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Aaron Beck: uno dei padri fondatori della terapia cognitiva – Introduzione alla Psicologia

Aaron Temkin Beck è uno psichiatra americano e professore emerito nel dipartimento di Psichiatria dell’Università della Pennsylvania. Beck è considerato uno dei padri fondatori della terapia cognitiva. Il suo approccio terapeutico è ampiamente utilizzato nella pratica clinica.
Attualmente, Beck è il Presidente Emerito del Beck Institute, in Pennsylvania, fondato nel 1994 da lui e da sua figlia Judith.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

La vita

Aaron T. Beck  è nato a Providence, Rhode Island – USA, il 18 luglio 1921, ed è il figlio più giovane di quattro fratelli e sorelle di una coppia di immigrati ebrei. Beck si è sposato nel 1950 con Phyllis, primo giudice donna presso la corte appello della Commonwealth of Pennsylvania, da cui ha avuto quattro figli.

Beck ha frequentato la Brown University, laureandosi con lode nel 1942. Successivamente, è stato eletto membro della Phi Beta Kappa Society, ed è diventato redattore associato di The Brown Daily Herald. In seguito, Beck ha frequentato la scuola medica di Yale, dove si è laureato nel 1946.

Negli anni successivi aveva scelto di frequentare neurologia, ma vista la poca affluenza a psichiatria decise di cambiare indirizzo e fin da subito simpatizzò per la psicoanalisi. Nel 1950 Beck divenne psichiatra presso l’ Austen Riggs Center, ospedale psichiatrico privato nelle montagne di Stockbridge, Massachusetts, e vi rimase fino al 1952.

Beck, poi, si trasferì presso l’Università di Pennsylvania nel 1954 dove ha lavorato con Kenneth Ellmaker Appel, psicoanalista che fu presidente dell’Associazione Psichiatrica Americana, e contemporaneamente iniziò la formazione formale in psicoanalisi.

La prima ricerca eseguita da Beck è stata condotta con Leon Saul, psicoanalista noto per i metodi poco ortodossi applicati alla terapia. Insieme, svilupparono dei questionari per quantificare i processi dell’ego nel contenuto manifesto dei sogni.

Negli anni ’50 Beck iniziò ad alimentare una serie di dubbi nei confronti della psicoanalisi e, di conseguenza, sviluppò le prime teorie sulla depressione che cultimarono con la creazione di un test, il Beck Depression Inventory, pubblicato nel 1961 e ancora ampiamente utilizzato nella clinica e nella ricerca.
Così, nel 1962 si dedicò allo studio di schemi e di pensieri tipici della depressione e diede inizio a un nuovo approccio, la terapia cognitiva, che si basava su un importante rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti.

I primi articoli di Beck sulla teoria cognitiva della depressione mantennero, in ogni caso, una cornice psicoanalitica, nonostante fossero intrisi di pensiero empirico e scientifico alla luce del nuovo approccio cognitivista.

A metà degli anni ’60, Beck conobbe Albert Ellis e scoprì che aveva sviluppato una importante e affascinante teoria e una terapia pragmatica in cui si utilizzavano pensieri e emozioni in maniera diretta, il cui scopo finale era la disputa dei pensieri ritenuti disfunzionali.
Così nacque per Beck un processo di sviluppo e integrazione di una nuova terapia, quella cognitiva.

La terapia cognitiva di Beck

Beck, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembravano emergere spontaneamente. Egli ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro tipiche della depressione.

Egli iniziò a lavorare con questi pazienti identificando i pensieri disfunzionali e scoprì che avendo atteggiamenti più realistici potevano sentirsi emotivamente meglio e potevano adottare comportamenti più funzionali. La sofferenza genera, secondo Beck, una serie di pensieri disadattivi che producono un effetto negativo sul comportamento. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici è possibile si possano instaurare credenze disfunzionali generate da pensieri che, nel lungo periodo, diventano automatici.

Quindi, quando una persona si trova ad affrontare una situazione, lo schema acquisito consente di interpretare i dati oggettivi e di trasformarli in cognizioni. Nelle persone depresse si attiveranno, dunque, schemi non adattivi che portano a errate interpretazioni della realtà da cui si generano pensieri automatici che inducono sofferenza emotiva.

Il modello caratteristico della depressione è costituito da tre schemi che Beck chiama la triade depressiva, essi sono:
– la visione negativa di Se stessi: le persone affette da depressione si vedono come deboli e inutili.
– la visione negativa del Mondo: Si sentono socialmente sconfitti e non si percepiscono all’altezza delle esigenze proprie e altrui e, per questo, non in grado di superare gli ostacoli.
– la visione negativa sul Futuro: La persona depressa pensa che questa situazione non possa essere modificata e sarà così per sempre.

La teoria cognitiva

Per Beck, i disturbi psicologici derivano dalle distorsioni cognitive ovvero errori che si commettono nell’applicazione dei pensieri automatici e provocano stati emotivi e comportamenti inappropriati o negativi. Pertanto, queste distorsioni cognitive sono causate da credenze irrazionali apprese in età precoce che influenzano la percezione e l’interpretazione del passato, del presente e del futuro.

Gli Schemi

Secondo Beck gli eventi esterni sono percepiti da una persona in base a una serie di concetti o schemi cognitivi che ognuno possiede e che influenzano il modo in cui è percepita la realtà. Le informazioni acquisite, dunque, possono essere elaborate erroneamente in base alle credenze apprese e, per questo, si possono ottenere delle modificazioni o distorsioni nella valutazione e interpretazione dei dati che portano alle cosiddette distorsioni cognitive.

Per Beck, gli schemi sono modelli cognitivi stabili che aiutano a catalogare e interpretare la realtà. Le persone usano gli schemi per individuare, codificare, differenziare e assegnare significati alle informazioni provenienti dall’ambiente esterno.  In altre parole, gli schemi sono costrutti mentali stabili ma soggettivi, che agiscono come filtri nella percezione del mondo circostante.

Gli schemi provengono in gran parte da esperienze di apprendimento precoce e possono rimanere in sospeso fino a quando un evento esterno li attiva. Questo è uno dei concetti più importanti per la psicologia cognitiva, nonostante sia stato introdotto da Frederick Bartlett per riferirsi alla memoria e poi ripreso da Jean Piaget.

Le credenze

Le credenze sono i contenuti degli schemi e sono il risultato diretto del rapporto tra realtà e schemi stessi. Esse fungono da mappe interne che consentono di attribuire un senso al mondo. Successivamente, esse, dopo essere state costruite, sono generalizzate attraverso l’esperienza.

Beck distingue due tipi di credenze:

credenze centrali o di base o nucleari: sono presentati come proposizioni assolute, durature e globali su se stessi, gli altri e il mondo. Ad esempio, “Io sono un fallimento”. Si tratta di un’assunzione di base difficile da cambiare, poiché caratterizza l’identità dell’individuo.
credenze periferiche: sono influenzate da quelle nucleari, e sono i costrutti cognitivi e i pensieri automatici. Si tratta di atteggiamenti, regole, ipotesi che influenzano il modo di vedere la situazione, provocando un vissuto emotivo e comportamentale disadattivo.
– pensieri automatici o prodotti cognitivi.

I pensieri automatici si riferiscono ai pensieri e le immagini risultanti dall’interazione delle informazioni fornite dalla situazione, schemi e credenze e processi cognitivi. Il contenuto dei pensieri automatici è, di solito, accessibile tramite gli schemi e non attraverso i processi cognitivi.

I pensieri automatici sono, sostanzialmente, i dialoghi interiori, i pensieri o le immagini che appaiono in una data situazione, e i pazienti considerano queste affermazioni vere e non distorte. Essi mostrano una serie di caratteristiche:
– si riferiscono ad una situazione specifica;
– sono assolutamente considerati veri;
– sono appresi;
– esagerano gli aspetti negativi della situazione;
– non sono facili da rilevare o controllare.

Le distorsioni cognitive

Beck individua una serie di distorsioni cognitive derivanti dall’applicazione dei pensieri automatici. Esse sono:
– astrazione selettiva: si presta attenzione ad un aspetto o a un dettaglio della situazione. Gli aspetti positivi sono spesso ignorati a vantaggio di quelli negativi.
– pensiero dicotomico: gli eventi sono valutati in forma estrema: buono / cattivo, nero / bianco, on / off, etc.
– inferenza arbitraria: si traggono conclusioni da situazioni che non sono supportate dai fatti, anche quando l’evidenza è in contrasto con la conclusione.
– Supergeneralizzazione: comporta una conclusione generale partendo da un evento particolare.
– Ingigantire e minimizzare: la tendenza a esagerare gli aspetti negativi di una situazione, riducendo al minimo il positivo.
– Personalizzazione: si tratta di attribuzioni di caratteristiche personali a una situazione.
– Visione catastrofica: anticipare gli eventi pensando che il peggio accadrà sicuramente.
– Doverizzazione: regole rigide e severe su come le cose dovrebbero andare.
– Variabili globali: etichette generali sugli eventi che non considerano le sfumature.

Lo scopo finale della terapia di Beck consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e valutano le situazioni che si vivono. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le distorsioni cognitive per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La scoperta di un neurone “di quartiere” che favorisce l’orientamento

Un team di ricerca internazionale, composto dai ricercatori di UvA, Jeroen Bos, Martin Vinck e Cyriel Pennartz, ha identificato un neurone che potrebbe svolgere un ruolo vitale nella capacità dell’uomo di orientarsi nel suo ambiente. Si tratta di un passo importante che aiuterebbe a capire come il cervello codifica il comportamento nell’ affrontare l’orientamento spaziale e potrebbe potenzialmente aprire nuove strategie di trattamento per le persone che presentano un orientamento topografico carente, come i pazienti affetti da Alzheimer.

 

Un neurone che consente l’orientamento spaziale

Ogni giorno, miliardi di persone in tutto il pianeta si orientano con successo negli ambienti, ad esempio quando si recano al lavoro o tornano a casa.
Tali viaggi in genere si verificano con poco sforzo e sfruttano la capacità del cervello nell’utilizzare la conoscenza generale sull’ambiente per effettuare stime sulla posizione occupata.
La capacità di realizzare valutazioni del luogo risiede nell’ippocampo, una struttura che è parte del cervello, esattamente situata nel lobo temporale. Svolge un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nell’ orientamento spaziale.

La ricerca mostra che il preciso meccanismo di orientamento spaziale comprende appunto le cellule dell’ippocampo, e che queste aumentano o diminuiscono l’attività elettrica a seconda della propria posizione. Tuttavia, quando fanno il loro giro quotidiano, le persone non hanno bisogno di rappresentazioni molto dettagliate. Utilizzano invece questa funzione dettagliata quando si trovano in un luogo sconosciuto, ovvero quando si parla di orientamento topografico.

Sulla base delle ricerche attualmente in corso, si è studiato come la conoscenza della navigazione su larga scala sia codificata nel cervello e se questo processo si verifichi in strutture diverse all’interno del lobo temporale.

La ricerca è stata fatta orientando dei ratti ad eseguire un compito visivo guidato, in un labirinto composto da 8 figure costituito da due cicli che si sovrappongono nella corsia centrale.

Durante l’esperimento, i ricercatori hanno misurato l’attività elettrica nel cervello dei ratti usando un nuovo strumento che gli ha permesso di registrare contemporaneamente gruppi di neuroni provenienti da quattro diverse aree: la corteccia peririnale, l’ippocampo e due zone sensoriali. Le registrazioni dalla corteccia peririnale mostravano modelli di attività sostenute. Il livello di attività elettrica è aumentato e diminuito a seconda del segmento in cui i ratti si trovavano.

Abbiamo trovato una notevole differenza tra le risposte della corteccia peririnale e le risposte in altre aree del cervello“, afferma Jeroen Bos, autore e ricercatore presso l’Istituto Swammerdam di UvA per le scienze della vita.
Le unità della corteccia peririnale avevano sostenuto risposte in tutto il percorso”.

Al contrario, le risposte dalle cellule dell’ippocampo sono state date in ordine sparso durante tutto il compito nel labirinto e i loro campi sono stati molto limitati ad aree più piccole del labirinto.

Gli autori sono rimasti sorpresi di vedere come le risposte della corteccia peririnale fossero in linea con il layout del labirinto, soprattutto perché la regione è comunemente associata al riconoscimento di oggetti.
Questo sembra essere un nuovo tipo di neurone, che è stato soprannominato la “cellula di quartiere”.
Questo neurone sembra consentire al cervello di distinguere in modo specifico tra segmenti distinti (“quartieri”) dell’ambiente.

I risultati del team offrono un primo sguardo sul modo in cui il cervello è in grado di codificare il comportamento di orientamento spaziale in ampi spazi e potrebbe essere particolarmente rilevante per le persone con una capacità ridotta dell’orientamento topografico.

La codifica su larga scala della corteccia peririnale contrasta con quella più mirata dell’ippocampo.

È noto che i pazienti con malattia di Alzheimer o con danno al lobo temporale hanno grandi difficoltà a trovare la loro strada, in particolare per le lunghe distanze“, dice il ricercatore e professore di sistemi cognitivi e neuroscienze Cyriel Pennartz.

Oltre ad offrire nuove conoscenze sui meccanismi cerebrali per la navigazione spaziale a diverse scale, i risultati possono guidare i pazienti con Alzheimer o altre malattie nell’uso di altre strategie spaziali.

Provare nuove pratiche sessuali: curiosità o paura d’essere rifiutati? – Le risposte di fluIDsex

Sono una donna che partecipa a scambi di coppia, ma mi rifiuto di praticare sesso anale. Mi può dare qualche suggerimento su come provare questo tipo di pratica in quanto è risaputo che è abbastanza doloroso essendo abitualmente una zona il cui senso è sempre stato unico, mi trovo a disagio.

 

Buongiorno,

dalla sua richiesta sembrano emergere delle forze contrastanti: lei che si rifiuta, il dolore, il disagio, ma chiede qualche suggerimento per provare.

Ci tiene inoltre ad esplicitare che il contesto nel quale vorrebbe o non vorrebbe sperimentare questa pratica è una situazione di “scambi di coppia”.

Spesso, nei contesti gruppali, il timore di rimanere esclusi, se non si rispettano tutte le usanze implicite di un gruppo può portare a voler uniformare i propri comportamenti a quelli degli altri componenti del complesso, perdendo un po’ di vista i propri bisogni personali.

Anche in base al contrasto presente nella sua domanda, credo sia innanzitutto utile riflettere su quanto la voglia di provare questa pratica sia sua o quanto sia dettata dal contesto nel quale la vorrebbe provare.

Potrebbe comunque esserle utile leggere il libro di J. Morin  “Il piacere negato” (edito Feltrinelli)

 

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Restringimento della pupilla e rischio di depressione a seguito di una catastrofe naturale

La pupilla è collegata a regioni cerebrali (corteccia cingolata anteriore e prefrontale dorsolaterale) coinvolte nell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli. Il fatto che il decremento del diametro pupillare di fronte a informazioni emotive negative sia un fattore di rischio per la depressione è stato confermato sia negli adulti che nei bambini.

 

Il restringimento pupillare di fronte a stimoli negativi e il rischio di depressione

Quando le catastrofi naturali colpiscono una comunità hanno effetti sconvolgenti, pertanto costituiscono eventi di vita significativi con una forte accezione negativa.

Nonostante diverse ricerche abbiano trovato che lo stress legato ad un evento catastrofico possa predire un incremento dei sintomi depressivi (Bonanno, Brewin, Kaniasty, & La Greca, 2010), soltanto il 20-25 % delle persone con questa tipologia di esperienza sviluppa effettivamente depressione (van Praag, de Koet, & van Os, 2004). Ciò accade perché non tutti i soggetti possiedono lo stesso livello di vulnerabilità allo stress. Dunque, riuscire a capire quali siano le persone più inclini a sviluppare depressione a seguito di una catastrofe naturale può consentire di erogare interventi ad hoc su un gruppo target, piuttosto che dissipare le poche risorse esistenti sul campo.

Per comprendere quale sia il gruppo-oggetto d’intervento si può misurare la dilatazione pupillare che avviene in risposta a stimoli emotivi negativi. La pupilla è infatti collegata a regioni cerebrali (corteccia cingolata anteriore e prefrontale dorsolaterale) coinvolte nell’elaborazione cognitiva ed emotiva degli stimoli (Murphy, O’Connell, O’Sullivan, Robertson, & Balsters, 2014; Siegle, Steinhauer, Stenger, Konecky, & Carter, 2003). Il fatto che il decremento del diametro pupillare di fronte a informazioni emotive negative sia un fattore di rischio per la depressione è stato confermato sia negli adulti (Silk et al., 2007) che nei bambini (Steidtmann, Ingram, & Siegle, 2010).

A partire da queste premesse, ha origine uno studio dell’Università di Binghamton, colpita da un’alluvione nel 2011. Obiettivo della ricerca era indagare se il decremento della risposta pupillare a stimoli emotivi negativi potesse predire cambiamenti dei sintomi depressivi in soggetti sottoposti ad alti livelli di stress, come una catastrofe ambientale.

Questa ipotesi è stata verificata valutando se i livelli oggettivi di stress conseguenti l’alluvione di Binghamton potessero modulare la relazione tra risposta pupillare e prospettive di cambiamento nei sintomi depressivi. I partecipanti all’esperimento erano 51 donne colpite dall’alluvione, con storia di disturbo depressivo maggiore (DDM) e senza alcuna comorbilità con altri disturbi dell’umore del DSM-IV. Esse avevano svolto un compito al computer per valutare la riposta pupillare ad espressioni facciali emotigene e avevano riportato i loro sintomi depressivi prima e dopo l’alluvione, dopo aver verificato che tale evento avesse effettivamente provocato un alto livello di stress nelle loro vite.

