconoscere che la sofferenza emotiva è universale e parte dell’essere umano, il confortare attivamente se stessi specialmente nei momenti più critici, ripetendosi fra sé e sé frasi di gentilezza amorevole. Infine, in occasione dell’ultimo incontro (6°), viene chiesto ai partecipanti un feedback rispetto al programma, alle pratiche preferite e quelle meno, alla meditazione in generale e alle loro opinioni su come rendere migliorabile il programma stesso.

Per incoraggiare la pratica durante la settimana, i ragazzi sono stati incoraggiati ad accedere ad un sito dal quale potevano scaricare materiale sia audio che video, sebbene con tracce pensate per adulti. Un sito con materiale di supporto per adolescenti non era disponibile. Prima dell’inizio di ciascuna classe, i ragazzi sono stati invitati a compilare una scheda in cui riportare il numero di giorni durante la settimana in cui hanno praticato la mindfulness e l’autocompassione sia formalmente sia informalmente.

Tutte le classi sono state audioregistrate e trascritte verbatim (poi sottoposto ad analisi tramite Atlas-ti 7.5) allo scopo di informare la comprensione degli autori circa le modalità di meditazione e di pratica della self-compassion così come di altre attività che sono efficaci e ben accettate dagli adolescenti.

Sono stati utilizzati i seguenti strumenti di misura
The Children and Adolescent Mindfulness Measure (CAMM; Greco et al. 2011) che valuta l’attenzione momento per momento e l’accettazione delle esperienze interne. I partecipanti devono indicare le loro risposte agli item su una scala Likert a 5 punti (0, “mai vero” 4, “assolutamente vero”). Punteggi più alti indicano maggiori capacità di mindfulness. Un esempio di item è il seguente “Divento sconvolto quando ho certi pensieri e cerco di scacciare via i pensieri che non mi piacciono”.
-Positive and Negative Affect per misurare con quale frequenza sperimentano affetti negativi (ostilità, senso di colpa, distress) e positivi (interesse, soddisfazione, iniziativa, etc.) (PANAS; Watson et al.1988).
-la versione breve della Self-compassion scale, short form (SCS-SF; Raes et al.2011), ad esempio: “cerco di guardare ai miei errori, fallimenti come parte della condizione umana e quando sto attraversando un periodo veramente difficile, dò a me stesso la cura e la tenerezza di cui ho bisogno”
-State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger et al. 1983)
-the Student’s Life Satisfaction Scale (Huebner, 1991) “la mia vita sta andando bene”, “la mia vita è migliore di quella della maggior parte degli altri bambini”.
-The Short Mood and Feelings Questionnaire (SMFQ; Angold et al. 1995) “mi sono sentito miserabile o infelice e ho sentito come se fosse impossibile pensare correttamente o concentrarmi”
-The Social Connectedness scale, una scala di 8 item che valuta il senso di appartenenza interpersonale e la consapevolezza soggettiva di essere in una relazione intima col mondo sociale (Lee and Robbins 1998, p. 338). Esempi di item includono “Mi sono sentito disconnesso dal resto del mondo che mi circondava e anche verso le persone attorno che conosco, mi sono sentito come se in realtà non appartenessi.”

Gli elementi preferiti del programma in generale sono le pratiche più concrete, ossia l’osservazione diretta delle sensazioni fisiche (ad esempio, il self compassion body scan, trovato dai partecipanti “molto rilassante”):

“mi sono sentito come avessi fatto un sonnellino rigenerante…quanto è durato ? 15 minuti….è sembrato durasse ore!”; “mi sentivo veramente stanco oggi, perché non ho chiuso occhio la notte scorsa ma ora mi sento decisamente meglio!”.

Lo strumento più utile è stato quello del “sassolino del qui ed ora”, come modo per lasciar andare le preoccupazioni sul futuro e sul passato portando la consapevolezza al presente, al pari della pratica di gentilezza amorevole, in combinazione con un dialogo interno gentile verso di sé o verso gli altri.
Non solo, un certo numero di partecipanti ha anche espresso la preziosa utilità dell’apprendimento della componente dell’autocompassione come parte dell’esperienza dell’umano.

“In qualunque modo tu ti possa sentire, non sei solo in questo. Qualcun altro sente quello che stai provando tu, sa da dove vieni, sebbene tu creda che nessuno possa capirti, ci sarà qualcuno che lo comprende appieno”.

Un altro partecipante ha riportato che la mindfulness lo ha aiutato a focalizzarsi e concentrarsi sui lavori scolastici.
I partecipanti hanno anche riportato alcuni suggerimenti per eventuali variazioni e adattamenti di alcuni aspetti del programma che non hanno funzionato molto bene a loro avviso. In particolare, la maggior parte di loro ha riportato aspetti legati alla pratica formale a casa; ad esempio che fosse disagevole e dispendioso accedere al sito per ascoltare le tracce guida, troppo lunghe. Al contrario la pratica dell’essere nel momento presente, applicabile in qualsiasi momento di stress (come il sassolino del qui ed ora) è stata molto apprezzata. E’ stato anche suggerito l’invio di e-mail infrasettimanali come promemoria per la pratica.

Nel corso del programma delle 6 settimane, i partecipanti hanno sviluppato una maggior comprensione del costrutto dell’auto-compassione. Diversi partecipanti hanno dichiarato di iniziare a basare la propria valutazione di sé in base a questa capacità più che al considerarsi come buoni in funzione della loro performance, ottenendo un beneficio nel ridurre la quota di ansia scolastica, maggiori risultati positivi nello stesso rendimento, la riduzione di rimuginio, maggior tolleranza verso i propri errori, una maggiore facilità ad addormentarsi, una maggior capacità nello stabilire le priorità (discernere ciò che è importante e necessario fare nell’immediato rispetto a ciò che può aspettare) e nel prendere decisioni.
Un dato interessante di questo studio, contrastante rispetto alla letteratura generale, è che il grado di pratica al di fuori del setting scolastico non sembra correlare con il miglioramento significativo delle capacità di mindfulness e autocompassione, che sembrerebbe ascrivibile alla mera frequenza della classe e ad una più generale operazione meta-riflessiva.
Il MFY risulta dunque promettente come programma per incrementare il benessere psicosociale negli adolescenti. Tuttavia, trattandosi di uno studio pilota, sono necessari ulteriori studi per sostanziare l’evidenza scientifica. Nello specifico sarebbe utile ottenere misure più a lungo termine e analizzare più in profondità i meccanismi sottesi all’efficacia clinica.

Karen Bluth e la sua équipe hanno condotto un ulteriore studio che ha coinvolto ragazzi di età compresa tra i 13 i 18 anni, fornendo maggiore sostanza empirica al costrutto dell’auto-compassione. I partecipanti sono infatti stati testati in laboratorio tramite il protocollo sperimentale Trier Social Stress Test (Kirschbaum et al., 1993) per ottenere una valutazione di baseline della risposta fisiologica di stress. Il Trier Social Stress Test ha previsto 5 minuti per la preparazione di un discorso, 5 minuti per il discorso e 5 minuti per un compito matematico (sottrarre 7 a partire da 2023) di fronte a due membri di una commissione valutativa, mentre venivano audio videoregistrati di fronte ad una telecamera.

Il protocollo sperimentale è stato opportunatamente adattato alla popolazione adolescente: il tema del discorso era incentrato sul tipo di lavoro estivo ideale e veniva data la consegna ai valutatori di non assumere un’espressione facciale totalmente neutra e fredda, dal momento che è stato riscontrato in letteratura che può indurre una maggiore vulnerabilità al pianto, specialmente nelle ragazze adolescenti. Nelle diverse fasi sperimentali sono stati misurati, ad intervalli di tempo regolari (es: ogni tre minuti), la pressione sanguigna (BP- blood pressure), la frequenza del battito cardiaco (HRV- heart rate variability) e il tasso di cortisolo tramite un campione salivare. Le stesse misure sono state raccolte in una successiva fase di riposo (recovery), della durata di 20 minuti.

Successivamente il campione di soggetti è stato suddiviso in due gruppi: il gruppo ad alta autocompassione (HSC, High Self Compassion) e il gruppo a bassa autocompassione (LSC, Low Self Compassion). Nel primo gruppo è stato riscontrato un maggior numero di soggetti maschi; questo dato è in linea con altri studi precedenti (Bluth e Blanton, 2014) secondo cui i maschi risulterebbero maggiormente autocompassionevoli rispetto alle femmine.
Tuttavia tra i due gruppi, HSC e LSC, non sono emerse differenze statisticamente significative rispetto al parametro della frequenza del battito cardiaco, sebbene si sono osservati incrementi di minor intensità nella HRV durante il test di stress (discorso e compito aritmetico) nel gruppo alta autocompassione rispetto al gruppo bassa autocompassione.

Il gruppo alta autocompassione mostra altresì un tasso globale di cortisolo più basso, indicativo di una minor intensità di risposta fisiologica di stress.
Una possibile spiegazione dell’assenza di una differenza significativa tra i due gruppi nella HRV è presumibilmente amputabile alle differenze di genere nella reattività cardiovascolare e dell’asse ipotalamo- ipofisi-surrene (più marcata nei maschi) e nella differente strategia di coping utilizzata: coloro che risultano avere una più bassa misura nell’autocompassione sembrerebbero ricorrere ad un maggior irrigidimento come modalità di autoregolazione, che quindi provoca un incremento della frequenza cardiaca, contrariamente al gruppo di soggetti con più alta autocompassione che ricorrono all’auto-rassicurazione e consolazione.

Gli autori dunque hanno fornito una prima evidenza empirica sul ruolo dell’autocompassione quale fattore protettivo in risposta ad eventi sociali stressanti. Gli adolescenti con maggior autocompassione sono più capaci di fornire supporto a se stessi, di consolarsi in momenti critici, proteggendosi dal potenziale effetto negativo di eventi stressanti quotidiani (ad esempio il non ricevere un invito ad una festa). Bluth e collaboratori suggeriscono di intendere l’autocompassione come una forma di supporto sociale interiorizzata.

Sebbene vi siano diversi limiti nello studio (bassa numerosità campionaria, sbilanciamento di genere con prevalenza di soggetti di sesso femminile, mancata considerazione di fattori quali razza, etnia, status socioeconomico, fattori culturali e tipo di educazione ricevuta), esso suggerisce l’opportunità di coltivare l’autocompassione come risorsa personale aggiuntiva in grado di promuovere un maggior benessere emotivo e ponendo le fondamenta per una sana traiettoria di sviluppo.

Nuove dipendenze: il sottile limite tra dipendenza da gioco d’azzardo e dipendenza da giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno della dipendenza. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

Zamara L.*, Chiapasco E.**
*Dottore in Psicologia Clinica e di Comunità; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino ** Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino

 

 

Le nuove dipendenze: quali sono?

Con il termine “nuove dipendenze” viene definito “un gruppo di disturbi eterogenei che implicano un coinvolgimento in un’abitudine persistente e ripetitiva, volta a modificare lo stato di coscienza dell’individuo, e che a lungo termine comportano una compromissione della sfera sociale, affettivo-relazionale e lavorativa del soggetto” (Mulè, 2008).

Tra le più studiate vi sono la dipendenza da Internet (internet addiction), la dipendenza da sesso (sex addiction), la dipendenza da lavoro (workaholism), la dipendenza da cellulare, la dipendenza da videogame (Internet gaming disorder) ed il gioco d’azzardo patologico (gambling disorder); tuttavia soltanto quest’ultimo è stato riconosciuto ufficialmente dall’APA (American Psychological Association) che, nel 2013 l’ha inserito nel DSM-5, all’interno della sezione dedicata ai “disturbi correlati alle sostanze e alle dipendenze”. La dipendenza da videogame “Internet Gaming Disorder” è invece stata inscritta nella sezione III del DSM-5 come una condizione richiedente maggiore ricerca clinica ed esperienza prima di essere considerata per l’inclusione nel manuale, come disturbo formale.

La dipendenza dai giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

All’interno del panorama di videogiochi per differenti tipi di console, disponibili sul mercato, vi è una categoria di questi che negli ultimi anni ha visto un enorme aumento di consumatori, i giochi per smartphone. La maggior parte di questi videogame vengono distribuiti sul mercato seguendo il modello economico freemium, per cui possono essere scaricati e installati gratuitamente sui telefoni smartphone, salvo poi non poter usufruire dei contenuti extra, a meno che non venga speso del denaro (Kingsley, 2015).

Il fatto che, tra le opzioni proposte da alcuni giochi per smartphone, vi sia la possibilità di utilizzare del denaro per incrementare le potenzialità del videogame, oppure per poter continuare a giocare senza interruzioni, è di per sé la prima grande caratteristica in comune con il gioco d’azzardo. Di seguito andremo ad esporre altri aspetti di alcuni dei giochi per smarphone più in voga del momento, che presentano grandi similitudini con uno dei giochi d’azzardo più diffusi e additivi, le slot machines.

-Il feedback: un videogioco senza un sistema di feedback non potrebbe funzionare, infatti è proprio quest’ultimo ad informare il giocatore circa i propri risultati, mettendolo a conoscenza di quanto si stia avvicinando all’obiettivo. All’interno del sistema di feedback rientrano gli aspetti grafici del gioco, i suoni, e l’eventuale presenza di voci che comunicano o guidano il giocatore. Se osserviamo l’aspetto grafico di molti dei moderni videogiochi per smartphone (per esempio Candy Crush Saga, Diamond Digger Saga, Jewel Pop Mania) notiamo che gli elementi che caratterizzano il gioco sono spesso dolcetti, caramelle, pietre preziose (gemme o diamanti), proprio come in molte slot machine. Le immagini stilizzate di frutta e caramelle inducono, secondo Sheldon (2013) ricordi d’infanzia piacevoli e, di conseguenza, una parziale dissociazione dalla realtà; il che favorirebbe l’allungarsi dei tempi di gioco.

