expand_lessAPRI WIDGET

La depressione nel ciclo vitale femminile

La depressione è una malattia che colpisce prevalentemente il genere femminile e la realtà clinica della depressione nelle donne è profondamente più ampia e complessa rispetto al termine generico di depressione.

Francesca Turra – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il disturbo depressivo maggiore colpisce il sesso femminile in misura doppia rispetto a quello maschile (41,9% contro il 29,3%). La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Sono diverse le ipotesi fatte per spiegare la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini; attualmente la più accreditata dalla letteratura internazionale è l’ipotesi biopsicosociale. Sono chiamati in causa:

  • Fattori neuroendocrini: differenze nella struttura cerebrale e nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali;
  • Fattori psicosociali: differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti. In particolare:
    • Eventi di separazione o di perdita traumatica, abusi e violenze;
    • Fattori legati alla storia dello sviluppo: relazioni di attaccamento nell’infanzia e in età prepuberale;
    • Storia famigliare di disturbi psichiatrici;
    • Tratti temperamentali;
    • Variazioni ormonali in determinate fasi del life span.

Tutti questi aspetti, interagendo tra loro in maniera e con intensità diversa, possono rendere ragione delle differenze nella prevalenza della depressione nelle donne rispetto alla depressione nel sesso maschile (Marcus, Young, Kerber, et al., 2005). Oltre che nella prevalenza secondo alcuni studi si riscontrano diversità di genere anche nella sintomatologia: le donne sembrano presentare con maggior prevalenza statistica il quadro della depressione atipica. Le comorbidià psichiatriche maggiori per le donne risultano i disturbi d’ansia, i disturbi somatoformi e la bulimia, mentre nell’uomo si riscontra un’associazione maggiore con il disturbo ossessivo compulsivo, abuso di alcol e di sostanze. Anche la risposta al trattamento sembra essere diversa nella donna rispetto all’uomo e all’interno del sesso femminile nelle varie fasi del ciclo riproduttivo (Khan, Broadhead, Schwartz, Koltz, Brown, 2005).

 

La depressione nelle donne caratteristiche e fasi di vulnerabilita specifica - TAB

Differenze di genere nella depressione

 

Il ciclo riproduttivo fa da sfondo a tutti i fattori di rischio di depressione nelle donne e in particolare in alcune fasi di vulnerabilità specifica: adolescenza, gravidanza, post partum e perimenopausa.

Quadri clinici diversi sono associati a specifici momenti del ciclo riproduttivo femminile: la sindrome premestruale e il disturbo disforico premestruale coincidono con la fase luteale del ciclo mestruale; la depressione in gravidanza nel periodo del pre-parto, la maternity blues entro le due settimane dal parto; la depressione post-partum entro le quattro settimane (fino a 12 mesi); la psicosi post-partum nel primo mese; la depressione perimenopausale dai 5 ai 7 anni prima della menopausa.

 

La depressione nelle donne durante l’adolescenza

Nell’adolescenza la depressione, in generale, subisce un incremento di prevalenza, dall’1% all’8%, con una prevalenza lifetime compresa tra il 15% e il 20%, paragonabile a quella dell’età adulta. In particolar modo tale prevalenza è a carico del sesso femminile, sia come numero di episodi, che come durata e gravità degli stessi. Inoltre, l’esordio in età adolescenziale rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di episodi depressivi successivi, in età adulta, e dunque per una cronicizzazione della depressione (McCauley, Myers, Mitchell et al., 1993; Kovacs, 1997; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

In letteratura sono state fatte varie ipotesi per spiegare la maggior prevalenza di depressione nelle donne in questa fase di vita. Ha suscitato molto interesse, e sembra avere anche un numero più consistente di dati empirici a supporto, l’associazione tra il “timing” dello sviluppo puberale relativamente ai coetanei e la depressione, in particolare per quanto riguarda la predittività di cronicità (Conley & Rudolph, 2009).

La transizione puberale porta con sé tutta una serie di processi di cambiamento fisico e psichico, e molto spesso tali modifiche possono avere un carattere “violento”, in quanto spesso il mutamento fisico e biologico non è sincronizzato rispetto al livello di sviluppo psichico e sociale raggiunto. Inoltre, i bruschi cambiamenti nel corpo possono portare con sé conseguenze negative sull’immagine corporea e sulle relazioni sociali (senso di appartenenza al gruppo, rifiuto del cambiamento, inizio della sessualità). Inoltre ancora, la pubertà induce variazioni ormonali che di per se stesse possono incrementare il rischio di depressione; essendo tali variazioni differenti nei due sessi, evidentemente anche le conseguenze che portano con sé sui diversi piani sono differenti, rendendo ragione, in parte, delle differenze di prevalenza di depressione nell’età adolescenziale.

Gli adolescenti che raggiungono la pubertà precocemente potrebbero essere meno preparati e potrebbero accusare con disagio le differenze rispetto al gruppo dei coetanei in un momento in cui l’appartenenza e l’omologazione al gruppo rappresentano fattori di stabilità e identità forti. Analoghe difficoltà possono presentarsi per gli adolescenti che sviluppano cronologicamente più tardi rispetto al gruppo. Il timing appare, dai dati più recenti, fortemente correlato alla depressione, in particolare nelle ragazze; tuttavia, i dati della letteratura non sono omogenei. Secondo la maggior parte degli studi uno sviluppo troppo precoce o troppo tardivo si correla con elevati tassi di sintomi depressivi o di depressione franca nelle ragazze, al contrario nei ragazzi questo si riscontrerebbe più frequentemente in caso di sviluppo ritardato. Altri autori, anche se in minoranza, riscontrano un andamento simile tra maschi e femmine, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo precoce (Ge, Conger, Elder, 2001; Weichold, Silbereisen, Schmitt-Rodermund, 2003).

 

Sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale

La sindrome premestruale è una fase del ciclo mestruale che le donne tra i 25 e i 40 anni sperimentano con intensità diversa nei 6-7 giorni precedenti alle mestruazioni e coinvolge aspetti somatici, emotivi, relazionali e sociali. La Sindrome Pre Mestruale (SPM), si manifesta con una serie di sintomi di carattere somatico e affettivo-comportamentale. Tra i sintomi somatici si possono riscontrare: tensione mammaria e addominale, ritenzione idrica, modificazione dell’appetito, cefalea e, con minor frequenza, eruzioni cutanee acneiformi, nausea e vomito. Le manifestazioni affettive e comportamentali più frequenti sono: depressione, facilità al pianto, ansia, irritabilità.
Nel corso della fase premestruale, la donna può esperire una serie di disagi che, a seconda delle caratteristiche e della gravità, si definiscono: SPM di grado lieve, di grado moderato, grave fino ad arrivare al Disturbo Disforico premestruale (DDPM). Circa il 75% delle donne presenta sintomi premestruali minori o isolati; dal 20 al 50% manifesta una SPM, dal 5 al 15% una SPM grave, il 3-5% un DDPM.

Il Disturbo Disforico Premestruale (DDPM), inserito nel DSM 5 (Diagnostic and Statistica Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) nella categoria di disturbi depressivi, prevede che nella maggior parte dei cicli mestruali almeno 5 sintomi devono essere presenti nella settimana precedente le mestruazioni, iniziare a migliorare entro pochi giorni dall’insorgenza e ridursi al minimo o scomparire nella settimana successiva. I sintomi sono  i seguenti:

  • Marcata labilità affettiva (sbalzi d’umore, sentirsi improvvisamente tristi o tendenti al pianto, aumentata sensibilità al rifiuto);
  • Marcata irritabilità o rabbia oppure aumento dei conflitti interpersonali;
  • Umore marcatamente depresso, sentimenti di disperazione o pensieri autocritici;
  • Ansia marcata, tensione e/o sentirsi con i nervi a fior di pelle;
  • Diminuito interesse nelle attività abituali;
  • Difficoltà soggettiva di concentrazione;
  • Letargia, facile faticabilità o marcata mancanza di energia;
  • Marcata modificazione dell’appetito;
  • Ipersonnia o insonnia;
  • Senso di sopraffazione o di essere fuori controllo;
  • Sintomi fisici come indolenzimento o tensione al seno, dolore articolare o muscolare, sensazione di gonfiore o aumento di peso.

I sintomi risultano gravi al punto da interferire in modo rilevante con l’adattamento lavorativo, sociale o interpersonale. Il DDPM tende a cronicizzare e permanere fino alla menopausa.

Vi sono donne che nella loro storia hanno sofferto di disturbi d’ansia o di depressione che presentano un peggioramento dei sintomi psichici in fase premestruale o hanno esordito la patologia psichiatrica in questa fase del ciclo. I sintomi della SPM o del DDPM possono aumentare con l’età e dopo aver avuto un figlio, in caso di assunzione o sospensione di un contraccettivo orale o in seguito a chirurgia pelvica.

 

Depressione nelle donne e gravidanza

La gravidanza è sempre stata vista come un fase sacra nella vita di una donna, un periodo di felicità e attesa del nuovo nascituro in un clima di serenità e benessere. Ciononostante esistono forti evidenze cliniche ed empiriche che dimostrano che la gravidanza può non essere un periodo così idilliaco. Si stima infatti che il rischio di depressione nelle donne in gravidanza oscilli tra il 10 e il 15%, valori vicino a quelli della depressione post-partum. Un recente studio condotto in quattro città italiane (Bari, Ascoli Piceno, Udine, Verona) ha documentato su un campione di circa 1700 donne al secondo trimestre di gravidanza la presenza di un disturbo depressivo più o meno grave in 20 donne su 100 (Balestrieri et al., 2012).

Sono stati individuati una serie di importanti fattori di rischio che possono scatenare o far precipitare uno stato depressivo in gravidanza; tra questi particolarmente frequenti sono: un precedente stato di ansia, condizioni di vita stressanti, precedenti episodi di depressione, la mancanza di supporto sociale, violenze domestiche, una gravidanza indesiderata. I sintomi che sono più spesso riferiti in casi di depressione nelle donne gravide sono rappresentati da tristezza, stanchezza fisica, facile tendenza al pianto, preoccupazioni eccessive, senso di inadeguatezza, pensieri negativi sulla capacità di portare avanti la gravidanza e sul futuro ruolo di mamma, disturbi del sonno. Nei casi più gravi possono essere presenti idee autoadesive associate e deliri di colpa o di rovina riguardanti i propri familiari.

La sintomatologia depressiva può risultare in questa fase del ciclo vitale della donna di difficile diagnosi perché insonnia, apatia, anergia, inappetenza e mancanza di concentrazione sono sintomi molto comuni in gravidanza. Un mancato riconoscimento e conseguente trattamento della depressione nelle donne in gravidanza aumenta il rischio di depressione nel post-partum, a cui sono associati numerosi esiti negativi per la salute del nascituro, come una inadeguata crescita fetale e uno scarso sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino durante l’infanzia e l’adolescenza.

 

La depressione nel Post Partum

Nei giorni immediatamente successivi al parto è considerato fisiologico un periodo caratterizzato da calo dell’umore e instabilità emotiva (la cosiddetta baby blues o maternity blues): si stima che una percentuale collocabile tra il 30% e l’85% delle donne (O’Hara et al., 1990; Gonidakis et al., 2007) sperimenta e manifesta sintomi associabili a una leggera depressione post partum, ma caratterizzati da transitorietà (presentano una durata variabile da poche ore ad alcuni giorni) e che non necessariamente si trasformano in un vero e proprio disturbo. La notevole diffusione del baby blues suggerisce un adattamento psicofisico fisiologico agli importanti cambiamenti che intervengono nella vita di una donna quando diventa madre; per il suo carattere transitorio e la scarsa entità della sintomatologia non richiede generalmente trattamenti specifici e non implica conseguenze a lungo termine. La vera e propria depressione post-partum sembra invece colpire circa il 10-15% (Centers for Disease Control and Prevention, 2008) delle donne. Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder; American Psychiatric Association) considera la depressione post-natale come una forma di depressione generale specificata come “depressione postpartum” se ha esordio entro le prime quattro settimane successive al parto. I criteri del DSM 5 per questo disturbo richiedono che sia presente, quasi ogni giorno per un periodo di almeno due settimane:

  • Umore depresso, per la maggior parte del tempo, quasi tutti i giorni, come riportato dall’individuo (per esempio si sente triste, vuoto, disperato) o come osservato da altri (per esempio appare lamentoso);
  • Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno;

Devono inoltre essere presenti almeno 5 o più dei seguenti sintomi, perduranti per un periodo di almeno due settimane: significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; faticabilità o mancanza di energia; sentimenti di autovalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati; ridotta capacità di pensare o di concentrarsi o indecisione; pensieri ricorrenti di morte, ricorrente idea suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti. Si presentano in modo conclamato tra le otto e le dodici settimane dopo il parto, periodo che è stato individuato come picco di insorgenza più frequente (Guedeney & Jeammet, 2001).

I sintomi della depressione post partum non sono transitori e possono persistere, variando d’intensità, anche per molti anni, e quindi avere conseguenze più o meno significative non solo sulla salute mentale della donna, ma anche sulla relazione madre-bambino, sullo sviluppo del bambino e sull’intero nucleo familiare.

 

La depressione nelle donne in menopausa

La menopausa è la fase del ciclo biologico femminile che corrisponde alla definitiva cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. Costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Nonostante questo dati empirici hanno mostrato che invece spesso le donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi. Studi epidemiologici hanno mostrato che i fattori di stress psicosociale sono associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto è maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

L’effetto placebo per risanare un cuore spezzato

Sentite il cuore infranto a causa di una recente rottura? Il solo credere di star agendo per aiutare se stessi a superare l’evento,  può influenzare regioni del cervello associate alla regolazione emotiva e diminuire la percezione del dolore.

 

Questa è la scoperta di un recente studio della University of Colorado Boulder che ha misurato l’impatto di ordine neurologico e comportamentale che l’effetto placebo ha avuto su un gruppo di partecipanti volontari che avevano vissuto recentemente la rottura di una storia d’amore.

La rottura con un partner è una delle esperienze emotivamente più negative che una persona possa vivere e può essere un trigger importante per sviluppare problemi psicologici.

Queste sono le parole riportate dal primo autore dell’articolo Leonie Koban, divenuto ricercatore associato a seguito di un periodo di dottorato.

Egli ha notato che un tale dolore sociale è associato ad un rischio 20 volte maggiore di sviluppare un vissuto depressivo nell’ anno successivo all’accaduto.

Nel nostro studio, abbiamo trovato che un placebo può avere effetti abbastanza forti sulla riduzione dell’intensità del dolore sociale.

Da decenni, la ricerca ha dimostrato che i trattamenti con placebo, quindi senza alcun principio attivo, possano ridurre in misura significativa il dolore, la malattia di Parkinson e altri disturbi fisici.

Il nuovo studio, pubblicato a marzo nel Journal of Neuroscience, è il primo a misurare l’impatto del placebo sul dolore emotivo derivante da un rifiuto nell’ambito di una relazione  di coppia.

I ricercatori hanno reclutato 40 volontari che avevano esperito, indesideratamente, la fine di una relazione d’amore negli ultimi sei mesi.

Si è chiesto di portare all’interno di un setting laboratoriale per imaging cerebrale una foto degli ex e una foto di un buon amico dello stesso genere.

I partecipanti venivano posti all’interno di una macchina per la risonanza magnetica funzionale (fMRI),venivano loro mostrate le immagini dei loro ex partner e si chiedeva di ricordare il momento della rottura. Poi sono state mostrate le immagini riferite agli amici.

Sono stati anche sottoposti ad uno stimolo che induceva dolore fisico (uno stimolo caldo sull’avambraccio sinistro).

Poiché questi stimoli sono stati ripetuti alternativamente, ai soggetti veniva chiesta una valutazione circa le loro sensazioni su una scala da 1 (molto male) a 5 (molto buono). Nel frattempo, attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI) si registrava l’attività cerebrale.

Sebbene non identiche, le regioni che si attivano durante il dolore fisico erano simili a quelle attivate per il dolore emotivo.

Questa scoperta ci suggerisce un messaggio importante da recapitare ai cuori spezzati, come detto  dall’autore principale Tor Wager, professore di psicologia e neuroscienze alla CU Boulder:

Sappiate che il vostro dolore è reale, neuro-chimicamente reale.

Conclusa la fase di registrazione dell’attività cerebrale, ai soggetti è stato somministrato uno spray nasale. Alla metà dei soggetti è stato riferito che si trattava di un “potente analgesico efficace nel ridurre il dolore emotivo”. All’altra metà si diceva che fosse una semplice soluzione salina.