I risultati hanno dimostrato che, nelle donne con alti livelli di stress correlati all’alluvione, il restringimento pupillare in risposta alle espressioni facciali emotigene predice un incremento significativo dei sintomi depressivi.

Una delle teorie alla base è che la vulnerabilità alla depressione possa essere latente fin quando non si verificano eventi talmente stressogeni da attivarle. Nello specifico, usando come marker biologico la risposta pupillare, i soggetti che presentano un suo decremento in risposta a stimoli emotigeni negativi potrebbero usare una strategia di soppressione a seguito di eventi di vita negativi. Ciò implicherebbe la mancata risposta a stimoli/esperienze salienti che seguono tali eventi determinando un rischio maggiore di manifestare sintomi depressivi.

Woody Allen e la nostalgia – Midnight in Paris

Da negazione del presente a componente identitaria importante per guardare al futuro: nostalgia storica e personale in Midnight in Paris, film Premio Oscar 2012.

 

È il momento di cambiare vita per Gil, protagonista del film Midnight in Paris: indipendentemente dal rischio che ciò comporta, il brillante sceneggiatore hollywoodiano vuole abbandonare il presente, di successo ma privo di stimoli, per un futuro da scrittore.

Un futuro che esprime passione per tutto ciò che è passato: il protagonista del suo libro è infatti proprietario di un “negozio nostalgia” (cioè un negozio che rivende articoli usati, in particolare vintage). Questa prospettiva non è condivisa dalla compagna Ines, con la quale Gil trascorre una breve vacanza nella città di Boris Vian.

Il suo spirito idealistico e nostalgico si scontra con quello pragmatico della futura sposa e con quello dell’amico di lei, Paul, che sentenzierà:

Nostalgia è negazione, negazione di un presente doloroso… Il nome di questa negazione è il pensare ad un’epoca d’oro, l’erronea nozione che vi è un periodo migliore di quello in cui si vive. È un volo nell’immaginario romantico di coloro che trovano difficile convivere con il presente

In Midnight in Paris, il pedante Paul descrive perfettamente lo stato d’animo dell’aspirante romanziere: epici sono i voli notturni nella “festa mobile” (la Parigi degli Anni Venti, come definita da Ernest Hemingway) compiuti da Gil, durante i quali egli ha la possibilità di conoscere e interagire con le più importanti personalità che in quell’epoca gravitano nella capitale, da F. Scott Fitzgerald a T.S. Eliot. Riesce a far leggere la sua bozza di racconto nientemeno che allo stesso Hemingway, per tramite della scrittrice Gertrude Stein.

Conosce inoltre Adriana, l’affascinante compagna di Picasso, con la quale nascerà un feeling proprio a partire dall’interesse comune per ciò che è passato. La surreale, reciproca attrazione è tale da mettere in crisi il rapporto tra Gil e Ines, incrinatosi anche a causa delle scorribande notturne e solitarie del nostro Gil (lei si consolerà con Paul).

Proprio nella notte in cui il viaggiatore nel tempo decide di dichiarare il proprio amore, è trascinato da Adriana nella Belle Époque: questi anni rappresentano per l’avvenente parigina la vera età dell’oro, l’epoca nella quale vale davvero la pena vivere e dove intende restare. È questo il momento in cui Gil raggiunge l’intuizione che sarà la chiave di volta della storia:

Se tu resti qui e questo diventa il tuo presente, allora molto presto comincerai a immaginare un’altra epoca che sia la tua epoca d’oro. Ecco che cos’è il presente! è un po’ insoddisfacente, perché la vita è un po’ insoddisfacente!

Rifugiarsi nel passato, presunto e irraggiungibile idillio di felicità, rappresenta in effetti un tramite per ovviare all’incapacità di sostenere la vita attuale e la sua caratteristica, fisiologica incompiutezza.

La nostalgia è, quindi, sempre negativa?

Come osservato da Krystine Batcho è possibile individuare, in Gil di Midnight in Paris, l’alternarsi di due diverse tipologie di nostalgia.

La prima, quella considerata finora e definita nostalgia storica o simulata, riguarda l’interesse per un passato non personale: nel caso di Gil, la Parigi degli Anni Venti. La seconda, meno esplicita nel film ma non meno decisiva, rappresenta la nostalgia personale o reale, riferendosi alle esperienze individuali realmente vissute (Baker, Kennedy, 1992).

Se la prima nostalgia, come già visto, accompagna un’insoddisfazione per il presente talmente grande da rendere preferibile un’altra epoca, la seconda invece aiuta a mantenere un costante senso di identità nelle esperienze traumatiche e durante i cambiamenti (gli aspetti positivi e funzionali della nostalgia sono illustrati in questo articolo).

Il nostro passato, se richiamato attraverso la nostalgia personale, è una parte di noi che ci ricorda chi siamo, i nostri sogni e aspirazioni. Gil, proprio grazie alla nostalgia, scopre che la sua vocazione non è quella di sceneggiatore seriale ma di romanziere, indipendentemente da dove la vita lo abbia portato fino a quel momento.

Allen (Allen, 2011) inserisce un ulteriore espediente che rende ancora più chiaro, pur attraverso la vena ironica della coincidenza, il legame tra nostalgia, passato e futuro. Proprio grazie a una vecchia passione musicale Gil, questa volta nella Parigi del presente, conosce Gabrielle. Guarda caso, la proprietaria di un “negozio nostalgia”.

Il vibrato del clarinetto di Sidney Bechet, la pioggia di Parigi e i lampioni lungo la Senna completano il quadro di un finale romantico e…nostalgico.

La terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento delle balbuzie

La balbuzie porta spesso a vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima e ritiro sociale; uno dei trattamenti più efficaci per superarla è la terapia cognitivo-comportamentale.

Daniela Forgione – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La balbuzie: alcuni dati sul disturbo

La balbuzie rappresenta un disturbo che tipicamente esordisce nell’infanzia, approssimativamente attorno ai 33 mesi. L’insorgenza è graduale ed insidiosa, ma sembra in aumento il numero di casi in cui l’esordio appare improvviso, manifestandosi in modo evidente nel giro di giorni o al massimo di settimane. Il rapporto tra maschi/femmine negli adulti risulta essere di 4:1, mentre in prossimità dell’esordio non si evidenziano differenze statisticamente significative, suggerendo che il fenomeno del recupero spontaneo è più frequente nelle bambine che nei bambini.

Le ricerche recenti indicano elevate percentuali di casi in cui il recupero avviene senza che sia necessario un intervento terapeutico. Inoltre, è condiviso tra clinici e ricercatori che la predisposizione alla balbuzie è ereditata geneticamente, anche se poi la sua espressione fenotipica è condizionata dall’interazione di numerose variabili, sia individuali (cognitive, linguistiche, affettive e neurofisiologiche) che ambientali (socio-culturali, familiari, scolastiche o terapeutiche).

Infine, nella balbuzie evolutiva vi è un’alta prevalenza di disturbi di comorbilità, sia linguistici (disturbo fonologico o del linguaggio, disturbo dell’articolazione, disturbi semantici in produzione e in comprensione), sia non linguistici (disturbo da deficit di attenzione ed iperattività, diverse sindromi genetiche). Numerosi sono poi gli studi che indicano come la balbuzie evolutiva sia associata nell’adulto a distress psicologico, che si manifesta già in adolescenza, principalmente con disturbi d’ansia e, in particolare, con il disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale) che è caratterizzato dalla paura marcata e intensa di una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri. Come risultato, l’esposizione a situazioni temute è tipicamente accompagnata da ansia anticipatoria, angoscia ed evitamento.

Conseguenze psicologiche della balbuzie

Storicamente la balbuzie non era ritenuta degna di attenzione sia in termini di attribuzione di finanziamenti pubblici o privati per la ricerca, sia per quanto concerne la preparazione di medici esperti che potessero offrire programmi di trattamento. Dalla fine del XX secolo fino ad oggi, si è assistito ad un cambiamento significativo sul processo di trattamento della balbuzie e, di conseguenza, sulla qualità della vita delle persone balbuzienti. I bambini e gli adolescenti che balbettano spesso esperiscono vittimizzazione tra pari, isolamento e rifiuto sociale, e possono anche essere meno popolari rispetto ai loro coetanei non-balbuzienti. Queste conseguenze negative hanno il potenziale per provocare vergogna ed imbarazzo, scarsa autostima, ritiro sociale e basso rendimento scolastico. Gli adulti che balbettano hanno descritto come la balbuzie possa limitare le iniziative di vita, come ad esempio le scelte della carriera, le promozioni di lavoro, la partecipazione a eventi sociali e lo sviluppo di amicizie.

Altri problemi includono lo sperimentare pensieri ed emozioni negative legate alla comunicazione, stereotipi negativi, pregiudizi e discriminazioni verso coloro che balbettano. La balbuzie tende ad aumentare significativamente quando il soggetto esperisce o anticipa ansia disfunzionale che genera un aumento dell’arousal. La balbuzie sembra infatti variare a seconda delle situazioni comunicative a elevato impatto emotivo nel soggetto, come ad esempio il numero delle persone presenti in un gruppo, la rilevanza assunta dall’interlocutore, la lettura ad alta voce, le conversazioni telefoniche, ecc.

Come definire la balbuzie?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la balbuzie come disturbo specifico dello sviluppo, un disordine nel ritmo della parola per cui il paziente sa con precisione cosa vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà (WHO, 1977).

Tuttavia, definire la balbuzie unicamente come un problema di fluenza equivale ad ignorare l’individuo, i suoi sentimenti e l’importanza che essa ha nella sua vita. Infatti la definizione proposta dall’OMS, sebbene colga le alterazioni della fluenza (sintomi primari), non tiene in considerazione quei comportamenti (sintomi secondari) che accompagnano l’eloquio della persona che balbetta e che tipicamente si manifestano con incapacità di mantenere contatto oculare, strizzamento degli occhi, bruschi movimenti del capo, smorfie del viso, ma anche interiezioni di fonemi, sillabe, parole o frasi senza funzione comunicativa utilizzati come facilitatori della fluenza. I sintomi primari e secondari, insieme, costituiscono le “caratteristiche overt” della balbuzie. Tali caratteristiche si associano spesso a “caratteristiche covert”, ossia ad uno stato di tensione o eccitazione, a emozioni negative come paura, imbarazzo, ira o simili.

Una classificazione completa, che prende in considerazione non solo le “conseguenze della malattia”, ma anche le “componenti della salute” è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF; OMS, 2004). In quanto classificazione, la ICF raggruppa in maniera sistematica diversi domini di una persona in una data condizione di salute (il funzionamento comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione; la disabilità serve come termine per menomazioni, limitazioni dell’attività o restrizioni della partecipazione). La ICF elenca anche i fattori personali e ambientali che interagiscono con tutti questi costrutti e che descrivono il contesto in cui gli individui vivono.

La ICF si basa, quindi, su un modello biopsicosociale che integra tanto la dimensione corporea, declinata nelle componenti fisiologica e anatomica, quanto la dimensione di attività e partecipazione, sottolineando l’assoluta rilevanza di fattori contestuali nel determinare il funzionamento della persona. Si tratta pertanto di uno strumento di classificazione delle condizioni di salute che getta uno sguardo comprensivo sull’interazione tra la persona e il suo ambiente, che può giungere sia al funzionamento che alla disabilità, a seconda dell’effetto facilitante oppure ostacolante dei fattori contestuali. Nella sindrome balbuzie, infatti, le reazioni cognitive, emotive e comportamentali giocano un ruolo preponderante nel determinare se la persona con balbuzie (menomazione) incontrerà difficoltà nella comunicazione in situazioni di vita quotidiana (disabilità) e il grado in cui tali difficoltà si ripercuoteranno negativamente sulle scelte di vita e sulla possibilità di raggiungere i propri scopi (handicap).

La terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie

La terapia cognitivo-comportamentale è un intervento ampiamente riconosciuto e ben sviluppato, che permette sia di fare fronte al vissuto emotivo della persona che balbetta, sia di estinguere i comportamenti secondari di evitamento. Nel primo caso, l’obiettivo è quello di far sì che la persona che balbetta accetti la possibilità di modificare la balbuzie, controllarla e ridurla e non porsi l’obiettivo irrealistico di sconfiggerla, al fine di darsi il permesso di balbettare senza temere il giudizio dagli altri poiché questo è il solo modo per realizzarsi come individuo.

Come affermato da Ellis, all’interno del modello REBT (Terapia Comportamentale Razionale Emotiva), la reazione emotiva e il comportamento sono in gran parte influenzati dalla visione della realtà dell’individuo, cioè da come si percepisce, interpreta e valuta ciò che accade sovrastimando la probabilità degli esiti negativi nelle situazioni quotidiane. Ellis, pur enfatizzando il ruolo svolto dai processi cognitivi nel determinare le reazioni e gli stati d’animo, riconosce che pensiero, emozioni e comportamento sono aspetti dell’esperienza umana strettamente intercorrelati; utilizzando il modello ABC, si possono identificare i pensieri disfunzionali che generano emozioni nocive e che portano ad attuare comportamenti inappropriati nella persona che balbetta. In questo modo, secondo Ellis, il paziente coglie il fondamento illogico o irrealistico delle proprie affermazioni e può trasformarle e sostituirle con idee funzionali che genereranno un cambiamento emotivo e comportamentale. Sebbene l’evento che attiva il comportamento rimane invariato, la modificazione di tali idee disfunzionali permetterà una gestione emotiva più adeguata.

La maggior parte dei dati disponibili sull’efficacia delle procedure cognitive con i balbuzienti provengono da programmi in cui i partecipanti sono addestrati ad identificare e sistematicamente modificare i pensieri irrazionali legati all’ansia e di utilizzare questa “ristrutturazione cognitiva” in situazioni quotidiane.

Nel secondo caso gli interventi di terapia cognitivo-comportamentale fondamentali utilizzati per estinguere i comportamenti secondari di evitamento e di fuga includono l’esposizione, esperimenti comportali e training attentivi.

L’esposizione consiste nel sottoporre l’individuo ad una situazione che normalmente induce una notevole paura o ansia. All’individuo viene chiesto di affrontare la situazione, senza utilizzare alcuna strategia di fuga o di evitamento, e di rimanere nella situazione finché il livello di ansia comincia a diminuire. Lo scopo di tali procedure è in genere quello di praticare la costruzione della fluenza in situazioni sempre più difficili e temute. L’esposizione è specificamente finalizzata a fornire elementi di prova per contrastare aspettative di minaccia-correlata. Sessioni di esposizione iniziali dovrebbero consistere in situazioni di paura di basso livello, mentre le sessioni successive prevedono compiti più difficili. Ogni situazione temuta o fase del programma di esposizione viene ripetuta finché l’individuo può completarla con relativa facilità. Tipicamente, un programma di esposizione consisterebbe dalle 10 alle 15 situazioni che la persona ha incluso in una “gerarchia di paura” che include l’uso del telefono, parlare con la gente o con persone con più autorità, l’incontro con persone per la prima volta, l’incontro di amici o soci che l’individuo non vede da molto tempo e presentazioni di gruppo. Dopo essersi esposta ad ogni situazione, la persona che balbetta riflette sulla validità delle sue aspettative di pericolo in quella situazione, chiedendosi cioè se i timori che aveva prima di esporsi alla situazione fossero giustificati.

Le paure predominanti riportate nei compiti di esposizione riguardano sia il fatto che i partecipanti balbetteranno, sia una valutazione negativa da parte degli altri. Gli esperimenti comportamentali possono essere fondamentali nel ridurre le stime di probabilità associate alla paura che la persona sarà valutata negativamente a causa della sua balbuzie. Questi esperimenti spesso comportano situazioni sociali in cui si chiede alla persona di produrre balbuzie volontariamente, idealmente in una forma più grave di quanto più tipicamente sperimentata. Come con l’esposizione, questi esperimenti comportamentali devono essere presentati in modo gerarchico, passando da situazioni relativamente non temute verso quelle più temute. Al partecipante viene chiesto di registrare i risultati previsti della balbuzie volontaria prima di impegnarsi nella sperimentazione. I risultati degli esperimenti vengono esaminati e si formano nuove previsioni chiare ed osservabili per esperimenti futuri. Altri esperimenti comportamentali possono essere condotti senza la necessità di balbuzie volontaria. Nella terapia cognitivo-comportamentale, il partecipante è invitato a creare esperimenti per verificare una qualsiasi delle sue previsioni negative del mondo.

L’uso della mindfulness nel trattamento della balbuzie

Procedure basate sulla mindfulness (consapevolezza) sono diventate componenti sempre più popolari dei programmi di terapia cognitivo-comportamentale per l’ansia. Una procedura mindfulness semplice che può essere utilizzata è il training attenzionale, destinato a ridurre la frequenza dei pensieri intrusivi legati alle minacce. Si sostiene che questo si ottiene aumentando la capacità della persona di partecipare a obiettivi cognitivi alternativi. Cioè, per aumentare la propria capacità di controllare dove si trova l’attenzione, la persona può ridurre la propria preferenza verso aspetti negativi del contesto sociale. Nei training attenzionali i soggetti sono seduti in una posizione comoda, con gli occhi chiusi e si richiede loro di concentrarsi su un mantra di conteggio/ respirazione. Su ogni inspirazione l’individuo conta un numero nella sua mente. Su ogni espirazione l’individuo sente la parola “rilassarsi” nella sua mente. Le persone sono addestrate a completare questa semplice procedura di meditazione respirazione due volte al giorno per 5 minuti per ogni sessione. Questo processo di conteggio/respirazione permette sia alla persona di concentrarsi sulle sensazioni fisiche del respiro ad entrare ed uscire dal corpo, che possono così essere monitorate, sia a pensieri, sentimenti e sensazioni che si trovano ad andare e venire senza giudicarli o reagire ad essi, rifocalizzandosi poi sul respiro. Ciò comporta una focalizzazione consapevole su ciò che si sta facendo e l’accettazione su come ci si sente (pensieri, sentimenti, sensazioni fisiche), una focalizzazione dell’attenzione sul respiro e l’espansione dell’attenzione dal respiro al corpo nel suo complesso. Concentrarsi sul respiro è un altro modo per aumentare l’attenzione e la consapevolezza delle sensazioni corporee e fornisce una base per il monitoraggio del processo di produzione del linguaggio per le persone che balbettano.