Un’altra caratteristica in comune a slot machine e giochi per smartphone è la tendenza a complimentarsi con il giocatore. In alcuni giochi per smartphone è una voce bassa e calorosa a lodare il giocatore, mentre applausi e complimenti sono uno degli elementi di feedback tipici delle slot machine.

-Semplicità delle regole: un altro elemento comune ai due tipi di gioco è la semplicità delle regole. In molti giochi per cellulare l’unica mossa consentita è spostare gli elementi del gioco di una casella cercando di accostarne 3 dello stesso tipo, creando così una combinazione che consente di fare dei punti. Similmente il giocatore delle slot machine clicca un tasto che fa muovere i simboli sullo schermo, sperando che ne esca una combinazione fortunata, spesso composta da tre elementi. Come sostengono Croce & Rascazzo (2013), i giochi d’azzardo moderni hanno scelto la semplicità, perché questo attira un bacino di utenti molto più ampio e non richiede impegno. Molti giochi per cellulare sono facilissimi e possono giocarci anche bambini di 3 anni.

-Fortuna: a proposito di tale argomento vale la pena chiarire il significato di “variable ratio reinforcement schedule” (programma di rinforzo a rapporto variabile). Un programma di rinforzo è fondamentalmente una regola che stabilisce che un comportamento sia rinforzato, premiato. Il rapporto può essere fisso se, un determinato comportamento, viene premiato ogni qualvolta esso venga messo in atto. Un rapporto è variabile quando, al contrario, uno stesso comportamento viene rinforzato dopo un imprevedibile numero di tentativi (Fester & Skinner, 1957). Le slot machine sono un classico esempio di applicazione di tale programma. Il giocatore non sa quando vincerà (perché il rapporto è variabile), ma il numero di volte in cui trionferà è sufficiente a far sì che il comportamento venga mantenuto. Per l’andamento aleatorio dei successi questi giochi vengono definiti “d’azzardo”, ovvero basati sulla fortuna. Il giocatore non sa quando vincerà, perché il rapporto è variabile, ma vincerà abbastanza spesso da far sì che diventi difficile abbandonare il gioco. Diversi autori (Smith, 2014 e Miltenberger, 2008, sono due di loro) hanno avanzato l’ipotesi che anche molti giochi per cellulare siano stati progettati utilizzando il programma di rinforzo a rapporto variabile. Le vittorie, in questo caso, non sarebbero frutto dell’abilità dei giocatori, ma di un programma progettato per ricompensare saltuariamente i giocatori, come avviene nelle slot-machines.
La maggior parte dei giochi per smartphone, tuttavia, vengono promossi come giochi di abilità, creando nel giocatore l’illusione di poter controllare i risultati. È da notare che, proprio l’illusione di controllo, è uno dei maggiori responsabili di condotte di mantenimento del gioco d’azzardo, che possono portare alla dipendenza (Lavanco, 2001).

-Limiti: Un’altra caratteristica comune a slot machines e molti giochi per smartphone è la presenza di alcuni limiti. Nel caso delle slot machine il limite è dato dalla quantità finita di denaro che ogni giocatore può, o vuole, spendere per giocare. Nel caso di molti giochi per smartphone il limite è dato dal numero di vite a disposizione del giocatore. Nel famoso Candy Crush Saga, per esempio, quando un giocatore finisce le vite ha tre opzioni: aspettare almeno mezzora per ricevere una nuova vita, chiedere ai propri amici di facebook, anch’essi giocatori di Candy Crush Saga di donargli una vita, oppure pagare. Al giocatore, in pratica, non è data la possibilità di raggiungere quello che viene definito “adattamento edonico”, ovvero “l’abituazione ad una condizione positiva o negativa, il cui risultato è l’attenuazione degli effetti emozionali di uno stimolo” (Frederick, Loewenstein, Kahneman, Diener, & Schwarz, 1999). Non potendo giocare quanto desidera, il giocatore non satura la propria voglia, di conseguenza ci vorrà molto tempo prima che abbandoni quel videogame.
Nel caso il giocatore di mobile game decida di pagare osserviamo che il comportamento messo in atto è estremamente simile a quello del giocatore di slot machines che paga per giocare ancora, sperando di vincere ad un gioco basato sulla fortuna.

-Near-miss: Un’altra caratteristica tipica delle slot machines e della maggior parte dei videogames è l’alta frequenza di situazioni nominate “near-miss”, ovvero quelle condizioni in cui il giocatore arriva ad un passo dalla vittoria. Arrivare vicino alla vittoria in un gioco d’azzardo, tuttavia, non corrisponde matematicamente ad avercela quasi fatta; è solo un’illusione. Secondo uno dei maggiori ricercatori delle nuove dipendenze e del gioco d’azzardo, Mark Griffiths (2012), la presenza di near-miss è uno degli elementi fondamentali della maggior parte dei videogame e giochi d’azzardo presenti sul mercato. Uno studio Canadese, inoltre, ha dimostrato che, se durante l’esperienza di gioco il giocatore sperimenta una situazione di near-miss, una volta ogni tre giocate, sarà maggiormente incentivato a giocare, rispetto ad una situazione di assenza di near-miss (Cotè, Caron, Aubert, Desrochers, & Ladoucer, 2003).
Come evidenziato, giochi da’azzardo come le slot machines, e alcuni videogiochi per smartphone possiedono diverse caratteristiche in comune. Ci siamo, dunque, chiesti quali possono essere le implicazioni di tale similitudine.
a) È possibile che l’uso di videogiochi “play for free”, cioè scaricabili gratis con possibilità di fare acquisti in seguito, sia un fattore di sviluppo della dipendenza da gioco d’azzardo (Griffiths, 2013), tuttavia gli studi al riguardo non hanno ancora raggiunto un risultato univoco (Griffiths, 2015).
b) L’osservazione dei dati economici forniti dalle aziende produttrici di smartphone games (nel novembre 2015 la King.com, azienda produttrice del famoso gioco Candy Crush Saga è stata acquistata dalla Activision Blizzard per 5,9 miliardi di dollari) porta anche ad un’altra riflessione: alcuni dei moderni giochi per smartphones potrebbero funzionare esattamente come delle slot machines, salvo il fatto che vengono promossi come “giochi di abilità” e non “giochi basati sulla fortuna”. E se i giochi per smartphone sfruttassero le conoscenze del gioco d’azzardo per sviluppare giochi maggiormente additivi?

Non è nostra intenzione demonizzare i videogiochi ma ci sembra davvero importante sottolineare come di fronte a un mercato che cerca di trarre profitto dalla creazione di giochi sempre più accattivanti e coinvolgenti sia fondamentale aumentare la consapevolezza degli utilizzatori sui possibili rischi.

Genitori, insegnanti e tutto il mondo degli adulti deve attivamente vigilare affinchè l’utilizzo di questi passatempi rimanga un momento ludico e non diventi invece una compulsione che condiziona la vita reale.

Forti reazioni emotive connesse al gioco, la riduzione delle attività sociali nella vita reale, un calo del rendimento scolastico o lavorativo, la presenza del gioco anche in momenti come i pasti o la notte sono elementi da tenere in considerazione per valutare la gravità della situazione. In questi casi è meglio non aspettare a richiedere un aiuto a un esperto o a rivolgersi a un centro specializzato. Il meccanismo subdolo della dipendenza con il passare del tempo rende sempre più complicata la vita della persona coinvolta e delle persone vicine. Intervenire in tempo può evitare seri problemi futuri.

Show me yours and I’ll tell you mine – Sexual habits survey

You wanna know how sexual behaviour is changing in today’s society of technological innovation and how it is changing between different contries? join the cross-country questionnaire on sexual habits.

 

JOIN THE QUESTIONNAIRE 9733

 

By clicking on the button you’ll answer. Responses will be anonymous and your privacy will be respected and guaranteed during each stage of data collection and processing.

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’ansia e l’intolleranza dell’incertezza sono visibili a livello cerebrale?

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

 

La relazione tra intolleranza all’incertezza e ansia

L’intolleranza dell’incertezza, come affermato nel modello cognitivo teorico dell’ansia (Sassaroli & Ruggiero, 2002), è tra le credenze centrali dell’assetto di soggetti ansiosi. Essa è caratterizzata da un’eccessiva preoccupazione per ciò che è imprevedibile, incontrollabile e senza possibilità univoche d’interpretazione. Si tratta di una distorsione cognitiva legata all’idea di pericolo, che comporta il rimuginio a scopo previsionale. In particolare, le relazioni di causa-effetto avvengono rispettivamente in quest’ordine: intolleranza dell’incertezza, rimuginio e stato ansioso.

Tale credenza, inoltre, implica come conseguenza logica la catastrofizzazione, incidendo negativamente e pervasivamente nella vita quotidiana. Dunque, essa necessita di una ristrutturazione cognitiva della credenza “se il mondo è incerto, allora esso è pericoloso”, attraverso la constatazione che l’incerto non significhi necessariamente esito negativo (Ruggiero, 2012).

L’intolleranza all’incertezza e i correlati cerebrali

Alla luce di ciò, si rivela interessante uno studio che consentirebbe di individuare soggetti caratterizzati da intolleranza dell’incertezza attraverso la valutazione del volume dello striato, area cerebrale già associata da tempo al disturbo d’ansia generalizzato (DAG), consentendo di delineare nuovi trattamenti preventivi di tale disturbo.

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato proprio che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

Lo studio, condotto da Justin Kim, coinvolgeva 61 studenti che avevano scansionato con MRI il loro cervello dopo aver compilato un questionario per misurare la loro abilità di tollerare l’incertezza di potenziali eventi futuri negativi. Confrontando le scansioni MRI con i punteggi di tolleranza dell’incertezza, è emersa una correlazione positiva tra quest’ultima e il volume di materia grigia dello striato, cosa che non si manifestava per altre aree cerebrali.

Nonostante lo striato fosse stato già associato al disturbo d’ansia generalizzato o a quello ossessivo compulsivo (DOC), nessuna ricerca precedente aveva rintracciato un’associazione tra quest’area e l’intolleranza dell’incertezza in soggetti sani. A partire da questi risultati, tale regione potrebbe considerarsi un marker biologico del bisogno di predicibilità di un evento; infatti, oltre a un ruolo nelle funzioni motorie, essa codifica l’attesa di una ricompensa per un determinato comportamento mentre si apprende un compito nuovo. Dunque, in quest’ottica, l’intolleranza dell’incertezza si configurerebbe come il desiderio di maggiore predicibilità.

I punti forti di questa ricerca sono principalmente due: offrire una nuova tipologia di trattamento per i sintomi di DAG o OCD monitorando l’attività e il volume dello striato nel corso della terapia; e identificare, in fase preventiva, i soggetti sani a rischio di sviluppare le psicopatologie appena citate.

6° Corso internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma, Venezia, 2017 – Intervista a Dolores Mosquera

L’istituto Canossiano di Venezia ha ospitato dal 19 al 21 Maggio 2017 la VI edizione del corso “Nuove Frontiere nella cura del trauma” organizzato da associazione AreaTrauma e ha visto la partecipazione di Dolores Mosquera, Natalia Seijo e Giovanni Tagliavini.

 

Come intervenire sulle memorie traumatiche

Questo corso di alta formazione si colloca senza soluzione di continuità con quanto emerso nei cinque corsi precedenti e per la prima volta quest’anno viene trattata la fase II del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche nel PTSD complesso e nei disturbi dissociativi.

Giovanni Tagliavini presenta il seminario e le docenti provenienti dal centro specialistico INTRA TP, operante in Spagna.

Si percepisce la presenza di una rete internazionale in costante scambio e aggiornamento, ma nello stesso tempo si respira un’atmosfera familiare. Sin dai primi interventi il gruppo si presenta composto da persone con orientamenti, aree di lavoro e background diversi, pronte a sviluppare ed integrare le loro conoscenze nell’ambito del trauma complesso.

Dolores Mosquera, molto apprezzata nelle edizioni precedenti per la sua capacità di condividere attraverso la sua esperienza clinica concetti complessi e sempre in evoluzione, presenterà quest’anno la parte principale del corso. Esordisce collocando l’elaborazione dei ricordi traumatici al centro del suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, ma ribadendo come questo modello possa risultare artificioso se accettato rigidamente. Sostiene infatti come nella pratica questi processi debbano essere sempre contemporaneamente in divenire e simultanei. Già dall’inizio (fase I di riduzione dei sintomi e di stabilizzazione) alcune domande del terapeuta, infatti, insegnano al paziente a guardarsi dentro affrontando e regolando la tipica reazione fobica (fase III di integrazione e riabilitazione della personalità). Nella fase finale del trattamento sarà da potenziare ulteriormente l’integrazione, nonostante molti tendano in questo momento a lasciare la terapia perché stanno meglio e riescono a regolarsi.

Basandosi sull’idea oramai condivisa di Dissociazione Strutturale, ci propone il modello dell’elaborazione adattiva (AIP) come cornice teorica per comprendere quali elementi siano adattivi e quali no: Il comportamento dissociativo, risorsa che permette di sopravvivere mantenendo distante il dolore, diventa un problema perché il conflitto interno tra le parti dissociate nel tempo cresce sempre più di complessità.

Vengono proposte alcune specifiche tecniche da lei ideate che, seguendo questa base teorica, possono venire integrate in diversi approcci e strumenti utilizzati nell’elaborazione delle informazioni immagazzinate in maniera disfunzionale. Esse possono essere sia generate dall’esterno, che dall’interno: è proprio questo conflitto che si crea tra le diverse parti dell’individuo, con tutte le emozioni che ne conseguono e che non comunicano tra loro in maniera adeguata rispetto ai propri bisogni e scopi, che manda l’intero sistema in “cortocircuito”, creando confusione e blocco.