L’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale – un’area coinvolta nella modulazione delle emozioni – si è dimostrato essere aumentata notevolmente. Al contrario , le aree cerebrali associate al tema del rifiuto presentavano una diminuita attivazione.

In particolare, a seguito del placebo, nel momento in cui i partecipanti dicevano di sentirsi meglio, effettivamente si registrava un’aumentata attività in una zona del “midbrain” chiamata sostanza grigia periacquedottale (PAG). La PAG svolge un ruolo fondamentale nel modulare i livelli di sostanze chimiche cerebrali, come gli oppiacei, e neurotrasmettitori del buon umore, come la dopamina.

Anche se lo studio non ha esaminato specificamente se il placebo abbia indotto il rilascio di tali sostanze chimiche, gli autori sospettano sia proprio questo processo ad essere attivato.

La prospettiva attuale dimostra che avere aspettative positive influenza l’attività nella corteccia prefrontale, che a sua volta influenza i sistemi del midbrain  generando risposte neurochimiche con il rilascio di oppiacei o dopamina – ha dichiarato Wager.

Precedenti studi hanno dimostrato che l’effetto placebo da solo non solo allevia la depressione, ma può effettivamente far funzionare meglio gli antidepressivi.

Fare qualcosa per se stessi ed  impegnarsi in qualcosa che dona speranza può avere un impatto effettivo nella vita di un soggetto – ha dichiarato Wager. – In alcuni casi, il principio attivo del farmaco può essere meno importante di quanto noi abbiamo pensato.

Gli autori hanno affermato che questo recente studio non solo aiuta a capire meglio come il dolore emotivo venga elaborato a livello cerebrale, ma può anche suggerire modalità con cui le persone possano utilizzare il potere e la forza delle aspettative a proprio vantaggio.

Dice Koban:

Ciò che sta diventando sempre più chiaro è che le aspettative e le previsioni hanno una forte influenza sulle esperienze di base, su come ci sentiamo e su  ciò che percepiamo.

Per concludere, se sei stato lasciato di recente:

Fare qualcosa che tu credi possa aiutarti a sentirti meglio, probabilmente ti farà sentire meglio.

Anche il nostro cervello ha la sua canzone preferita

Una recente ricerca ha scoperto come la musica preferita, di qualunque genere essa sia, sia in grado di attivare una specifica attività cerebrale.

 

Per studiare come le preferenze musicali possano influenzare la connettività funzionale del cervello, più specificatamente le interazioni tra le distinte aree cerebrali, Burdette e colleghi hanno utilizzato la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), la quale consente di misurare l’attività cerebrale rilevando i cambiamenti nel flusso sanguigno.

Lo studio è stato effettuato su 21 soggetti: mentre i soggetti ascoltavano la musica, dovevano esprimere il grado di piacimento della stessa da “apprezzamento” a “disgusto” valutando cinque generi musicali (classico, country, rap, rock e opera cinese). Inoltre gli ascoltatori dovevano indicare quale fosse la loro canzone preferita, a prescindere dal genere musicale.

I risultati hanno mostrato un modello coerente con quanto supposto inizialmente: le preferenze degli ascoltatori, a prescindere dal tipo di musica che stessero ascoltando, hanno avuto il maggior impatto sulla connettività cerebrale: specialmente si è attivato in misura più marcata il circuito del cervello definitio “Default Mode Network”.

Il Default Mode Network era scarsamente attivato quando i partecipanti ascoltavano la musica che non amavano, mentre era significativamente più attivato quando i soggetti ascoltavano la musica di loro gradimento. Lo stesso circuito ha rivelato ancora più alti livelli di connettività quando i soggetti ascoltavano la loro canzone preferita.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che l’ascolto della canzone preferita altera la connettività tra aree cerebrali uditive e l’attivazione di una regione responsabile della memoria e del consolidamento delle emozioni sociali.

In altri progetti di ricerca, il team coordinato dal Dr. Burdette, ha evidenziato una serie di risultati interessanti nell’ambito della neuropsicologia della musica. Ad esempio, i loro studi hanno dimostrato come diversi livelli di complessità nella musica possono avere effetti differenti sulla connettività funzionale del cervello.

Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2017 di Riccione

Si è svolto, presso il palazzo del Turismo a Riccione dal 5 al 6 maggio 2017, il Forum sulla Ricerca in Psicoterapia, manifestazione organizzata dalle tre scuole di specialità post-laurea in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” di Milano, Modena e San Benedetto del Tronto, “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Milano, Bolzano e Mestre e “Scuola Cognitiva Firenze” di Firenze.

Il Forum era riservato agli allievi delle tre scuole, che hanno avuto la possibilità di mettersi alla prova in presentazioni orali o poster di ricerche scientifiche effettuate da loro stessi, con l’aiuto dei tutor delle scuole. Il formato delle presentazioni dava largo spazio alla discussione, evitando la catena di montaggio della trafila di decine di presentazioni troppo brevi, non più di quindici o venti minuti ognuna, disgrazia che affligge molti congressi di psicologia, psichiatria e psicoterapia, trasformandoli in una affollata processione di lavori in cui la discussione si riduce a pochissimi minuti. Si è deciso invece che ogni presentazione avesse un’ora di tempo, di cui almeno la metà dedicata alla discussione. Il timore che le discussioni non nascessero e che ci fossero poche domande è svanito ben presto. Al contrario, l’impressione è che ci si potesse concedere spazi di confronto ancora maggiore.

Anche i poster avevano lo stesso formato: ogni poster aveva un discussant che esortava gli autori a descrivere i propri poster e stimolava il dibattito in orari precisi, in modo da evitare un’altra piaga dei congressi: il vagare insieme annoiato e affaccendato intorno ai poster e le domande casuali e occasionali ai poveri autori dei poster, spesso lasciati soli accanto alla propria opera.

Il primo giorno l’interesse è stato catturato dal lavoro sui correlati neurali delle capacità decisionali, davvero istruttivo sui nuovi orizzonti che lo studio del cervello può suggerire alla psicoterapia, e l’analisi delle interazioni tra processi cognitivi e metacognitivi e stati dissociativi. La dialettica tra dissociazione e metacognizione potrebbe essere la principale polarità dei futuri sviluppi della psicoterapia, in concomitanza con la tendenza delle nuove terapie di tipo processuale a classificare gli interventi in top-down, che privilegiano il controllo e la consapevolezza metacognitiva della propria funzionalità, e bottom-up, tese a una lenta rieducazione su base corporea ed esperienziale di stati dissociativi incontrollabili.

Il secondo giorno è stato dedicato ai disturbi alimentari, anche qui con una buona messe di lavori dedicati ai processi metacognitivi e al ruolo del pensiero ripetitivo negativo nella psicopatologia dell’anoressia e della bulimia. Nell’ultima presentazione si è tornati agli studi neurologici con una presentazione dedicata alla tecnica della tDCS (Transcranial Direct Current Stimulation) un metodo innovativo, non invasivo e poco ingombrante per esplorare gli stati neurologici e al tempo stesso per effettuare un’azione terapeutica attraverso la stimolazione transcraniale.

Anche tra i poster c’è stata una prevalenza dei lavori di tipo processuale, come è giusto dato che ormai è questa la principale corrente di sviluppo della terapia cognitiva, che si avvia a diventare terapia metacognitiva/esperienziale, almeno per ora. Meglio però non abbandonarsi a previsioni.

Riccione ci ha riservato la sua primaverile atmosfera quasi felliniana e molto vitellona e le sue onnipresenti e gustose piadine. Le cena sociale al ristorante si è spontaneamente trasformata in una festa danzante, risparmiandoci una faticosa migrazione in una assordante discoteca, con la gratitudine dei partecipanti meno giovani.

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Cefalee in età pediatrica: l’impiego del biofeedback

Nonostante i farmaci abbiano dimostrato un’efficacia terapeutica mediante la riduzione del dolore, della frequenza e della durata dei sintomi, comportano una serie di effetti collaterali, che per i bambini possono rivelarsi importanti, considerata la giovane età. L’utilizzo, quindi, di una terapia farmacologica in età pediatrica sembra essere fortemente sconsigliata. Per questo, negli ultimi anni, si sono incrementati gli studi riguardanti le terapie non farmacologiche nelle cefalee infantili. Tali studi hanno evidenziato la probabilità che la procedura del biofeedback possa essere una valida modalità di gestione del dolore.

Benedetta Frascaroli, Maddalena De Matteis, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le cefalee nei bambini

Parlare di cefalea in ambito pediatrico non è semplice, l’argomento è stato più volte ripreso e discusso, ma ancora oggi si fatica a riconoscerne i sintomi, effettuare una diagnosi precoce e trovare la cura efficace. Molti bambini manifestano dolori in varie parti del corpo per innumerevoli motivi: quando dicono di avere mal di testa a volte si tende a sottovalutarlo o collegare il sintomo ad una banale stanchezza.

Accade sempre più frequentemente, tuttavia, che si presentino forme di cefalea primaria nei bambini anche sotto i 6 anni di età. Questo richiede un aiuto specialistico quando il sintomo diventa quasi quotidiano ed impedisce al bambino gran parte delle attività svolte in precedenza.

Le cefalee primarie, che si distinguono da quelle secondarie per l’assenza di una causa organica primaria da cui derivi il disturbo (come traumi, tumori,…), si suddividono principalmente in due categorie: Emicrania e Cefalea di tipo tensivo, seguite da una minor prevalenza di Cefalea a grappolo (e altre cefalee autonome) e Trigeminali.

Per emicrania si intende una cefalea idiopatica ricorrente, che si manifesta con attacchi della durata da 4 a 72 ore. Le caratteristiche tipiche del disturbo sono: localizzazione unilaterale, dolore pulsante, intensità media o forte, aggravamento con le attività fisiche di routine, associazione con nausea, fotofobia e fonofobia.

La cefalea tensiva, invece, è una cefalea idiopatica ricorrente che si manifesta con attacchi della durata media di 30 minuti con frequenza quotidiana, 7 giorni su 7. Caratteristiche tipiche della cefalea sono: sede bilaterale, qualità compressiva-costrittiva (non pulsante), intensità lieve o media, dolore non aggravato da attività fisiche di routine.

Dal punto di vista fisiopatologico, l’emicrania è un disordine neurologico complesso delle funzioni superiori e dei meccanismi di controllo del dolore senza alcuna anormalità strutturale rilevabile. Mentre precedenti definizioni, suggerivano l’intervento causale diretto della contrazione muscolare e/o di particolari stati psicologici, attualmente si ipotizza una genesi multifattoriale della cefalea tensiva, basata sia su meccanismi periferici che centrali.

Le cefalee primarie rappresentano un disturbo molto frequente in ambito pediatrico.

Negli ultimi anni, l’interesse crescente è derivato non solo dalla constatazione che questa affezione colpisce dall’8 al 60% dei bambini in età scolare, ma anche dall’osservazione che l’80% degli adulti affetti da emicrania ha cominciato a soffrire di mal di testa nell’infanzia.

Solitamente questi pazienti assumono molteplici terapie farmacologiche per periodi che possono variare da qualche mese a numerosi anni. Questo aspetto pone problematiche rilevanti considerando la giovane età dei pazienti e gli effetti collaterali associati alla terapia. L’utilizzo di trattamenti non farmacologici in età pediatrica, potrebbe nascere dall’esigenza di avere una terapia scevra da effetti collaterali; questi, tuttavia, non possono essere visti solo come un’alternativa ad un intervento di tipo farmacologico, in quanto l’utilizzo di farmaci non preclude la possibilità di far ricorso a tali interventi. La facilità dei giovani pazienti cefalgici di apprendere tecniche di rilassamento e la mancanza di effetti collaterali, fa sì che queste possano essere considerate una terapia di prima scelta (Linee guida per la diagnosi e la terapia della cefalea giovanile; SISC, 2003).

Il trattamento delle cefalee: il biofeedback

Tra le tecniche utilizzate nel trattamento non farmacologico delle cefalee va sicuramente annoverato il Biofeedback.

In letteratura già diversi studi hanno valutato l’efficacia del Biofeedback:
1) 1970: Budzynski: prima dimostrazione di efficacia del Biofeedback elettromiografico (EMG Biofeedback).
2) 1978: l’American Headache Society (AHS) riconosce il Biofeedback come una valida terapia per la cefalea.
3) 1980: Blanchard & Andrasik: Migraine and Tension Type Headache: a meta-analytic review
4) 1999: Goslin et al.: Behavioral and physical treatments for migraine headache. Technical review 2.2 (AHRQ)
5) US Headache Consortium (Campbell et al., 2000) ha assegnato il grado più elevato di evidenza (“A”) al biofeedback termico ed elettromiografico per il trattamento e la prevenzione dell’emicrania,  combinato con tecniche di Rilassamento e training di tipo Cognitivo Comportamentale nella gestione dello stress.
6) 2001: McCrory: Behavioral and Physical treatment for Tension-Type and Cervicogenic Headache
7) Anche i bambini e gli adolescenti sono ottimi candidati per questo approccio terapeutico (Hermann & Blanchard, 2002); il biofeedback elettromiografico e termocutaneo ha dato prova di efficacia nei bambini e adolescenti in numerosi studi scientifici e metanalisi (Andrasik et al., 2002).
8) Secondo le più recenti rassegne e metanalisi di studi scientifici (Nestoriuc et al., 2007), il biofeedback è un trattamento efficace e specifico per la cefalea tensiva (livello “5”, il più elevato), ed è una opzione efficace di trattamento per l’emicrania (livello “4”).

Per quanto riguarda l’ambito pediatrico, già dagli anni ’80 si riscontrano alcune evidenze scientifiche riguardo l’efficacia del trattamento di Biofeedback nelle cefalee infantili, tuttavia gli studi sono ancora estremamente esigui ed il contributo clinico in Italia scarseggia allo stesso modo.

Ma capiamo meglio di cosa si tratta, cos’è il Biofeedback?

Il termine Biofeedback deriva dall’unione di due parole :“Biological feedback”, che possiamo tradurre letteralmente come “retroazione biologica”.
Il Biofeedback è, infatti, un’apparecchiatura elettronica composta da una centralina a cui si collegano un numero di elettrodi sufficienti per rilevare le variabili fisiologiche di cui il clinico necessita. Le variabili, in ambito psicologico, che si possono misurare tramite questo strumento sono: tensione muscolare, conduttanza cutanea, temperatura corporea, frequenza cardiaca e frequenza respiratoria. Il Biofeedback risulta estremamente efficace nel controllare il dolore e ridurre il livello di stress ed ansia che ogni persona può presentare in differenti momenti della vita, aiutando ad apprendere nuove modalità di risposta alle situazioni stressanti.

Tramite questa tecnica le modificazioni fisiologiche vengono registrate e tradotte in un segnale acustico o visivo, il quale offre al soggetto il feedback dell’attività di una propria funzione biologica. L’idea di base nell’addestramento in biofeedback è quella di usare dei rilevatori elettronici al fine di far vedere che cosa stia succedendo all’interno del proprio corpo, istante per istante, fornendo un aiuto tangibile (feedback) nel comprendere se si stia apprendendo, nel modo corretto, il rilassamento come nuova risposta anti-stress. È quindi una forma di apprendimento che si ottiene premiando la persona ogni volta che riesce ad abbassare le attivazioni disfunzionali del proprio corpo.

Con un opportuno training la persona diventa capace di autoregolare le proprie risposte fisiologiche ed emozionali alle situazioni stressanti.

Cosa accade nella pratica quando si usa il biofeedback?

Durante una seduta di Biofeedback, gli elettrodi vengono posizionati in alcune parti del corpo del paziente, come le dita delle mani, la fronte, il collo o altre zone del corpo, in maniera non invasiva, in base alle necessità individuali. Il paziente, quindi, in un tempo che varia da 30 a 60 minuti, vedrà su uno schermo collegato all’apparecchiatura centrale, delle immagini animate o ascolterà un suono, che rappresentano alcuni dei feedback a disposizione, al fine di prendere consapevolezza ed imparare a distinguere e riconoscere la presenza di uno stato di tensione da uno di rilassamento, per poi apprendere a modificarli volontariamente.

L’impostazione del training segue quattro momenti fondamentali, di durata flessibile: valutazione diagnostica, acquisizione, stabilizzazione e generalizzazione.