Quest’ultima procedura rientra in quella che viene chiamata la cosiddetta “terza ondata” della terapia cognitivo-comportamentale che coinvolge gli approcci che si concentrano più sulla consapevolezza, accettazione e comprensione del contesto di pensiero, piuttosto che stimolarne e modificarne il contenuto. Infatti, la mindfulness è un processo di regolazione dell’attenzione in maniera costante rivolto all’esperienza presente, richiede la capacità di spostare intenzionalmente l’attenzione da un aspetto ad un altro di tale esperienza e una qualità di rapportarsi alla propria esperienza in un orientamento di curiosità, apertura sperimentale e accettazione. Il termine “accettazione”, in questa prospettiva, non coincide con passività o rassegnazione ma significa essere capaci di vivere pienamente ogni esperienza senza cercare di modificarne il significato, distorcendolo perché percepito come troppo negativo e senza preoccuparsi eccessivamente per esso, in modo da cogliere ogni singola sfaccettatura e farla propria.

La consapevolezza è un costrutto multiforme che comprende l’osservazione di esperienze interiori ed esteriori (per esempio notando quando il proprio stato d’animo comincia a cambiare), che agisce con la consapevolezza (ad esempio notando il vagare della mente e il diventare distratto quando si fa un’attività) e l’accettazione di fenomeni interni ed esterni (ad esempio non essere giudicante di se stessi nel momento in cui si provano emozioni negative). La mindfulness può rivelarsi uno strumento prezioso per facilitare l’accettazione della balbuzie correlata a comportamenti, pensieri e sentimenti nelle persone balbuzienti. Questa maggiore accettazione può essere correlata alle nuove capacità di coping adattive e ad una miglior qualità di vita, permettendo una minore presenza di comportamenti di evitamento. La mindfulness può essere coltivata attraverso varie forme di meditazione e pratica informale che coinvolge sia l’attenzione focalizzata su qualcosa di specifico (ad esempio il respiro o sensazioni fisiche nel corpo), o di monitoraggio aperto che è un’osservazione attenta a qualsiasi cosa (pensieri, sentimenti, sensazioni) che nasce senza attenzione esplicita su qualsiasi oggetto.

La pratica mindfulness può essere impiegata dalle persone che balbettano nella tecnica dell’esposizione comportamentale e può essere generalizzata a una varietà di situazioni perché non è dipendente dal contesto. Questo permette al soggetto di avere una percezione del controllo indipendentemente dalle circostanze particolari. Attraverso la mindfulness il soggetto osserva i pensieri e le emozioni temute in maniera non giudicante, in assenza di conseguenze negative, al fine di indebolire o estinguere la risposta di paura. Questa accettazione aperta di eventi in genere percepiti come negativi può diminuire i modelli di fuga e di evitamento, aumentando la formulazione delle strategie di coping efficaci. La mindfulness può essere impiegata anche per migliorare la regolazione emotiva, infatti i ricordi di eventi passati negativi e le anticipazioni di eventi futuri temuti sono simulazioni che spesso non vengono distinte dalle situazioni presenti che si stanno affrontando. La ruminazione contribuisce al mantenimento o all’esacerbazione di risposte affettive negative e impedisce un’efficace problem solving. La mindfulness porta alla diminuzioni della ruminazione e questo spiega la riduzione dei sintomi depressivi e ansiosi.

Le emozioni continuano ad essere vissute come si presentano, tuttavia il potenziale di queste emozioni che portano al perpetuare del ciclo di risposte comportamentali disadattative e valutazioni negative si interrompe. La mindfulness permette anche un aumento della consapevolezza metacognitiva e fornisce un meccanismo per interrompere l’interpretazione letterale delle parole e dei pensieri, osservando come questi ultimi siano “solo pensieri”, ovvero passaggi di eventi mentali, piuttosto che riflessioni del tutto accurate della realtà. Cambiare la propria relazione rispetto ai pensieri può coinvolgere diverse strategie, tra cui la visualizzazione di pensieri come immagini intermittenti su uno schermo. Gli script della mente, che si ripetono più e più volte perdono il loro potere una volta che la persona balbuziente si rende conto che un nastro mentale è in fase di riproduzione. Pertanto è opportuno che la persona che balbetta guardi i pensieri andare e venire, li visualizzi come eventi mentali, piuttosto che come fatti che devono essere agiti ora, e scriva i pensieri sulla carta in modo che l’emozione sia meno opprimente e dia il tempo per una risposta più riflessiva, invece di una reazione automatica, guardando a come il pensiero emerso non si adatti con la situazione attuale. Queste strategie possono aiutare la persona a generare pensieri differenti.

Terapia cognitivo-comportamentale per la balbuzie: uno sguardo al ruolo dell’ansia

La difficoltà a mantenere nel lungo termine la fluenza acquisita in terapia sembra essere in parte dovuta ad un marcato livello di ansia sociale che sperimentano le persone che balbettano. Nei balunzienti la presenza di pattner ansiogeni elevati è infatti predittivo degli esiti poco soddisfacenti con il solo trattamento basato sulla fluenza. Infatti, diverse ricerche hanno dimostrato che soggetti che non beneficiavano durante il trattamento di programmi atti a modificare la fluenza verbale e parallelamente a ridurre la malattitudine comunicativa, ottenevano risultati scadenti e non duraturi nel tempo. Inoltre, sembra che vivere emozioni negative come l’imbarazzo sull’utilizzo di tecniche di controllo vocale siano collegati alle recidive. Alcuni studi dimostrano che la ricaduta è meno probabile per le persone il cui trattamento aveva incluso componenti cognitive e affettive rispetto a coloro che non avevano ricevuto questo tipo di trattamento.

Pertanto, appare evidente la necessità di adottare, nel trattamento, procedure atte a ridurre e gestire l’ansia sociale, che si presenta in comorbidità con la balbuzie. L’utilizzo della terapia cognitivo-comportamentale risponde a questa necessità, poiché presuppone l’esistenza di un circuito retroattivo tra cognizione/pensieri e comportamento nel quale i processi cognitivi influenzano il comportamento e il cambiamento comportamentale a sua volta influenza le cognizioni. Nel trattamento dei disturbi d’ansia l’obiettivo diviene, pertanto, quello di modificare questo circuito attraverso l’utilizzo di tecniche quali l’esposizione graduale agli stimoli fobici e la ristrutturazione cognitiva. L’assunto, infatti, è che attraverso l’esposizione allo stimolo temuto il paziente avvertirà in breve tempo una riduzione significativa del livello di ansia e potrà confutare l’irrazionalità dei pensieri disfunzionali legati alla situazione temuta.

In conclusione, la “guarigione” nella balbuzie non si deve riferire al mero raggiungimento della fluenza, ma implica una presa di coscienza che conduce la persona balbuziente a comprendere come la balbuzie non è un fallimento e il parlare fluentemente è la cosa giusta. Inoltre, la presenza di un disturbo d’ansia sociale tra le persone che balbettano ha il potenziale per abbassare la qualità della vita, aumentando i deficit comportamentali nelle situazioni sociali, ostacolando in maniera significativa il funzionamento sociale, scolastico e professionale.

Pertanto, la valutazione ed il trattamento dell’ansia sociale nella balbuzie è di estrema importanza. In particolare gli approcci di trattamento completo sono necessari per affrontare “tutta la persona” che balbetta piuttosto che il solo difetto di pronuncia. Per questo motivo è necessario che psicologi clinici, psichiatri e logopedisti lavorino in maniera congiunta al fine di trovare un equilibrio tra la modificazione della fluenza e lo sviluppare e mantenere sentimenti e attitudini positivi sulla propria verbalità. L’approccio globale alla gestione dei balbuzienti ha il potenziale per migliorare in modo significativo l’impegno in attività sociali, educative e professionali, che a loro volta possono aumentare la qualità della vita e la capacità di creare relazioni significative e soddisfacenti.

Trauma, abuso e violenza (2017) di A. Onofri e C. La Rosa – Recensione del libro

Il libro Trauma, abuso e violenza, uscito nel 2017, è un libro che prima di tutto descrive il concetto clinico di trauma, definizione tutt’altro che scontata e semplice.

 

Antonio Onofri e Cecilia La Rosa scrivono di trauma. Il loro libro, uscito nel 2017, è Trauma, abuso e violenza. Libro che prima di tutto descrive il concetto clinico di trauma, definizione tutt’altro che scontata e semplice. Non è un mistero che per trauma si intendono non solo le situazioni estreme in cui la sopravvivenza è minacciata, ma anche il cosiddetto trauma complesso o condizione traumatica, situazione in cui episodi dolorosi si accumulano nel tempo sfociando in un’esperienza traumatica.

Questo aspetto è stato valorizzato dalla ricerca recente, che ha allargato l’area del trauma; e tuttavia è anche uno dei punti controversi dell’indubbio successo delle teorie del trauma, le quali sostengono che il trauma non sia solo connesso in modo privilegiato al disturbo post-traumatico da stress ma sembra doversi considerare un elemento trasversale di parte significativa della psicopatologia. Questa ipotesi è in parte credibile, in parte espone al rischio di un appiattimento teorico, clinico e terapeutico.

Tuttavia non è questa la sede giusta per discutere questo rischio. Qui è preferibile esporre la bontà del libro Trauma, abuso e violenza di Onofri e La Rosa, libro completo ed esaustivo. Alla sezione sulla definizione di trauma seguono i capitoli sui fattori protettivi e sui fattori di rischio al trauma e le conseguenze cliniche, comportamentali e neurologiche. Queste ultime si rifanno alla teoria polivagale di Stephen Porges.

La sezione finale del libro Trauma, abuso e violenza è dedicata alle terapie, tra le quali emergono la cognitivo-comportamentale e la cosiddetta EMDR che sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing. Questa terapia si sta affermando come trattamento di elezione per il disturbo post-traumatico da stress ed è esposta con chiarezza nei suoi principi clinici e terapeutici da Onofri e La Rosa. Come è noto, l’EMDR è una procedura clinica molto formalizzata che comprende varie fasi specifiche, composte di elementi comuni con altre terapie, come la relazione terapeutica e la psico-educazione, di elementi specifici, che sono le stimolazione tramite induzione di movimenti oculari o di altro tipo, e gli elementi provenienti da altri paradigmi clinici: l’accertamento cognitivo, la ristrutturazione cognitiva, l’esposizione comportamentale graduale, l’abreazione, le libere associazioni, le metafore e le tecniche ipnotiche.

Un enzima metabolico capace di influenzare i ricordi

I ricercatori della Scuola di medicina di Perelman dell’Università della Pennsylvania hanno scoperto, nel cervello del topo, che un enzima metabolico chiave agisce direttamente dall’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi.

 

Cosa avviene nel cervello quando si creano nuovi ricordi

Comprendere come i ricordi si formano, vengono recuperati e, alla fine, come sbiadiscono col tempo è oggetto di studio da molti anni. In un recente studio è stato scoperto, nel cervello del topo, che un importante enzima lavora direttamente all’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi. I ricercatori ipotizzano che la registrazione di un nuovo ricordo e la memorizzazione di uno vecchio implichino lo sviluppo di proteine nello spazio, o la creazione di nuove sinapsi, dove un neurone incontra un altro neurone. Ma la formazione di questi ricordi richiede anche un’espressione genica nuova nel nucleo cellulare, dove il DNA viene immagazzinato e i geni vengono decodificati per stabilire le funzioni specifiche delle cellule.

Recentemente, i ricercatori della Scuola di medicina di Perelman dell’Università della Pennsylvania hanno scoperto, nel cervello del topo, che un enzima metabolico chiave agisce direttamente dall’interno del nucleo dei neuroni per attivare o disattivare i geni quando vengono creati nuovi ricordi. Questo enzima, chiamato acetil-CoA sintetasi 2 (ACSS2), alimenta un’intera macchina di espressione genica in loco nel nucleo delle cellule nervose per attivare i geni chiave della memoria dopo l’apprendimento.

L’enzima acetil-CoA sintetasi 2 e la compromissione della memoria nei disturbi neurodegenerativi

Questo studio fornisce un nuovo target per i disturbi neuropsichiatrici, come l’ansia e la depressione, in cui i meccanismi neuroepigenetici sono fondamentali. L’ipotesi è che ACSS2 possa avere un ruolo nella compromissione della memoria nei disturbi neurodegenerativi.
La formazione delle memorie prevede la ristrutturazione delle sinapsi, che si basa sull’espressione coordinata di un gruppo di geni della memoria. L’aggiunta di un gruppo chimico, un processo chiamato acetilazione, su punti specifici del genoma nei neuroni, destabilizza la struttura del DNA interferendo con la “lettura” dei geni coinvolti nella formazione della memoria.

I meccanismi epigenetici aiutano a capire maggiormente come l’aggiunta o la sottrazione di gruppi chimici, che influenzano l’espressione genica, siano essenziali nella regolazione delle diverse funzioni neuronali. In questo studio, il team di Penn ha scoperto che l’enzima metabolico acetil-CoA sintetasi 2 si lega ai geni della memoria nei neuroni per regolare direttamente e alimentare la loro acetilazione, che in ultima analisi regola la memoria spaziale nei topi.

I ricercatori hanno trovato che in un modello di coltura cellulare neuronale, l’ACSS2 aumenta nei nuclei dei neuroni differenziali e localizza i “geni neuronali upregolated” in prossimità dei siti ad elevata acetilazione istonica. Allo stesso tempo, una riduzione di ACSS2 riduce l’acetilazione e i livelli di acetil-CoA nel nucleo con conseguente diminuzione dell’espressione dei geni della memoria.

Successivamente, lo studio ha evidenziato che se l’espressione ACSS2 degli animali era bloccata, la memoria a lungo termine era compromessa, come dimostrato dall’inabilità dei topi di ricercare degli oggetti che erano stati collocati in una camera. Infatti, in un trial di due giorni, questi topi non sono andati alla ricerca dell’oggetto spostato il secondo giorno, mentre i topi del gruppo di controllo lo hanno fatto. Questo perché, senza ACSS2, i topi non avevano a disposizione alcun path molecolare per coinvolgere i geni della memoria affinché potessero memorizzare la posizione degli oggetti. A sua volta, questa diminuzione dell’ACSS2, in regioni cerebrali specifiche, compromette la “lettura” dei geni fondamentali implicati nella formazione delle nuove memorie o per l’aggiornamento di quelle vecchie.

Gli autori sperano di poter applicare in futuro questa nuova scoperta sulla memoria per impedire la formazione di ricordi traumatici, o addirittura per cancellarli, in persone che soffrono di disturbi post-traumatici, bloccando l’ACSS2 nella regione del cervello che elabora la memoria a lungo termine, l’ippocampo.

Riflessioni psicologiche sul fenomeno dei robot del sesso

I robot del sesso sono bambole dall’aspetto femminile create per impersonare la donna “perfetta”: rispettano i canoni estetici e caratteriali desiderati dall’acquirente, che per averla paga una cospicua somma di denaro e saluta, illusoriamente, i problemi di approccio, i diverbi e i contrasti, gli abbandoni e i rifiuti che ipoteticamente si incontrano in una relazione reale.

 

Con i robot del sesso la bambola gonfiabile si evolve, si raffina e acquisisce le sembianze di una pornostar con un corpo estremamente curato e sessualizzante, pronuncia le parole giuste al momento giusto, esattamente ciò che vorrebbe sentirsi dire l’uomo interessato a godere della sua compagnia.

Robot del sesso: addio alla reciprocità e all’incontro tra identità

Non può ancora camminare, ma in compenso è sufficientemente snodata per un rapporto sessuale, condivide gli interessi dell’aspirante partner, possiede ogni tratto somatico da lui desiderato, non invecchia mai e promette una fedeltà garantita e sicura e, al contrario di una donna reale, è letteralmente nelle mani di un uomo cui non può sottrarsi: il robot del sesso non va a lavoro, non frequenta le amiche, non nutre passioni oltre a quelle contemplate dal suo “padrone”, non riflette sotto ottiche differenti, non discute, non si esprime, non cambia look, non ha gli occhi azzurri anziché verdi, non indosserà mai un abito o un trucco sgradito, e con il trascorrere del tempo non si riempirà di rughe, né ingrasserà o dimagrirà.

Non solo il rapporto manca di reciprocità, gradualità e spontaneità, ma anche dell’incontro di due identità perché il robot del sesso, non essendo umano, non è dotato di questo tratto tipico dell’uomo: la bambola non attraversa l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta e l’anzianità, non è in grado di selezionare il partner in base alle esigenze e tratti personali, si limiterà solamente a funzionare come un giocattolo maneggiabile per il cliente che finalmente dichiara di aver trovato una sostituta alla ragazza in carne ed ossa.