Quando il paziente riesce ad autoregolarsi ed a tollerare le proprie sensazioni fisiche, per lo meno in seduta grazie all’attenzione condivisa sul qui e ora con il terapeuta, sarà quest’ultimo a dover superare le proprie di paure “è troppo presto, è ancora fragile, lo sovraccarico e potrei farlo stare ancora peggio..” agendo sulle esperienze disturbanti e tenendo sempre in considerazione come si è organizzato il sistema di conseguenza. Dietro ad ogni suo intervento c’è la costante convinzione che non si debba interpretare, bensì comprendere insieme alla persona cosa le stia accadendo, quale funzione possa avere qualunque sua reazione apparentemente insensata e nociva e soprattutto se sia positivo per lei continuare in quella sessione o sia preferibile fermarsi. Sarà proprio la possibilità di poter condividere con qualcuno che rimane calmo di fronte a qualunque evento, che si impegna ad affrontarlo insieme rispettando il fatto che non ne voglia parlare in quel momento, l’esperienza correttiva principale. Per fare ciò il terapeuta deve sempre comunicare con l’intero sistema, deve costruire un’alleanza con tutte le parti, con quelle più problematiche, deve essere sufficientemente buona così che “ascoltino” e permettano di lavorare su tematiche più dolorose. Deve anche insegnare al paziente a dialogare con tutte le parti, in modo da potenziare l’integrazione dell’intero sistema.

Nell’ affrontare le memorie traumatiche, il compito del terapeuta sarà quindi quello di comunicare con l’intero sistema e di incoraggiare il paziente a fare lo stesso. Insegnandogli ad ascoltarsi interamente e a verificare che ogni sua parte sia d’accordo con quello che sta accadendo in seduta.

Il trauma e i disturbi alimentari

Natalia Seijo arricchisce ulteriormente il quadro ponendo l’attenzione sulla caoticità dell’esperienza interna spesso presente in persone affette da disturbi alimentari. Il legame tra queste problematiche, traumi, attaccamento e dissociazione è reso chiaro attraverso coinvolgenti esempi di sedute, dove si comprende come diverse esperienze traumatiche infantili avvengano spesso in ambienti che tendono a non proteggere e trascurare i bambini. E’ proprio questa mancanza di figure di riferimento in grado di dare sicurezza che spinge il bambino a cercare una qualche forma di “base emotiva” alternativa. Ecco che il cibo si trasforma in un elemento dissociativo, nel senso che diventa una scappatoia da una realtà dolorosa.

Le persone che soffrono di disturbi alimentari risultano così difficili da trattare perché sin da piccole hanno imparato ad innalzare molte difese (ad esempio autocriticandosi in maniera patologica così da imparare a non farsi scalfire dalle critiche esterne) che proteggono le proprie parti emotive più dolorose e temute (ad esempio “il/la bambino/a che non hai mai potuto essere a causa delle eccessive responsabilità richieste dall’ambiente circostante). Proprio per questo è importantissimo con questi pazienti validare la loro esperienza quando le difese si abbassano un po’ lasciandoci avvicinare a queste parti così fragili e nascoste, è importante infatti che quando ciò avviene loro si sentano finalmente capiti. Si propone in seduta l’occasione per integrare questa nuova esperienza emotiva condivisa: la regolazione emotiva che avviene tramite la relazione terapeutica permette al paziente di percepire, accettare e verbalizzare le proprie sensazioni somatiche e integrarle in una visione di sé più funzionale.

Le tre giornate, seppur impegnative e ricche di nozioni, esercitazioni e riflessioni, scorrono piacevolmente. Aumentano le conoscenze e la rete di persone che si interessa e si applica in quest’ambito così intuitivo da una parte, ma anche complesso e sorprendente dall’altra.
I lavori in piccoli gruppi, da citare un confronto molto interessante coordinato da Giovanni Tagliavini sulle sovrapposizioni e distinzioni tra disturbi dissociativi e psicotici, permettono un atteggiamento propositivo e curioso nei partecipanti, base per potenziali ulteriori sviluppi nel lavoro clinico e nelle prossime edizioni di questo incontro primaverile a Venezia.

L’intervista a Dolores Mosquera

Di seguito l’intervista a Dolores Mosquera, esperta di trauma complesso, disturbi dissociativi, disturbi borderline e antisociali di personalità, che racconta la sua esperienza clinica. Dagli inizi ad un approccio sempre più integrato, la formazione del centro clinico INTRA – TP a la Coruña (Spagna) e il confronto continuo con la ricerca e la clinica internazionale.

  • Quali pensi siano le caratteristiche necessarie di uno psicoterapeuta che lavora con pazienti così complessi?

DM: L’interesse innanzitutto. E’ necessario essere sempre curiosi e avere voglia continua voglia di imparare. Penso poi che la capacità di lavoro di squadra sia cruciale, se un clinico non ne è in grado tutto diventa molto complicato. Bisogna poi saper tollerare la frustrazione, riuscire ad accettare di poter commettere errori ed essere pronti ad imparare da essi. Per me è importantissimo essere in grado di non rimanere attaccato alla tua idea se questa non è più adeguata.
Il terapeuta deve cercare di mantenere l’attenzione duale verso la propria capacità di autoregolazione e contemporaneamente verso ciò che sta accadendo nel paziente. Bisogna seguire i suoi bisogni e non i propri, per fare ciò non bisogna ritrovarsi “contagiati emotivamente”, lo stesso si fa separando bene la nostra storia personale da ciò che sta accadendo in loro. Quindi possono esserci problematiche personali che si possono mettere in mezzo, a quel punto penso sia anche importante permettersi di affrontarle.

  • Qual è la tua idea di un centro clinico integrato? Pensando alle tue idee iniziali e da quello che hai imparato, che consigli daresti dalla tua esperienza?

DM: Quando ho iniziato a lavorare non avevo molto supporto dai miei colleghi che lavoravano nell’area dei disturbi di personalità, ma penso che negli ultimi anni ci sia stata una grande evoluzione in questo ambito. All’inizio cercavo semplicemente qualcuno interessato a lavorare con quei pazienti che nessuno voleva trattare. Abbiamo iniziato in tre, ma gli altri hanno presto iniziato a pensare che fossi matta! Dicevano che era troppo complesso e non se la sentivano di lavorare con i miei casi. A me piacevano tanto, a loro no. Quindi ho iniziato a cercare qualcuno con i miei stessi interessi. Volevo persone curiose, disposte a lavorare insieme senza il bisogno di competere e capaci di supportarsi a vicenda.
Poi nel tempo mi sono resa conto che lavorando da sola mi ritrovavo spesso a gestire pazienti che, seppur non giovanissimi, vivevano ancora in famiglia e dalla quale dipendevano. Non so se sia lo stesso in Italia. Comunque per me era difficile gestire tutto; accadeva spesso che passassi la maggior parte della seduta a parlare con i familiari, spesso disperati nei casi di gravi disturbi di personalità, e mi rendevo conto che era una parte del lavoro molto importante. Ho cercato quindi un terapeuta familiare, così da potermi focalizzare sui bisogni dei pazienti, ma allo stesso tempo dando alla famiglia una possibilità di essere supportata. A volte i familiari interferiscono nel nostro lavoro più che aiutare, ma loro stanno cercando di essere utili. Quando capiscono come fare sono sorprendenti, la famiglia è una risorsa enorme. Poi prima di terminare la seduta noi terapeuti facevamo una piccola pausa e ci confrontavamo, cercando i punti positivi comuni da rinforzare e quelli dove chiedere da entrambe le parti un piccolo cambiamento. Questa idea si è sviluppata negli anni, ora è così che lavoriamo quando abbiamo la fortuna di poter coinvolgere anche i genitori.
Per me ora un team che funziona è composto da persone che si sostengano tra loro. Noi lavoriamo in questa maniera: se qualcuno ha bisogno può chiedere aiuto, ma quello che a noi capita frequentemente è che prima ancora che qualcuno chieda l’altro già l’abbia colto e chieda “che succede? Ti serve qualcosa?” e questo è ciò che ci protegge dal burnout. E il senso dell’umorismo ovviamente, a volte anche un po’ “nero”.

  • Quando utilizzi la parola integrazione, cosa intendi esattamente?

DM: Cosa intendo con la parola integrazione? Credo che dovrei pensarci! Ma la prima cosa che mi viene in mente è un funzionamento sufficiente in ogni senso. Quando il sistema è in grado di adattarsi a ciò che succede con sufficiente stabilità senza crollare. Si, è un processo ininterrotto: un percorso, non un risultato. Quando io e Kathy Steele utilizziamo questo termine in senso generale, intendiamo un’integrazione “sufficientemente buona” per funzionare al meglio nel presente, incorporando il nostro passato, presente e potenziale futuro in ciò che siamo e in ciò che facciamo.

  • E dal punto di vista dell’approccio clinico? Cosa significa per te lavorare in modo integrato?

DM: Sai, io mi sono formata in diversi approcci. Ho iniziato come psicoterapeuta cognitivo comportamentale, prendendo alcuni spunti dalla Dialectical Behaviour therapy (D.B.T.), dalla terapia basata sulla Mentalizzazione e studiando diversi autori psicodinamici sui gravi disturbi di personalità come Kernberg, Gunderson e altri. Poi mi sono formata in EMDR e in Terapia Senzomotoria, ma devo dire che per me il modello AIP dell’EMDR è molto utile per integrare tutto quello che imparo. A mio parere questa prospettiva può spiegare la complessità in maniera molto semplice. Poi il training sull’attaccamento, le teorie di Giovanni Liotti e la formazione sulla dissociazione sono stati cruciali, senza di questi non sarei riuscita a mettere tutto insieme. Per avere un approccio integrato per me è basilare confrontarsi continuamente con altri colleghi, poter avere come ho detto una squadra con cui condividere idee e poter comunicare ed aggiornarsi costantemente creando anche una rete internazionale.

  • Quale pensi sia qualche interessante direzione futura della ricerca?

DM: Credo veramente che sia necessaria più ricerca nell’ambito dei disturbi dissociativi e del trauma complesso. Per molti miei colleghi il trauma complesso è qualcosa che ancora non viene riconosciuto, rischia di essere confuso per altro e di conseguenza il trattamento non va al punto. Credo che sia una chiave di lettura in grado di aprire la visuale del terapeuta, perciò più evidenza scientifica porterebbe sicuramente ad un maggiore interesse e approfondimento da parte di più persone.

I fidget spinner sono solo un capriccio o combattono davvero ansia e stress?

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba. A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza.

 

Il successo del fidget spinner

Il fidget spinner è uno dei dieci giochi più venduti su Amazon. Si tratta di un piccolo oggetto che le persone si divertono a maneggiare e far roteare. Il suo uso è diventato una vera e propria mania, soprattutto tra bambini e adolescenti.

Lo stesso successo era stato raggiunto con il fidget cube, un altro gioco anti-stress predecessore del fidget spinner, la cui campagna di raccolta fondi on-line “Kickstarter” aveva totalizzato 6,4 milioni di dollari con la sua vendita. Nonostante l’indiscusso successo raggiunto da entrambi, gli insegnanti stanno vietando il loro utilizzo nelle classi e gli esperti stanno combattendo contro l’idea che siano la soluzione per chi soffre d’ansia o di ADHD.

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba.

 

Come il fidget spinner riduce lo stress

A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza. In tal senso nell’ambito della ricerca e’ stato somministrato ai partecipanti un questionario sul quale indicare quali fossero le caratteristiche che apprezzavano del fidgeting e in quale particolare momento queste fossero utili a tranquillizzarli. La maggior parte dei partecipanti sosteneva che avere un oggetto tra le mani aiutasse a restare focalizzati su un compito lungo o a mantenere l’attenzione quando si era seduti per lungo tempo durante un meeting. Tra gli esempi più comuni, l’utilizzo di oggetti facilmente reperibili in ogni momento come penne, chiavette USB, cuffie, nastri adesivi o altri oggetti personali che aiutano ad ottenere uno stato di relax aumentando la concentrazione.

Alcuni psicologi riferendosi al fenomeno del “sensation seeking”, affermano che ogni persona cerca di modificare le proprie esperienze o l’ambiente circostante per avere un livello di stimolazione ottimale. Ogni persona funziona bene in condizioni diverse: alcuni si concentrano in un ambiente silenzioso, altri in uno rumoroso e stimolante. La stimolazione esterna, però, varia non solo tra le persone ma anche per la stessa persona a seconda dell’attività che si trova a svolgere.

 

Gli effetti di fidgeting sui bambini

Per quanto riguarda l’effetto del fidgeting sui bambini, le ricerche mostrano che tale attività influisce positivamente su ansia e attenzione, migliorando la concentrazione e quindi l’apprendimento.

Lo studio più rilevante è quello della professoressa Julie Schweitzer sull’effetto del fidget in bambini con ADHD durante l’esecuzione di un compito (flanker task). Effettivamente, compiere piccoli movimenti aiutava i bambini ad avere performance migliori.

Ciò che non va sottovalutato riguarda le caratteristiche che i diversi oggetti devono avere per considerarsi efficaci nella regolazione dell’attenzione. I terapeuti sostengono che la stimolazione primaria debba essere tattile, cosa che il fidget spinner integra con una coordinazione visiva. Per usarlo, infatti, è necessario tenere il centro del gioco con pollice e indice e utilizzare le altre dita per farlo roteare. La coordinazione vista-tatto è forse ciò che spinge gli insegnanti a bandire questi giochi dalle classi, perché inevitabilmente gli allievi non prestano visivamente attenzione all’insegnante a differenza di quanto accade con semplici palline anti-stress o con il fidget cube.