Le tipologie di Biofeedback maggiormente utilizzate nelle cefalee sono:
TH-BFB: Thermal Biofeedback: Consente un aumento della vasodilatazione periferica (Sargent, 1973; Blanchard et al., 1982; Balnchard e Kim, 2005). Secondo numerose evidenze scientifiche, infatti, la presenza di cefalea, in particolare di tipo emicranico, può essere causata da una difficoltà della temperatura corporea, caratterizzata da una differenza termica superiore a 1 grado centigrado tra la parte centrale e quella periferica del corpo (per esempio fronte e mani) che risulta essere sempre inferiore e quindi caratterizzata da una vasocostrizione.
EMG-BFB: Elettromiografic Biofeedback: Consente una riduzione della tensione muscolare a livello frontale (Budzynski,1973; Grassi and Bussone,1993; Rokicki, 2003).

L’utilizzo del Biofeedback con i bambini

Erroneamente, si tende a considerare il bambino come un piccolo adulto. Questo porta, molto spesso, a fare delle valutazioni non adeguate sui piccoli soggetti, sebbene le linee guida delle varie società scientifiche internazionali, che fanno riferimento agli studi di meta analisi, siano piuttosto rigide al riguardo. Infatti, il sistema maturativo cerebrale e neurobiologico nel bambino non si è ancora completato, e questo comporta un intervento specifico e mirato per ogni piccolo paziente, strettamente correlato con l’età di esordio della cefalea.

Trattandosi di bambini, l’uso dei farmaci è sconsigliato, se non in casi in cui il dolore diventa invalidante. In tali circostanze, più comunemente, si ricorre all’utilizzo degli analgesici (più comunemente all’ibuprofene), che consentono di alleviare il dolore e permettono al bambino di ritornare alle sue attività. Se l’ibuprofene risulta essere alquanto efficace nelle fasi acute delle cefalee muscolo-tensive, il paracetamolo, viene prevalentemente impiegato nei casi di emicrania. Laddove il caso lo richieda, si procede con una terapia di profilassi, volta a stabilizzare la situazione di dolore e invalidazione in cui si trova il piccolo paziente.

Nonostante i farmaci abbiano dimostrato un’efficacia terapeutica mediate la riduzione del dolore, delle frequenza e della durata dei sintomi, comportano una serie di effetti collaterali, che per un bambino possono rivelarsi importanti, considerata la giovane età. L’utilizzo, quindi, di una terapia farmacologica in età pediatrica sembra essere fortemente sconsigliata.

Per i motivi sopra elencati, negli ultimi anni, si sono incrementati gli studi riguardanti le terapie non farmacologiche nelle cefalee infantili. Tali studi hanno evidenziato la probabilità che la procedura del biofeedback possa essere una valida modalità di gestione del dolore.

I primi studi sull’efficacia del biofeedback nel trattamento della cefalea risalgono agli anni ’70 (Budzynski et al., 1970; Sargent et al., 1972) e si focalizzano sulla tecnica elettromiografica o di controllo della temperatura distale. Attualmente gli approcci a disposizione sono numerosi e differenti.

Negli ultimi 30 anni, infatti, la ricerca ha fornito consistenti ed indiscutibili prove di efficacia relativamente all’impiego del Biofeedback nelle cefalee.
A tale proposito, il prestigioso US Headache Consortium (Campbell et al., 2000), in virtù della sua efficacia, ha assegnato il grado più elevato di evidenza (“A”) al Biofeedback termico ed elettromiografico per il trattamento dell’emicrania. Questa procedura risulta essere ancora più efficace se combinata con tecniche di Rilassamento e training di tipo Cognitivo Comportamentale, utili nella gestione dello stress.

Una recente metanalisi (Nestoriuc et al., 2008) ha messo a confronto 53 ricerche, condotte a partire dagli anni 70, sull’efficacia dei vari protocolli di biofeedback nel trattamento della cefalea tensiva. Tale procedura è risultata essere un trattamento totalmente efficace e specifico per la cefalea tensiva (livello “5”, il più elevato), ed una valida scelta nell’emicrania (livello “4”).

Da questo imponente studio, condotto con una metodologia di analisi esemplare, sono emersi dati molto chiari: il biofeedback  presenta un’incisività che si colloca nel range medio-alto a seconda del protocollo utilizzato, in particolare il Biofeedback elettromiografico ottiene il grado di efficacia più elevato.

I bambini e gli adolescenti sembrano poter divenire ottimi candidati per questo approccio terapeutico (Hermann & Blanchard, 2002): numerosi studi scientifici e di metanalisi hanno, infatti, dimostrato la validità del biofeedback elettromiografico e termocutaneo all’interno di vari campioni di giovane età (Andrasik et al., 2002).

In linea generale, tale procedura permette ai piccoli pazienti di gestire il dolore, grazie alla possibilità di ricevere in modo immediato e diretto le informazioni riguardanti le proprie funzioni fisiologiche. Inoltre, permette ai pazienti di aumentare o assumere, talvolta, la consapevolezza della distinzione esistente tra tensione e rilassamento muscolare nei vari distretti. Educando le persone a controllare quelle funzioni fisiologiche che sono indipendenti dalla loro stessa volontà, le si può aiutare a modificarle, segnalando, talvolta, la presenza di una relazione tra esse e le emozioni. Sia il segnale acustico che visivo, possono rilevare chiaramente l’esistenza, ad esempio, di una situazione di ansia non riconosciuta. Per questo motivo, l’impiego della tecnica di biofeedback potrebbe risultare indicata anche nei bambini che presentano un dolore causato o peggiorato da modifiche fisiologiche associate a stati di tensione e stress.

Nel 1985 Attanasio e colleghi ne individuarono i vantaggi in ambito pediatrico, rispetto agli adulti. I ricercatori hanno evidenziato come i bambini siano maggiormente entusiasti, meno scettici e imparino più rapidamente rispetto agli adulti. I piccoli individui selezionati esprimono una fiducia maggiore nelle proprie abilità rispetto agli adulti, hanno esperienza di scarsi insuccessi, si divertono e riescono più facilmente a controllare il sintomo.

I ricercatori hanno, inoltre, dimostrato come il biofeedback rappresenti uno strumento di grande efficacia clinica nell’età pediatrica, nonostante i tempi di attenzione siano certamente ridotti e possano verificarsi dei timori verso una strumentazione elettronica sconosciuta.

In conclusione, possiamo, quindi, affermare che il biofeedback, grazie alla sua totale assenza di effetti collaterali, potrebbe essere uno strumento indicato nell’età pediatrica per fronteggiare un disturbo sempre più incidente ed invalidante della nostra società: la cefalea primaria. Grazie agli studi di efficacia, si ipotizza che il Biofeedback possa fornire al bambino l’apprendimento di un’abilità di gestione e controllo del dolore che consente una riduzione della tensione muscolare ed un’azione diretta di modifica della frequenza dell’attacco cefalgico.

Come accade per altre problematiche, potrebbe risultare indicato avvalersi di un intervento multidisciplinare, dove l’utilizzo del biofeedback venga integrato ad un approccio psicoterapeutico che consenta di individuare e modificare i principali fattori scatenanti e di mantenimento, gli stili di vita, gli eventi stressanti e tutto ciò che risulti essere coinvolto nella formazione, conservazione e aggravamento delle cefalee pediatriche.

Digital Detox: nudging e uso consapevole dello smartphone

L’incremento nell’utilizzo dello smartphone appare una reazione fisiologica al progresso tecnologico ma al contempo sembra comportare un peggioramento della nostra salute, talvolta compromettendo anche gli equilibri biologici del nostro organismo.

 

La scelta è chiara: o non facciamo nulla e permettiamo che un futuro deprimente e probabilmente catastrofico abbia il sopravvento su di noi, o utilizziamo la nostra conoscenza sul comportamento umano per creare un ambiente sociale nel quale vivere una vita produttiva e creativa e dobbiamo farlo senza mettere in pericolo le opportunità di coloro che ci seguiranno di poter fare lo stesso (B.F Skinner)

 

Se dovessimo chiedere ad adolescenti, ragazzi universitari o adulti quanto tempo dedicano quotidianamente a utilizzare i loro dispositivi digitali (smartphone, tablet o pc) risponderebbero: “poco, abbastanza, molto” senza avere una reale percezione del tempo effettivamente trascorso. Un analista del comportamento potrebbe consigliar loro di conteggiare il tempo di utilizzo di tali dispositivi, per scoprire che su sedici ore di veglia almeno sei sono mediamente dedicate al mondo digitale. Se le moltiplichiamo per tutti i giorni di una settimana, diventa facile farsi un’idea della rilevanza del fenomeno e di quanto la tematica delle dipendenze digitali sia degna di attenzione.

Secondo le indagini condotte da Flurry (USA), società impegnata nelle ricerche di mercato globale, in media ciascun utente utilizza lo smartphone 2 ore e 38 minuti ogni giorno per controllare messaggi, partecipare alle attività dei social network o giochi online. Gli utenti che utilizzano lo smartphone, in media, appaiono online più di 80 volte al giorno, questo vuol dire che essi utilizzano il proprio dispositivo mobile circa ogni 12 minuti.

Prendendo in considerazione le informazioni riportate dal sito “we are social”, il quale si occupa di raccogliere i dati relativi all’utilizzo dei canali social, dei dispositivi mobili e di tutto ciò che riguarda il mondo digitale a livello globale e dei singoli mercati, è possibile osservare un incremento di più del 10% nell’utilizzo dei dispositivi digitali nell’ultimo anno in Italia. I dati mostrano molto chiaramente, come si tenda per altro a usare sempre meno il pc, e sempre di più lo smartphone per visitare le pagine web. Facebook risulta essere il canale social più utilizzato (più di 1.5 miliardo di utenti attivi nel mondo), ma è in enorme crescita l’utilizzo di servizi di messaggistica istantanea quali Whatsapp Facebook Messanger, Snapchat, ecc.

Tale tendenza a essere sempre più “social” ci porta a riflettere sugli effetti positivi e negativi che il digitale ha apportato nella vita quotidiana. Come afferma il ricercatore della Microsoft, Nancy Baym, se da un lato gli smartphone hanno reso la comunicazione più veloce, avvicinato le persone ai loro amici e ridotto l’impiego di energie precedentemente investite dall’uomo nel processo di comunicazione, dall’altro, studi recenti fanno riflettere notevolmente sulle ripercussioni negative che essi hanno introdotto a livello biologico e psicologico. Gli smartphone hanno portato l’uomo gradualmente a sentirsi intrappolato, come al guinzaglio, con il costante obbligo di essere sempre disponibile e comunicare il proprio status, ovunque egli sia (Choliz, 2010).

Osservando i criteri del Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, attualmente più che di crescita digitale, è possibile parlare di disturbo da abuso della rete telematica, l’Internet Addiction Disorder (IAD). Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, con importanti ripercussioni sulle principali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva (DSM V, APA 2014).

I classici sintomi di dipendenza digitale sono: preoccupazione elevata verso il dispositivo in termini di localizzazione e di notizie presenti su di esso, uso eccessivo con conseguente perdita di controllo, utilizzo del mobile in situazioni socialmente inappropriate ed effetti negativi sulle relazioni, ansia di stato se i social non sono funzionanti o non si ottiene risposta dal ricevente, emissione di comportamenti ripetuti e compulsivi nel toccare il touch screen (Guades E.,2016). La società di ricerca di mercato Braun Research, nello studio condotto per la Bank of America (2016) attraverso un sondaggio telefonico su 1004 persone di almeno 18 anni di età, ha riscontrato che il 59% dei consumatori possiede uno smartphone. Le persone controllano compulsivamente i loro dispositivi mobili per paura di perdere un “aggiornamento sociale” o come fonte di autosoddisfazione e tale comportamento non è circoscritto a un contesto specifico.

L’utilizzo dello smartphone è presente in attività quali mangiare, partecipare alle riunioni, attraversare la strada, guidare, dormire, ecc. Il 70% della popolazione controlla il proprio cellulare prima di andare a letto e al risveglio. Il 32%, ammette di controllare il proprio dispositivo se si sveglia durante la notte. Il 61% lo usa anche in bagno e il 9% di loro riferisce di averlo fatto cadere almeno una volta nella toilette. I dati riportati dal sito B2C mostrano che il 35% della popolazione statunitense utilizza lo smartphone mentre gioca con i propri figli, il 36% mentre usufruisce dei trasporti pubblici, il 37% mentre è a una festa e il 36% mentre è al ristorante o durante momenti di aggregazione.

Secondo l’ISTAT (2013), nel contesto italiano 81 persone su 100 della popolazione comprese tra i 16 ed i 24 anni utilizzano internet tutti i giorni, o quasi tutti i giorni. Di questa fascia: l’84,9% partecipa ai social network, il 76,1% invia messaggi su chat, blog, forum e altri siti affini, il 74,2% spedisce o riceve email e il 70,5% consulta wiki. Mentre, le restanti attività, come telefonate in rete, videochiamate, partecipazione a siti politici sensibili a temi sociali o altro analogo, e partecipazione a votazioni o consultazioni hanno invece una minor frequenza percentuale (ISTAT, 2013).

L’incremento nell’utilizzo dello smartphone appare una reazione fisiologica al progresso tecnologico ma al contempo sembra comportare un peggioramento della nostra salute, talvolta compromettendo anche gli equilibri biologici del nostro organismo. Tra gli “effetti collaterali” emergono: depressione, deficit di attenzione, sintomi somatici, aggressività, compromissione della qualità del sonno (Lee et al., 2014; Thomèe et al., 2011; Ozguner et al., 2005; Elder, 2013; Lepp, 2014).

La tendenza a iper-utilizzare i dispositivi digitali ha inoltre preso piede nei momenti destinati all’aggregazione e all’interazione sociale, durante una cena al ristorante o un dopocena in un locale, riducendo considerevolmente le interazioni tra le persone presenti, l’impegno nella relazione e l’arricchimento personale (emotivo, affettivo, esperienziale) che ne deriverebbe (Greser, 2006). Coloro che non utilizzano lo smartphone nei luoghi pubblici o nei momenti di aggregazione, inoltre, risultano maggiormente empatici (Misra et. al., 2016). L’utilizzo del motore di ricerca “Google”, consultato per qualsiasi quesito o perplessità conduce verso “conversazioni killer” in cui è assente l’interazione faccia a faccia e lo scambio di opinioni. Non sempre le informazioni inoltre sono vere, nel web è semplice imbattersi in informazioni distorte. Sulla base di tali considerazioni, sembra opportuno parlare di disintossicazione digitale come aiuto alle persone nel ridurre la frequenza di utilizzo del proprio smartphone. La disintossicazione dai dispositivi digitali è fondamentale per aprire gli occhi, conoscersi, dare il buon esempio, partecipare, proteggersi, ascoltare, gustare, condividere, giocare, evitare conversazioni killer, migliorare la postura e la qualità del sonno.

È importante in quest’ottica comprendere come l’utilizzo pervasivo e disfunzionale di tali dispositivi possa essere influenzato in maniera importante da fattori contestuali. Daniel Kahneman, psicologo Israeliano e Premio Nobel per l’Economia nel 2002, mette bene in luce nel suo lavoro come l’ambiente in cui ci si muove possa esercitare un’importante influenza sulle nostre scelte, che ne siamo consapevoli o meno (Kahneman, 2012).

Il meglio che si può fare è strutturare contesti che promuovano comportamenti funzionali per il benessere individuale e sociale. Il Nudge, tradotto in italiano come “spinta gentile”, ci viene incontro in tal senso. L’obiettivo di questo approccio è quello di indirizzare le persone verso scelte il meno possibile distorte da bias, ovvero errori sistematici ai quali la maggior parte degli individui è sensibile. A tal fine, l’utilizzo di un’accurata “architettura delle scelte”, ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo, può essere utile per modulare alcuni comportamenti, senza l’utilizzo di incentivi economici o punizioni e senza precludere la libertà di scelta. (Thaler & Sunstein, 2009).

Nei mesi di Aprile e Maggio del 2016, osservando i comportamenti delle persone all’interno di contesti adibiti alla socializzazione, quali ristoranti e pub, il team di ricerca di Nudge Italia, ha sviluppato un intervento di nudging in due locali Milanesi con l’obiettivo di ridurre la frequenza di utilizzo degli smartphone tra i clienti dei locali che hanno ospitato l’iniziativa.