Una creatura artificiale, il robot del sesso, che è quindi l’antitesi della donna reale, che come essere umano è dotata di un’unicità, tratteggiata dalle componenti estetiche e identitarie: la bambola è una riproduzione, una copia ricostruita ad hoc che può somigliare ad una persona reale e irraggiungibile, come la star cinematografica preferita, oppure avvicinarsi ad un prototipo mentale dalle peculiarità somatiche e personologiche specifiche. C’è chi la desidera orientale, chi occidentale, chi mora con gli occhi marroni o bionda con gli occhi verdi, chi spiritosa, chi pacata, comunque in costante adorazione e accondiscendenza del partner.

Le reazioni alla diffusione dei robot del sesso

La diffusione del fenomeno robot del sesso ha scatenato ben presto reazioni contrastanti; dai movimenti contrari a queste nuove creazioni nate prevalentemente su imitazione del sesso femminile che viene deriso, umiliato e oggettivato, fino all’entusiasmo di chi finalmente potrà costruire la compagna ideale senza neanche impegnarsi a rendersi desiderabile per lei. Se da un lato il robot del sesso suscita scalpore e indignazione, dall’altro si afferma come un sogno finalmente realizzato: la ricerca dell’amante perfetta, irreale, totalmente pertinente ai bisogni maschili è presente ormai da secoli e ora, con l’avanzamento tecnologico, si concretizza in un prodotto ottenibile ad un prezzo elevato in termini sia economici che psicologici.

Optare per la frequentazione di un robot progettato sulla base di ciò che si pretende dalla partner, sottolinea un dato rilevante nell’identità e nelle relazioni interpersonali: infatti nel rapporto maturato con un essere umano o robotico entrano in gioco i significati personali che definiscono il modo di rappresentare se stessi, gli individui e gli eventi, pertanto la scelta della compagna è indicativa delle necessità inconsapevoli che confermano le interpretazioni soggettive. Pensare di essere inadeguati nelle relazioni interpersonali ad esempio, è una delle tante possibili credenze che conducono alla selezione di un partner robotico che, in tale frangente, confermerebbe l’idea di partenza in un circolo vizioso, difficile da individuare senza un aiuto terapeutico.

I significati personali prevalenti nel funzionamento soggettivo sono quindi punti di partenza per riflettere sulle motivazioni che spingerebbero gli uomini a stringere “legami” duraturi e occasionali con una bambola parlante: lo slogan dell’azienda produttrice proclama l’importanza dei bisogni del cliente e il robot del sesso, così com’è stato progettato, sembra rivestire la necessità di controllo su una donna ridotta ad un oggetto manovrabile, docile, sottomessa, incapace di replicare e autodeterminarsi. Non sarebbe casuale, infatti, se gli uomini interessati ad un prodotto simile adottassero con maggior frequenza atteggiamenti ipercritici sul corpo femminile che per essere esteticamente appetibile deve conformarsi a canoni estetici faticosi, innaturali e irraggiungibili, fino a ridursi ad un oggetto in costante auto-osservazione e modificazione.

Di conseguenza la  donna “perfetta” non può essere altro che una bambola programmata per appagare la sessualità, del tutto priva della personalità, del calore e dell’intelligenza degli esseri umani: la partner ideale, non è pensata secondo gli aspetti identitari che si rispecchiano negli interessi, nel modo di gestire le relazioni o nella concezione di sé e dell’esterno, bensì è enfatizzata principalmente per le componenti estetiche che assumono una rilevanza cruciale.

Robot del sesso: una risposta alla solitudine?

Stando all’opinione dei programmatori, però, tale invenzione è finalizzata a sopperire il vuoto interiore degli acquirenti, soli e insoddisfatti. Una soluzione del genere, tuttavia, potrebbe alleviare la sofferenza in un primo momento, immediatamente dopo l’acquisto, per poi rafforzare e peggiorare con il tempo il malessere, in un circolo vizio disfunzionale: rifiutare il rapporto con gli esseri umani significa accantonare l’eventualità di “fare esperienza” di emozioni, pensieri e sensazioni che nascono dall’interazione, e quindi di gioire e soffrire insieme, subire un abbandono o un rifiuto, deludere ed essere delusi, confrontarsi con le discrepanze che rendono le persone uniche in quanto tali e consentono una potenziale crescita.

Tutto ciò, infatti, non si verifica con la bambola, con la quale cambia anche la concezione della coppia: la costruzione di una storia affettiva con una persona, infatti, richiede varie fasi che attraversano l’innamoramento e l’amore, dall’idealizzazione di sé e dell’altro in cui si sovrastimano le risorse reciproche, al confronto tra pregi e difetti che portano alla decisione dell’impegno in un progetto di coppia duraturo, fino all’ipotetica rottura e all’elaborazione del lutto che, intrapresa costruttivamente, consente di incrementare una conoscenza di sé e dell’altro, una migliore gestione emotiva, un’integrazione di molteplici punti di vista, e quindi un arricchimento in termini di maturazione personale.

La presenza di un altro umano è perciò fondamentale per comprendere la propria e l’altrui mente, formulare ipotesi e riflettere su pensieri, intenzioni e comportamenti, ad esempio, al fine di conoscere se stessi e l’esterno. Passioni divergenti, piccole incomprensioni e incompatibilità caratteriali, delusioni e percezioni di fallimenti non sono rare eccezioni e influiscono sull’andamento relazionale fin dai primi incontri, pertanto si può dedurre che la ricerca di un robot del sesso, dalle frasi limitate e compiacenti costituisca una soluzione illusoria alla difficoltà di venire incontro all’altro ma anche di mettersi in discussione e integrare nuovi modi di vedere la realtà.

Di conseguenza nasce spontanea la domanda sulla profondità del rapporto con un robot del sesso: come diventerà a lungo termine? L’interazione con una compagna robotica che non possiede interessi, intelligenza e personalità ed è per di più priva di espressioni facciali, imperfezioni estetiche, movimenti corporei, odore, tatto, e in sostanza di tutte le esperienze pregresse e attuali solleva numerosi interrogativi sulla qualità relazionale spogliata della comunicazione non verbale: diversamente da un volto che con i suoi tratti distintivi, mutevoli e imperfetti, reattivi agli stimoli interni ed esterni avvia importanti messaggi, la bambola resta imperturbabile, statica, innaturale, non possiede pertanto la componente espressiva che trasmette un effetto emotivo in chi la osserva.

Perché esiste allora? La bambola è programmata per colmare la solitudine e le altre lacune emotive non elaborate che costituiscono una condizione di malessere iniziale o un problema destinato a radicarsi, specialmente se ad utilizzarla sono i giovani con poca esperienza nelle relazioni sentimentali: il rischio del robot del sesso è quindi di aumentare le insicurezze nell’incontro con l’altro sesso, evitare le paure, le responsabilità ed eventuali apprendimenti che permettono di propendersi al futuro con maggior consapevolezza e crescita. Una relazione con un essere umano, seppur impegnativa e talvolta scottante, avvia un’esperienza potenzialmente produttiva per conoscere se stessi e gli altri e quindi sentire la sofferenza e il piacere, migliorare i punti di forza e fronteggiare gli elementi di debolezza, cosa che non sembra verificarsi in un rapporto con un robot. Analizzare l’ambito delle relazioni sentimentali e i significati correlati diventa, pertanto, un punto di partenza percorribile per comprendere le motivazioni che spingono determinati soggetti a selezionare un partner robotico e a scartare un essere umano.

Life is strange: un videogioco che riproduce temi adolescenziali

Life is Strange non è un videogame, è un manifesto generazionale dei Millennials. La sua narrazione, che tocca con rara sensibilità temi attuali e terribili come il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza, è stata premiata con i più alti riconoscimenti di settore.

 

Prima di iniziare la lettura dell’articolo, voglio farvi una domanda…Secondo voi, i videogiochi fanno male? Mi rendo conto che la domanda potrebbe essere alquanto scontata e ovvia per alcuni, ma prima di rispondere vorrei invitarvi a riflettere sul videogioco di cui vi parlerò. Qualcuno di voi, ha mai sentito parlare o ha mai giocato a Life is Strange? Life is Strange, titolo dall’enorme successo nato dalla Dontnod Entertainment e pubblicato dalla Square Enix nel 2015, è un’avventura grafica strutturata in cinque episodi disponibile per le principali consolle oltre che per PC.

Life is strange: alcune recensioni sul videogioco

Spaziogames ed Everyeye con le loro recensioni forniscono un quadro davvero completo di questo videogioco delineando, sebbene in maniera non approfondita, anche alcuni aspetti psicologici. Senza anticiparvi la trama, poichè vi consiglio caldamente di giocarvi, vi riporto un estratto della recensione di Lorenzo Mosna tratta da Spaziogames che dice:

Ci sono giochi che ci fanno capire quanto il videogame sia uno straordinario strumento per raccontare delle storie. Giochi che riescono a immergerti in un mondo, a fartelo vivere e sentire, e a creare un legame speciale con i personaggi che vivono al suo interno. Life is Strange, titolo nato dalla mente dei Dontnod, è uno di questi: un gioco che ci ha conquistati sin dalle sue prime immagini e che ci ha coinvolti in un crescendo emotivo lasciandoci una splendida sensazione. In Life is Strange, ogni azione ha le proprie ripercussioni sul mondo del gioco, e le scelte compiute dalla protagonista nelle fasi di dialogo e negli avvenimenti più importanti della vicenda possono stravolgerne l’esito. Piccole cose, come la rimozione di una scritta da una lavagna o un semplice atto di gentilezza o negligenza plasmano il continuum spazio temporale, dando luogo a risultati spesso imprevedibili, o addirittura sospesi e indecifrabili nell’immediato, e grazie al potere di Max vi è sempre la possibilità di riavvolgere il tempo e ritornare sui propri passi. Come nella metafora dell’effetto farfalla, un’azione apparentemente innocua può portare a grandi conseguenze, che né il giocatore né la protagonista possono comprendere. L’aspetto che rende Life is Strange particolarmente interessante è costituito dal costante dubbio in cui il giocatore si trova immerso: anche se abbiamo la possibilità di riavvolgere il tempo e cambiare le nostre decisioni, l’esito di queste si concretizza molto più avanti ed è impossibile per il giocatore capire anzitempo di avere compiuto la scelta giusta o sbagliata. Il legame empatico che si stringe tra il giocatore e la protagonista ha una forza dirompente, e bastano pochi minuti per amare il mondo di Max e di chi le sta attorno. Ogni personaggio è caratterizzato in maniera eccellente, e le varie personalità emergono con veemenza dopo pochi minuti. I dialoghi sono scritti con maestria, e il mondo dei teenager americani è ritratto senza troppi filtri: l’uso del turpiloquio costante, i vizi e le virtù dei giovani si mostrano senza edulcorazioni, e anche quei personaggi che incarnano un archetipo banale riescono a trasmettere un senso di verosimiglianza. Dontnod, da questo punto di vista, ha compiuto un lavoro straordinario che raramente si vede nel mondo dei videogiochi.”

Federico Ercole invece descrive: “Succede raramente in un videogioco, spesso invece nei grandi romanzi, di stabilire un’identificazione così immediata e travolgente con un personaggio fittizio e di dialogare con la sua anima numerica come se fosse una parte di noi, una eco della nostra coscienza. Life is Strange è indimenticabile e i suoi personaggi, con le loro storie, risultano tatuati nella memoria. Se i luoghi che visitiamo durante il gioco non sono molti, sebbene variati dal contesto imposto dalla sceneggiatura, tornarvi dopo poco arricchisce la loro dimensione quotidiana trasformando posti come la camera di Chloe, quella di Max e il campus in spazi intimamente familiari e “veri”. Da qui comincia uno struggente poema elettronico sull’infanzia bruciata troppo presto, sull’ingiustizia, sull’amicizia, sulla prepotenza verso i più deboli, sul pregiudizio e su molto altro: l’universo inquieto (forse ormai dimenticato e incomprensibile per chi ha superato i venti anni) di una gioventù che prova per la prima volta sentimenti che risultano devastanti e dominanti, l’anima di una generazione rappresentata con una gamma cromatica delle emozioni dalla varietà e profondità rare nell’intrattenimento elettronico. Life is Strange è un’opera romantica in maniera universale e pura, incorrotta dal cattivo gusto e dalla superficialità, assolutamente femminea. In essa vi è la lotta dell’essere umano contro la crudeltà di un fato perentorio e lo struggimento che deriva dal potere di condizionare il destino, che è un mostro difficile da ingannare. Non dovrebbe essere giocato solo da chiunque ami i videogiochi ma soprattutto dai disinteressati o da chi li ignora, poiché potrebbe infine innamorarsene perdutamente o almeno capirne la grandezza.

Life is strange: il trailer

 

Life is strange: un manifesto dell’ età adolescenziale

Queste due recensioni introducono alcuni elementi di Life is Strange molto interessanti che cercherò di condividere insieme a voi e, nel farlo, cercherò di essere il più chiaro e sintetico possibile. Il primo elemento di cui vorrei parlarvi è forse uno degli aspetti che vi porterà a rispondere: “Si, I videogiochi fanno male” al quesito posto all’inizio di questo mio articolo, ma non per questo dobbiamo partire prevenuti e generalizzare. Non voglio fare con questo cattiva pubblicità al videogames, ma è un aspetto da tenere in considerazione (e forse, molti di voi non ne sono a conoscenza).

Come riporta Alessandro Contin nell’articolo del 31/05/2016 sul sito La Stampa, Life is Strange: “non è un videogame, è un manifesto generazionale dei Millennials. La sua narrazione, che tocca con rara sensibilità temi attuali e terribili come il suicidio, l’eutanasia, il bullismo e la ricerca di un’identità sessuale nell’adolescenza, è stata premiata con i più alti riconoscimenti di settore… “ Nell’intervistare poi Raoul Barbet (Co-Game Director), Michel Koch (Co-Game Director e Art Director) e Luc Baghadoust (Produttore Esecutivo del gioco), il giornalista pone alcune domande particolari:
Come Donnie Darko, o forse ancor di più, Life is Strange è un manifesto delle inquietudini dell’adolescenza. È difficile immaginare un gruppo di sviluppatori confrontarsi con paure e aspettative tipiche di quell’età. Da dove avete iniziato?

Raoul Barbet / Michel Koch. «L’idea di poter riavvolgere il tempo, andare nel passato e mettere in discussione le scelte fatte e le conseguenze di queste decisioni è stata la nostra base di partenza. Inoltre abbiamo rielaborato l’idea di Memory Remix già presente nel nostro videogioco Remember Me. Ci siamo domandati cosa realmente avremmo voluto raccontare, quali personaggi, quale mondo… il nostro obiettivo era realizzare un gioco con una componente narrativa importante. Ambientarlo in un universo studentesco è stata una buona scelta, perché è il passaggio tra l’adolescenza e la consapevolezza dell’essere adulti, con scelte importanti, che avranno un’eco per il resto della vita. Il potere di Max, e di conseguenza del giocatore, la costringe a ripensare il rapporto che ha con gli altri, la mette a confronto con le conseguenze delle sue azioni, moltiplica i suoi dubbi. Volevamo mostrare l’importanza di operare scelte guardando al futuro e non al passato. E molti giocatori l’hanno fatto, hanno finito il gioco assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni senza tornare indietro. Senza riavvolgere il tempo. Abbiamo notato che le decisioni più ardue, quelle che mettevano in difficoltà il giocatore, corrispondevano sempre a questioni sociali reali».

Il rapporto tra adolescenti e social network è un tema complesso. Cyberbullismo e l’ossessione per l’immagine possono distruggere una ragazza anche se vive nella virtuale Arcadia Bay?
Michel / Raoul / Luc Baghadoust. «Life Is Strange approccia temi difficili come il bullismo in ambiente scolastico. Abbiamo cercato di affrontare questo argomento con maggior tatto possibile, usando il personaggio Kate. Abbiamo inscenato la sofferenza che continue vessazioni psico-fisiche causano, abbiamo mostrato l’incapacità di parlare. Siamo arrivati a palesare le scelte drammatiche che alcuni adolescenti compiono per uscire da queste terribili situazioni. E molti giocatori, per il loro passato, per il loro vissuto, per la loro sensibilità personale, hanno provato un forte coinvolgimento emotivo».

Gli aspetti quali il forte coinvolgimento emotivo, il rappresentare la sofferenza provocata da continue vessazioni psico-fisiche e la scelta di certi temi sensibili da affrontare nell’arco dei cinque episodi (come ad esempio il suicidio di Kate nel terzo episodio) hanno comportato, come logica conseguenza, il manifestarsi di alcune problematiche di natura psicologica che potrebbero comparire in chi vi gioca. Sebbene non mi sia dato sapere se vi siano stati dei casi reali in cui il giocare a Life is Strange abbia scatenato disagi psicologici, ideazione suicidaria o dei tentativi di suicidio, ho notato però la presenza (sul sito web del gioco in questione) di una sezione chiamata “Talk to someone”. In questa sezione, per diversi Stati, sono presenti dei numeri di telefono e indirizzi web da consultare qualora volessimo avere un aiuto o parlare con qualcuno dopo aver giocato con il gioco elettronico.