In conclusione, è necessario effettuare ulteriori ricerche per stabilire i presupposti teorici del fidgeting e per identificare ulteriori caratteristiche utili alla creazione di oggetti fidget potenzialmente utili per la regolazione dell’attenzione.

Per chi fosse curioso sui vari modi di usare un fidget spinner, ecco le istruzioni per l’uso!

Telefilm addicted e binge watching: vera e propria dipendenza o un fenomeno sociale?

Il Binge watching potrebbe configurarsi come una dipendenza, che non comprende unicamente comportamenti potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, ma comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

Emma Tidei – OPEN SCHOOL, II anno Studi Cognitivi 

 

Il fenomeno del binge watching

Italiansubaddicted, Maniaci seriali, Telefilm addicted, sono solo alcuni dei nomi più conosciuti e cercati in rete da chi vuole scaricare sottotitoli di serie tv o trovare link per poter vedere la puntata della propria serie preferita direttamente on line, attraverso il canale streaming.

Questo è un fenomeno sempre più frequente in Italia, dato che le maggiori serie televisive sono statunitensi o comunque anglofone e l’utenza ricerca un modo per seguire in real time gli episodi, senza aspettare la programmazione italiana, da sempre fanalino di coda in questo settore, per questione di diritti televisivi.

Lo streaming ovvia a questa problematica, così anche la creazione di piattaforme come Skybox o Netflix, dove intere stagioni vengono caricate e sono a disposizione degli spettatori. Tutto ciò porta i consumatori ad una fruizione del prodotto televisivo differente dall’”appointment viewing”, letteralmente appuntamento televisivo, e porta alla nascita, sia nel nostro paese che oltre oceano e oltre Manica, di un fenomeno noto come binge watching.

Il termine “binge watching” è stato definito anche dall’Oxford Dictionarie, come ”guardare più episodi di un programma televisivo in rapida successione, di solito attraverso DVD o usando lo streaming” (Oxford Dictionarie, 2013) e, è giusto aggiungere, tutti nello stesso luogo. Una definizione di binge watching più nostrana viene data dal dizionario Treccani e recita: “visione ininterrotta di una grande quantità di episodi appartenenti a una serie televisiva, che è interamente disponibile in rete o in cofanetti di dvd”, si può arrivare fino a 10-15 episodi di 40-50 minuti ciascuno.

 

Binge watching: uno sguardo ai numeri

Alcuni numeri possono dare il polso della situazione: da un sondaggio commissionato da Netflix su 1500 streamers, si evidenzia che circa il 61% ha praticato binge watching almeno una volta alla settimana; altri dati pubblicati da MarketCast rivelano come il 67% degli Americani tra i 13 e i 49 praticano maratone televisive. Il binge televisivo è personale e del tutto accidentale, praticato in casa e in solitudine dal 98% dei bingers. Come suggerivano i nomi sopracitati, con termini come “addicted”, anche la parola “binge” lascia sottintendere una dipendenza.

Una dipendenza non comprende unicamente comportamenti che includono eccesso e che sono potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, come quella da alcool o sostanze, ma anche comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

La dipendenza da televisione, insieme a quella da internet, si inserisce in quest’ultimo tipo di comportamenti in quanto la persona percepisce il desiderio soggettivo di guardare la tv come un modo per raggiungere una soddisfazione, ma può poi diventare senza controllo: si inizia con una puntata, poi due, poi tre…fino a passare il fine settimana difronte allo schermo del pc o della televisione.

 

Caratteristiche del comportamento binge

Secondo uno studio recente condotto da Pattison, Dombrowski e Presseau nel gennaio 2016, il binge watching appare collegato sia all’impulsività che alla riflessività in un campione di 86 partecipanti che hanno compilato dei questionari su auto-efficacia, aspettative di risultato e automaticità. Inizialmente, quando ci si appresta a vedere la televisione, gioca il fattore riflessivo, si segue uno scopo, poi, durante la visione, subentra un’impulsività, all’interno di un meccanismo di rinforzo contingente.

Un comportamento che si caratterizza come “binge” ha comunque anche una connotazione negativa: lo ritroviamo nelle condotte alimentari compulsive come il binge eating, con il quale la visione di programmi televisivi, al pari dei conflitti familiari, pare avere una correlazione secondo uno studio condotto da Harris e Bargh della Yale University. Nel binge watching rientra comunque anche la pericolosità dei comportamenti di dipendenza, poiché può portare a isolamento, disordini alimentari e problemi nel sonno. (Harris & Bargh, 2010; Wheeler, 2015) I comportamentibinge” sono generalmente accompagnati da sensi di colpa, mentre il binge watcher lo vive maggiormente come una sorta di piacere colpevole.

Uno studio dell’University of Siracuse condotto da Lena ha investigato l’effetto del binge watching sulla fruizione dello spettacolo da parte degli spettatori. Questo appare essere consistente dipendentemente dal tipo di show (ad esempio se è ben recitato e ha una buona storyline) e non vale per qualsiasi serie tv in maniera generalizzata. Lo studio di Lena mostra anche una significatività del binge watching legata alla gratificazione che lo spettatore ottiene dalla visione di più puntate dello show preferito. I dati che emergono mettono in luce il fatto che chi pratica il binge watching, piuttosto che l’appuntamento settimanale con un programma, ricerca una fuga ed è invece meno orientato ad ottenere una vera e propria gratificazione materiale.

 

Quando la serie finisce: i vissuti dei binge watchers

«Iniziare a guardare una serie TV che potrebbe durare anni non è una decisione da prendere alla leggera» dice saggiamente Sheldon Cooper, personaggio della sit-com “The Big Bang Theory”. Ed è un’osservazione che molti appassionati di serie tv certamente sottoscriverebbero. Significa sapere di dover scendere prima o poi a patti col fatto che la serie finirà e ci sarà un season finale, un episodio a cui non ne seguiranno altri. Quando una serie finisce per molti di essi la sensazione è quella traumatica di un vero e proprio lutto, accompagnato dalla sensazione che qualcuno li abbia abbandonati.

Secondo la psicologa Emily Moyer-Guse della Ohio State University, la fine di una serie tv può portare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento, manifestazioni che possono ricorrere anche tra la fine di una stagione e l’altra, del tutto simili a quelle derivanti dalla fine di una storia d’amore. Sì, perché i personaggi ai quali ci si affeziona diventano come amici; una relazione, quella di teleamicizia (Joshua Meyrowitz), che rende un personaggio carnale, fa seguire le sue vicende con passione sempre maggiore. La precedente generazione vedeva nei protagonisti di film passati alla storia o nei personaggi di romanzi classici dei modelli; oggi le nuove generazioni vedono nei personaggi delle serie tv dei compagni, individui che crescono, sbagliano, rimediano, cambiano, proprio come può succedere a loro. In 3-4 stagioni di 20-23 episodi ciascuna c’è tempo per cadere e rialzarsi, per sbagliare e rimediare, il tempo scorre similmente alla vita e non è legato alla pellicola di 90 minuti.

Fondamentale in tutto ciò è, quindi, la ricerca di emozioni. Lo studio statunitense ha esaminato come gli spettatori – tutti universitari – reagiscono davanti alla fine del proprio programma preferito, chiedendo loro quanto spesso guardavano la televisione e i motivi che li spingevano a farlo, e quanto fosse importante per loro. Dai risultati è emerso che i ragazzi che affermavano di sentirsi in “forte relazione” con i personaggi erano coloro che si sentivano più a disagio quando i telefilm interrompevano le programmazioni: i rapporti con i personaggi televisivi possono essere paragonati ai rapporti reali, ma con un’intensità minore. “Il disagio percepito è reale”, ma l’intensità dell’angoscia che si prova, spiega la ricercatrice, “non è paragonabile a quella che si prova nella realtà” (Moyer-Guse).

 

Binge watching: la causa nella paura dei rapporti sociali?

La creazione di questi rapporti parasociali può avere origini nella storia di vita degli individui che arrivano poi a praticare il binge watching. A questo proposito uno studio descrittivo della Georgia Southern University, condotto da Katherine Wheeler, ha evidenziato come i partecipanti, studenti del college, che ottenevano alti punteggi nella scala di attaccamento ansioso della scala Experiences in Close Relationships Revised (ECR-R; Fraley, Waller, & Brennan, 2000), erano quelli che più frequentemente ricorrevano al binge watching come comportamento.

Questo dato potrebbe spiegarsi pensando al fatto che questi soggetti hanno spesso preoccupazioni eccessive riguardo alla pericolosità della vicinanza nelle relazioni e paura dell’abbandono e di conseguenza ricercano nella serie tv dei rapporti parasociali, surrogati di quelli che non riescono a gestire, e vengono gratificati dalla fuga da questi ultimi. Magari di fondo ci può essere una struttura di personalità di tipo evitante o schizoide che favorisce quel ritiro, in quanto vivendo con difficoltà l’interazione sociale, trovano un rifugio ideale e una modalità di esperire determinate emozioni.

In conclusione, molta ricerca si è concentrata negli Stati Uniti, ma anche qui nel nostro paese il fenomeno del binge watching è ormai diventato presente e per tale preoccupante. È auspicabile uno studio di settore che dia il polso della situazione anche in Italia, dove la nascita dei gruppi di ragazzi che si ritrovano in piattaforme on line, come quelle citate all’inizio dell’articolo, per caricare i sottotitoli delle più amate serie tv ci mostra il grado di partecipazione e coinvolgimento per questo fenomeno che porta ragazzi, spesso universitari o studenti liceali a spendere svariate ore e parte importante del proprio tempo libero a tradurre, sincronizzare e commentare intere puntate, per poi metterle a servizio di un utenza sempre più ampia.

Si può effettivamente parlare di dipendenza? O siamo di fronte ad un fenomeno sociale di massa? È quello che si chiedono anche nei forum nati per la condivisione della passione per i telefilm tra i giovani, anche nel nostro paese. A mio avviso è un fenomeno che va controllato, poiché da quanto emerge dai vari studi, il rischio di un comportamento come il binge watching sul well-being è reale e se non è il fenomeno sociale a portare la dipendenza, potrebbe essere la dipendenza a portare il fenomeno sociale, crescendo individui sempre meno capaci socialmente.

Nel suo saggio “Cattiva maestra televisione” il filosofo Karl Popper mette in guardia dal prodotto scadente dell’industria televisiva; direi che ora dobbiamo essere messi in guardia da quello ottimo, che oscura la vita reale, che non termina dopo 40 minuti e può non darci tutto quel concentrato emotivo, ma è naturale, spontanea. Il binge watcher ha paura di fronte ai rapporti sociali, proprio per le emozioni spiacevoli che possono comportare, così lascia che siano altri a decidere quali emozioni proverà; facendo così, paradossalmente, rinuncia a quello che lo attira verso la serie tv: il proprio vissuto emotivo.

Fine vita e dignità umana – IL PREMIO “CITTA’ DI COMO”

 

PREMIO CITTA’ DI COMO – INCONTRI CULTURALI

 

 

Venerdì 9 giugno, 20.30

Biblioteca comunale, Como

Piazzetta Venosto Lucati, 1

 

 

Fine vita e dignità umana

 

Intervengono

Edoardo Boncinelli, Beppino Englaro e Mina Welby

 

Contributo di

Don Vincent Nagle, Cappellano Fondazione Grassi di Milano

 

Introducono e moderano

Giorgio Albonico e Marcello Iantorno

 

Ingresso libero

 locandina incontro dignità umana_biblioteca 9 giugno_b

 

“Fine vita e dignità umana”. Saranno questi i temi al centro del nuovo incontro culturale organizzato nell’ambito del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como in collaborazione con l’Associazione Giustizia e Democrazia (AGeD), che si terrà venerdì 9 giugno alle 20.30 presso la Biblioteca comunale di Como.

Partendo dalla riflessione contenuta nell’ultimo libro di Edoardo BoncinelliIo e lei. Oltre la vita” (Guanda, 2017) – saggio nel quale lo scienziato e scrittore regala una meditazione sulla morte con una serenità di animo e una profondità di analisi che restituisce a questo evento la sua naturalità, privandolo degli aspetti negativi – il dibattito si allargherà al fine vita, al valore della persona e della vita, e alla scelta di poter morire con dignità.

Il dibattito-confronto vedrà la partecipazione di Edoardo Boncinelli, Beppino Englaro, Mina Welby, con il contributo di Don Vincent Nagle, Cappellano della Fondazione Grassi di Milano.

Introducono e moderano Giorgio Albonico, organizzatore del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como, e l’avvocato Marcello Iantorno, Responsabile A.G.eD.

 

 

Ingresso libero.

 

 

La partecipazione all’iniziativa dà diritto a 3 crediti formativi riconosciuti dall’Ordine Avvocati di Como.

 

 

 

Edoardo Boncinelli

Genetista, è stato professore di Biologia e Genetica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Collabora a Le Scienze e al Corriere della Sera. Ha pubblicato, tra gli altri, “Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà” (con Giulio Giorello, BUR, Rizzoli, 2009) e “Perché non possiamo non dirci darwinisti” (Rizzoli, 2009). Sempre con Giorello ha scritto “Noi che abbiamo l’animo libero” (Longanesi, 2014) e “L’incanto e il disinganno: Leopardi” (Guanda, 2016).

 

Mina Welby

Wilhelmine Schett (chiamata Mina Welby) ha insegnato per qualche anno a Merano nelle scuole medie. Trasferitasi a Roma ha sposato Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, e ha insegnato in scuole private la lingua tedesca. Dal 2003 è iscritta nell’Associazione Luca Coscioni e a Radicali Italiani. Dal 2008 ha incarico di Delega per i diritti civili al X° Municipio di Roma. Insieme al giornalista Pino Giannini ha scritto il libro-intervista “L’ultimo gesto d’amore” (Marotta e Cafiero, 2016) e ha collaborato alla realizzazione del libro postumo di Piergiorgio Welby “Ocean terminal” (Castelvecchi, 2009).