A tale fine sono state posizionate sui tavoli dei locali scatole di legno all’interno delle quali era possibile inserire i propri smartphone. All’esterno di ogni scatola sono stati inoltre applicati adesivi con la scritta “Sei davvero social? #posalo”, invitando i clienti a lasciare al loro interno i dispositivi digitali (vedi immagini). È stata dunque monitorata la frequenza di utilizzo degli smartphone prima e durante l’intervento. Nel corso dell’osservazione preliminare si è rilevato che il 25% dei clienti utilizzava il proprio smartphone, percentuale scesa al 15% durante la fase sperimentale.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_1

 

Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_2

 

Disintossicazione digitale l'intervento di Nudge per ridurre l'uso dello Smartphone_3

Le scatole in legno sui tavoli dei locali che hanno aderito all’iniziativa per ridurre l’uso dello smartphone

L’iniziativa ha fatto leva sull’effetto gregge, la tendenza a preferire l’appartenenza al gruppo e comportamenti coerenti a quelli dei propri simili, utilizzando il comportamento degli altri come metro di paragone su come sia appropriato o non appropriato agire (Sunstein, 2014). Infatti, l’intervento di nudge ha strutturato il contesto in modo che fosse in evidenza il comportamento sociale che si riteneva il “modello desiderabile”. La modificazione del contesto (presenza della scatola riponi smartphone sui tavoli) e la scelta di una persona seduta al tavolo di riporre all’interno della scatola il proprio smartphone, ha reso più probabile l’emissione quello stesso comportamento da parte degli altri membri della tavolata. Inoltre la presenza e la salienza della scritta con l’immagine del dispositivo ai lati della scatola ha permesso di rendere visibili e immediatamente accessibili le informazioni necessarie a orientare l’attenzione delle persone sedute ai tavoli verso una determinata opzione/informazione.

Adulti e nuove generazioni mostrano quindi di essere tecnologicamente sempre connessi perdendo contatto con la realtà circostante, come dimostrato dalla letteratura (Srivastava, 2005). Questo semplice esperimento ha dimostrato come piccoli interventi di modificazione intenzionale dei contesti di vita possano supportare un uso più consapevole dei propri dispositivi, funzionale a non impattare aspetti fondamentali per il benessere, come le interazioni e relazioni sociali, e a non incorrere in una dipendenza.

Quali sono i bisogni delle persone che soffrono di demenza?

Tom Kitwood e il gruppo di Bradford individuano un cluster di bisogni, fondamentali nella persona con demenza. Essi affermano che esista un bisogno onnicomprensivo nelle persone affette da questa malattia: il bisogno di amore, ovvero di un’accettazione generosa e incondizionata, senza alcuna aspettativa di una ricompensa diretta.

 

I bisogni più marcati delle persone che soffrono di demenza

In psicologia, con il termine bisogno si indica la mancanza, totale o parziale, di uno o più elementi importanti per il benessere della persona. Il bisogno è generalmente determinato da una condizione di squilibrio organismico, che produce quella spinta alla base dei comportamenti diretti al soddisfacimento e a ripristinare l’equilibrio mancante.

Tom Kitwood e il gruppo di Bradford individuano un cluster di bisogni, fondamentali nella persona con demenza. Essi affermano che esista un bisogno onnicomprensivo nelle persone affette da questa malattia: il bisogno di amore, ovvero di un’accettazione generosa e incondizionata, senza alcuna aspettativa di una ricompensa diretta.

Il modello proposto individua, inoltre, cinque importanti bisogni che convergono nel bisogno centrale di amore. I bisogni individuati, presenti in tutti gli esseri umani, sembrano essere più marcati nelle persone con demenza, in quanto più vulnerabili e meno abili nell’intraprendere delle azioni volte al loro soddisfacimento.

  • Conforto
    Confortare una persona vuol dire fornire quel calore e forza che potrebbe consentirle di non andare in pezzi quando è in pericolo o sul punto di crollare”. Nella demenza è probabile che questo bisogno sia particolarmente forte quando la persona affronta un senso di perdita, quando è reduce da un lutto, dall’indebolimento delle proprie capacità o dalla fine di un modo di vivere che sembrava ormai consolidato.

 

  • Identità
    Possedere un’identità significa sapere chi si è a livello sia cognitivo che affettivo. Significa avere un senso di continuità con il passato e quindi una storia da raccontare agli altri. In qualche misura l’identità si forma anche dal confronto con gli altri, i quali trasmettono continuamente alla persona sottili messaggi sulla sua prestazione. Si può fare molto per preservare l’identità della persona, anche in presenza di decadimento cognitivo. Due cose sembrano essenziali: conoscere la storia di vita dell’individuo ed essere empatici, rispettando l’unicità del suo essere.

 

  • Essere occupati
    Essere coinvolti in modo personalmente significativo nelle attività che generano piacere. Il contrario è uno stato di noia e apatia. Le capacità delle persone deprivate di ogni occupazione si atrofizzano e ciò si ripercuote sulla propria autostima. Nella persona con demenza il bisogno di occupazione si manifesta nella voglia di dare il proprio contributo. Per soddisfare questo bisogno si rivela fondamentale una buona dose di creatività e la conoscenza del background della persona, e in particolare delle sue fonti più importanti di soddisfazione.

 

  • Inclusione
    Il bisogno di inclusione è radicato nella natura sociale dell’uomo; l’appartenenza al gruppo ha consentito alla specie di evolversi, in quanto essenziale per la sopravvivenza dell’uomo.
    La vita sociale delle persone con demenza tende a ridursi col progredire della malattia. Se questo bisogno non viene soddisfatto è facile che una persona peggiori e si ritiri. Soddisfare questo bisogno, vuol dire, invece, rendere la persona partecipe alle azioni e darle nuovi significati e ruoli.

 

  • Attaccamento
    Tutti gli individui, sin dalla prima infanzia, mostrano un forte bisogno di avere una base sicura a cui rivolgersi in caso di incertezza e a cui attingere per ricevere calore (J. Bowlby). La perdita di una figura di attaccamento primario mina fortemente il proprio senso di sicurezza. Questo bisogno è attivo tutta la vita e perdura nella malattia; può addirittura essere forte come nella prima infanzia in quanto la vita della persona con demenza può essere sovrastata da incertezze e ansie, poiché si trovano spesso in situazioni che sperimentano come ambigue e poco definite, ciò attiva fortemente il loro bisogno di avere accanto una persona che funga da base sicura.

Il soddisfacimento di anche uno solo di questi bisogni porta, in qualche misura, al soddisfacimento degli altri.
L’attenzione a questi bisogni fa parte di un modello più ampio, definito Approccio di cura centrato sulla persona (PCC, Person Centred Care) proposto da Tom Kitwood e dai suoi collaboratori. L’ipotesi di fondo della PCC è la seguente: pur nella consapevolezza che la compromissione neurologica sia la causa principale della demenza, Kitwood ritiene che siano molti altri i fattori che incidono profondamente sul vivere quotidiano della singola persona che ne è affetta; e su come agisce, sente e pensa. Compito principale di chi si prende cura della persona è mantenere la personhood (l’essere persona nel suo senso più completo), nonostante il decadimento delle funzioni cognitive (Faggian et al., 2013).

 

Le memorie traumatiche e il fenomeno dell’oblio

Le memorie traumatiche si distinguono dalle memorie normali perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti, sono immodificabili nel tempo e sono automaticamente portate alla luce con modalità particolari, come ad esempio tramite incubi e flashback.

 

Come funziona la memoria e l’oblio delle informazioni immagazzinate

Quando si pensa alla memoria, viene in mente qualcosa che ha che fare con dati immagazzinati in seguito ad esperienza ed apprendimento e dunque possano semplificare la nostra vita quotidiana: il ricordo di numeri di telefono, di date ed eventi particolari, sono solo un esempio.

Oltre alla memoria in senso quantitativo (immagazzino di informazioni), si pensa anche alla capacità di sfruttare le conoscenze strategiche che abbiamo, per risolvere i problemi che ci capita di incontrare quotidianamente. Nell’esperienza quotidiana di chiunque, non si può fare a meno di constatare come alle volte, la memoria non sia efficace. L’insuccesso mnestico, può essere temporaneo o definitivo: nel secondo caso è anche possibile dimenticare completamente, oppure ricordare in maniera confusa e del tutto insoddisfacente persino concetti che erano stati studiati a fondo con grande dispendio di tempo e di energie.

La prima ricerca sull’oblio, è stata condotta dallo studioso tedesco H. Ebbinghaus (1885-1923) che, usando se stesso come soggetto dell’esperimento, apprese un numero sterminato di liste di sillabe senza significato, per verificare quante ne avrebbe dimenticate col passare del tempo.
Per spiegare tale fenomeno, ha proposto la “teoria dell’interferenza”, secondo la quale non sarebbe il tempo ad essere il fattore principale responsabile dell’oblio, bensì l’interferenza che si crea quando ricordi diversi sono associati ad uno stesso elemento. Quando l’apprendimento pregresso (passato) interferisce con il nuovo apprendimento, si parla di “interferenza proattiva”; quando invece è l’apprendimento successivo ad alterare l’apprendimento pregresso, si parla di “interferenza retroattiva”.

Altra ipotesi sviluppata da Ebbinghaus è quella relativa al “mancato immagazzinamento”, per cui alcune informazioni vengono dimenticate in ragione del fatto che non sono mai passate nella memoria a lungo termine. Per spiegare tale fenomeno l’autore ha fatto ricorso al concetto di “consolidamento”, secondo il quale esisterebbero processi biologici che renderebbero stabile una traccia di memoria. Nel momento in cui questi processi vengono in qualche modo contrastati l’informazione presente nella memoria di lavoro non passerebbe nella memoria a lungo termine e verrebbe persa.

Secondo E. Tulving (1974), in aggiunta esisterebbero due tipi di oblio: “l’oblio traccia-dipendente”, nel quale l’informazione non sarebbe più presente nella memoria e “l’oblio suggerimento-dipendente”, nel quale l’informazione troverebbe ancora nella memoria, ma non sarebbe accessibile.

In un’ottica psicoanalitica, d’altro canto S. Freud ha enfatizzato l’importanza dei fattori emotivi e difensivi nell’oblio. Egli sostenne che ricordi angoscianti, avvertiti come minacciosi o causanti ansia, spesso non riescono ad accedere alla sfera della consapevolezza, per ragioni difensive: Freud denominò tale fenomeno “rimozione”.

Appare quindi evidente che il ricordo percorre strade molto soggettive e variegate: a volte affiora nella mente qualcosa di vago, altre volte di molto preciso; altre volte ancora dalla memoria qualcosa che è stato rimosso al fine di difendere la struttura psichica di chi è in possesso dell’esperienza penosa, apparentemente dimenticata: le memorie traumatiche.

Che cosa sono le memorie traumatiche?

Le memorie traumatiche si distinguono dalle memorie normali perché sono composte da immagini, sensazioni, comportamenti, sono immodificabili nel tempo e sono automaticamente portate alla luce con modalità particolari, come ad esempio tramite incubi e flashback. Inoltre, mentre le memorie di eventi ordinari perdono chiarezza con il tempo, alcuni aspetti degli eventi traumatici sembrano fissarsi nella mente rimanendo inalterati nel tempo.
Esse sono rintracciabili in un’estesa serie di fenomeni che solo in parte possono essere ricondotti all’ambito della psicopatologia.

Le memorie traumatiche variano così da forme di “non conoscenza”, in cui l’esperienza del trauma è disconnessa e inaccessibile al ricordo ma nondimeno permea le strategie di difesa e adattamento, a stati di dissociazione in cui il trauma viene rivissuto piuttosto che ricordato, a frammenti di ricordo decontestualizzati e apparentemente privi di senso, alla messa in atto di ripetizioni nelle relazioni oggettuali e nei temi di vita, per arrivare alla possibilità di racconto, testimonianza e metaforizzazione.

Si osserva, che alcune forme di memorie traumatiche non sono connotate da un ricordare consapevole, ma implicano “derivati” più o meno organizzati che sono messi in atto.

Laddove il ricordo può essere evocato consapevolmente e l’evento può quindi essere narrato, assistiamo a livelli diversi di padronanza del ricordo stesso, in rapporto al grado di presenza dell’Io osservante e di integrità delle sue funzioni sintetiche ovvero alla capacità di storicizzazione dell’evento.
Nella sua forma più drammatica, il ricordo traumatico fa mostra di sé nei sintomi di reviviscenza.

Riproducono infatti gli eventi a cui si riferiscono con estrema vivacità e chiarezza, tanto da renderle drammaticamente reali e presenti.
Nella forma più drammatica ed estrema si tratta di vere e proprie visioni quasi allucinatorie della scena traumatica, che il soggetto rivive con intensa e penosa partecipazione emotiva; talvolta di pensieri ossessivi relativi al trauma, che emergono in modo acuto ed intenso occupando interamente il campo della coscienza del soggetto, il quale non riesce in alcun modo a sottrarvisi; assai spesso, infine, di sogni o incubi ripetitivi che riproducono variamente l’atmosfera traumatica.

L’evento traumatico e l’impatto emotivo che ha avuto nella psiche del soggetto, attivano una serie di meccanismi difensivi, oltre alla dissociazione, la rimozione e il diniego, finalizzati a ridurre la consapevolezza di un significato emotivo impossibile da sostenere.
Stanley Cohen scriveva: “La sofferenza rimossa non è veramente dimenticata rimane là da qualche parte, provocando distorsioni, stati patologici interiori e un comportamento simbolico generalmente deteriorato”.

Il “là” a cui si riferisce Cohen è naturalmente l’inconscio, nel quale i contenuti emotivi dell’evento traumatico, diversamente da quanto avviene per il suo ricordo cosciente, sembrano mantenere la sua forza originaria, e da cui emergono attraverso manifestazioni somatiche, causate da un ricordo, depositato nella memoria implicita, di un’esperienza traumatica che basta uno stimolo semplice, per attivare emozioni o sensazioni legate a quell’esperienza traumatica. Non è necessario che questi stimoli siano terrificanti, poiché qualunque sentimento o sensazione legata a un’esperienza traumatica, può fare da innesco nel richiamare la sensazione associata all’esperienza. Le amnesie traumatiche, che comportano l’assenza del ricordo o un ricordo differito dell’evento traumatico o di alcune sue parti, sono stati notati in seguito a incidenti o disastri naturali, a traumi da guerra, ad abusi fisici e sessuali. Quindi l’oblio, viene provocato da un evento traumatico, che ha la funzione di difendere la memoria, tramite amnesia transitoria o retrograda, caratterizzata da emozioni intense.

Il Baby Schema: anche bambini di etnie diverse elicitano accudimento e affetto

Alice Mado Proverbio e Valeria De Gabriele, della Bicocca di Milano, hanno pubblicato su Neuropsychologia un esperimento che offre una risposta: vince il “baby schema”. Diciassette studenti caucasici erano automaticamente attratti dalle facce dei bambini, di età tra sei mesi e tre anni, non importa a quale etnia appartenessero.

 Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su Il Corriere della Sera del 29 aprile 2017

 

Riconosciamo più velocemente le facce della nostra etnia. Per quanto si teorizzi, la tendenza alla discriminazione razziale è connaturata negli umani, e si attiva rapidamente. Negarla non aiuta a superarla. Un altro dato confligge con questo: riconosciamo i neonati come creature tenere, di cui prenderci cura. Gli psicologi lo chiamano “baby schema” e fonda il comportamento innato, e evoluzionisticamente indispensabile, di accudimento. A quel punto i ricercatori si sono chiesti: se presentiamo ai soggetti di un esperimento le facce di neonati di altre etnie, quale meccanismo vince? Caratterizzano quei volti come: “stranieri” o “bambini teneri di cui prendersi cura?”.

Alice Mado Proverbio e Valeria De Gabriele, della Bicocca di Milano, hanno pubblicato su Neuropsychologia un esperimento che offre una risposta: vince il “baby schema”. Diciassette studenti caucasici erano automaticamente attratti dalle facce dei bambini, di età tra sei mesi e tre anni, non importa a quale etnia appartenessero.

La ricerca effettuata è preliminare, diciassette studenti caucasici non sono sufficienti per generalizzare i risultati, ma il dato è di rilievo. Da un lato ricorda che percepire volti di etnie diversa dalla nostra comporta attivazione automatica di pregiudizio. Dall’altro suggerisce che se mettiamo in contatto adulti con bambini di un’altra etnia, di meno di tre anni, non c’è confine che tenga, la tendenza è a volergli bene. Dopo i tre anni non sappiamo, mentre dopo i sette va sparendo la tendenza a considerare una faccia come ‘da bambino’. Chi si occupa di adozione internazionale può trarre vantaggio da questo studio: sbrigatevi quando c’è da affidare un bimbo. La velocità della pratica può favorire un legame più solido in cui l’affetto prevale sulla differenza.