 

Life is strange
Fig 1: Ingrandimento della sezione “Talk to someone

La componente narrativa di Life is strange

Life is Strange è, e rimane, un gioco dall’enorme potenziale. Vi sono altri aspetti da tenere in considerazione che potrebbero, ma questa è soltanto una mia convinzione, essere correlati tra loro. Come già spiegato negli estratti delle interviste riportate nell’articolo, Life is Strange si basa molto sulla componente narrativa. La Dott.ssa María Ximena López Campino, nella sua tesi di dottorato del 2009 dal titolo “Videogiochiamo dunque impariamo? Un modello per l’analisi educativa dei videogiochi”, spiega l’importanza dell’elemento narrativo come strategia di apprendimento. Ecco quanto riporta:

Se in un primo momento la trama costituiva un elemento secondario, o puramente un abbellimento al gioco, senza relazione con il gameplay, la creazione di nuove dinamiche di gioco (e.g. giochi di avventura e di ruolo) ha portato all’integrazione di una narrativa che si svolgesse accanto alla performance nel gioco. La narratività che si stabilisce nell’attività videoludica è, per alcuni teorici, uno dei principali elementi educativi dei videogiochi. Bruner afferma che gli umani hanno una propensione per la narrativa, la quale ci permette di organizzare l’esperienza e costruire significati condivisi… La mente umana ha bisogno di storie che permettano di raccontarsi agli altri, per poter condividere e comunicare con se stessi e con le altre persone, per costruire un’identità e per dare un significato alle proprie azioni. La narrativa è dunque una strategia e un modo di conoscere. Tuttavia, la narrazione videoludica presenta alcune caratteristiche che la contraddistinguono della narrazione canonica. La narrativa presente in un libro o in un film segue una logica sequenziale, in cui il lettore o spettatore sa di essere l’osservatore di una dinamica stabilita altrui. Nel caso dell’attività videoludica, invece, il giocatore non è assolutamente un osservatore esterno, ma è il soggetto stesso che compie l’azione. La sua partecipazione è in sé una parte della storia, e dunque, senza la sua attività, la narrazione non avrebbe forma. Dunque, la narrazione nel videogioco esiste grazie alla sua natura interattiva e ipertestuale, in cui il dialogo tra il giocatore e il gioco permette la co-costruzione della storia. Nel rendere possibile lo sviluppo di un racconto, che non è un racconto qualsiasi, ma un racconto vissuto, interattivo e attuato, si apre la strada a un apprendimento esperienziale, costituito dai vissuti emotivi e dagli eventi mentali dei giocatori. La costruzione del sapere videoludico usufruisce così dell’investimento cognitivo e affettivo attivato da una narrativa intrecciata alla propria esperienza, più potente e più significativa”.

Quindi, come può la narrativa presente in Life is Strange esserci utile? Devo ammettere che dare una risposta a questa domanda può non sembrare facile. Tuttavia dopo averci giocato, e con questo mi accingo a introdurre il secondo elemento interessante, posso dire questo: “Life is Strange, con la sua storia e il suo gameplay insegna non solo il valore dell’empatia, ma anche ad essere empatici”. Nell’uso comune, l’empatia è l’attitudine a offrire la propria attenzione per un’altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. Uno dei primi Autori ad usare il termine empatia è stato  Carl Rogers che, tra l’altro, ha evidenziato come questa sia importante e necessaria nelle relazioni umane. Per lui l’Empatia è la capacità di mettersi  nei panni altrui soprattutto per quanto riguarda il sentire/percepire il vissuto emozionale dell’altro. Immedesimarsi nelle emozioni  (paura, amore, rabbia etc.) dell’altra persona senza giungere ad una completa identificazione, rimanendo adeguatamente presente a se stesso  e riuscendo a gestire – nel contempo – le reciproche sensazioni ed emozioni. L’empatia quindi facilita la comprensione della sfera emozionale dell’altro che viene accettato sotto ogni aspetto ed ogni sentimento (espresso e non espresso) poiché ha una funzione di completa apertura verso l’interlocutore, senza riserve, senza pregiudizi ed  allo scopo di ottenere un’evoluzione autentica nella relazione tra due persone. L’empatia può essere rappresentata, come una sorta di piramide costituita da tre livelli sovrapposti, corrispondenti a tre relazioni sempre più ricche e condivise con un numero sempre più ridotto di persone. Il primo livello è l’empatia di base. Segue poi l’empatia reciproca ed infine l’intersoggetività.

Empatia di base

L’empatia di base corrisponde a quella che generalmente si chiama identificazione, ovvero la possibilità di cambiare punto di vista su di una situazione senza perdersi. Questa qualità si distingue in una componente emotiva, ovvero la capacità di distinguere sé dall’altro – competenza che emerge presto nel bambino – ed una cognitiva, ovvero la capacità di assumere il punto di vista dell’altro – competenza che emerge intorno ai 4 anni e mezzo. Tale empatia riguarda quindi la possibilità di immaginarsi cosa si potrebbe provare a pensare al posto dell’altro. A tal fine non è indispensabile nemmeno che l’altro sia riconosciuto come un essere umano: ci si può benissimo identificare con un essere immaginario, come il protagonista di un romanzo o di un cartone animato.

D’altra parte è possibile identificarsi con qualcuno senza neppure vederlo o senza che l’altro se ne accorga. L’empatia così definita alimenta la reciprocità, supportando la solidarietà e il mutuo soccorso.

Empatia reciproca

Alla capacità di rappresentarsi il mondo dell’altro, in questo caso, si aggiunge il desiderio di un mutuo riconoscimento: non solo mi identifico con l’altro ma gli riconosco anche il diritto di identificarsi con me, ovvero di mettersi al mio posto e di avere così accesso alla mia realtà psichica, di comprendere quello che comprendo e di provare quello che provo.

Questa esperienza rimanda a quella dello specchio e implica un contatto diretto con la persona, oltre a tutti i gesti espressivi: mimica del volto, sorriso, incrocio degli sguardi, gesti espressivi.

Negare questa mediazione espressiva nega l’esistenza dell’empatia reciproca. Questo mutuo riconoscimento ha tre aspetti: riconoscere all’altro la possibilità di avere stima di sé come io ce l’ho di me stesso (componente narcisistica); riconoscergli la possibilità di amare e di essere amato (componente delle relazioni oggettuali); riconoscergli la qualità di soggetto del diritto (componente della relazione di gruppo)

Intersoggettività

A questo livello l’empatia consiste nel riconoscere all’altro la possibilità di chiarire aspetti di me stesso che ignoro. È il caso, ovviamente, di chi si rivolge a un terapeuta, ma fortunatamente è una situazione che si può ritrovare anche nell’amicizia e nei rapporti d’amore, dove cadono le barriere.
È quello che Tisseron (2001), psichiatra e psicoanalista francese, chiama “empatia estimizzante” ricollegandola al concetto di estimità, concetto sviluppato come contraltare dell’intimità, ovvero l’esporre ad un pubblico più o meno vasto frammenti di sé fino a quel momento protetti dagli sguardi estranei, cioè mantenuti intimi, per farne riconoscere il valore e ottenere così una validazione.
In questo caso non si tratta più di identificarsi nell’altro, né di riconoscere all’altro la capacità di identificarsi con me accettando di condividere con lui le mie paure, ma di scoprirmi, attraverso l’altro, diverso da come credevo di essere e di lasciarmi trasformare da questa scoperta. In questo momento le somiglianze contano più delle differenze ed i due percorsi di vita degli interlocutori sono un arricchimento per entrambi.

Come Life is Strange puo’ promuovere l’ empatia? Vi ricordate le parole di Raoul Barbet e Michel Koch? « …. Il potere di Max, e di conseguenza del giocatore, la costringe a ripensare il rapporto che ha con gli altri, la mette a confronto con le conseguenze delle sue azioni, moltiplica i suoi dubbi.». Nei momenti decisivi del gioco, le scelte vengono quindi accompagnate dai monologhi interiori di Max, sempre attenti a sottolineare come una scelta “giusta” possa recare con sé conseguenze impreviste e spiacevoli. Raffaello Frattini, con la sua recensione presente nel sito La Caduta, chiarisce ancora di più questo aspetto.

Kate Marsh, un’alunna della scuola timida ed introversa, viene sottoposta ad uno scherzo da confraternita americana di pessimo gusto e viene ripresa mentre, drogata a sua insaputa, si dimena in mezzo ad un mucchio di ragazzi baciandoli. Ovviamente questo filmato finisce online diffondendosi con la rapidità tipica della modernità sui social media e la povera Kate riceve ogni sorta di appellativo e nomignolo, oltretutto perdendo la stima da parte della sua famiglia, fin troppo WASP(White Anglo-Saxon Protestant) e credente. Lo stress e il rimorso dell’accaduto fanno sì che, durante l’episodio, Kate chieda spesso aiuto a Max, unica persona del campus che potrebbe confortarla. Sta a noi decidere se usare il nostro potere per aiutare Kate, oppure continuare a bighellonare con la ritrovata Chloe. A partire dalle nostre azioni, e da quello che abbiamo scoperto della sua vita e della sua psicologia, alla fine dell’episodio ci sarà data la possibilità di salvare Kate dal suicidio. Di fronte alla facciata allegra e colorata del mondo di Life Is Strange ci ritroviamo a salire sul tetto della scuola per fermare una ragazza pronta a porre fine alla sua vita a causa dell’onore perduto. Kate è una persona fragile, insicura e legata alle credenze ossessive dei genitori, e neanche il potere di riportare indietro il tempo ci permette di affrontare facilmente le sue debolezze. Avendo usato tutta la nostra “batteria” di capacità soprannaturale per raggiungerla sul tetto, il gioco ci sfida a comprendere il modo di ragionare di Kate per impedire che si uccida. Se siamo stati abbastanza accorti da notare cosa le è più caro, se abbiamo seguito con attenzione i suoi bisogni e notato che la nostra compagna di scuola ha in effetti ancora un’ancora per rimanere al mondo, allora abbiamo nelle nostri mani quello che serve per tenerla in vita senza dover tornare indietro nel tempo, scegliendo le giuste parole e non farla buttare. Solo seguendo i giusti dialoghi possiamo finalmente vederla scendere dal cornicione, piangente ma illesa, mentre tutta la scuola ci guarda sbalordita — altrimenti non potremo far altro che assistere impotenti al suo salto nel vuoto. ”

Life is strange

Fig 2: Particolare tratto dal terzo episodio di Life is Strange

Continua ancora Frattini: “In entrambi i casi, sia di salvataggio che di fallimento, l’impatto emotivo è sorprendente. Vi posso assicurare che erano anni che non provavo una sensazione del genere di fronte allo schermo di un videogioco. Usare le parole per smuovere la coscienza di Kate è stato molto più soddisfacente che affettare malvagissimi demoni, e dopo averle ricordato che altri (oltre a me) tengono a lei e non la giudicano per quello che ha fatto, vederla scendere e crollare in un pianto liberatorio mi ha causato un vero e proprio moto di commozione.

Life is strange e la contrapposizione all’analfabetismo emotivo

Life Is Strange diventa così un rilevante media comunicativo che cerca di contrapporsi all’analfabetismo emotivo. Le nuove generazioni di nativi digitali (IGenaration, generazione Z, ecc…) abituati come sono a postare contenuti sui social network immediatamente e senza riflettere sulle conseguenze, rischiano a lungo andare di diventare incapaci di riconoscere e controllare le proprie emozioni. Con l’espressione analfabetismo emotivo Goleman intende:
1) la mancanza di consapevolezza e di controllo delle emozioni e dei comportamenti a queste associate;
2) la mancanza di consapevolezza dei motivi per cui si prova una determinata emozione;
3) l’incapacità di relazionarsi con le emozioni dell’altro, in quanto non riconosciute e non comprese così come l’incomprensione dei comportamenti che le provocano.

Dal momento che la fisicità del corpo è sostituita con quella del medium, il soggetto si trova privato di un importante punto di riferimento nel processo di comprensione delle emozioni altrui. Questo aumenta l’analfabetismo emotivo che come sostiene Goleman, è la causa di alcuni dei problemi che caratterizzano i giovani, tra cui il bullismo, la tossicodipendenza e l’alcolismo. Il fatto che ad oggi la maggior parte delle relazioni risultino mediate più che dirette comporta una crescente difficoltà nel riconoscere le emozioni dell’altro e di conseguenza risulta più difficile comprendere anche le proprie.

Life is strange e la psicologia del tempo

C’è ancora un’ultima considerazione da fare a proposito di Life is Strange. Come già espresso nei paragrafi iniziali dell’articolo, in Life Is Strange “…Piccole cose, come la rimozione di una scritta da una lavagna o un semplice atto di gentilezza o negligenza plasmano il continuum spazio temporale, dando luogo a risultati spesso imprevedibili, o addirittura sospesi e indecifrabili nell’immediato”. E molti gamer, come già sottolineato dai creatori del gioco, hanno difatti portato a termine la loro partita assumendosi l’incombenza delle proprie scelte senza tornare per questo indietro. L’importanza di compiere scelte orientate al futuro, introduce un argomento (che forse molti di voi non conoscono) ideato dallo psicologo Phil Zimbardo noto come la psicologia del tempo.

Nel libro Il paradosso del tempo (scritto da Philip Zimbardo e John Boyd) lo psicologo di fama mondiale ci mostra quanto molte delle nostre cosiddette scelte, pensieri e nostri comportamenti, siano connessi-dipendenti dai nostri (in gran parte inconsapevoli) orientamenti temporali. Esistono almeno sei modi di avere un orientamento verso il tempo:
Orientamento al Passato Positivo: si tratta di persone focalizzate sugli aspetti positivi del passato (il focus è sui “bei vecchi tempi di una volta… the good old times”);
Orientamento al Passato Negativo: si tratta di persone focalizzate sugli aspetti negativi del passato (traumi, eventi spiacevoli di infanzia e adolescenza);
Orientamento al Presente Edonista: si tratta di persone focalizzate su aspetti di gratificazione immediata nel presente (ricerca del piacere immediato);
Orientamento al Presente Fatalista: si tratta di persone focalizzate sul fatalismo e sugli aspetti negativi del presente, sono persone che credono che il destino e forze esterne possano influenzare la nostra vita;
Orientamento al Futuro orientata agli obiettivi di vita: si tratta di persone che pensano molto al raggiungimento e alla pianificazione dei propri obiettivi;
Orientamento al Futuro Trascendentale: si tratta di persone che sono focalizzate sulla vita dopo la morte del corpo fisico.

Lo psicologo ha elaborato, in funzione di questi sei orientamenti temporali, uno strumento per misurare il rapporto che abbiamo con il tempo (ZTPI Zimbardo Time Perspective Inventory), un questionario validato internazionalmente attraverso oltre 15000 persone, che predice con ottima precisione il nostro orientamento temporale. Ogni profilo temporale può tuttavia cambiare nel tempo in base alla specifica tipologia e quantità di esperienze che facciamo. Esistono infatti persone focalizzate in una o più di queste dimensioni temporali e meno in altre (pensa a titolo d’esempio quanto coloro che hanno uno stile depressivo siano focalizzati sugli eventi del loro Passato-Negativo).

Avviandomi verso la conclusione dell’articolo, mi rendo conto di quante “sfaccettature” psicologiche questo videogioco presenti. In quanto psicologo e nativo digitale sono convinto che quanto descritto finora non sia tutto. Potrei ancora spiegarvi come Life Is Strange rientri a mio avviso nella categoria delle tecnologie positive, ma preferisco lasciare a voi questa ulteriore riflessione. Approfittando però di queste ultime battute ho deciso di rifarvi una domanda, che è poi lo stesso quesito posto a inizio contributo. Siete ancora convinti che i videogiochi facciano male?

Like a split screen: come funziona la mente delle persone con ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore?

Al di qua della narrativa sono esistite – e tuttora esistono – persone con ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore che hanno sfiorato il prodigioso potere mnemonico di Ireneo Funes. Uomini e donne capaci di memorizzare ogni singolo dettaglio della loro vita.

Elena Del Rio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Noi in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli, gli acini di una pergola.[…] Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. […] Mi disse: – ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo. […]  Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire perfettamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo

 

Al di qua della narrativa sono esistite – e tuttora esistono – persone che hanno sfiorato il prodigioso potere mnemonico di Ireneo Funes. Uomini e donne capaci di ricordare a memoria l’intera Divina Commedia, giocare contemporaneamente sette partite di scacchi o memorizzare la mappa stradale delle propria città all’età di soli cinque anni (Luria, 1987; Hunt e Love, 1983; Maguire, 2003).

Ora cosa succederebbe se queste abilità straordinarie fossero applicate alla memorizzazione sistematica delle esperienze della propria vita, come se la creatura fantastica di Borges avesse un corrispettivo nel mondo reale?

Oltre la narrativa: la ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore

Un’evenienza rarissima, ma documentata, avvicina il mondo reale al fantastico, è una condizione che prende il nome di ipertimesia o Memoria Autobiografica Superiore (HSAM). Chi ne è affetto è in grado ricordare le informazioni della propria esperienza, anche lontane e banali, con un eccezionale livello di precisione.

Ad oggi sono state documentate solo poche decine di casi (LePort et al., 2012) con specifiche conseguenze cognitive. L’ ipertimesia di questi individui permette loro di raccontare con accuratezza cosa gli è accaduto in qualsiasi giorno della loro esistenza anche dieci o vent’anni prima rispetto al tempo presente – potreste chiedergli il resoconto di una data precisa e ricevere una risposta dettagliata. D’altro canto l’ ipertimesico dedica moltissimo tempo alla rievocazione del proprio passato ed è soggetto a continui flashback.

Ad una persona affetta da Memoria Autobiografica Superiore è stato chiesto che cos’era accaduto il 19 Ottobre 1987 la risposta immediata è stata: “era un lunedì. Quello fu il giorno del crollo della borsa e il violoncellista Jacqueline du Pré è morto quel giorno“.