 

Beppino Englaro

Beppino Englaro, padre di Eluana e socio della Consulta di Bioetica di Milano, si batte da circa venticinque anni per la libertà di cura e terapia da quando nel 1992 a seguito di un incidente stradale la giovane figlia Eluana si è trovata a vivere in stato vegetativo fino alla morte naturale avvenuta nel 2009 . Nel 2008 è uscito per Rizzoli il suo libro “Eluana, la libertà e la vita” (con Elena Nave) e nel 2009, sempre per Rizzoli, “La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno Stato di diritto” con Adriana Pannitteri.

 

Don Vincent Nagle

Sacerdote della fraternità missionaria san Carlo Borromeo è Cappellano della Fondazione Grassi di Milano. Tra i suoi libri, “Nella terra di Dio” (Lindau, 2010) e “Sulle frontiere dell’umano. Un prete fra i malati” (Rubbettino, 2004).

 

 

“Io e lei. Oltre la vita” – Il libro di Edoardo Boncinelli

Occuparci della nostra nascita per noi è impossibile, il prima ci è sconosciuto. Ma di certo, da vivi, possiamo riflettere sulla nostra morte, anche se il poi ci è ignoto. Nel libro “Io e lei. Oltre la vita” (Guanda, 2017) Edoardo Boncinelli racconta di avere avuto consapevolezza della morte da bambino, mentre nell’immediato dopoguerra, ospite di un centro profughi allestito alla meglio, parlava con la mamma di persone che non c’erano più.

Da scienziato e pensatore Boncinelli ne indaga tutti gli aspetti e le possibili interpretazioni. Discute le consolazioni della religione, dai miti delle origini al paradiso cristiano, alle credenze più diffuse. Esamina con passione e generosità divulgativa le risorse della scienza, fino a metterci a parte delle ultime ricerche della genetica e della biologia. Infine affronta l’autentico mistero dell’universo, la coscienza, nostra assoluta unicità, sintetizzando così il suo sentimento: «Verrà la morte e non chiuderò i miei occhi».

 

 

 

 

IL PREMIO “CITTA’ DI COMO”

 

Ideato da Giorgio Albonico nel 2014, il Premio Città di Como riconosce e valorizza gli autori meritevoli, promuove la scrittura, la letteratura e le opere prime e dà voce alle idee.

È un Premio in costante crescita – come dimostrano i numeri delle edizioni passate, con quasi duemila partecipanti solo nella scorsa edizione e la presenza di molte case editrici nazionali – e che quest’anno apre anche ai giornalisti, con la sezione “Reportage”, e ai video. Queste due nuove categorie vanno così ad affiancarsi alla prosa, alla poesia, alla saggistica e alla fotografia. Una particolare attenzione sarà dedicata anche alle opere prime e ai giovani scrittori dai 13 ai 19 anni, alla cui migliore opera prima sarà assegnato un premio speciale.

Per decretare i vincitori di questa quarta edizione entrano per la prima volta a far parte della giuria tecnica lo scienziato e scrittore Edoardo Boncinelli, la scrittrice Dacia Maraini e il giornalista del Corriere della Sera Pierluigi Panza, che vanno ad affiancare lo scrittore Andrea Vitali, presidente di giuria, Milo De Angelis, poeta e critico, il fotografo Giovanni Gastel, Francesca Giorzi, produttrice prosa Rsi e Presidente ASSI (Associazione degli Scrittori della Svizzera Italiana), Armando Massarenti, direttore dell’inserto domenicale de Il Sole 24 ore, Flavio Santi, scrittore e docente all’Università degli Studi dell’Insubria, la editor Laura Scarpelli e Mario Schiani, responsabile delle pagine culturali del quotidiano La Provincia di Como.

Tra i vincitori delle scorse edizioni Camilla Baresani, Armando Massarenti, Franco Di Mare, Tiziano Broggiato, Mario Santagostini, Alessandro Ceni, Lorenzo Marone e i premi speciali alla carriera assegnati a Ferruccio De Bortoli ed Edoardo Boncinelli.

 

Le domande di partecipazione scadono il 15 giugno 2017.

Bando completo, regolamento e tutte le informazioni al sito www.premiocittadicomo.it.

 

Il Premio Internazionale di Letteratura Città di Como è organizzato con il contributo e il patrocinio del Comune di Como.

Con il patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Como, Comune di Erba, Camera di Commercio di Como, Università degli Studi dell’Insubria, Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Como, Fondazione Provinciale della Comunità Comasca.

In collaborazione con La Provincia, Associazione Italiana di Cultura Classica, Amici di Como, Centro Studi Casnati, Ubik Como, Parolario, Espansione Tv, Hotel Metropole Suisse, Alberto Terminus Como, Concorsifotografici.com, Gli amanti dei libri, Tessabit, Associazione italiana per l’Aforisma, Palace Hotel, Sheraton Lake Como Hotel, Hotel Barchetta Excelsior, Best VistoinTv.

Sponsor tecnici: Comolake.com, Partners, Como Città Medioevale, B&B on Lake Como.

 

 

 

 

Per informazioni

ASSOCIAZIONE ELEUTHERIA – Segreteria organizzativa

[email protected]

www.premiocittadicomo.it

Facebook: facebook.com/premiocittadicomo

Twitter @PremioCittàComo

 

 

 

Ufficio stampa

ELLECISTUDIO

Tel. +39 031.301037 – +39 335.7059871

[email protected][email protected]

www.ellecistudio.it

Facebook: facebook.com/Ellecistudio

Twitter: @Ellecistudio

Libet e schema therapy per conoscere i futuri psicoterapeuti – Riccione, 2017

Libet e Schema Therapy per conoscere i futuri psicoterapeuti

Temi dolorosi, Piani e Schemi Maladattivi Disfunzionali Precoci (SMP) in un  campione di studenti in formazione

Nicoletta Serra, Maria Elena Maisano,  Maria Chiara Di Lieto, Camilla Freccioni, Luca Calzolari, Sara Mori, Carmelo La Mela,

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva -Scuola Cognitiva di Firenze

 

Un precedente studio (Sansone et al 2011) ha indagato le caratteristiche di personalità di psicoterapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale in formazione e l’evoluzione dei loro Schemi Maladattivi Precoci nel tempo (SMP), rispetto ad un gruppo di controllo. Dallo studio era emerso che l’andamento degli schemi tendeva all’oblatività coatta, in linea con la letteratura precedente. Ad un anno di distanza, non erano state rilevate differenze significative.

Il focus della presente ricerca è indagare come gli stati mentali e le strategie cognitive di funzionamento di psicoterapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale in formazione siano in relazione con i loro Schemi Maladattivi Precoci (SMP), rispetto ad un gruppo di controllo. A tale scopo, si é scelto di utilizzare il modello di concettualizzazione cognitiva LIBET (Life theme and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and a Treatment), ideato e strutturato dal gruppo di ricerca di Studi Cognitivi. LIBET é un modello attenzionale, metacognitivo ed evolutivo che descrive la sofferenza secondo due coordinate: i Temi e i Piani.

Il Tema (minaccia terrifica, disamore, inadeguatezza, indegnità) é uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile. La persona gestisce il proprio tema doloroso attraverso Piani semi-funzionali (prudenziale, prescrittivo, immunizzante), cioè strategie precocemente acquisite, che hanno funzionato nel tempo per non entrare in contatto con il proprio tema doloroso e hanno, in parte, permesso un ritorno alla dimensione di sicurezza.

L’obiettivo a breve termine dello studio é stato indagare i temi dolorosi e i piani secondo il modello LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (Ruggiero M.G., Sassaroli S., 2013) e la correlazione con gli schemi maladattivi precoci, in un gruppo di studenti della Scuola Cognitiva di Firenze  rispetto a un gruppo di controllo.  L’ obiettivo a lungo termine sarà valutare  nel corso degli anni di specializzazione l’evoluzione dei temi dolorosi, dei piani e degli schemi maladattivi precoci.

 

Reagiamo bene, anche se non sappiamo bene perché: le reazioni al terrorismo

Probabilmente ha ragione il Direttore de Linkiesta: questa volta ha vinto il terrore. Questa volta è più difficile reagire con calma e stoica noncuranza. Altro è rimanere tranquilli senza cedere alla violenza spontanea, altro è andare a dire alle proprie figlie adolescenti che la migliore reazione è non far nulla, non perdere la testa e mantenere la calma. I terroristi hanno scelto l’obiettivo con fredda strategia: giovani ragazze adolescenti. Quelle che, pur già femministe, guardano ancora a un padre protettivo. Che poi ci sia questo padre, è un altro paio di maniche.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 27 maggio 2017

 

 

Oppure no, in realtà sarà facile reagire anche questa volta al solito modo. Forse è vero che abbiamo vinto noi che amiamo la vita ed è vero che si tratta di una guerra intestina all’islam. Diremo alle nostre figlie che non dobbiamo cedere alla tentazione della violenza, che dobbiamo continuate ad andare ai concerti e che la reazione violenta è proprio quello che vogliono i terroristi. Non avremo fegato di aggiungere che poi nemmeno sapremmo bene come attuarla, questa protezione.

Malgrado ciò, non potremmo anche non sentirci un po’ ridicoli e impotenti, o almeno disorientati. E soprattutto deludenti agli occhi di queste figlie. Che poi magari si affretteranno al prossimo concerto per niente deluse di noi confusi genitori, che rimaniamo a casa in apprensione, non si sa bene se di un incidente di auto causato dall’amico brillo o se di un attentato. Forse faremo tutto questo in silenzio, senza troppe chiacchiere, anche perché questi continui richiami al non concedere loro il nostro odio stanno diventando risaputi e obsoleti quasi come un’invettiva razzista.

Loro chi, poi? L’avversario è più che mai sfuggente. Va bene non dargli un nome, che i nomi sono pregiudizi. Ma anche questo eterno esercizio di saggio silenzio alla lunga ci imbambola in un’ attesa non si sa bene di cosa. Va a finire che il Godot che attendiamo è proprio il terrorismo, un qualcosa di cui nulla si sa e del quale possiamo dire solo cosa non è.

Per non parlare poi della confusione che regna anche nel campo sovranista e conservatore, per non dire reazionario. Riscoprire l’identità, ma quale? L’identità in psicologia è in crisi da tempo, ed è sempre più messa in discussione. L’identità individuale come concetto scientifico appare sopravvalutata. Sopravvive in sociologia e nella psicologia dei gruppi.

E quale sarebbe la nostra identità? Giudaico-cristiana, giudaica ma non cristiana, cristiana ma non giudaica, laico-illuminista e cristiana oppure non cristiana, laica ma romantica e anti-illuminista, liberale e liberista o sovranista e neo-nazionalista, filo-europea o viceversa, strapaesana o stracittadina? Il dibattito, soprattutto su Facebook è oltremodo confuso e ben presto si preferisce tacere. La minoranza chiassosa dei commentatori si rivela sempre più una minoranza ma sempre più chiassosa. E poi il sospetto è che ci divertiamo molto di più criticando i nostri politici, da Hollande a Renzi, in attesa che tocchi a Macron. Per non parlare di Trump, che se non ci fosse dovrebbe inventarselo. L’identità occidentale, intesa come desiderio di prendersela con se stessi, è più forte e confusa che mai.

Quindi continueremo a reagire bene, almeno per ora. Purtroppo non si sa se per saggezza o per stanchezza. O meglio, siamo approdati a un preoccupante stadio in cui stanchezza e saggezza coincidono e forse l’una si traveste nell’altra, senza mai rivelare sul serio la propria vera natura. Come accade nella vecchiaia.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento: la riabilitazione dei DSA – Report dal seminario di Genova

Sabato 29 Aprile presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si è tenuto il quarto incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova 2017”, dal titolo “Disturbi Specifici dell’Apprendimento: la riabilitazione dei DSA ” tenuto dalla dott.ssa Sara Della Morte.

Che cosa sono i Disturbi Specifici dell’ Apprendimento?

Nella parte introduttiva dell’intervento si fornisce la definizione di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), intendendoli come una categoria diagnostica, relativa ai Disturbi Evolutivi Specifici di Apprendimento che appartengono ai disturbi del neurosviluppo (DSM-5, 2014), che riguarda i disturbi delle abilità scolastiche, ossia Dislessia, Disortografia, Disgrafia e Discalculia (CC-2007).

La Consensus Conference dell’Istituto Superiore di Sanità (Cc-ISS, 2011) definisce i DSA “Disturbi che coinvolgono uno specifico dominio di abilità, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Essi infatti interessano le competenze strumentali degli apprendimenti scolastici.
Sulla base del deficit funzionale vengono comunemente distinte le seguenti condizioni cliniche:
Dislessia, cioè disturbo nella lettura (intesa come abilità di decodifica del testo)
Disortografia, cioè disturbo nella scrittura (intesa come abilità di codifica fonografica e competenza ortografica)
Disgrafia, cioè disturbo nella grafia (intesa come abilità grafo-motoria)
Discalculia, cioè disturbo nelle abilità di numero e di calcolo (intese come capacità di comprendere e operare con i numeri).

E’ importante sottolineare che i bambini con DSA hanno un’intelligenza nella norma e/o superiore alla norma, essi riescono facilmente ad avere una visione d’insieme, a percepire un’immagine nel suo complesso.
Sono in grado di cogliere gli elementi fondamentali di un discorso o di una situazione, ragionando in modo dinamico e creando connessioni inusuali che altri difficilmente riescono a sviluppare.