Gerascofobia e ricorso alla chirurgia estetica nella terza età: caratteristiche psicologiche predisponenti

La gerascofobia è definita come la paura persistente, anormale e ingiustificata di invecchiare. Essa è generalmente classificata tra le fobie specifiche e può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi durante la vecchiaia e questo a volte induce al ricorso alla chirurgia estetica. 

Giuseppina Ferrer, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

«Ora, ovunque andiate, voi incantate il mondo. Sarà sempre come oggi?» (Da “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde).

Il ritratto di Dorian Gray e la paura di invecchiare

Dorian Gray, protagonista del celebre romanzo di Oscar Wilde scese a patti con il proprio divenire: lo specchio gli avrebbe rimandato ciò che era stato in giovinezza, il quadro ciò che diventava invecchiando. E’ il tempo, con il suo scorrere lento e inesorabile, che diviene fantasma così doloroso da dover essere negato; Dorian Gray rappresenta l’esempio per eccellenza di un meccanismo di negazione: nega il trascorrere del tempo e della morte in un continuo sforzo di superare ogni limite, biologico e personale. Il protagonista del celebre romanzo, non potendo pensarsi imperfetto, pregò il proprio ritratto di invecchiare al suo posto. Dorian Gray rappresenta, pertanto, l’emblema dell’ideologia dell’apparire che difficilmente può conciliarsi con l’essere se stessi.

Tale ideologia appare quanto mai attuale nella nostra società che vede sempre più il ricorso alla chirurgia plastica ed estetica quale strumento atto ad anestetizzare emozioni dolorose connesse alla naturale evoluzione del corpo umano. La gerascofobia (dal greco θα γεράσω invecchiare e φόβος fobia) è definita come la paura persistente, anormale e ingiustificata di invecchiare. Essa è generalmente classificata tra le fobie specifiche e può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi (definizione tratta da Wikipedia).

Nella gerascofobia, studiata fin dagli anni ‘60, frequente è la comorbilità con altri tipi di fobie e sintomi ansiosi, unitamente ad un sentimento di mancanza di realizzazione personale (Cesa-Bianchi M., 1987). Come avviene per le altre fobie specifiche, essa si associa spesso a quadri psichiatrici complessi.

Già nella cultura greca antica del VI secolo a.C., vi erano opinioni discordanti circa il tema della vecchiaia: Solone sosteneva come la vecchiaia fosse degna di essere vissuta in pienezza, permettendo di apprezzare i propri familiari, il valore del tempo che passa e le conoscenze acquisite nel corso della vita. Al contempo Mimnermo affermava “quando arriva la dolorosa vecchiaia, che rende turpe anche l’uomo bello, sempre dolorosi affanni lo sconvolgono nel cuore, né si rallegra a vedere i raggi del sole, ma nemico ai ragazzi, disprezzato dalle donne, così il dio rese la vecchiaia dolorosa…Ma non appena sia passata questa fine della stagione primaverile meglio morire che vivere”. Appare chiaro da questi frammenti come Mimnermo esalti i piaceri della giovinezza enumerando i mali della vecchiaia, che questi individua nel decadimento del corpo e dell’anima.

D’altra parte la senescenza è innanzitutto uno stadio naturale della vita che, in virtù del decadimento fisico e psicologico che essa comporta, rende la vita fragile e maggiormente esposta. Essa, benché si fantastichi sull’eterna giovinezza tanto agognata dalla ricerca scientifica, è parte ineliminabile della vita stessa. La vecchiaia è da sempre stata considerata l’età contemplativa per eccellenza, in cui l’attenzione per l’immagine corporea lascia spazio alla riflessione consapevole della saggezza tipica della veneranda età. Tuttavia non mancano, anche nel mondo letterario, esempi di scarsa accettazione di tale naturale condizione di vita: “Una vecchia che si veste come una giovinetta suscita il riso”, scrive Pirandello nel suo Saggio sull’Umorismo, che sottolinea come riflettendovi a fondo si possa in lei cogliere il fondo dolente, di umana sofferenza che dal riso lascia spazio alla compassione.

Quanto mai attuale appare l’immagine della “vecchia signora” di Pirandello in un’epoca che teme la vecchiaia e cerca spesso di negarla ad ogni costo.

Gerascofobia: i fattori psicologici che inducono il ricorso alla chirurgia estetica nella vecchiaia

La vecchiaia è oggi grande fenomeno di massa, divenuta oggetto di studio di medici, psicologi e scienziati, ciò anche in virtù del significativo aumento della “popolazione anziana”. Il fascino della bellezza fisica sta diventando sempre più centrale nella società odierna tanto che non sorprende che vi sia una crescente richiesta, anche in età avanzata, di interventi di chirurgia estetica.

Nel corso degli ultimi anni, stante la notevole diffusione di tali procedure chirurgiche, sono stati condotti numerosi studi volti ad approfondire il ruolo che i fattori psicologici esercitano nel ricorrere alla chirurgia estetica. Secondo l’American Society for Aesthetic Plastic Surgery nel 2013 negli Stati Uniti d’America sono stati effettuati oltre 11 milioni di interventi chirurgici (16,5%) e non chirurgici (83,5%), registrando un incremento di oltre il 279% rispetto all’anno 1997 (American Society for Plastic Surgery. Cosmetic Surgery National Data Bank. Statistics, 2013 New York). Nel 2013 le procedure chirurgiche erano la liposuzione, l’aumento del seno, blefaroplastica e addominoplastica. La percentuale di ultracinquantenni è del 23,9%, con un range di età che va dai 51 ai 64 anni.

La crescente frequenza di tali trattamenti chirurgici estetici può essere attribuibile a molteplici fattori: tra questi vi è l’evoluzione delle ricerca medica sul campo che ha reso le procedure chirurgiche sempre più sicure e meno invasive, significativo è anche il ruolo che i mass media attribuiscono ai canoni estetici di bellezza sempre più ideali. D’altra parte, numerose ricerche hanno dimostrato come l’insoddisfazione legata all’immagine corporea rappresenti il principale fattore predisponente al ricorso alla chirurgia estetica (Henderson-King, D. & Henderson-King, E. 2005; Di Mattei et al., 2014).

L’estrema insoddisfazione per l’immagine corporea è la caratteristica principale di diverse forme di psicopatologia tra cui il Disturbo di Dismorfismo Corporeo (Castle & Phillips, 2002). Una recente revisione della letteratura condotta da Mallick e colleghi (Mallick et al., 2008) ha dimostrato un’elevata percentuale di tale disturbo nelle popolazioni di pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, sia nei paesi americani che europei. In queste popolazioni si stima una prevalenza di Disturbo da Dismorfismo Corporeo che varia dal 13% al 28%. Altre ricerche sperimentali hanno messo in luce come, tra i pazienti che ricorrono ai trattamenti chirurgici estetici, si arrivi al 47,7% di incidenza di disturbi mentali.

In particolare, alcuni studi evidenziano un’elevata prevalenza di Disturbi di Personalità afferenti al Cluster B secondo la classificazione del DSM-IV tr (Belli et al., 2013). Sembra che il Disturbo di Personalità più frequente tra questi pazienti sia quello Narcisistico, che è stato rilevato nel 25% dei pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, mentre nel 9,7% dei casi si rileva la presenza di Disturbo Istrionico di Personalità (Mallick et al., 2008). A questo proposito, è bene tener presente come la prevalenza di Disturbi di Personalità di questo tipo si aggiri in popolazione generale attorno all’1,5% (Huang et al., 2009).

Oltre ai fattori personologici predisponenti sopra descritti è bene considerare come la senescenza si associ altresì alla cessazione delle attività lavorative, che talvolta comporta l’emergere di un vissuto di esclusione dalla vita sociale, associato a vissuti di ansia e frustrazione. Il pensionamento comporta cambiamenti radicali nell’assetto di vita di un individuo, e spesso viene vissuto in maniera ambivalente, da un lato con un senso di liberazione, dall’altro come profondamente destabilizzante, venendo a mancare le consuetudini ormai acquisite e consolidate.

Tale condizione può associarsi ad una deflessione del tono dell’umore con sentimenti di tristezza e vuoto; in tale nuovo assetto di vita, la persona può infatti ritrovarsi a contatto con se stesso, con i propri stati emotivi talora dolorosi, non potendo più servirsi del lavoro anche come strumento di distrazione e in un certo qual modo di “allontanamento” dalla parte più intima di sé. Sempre più spesso, infatti, nella società attuale si perseguono obiettivi professionali sempre più ambiziosi che comportano in alcuni casi un’attitudine all’iper-lavoro che lascia poco o nessuno spazio al contatto con i propri stati emotivi. Può quindi accadere che ciò avvenga, tutto ad un tratto, nella fase della senescenza e che la persona sia poco preparata a gestire tali stati emotivi. In tali condizioni è possibile che la persona, sguarnita di altri strumenti utili a gestire tali vissuti dolorosi, ricorra alla chirurgia estetica quale strategia auto-immunizzante utile a non entrare in contatto con gli stati emotivi dolorosi che possono accompagnarsi alla senescenza.

D’altra parte, qualora l’individuo ricorra ai trattamenti chirurgici estetici con un tale assetto psicologico, è probabile che permanga l’insoddisfazione rispetto all’immagine corporea o, più verosimilmente, un più generico vissuto di insoddisfazione che poco attiene alla sfera corporea, riguardando il mondo interiore dell’individuo. A questo proposito, alcuni studi hanno messo in luce il significativo aumento del rischio suicidario tra le donne che si erano sottoposte ad interventi chirurgici di aumento del seno (Brinton et al., 2001; Koot et al., 2003; Pukkala et al., 2003; Jacobsen et al., 2004; Villeneuve et al., 2006).

Benché le ricerche citate siano state condotte mediante differenti metodologie e su popolazioni cliniche eterogenee, esse giungono alla medesima conclusione: ovvero che vi sarebbe un rischio suicidario più elevato (poco più del doppio di quello trovato in popolazione generale) tra le donne che si sono sottoposte ad un intervento di chirurgia estetica mammaria. Malgrado la spiegazione di questi risultati rimanga incerta, studi precedenti indicano come possano esservi differenze significative tra le donne con protesi al seno rispetto a quelle appartenenti alla popolazione generale. Tra le prime si rilevano indici di massa corporea significativamente più bassi, un maggior tasso di fumo di sigarette (Kjoller et al., 2003), un maggior numero di aborti volontari (Fryzek et al., 2000), più bassi livelli di istruzione ed un maggior numero di screenings per problemi senologici (Brinton et al., 2000). Ulteriori differenze riguardano la prevalenza di Disturbi Mentali di Asse I e II, la cui incidenza sembra essere significativamente più elevata tra le donne che si sono sottoposte a chirurgia estetica mammaria, rispetto a quelle appartenenti alla popolazione generale (Mallick et al., 2008).
In conclusione, di tutte le sfide cui è sottoposto l’individuo nel corso del proprio percorso evolutivo, quella della vecchiaia è la più umana. L’uomo, infatti, lungi dall’arrendersi al trascorrere ciclico del tempo, gioca con la vecchiaia una complessa partita, anche mediante strategie di compensazione come quelle descritte.

Erikson riteneva che nel periodo della senescenza l’individuo raccoglie quanto seminato in precedenza, guardando al suo passato per fare un bilancio di quanto sia riuscito a perseguire dei propri obiettivi iniziali, cerca inoltre di comprendere ciò che la propria esistenza abbia per lui e per gli altri significato, valutando quanto tali conclusioni lo soddisfino. Qualora tale bilancio risulti positivo, l’individuo avrebbe la sensazione di aver speso adeguatamente la propria esistenza, riuscendo quindi a vivere serenamente la terza età. Nel caso in cui, tuttavia, il bilancio fosse negativo, essendo la persona poco soddisfatta di quanto vissuto, quest’ultima assumerebbe un’attitudine di rifiuto rispetto alla propria vita passata, di timore della morte e di negazione della vecchiaia stessa. In queste situazioni, dice Erikson, prevale un senso di disperazione che esprime la consapevolezza di avere un tempo ormai insufficiente per correggere gli errori del passato; tale disperazione si nasconde spesso dietro il disprezzo verso le persone e le istituzioni, sentimenti che in realtà riflettono il disprezzo che l’individuo, intimamente, prova verso se stesso (Erikson, Teoria Psicosociale dello Sviluppo da i I cicli della vita, 1987).

L’alcool e i suoi effetti – Introduzione alla psicologia

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’ alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Le sostanze psicoattive, o droghe, sono composte da agenti chimici che producono, alla lunga, alterazioni di alcune funzioni biologiche, psicologiche e mentali.Ogni sostanza chimica assunta agisce a livello cerebrale generando delle modificazioni emotive, cognitive, sensoriali e comportamentali.
E’ noto che l’assunzione di droghe provochi effetti a breve e a lungo termine, da pochi minuti a diversi mesi e anni. Tali effetti variano da persona a persona sia in base alle caratteristiche della sostanza assunta sia rispetto alle caratteristiche individuali di chi la assume.

In seguito a un utilizzo costante e ripetuto della sostanza si manifesta l’assuefazione dell’organismo che consiste nella richiesta di una maggiore quantità di sostanze da assumere in tempi più ravvicinati. Questo comportamento è definito dipendenza e induce alla ricerca costante e irrefrenabile della sostanza da utilizzare.

L’uso delle sostanze psicoattive influenza negativamente la vita di chi le assume e compromette l’esistenza di coloro che sono prossimi alla persona. L’assunzione della sostanza diventa nel tempo una vera e propria schiavitù volta alla dipendenza fisica, comportamentale e emotiva dalla droga assunta.

 

Alcool

Molte sono le sostanze psicoattive esistenti, prima tra tutte troviamo l’alcool. L’alcool è la sostanza di abuso più diffusa, perché facilmente acquistabile, per questo la più utilizzata. L’alcool è una droga la cui assunzione determina effetti ansiolitici, rilassanti, che costituiscono un rinforzo positivo e invogliano immediatamente a desiderarne ancora.

L’alcol deriva dalla fermentazione di zuccheri o amidi di origine vegetale, esso è in parte assorbito dallo stomaco ed in parte dall’intestino e, se lo stomaco è vuoto, l’assorbimento è più rapido e i sui effetti si manifestano più velocemente.

L’alcool è assimilato attraverso il sangue e passa al fegato che ha il compito di smaltirlo. Finché il fegato non ha completato la digestione però l’etanolo continua a circolare diffondendosi nei vari organi, tra cui il cervello. L’alcool è una tra le sostanze più tossiche, e per questo potrebbe, in seguito a un abuso, oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni e, in casi più gravi potrebbe portare alla distruzione delle cellule cerebrali. Quando si è ubriachi l’alcool raggiunge il cervello dove, col tempo, si verifica una perdita della sostanza grigia e necrosi di alcuni neuroni.

L’alcool provoca una iniziale euforia e perdita dei freni inibitori, ma a quantità maggiori corrispondono effetti indesiderati più cospicui, come riduzione della visione laterale (visione a tunnel), perdita di equilibrio, difficoltà motorie, nausea e confusione. Quantità eccessive di alcool possono portare fino al coma e alla morte. La velocità con cui il fegato riesce a sintetizzare l’alcool dal sangue varia da individuo ad individuo; in media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica l’organismo impiega 2 ore. Se si beve molto alcool in poco tempo lo smaltimento è più lungo e difficile, e gli effetti più gravi e duraturi.

L’alcool produce conseguenze sull’umore e determina una maggiore rilassatezza, felicità, senso di benessere e euforia. Tali effetti derivano dall’azione che l’alcool svolge sul sistema cerebrale imputato al controllo dell’inibizione.

Esso non ha uno specifico recettore localizzato nel cervello, ma agisce sugli ioni di membrana. Esso, in sostanza, inibisce i recettori per i neurotrasmettitori eccitatori, mentre potenzia quelli dei neurotrasmettitori inibitori. Inoltre, la dopamina, la serotonina, il GABA e i neurotrasmettitori peptidici oppiacei sembrano essere coinvolti nel rinforzo generato dall’assunzione di alcool, che genera non solo effetti ansiolitici, ma anche ricerca costante dell’assunzione di alcool (alcool-seeking behavior).

L’alcool, inoltre, provoca col tempo perdita della coordinazione motoria e distorsioni a carico del sistema percettivo, soprattutto visivo, ma anche uditivo e somatosensoriale. Tali effetti aumentano di intensità in funzione della quantità della dose di alcool assunta. Se la dose supera il livello critico, ovvero il livello di sopportabilità tipico di ciascun individuo, allora gli effetti positivi dell’assunzione lasciano il posto a quelli negativi che sono: incoscienza, coma o addirittura morte. Proprio quest’ultima, deriverebbe da alcune manifestazioni adattative del corpo come il vomito: la persona può soffocare in seguito al vomito perché si trova in uno stato di semi-incoscienza e non è in grado di gestirlo.