Un altro effetto specifico della condizione dell’ ipertimesia è la mancanza di controllo della capacità di ricordare, ad ogni indice della memoria, quale può diventare la citazione di una data, s’innesca nella mente del soggetto la sequenza di eventi attinta dal ricordo e parallela alle immagini della realtà circostante. “E’ come se guardassi uno schermo diviso in due: parlo con qualcuno e intanto vede qualcos’altro” ha testimoniato un paziente.

L’ ipertimesia da un punto di vista neuropsicologico

A livello neuropsicologico l’ ipertimesia è stata definita per la prima volta in un articolo della rivista Neurocase nel 2006 (Parker et al., 2006). Nell’articolo viene descritta AJ, una donna il cui ricordo domina la sua vita. La sua memoria è “incontrollabile, automatica e totalmente estenuante“, dedica la maggior parte del proprio tempo alla rievocazione del passato di cui rivive gli eventi recuperandone dettagli e sfumature.

 My memory has ruled my life…It is like my sixth sense…There is no effort to it…I want to know why I remember everything. I think about the past all the time…It’s like a running movie that never stops. It’s like a split screen. I’ll be talking to someone and seeing something else…

AJ riesce a ricordare tutto senza utilizzare tecniche mnemoniche, come ripetono i ricercatori, la sua memoria non è strategica ma automatica (Parker, Cahill  McGaugh, 2006). La sua capacità è iniziata all’età di 8 anni, quando assieme alla famiglia si è trasferita in una nuova città. Dai 10 fino ai 34 anni, AJ ha tenuto un diario giornaliero appuntandosi ogni singolo evento. E’ diventata consapevole di questo suo potenziale a partire dai 12 anni. In seguito, ha dichiarato: “A partire dal 5 febbraio 1980, mi ricordo tutto. Ed era un martedì” (Shafy, 2008).

Uno degli aspetti più interessanti è che il ricordo di un evento conserva la stessa vividezza e carica emotiva dell’originale. AJ è stata sottoposta a diverse indagini neuropsicologiche, dimostrando prestazioni eccezionali nello svolgimento di compiti riguardanti la memoria autobiografica e il riconoscimento visivo, nonostante un QI nella media, e scarse prestazioni alle prove di memoria standard (memoria a lungo termine e breve termine). Allo stesso tempo sono stati rilevati deficit nei compiti che coinvolgono le funzioni esecutive quali capacità di astrazione, organizzazione e controllo mentale.

Dopo la pubblicazione sulla rivista Neurocase, vi è stato un crescente interesse, soprattutto mediatico, nella ricerca di persone dotate di super-memoria.

Il secondo caso di ipertimesia è stato descritto nell’articolo di Ally e colleghi nel 2012. Nel racconto di HK, un ragazzo di 20 anni, si manifestano molte similitudini con la storia di AJ. HK può ripercorrere con grande precisione eventi della sua vita a partire dai tre anni di età, e diventa consapevole della propria Memoria Autobiografica Superiore a 14 anni.

A partire dai correlati neuroanatomici di HK, l’intento dello studio è stato quello di chiarire le origini anatomiche e funzionali della memoria autobiografica (AM).

I primi studi hanno suggerito che l’amigdala gioca un ruolo fondamentale nell’elaborazione emozionale dei ricordi, contribuendo probabilmente a codificare stimoli carichi emotivamente. In letteratura sono presenti diverse ricerche che mostrano l’importanza dell’amigdala durante la fase di codifica di Memoria Autobiografica (Greenberg et al., 2005; Spreng & Mar, 2010), e che questa predica l’intensità soggettiva della memoria episodica (Kensington et al., 2011; Phelps & Sharcot, 2008). L’ipotesi teorica alla base di molti di questi studi sottolinea come l’aspetto soggettivo del ricordo sia legato al rivivere l’esperienza emotiva dello stesso evento (Rubin & Berntsen, 2003; Welzer & Markowitsch, 2005).

I dati di neuroimaging su HK rivelano che la porzione destra dell’amigdala è di dimensioni leggermente più grandi rispetto ai soggetti di controllo dello studio, e che vi è un aumento significativo della connettività tra la porzione destra dell’amigdala e l’ippocampo, come pure tra regioni corticali e subcorticali. Si presuppone che l’amigdala, in particolare l’amigdala destra, svolga un ruolo cruciale in fase di recupero e codifica di Memorie Autobiografiche (Markowitsch & Staniloiu, 2011).

In una super-memoria, come quella di chi mostra ipertimesia, questo sistema è iperattivato permettendo che le diverse informazioni autobiografiche e il loro connotato emotivo, si trasformino e si consolidano meglio.

Studi successivi come quello di LePort et al. (2012), hanno mostrato che i partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore (11 casi reclutati) non hanno solo una ricca memoria autobiografica, ma questa straordinaria memoria si estende anche a fatti ed eventi pubblici.

Si è constato però come la memoria di un evento pubblico venga ricordata solo se ha una valenza personale, le informazioni vengono conservate se sono correlate a specifiche esperienze della propria vita. I risultati relativi a studi di neuroimmagine, hanno mostrato 9 regioni cerebrali coinvolte che differivano tra i due gruppi.

L’ ipertimesia pare associata a differenze nella struttura cerebrale rispetto al gruppo di controllo. I pazienti affetti da questa condizione hanno un volume maggiore di sostanza grigia nelle aree cerebrali correlate alla memoria autobiografica, e una maggiore connettività tra queste aree e la corteccia frontale. Le analisi hanno inoltre rilevato differenze strutturali nei soggetti con Memoria Autobiografica Superiore in alcune regioni del giro temporale inferiore e medio, lobo temporale, insula anteriore, e giro paraippocampale. Queste regioni sono state identificate, attraverso una metanalisi completa (Svoboda, McKinnon, & Levine, 2006) e da numerosi studi di neuroimaging (Fink et al., 1996; Steinvorth, Corkin, & Halgren, 2006; Andreasen et al. 1995; Gilboa, 2004; Levine et al., 2004; Maguire, 2001; Markowitsch, 1995) come il network di memoria autobiografica.

Ipertimesia: relazione con altri disturbi

Il lobo temporale e il nucleo caudato sembrano avere dimensioni maggiori nei soggetti con ipertimesia rispetto ai soggetti di controllo. Inoltre sappiamo che l’ippocampo, situato appunto nel lobo temporale, è coinvolto nella memoria episodica, mentre la corteccia temporale è coinvolta nell’immagazzinamento dei ricordi. Il nucleo caudato è invece associato con la memoria procedurale e intrinsecamente collegato al disturbo ossessivo-compulsivo. È stato ipotizzato che un deficit del circuito frontostriatale possa essere causa delle alterazioni delle funzioni esecutive osservate negli ipertimesici. I deficit nel funzionamento esecutivo e le anomalie strutturali si trovano entrambi in disturbi premorbosi dello sviluppo neurologico, che comprendono l’autismo, il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD), deficit di attenzione e iperattività, sindrome di Tourette e schizofrenia (Bradshaw e Sheppard, 2000).

Chi mostra ipertimesia non sono però “calendar calculators”, come alcune persone affette da autismo. Nessuno dei partecipanti, nei diversi studi, possiede la capacità di identificare prontamente, se gli viene detta una determinata data, il giorno esatto della settimana. Quest’ultime sono capacità da abili calcolatori tipiche nei soggetti autistici che risultano estremamente interessati nell’uso e nella memorizzazione di calendari (Howe & Smith, 1988).

Come nel primo caso documentato in letteratura, ma anche in altri partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore, questi soggetti tendono a mostrare comportamenti ripetiti e ossessivi (LePort e colleghi, 2012). Tuttavia rimane ancora poco chiaro come e se, questa tendenza contribuisca alla loro memoria autobiografica.

I partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore in genere non ritengono i loro ricordi come eccessivamente persistenti e/o indesiderati, ritengono questa loro abilità una qualità positiva.

Esistono, tuttavia, alcune indicazioni che la loro capacità di memoria autobiografica e tendenze ossessive possano essere in una certa misura collegate. Nove degli undici partecipanti con Memoria Autobiografica Superiore hanno riferito di organizzare i loro ricordi in una sorta di calendario mentale, in ordine cronologico oppure categorizzando gli eventi (ad esempio, quante volte sono entrato in quel ristorante e in quali occasioni; oppure elencando per ogni anno, ogni mese, ogni giorno cosa è successo).

Essi hanno inoltre una tendenza apparentemente compulsiva, nel ricordare ogni evento. Un partecipante ha riferito che ogni sera prima di addormentarsi rievoca ciò che era successo quello stesso giorno, ma molti anni prima. Un altro si sveglia ogni mattina e “scansiona” la sua mente pensando a quali ricorrenze o compleanni capitano in quel giorno. Tre partecipanti hanno riferito che documentano attraverso la scrittura, quanti più ricordi riescono a rievocare. Uno ha affermato di essere “ossessionato nello scrivere le cose” come un mezzo per far riaffiorare ricordi/pensieri nella sua mente, un altro afferma che la scrittura permette di “elaborare meglio i ricordi”. Molti degli ipertimesici collezionano oggetti minuziosamente catalogati come riviste, video, scarpe, francobolli o cartoline.

L’ ipertimesia è quindi un dono o una maledizione?

Non c’è privilegio così grande senza una controparte altrettanto pericolosa. Ricordare tutto significa anche rimanere intrappolati nel proprio passato tramite un “effetto a cascata” dove giorni, date, immagini, dialoghi del presente richiamano un evento del passato che a sua volta innesca un altro ricordo in un gioco di rifrazioni alienante. Le persone con ipertimesia non sono in grado di controllare né interrompere il flusso di memorie che si sovrappone alla loro esperienza quotidiana.

Per soggetti con Memoria Autobiografica Superiore, la rivisitazione del passato può essere molto dolorosa: evitano di ripensare alle esperienze peggiori della propria vita, ma per il loro straordinario “dono” le immagini e le sensazioni rievocate sono talmente vivide come se fossero rivissute per la seconda volta.

Happy memories hold my head together … I treasure these memories, good and bad…I can’t let go of things because of my memory, it’s part of me … When I think of these things it is kind of soothing … I knew a long time ago I had an exceptional memory … but it’s a burden

La diabulimia: quando la disregolazione del comportamento alimentare si associa al diabete

La diabulimia (etichettata anche con l’acronimo ED-DM1) è un disturbo del comportamento alimentare in cui adolescenti e giovani adulti, per lo più di sesso femminile, con diabete mellito di tipo 1, omettono deliberatamente la dose di insulina con lo scopo di perdere peso o per prevenire l’aumento di peso. A questo comportamento di “purging”, si associano episodi di binge eating e alimentazione sregolata (Jaffa et al., 2006).

 

Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, giunto alla 5 edizione (DSM-5, APA 2013) delinea i criteri diagnostici per i disturbi del comportamento alimentare (DCA) noti come anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating e disturbi della nutrizione e alimentazione senza specificazione. Sebbene questi disturbi siano differenti tra loro nella sintomatologia, essi condividono caratteristiche simili che includono tratti psicopatologici, ossessione per le forme corporee e il peso, distorsioni cognitive, tra cui l’alterazione dell’immagine corporea. I soggetti diagnosticati con un disturbo alimentare possono presentare concomitanti disturbi depressivi o disturbi d’ansia, e solitamente manifestano difficoltà di regolazione emotiva e difficoltà relazionali (Murphy et al, 2010).

Che cos’è la diabulimia?

La diabulimia (etichettata anche con l’acronimo ED-DM1) è un disturbo del comportamento alimentare in cui adolescenti e giovani adulti, per lo più di sesso femminile, con diabete mellito di tipo 1, omettono deliberatamente la dose di insulina con lo scopo di perdere peso o per prevenire l’aumento di peso. A questo comportamento di “purging”, si associano episodi di binge eating e alimentazione sregolata (Jaffa et al., 2006). Tale condizione non è stata ancora riconosciuta come entità diagnostica, e al momento sembra poter ricadere tra i disturbi della nutrizione e alimentazione senza specificazione.

Attraverso la manipolazione di insulina (che comprende sia la riduzione, che l’assunzione ritardata, che la completa omissione del dosaggio) i soggetti possono indurre iperglicemia e perdere rapidamente calorie, attraverso le urine, in forma di glucosio. Dal momento che la perdita di liquidi si associa a perdita di peso, e che essa viene erroneamente interpretata come perdita di grasso e dimagrimento, questo comportamento di “purging” viene agito con lo scopo di tenere sotto controllo il peso corporeo (Colton et al., 2009).
Alcuni ulteriori segni per riconoscere la diabulimia sembrano essere: rapida perdita di peso, alimentazione sregolata, ossessione per la forma corporea e il peso, odore chetonico del respiro e delle urine, letargia, inspiegabile iperglicemia e minzione frequente. Il ruolo della manipolazione dell’insulina nella gestione del peso è di particolare importanza per via delle conseguenze a breve e lungo termine (Callum et al., 2004)

Fattori di rischio della diabulimia

Studi prospettici longitudinali sulla popolazione generale hanno identificato un consistente numero di fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari. Essi includono: essere di sesso femminile, restrizione alimentare e diete, aumento di peso e sovrappeso, fascia di età puberale, scarsa autostima, difficoltà nel funzionamento familiare, atteggiamenti alimentari disturbati nei familiari, influenza dei pari e della cultura, e una gamma di tratti di personalità (Leon et al., 1993). Sono state inoltre accumulate varie prove a sostegno del fatto che vivere con il diabete di tipo 1 sia un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti alimentari disfunzionali (Nielsen S., 2002).

I disturbi alimentari sembrano più comuni nei gruppi di giovani donne diabetiche piuttosto che nei maschi diabetici. Gli adolescenti maschi con diabete hanno valori di BMI sostanzialmente più alti ed un elevato desiderio di magrezza, comparati con pari non diabetici, tuttavia i disturbi alimentari in questo gruppo sono molto rari. Le ricerche suggeriscono che il diabete di tipo 1 aumenti il rischio di disregolazioni alimentari in maschi e femmine, ma che ulteriori fattori di rischio sono presenti nelle femmine con diabete, le quali finiscono per superare la soglia dei DCA. Questi probabilmente includono fattori individuali, familiari e socio culturali.

Il predittore longitudinale più consistente dell’emergenza di disturbi alimentari è la restrizione alimentare e il ricorso a diete; entrambi tendono a persistere e peggiorare nel corso del tempo. Queste scoperte suggeriscono che lo stare a dieta potrebbe essere visto o come un fattore di rischio per l’avvio di DCA o il primo stadio della sua manifestazione clinica. Sebbene la maggior parte di soggetti che seguono una dieta non sviluppino disturbi alimentari, lo stare a dieta è un primo passo universale per coloro che sviluppano in seguito un conclamato disturbo alimentare.

La gestione del diabete presenta pertanto un implicito fattore di rischio, legato alla focalizzazione sulle assunzioni di cibo e alle limitazioni alimentari. Questo potrebbe innescare una disregolazione alimentare con episodi di iperalimentazione e binge eating. I soggetti vulnerabili possono quindi intensificare gli sforzi di controllare l’assunzione di cibo e il peso, e finire intrappolati nel circolo di diete, abbuffate e comportamenti compensatori di controllo del peso (Colton et al., 2009).

Sebbene recenti innovazioni nella gestione del diabete consentano a molti soggetti di adottare un piano alimentare più flessibile, il conteggio dei carboidrati resta ancora una pratica sottostante la pianificazione del pasto del diabetico e nella titolazione della dose di insulina. I soggetti diabetici, particolarmente quelli con diabete di tipo2, ricevono spesso le raccomandazioni mediche di ridurre il loro peso e limitare l’assunzione di colesterolo e carboidrati. La pianificazione dei pasti dei diabetici è più flessibile di quella di molte diete dimagranti, ma aumenta il focus sul cibo e le calorie, suggerendo la limitazione di alcune tipologie di alimenti, e questo può essere vissuto come una restrizione. (Colton et al. 2009).

Trattamento della diabulimia

La strategia di elezione nei disturbi alimentari è la terapia cognitivo comportamentale (CBT) attraverso l’automonitoraggio (Anderson et al., 2001). Questa linea di trattamento, sviluppata da Fairburn e colleghi (Clark & Fairburn, 1996), ha un tasso di successo del 40-50% nel produrre cambiamenti a lungo termine in pazienti con comportamento alimentare problematico. I farmaci antidepressivi, la psicoterapia interpersonale o altri programmi CBT vengono usati come interventi secondari quando la sola CBT fallisce.

La gestione medica della diabulimia prevede un approccio multidisciplinare che include un professionista della nutrizione (dietista/nutrizionista), un team medico (endocrinologo/diabetologo, gastroenterologo, psichiatra), e uno psicoterapeuta.

Durante le sessioni individuali di CBT, il paziente apprende nuovi modi di pensare al proprio corpo, all’immagine corporea e al peso, così come nuovi modi di affrontare lo stress psicologico e sociale che porta al comportamento diabulimico.
Oltre alla psicoterapia cognitivo comportamentale, alcune tecniche di psicoeducazione e supporto sembrano produrre benefici nel trattamento di questi pazienti: come il colloquio motivazionale e la mindful eating (Kristeller et al., 2006)

Implicazioni per la pratica

E’ importante potenziare e migliorare l’identificazione precoce e l’intervento su questi comportamenti nella pratica clinica, considerando specialmente il periodo della pre-adolescenza. Una relazione di fiducia, non giudicante e efficace tra soggetto e medico è fondamentale. Il medico dovrebbe ridurre il rischio di disturbi alimentari attraverso l’educazione sulla malattia diabetica, le conseguenze dei disturbi alimentari e l’importanza dell’adesione al trattamento, e saper promuovere comportamenti di auto-aiuto, come attività fisica e sana alimentazione (Callum et al., 2014).