Apprendono facilmente dall’esperienza e ricordano maggiormente i fatti non in modo astratto ma come esperienze di vita, racconti ed esempi. Pensano soprattutto per immagini, visualizzando le parole e i concetti in modo tridimensionale, per questo memorizzano molto più facilmente per immagini.

Sono capaci di vedere le cose da diverse prospettive e processano le informazioni in modo globale invece che in sequenza.
Le principali caratteristiche che contraddistinguono i DSA riguardano:
– Le inattese e importanti difficoltà nella letto-scrittura e/o nei numeri e nel calcolo;
– Le difficoltà nella consapevolezza fonologica (difficoltà nel riconoscere quanti, quali e in che ordine sono i suoni di una parola);
– La lentezza nell’automatizzazione di diverse abilità.

Alcuni bambini con DSA possono anche avere difficoltà di coordinazione, di motricità fine, nelle abilità di organizzazione e di sequenza e difficoltà nell’acquisizione delle sequenze temporali (ore, giorni, stagioni, ecc.).

Dall’analisi della letteratura i disturbi che più frequentemente si riscontrano in comorbilità con i DSA sono: il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD) e i Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL).
La Consensus Conference (2007) ha evidenziato che nella pratica clinica si riscontra un’alta presenza di comorbilità sia fra i disturbi specifici dell’apprendimento stessi, sia fra DSA ed altri disturbi (disprassie, disturbi del comportamento e dell’umore, disturbi d’ansia, ecc.).
L’elevata comorbilità determina la marcata eterogeneità dei profili funzionali e di espressività con cui i DSA si manifestano e comporta significative ricadute sul versante dell’indagine diagnostica (CC-2007).

L’importanza di un Intervento Globale (Bambino-Scuola-Famiglia)

L’intervento procede mostrando l’importanza di un intervento specialistico riabilitativo di tipo clinico, poiché essendo i DSA disturbi di natura neurobiologica complessi non possono essere gestiti unicamente della scuola con interventi di potenziamento didattico.
Quindi è importante costruire una rete che coinvolga bambino, famiglia e scuola.

IL BAMBINO

Con il bambino bisogna instaurare un trattamento diretto, la diagnosi deve essere precoce così come l’intervento abilitativo specialistico.
Inoltre è importante che il bambino venga supportato psicologicamente, deve sapere qual è il problema, così da poterlo elaborare e mentalizzare al fine di poter continuare ad investire sugli apprendimenti.

LA SCUOLA

Per quanto concerne la scuola, il compito dell’insegnante cambia molto a seconda della fase in cui opera con gli allievi. E’ importante che si instauri una collaborazione tra scuola e intervento terapeutico con l’utilizzo di misure compensative e dispensative. Lo scopo è sviluppare e mantenere un buon rapporto scuola/insegnanti/genitori. Sollecitare un buon rapporto insegnante/allievo: mostrare comprensione, premura ed interesse verso di lui.
Rendere consapevoli gli insegnanti che il bambino apprende, ma in modo diverso (consigliare ad esempio misure per l’autonomia). E’ di fondamentale importanza fornire conoscenza del problema attraverso formazione specifica.

LA FAMIGLIA

Per quanto riguarda invece la famiglia, essa deve:
Considerare la possibilità di consultare uno specialista e di avviare un percorso diagnostico.
Rendersi disponibile al confronto con gli insegnanti.
Sostenere il bambino nel percorso abilitativo.
Non colpevolizzare se stessi e tantomeno il bambino per le difficoltà che presenta.
Non eccedere in richieste, ma nemmeno sostituirsi interamente a lui nei compiti.

Molto spesso le famiglie con bambini con DSA si trovano di fronte a varie difficoltà come:
– diagnostica fine e lunga da costruire;
– lunghi periodi di riabilitazione;
– concentrazione;
– tempo dedicato;
– risorse economiche e personali.

L’utilizzo delle APP nella riabilitazione dei DSA: il servizio Ridinet di Anastasis

Ci si concentra poi sull’introduzione del servizio Ridinet nella riabilitazione dei DSA, in cui si propongono una serie di percorsi personalizzabili in base alla diagnosi, che si presentano sotto forma di App all’interno della quale l’utente può costruire un proprio profilo personalizzato con tanto di avatar.
Queste App sono caratterizzate da esercizi basati su specifici modelli riabilitativi, con una grafica accattivante e con costanti feedback sonori sull’andamento della propria prestazione.

READING TRAINER 2 – è un esercizio di lettura basato sulla sillabazione, che offre al clinico la possibilità di assegnare testi da far leggere al paziente a casa con la supervisione di un adulto. Scelto il brano da un’ampia libreria, si ha la possibilità di modificare le modalità di somministrazione dell’esercizio, tarandole quindi sulle specifiche caratteristiche del bambino. Il programma fornisce inoltre un feedback su accuratezza e velocità di lettura.

LINEA DEI NUMERI – è un programma pensato per favorire la rappresentazione mentale della quantità e del calcolo: il bambino deve collocare un numero sulla linea, valutando visivamente dove si trovi tra 1 e 10. Questa App è basata sull’ipotesi secondo cui dopo una fase precoce in cui la rappresentazione della quantità fa riferimento alle dita delle mani, la rappresentazione mentale più evoluta della quantità è una linea orizzontale. Anch’essa prevede aiuti visivi (indicazione di altri numeri) e feedback sonori variegati e divertenti.

TACHISTOSCOPIO RAPWORDS – è un programma per esercitare e migliorare la velocità e la correttezza nella lettura di parole rivolto a bambini e ragazzi con prestazioni di lettura non ottimali. L’esercizio intende stimolare una lettura globale delle parole, favorendo un migliore utilizzo/sviluppo del lessico ortografico: presenta infatti parole singole con un tempo di esposizione inferiore a quello per iniziare un movimento oculare (o saccade). In questo modo, il bambino è spinto a cercare di leggere la parola come una sola unità. La presentazione di liste di parole che variano per frequenza d’uso o lunghezza consente di adattare l’esercizio rispetto alle specifiche difficoltà del bambino.

CLOZE – è un software per la comprensione del testo scritto che mira specificatamente al recupero dei processi di inferenza lessicale e semantica. Ad ogni seduta di lavoro il bambino lavora su testi scritti a cui mancano delle parole e deve completare gli spazi vuoti scegliendo l’alternativa corretta tra quelle proposte automaticamente affinché il testo sia congruente. Il programma propone inizialmente una fase di taratura che consente di determinare il livello di partenza delle attività per ogni bambino, ed è personalizzabile anche rispetto alla tipologia dei cloze con i quali il bambino dovrà lavorare (casuali, prevalentemente funtori, prevalentemente tempi verbali, prevalentemente nomi e aggettivi).

SILLABE – è un programma di rieducazione della lettura, che favorisce lo sviluppo della capacità di decifrazione senza supporto lessicale, attraverso il riconoscimento rapido di sillabe o gruppi di lettere (subcomponenti delle parole). L’App controlla anche i tempi di elaborazione degli stimoli, attraverso un intervallo, anch’esso autoregolato, tra uno stimolo e l’altro. Il programma propone un test di ingresso che determina il livello ottimale di lavoro per ciascun paziente e il percorso, strutturato su 116 livelli, prosegue in modo automatico sulla base del risultato di ogni singola esecuzione di batteria.

RUN THE RAN – è un programma finalizzato al potenziamento dei processi di denominazione rapida. L’ esercizio di RAN (Rapid Automatized Naming) prevede la denominazione temporizzata di stimoli sequenziali: il bambino deve denominare sempre più velocemente ad alta voce tutti gli stimoli visivi (colori e figure) presentati in matrici, corrispondenti a parole di differente struttura sillabica, frequenza d’uso e lunghezza. Le figure, appositamente create in bianco e nero, sono inserite in librerie divise per tipologia di stimolo, e vengono presentate in matrici che richiedono l’esplorazione da sinistra a destra, come nella lettura di un testo, aiutando il bambino ad automatizzare anche il processo di scansione visiva e pianificazione dei movimenti oculari (e quindi del focus attentivo).

DAL SUONO AL SEGNO – è un programma che intende stimolare la discriminazione di suoni simili, la conversione del suono nel segno grafico corrispondente, il riconoscimento di raddoppiamenti, il recupero lessicale del vocabolo. In breve, le abilità definite dallo stadio alfabetico ed ortografico-lessicale della scrittura. Gli esercizi sono stati costruiti con l’intento di proporre ai bambini attività mirate alle diverse problematiche fonologiche della scrittura. Sono prese in esame, inoltre, le principali difficoltà fonetiche (doppie e accenti), e sono previsti, nelle fasi conclusive del programma, esercizi di tipo lessicale.

Il clinico può inserire i dati dei pazienti e i punteggi riportati nelle varie prove, ottenendo in automatico grafici relativi all’andamento del percorso per ciascun bambino, il che facilita molto la valutazione in itinere. Fondamentale inoltre è il fatto che quasi tutte le App prevedano la proposta di esercizi dalle caratteristiche tarate in base al livello iniziale di competenze del bambino e ai risultati da esso riportati di prova in prova.

Si conclude con una riflessione riguardo gli effetti positivi che questo sistema favorisce sulla motivazione e sul mantenimento dell’attenzione. In quanto i frequenti feedback sulla prestazione stimolano le competenze metacognitive del bambino, il suo senso di autoefficacia e sulla sua autostima.

Ipnosi e rilassamento: le differenze tra le due tecniche

Questo articolo si propone di comprendere benefici e limiti delle due “tecniche” (se le inquadriamo come tali), le caratteristiche accomunanti e le distonie proprie dei costrutti di ipnosi e di rilassamento. Non si vuole fare una digressione storico-culturale.

Alessandro Failo 

Le difficoltà nel differenziare l’ ipnosi da altri trattamenti non ipnotici può essere spiegata dal fatto che entrambe le tecniche mirano a focalizzare l’attenzione su un qualcosa di specifico (l’ ipnosi stessa, ma anche l’immaginazione guidata, il training autogeno, la meditazione, la mindfulness) e prevedono anche componenti specifiche di rilassamento. Così, ci si chiede se questi tipi di tecniche siano in generale solo variazioni del processo di rilassamento oppure se vi sia un qualcosa di diverso, tanto più che si tende ad accomunare o a sostituire termini e nomi con la convinzione (o presunta tale) che nella pratica, queste differenze non sussistano (Gay et al., 2002).

Elementi comuni tra ipnosi e rilassamento

Quando parliamo di ipnosi e rilassamento è più corretto definirle “gruppi di tecniche” perchè presentano declinazioni diverse a seconda degli approcci e delle preferenze del clinico.

Queste tecniche funzionano solo quando il cliente è disposto ad impegnarsi nell’esperienza ed è in grado di lasciarsi assorbire dalle possibilità suggerite dal terapeuta.

Se pensiamo a quando stiamo attraversando un periodo di ansia o di stress, il proposito di rilassarsi può essere visto come quando tentiamo di addormentarci a tutti i costi. Lo sforzo compromette l’obiettivo proposto.

Anche nell’ ipnosi ci sono persone più o meno suscettibili all’induzione e, senza il reale coinvolgimento di chi si accinge ad affrontare la seduta è impossibile superare questo passaggio. È ancora più evidente quando si fa l’ auto-induzione nell’auto-ipnosi.

L’induzione ipnotica eseguita correttamente (strutturata ed esplicitamente definita come tale), è un processo che assorbe e concentra l’attenzione, indirizzandola per esempio su un’idea, una voce o un’esperienza interna, ma sempre su qualcosa” (Yapko, 2015 p.35). Come nel rilassamento vi è un rallentamento delle funzioni fisiologiche di base (respirazione, battito cardiaco….) ed uno stato di benessere generalizzato, utile per ridurre stress e malessere.

Sia l’ ipnosi, sia le varie tecniche di rilassamento, molto spesso, convengono sull’uso della visualizzazione (o imagery) per convogliare l’induzione in uno stato di calma/rilassamento, seguito dallo sviluppo di immagini mentali, ad esempio una scena piacevole che aumenta questo senso di benessere. Queste immagini possono essere generate autonomamente dal paziente oppure suggerite dal terapeuta.
Il principio comune, all’interno di un contesto ambientale confortevole, è quello di immaginare se stessi nel far fronte in modo più efficace ai fattori di stress presenti nella propria vita.

Ipnosi: definizione e disaccordi

Nell’ultima definizione della APA Division 30: Society of Psychological Hypnosis “L’ ipnosi è uno stato di coscienza che coinvolge l’attenzione focalizzata con una ridotta consapevolezza periferica caratterizzata da una migliore capacità di risposta alle suggestioni” (Elkins et al., 2015)
Probabilmente, visto che si tratta di una definizione largamente condivisa da una comunità scientifica come quella dell’ American Psychological Association può essere considerata come ben ponderata e chiara.

Nell’ultimo documento di rivisitazione dell’APA (Elkins et al., 2015) i principali “disaccordi” nelle definizioni risiedono in due ragioni: la prima è che la natura e i meccanismi sottesi all’ ipnosi non sono ancora completamente conosciuti; la seconda è che i bias interpretativi (è una procedura o il prodotto di una procedura) condizionano inevitabilmente l’accuratezza della definizione. A tal proposito Yapko nel suo ultimo libro (2015) afferma che la questione non è tuttora chiara perchè vi è uno specifico elemento di confusione: è una terapia o uno strumento terapeutico? Gli ipnoterapeuti la considerano una modalità di trattamento con un suo carattere distinto e ben definito, come ad esempio la terapia comportamentale. L’altra posizione è quella che vede l’ ipnosi non come metodo autosufficiente ma utilizzabile come strumento di promozione di altre più definite modalità di intervento, per esempio la terapia cognitiva.