 

L’Alcolismo

L’alcolismo è la condizione patologica derivante dall’abuso di alcool. Spesso, in molti assumono saltuariamente dosi più o meno elevate di alcool senza diventarne dipendenti. Solo l’assunzione prolungata e regolare di alcool porta alla dipendenza. L’abuso di alcool determina modificazioni adattative a carico del sistema legato alla gratificazione che si occupa di codificare i rinforzi naturali. Il risultato è l’instaurarsi di un comportamento di ricerca della sostanza e, pertanto, di dipendenza.

L’assunzione prolungata di alcool, in generale, determina una serie di disturbi fisici, che comprendono danni agli organi interni coinvolti nella modalità di assunzione (come lo stomaco, fegato, pancreas e sistema cardiocircolatorio) che possono essere a medio-lungo termine, come la gastrite, o permanenti, come la cirrosi cronica a carico del fegato.

L’assunzione costante di alcool provoca dipendenza che si manifesta, a livello comportamentale, come ricerca della sostanza (craving) e sindrome d’astinenza nel caso si interrompa l’assunzione. Il craving è il desiderio irresistibile di assumere alcool, mentre la sindrome d’astinenza è caratterizzata da ipereccitabilità del sistema nervoso centrale e comportamenti come ansia, anoressia, insonnia, disorientamento e talvolta allucinazioni. In alcuni casi gravi la sindrome d’astinenza può diventare delirium tremens ovvero si possono presentare allucinazioni, disorientamento nel tempo e nello spazio e la comparsa di comportamenti irrazionali.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Genitori iperprotettivi: considerazioni e suggerimenti

In alcuni casi, però, la tendenza alla protezione può diventare eccessiva e generare conseguenze negative sulla crescita dei figli: in questi casi si parla di genitori iperprotettivi.

 

Proteggere i propri figli dai pericoli rappresenta sicuramente uno degli obiettivi principali dei genitori. Molti di questi desiderano mettere al sicuro il proprio figlio dai fallimenti, dalle delusioni e dal dolore fisico.

In alcuni casi, però, la tendenza alla protezione può diventare eccessiva e generare conseguenze negative sulla crescita dei figli. In questi casi, si parla di genitori iperprotettivi.

I figli di genitori iperprotettivi sperimentano poco, risultano essere dipendenti dai genitori, non sono generalmente bambini responsabili, hanno minori capacità di regolazione emotiva e problem solving. Essi, inoltre, sono maggiormente esposti a sviluppare problematiche legate all’ansia e alla bassa autostima. A tal proposito, Morrison sostiene che se i genitori sono costantemente impegnati a rendere “perfetta” la vita dei figli, questi ultimi possono iniziare a pensare che questo comportamento protettivo dei genitori rappresenti la norma, e possono sviluppare delle aspettative irrealistiche sul fatto che saranno trattati così per sempre.

 

Come riconoscere i genitori iperprotettivi

Ecco alcune caratteristiche per riconoscere i genitori iperprotettivi:

  • Inibiscono l’esplorazione dell’ambiente circostante da parte del proprio bambino, per paura che possa accadergli qualcosa di negativo. Ad esempio, i genitori iperprotettivi non lasciano che i loro figli esplorino un parco giochi per il timore che possano farsi male.
  • Tendono a svolgere attività che i loro figli sono in grado di svolgere autonomamente in assenza dei genitori. Ad esempio, tagliare la frutta, allacciare le scarpe, preparare lo zaino per andare a scuola ecc..
  • Pongono al proprio figlio molte domande allo scopo di sapere tutto di lui.
  • Sono eccessivamente coinvolti nel contesto scolastico e sportivo frequentati dal figlio. In particolare, i genitori iperprotettivi si preoccupano che il proprio figlio sia seguito dai migliori insegnanti/allenatori.
  • Aiutano il figlio a uscire da situazioni difficili e scomode. Ad esempio, se il bambino mostra difficoltà a parlare con degli sconosciuti, i genitori iperprotettivi potrebbero presentarlo e parlare per suo conto. Secondo Feiden, questa situazione potrebbe rinforzare il comportamento del bambino relativo a non parlare con persone sconosciute. Quest’ultimo, a causa della continua intromissione dei genitori, potrebbe infatti non sentirsi in grado di gestire la situazione.

Alcuni suggerimenti per un genitore iperprotettivo:

  1. Favorire un senso di autonomia e indipendenza: è fondamentale che i genitori permettano al bambino di fare esperienze in maniera indipendente, sostenendo e lodando i suoi tentativi. Questo permetterà al bambino di sviluppare un maggiore senso di autoefficacia percepita e una maggiore capacità di regolazione delle emozioni. E’ importante che il genitore, di fronte ai fallimenti del figlio, mantenga un senso di calma e fiducia nelle sue capacità di fronteggiare autonomamente la situazione.
  2. Fungere da modello: è importante mostrare ai figli che anche i genitori possono avere delle difficoltà e delle paure, ma anche che sono in grado di affrontarle. “A volte mi sento preoccupata quando devo incontrare nuove persone. Ma ho intenzione di essere coraggiosa e fare respiri profondi per mantenere la calma, e dire ‘ciao’ a questa persona“, è un esempio riportato da Feiden.
  3. Favorire lo sviluppo di abilità: Morrison sostiene che, quando i figli ricevono una valutazione negativa a scuola, i genitori iperprotettivi spesso desiderano parlare direttamente con l’insegnante. Sarebbe molto più produttivo che i genitori insegnassero al proprio figlio strategie utili per comunicare col docente. Al contrario, se il genitore interviene sempre, il bambino non imparerà ad affrontare e gestire ulteriori situazioni problematiche.

E’ naturale che i genitori tendano a proteggere i propri figli dalle avversità. Questi dovrebbero tenere a mente che fallimento, rifiuto, esperienze negative, difficoltà fanno parte della vita e che non possono essere eliminate. A tal proposito, proteggere i propri figli da esperienze avverse, non consente a questi ultimi di sviluppare le abilità di cui hanno bisogno per affrontare tali situazioni in futuro.

Le dimensioni esistenziali della Psicoterapia della Gestalt

I concetti di totalità e individualità, di spazio e di tempo, di dicibile e indicibile, costituiscono le dimensioni fondanti in cui l’incontro terapeutico prende forma e sostanza.

 

Senza dubbio le sensazioni, le emozioni e i pensieri di coloro i quali abitano il setting, costituiscono lo sfondo dinamico in cui la relazione terapeutica si può sviluppare, divenendo lo strumento principale per un potenziale cambiamento, ma la cornice in cui si inscrive tale processo è delimitato, inevitabilmente, da variabili temporali e spaziali. Ogni rapporto, che sia con noi stessi, con l’altro o con l’ambiente, è definito da criteri spazio-temporali, in cui la persona può osservarsi e percepirsi nel suo essere nel mondo.

Percepirsi unici e nello stesso tempo parte di un tutto, attraverso l’armonizzazione dinamica delle parti che compongono la nostra interiorità, costituisce molto probabilmente lo scopo della nostra esistenza; la ricerca d’equilibrio, che muove continuamente i flessibili confini tra l’ambiente e l’uomo, tracciandone un’area virtualmente condivisa, disegna la nostra esistenza. Questo fluire, un passaggio costante tra essere e divenire, è l’energia con cui l’uomo si attiva, muove e si relaziona all’interno del suo campo vitale.

Una delle funzioni della relazione è quella di rendere più spontanee e fluide le manifestazioni tra totalità e l’individualità, che altrimenti parrebbero discordanti e incoerenti. Quando la connessione tra individuazione e appartenenza avviene in questo modo, senza eccessive pressioni dell’ambiente, l’individuo può sperimentare maggiormente il suo senso interiore di persona umana che trascende se stessa, per mezzo della sua stessa esistenza.

Martin Heidegger, a riguardo, afferma:

Ad ogni pensante è assegnata sempre e soltanto una via, la sua: nelle cui tracce egli deve sempre vagare, per attenersi infine a essa come alla propria via, la quale però mai gli appartiene.

Uno degli scopi della terapia gestaltica, è quello di reintegrare la frammentazione di parti alienate della persona in un insieme coerente e coeso. Le multipolarità del sé, che in alcune patologie vengono rimosse, alterate o addirittura negate, con le funzioni e le competenze relazionali, sono riprese e unite tra loro come una trama. Questo processo di riappropriazione di “frammenti” del sé (disconosciuti e misconosciuti), l’intreccio di questi mille fili, come la tessitura di una stoffa, è lento e faticoso e niente affatto spontaneo. Le unioni che contemporaneamente agiscono nell’individuo, definendo la sua complessità, prendono forma grazie alla narrazione e all’ascolto di due vite che hanno deciso di svelarsi.

 

Il “qui-ed-ora” e lo spazio condiviso

Negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ed io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ed io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ed io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.

(Nuova confutazione del tempo, J. L. Borges)

Una delle esperienze più significative che l’individuo esperisce e che sfugge continuamente alla sua consapevolezza, è lo scorrere del tempo. Non accorgersi del suo fluire continuo e inarrestabile, eccetto in alcuni istanti della giornata, in cui avvenimenti ci costringono a farlo, non è un’inquietudine nuova. Orazio, nelle sue Odi e epodi, esorta appassionatamente Leuconoe a cogliere l’attimo, senza preoccuparsi del domani, Seneca scrive a Lucilio che ciò che è veramente nostro, è il tempo, e Martin Heidegger descrive il suo incedere, come un insieme di eventi che modellano e ampliano gli altri eventi in una successione irreversibile, e che definiscono l’essere per la morte. Sant’Agostino, nelle Confessioni, spinge il problema metafisico fino a chiedersi, se l’animo stesso sia il tempo, affermando che “io misuro il sentirmi nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. E’ il mio sentirmi che misuro, quando misuro il tempo”.

In qualche modo il continuum di consapevolezza definito nella Terapia della Gestalt, tende a chiarire, concretamente, come questo sentire interiore ed esteriore si sviluppa. Fritz Perls sottolinea come gli individui che seguono la propria consapevolezza, si muovono in un percorso organicamente determinato, in cui ogni momento influenza quello successivo.

Quando è nato il tempo e cosa rappresenta la sua irreversibilità? Il tempo ha una barriera che ad oggi non può essere oltrepassata: 10-43 secondi. Questa è definita l’era di Planck, descritta da una formula matematica, scoperta dallo scienziato tedesco nel 1900. Essa determina nella materia, a livello microscopico, la prima quantizzazione di grandezze come l’energia, la quantità di moto e il momento angolare di una particella. Grazie alla costante denominata h, possiamo risalire alle originarie dimensioni dell’universo e alla sua età.

Tutto quello che oggi osserviamo, le galassie, i pianeti, la terra, le case, gli alberi ecc. era contenuto in una sfera di 10-33 centimetri, ovvero miliardi di miliardi di miliardi più piccola del nucleo di un atomo. Il nucleo dell’atomo è così piccolo che se ingrandissimo un oggetto, ad esempio un cellulare, fino a farlo divenire grande come il nostro pianeta, gli atomi che lo compongono avrebbero le dimensioni di una ciliegia. Queste sono le dimensioni e le distanze che intercorrono tra le particelle e le sub-particelle che ci formano. Oltre a questo, c’è il tema dello spazio vuoto.

La materia che compone la realtà che osserviamo è in gran parte fatta di vuoto. Eppure, anche tra queste distanze immense, questi tratti inimmaginabili, la materia si parla e si cerca. Una scoperta certamente nota a tutti, di Léon Foucault nel 1851, ci rivela che la natura è un insieme indivisibile in cui tutto è connesso: la totalità dell’universo sembra presente in ogni luogo e in ogni tempo. In atri termini, mentre sollevo la mia mano per scrivere, l’universo mette in moto infiniti equilibri.

Altri esperimenti quantistici, ci rivelano che la materia si determina, sceglie e in un certo qual modo ha una coscienza. Nel 1982, il fisico francese Alain Aspect osservò un’inspiegabile correlazione tra due fotoni che si allontanavano l’uno dall’altro. Ogni qualvolta uno dei due cambiava polarità, anche l’altro, a distanza di miliardi di chilometri, subiva la stessa alterazione. Questo fatto, tanto misterioso quanto affascinate, ad oggi ha soltanto un’interpretazione, quella di Niels Borh. Il fisico danese l’ha definito «l’inseparabilità dell’esperienza quantistica», ovvero le particelle pur se separate da distanze abissali, fanno parte di una totalità, e si comportano di conseguenza.

Questo breve excursus tra i fenomeni della fisica quantistica, ci può far comprendere come il micro e macrocosmo di cui siamo composti e a cui partecipiamo, sembrano avere come unica funzione quella comunicativa: che sia energia, interazione, interferenza, forza, vibrazione o quant’altro, la natura si scambia continuamente dati, poiché la più piccola parte di un tutto, costituisce il tutto e per dare un senso alla sua esistenza deve comunicare con il resto.

Proprio per tale ragione, e con ben altre valenze etiche, la persona ha la necessità di esprimersi e di comunicare ciò che prova, e la relazione terapeutica, riproduce attraverso il suo continuum di consapevolezza il fluire temporale dentro lo spazio esistenziale. Le competenze comunicative dello psicoterapeuta, forniscono lo spazio necessario al paziente per dare vita ai suoi pensieri e muoversi verso di essi; attraverso l’attenzione focalizzata e l’empatia incarnata, questo processo diviene sempre più preciso e creativo. Tali successioni così intense, rappresentano un metodo semplice e al tempo stesso sicuro per il lavoro in terapia. Il terapeuta è concentrato su ciò che sente, ascolta e vede all’interno della relazione che lentamente si dispiega. Con questo approccio, l’individuo percepisce la direzionalità data dall’intenzionalità relazionale, che permette di riorganizzare i propri pensieri in una concatenazione tra le varie esperienze narrate. Grazie a questo lavoro, si giunge ad una fluidità tra l’indicibile e il dicibile, che costituiscono la trama narrativa della relazione terapeutica che co-creano la dimensione dialogica.

Questo processo, che a prima vista può sembrare naturale e spontaneo, richiede la capacità di organizzare i pensieri (e le emozioni ad essi connesse) in sequenze logiche congruenti e coerenti tra loro, per essere condivise e raccontate. Questa fluidità la ritroviamo nei romanzi, nelle poesie, nelle fiabe, ma anche nella musica. Anche la psicoterapia, con le sue caratteristiche peculiari, rientra tra queste espressioni del sé della persona, come forma più consapevole di dialogo e di conversazione.

Il bisogno (anche biologico) di dare una forma coerente a ciò che esperiamo, ben si collega alle modalità espressive che la narrazione di qualsiasi tipo può rappresentare. In un contesto a due, lo psicoterapeuta è guidato, grazie alla sua sensibilità ed empatia a seguire le tracce e le parti del racconto mancanti, per completare, insieme al paziente, l’intera esperienza. Anche nel gruppo, il racconto di una storia assume immediatamente una valenza diversa, in quanto la persona che spontaneamente decide di narrare una propria esperienza, sente che la sua unicità fa parte di un tutto, dell’intera comunità.

Spesso i sentimenti vissuti e successivamente espressi da coloro i quali hanno fatto tali esperienze sono quelli di vivacità e autorealizzazione. Per chi lavora con i gruppi, sempre più si va consolidando la convinzione che le esperienze di questo tipo (comunitarie), vissute in contesti e condizioni sicure, hanno un potere costruttivo per la persona, soprattutto per quanto riguarda emozioni come la paura e la vergogna (Wheeler, 1991). La forma narrativa può avere una funzione terapeutica soprattutto se rapportate al dolore; spesso, infatti, assistiamo a come la nostra mente per difendersi dalla sofferenza automaticamente si concentra su quell’evento doloroso, escludendo tutto il resto. Il racconto di queste storie, in una modalità condivisa più ampia, possono in qualche modo allargare la prospettiva e modificare la visuale di chi in quel momento è troppo concentrato a focalizzare i suoi aspetti negativi. In questo modo, la persona lentamente diviene consapevole dalla sua capacità di cogliere in determinate esperienze, anche dolorosissime, quegli elementi positivi in grado di ristrutturare l’intera esperienza.