Manchester by the sea (2016) – Cinema & Psicoterapia

Manchester by the sea, un film di Kenneth Lonergan. Con Casey Affleck, Michelle Williams, Kyle Chandler, Lucas Hedges, C.J. Wilson – Drammatico, Stati Uniti –  2016

 

Manchester by the sea – Trama:

Lee Chandler è un uomo solitario e introverso che vive a Boston. Un giorno riceve la notizia che suo fratello maggiore Joe è ricoverato in ospedale a causa di un attacco cardiaco. Lee si trova pertanto a dover ritornare nella sua città natale: Manchester by the sea. Una volta giunto all’ospedale, scopre che il fratello è morto: a quel punto decide di trattenersi nella cittadina per informare dell’accaduto suo nipote Patrick – figlio del defunto – e per organizzare il funerale.

Durante il periodo di permanenza, Lee cerca di stare accanto al nipote del quale peraltro scopre di essere stato nominato tutore, conformemente alle disposizioni testamentarie di Joe: l’uomo appare molto riluttante ad accettare questo ruolo, ma nello stesso tempo vorrebbe impedire una riconciliazione di Patrick con la madre, un’ex alcolista che già da tempo si è allontanata dal marito defunto e dal figlio. Mentre cerca di capire che cosa fare con il nipote, Lee rientra in contatto con l’ex moglie Randi e con la vecchia comunità da cui era fuggito: e un tragico passato riaffiorerà alla sua mente.

Motivi di interesse:

Il film Manchester by the sea si muove elegantemente e in modo equilibrato tra presente e passato. E’ più quel che non si dice, di quel che si esplicita in questa pellicola. E’ più quello che arriva direttamente allo spettatore, che non quello che viene descritto.

La musica, la fotografia e l’ambientazione accompagnano e scandiscono i ritmi dell’emotività del protagonista: un’emotività lenta, felpata, cupa, coartata, che a tratti esplode in aggressività improvvisa.

I silenzi e lo sguardo assente di Lee tradiscono fin dal primo momento l’ombra di un passato travagliato e doloroso che a mano a mano viene svelato e sussurrato all’orecchio dello spettatore e che risulta totalmente inaspettato, tanto è intensa la portata del dramma.

Nell’arco di mezz’ora, la vita di Lee è stata completamente sconvolta. Una serata goliardica con gli amici si è tramutata in una tragedia tale da rendere evidente la ragione per cui fin dalla prima scena il protagonista appaia come un “morto che cammina”: non esiste nessuna luce nel suo sguardo; egli ha preso distanza da se stesso – completamente annientato da un’indifferenza autodistruttiva – perché non può tollerare una sofferenza così grande.

Il film Manchester by the sea però ci conferma che il dolore si può nascondere, non cancellare; il dolore non si piega: rimane sotto e lavora alacremente.

E il protagonista questo lo dimostra attraverso le manifestazioni di rabbia improvvisa, apparentemente immotivate e indirizzate a bersagli sbagliati, che lo dirigono a una distanza da se stesso sempre più invalicabile e insormontabile.

La maestria del regista è da ricondurre a uno sguardo essenziale e realistico, privo di retorica e sentimentalismo, che rende questo film drammatico, ma non melodrammatico. Non compaiono momenti corali a effetto né lacrime strazianti in Manchester by the sea, non si realizzano lunghi discorsi né vengono letti toccanti elogi funebri.

La scena in cui Lee saluta per l’ultima volta all’obitorio suo fratello è carica di tenerezza: una tenerezza non ostentata, talmente sobria da poter ingannevolmente apparire asciutta.

E’ un dolore dignitoso e silenzioso quello che attraversa l’intero film: da cui è impensabile non rimanere colpiti, a cui è impossibile non partecipare.

Forse lo spettatore potrà rischiare di rimanere con l’amaro in bocca, desideroso di  parole e avvenimenti, voglioso di assistere a una catarsi emotiva o a una svolta esperienziale.

In effetti la sterzata arriverà solo quando il protagonista riuscirà “semplicemente” a guardarsi allo specchio e ad ammettere la sua estrema fatica. Dopo un drammatico incontro con l’ex moglie Randi, confrontandosi con il nipote – che gli sta ponendo incalzanti quesiti sulla sua sorte futura – rivela : “non ce la faccio a rimanere qui”. Poi va ad abbracciare il giovane, come se entrasse realmente per la prima volta in relazione con lui.

La grandezza di Manchester by the sea risiede nella sua totale onestà, rappresentata in gran parte dall’umanità e dalla drammatica credibilità del protagonista. Lee magari non ce la farà a rielaborare il suo passato, non riuscirà a tornare totalmente a sorridere, però arriverà ad accogliere la sua disperazione e la sua fragilità e a superare l’empasse di un passato totalmente schiacciante, per provare a stare finalmente nel presente. La vita tornerà nei suoi occhi attraverso la consapevolezza di una grande, immane tristezza, che gli restituirà una vera autenticità.

Indicazioni di utilizzo:

Manchester by the sea ci descrive in modo realistico quanto non affrontare un dolore possa portare a conseguenze drammatiche tali da causare un allontanamento profondo da se stessi e una disconnessione dal presente e contemporaneamente ci dimostra che accogliere la propria sofferenza e le proprie emozioni sia l’unico modo per  prenderne consapevolezza e poterle fronteggiare.

La relazione terapeutica e il ruolo del terapeuta in psicoterapia psicodinamica e in psicoterapia cognitivo comportamentale

Molte ricerche scientifiche in campo psicoterapico, che si sono interrogate su quali siano gli elementi decisivi per un buon outcome in terapia, hanno sottolineato il peso determinante della relazione terapeutica nonché dell’alleanza terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente.

Mara Di Paolo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Da quando Freud, fine ‘800 primi del ‘900, descrisse l’analista, nel setting analitico, come schermo opaco, neutrale e “anonimo” è trascorso molto tempo, e la stessa teorizzazione della psicoanalisi ha visto un’evoluzione tale da quasi rovesciare il paradigma : l’approccio della cosiddetta “psicoanalisi relazionale”, soprattutto americana (Mitchell, Hoffman, Ogden, Yalom), postula non solo come ovvio e naturale il coinvolgimento emozionale del terapeuta, ma sopratutto lo considera elemento da utilizzare nel processo di cura.

Attualmente in ambito psicoterapico esistono molti orientamenti : psicodinamico, cognitivo-comportamentale, rogersiano, gestaltista, etc, ma tutti chi più, chi meno, si sono interrogati e si interrogano sul ruolo del terapeuta nella relazione terapeutica. La stessa scoperta dei neuroni specchio in campo delle neuroscienze ha fornito un ulteriore spunto di riflessione sull’argomento.

La relazione terapeutica nella psicoterapia psicodinamica

La psicoanalisi relazionale fin dai suoi albori ha assunto l’opinione secondo la quale il lavoro clinico migliora quando si abbandona la velleità della neutralità dell’analista (Loiacono, 2002).

Nel corso degli ultimi anni nel linguaggio psicoanalitico accanto al concetto di self revelation si è affacciato anche il termine di self disclousure. La self revelation da sempre presente nel contesto analitico è quell’atto passivo e inevitabile che riguarda tutte le informazioni che il terapeuta con la sua presenza dà di se stesso al paziente e che riguardano il suo stile, il suo arredamento, le sue inflessioni linguistiche, i suoi interessi etc. La self revelation è quindi un tipo di disvelamento del terapeuta non consapevole e che permette al paziente di conoscere aspetti reali della persona analista. Mentre la self disclousure è un’azione vera e propria e riguarda tutto ciò che l’analista decide deliberatamente di mostrare di sè al paziente (Levensen). Molti autori usano spesso i termini di self disclosure e disclousure in modo intercambiabile, mentre altri preferiscono distinguere la disclousure della soggettività dell’analista (S.Cooper), dalla disclousure controtransferale (C.Bollas, D.Ehrenberg, I. Greenberg, etc).

Il concetto di self disclousure deve essere inscritto nel contesto dello sviluppo della psicoanalisi nord americana, con lo sviluppo della Psicologia del Sè di Khout e degli analisti appartenenti alle correnti di pensiero, conosciute come intersoggettivisti e interpersonalisti. Nel contesto europeo invece il pensiero Freudiano si è ampliato ai paradigmi della scuola britannica e a sua volta ha influenzato alcuni analisti americani.

Secondo gli analisti intersoggettivisti americani è impossibile per il terapeuta mantenere “l’anonimato” , ma anzi proprio perché l’analista è coinvolto in un rapporto terapeutico, non può non rapportarsi con e attraverso la sua soggettività, considerando che anche nella condizione più neutrale egli porta sempre qualcosa di sé attraverso la self rivelation. Tuttavia non tutti gli analisti sono a favore della self disclousure schierandosi nettamente contro e difendendo il setting tradizionale (Hanley, 1998); questi analisti temono che attraverso la self disclousure si possa inficiare la terapia psicoanalitica, in quanto potrebbe compromettere le dinamiche proiettive transferali del paziente. Nonostante i sostenitori a favore della forza della self disclousure, in terapia psicodinamica e in psicoanalisi, permane comunque l’assunto che la relazione terapeutica, che si viene a creare tra terapeuta e paziente è asimmetrica, con un terapeuta che gestisce un potere più ampio del proprio paziente, che per la sua stessa condizione di sofferenza è in una posizione di subordine.

La relazione terapeutica nella psicoterapia cognitivo comportamentale

Nell’ambito cognitivo-comportamentale il discorso è sempre stato diverso fin dall’inizio. Albert Ellis, psicologo clinico formatosi come psicoanalista presso il Karen Horney Institute di New York alla fine degli anni 40 del ‘900, fondatore della terapia cognitiva, si scontrò con i limiti reali di alcune prescrizioni pratiche della psicoanalisi dell’epoca, modificando il fulcro dell’azione terapeutica. Se Freud metteva al centro dell’azione terapeutica i contenuti inconsci, Ellis considerava l’importanza di concentrarsi sui contenuti coscienti.

Per Ellis la persona soffre per come pensa coscientemente i suoi attuali problemi, dunque sono questi pensieri coscienti, che vanno accertati, criticati, disputati e ripensati. Per Ellis il terapeuta non può essere neutrale, attendista e distaccato, bensì deve essere attivo e persuasivo e la seduta non è più teatro della riproposizione della tragedia edipica, ma del dialogo socratico (Ruggiero, Sassaroli, 2013;2015).

La relazione terapeutica, per i fondatori della terapia cognitiva Ellis e Beck (anch’egli formatosi inizialmente come psicoanalista) e per tutti i loro seguaci passati e presenti, è sempre stata di collaborazione paritaria e pragmatica tra terapeuta e paziente. Beck e i suoi colleghi (Beck,Rush, et.al 1979; Beck ed Emery, 1985; Beck e Young 1985) con il termine di “empirismo collaborativo” intendevano la necessità per i terapeuti di sviluppare relazioni di collaborazione con i pazienti al fine di aiutarli a scoprire le percezioni, che non trovano un riscontro concreto nella realtà. Secondo Beck e J. E. Young (1985) per riuscire a sviluppare una buona collaborazione terapeutica, il terapeuta dovrebbe essere ricco di calore umano, empatico, aperto e sollecito e non impersonare il ruolo dell’esperto assoluto. Liotti ad esempio crede nel fatto che il terapeuta non debba essere quello schermo privo di caratteristiche su cui il paziente possa proiettare i propri schemi transferali, ma al contrario il terapeuta possa far uso consapevole della propria diversità avendo un modello epistemologico e dell’uomo, che permetta di farlo.

La relazione terapeutica può essere plasmata, in accordo con le disposizioni, le tendenze e le caratteristiche che un terapeuta riconosce in sé, terapeuta che, così edotto ed educato durante la sua formazione, può fare uso delle proprie risorse personali del tutto legittimate all’interno di un’ epistemologia che lo permette” (Liotti) . La teoria dei sistemi motivazionali (Gilbert 1989; Liotti 1994/2005; Liotti, Monticelli, 2009) , enfatizza in terapia il ruolo determinate e necessario del sistema di cooperazione paritetica, cioè quel sistema di regolazione del comportamento sociale a base innata, che si attiva tra i membri dello stesso gruppo nel momento in cui un obiettivo possa essere raggiunto più facilmente considerandosi reciprocamente pari e tramite uno sforzo congiunto.

Spesso i terapeuti cognitivo comportamentali sono stati tacciati ingiustamente dai colleghi di orientamenti diversi, di essere più che dei terapeuti in carne ed ossa, dei meri tecnici, che di tecniche ne han fatto virtù. In realtà cognitivisti del calibro di Bara e Liotti si sono spesso confrontati sul valore e ruolo delle tecniche di terapia cognitivo-comportamentale nella relazione terapeutica; entrambi condividendo, seppur con delle visioni diverse per certi aspetti, l’assunto che non esistono le tecniche fuori dalla relazione terapeutica. Bara crede fermamente nel fatto che se il terapeuta non riesce per prima cosa ad instaurare un binario relazionale con il proprio paziente, nulla passerà ed alcuna tecnica funzionerà. La relazione per Bara consiste in una condivisione come stato mentale ed è legata al costruire insieme dei significati; nell’interazione psicoterapica terapeuta e paziente si devono accordare sul senso da attribuire all’interazione terapeutica stessa. Il terapeuta costruisce insieme al paziente ciò che percepisce e ciò che sta accadendo nell’hic et nunc della seduta. Per Bara solo nel momento in cui terapeuta e paziente hanno costruito qualcosa insieme e si sono accordati sul senso di quell’intervento particolare, allora solo a quel punto tutte le tecniche diventano utilizzabili.

 

 

Dormire poco fa male al cervello e si rischia l’Alzheimer

I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

 

Cosa avviene nel cervello quando si dorme poco

La ragione per cui noi dormiamo va oltre la semplice reintegrazione dei livelli di energia ogni 12 ore – il nostro cervello cambia il proprio stato quando dormiamo per ripulire le sostanze tossiche sottoprodotte dall’attività neurale rilasciate durante il giorno. Alquanto stranamente, lo stesso processo avviene nei cervelli privati cronicamente del sonno – eccetto quando esso va in iperattività. I ricercatori hanno trovato che un sonno persistentemente povero induce il cervello a pulire una serie significativa di neuroni e di connessioni sinaptiche e recuperare il sonno potrebbe non essere sufficiente a riparare il danno.

Un team di ricerca italiano, guidato dal neuroscienziato Michele Bellesi, dell’Università Politecnica delle Marche, hanno esaminato la risposta del cervello di mammiferi abituati a dormire poco e hanno riscontrato una bizzarra similitudine tra quelli ben riposati e i topi privati del sonno.

Come le cellule nel nostro corpo, i neuroni nel cervello sono continuamente ripuliti da due differenti tipi di cellule gliali – cellule di supporto che sono spesso chiamate la colla del sistema nervoso. Le cellule microgliali sono responsabili della pulizia delle cellule morte attraverso un processo chiamato fagocitosi – dal greco “divorare”. Gli astrociti hanno il compito di rimodulare le connessioni sinaptiche inutili nel cervello e di ripulire e riformare le loro connessioni. Questo processo si verifica quando noi dormiamo per rigenerare l’usura e la “rottura” neurologica del giorno, ma adesso è evidente che la stessa cosa avviene quando perdiamo sonno.

Ma piuttosto che essere una cosa positiva, il cervello va in iperattività con la pulizia e inizia ad auto-danneggiarsi.

Pensiamo a ciò come alla spazzatura che viene ripulita mentre tu dormi, e al contrario qualcuno entra in casa tua dopo notti senza dormire e indiscriminatamente butta via il televisore, il tuo frigo e il tuo cane.

Mostriamo per la prima volta che le porzioni di sinapsi sono letteralmente divorate dagli astrociti perché dormiamo poco” – Bellesi ha detto a Andy Coghlan al New Scientist.

Per dimostrare ciò i ricercatori hanno studiato il cervello di topi assegnati a 4 gruppi:
– Un gruppo veniva lasciato dormire dalle 6 alle 8 ore (ben riposati);
– Un altro periodicamente si svegliava dal sonno (risveglio sporadico);
– Un terzo gruppo era tenuto sveglio per altre 8 ore (deprivati del sonno);
– Il gruppo finale era tenuto sveglio per 5 giorni consecutivi (deprivati cronicamente del sonno).

Quando i ricercatori hanno comparato l’attività degli astrociti tra i 4 gruppi, l’hanno identificata in 5.7% delle sinapsi nelle menti dei tipi ben riposati, e in 7.3 nelle menti dei topi svegliati spontaneamente.

Nei topi deprivati e cronicamente deprivati del sonno, hanno notato qualcosa di differente: gli astrociti avevano incrementato la loro attività mangiando parti delle sinapsi come le cellule microgliali mangiano i rifiuti – un processo conosciuto come fagocitosi astrocitica.

Nei cervelli dei topi deprivati dal sonno, gli astrociti sono stati trovati attivi intorno all’ 8.4% delle sinapsi, e in quelli privati cronicamente del sonno, un enorme 13.5 % delle loro sinapsi mostrava attività astrocita.

La deprivazione di sonno genera la fagocitosi astrocitica

Come Bellesi disse al New Scientist, molte delle sinapsi divorate nei 2 gruppi di topi deprivati del sonno erano per la maggior parte quelle più vecchie e più usurate (connessioni logore) – “come vecchi pezzi di una fornitura” – cosa che è probabilmente positiva.

Ma quando il team ha controllato l’attività delle cellule gliali, hanno notato che era intensificato nei cervelli dei topi deprivati cronicamente del sonno.
E cio è negativo, perché l’incontrollata attività delle cellule gliali era già stata associata a disturbi neurali come l’Alzheimer e altre forme di patologie neurodegenerative.