Ipnosi e principi sottesi

Credo sia utile capire quali “scuole di pensiero” guidano i due principali gruppi di tecniche ipnotiche: quella di Milton Erickson e quella dell’italiano Franco Granone.
Per Erickson l’ ipnosi è uno stato modificato di coscienza altamente motivato e diretto a sviluppare risorse potenziali dell’individuo attraverso l’apprendimento inconscio (Erickson, 1984). Possiamo considerarlo il capostipite dell’ ipnosi conversazionale, l’ ipnosi “classica”, ancor oggi la più conosciuta ed utilizzata.

L’altro filone è probabilmente quello definito come “ipnosi medica”, ambito sviluppato dal prof. Granone, è un tipo di ipnosi più direttiva e rapida nell’approccio rispetto a quella maggiormente dialogica, disseminata di metafore di Milton Erickson. Per Granone l’ ipnosi è un particolare stato psicofisico che influisce sulle condizioni psichiche, somatiche e viscerali del paziente (Granone, 1983).
Semplificando al massimo il processo ipnotico si sviluppa su tre punti essenziali:
– fase di preparazione o pre-induzione
– fase di induzione o trance ipnotica
– fase di post-induzione e valutazione.

Quali sono le evidenze dell’ ipnosi?

Come detto precedentemente vi sono posizioni differenti riguardo a cosa sia esattamente l’ ipnosi. Se però la domanda diventa “l’ ipnosi funziona?” ecco che le posizioni tendono ad uniformarsi perchè quando interviene nel processo terapeutico, essa ne aumenta generalmente gli effetti benefici, contribuendo a migliorare i risultati del trattamento.

Vi sono molti studi che dimostrano quanto l’ ipnosi possa essere utilizzata in campi di applicazione davvero vasti.
Sicuramente uno dei principali è quello del trattamento del dolore: può essere utilizzata durante il parto (Williamson, 2015), per la gestione delle coliche (Gonsalkorale, Toner, Whorwell, 2004), nel dolore da cancro (Kravits, 2013), per il dolore acuto (Landolt & Milling, 2011) e per il dolore cronico (Elkins, Jensen, Patterson, 2007; Soelb et al., 2009).

Uno degli ambiti più discussi in termini di efficacia è proprio quello dell’uso delle tecniche ipnotiche durante il travaglio. Infatti una recente metanalisi Cochrane (Madden et al., 2016) ha evidenziato come la ricerca sull’ ipnosi non abbia finora definitivamente dimostrato i benefici dichiarati in quest’ambito di trattamento.
Altre problematiche trattabili con l’ ipnosi sono la depressione (Alladin, 2012) e l’ansia (Golden, 2012; Hammond, 2010).

In generale quindi, l’evidenza suggerisce che l’ ipnosi è efficace. Un recente studio (Jensen et al., 2015) ha cercato di riassumere i risultati in letteratura delle associazioni tra fattori specifici con i domini psicologico, sociale e biologico. Ebbene:
– nessun singolo fattore appare primario;
– diversi fattori possono contribuire più o meno a risultati in diversi sottogruppi di individui o per diverse condizioni;
– modelli completi di ipnosi che incorporano i fattori da tutti e 3 i domini possono in definitiva rivelarsi più utili rispetto a quelli più restrittivi che si concentrano su uno o pochissimi fattori.

Preconcetti e luoghi comuni riguardo l’ ipnosi

Nel largo pubblico e probabilmente anche tra alcuni clinici vi sono altre ulteriori complicazioni che ingenerano tanti problemi e misteri attorno a questa pratica, quasi fosse un qualcosa di magico/esoterico.

Per esempio, Vickers & Zollman (1999) descrivono l’ ipnosi come l’induzione del soggetto in uno stato profondamente rilassato per aumentarne la suggestionabilità e la sospensione delle facoltà critiche. E qui nasce un primo dubbio di interpretazione che suscita molte mistificazioni: cosa significa sospensione delle facoltà critiche? Che il terapeuta può manipolare la coscienza del soggetto? Niente di più fourviante. Infatti per Erickson (1985) l’ ipnosi è un processo psicologico che porta il paziente ad utilizzare le proprie associazioni mentali, ricordi e potenzialità per raggiungere un determinato fine terapeutico. Quindi è la comunicazione terapeuta-paziente a creare un cambiamento passando per lo stato di trance e non una sospensione delle facoltà critiche.

Nell’ ipnosi si è sempre rilassati: non sempre è vero. Generalmente l’ ipnosi è accompagnata dal rilassamento per migliorare la capacità di risposta. Tuttavia il rilassamento non è una componente indispensabile per lo stato ipnotico (Kirsch & Council, 1992; Yapko, 2015). Per esempio “nell’ ipnosi vigile il soggetto a occhi aperti è concentrato sull’esecuzione di un compito e la consapevolezza conscia è ancora più marcata” (Yapko, 2015 p.36)
L’ ipnosi cura i problemi psichici: “di per sè non cura niente. È ciò che accade nello stato ipnotico che ha un potenziale terapeutico”, “non è altro che un mettere meglio a fuoco le cose” (Yapko, 2015 p.26 e p.7).

Il rilassamento: dove si colloca?

Tralasciando la meditazione che appartiene più ad una filosofia di vita che ad una tecnica a sè stante, una delle prime forme di rilassamento è senz’altro il rilassamento progressivo di Jacobson (RPM) (Conrad & Roth, 2007). Il principio di fondo è che lo stress ci induce tensione muscolare e mentale, quindi la riduzione della tensione muscolare potrebbe essere un buon metodo per la prevenzione e la cura. Il fine del rilassamento è produrre uno stato di calma emozionale e si può ottenere attraverso l’esercizio costante, in grado di consentire alla persona di sviluppare un “senso” muscolare tale, da permettergli un più razionale utilizzo delle energie (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003). Generalmente il rilassamento è un programma che viene pianificato, non sviluppabile lungo una singola seduta e con una durata che può arrivare ai 2 mesi nella versione originale di Jacobson (per un’ora al giorno) o ridotta nelle versioni più brevi ad un paio di settimane (cinque-sei sedute con il terapeuta) (Wolpe, 1984; Cei, 1986). In forme più complete sono previste come coaudiuvanti all’effetto di rilassamento anche delle tecniche di visualizzazione e imagery. Esse coinvolgono l’induzione di uno stato di rilassamento, seguito dallo sviluppo di un’immagine visiva, ad esempio una scena piacevole, aumentandone così il senso di rilassamento. Queste immagini possono essere generate dal paziente o suggerite dal terapeuta. Nel contesto di un ambiente rilassante, i pazienti possono anche scegliere di immaginare se stessi far fronte in modo più efficace con i fattori di stress nella loro vita (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003).

Il rilassamento: come funziona e per chi?

Una seduta tipo si può riassumere così: la persona si sdraia o si siede comodamente in una stanza silenziosa. Si inizia a creare una tensione in progressione su un gruppo muscolare (es il braccio) inspirando, si mantiene la contrazione per 10-15 secondi, poi la si rilascia durante l’espirazione.

Dopo un breve riposo, questa sequenza viene ripetuta con un altro gruppo di muscoli. In modo sistematico, i principali gruppi muscolari sono così contratti e successivamente rilassati. A poco a poco, diversi muscoli vengono tra loro combinati. Lo scopo finale è quello di percepire le differenze tra tensione e rilassamento (Vickers et al, 2001).

Le fasi per raggiungere questa finalità sono (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003):
– Percezione della tensione e della distensione muscolare con esercizi di tensione, localizzazione della tensione, distensione e apprezzamento della tensione.
– Allenamento al senso muscolare, cioè verso quelle sensazioni che emergono quando i muscoli non sono nè completamente tesi nè rilassati.
– Sentire la tensione e la distensione mentale.

Non vi sono limiti di età, può essere fatta anche sotto i cinque anni (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003; Vopel, 2000). Con il bambino il rilassamento si può proporre in forma di gioco, senza le classiche istruzioni “cerca di sentirti rilassato” ma con la constatazione che i giochi di rilassamento si rivolgono “non soltanto alla coscienza dei bambini, bensì anche al loro inconscio, alla loro intuizione, alla loro fantasia, a tutto ciò che essi nella loro vita hanno imparato e immagazzinato (….)”(Vopel, 2000, p.6). Per i bambini tra i 3 e i 7 anni si suggeriscono giochi semplici, concreti, basati sulla fantasia, mentre dagli 8 ai 12 i bambini preferiscono strutture più complesse e drammatizzate. Questi giochi si basano su diverse fonti: Folclore, Tai Chi, Kum Nye, Gestalt, Fantasia e Psicoimmaginazione, Meditazione, Massaggio, New Games (Vopel, 2000).

Il rilassamento: accordi e limiti

Come detto, un esempio ben noto di rilassamento è il rilassamento progressivo muscolare (o sistematico) di Jacobson nato attorno agli anni ’30. Da allora sono stati sviluppati molti metodi abbreviati di rilassamento muscolare progressivo. Questi metodi sono stati utilizzati sia come trattamenti completi (come affermava lo stesso Jacobson) sia come componenti di un approccio terapeutico più ampio come ad esempio nella desensibilizzazione sistemica di Wolpe dove i momenti specifici di analisi e di modificazione del comportamento sono: colloquio, rilassamento, presentazione delle gerarchie comprendenti gli stimoli ansiogeni (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003).

Comunemente si inquadra il rilassamento come tecnica comportamentale (Goldwurm, Sacchi e Scarlato, 2003) ma non manca chi l’ ha analizzato sotto la veste dell’approccio psicodinamico (Sapir, 1980) quale metodo attivo e catartico.
Conrad & Roth (2007) affermano che, nonostante siano stati fatti molti studi sperimentali attestanti l’efficacia clinica delle terapie abbreviate con il rilassamento muscolare (per diverse condizioni mediche e disturbi psichiatrici), solo pochi di essi hanno valutato la tensione muscolare tra pazienti e soggetti sani prima del trattamento o hanno dimostrato che la terapia di rilassamento muscolare (MRT) modifica i parametri fisiologici di tensione o di attivazione generale.

Quali evidenze per il rilassamento?

Il rilassamento, nelle sue due forme più canoniche ovvero RMP di Jacobson (di cui abbiamo parlato) e Training Autogeno di Schultz, trova applicazioni nelll’ansia e nel distress legate all’ospedalizzazione (Neeru et al., 2015), alla depressione (Klainin-Yobas et al., 2015), allo stress scolastico (Dolbier & Rush, 2012), alla gestione del dolore in combinazione con altre tecniche (Finlay & Rogers, 2015), all’emicrania (Feuille & Pargament, 2015).

Una recente ricerca (Chellew, 2015) ha concluso che la riduzione dei livelli di stress rilevati tramite la secrezione di cortisolo è limitata, anche se la percezione della diminuzione di stress è sentita come significativa dai partecipanti. Un altro studio (Chen et al., 2015) atto a verificare le correlazioni tra le tecniche “mind-body” e le relative attivazioni cerebrali conclude che il rilassamento può discliplinare l’attività della corteccia prefrontale e le connessioni con le altre cortecce: quindi potenzialmente può aiutare le persone a modulare l’attività cerebrale in più sistemi di elaborazione cosciente delle emozioni.

Ma allora quale scegliere tra ipnosi e rilassamento?

Viene da dare subito la risposta: in base alla complessità del problema da trattare.
Il rilassamento costituisce solo un trampolino per facilitare esperienze ipnotiche più complesse, come la regressione ad altre età precedenti (memoria esperienziale) o l’anestesia. Nessuno immagina che possa bastare un esercizio di rilassamento per affrontare un intervento chirurgico senza dolore.

L’ ipnosi implica una ristrutturazione intenzionale di esperienze e la letteratura dimostra che i benefici nell’ambito della terapia del dolore e del trattamento dell’ansia durano almeno 6 mesi (Yapko, 2015, Davis, 2015).

Alla luce delle ricerche recenti, possiamo rilevare quale maggior differenza tra le tecniche ipnotiche e quelle di rilassamento due punti essenziali:
– la durata dell’effetto,
– la profondità dello stato di benessere.

Entrambe le differenze sono a favore del trattamento ipnotico, con la sola limitazione dovuta al tempo necessario per apprendere la tecnica per il paziente e nell’ottenere un’adeguata formazione negli specifici ambiti per il terapeuta. Permangono inoltre preconcetti e luoghi comuni che rendono l’ipnosi più relegata a contesti dove, dopo aver provato altre strade canoniche, si decide di fare quest’ultimo tentativo per gestire un problema/difficoltà. C’è da chiedersi se non si poteva tentare prima.

Albert Ellis: alla scoperta del padre della REBT – Introduzione alla Psicologia

Nel 1955 Albert Ellis rinunciò alla psicoanalisi e si concentrò su come poter cambiare il comportamento delle persone partendo da una serie di credenze irrazionali per trasformarle in credenze razionali. In questo anno pubblicò il saggio “New approches to psychotherapy techniques” e denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT).

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Albert Ellis: la vita

 Albert Ellis è nato a Pittsburgh nel 1913 e cresciuto a New York City. Albert Ellis ha vissuto un’infanzia difficile da cui ha appreso la determinazione e testardaggine che gli hanno consentito di raggiungere mete sempre più alte nella vita.

Egli dedicò, in giovane età, la maggior parte del suo tempo alla scrittura di racconti, opere teatrali, romanzi, poesie, saggi di fumetti e libri di saggistica. Già a 28 anni, aveva scritto due dozzine di manoscritti e ben presto si dedicò alla sex- family revolution, che trattò in un libro: “The Case for Sexual Liberty”. Di conseguenza, in molti dopo la pubblicazione di questo libro lo considerarono un esperto in materia e per questo iniziarono a chiedergli consigli su come comportarsi. Così, in Ellis si consolidò l’interesse e la passione nel dare consulenza agli altri.