Questa è l’esperienza del noi, in cui ognuno dei partecipanti si sente coinvolto e attivo. Ciò evidenzia come il senso di appartenenza e la connessione tra le persone possa incrementare la sicurezza personale. Anche durante la relazione terapeutica individuale, possiamo osservare come si attua tale processo e quali meccanismi può attivare. Ad esempio, seguendo l’approccio psicanalitico Freudiano, il terapeuta può osservare quel fenomeno denominato transfert.

Ascoltando i racconti del paziente, si comprende come il contatto distorto con le figure di riferimento, può produrre comportamenti, difese, atteggiamenti stereotipati che durante la seduta vengono attribuiti al terapeuta. In questo spazio, in cui tale materiale psichico viene espresso, il terapeuta insieme al paziente inizia il suo lavoro di analisi e di elaborazione simbolica interpretativa. Questo modo di amplificare le esperienze, da parte della psicanalisi, è molto diverso da quello della psicoterapia della Gestalt. Essa affronta queste distorsioni nel qui-e-ora della relazione, sottolineando e descrivendo le esperienze che in quel determinato setting e in quel momento il paziente sta esperendo. Attraverso questo processo di amplificazione, il sentire viene intensificato nella relazione, raggiungendo un profondità ed emotività molto intense. Per questa ragione, l’aspetto etico, nel rapporto duale, deve essere sempre tenuto nella massima considerazione.

Un altro aspetto interessante che possiamo evidenziare, è quello relativo alla sincronicità nelle relazioni. Cosa si intende con questo termine? Molto spesso alcuni eventi delle nostre storie coincidono a quelle vissute da altri. Questo campo comune, questa somiglianza, o la sensazione di percepire le stesse sensazioni nello stesso tempo, fa sì che tale esperienza assuma una valenza fondante, unica.

Ci sentiamo appartenere ad una comune base trasmissibile e nello stesso tempo ci percepiamo distinti e inimitabili.

Se l’alternanza tra appartenenza e differenziazione avverrà con spontaneità, includendo gli elementi di freschezza e novità che emergono dal campo relazionale, la terapia avrà grandi possibilità per lo sviluppo, il cambiamento e la crescita dell’individuo. Tutto quanto descritto, costituisce lo sfondo e l’atmosfera in cui si relazionano il paziente e il terapeuta, che insieme stanno cercando una via inedita verso loro stessi. Questo è un approccio dialogico, estetico ed armonico della psicoterapia della Gestalt.

“E pensare che c’era il pensiero” – Report del seminario sul Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol

Il 12 aprile 2017 la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Bologna ha ospitato il Prof. Marcantonio Spada e il Prof. Gabriele Caselli per il seminario: “Il Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol”.

di Giorgia Garozzo, Maria Marotta, Elena Lo Sterzo

 

Il 12 aprile 2017 la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Bologna ha ospitato il Prof. Marcantonio Spada, docente di psicologia presso la South Bank University di Londra e il Prof. Gabrielle Caselli, ricercatore presso Studi Cognitivi e docente presso la Sigmund Freud University di Milano, per il seminario: “Il Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol”.

La metacognizione è una abilità cognitiva che Wells (2000) ha definito come la cognizione della cognizione, ovvero le strutture psicologiche, le credenze, gli eventi e i processi che sono coinvolti nel controllo, nella modifica e nell’interpretazione del pensiero stesso.

Il professor Spada introduce il concetto di metacognizione con un esempio di vita quotidiana, il fenomeno della “parola sulla punta della lingua”, ovvero quando si cerca di recuperare un’informazione che sappiamo essere presente nel magazzino di memoria (e quindi avvertiamo un senso di familiarità verso essa), ma in quel momento si ha difficoltà a recuperarla.

La metacognizione è un insieme di processi e di contenuti mentali che influenzano profondamente il funzionamento cognitivo: è il pensiero del pensiero, e permette a ogni persona di “supervisionare” le attività della propria mente.

Il professor Spada evidenzia come questo concetto sia emerso inizialmente come tematica fondamentale a livello artistico-letterario nella prima parte del XX secolo, proponendoci ad esempio l’immagine dell’opera di Escher “Mano con sfera riflettente”, e un passo di André Gide: “Nel momento in cui guardo me stesso agire, non capisco come una persona che agisce sia la medesima che guarda sé stessa agire, e che si chiede, con stupore e incertezza, come possa essere sia attrice che spettatrice nello stesso momento”. Inoltre, sottolinea che tale concetto è stato introdotto nella psicologia cognitiva da Flavell già nel 1976, e che, da allora, ha avuto ampia applicazione negli ambiti, tra gli altri, della psicologia scolastica e del trattamento dei disturbi dell’apprendimento (Cornoldi, 1995). Tuttavia, per trovare le sue applicazioni alla sfera della clinica e del trattamento dei disturbi psicopatologici, dobbiamo aspettare i modelli di Wells & Matthews nel 1994.

Il contributo dei docenti si è sviluppato introducendo le basi teoriche e di trattamento della terapia cognitiva classica, mettendone anche in luce alcuni limiti ed evidenziando l’esigenza di focalizzarsi su altri aspetti. La terapia cognitiva classica (Beck, 1976) si basa sull’analisi dei pensieri automatici e sulla ristrutturazione di schemi di pensiero disfunzionali.

Diversamente, l’approccio degli autori e del modello teorico al quale fanno riferimento pone l’attenzione sul controllo e sulla gestione del pensiero piuttosto che sull’analisi dei contenuti: non è più il contenuto del pensiero ad essere affrontato col paziente, ma diventa centrale il modo in cui il paziente interagisce con esso.

Il professor Spada induce alla riflessione ponendo la domanda: “Cosa trasforma un pensiero o un’emozione negativa in un disturbo perseverativo del pensiero?” La risposta è nella Sindrome Cognitiva Attentiva (CAS) che racchiude quegli stili di pensiero ripetitivi, ciclici, negativi e perseveranti che caratterizzano la ruminazione, il rimuginio e il pensiero desiderante, i quali portano allo sviluppo e al mantenimento della patologia (Wells & Matthews, 1996).

 

Il modello metacognitivo per l’uso problematico di alcol

Spada, Caselli e Wells (2012) elaborano il Modello Metacognitivo Trifasico del consumo problematico di alcol con l’obiettivo di individuare in che modo e in che misura la CAS e le metacognizioni sono coinvolti nel comportamento disregolato di consumo alcolico.

Il modello metacognitivo è composto dalla fase pre-uso, dalla fase di uso di alcol e da quella di post-uso. Le metacredenze riferite all’alcol sono presenti in maniera trasversale in ciascuna fase e sono del tipo: “quando bevo sono più socievole; il bere ha controllo sulla mia vita; ripensare al perché bevo mi aiuterà a capirne le motivazioni”, mentre la CAS è presente maggiormente nelle fasi di pre- e post- uso di alcol. Il contenuto delle credenze metacognitive è riferibile alle tematiche legate alla sensazione di mancanza di controllo sul comportamento di assunzione e dalla sovrastima degli effetti positivi dell’uso della sostanza. A rendere disfunzionali e disturbanti per la persona i pensieri caratteristici del CAS è la loro profonda pervasività e perseveranza.

Il Prof. Caselli propone poi un esempio del pensiero rimuginativo: “Inizio a bere per smettere di rimuginare…Poi rimugino perché ho bevuto troppo e quindi sono costretto a bere per smettere di rimuginare sul fatto che ho bevuto troppo[..]”.

Questo nuovo modello metacognitivo ha dimostrato la sua efficacia nel trattamento di vari disturbi, tra cui quelli d’ansia e depressivi (Norman, van Emmerik e Molina, 2014). Attualmente il prof. Caselli sta conducendo il primo trial per il trattamento di pazienti con uso problematico di alcol con l’approccio del modello metacognitivo.

Tale approccio ha come focus centrale il controllo del pensiero, e quindi anche del comportamento. I punti fondamentali sono:

  • Monitoraggio metacognitivo: monitorare informazioni rilevanti per il nostro scopo, incentivare il paziente a monitorare l’assunzione e gli effetti mentre il comportamento avviene.
  • Atteggiamento verso il craving: modificare la credenza del paziente evidenziando le conseguenze disfunzionali del pensiero rimuginante
  • Credenze metacognitive: si interviene primariamente sulle metacredenze negative che sono legate alla mancanza di controllo, e successivamente sulle positive che sono inerenti ai benefici derivanti dall’assunzione di alcol.
  • Concettualizzazione delle fasi che portano al comportamento disregolato.
  • Bere controllato metacognitivamente: incremento di un monitoraggio metacognitivo adattivo attraverso l’uso di metafore, esercizi e compiti a casa; modulazione del consumo tramite esercizi pratici come posporre l’inizio del consumo alcolico, dilatare nel tempo il consumo e fissarne un limite.

Concludendo, il seminario ha permesso di inquadrare i principi cardine del modello metacognitivo trifasico , caratterizzato dalla Sindrome Cognitiva Attentiva (CAS) e dalle metacredenze, le quali sono centrali nell’impianto terapeutico, in quanto vengono utilizzate per intervenire sul controllo del consumo e sul controllo del rimuginio cambiando la percezione che il soggetto ha del proprio modo di pensare e di agire verso l’ alcol.

Essere bambini nell’ Impero Celeste: uno spaccato sui sistemi educativi nelle istituzioni prescolastiche cinesi

Sistemi educativi cinesi: In Cina, quindi, la struttura prescolastica è stata vissuta come il luogo ideale per dare ai piccoli le giuste basi per un buon futuro scolastico, e dove imparare a diventare buoni cittadini. Il ruolo dei sistemi educativi cinesi in età prescolare è stato principalmente quello d’insegnare al bambino a comportarsi correttamente, ad apprendere valori quali autocontrollo, disciplina, armonia sociale e responsabilità.

Valeria Fregoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

In una scuola elementare milanese, è metà marzo, ecco l’ingresso di una nuova bambina in una classe seconda; è cinese e non conosce una sola parola d’italiano.
Io rivesto il ruolo d’insegnante, mi ritrovo ad osservarla ed immagino cosa dev’essere per quella bimba ritrovarsi catapultata in una realtà cosi lontana dalla sua cultura. Sembra immersa in un acquario.
Mi sento una sorta di “alieno” ai suoi occhi; penso che in quel momento, effettivamente, lo sono.
Decido così, di documentarmi sui sistemi educativi cinesi, impresa non facile, perchè le informazioni disponibili in letteratura non sono molte e per la maggior parte fanno riferimento al passato.

 

La politica del figlio unico nella società cinese

La “politica del figlio unico” è sicuramente uno degli aspetti che più ha influenzato le famiglie e le istituzioni legate al mondo dell’infanzia cinese; introdotta nel 1979 e abolita solo nel 2015.
Uno solo. Uno ben nutrito. Uno ben educato è infatti la concezione del bambino che ha permeato per più di trent’anni la società cinese.

La legge della pianificazione familiare è stata fortemente in contrasto con il concetto di gruppismo che ha dominato e ancora domina solenne in Cina e che nelle scuole per l’infanzia è stato nel tempo costantemente esaltato in una sorta di dicotomia; da un lato l’imposizione di essere figli unici e dall’altro quella di essere a tutti i costi parte di una famiglia allargata; la società.

Questa politica ha influenzato l’atteggiamento delle famiglie. Nel 1985 stava facendo il suo ingresso nelle strutture prescolastiche cinesi la prima generazione di figli unici, circondata da grande ansia generale. Gli psicologi e gli educatori temevano che i bambini, crescendo senza fratelli, potessero mostrare un ritardo nello sviluppo sociale ed emotivo. Gran parte della colpa veniva addossata ai genitori e al fatto di viziare i figli, un problema definito la sindrome 4-2-1, basandosi sull’assunto che 4 nonni e due genitori avrebbero colmato di troppe attenzioni un unico bambino (Tobin, J., Hsueh Y., Karasawa, 2011).

 

I sistemi educativi cinesi in età prescolare

In Cina, quindi, la struttura prescolastica è stata vissuta come il luogo ideale per dare ai piccoli le giuste basi per un buon futuro scolastico, e dove imparare a diventare buoni cittadini. Il ruolo della struttura prescolastica è stato principalmente quello d’insegnare al bambino a comportarsi correttamente, ad apprendere valori quali autocontrollo, disciplina, armonia sociale e responsabilità. Secondo le teorie cinesi sullo sviluppo infantile, i bambini non possono acquisire un comportamento corretto, solo giocando con altri bambini, è necessaria la supervisione di insegnanti. La severità, la rigidità e il controllo da parte degli educatori nelle scuole d’infanzia vengono vissute come espressione di cura e interesse nei confronti del bambino (Joseph J. Tobin, David Y.H. Wu, Dana H. Davidson, 2000).

In Cina per indicare l’irreggimentazione dei bambini da parte degli educatori, viene usata la parola “guan” che significa letteralmente governare, addestrare. Negli anni ’80 il guan si concretizzava in un insieme di regole, attività ripetitive, fermezza e attività didattica controllata dall’insegnante.

Ad esempio era “guan” quando una maestra faceva accucciare in bagno i bambini nello stesso momento o quando criticava un bimbo che si agitava sorridendo, mentre lodava una bambina seduta, composta, seria in volto. Questa parola spiega in modo esauriente come funzionano i sistemi educativi cinesi, che la intendono come prendersi cura, amare e governare. Il compito di “addestrare” i bambini, alla vita futura, spetta dunque agli insegnanti, ai quali, dopo un duro lavoro, viene riconosciuto da parte dei genitori il merito di rendere i loro bambini ben educati. Oggi la forma assunta dal guan è più attenta ai desideri dei bambini e rispettosa dei diritti di questi ultimi.

In Cina, il gruppo, la collettività e il sociale sono valori molto importanti con valenza maggiore rispetto all’individuale, al personale e al familiare. L’idea di base è che ciò che è bene per la società lo è anche per l’individuo. Fin dalla più tenera età i sistemi educativi cinesi sono finalizzati all’essere parte di una comunità.

Negli anni della Rivoluzione culturale l’individualità era completamente posta in secondo piano. Non era possibile mettere in risalto le doti di un bambino più “capace” di altri. Ciò che veniva esaltato era la capacità del bambino ad essere parte della classe. Nel film di Zhang Yuan, La guerra dei fiori rossi, ambientato proprio in questi anni, emerge chiaramente questa prospettiva. È il racconto di un bambino di quattro anni, Qiang, che viene portato in un asilo nido residenziale. Fino a quel momento era stato accudito dalla nonna, che ammalatasi, non può più badare a lui. Qiang è ammesso alla classe dei più piccoli, 40 bambini fra i 2 e i 3 anni. Questo bambino deve confrontarsi con la collettività posta sotto la rigida sorveglianza delle educatrici. L’asilo nido che mostra Yuan è una sorta di caserma educativa. I bambini come dei soldatini, svolgono tutti le medesime azioni. Una scena significativa è il momento del risveglio, in cui i bimbi, dopo essersi vestiti da soli, vengono portati in bagno dall’insegnante; i piccoli sono disposti in due file parallele accovacciati lungo due scanalature nel cemento. “Chi, ogni giorno, avrà espulso la giusta quantità di escrementi sarà premiato con un piccolo fiore rosso”.

Ancora oggi, nonostante gli ovvi cambiamenti avvenuti nel corso del tempo, nei luoghi pubblici e nelle scuole della Cina la forma più diffusa di servizi igienici è quella in cui ci si deve accovacciare ed è responsabilità degli educatori insegnare ai bambini ad usarli. D’altro canto gli insegnanti sentono anche la responsabilità di preparare i propri allievi alla vita che li attende gli anni successivi, una vita che presumibilmente sarà caratterizzata in maniera crescente da abitudini occidentali, tra cui la presenza di servizi igienici con il water sia nelle case che nei luoghi pubblici. Il cambiamento che sta avvenendo nelle abitudini igieniche delle strutture prescolastiche cinesi può essere visto come un mutamento verso una maggiore privacy e un minore livello di condivisione.

Il pudore per il proprio corpo viene associato alla modernizzazione, ma anche alla perdita della condivisione e del senso del collettivo che in passato hanno caratterizzato le relazioni sociali in Cina (Tobin, J., Hsueh Y., Karasawa, 2011).
Bisogna considerare che fino alla proclamazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, l’80% dei Cinesi era analfabeta, ed è nel periodo post rivoluzionario (1949-1957) che aumenta l’attenzione verso le istituzioni più importanti, tra cui quelle prescolastiche, che sono incrementate e trasformate in senso socialista.