Troviamo che la fagocitosi astrocitica, principalmente di elementi presinaptici in larghe sinapsi, si verifica dopo un’acuta e cronica perdita di sonno, ma non dopo un risveglio spontaneo, suggerendo che ciò favorirebbe la pulizia interna e il riciclo di componenti usurate di sinapsi fortemente logore”, riportano i ricercatori.

Di contro, solo la perdita di sonno cronico attiva le cellule gliali e favorisce la loro attività fagocitica…suggerendo che un’interruzione estesa di sonno potrebbe preparare le cellule microgliali e predisporre probabilmente il cervello ad altri disturbi”.

Molte domande rimangono, come per esempio se questo processo si ripete nel cervello umano, e se recuperando sonno si può rimediare al danno.
Ma il fatto che le morti di Alzheimer siano cresciute del 50% dal 1999, insieme alla difficoltà che molti di noi hanno di avere un buon sonno notturno, significa che è qualcosa che vale la pena continuare ad indagare, e presto.

La ricerca è pubblicata nel Journal of Neuroscience.

La mente nei mondi virtuali. Report dal convegno sulle trasformazioni cerebrali indotte dalle tecnologie

Si è svolto lo scorso 26 maggio a Palermo, presso la prestigiosa sede della Libreria Mondadori Store, un seminario che ha visto riuniti psichiatri e psicoterapeuti nel compito di delineare i problemi di salute pubblica indotti dall’uso delle tecnologie informatiche, nonché i vantaggi apportati a livello cognitivo ed emotivo e le possibilità di cura offerte dalla psicoterapia.

 

I meccanismi cerebrali coinvolti nell’utilizzo delle tecnologie

Molteplici sono le possibilità offerte dalle tecnologie – spiega il professor Vincenzo Caretti, psicologo clinico e professore di Psicopatologia dello Sviluppo all’Università degli Studi di Palermo – Al di là delle possibilità di nuocere, la tecnologia può essere di ausilio nel rallentare il declino cognitivo e nel migliorare i riflessi, come avviene nella neuroriabilitazione. Certamente non si possono trascurare gli svantaggi conseguenti a un abuso delle tecnologie, come l’atrofia della materia grigia, area cerebrale importante per la programmazione, frequentemente presente negli adolescenti dipendenti dai videogames. Dal punto di vista psicologico, un sintomo preoccupante è la trance dissociativa da videoterminale, rilevata originariamente su un ragazzo che presentava un delirio dopo l’abuso del videogioco Street Fighter. Si tratta di soggetti con una particolare vulnerabilità, nel caso specifico il soggetto era cresciuto in casa famiglia”.

Quali sono i meccanismi cerebrali alla base del successo di tali strumenti tecnologici?

Alla base della dipendenza dalle nuove tecnologie vi è l’attivazione di una struttura cerebrale, il nucleo accumbens, stimolato per esempio dai like di Facebook. Quest’area cerebrale si sviluppa tra i 13 e i 17 anni in misura maggiore rispetto alla corteccia frontale, deputata alla regolazione del comportamento – continua Caretti – Ecco spiegata l’impulsività tipica degli adolescenti su cui l’impatto delle nuove tecnologie ha quindi particolare significato e deve stimolare precoci processi di intervento; ovviamente tale iper-attivazione comporta delle problematiche rispetto al trattamento. Oggi la psicoterapia non può più ignorare l’importanza dell’utilizzo, più o meno funzionale, del virtuale: basti considerare come l’interazione uomo-robot porterà alla costruzione di robot con pelle al silicone che interverranno nei diversi ambiti di vita, e altresì penso ai robot affettivi, già adoperati nell’assistenza agli anziani“.

La mente dei mondi virtuali gli effetti delle tecnologie sul cervello - Palermo, 2017

Sui correlati neurofisiologici delle nuove tecnologie si è soffermato il professore Massimo Olivieri, medico specialista in neurologia e professore di neurofisiologia all’Università di Palermo.

Bisogna innanzitutto considerare che l’attività del cervello conseguente all’amicizia off-line e on-line è sostanzialmente identica. In altre parole le aree del cervello che si attivano attraverso i social media sono molto simili a quelle che si attivano con le amicizie reali, ovvero le aree del lobo temporale, importanti per la definizione dell’identità. Se ciò non ci deve portare immediatamente a demonizzare la realtà virtuale, è innegabile il rischio insito in un abuso della realtà virtuale. Nell’attivazione cerebrale indotta dalle tecnologie manca il reclutamento della corteccia frontale, implicata nella rappresentazione del futuro, nel controllo dell’impulsività e nella creatività”.

Dal punto di vista cognitivo i danni possibili dall’abuso del virtuale sono notevoli: per esempio l’abuso dei videogames determina deficit nell’attenzione sostenuta e nell’autocontrollo (spesso a seguito della identificazione con l’avatar). Infine è stata verificata una connessione tra il tempo passato su Google e l’indebolimento della forza delle connessioni tra le aree cerebrali”.

Ancora sui cambiamenti psicologici indotti dalle nuove tecnologie e sul ruolo della psicoterapia argomenta il professore Daniele La Barbera, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università di Palermo.

La rapidità dei cambiamenti indotti dal virtuale richiede responsabilità e non può essere trascurata. Il danno psicologico più grave riscontrabile oggi è l’erosione del principio di realtà, che sembra franare nei giovanissimi. In particolare sono in aumento i fenomeni dissociativi a causa del precoce impatto continuativo con il virtuale, con un effetto grave sui bambini, più esposti perché non ancora in possesso di un sistema di pensiero sviluppato. Una diretta conseguenza dell’uso delle nuove tecnologie è inoltre il collasso dell’empatia. Si può addirittura pervenire a un’equazione del narcisismo calcolando il numero dei selfie per ora. L’uso molto intenso dei social media può portare allo sviluppo di tratti autistici, come l’evitamento del contatto oculare. Si assiste in definitiva oggi a un disagio specifico tecno-dipendente che obbliga a dire addio al modello tradizionale di psicoterapia e una presa di consapevolezza di nuove strategie di cura, in cui peraltro le tecnologie stesse sono implicate, come nelle moderne terapie via Skype”.

In che modo lo psicoterapeuta si pone di fronte a tali fenomeni?

Gli psicoterapeuti possono reagire in modi diversi, come la negazione, oppure l’arroccamento su posizioni da rivedere alla luce di tali drastici cambiamenti, come il riferimento alla teoria freudiana. In ultimo esiste l’apertura critica al nuovo disagio, la via più utile, considerata la necessità, ormai irrinunciabile, della comprensione dei fenomeni di mutamento culturale, che non può più considerarsi una questione di nicchia o per pochi illuminati“.

E se i danni delle tecnologie sono innegabili, certamente un ruolo non indifferente lo gioca la personalità, al punto da condizionare lo sviluppo o meno della patologia, come sottolinea il professore Adriano Schimmenti, associato di Psicologia dinamica presso l’Università Kore di Enna..

Vi sono fattori propri di personalità come la schizotipia, ovvero la tendenza al pensiero disorganizzato, che predispongono allo sviluppo di una psicopatologia, in seguito al contatto con il mondo virtuale. Il fattore personalità è talmente centrale che con l’aumentare di tale tratto di personalità il fattore immersione nelle tecnologie appare addirittura trascurabile”.

E sugli effetti benefici della psicoterapia che rendono tale scelta di cura intrinsecamente collegata alle modifiche strutturali dei neuroni, alla plasticità neurale e quindi al miglioramento della qualità di vita si conclude l’evento formativo, con una speranza concreta per chi è affetto da tale forma di disagio psichico, affettivo e comportamentale.

La psicoterapia ha effetti importanti sul benessere mentale e sulla struttura stessa del cervello– continua Schimmenti- Imparare l’autoregolazione emotiva, aumentare il benessere soggettivo e relazionale sono processi che corrispondono a una modifica strutturale del cervello, ovvero all’allungamento delle estremità dei cromosomi, i telomeri”.

L’alcol, dall’uso non patologico alla dipendenza: considerazioni e trattamenti

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. E’ fondamentale però distinguere tra: uso non patologico, abuso e dipendenza.

 

L’ alcol è una sostanza psicoattiva che, al pari del tabacco e del caffè, è frequentemente utilizzata. Spesso, per i bambini, il primo contatto con l’ alcol può avvenire all’interno delle mura domestiche; infatti, non è inusuale che l’alcol si trovi sulle nostre tavole. In adolescenza, invece, dove il gruppo dei pari assume un ruolo fondamentale, è frequente che durante le uscite o alle feste si venga esposti all’ alcol. In particolare, relativamente al consumo di sostanze, è fondamentale distinguere tra:

  • Uso non patologico: uso ricreativo e sociale senza conseguenze a livello sia fisico che cognitivo.
  • Abuso: modalità di uso patologico delle sostanze psicoattive. L’individuo continua ad assumere alcol nonostante sia consapevole di avere un problema (sociale, lavorativo) causato dall’uso della sostanza .
  • Dipendenza: è caratterizzata da una scarsa capacità di controllo su consumo della sostanza psicoattiva che viene assunta nonostante il manifestarsi di conseguenze avverse.

Alcol e sostanze: i criteri del DSM per la diagnosi di un disturbo

I criteri riportati nel DSM per il Disturbo da uso di sostanze fanno riferimento a una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle condizioni seguenti, che si verificano entro un periodo di 12 mesi:

  • La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto;
  • Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;
  • Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla, o a riprendersi dai suoi effetti;
  • Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza;
  • Uso ricorrente della sostanza che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
  • Uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
  • Importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso della sostanza.
  • Uso ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso (ad esempio alla guida).
  • Uso continuato di alcol nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico (es: perdita di memoria), che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza.
  • Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti:
    • Il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato;
    • Un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza.
  • Astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti:
    • La caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza (riferirsi ai Criteri A e B dei set di criteri per Astinenza dalle sostanze specifiche);
    • La stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza.

Nella diagnosi bisogna specificare se:

  • La persona beve in Ambiente Controllato
  • Codificare il decorso della Dipendenza: Remissione Precoce (3<x<12 mesi); Remissione Protratta (>12 mesi)
  • Ed infine, stabilire la gravità attuale: Lieve: 2‐3 sintomi; Moderata: 4‐5 sintomi; Grave: 6 o più sintomi

Circa il 13% della popolazione negli Stati Uniti, durante il corso della sua vita soddisfa i criteri per l’abuso di alcol e circa il 5% per dipendenza da sostanza da alcol.

CAGE: il questionario per scoprire se si soffre di un disturbo da uso di alcol

Un breve questionario, che permette di comprendere se una persona abbia un disturbo legato all’ alcol, è il CAGE. In particolare, questo test prevede quattro domande:

  1. Ha mai pensato che dovrebbe smettere di bere?
  2. Si è mai irritato perché alcune persone la criticano a causa del bere?
  3. Si è mai sentito in colpa perché beve troppo?
  4. Si è mai svegliato al mattino pensando di bere come prima cosa?

Due o più risposte positive indicano un uso problematico di alcol.

I trattamenti per i disturbi correlati all’uso di alcol

Sono stati avviati diverse tipologie di trattamenti per i disturbi correlati all’ alcol. Nel trattamento farmacologico vengono spesso utilizzate due categorie di farmaci:

  • Farmaci che agiscono su desiderio di bere: Disulfiram (Antabuse) e Naltrexone.
  • Farmaci che riducono di effetti dell’astinenza: Valium.

Riguardo ai trattamenti psicologici troviamo:

  • Terapia di gruppo: vi è spesso un professionista che dirige il gruppo. Il confronto tra le persone che abusano di alcol è molto importante, in quanto le persone sono spinte a non mentire e a non negare di fronte a persone che conoscono bene questi meccanismi.
  • Interventi ambientali: all’interno delle residenze protette, la persona è impossibilitata a procurarsi le sostanze, in quanto la persona è osservata 24h su 24h. L’intervento viene spesso abbinato alla somministrazione di farmaci e mostra buoni risultati.
  • Terapia cognitivo-comportamentale: si basa su alcune tecniche come il condizionamento avversivo, che condiziona l’assunzione della sostanza in modi negativi, e il training di abilità. Per un paziente alcolista è fondamentale imparare determinate abilità di base al fine di riconoscere i segnali di rischio per una ricaduta, ad esempio andare a una festa, fare un brindisi.

Il 99% degli approcci mirano all’astinenza completa dall’ alcol; altri invece parlano di uso controllato, cioè un uso non problematico.

L’arte di essere fragili: come Leopardi può salvarti la vita di Alessandro D’Avenia (2016) – Recensione

In “L’arte di essere fragili” l’autore Alessandro D’Avenia intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

 

L’arte di essere fragili: uno scambio epistolare con Giacomo Leopardi

Alessandro D’Avenia, giovane scrittore e insegnante di Lettere, fin dal suo esordio letterario si è rivolto principalmente ad un pubblico giovane, bloccato in quella età di mezzo caotica che è l’adolescenza. Con i suoi libri ha cercato di intessere un dialogo con loro partendo dall’ascolto dei loro principali bisogni inespressi e inappagati, aiutandoli a ritrovare un senso ed una direzione nella loro vita. Questa volta, tuttavia, il libro può essere apprezzato anche da un lettore più maturo, sebbene l’interlocutore principale continui ad essere l’adolescente in quanto futuro adulto.

In “L’arte di essere fragili” l’autore intesse un ipotetico scambio epistolare con il poeta Giacomo Leopardi (1798-1837) rivalutandone la sua figura “spesso liquidata e ricordata come pessimista e sfortunata”, sebbene a suo avviso dimostri attraverso le varie lettere e citazioni quanto invece Leopardi fosse “affamato di vita e di infinito”. Il testo è suddiviso nelle seguenti sezioni: adolescenza (o l’arte di sperare), maturità (o l’arte di morire), riparazione (o l’arte di essere fragili), morire (o l’arte di rinascere).

L’autore, in un primo momento, mette in risalto il desiderio del giovane Leopardi di esplorare il mondo esterno, di andare oltre i limiti della “siepe” e di una famiglia controllante, “rapito” da una sorta di “innamoramento” della natura attraverso cui comprende la propria vocazione e il proprio scopo ultimo, ossia realizzarsi attraverso la letteratura, componendo scritti colmi di questo “rapimento”. La vita, però, molto spesso non asseconda le nostre aspirazioni ma, anzi, pone degli ostacoli (nel caso di Leopardi l’ impossibilità in un primo momento di allontanarsi dalla famiglia di origine, l’amore negato più volte, la malattia che lo priva del suo unico scopo di leggere e scrivere). Davanti a ciò, l’adulto mette da parte i propri sogni ma quello che dovrebbe fare è, invece, accettare i limiti per realizzare nuovi “rapimenti” che vadano oltre ai limiti stessi o che ne riattribuiscano un senso. Per questo motivo, secondo Alessandro D’Avenia, Leopardi non è pessimista: a suo avviso è invece un uomo che, scontrandosi con gli ostacoli, ha fatto diventare i suoi scopi irraggiungibili e i limiti della vita ulteriori nuovi scopi di lirica e poesia, di ampliamento della conoscenza. Il canto della solitudine e della natura malvagia nascono proprio dalla riattribuzione di senso rispetto agli eventi negativi che hanno costellato la sua vita.

L’arte di essere fragili, la lettura cognitivista del libro

Emerge una possibilità di lettura del testo in termini cognitivisti, con elementi propri della scopistica e dei movimenti cosiddetti di “terza ondata” del cognitivismo.

Gli scopi costituiscono il sistema motivazionale dell’individuo, orientandone il comportamento e le scelte in base al proprio sistema di valori. Occorre avere degli scopi, senza non siamo definiti come persona. E’ altrettanto importante riuscire a marcare emotivamente i propri desideri. Gli scopi sono infatti strettamente interconnessi alle emozioni, che hanno la funzione di segnalare a noi stessi e agli altri dove ci collochiamo rispetto all’obiettivo finale che ci siamo posti. Emozioni positive segnalano che ci stiamo avvicinando all’obiettivo, viceversa emozioni di tristezza o invidia segnalano che ne siamo lontani. Una marcatura “positiva” di un desiderio è ciò che è alla base del “rapimento” descritto nel testo dall’autore, che sprona i giovani a riconoscerlo e a identificarlo in modo da comprendere quale possa essere il loro scopo terminale o passione nel corso della vita adulta.

Ma la sofferenza psicologica nasce spesso proprio dal continuare a cercare di raggiungere scopi irraggiungibili. Una soluzione a questa impasse giunge dal movimento di “terza ondata” del cognitivismo che sottolinea l’importanza della accettazione, che è un concetto ben diverso dal condividere e subire passivamente quanto stiamo vivendo. Accettare significa capire che non c’è possibilità di azione, sentire l’emozione di dolore e di impotenza che ne scaturisce per poi, in un secondo momento, riuscire però a guardare oltre, trovando nuovi significati di vita [“Malinconia è vedere l’enorme fragilità del mondo e non scappare ma chinarsi a riparare senza stancarsi; scorgere che sempre, sempre, qualcosa manca, e in quel vuoto sentirsi spinti non verso il nulla, ma verso la creazione”].

Questa è l’arte di essere fragili propria della età della maturità, l’arte di accettare ciò che non si può cambiare senza esserne sottomessi. L’arte di continuare a fare poesia della e nella sofferenza [“C’è ancora qualcosa da scoprire, una luce in mezzo alle tenebre, non fosse altro che la luce dei tuoi versi…non hai trasformato il nulla in nulla ma in bellezza”].

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