Nel 1943 conseguì la laurea in psicologia clinica alla Columbia University e iniziò a lavorare in uno studio privato part-time occupandosi di consulenza familiare e sessuale.

Nel 1947 conseguì il dottorato e in quegli anni credeva che la psicoanalisi fosse la forma più efficace di terapia, per questo intraprese gli studi in ambito psicoanalitico e iniziò a praticarla.

Successivamente, la fede di Albert Ellis nella psicoanalisi si sgretolò quando intuì che i clienti visti solo una o due volte alla settimana, progredivano allo stesso modo di quelli visti tutti i giorni. Per questo decise di diventare parte attiva nella relazione terapeutica, intervenendo con consigli e interpretazioni dirette. In questo modo i clienti sembravano migliorare più rapidamente rispetto a quando utilizzava le procedure psicoanalitici passive.

Nel 1955 Albert Ellis rinunciò totalmente alla psicoanalisi e si concentrò su come poter cambiare il comportamento delle persone partendo da una serie di credenze irrazionali o non adattive per trasformarle in credenze razionali. In questo anno pubblicò il saggio “New approches to psychotherapy techniques” e denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT).

Nel 1957 pubblicò il suo primo libro : “Come vivere con un nevrotico”, e nel 1959 fondò l’Institute for Rational Living, divenuto in seguito l’Institute for Rational Emotive Therapy e infine l’ Albert Ellis Institute, dove si insegnavano e si insegnano i principi della REBT.

Nel 1960, a Chicago, Ellis presentò uno studio sulla sua terapia al convegno dell’Associazione Psicologi Americani, suscitando scarso interesse perché la sua forte enfasi cognitiva disturbò quasi tutti, con la possibile eccezione dei seguaci di Alfred Adler. Conseguentemente egli fu spesso accolto con ostilità alle conferenze professionali e dall’editoria.

Albert Ellis si sposò due volte, la prima relazione durò 37 anni con Janet Wolfe, che ha ricoperto per oltre 25 anni la carica di Direttore Esecutivo dell’ Albert Ellis Institute, e la seconda con Debbie Joffe che sposò negli ultimi anni.

Ellis scomparse il 24 luglio 2007 per cause naturali all’età di 93 anni.

 

La Teoria di Albert Ellis

Albert Ellis fondò la terapia razionale emotiva (RET), che successivamente divenne terapia comportamentale razionale-emotiva (rational-emotive behavior therapy/REBT), perché lavora sull’interazione reciproca tra cognizioni, emozioni e comportamento.  La REBT si basa su principi semplici, efficaci e facilmente trasmissibili.

Ellis partì dal presupposto secondo il quale se si riuscisse a pensare in modo razionale allora la forza traumatica di qualunque evento si svuota del suo contenuto ansiogeno. Infatti, varie forme di disagio psicologico ed emotivo non sono determinate dalle caratteristiche dell’evento attivante in sé, ma dai pensieri, spesso distorti e irrazionali, per mezzo dei quali sono interpretati gli eventi e ai quali è attribuito un significato disturbante.

Gli assunti principali della REBT si possono sintetizzare nei seguenti punti:

  • il modo in cui ci sentiamo (emotivamente) e il modo in cui ci comportiamo derivano da quello che pensiamo;
  • un modo di pensare illogico, distorto, irrazionale genera problemi emotivi e comportamentali;
  • i problemi emotivi e comportamentali possono essere superati sostituendo i pensieri irrazionali con pensieri razionali.

Albert Ellis, ha ideato uno schema che permette di individuare le idee irrazionali da cui deriva la sofferenza. Lo schema da lui proposto si chiama ABC ed è così suddiviso:

  • A (Adversities e Activating Experiences, avversità ed esperienze attivanti): tutto ciò che interagisce (negativamente o meno) con il raggiungimento dei nostri obiettivi. Per esempio: essere lasciati dal partner, essere licenziati, farsi male ecc.
  • B (Beliefs, credenze o critical beliefs): le idee che le persone sviluppano rispetto alla situazione che si è verificata e possono essere:
    • Razionali: di solito soluzioni che si riassumono in preferenze e desideri che gli A non avvengano. Per esempio: “se ci tengo a questa relazione, occorre modificare alcuni comportamenti”; “sarebbe opportuno non essere licenziati e anche se avvenisse sono in grado di individuare delle soluzioni”, “dovrei curare maggiormente la mia salute”.
    • Irrazionali: sono pretese che gli A non debbano assolutamente accadere. Per esempio: “nessuno può permettersi di lasciarmi, se il mio compagno/a lo facesse significa che è una brutta persona”, “non devo essere licenziato e, se accadesse, significa che sono una persona che non vale nulla”, “Mi piace fumare, quindi per me è intollerabile per me smettere di farlo”.
  • C (Consequences, conseguenze): sono le conseguenze dei B e possono essere:
    • Sane: si tratta di comportamenti e di emozioni che derivano da B razionali. Per esempio: “se la mia relazione è finita significa che non eravamo compatibili, quindi trovo qualcosa di diverso per me”; “mi spiace essere stato licenziato, mi adopero a cercare altro”, “dovrò curare meglio il mio stile di vita per migliorare la mia salute”.
    • Patologiche: sono comportamenti e sentimenti che derivano da B irrazionali. Per esempio: “sono stato lasciato, la deve pagare!”; “sono stato licenziato quindi sono una nullità”, “fumo e non posso farci nulla”.

Nel modello REBT le emozioni, derivanti dai B disfunzionali, si distinguono tra funzionali e disfunzionali, non esiste solo una differenza quantitativa ma anche qualitativa. Lo scopo non è eliminare l’emozione negativa o sostituirla con una diversa, ma ottenere un’emozione che sia quantitativamente meno intensa e quindi tollerabile, a esempio è possibile ottenere preoccupazione al posto di ansia o frustrazione al posto di rabbia.

 

Dalle idee irrazionali alle alternative razionali

Secondo la REBT il focus della sofferenza emotiva è determinata dalle pretese irrazionali, e possono essere riassunte come segue:

  1. Doverizzazioni (devo essere bravo);
  1. Valutazione globale del valore personale, proprio e altrui (non valgo/non valgono);
  1. Terribilizzazioni/ Catastrofizzazioni (è terribile se andasse in questo modo);
  1. Intolleranza alla frustrazione (è intollerabile pensare di smettere)

Non si tratta di errori logici, ma di valutazioni negative della realtà che generano sofferenza non perché errate, anzi, possono essere corrette, e nemmeno perché negative, per Albert Ellis un pensiero può essere tollerabilmente negativo e quindi non patologico, ma per essere percepite come intollerabili e di conseguenza rigidissime (doverizzazioni). In sostanza, sono asserzioni su come dovrebbe andare la realtà, sia esterna che interiore.

È importante sottolineare che queste valutazioni sono pensieri pragmaticamente dannosi perché generano sofferenza emotiva e paralisi dell’azione vitale

Secondo Ellis la soluzione terapeutica consiste nel rendere consapevoli i clienti che sono i pensieri a generare sofferenza e non le situazioni e per questo è necessario metterli in discussione attraverso il Disputing, ovvero disputa, in cui si sostituiscono i B irrazionali con dei B razionali da cui derivano dei C funzionali.

Nella REBT, dunque, non si disputano i pensieri automatici ma i pensieri irrazionali. I pensieri automatici sono generati dai pensieri irrazionali (sono un fallimento perché DOVREI fare sempre tutto alla perfezione e non riesco). Quindi, si indagano prima i B irrazionali e si disputano e poi si modificano i pensieri automatici.

Esistono tre diverse dispute:

  1. Logica: in cui si sottolinea l’illogicità dei suoi pensieri (solo perché una cosa è desiderabile non è logico pensare che accada)
  2. Empirica: si verifica la coerenza con la realtà empirica
  3. Pragmatica: si induce il cliente a prendere in considerazione il valore edonico o pragmatico dei suoi pensieri

Alla fine, per ottenere un cambiamento è necessario sostituire i B irrazionali con B funzionali.

Quindi, non basta sostituire una pretesa con una preferenza, ma si chiede al cliente di abbandonare un pensiero che non lo aiuta nella sua realizzazione con un altro funzionale al raggiungimento dello scopo.

 

Albert Ellis: perché è importante

Albert Ellis insieme ad Aaron T. Beck furono considerati i primi grandi esponenti della terapia cognitiva, che negli anni ’70 influenzò molti esponenti della terapia comportamentale, come Albert Bandura, Arnold Lazarus, Cesare De Silvestri, Donald Meichenbaum e Michael Mahoney, agevolando la nascita della psicoterapia cognitivo-comportamentale.

La REBT è un metodo diretto ed efficace di risoluzione dei problemi che consente di confrontarsi con i clienti circa le loro convinzioni e dire loro ciò che è razionale e ciò che non lo è.

La REBT a tutt’oggi costituisce un importante approccio terapeutico alla sofferenza del paziente e l’ABC una tecnica che consente di individuare immediatamente il focus su cui agire a livello terapeutico.

Lo scopo finale di questa terapia è l’accettazione della paura più grande posseduta e imparare a convivere gestendola senza criticarla o rifiutarla.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbi dell’alimentazione: uno nessuno e centomila? Un tentativo di sintesi – Riccione, 2017

Disturbi dell’alimentazione: uno nessuno e centomila? un tentativo di sintesi

C. Iannaco, M. Cavalletti, E. Moretti, G. Sonetti, S. Caini, S. Lucarelli – Scuola Cognitiva di Firenze

 

Secondo la prospettiva transdiagnostica di Fairburn i Disturbi dell’Alimentazione (DA) condividerebbero il medesimo nucleo psicopatologico: un’ eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione. Studi longitudinali evidenziano l’instabilità diagnostica dei DA e la loro migrazione da una categoria all’altra, suggerendo che le categorie diagnostiche dei DA nel DSM-5 non descrivano adeguatamente la realtà clinica. In tale prospettiva i DA vengono considerati come un’unica categoria, mantenuta da meccanismi comuni quali bassa autostima e perfezionismo (Fairburn et al., 2003). Altri studi (Sassaroli et al., 2007; Sassaroli, Gallucci e Ruggiero, 2008) hanno evidenziato come anche il rimuginio e il controllo costituiscano importanti fattori di  mantenimento per i DA. In particolare, i soggetti con DA mostrerebbero una maggiore tendenza a preoccuparsi per gli errori (perfezionismo patologico), un minor senso di autostima, misure più elevate di rimuginio ed una scarsa percezione di controllo sugli eventi esterni e sugli stati emotivi interni, rispetto ai soggetti non patologici.

Partendo da tali premesse, obiettivo del presente studio è stato quello di delineare specifici profili cognitivi dei DA, sulla base del nucleo psicopatologico e dei fattori di mantenimento, valutando l’ipotesi di un approccio diagnostico dimensionale, anziché categoriale.

Sono stati reclutati 140 pazienti con diagnosi di Anoressia Nervosa (età: 25,5 ± 10,3), 95 con diagnosi di Bulimia Nervosa (età: 26,6 ± 10,3) e 146 con diagnosi di Binge Eating Disorder (età: 40,0 ± 13,6), afferenti al Servizio per la cura dei Disturbi dell”Alimentazione, presso l’Azienda USL 11 di Empoli. Ad ogni paziente è stata somministrata, durante la fase di assessment, una batteria di test composta dai seguenti strumenti: Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q),  Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES), Multidimensional Perfectionism Scale (MPS), Anxiety Control Questionnaire (ACQ), Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS), Body Uneasiness Test (BUT), Body Attitude Test (BAT), Penn State Worry Questionnaire (PSWQ), Dissociative Questionnaire (DIS-Q), State Trait Anxiety Inventory (STAI), Beck Depression Inventory (BDI).

La distribuzione delle scale MPS, RSES, PSWQ e ACQ  è stata confrontata, utilizzando i cut-off clinici, attraverso il test Chi-square al fine di riscontrare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra i vari gruppi di DA per tali variabili. Successivamente il campione è stato suddiviso in cluster mutuamente esclusivi e collettivamente esaustivi, utilizzando un algoritmo k-means con n cluster=2 ed i valori ai test RSES, MPS Tot, ACQ Tot e PSWQ, sono stati usati come variabili di clusterizzazione. La distribuzione nei cluster dei pazienti affetti da AN, BN e BED è stata poi confrontata utilizzando il test Chi-square.

Dai risultati del presente lavoro emergerebbe che i soggetti AN e BN mostrano profili leggermente più simili tra loro rispetto ai soggetti BED, i quali presentano un po’ più spesso perfezionismo normale o subclinico e un po’ meno spesso forte rimuginio (mentre sia per il controllo che per l’autostima  si collocano, al pari di AN e BN, più frequentemente all’interno del range di bassa autostima e riportano una bassa percezione di controllo). Tali differenze sono comunque modeste e, con l’eccezione di alcune sottoscale del test MPS (timore degli errori, obiettivi personali, dubbi sulle azioni e organizzazione), non raggiungono la significatività statistica. I dati confermano il ruolo delle variabili perfezionismo, bassa autostima, rimuginio e controllo nel delineare un profilo cognitivo comune a tutti i DA, indipendentemente dalla diagnosi categoriale. Considerando che il campione reclutato è completamente clinico, le differenze  riscontrate tra i gruppi AN e BN, rispetto al gruppo BED, si collocano in un range che è comunque “patologico”. Il confronto con un campione di controllo, non clinico, probabilmente produrrebbe una riduzione di tali differenze, accrescendo invece quelle intercorrenti tra il gruppo clinico (AN, BN e BED) e quello di controllo. Tale aspetto rappresenta pertanto, congiuntamente alla valutazione della possibilità di tracciare anche un profilo emotivo dei DA, l’obiettivo futuro verso cui sarà indirizzata la presente ricerca.

 

cancel