Nel 1956 viene pubblicato il manuale di sistemi educativi cinesi nelle scuole d’infanzia, distribuito in tutta la Cina. In questo periodo l’influenza dell’unione sovietica è molto profonda. L’idea dominate, è che solo grazie all’esistenza della società ogni individuo può vivere e svilupparsi. Il bambino non appartiene soltanto ai suoi genitori, ma anche alla società, grazie alla quale può vivere. Quest’ultima possiede un diritto primordiale e fondamentale sull’educazione dei bambini. La società resta libera d’affidare l’educazione dei bambini ai genitori, ma quanto prima potrà intervenire essa stessa, tanto meno ci sarà bisogno di lasciare questo compito educativo ai genitori. L’avvenire è dunque dell’educazione sociale.

 

L’importanza dell’educazione sociale in Cina

Questi sistemi educativi cinesi nascono per permettere alla società di formare nel modo migliore la generazione futura, con il minimo dispendio di tempo e d’energie. L’educazione sociale non è necessaria solo dal punto di vista pedagogico, essa offre anche vantaggi economici. In Cina, soprattutto nelle città si trovavano infatti anche asili nido residenziali, in cui i bambini si fermavano a dormire. Questi centri sono nati negli anni della Rivoluzione Culturale, per ospitare i figli dei capi del partito, dei soldati dell’esercito e dei genitori cittadini destinati al lavoro nelle campagne. Tali centri venivano vissuti come un’ottima opportunità di crescita dei bambini. Le spiegazioni dei vantaggi di questi centri residenziali sono coerenti con le teorie cinesi sul bisogno di irreggimentazione, e con la convinzione che i servizi per l’infanzia, sia quelli che prestano servizio diurni, sia quelli che ospitano i bambini anche a dormire siano strutture finalizzate a correggere gli errori delle famiglie con un figlio unico.

Le scuole d’infanzia sono dunque state considerate strutture molto importanti, in cui i piccoli cinesi imparano l’arte del “buon cittadino”. Un bambino ben educato è capace di fondersi nel gruppo, di esserne parte. Si tratta di un’ educazione collettiva messa ben in risalto dalle attività quotidiane svolte all’interno degli asili nido e delle scuole materne. “Il successo di un ragazzo è il successo della sua classe; il successo della classe è il successo della scuola; quello della scuola è il successo dell’intero paese” (Confucio).

 

I sistemi educativi cinesi nella quotidianità scolastica

Per capire come si svolge attualmente una giornata tipo in una struttura prescolastica cinese la ricerca di Tobin et all, che hanno effettuato, a più riprese nel tempo, dei video di diverse strutture prescolastiche in tre paesi culturalmente diversi, quali Cina, Giappone e Stati Uniti, è sicuramente illuminante perchè permette di entrare nel vivo e trasversalmente consente di mettere in luce differenze e similitudini dei sistemi educativi anche rispetto al nostro paese.

Ecco una giornata tipo in una scuola per l’infanzia cinese situata nella regione cinese dello Yunnan nel 2010 per spiegare nello specifico come funzionano i sistemi educativi cinesi. I bambini arrivano accompagnati dai genitori e, dopo aver varcato il portone, si mettono in fila per essere visitati dalle infermiere.

Queste visitano rapidamente i bambini adottando la consueta pratica medica cinese di “osservare, toccare, chiedere”. Durante l’andirivieni di genitori e bambini, un’assistente della direttrice e una delle insegnanti più esperte finiscono di pulire il cortile, mentre due inservienti escono dalla cucina spingendo un carrello con le colazioni per ciascuna classe e usano un montacarichi per portarlo ai bambini che nel frattempo sono andati nelle loro aule. I bambini prendono dei dolcetti e una scodella di crema di cereali e mentre mangiano in silenzio, vengono distribuite uova d’anatra. Finito di mangiare l’insegnante ricorda che è ora di andare in bagno. I bambini si accovacciano lungo un canale. Tuttavia, i nuovi servizi si differenziano dai precedenti perché è stato messo un divisorio tra il lato dei maschi e quello delle femmine.

Il giorno di scuola vero e proprio inizia quando l’insegnante fa contare alla classe i bambini presenti. Poi tutti si dirigono nell’aula multimediale dove si tiene una lezione di zha ran, pratica diffusa che consiste nel tingere i tessuti a motivi vivaci. L’insegnante per questa attività non usa la stoffa, ma carta di riso. Dopo aver mostrato alcuni esempi l’insegnante mostra come piegare la carta e poi immergerla in vaschette di colore. I bambini creano i propri “tessuti” di diverse tinte e li appendono, una volta finiti, uno di fianco all’altro dando vita ad una grande esposizione. L’insegnante avvisa poi i bambini che è ora di raggiungere le altre classi di coetanei in giardino per la ginnastica del mattino. Mentre la musica viene trasmessa a tutto volume dagli altoparlanti, gli insegnanti fanno fare ai 220 bambini di 4 anni una serie di esercizi. Dopo di che viene il momento di una danza dove i bambini scelgono il loro partner e infine ci sono 15 minuti di gioco libero. La classe successivamente si reca in palestra, corredata da anelli, travi, palloni di grandi dimensioni e tavole con rotelle. Ogni giorno, prima di pranzo, si sceglie un bambino che racconta alla classe una storia. Dopo 10 minuti di narrazione, arrivano i contenitori con il cibo per il pranzo. Un bambino viene scelto per aiutare durante il pasto e distribuisce ai compagni i bastoncini. I bambini si mettono davanti all’insegnante che riempie una scodella di riso, di sautè di maiale e sedano. I bambini mangiano in silenzio e l’insegnante compila un modulo sul consumo di cibo della sua classe. Finito di mangiare i bambini lasciano la scodella e i bastoncini in un secchio vuoto, vanno in bagno e si dirigono nella stanza da letto adiacente all’aula per fare il sonnellino. L’insegnante tocca guance e fronte a tutti e li invita a togliersi i vestiti e a mettersi sotto le coperte, aiutandoli se necessario. 2 ore dopo i bambini si svegliano, fanno il letto, vanno in bagno e tornano in classe, dove le insegnanti pettinano le bambine. Fanno merenda con biscotti e latte e poi vengono lasciati liberi di giocare nell’aula per un po’. Tutta la classe si reca al piano inferiore, nella stanza di musica. Un’insegnante, seduta al piano, intona una canzone, cui si uniscono i bambini; poi solleva due scimmiette di peluche e inizia a fare un piccolo teatrino. I bambini a coppie fanno finta di essere due scimmiette, danzando al ritmo della canzone, ridendo e cadendo al momento giusto.

Successivamente andranno nell’aula della costruzioni; in questa stanza, contro una lunga parete, sono impilati blocchi e cubi di legno di grandi dimensioni, mentre vicino ad altre 2 pareti sono allineati dei grandi contenitori con una varietà di mattoncini e blocchetti di plastica ad incastro. I bambini costruiscono, da soli, a coppie o in piccoli gruppi, una molteplicità di oggetti e strutture. Al ritorno in classe i bambini aspettano che arrivi la cena e l’insegnante ricorda loro di mangiare in silenzio. Mentre i bambini cenano, le insegnanti compilano il registro sulle attività del giorno. Nel frattempo, fuori dal cancello d’entrata si sono radunati centinaia di genitori, in attesa di prendere i figli.

 

Le caratteristiche salienti dei sistemi educativi cinesi

Uno degli aspetti che emerge da questa rappresentazione è che l’ armonia è un altro tratto distintivo dei sistemi educativi cinesi. C’è un’ esaltazione di valori quali bellezza, bontà, solidarietà. Il canto, la danza, il disegno sono considerate attività di estrema importanza. Ai bimbi viene insegnato a disegnare, l’insegnante mostra ai piccoli la tecnica da utilizzare e i bambini sono tenuti a ripeterla fino a che non riescono nell’intento. La perseveranza è una delle doti più apprezzate. I bambini acquisiscono le tecniche classiche della pittura e fin da piccoli hanno molta padronanza nell’utilizzo dei materiali. Alla concezione dell’individuo come parte integrante di una comunità, si ricollega anche il valore positivo dato all’emulazione e alla omologazione. Fra i bambini quest’aspetto culturale si traduce quindi nella difficoltà di sviluppare attività con autonomia e creatività. Il bambino cinese tende a copiare disegni, temi, esercizi, nel tentativo di omologarsi agli altri o ad un modello. Ma questo, benché nella società occidentale possa essere considerato un limite, nella filosofia cinese è un ottimo metodo per imparare, perché solo attraverso un esercizio pratico e metodico realizzato fin dalla più tenera età, l’individuo potrà, una volta cresciuto, sviluppare le sue doti creative.

E in effetti mi ritrovo a pensare a quella bimba cinese “sbalzata” fuori dalla sua realtà, con la quale ho potuto “entrare in contatto” solo dandole un foglio bianco che pian piano ha iniziato a riempirsi di splendidi disegni di animali marini, copiati da un libro passatole dalla sua nuova vicina di banco..

 

Tecnologia digitale nelle nostre vite: tra rischi e opportunità

Uno studio effettuato alla Duke University evidenzia come un uso eccessivo della tecnologia possa aumentare progressivamente i problemi di attenzione, di comportamento e di autoregolazione negli adolescenti che presentano un maggiore rischio di sviluppare disturbi psicopatologici.

 

L’utilizzo della tecnologia e lo sviluppo di disturbi della salute mentale negli adolescenti

Madeleine J. George, autrice principale dello studio afferma che: “Gli adolescenti sono più a rischio nei giorni in cui utilizzano maggiormente la tecnologia, rispetto ai giorni in cui ne fanno un uso limitato, in quanto sperimentano maggiori problemi di condotta ed elevati sintomi associati al Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI)”.

La ricerca è stata pubblicata in un numero speciale di Child Development e ha messo in evidenza l’associazione esistente tra salute mentale e quantità di tempo trascorso ogni giorno nell’utilizzo di social media, internet e invio di messaggi di testo in adolescenti tra gli 11 e i 15 anni.

Per lo studio sono stati reclutati 151 adolescenti con basso status socio-economico e con un elevato rischio di sviluppare problemi di salute mentale. È stata inizialmente effettuata un’indagine atta ad indagare la quantità di tempo giornaliero di utilizzo del proprio smartphone. I ragazzi sono stati intervistati tre volte al giorno per un mese con un’ulteriore valutazione effettuata a 18 mesi di distanza, per evidenziare la presenza di sintomi associati a problemi di salute mentale.

Dalle analisi si evince che gli adolescenti operano un utilizzo medio della tecnologia digitale di 2-3 ore al giorno di cui, più di un’ora, dedicata alla messaggistica con una media di 41 messaggi al giorno.

I risultati dello studio mostrano come un utilizzo eccessivo della tecnologia da parte di questi adolescenti a rischio provochi un aumento di disturbi comportamentali, in quanto tendono ad essere più aggressivi e a mentire in misura maggiore. Inoltre si evidenzia una maggiore difficoltà nel prestare attenzione, evidenziando dunque uno dei principali sintomi presenti nel DDAI.

Un ulteriore dato della ricerca mostra come in questi adolescenti, che abusano delle nuove tecnologie, si sviluppi un progressivo aumento di problemi di condotta e di autoregolazione ovvero, di incapacità di controllare il proprio comportamento e le proprie emozioni.

L’autore dello studio, il Professor Candice Odgers spiega che non è ancora chiaro se l’elevato utilizzo della tecnologia sia semplicemente un marker di problemi di salute mentale oppure provochi un’esacerbazione di sintomi già esistenti.

 

Gli effetti positivi della tecnologia

Tuttavia, dalla ricerca si evidenziano anche risultati positivi. Infatti, l’elevato utilizzo della tecnologia digitale è associato anche ad una diminuzione dei sintomi di ansia e depressione. I dati suggeriscono che i giovani d’oggi possono utilizzare la tecnologia in modo positivo per mettersi in contatto tra di loro, piuttosto che isolarsi.

 

Conclusioni

Il professor Odgers osserva che gli adolescenti che hanno preso parte allo studio presentavano già un elevato rischio di sviluppare patologia mentale, indipendentemente dall’utilizzo della tecnologia digitale. Dunque, non è chiaro se questi risultati siano applicabili all’intera popolazione di ragazzi adolescenti.
Di fatto questo è uno studio correlazionale, è quindi possibile che altri fattori, oltre all’uso della tecnologia, abbiano potuto causare l’aumento di problemi di salute mentale.

Dato il considerevole uso della tecnologia digitale, i ricercatori suggeriscono di indagare in maniera approfondita gli effetti legati al suo utilizzo.

Attualmente Odgers and George stanno conducendo un ampio studio in cui sono stati reclutati più di 2,000 adolescenti. L’obiettivo principale è quello di indagare in che modo e perché l’elevato utilizzo della tecnologia digitale possa essere un indice d’insorgenza dei problemi di salute mentale in alcuni adolescenti. In aggiunta, lo studio indagherà anche se la continua esposizione, che implica una costante interazione con altri esseri umani, possa diventare un’opportunità per migliorare la salute mentale.

Gli antidepressivi hanno lo stesso effetto su tutti?

Attualmente, nel campo della psichiatria si assiste ad un rinnovato interesse ad identificare i fattori clinici e biologici che aiutino gli psichiatri a scegliere il trattamento migliore per ogni paziente depresso. Tale obiettivo è fermamente perseguito da Leanne Williams (2017), co-autore di una nuova interessante ricerca.

 

Come scegliere l’antidepressivo giusto

L’efficacia degli antidepressivi è inconfutabile, ma selezionare quello più adatto ad ogni paziente può essere un processo caratterizzato da “prove ed errori”. Infatti, può accadere che si debbano assumere diversi farmaci prima di trovare quello giusto. Un approccio psichiatrico che consideri in modo complementare variabili diverse, come genere, indice di massa corporea (IMC) e profilo sintomatologico del paziente, potrebbe rivelarsi più preciso ed adeguato a delineare un trattamento ‘pensato su misura’ per ciascun paziente. Personalizzare il trattamento consentirebbe di giungere più facilmente al miglioramento sintomatologico del paziente.

Attualmente, nel campo della psichiatria si assiste ad un rinnovato interesse ad identificare i fattori clinici e biologici che aiutino gli psichiatri a scegliere il trattamento migliore per ogni paziente depresso.

La ricerca: quali sono i possibili fattori predittivi del grado di remissione della depressione

Tale obiettivo è fermamente perseguito da Leanne Williams (2017), co-autore di una nuova interessante ricerca. L’ipotesi è che l’obesità (alto IMC) e il sesso, insieme, siano i fattori predittivi del grado di remissione dei sintomi depressivi nei pazienti. I dati della ricerca sono stati raccolti su un campione clinico di 659 soggetti di età compresa tra i 18 e i 65 anni, attraverso la partecipazione allo studio internazionale per predire il trattamento ottimale per la depressione (iSPOT-D).

I partecipanti sono stati assegnati in modo randomizzato a tre gruppi sperimentali, in cui venivano somministrati per otto settimane tre tipi di farmaci antidepressivi: venlafaxina-XR, sertralina ed escitalopram. Per ciascun soggetto sono stati misurati peso e altezza e monitorati i cambiamenti nella gravità della sintomatologia attraverso la somministrazione, prima e dopo il trattamento, della scala self-report Hamilton Rating Scale. Alla fine del trattamento, i pazienti per i quali si riscontrava un miglioramento significativo a livello sintomatico erano definiti “in remissione”, viceversa per coloro che non riscontravano un miglioramento erano definiti “non in remissione”.

I risultati hanno mostrato che uomini e donne con un alto IMC, a differenza dei soggetti normopeso, mostravano remissione con maggiore frequenza se sottoposti a trattamento farmacologico con venlafaxina-XR (Fig.1). Nello specifico si assisteva alla riduzione dei sintomi fisici tipici della depressione, come disturbi del sonno, ansia somatizzata e appetito.

immagine 1

Fig.1. Rappresentazione delle probabilità di remissione in funzione dell’indice di massa corporea e del tipo di farmaco somministrato. Immagine adattata da Green et al. (2017).

Inoltre, indipendentemente dal tipo di farmaco somministrato, le donne con sovrappeso mostravano miglioramenti sul versante sintomatologico cognitivo (Fig.2), a livello di senso di colpa e ideazione suicidaria.

immagine 2

Fig.2. Illustrazione grafica delle probabilità di remissione in funzione dell’indice di massa corporea e del genere, indipendentemente dal tipo di farmaco somministrato. Immagine adattata da Green et al. (2017).

Queste evidenze consentirebbero agli psichiatri di abbracciare un’ottica di trattamento farmacologico su misura, reso possibile soprattutto nella prima valutazione, in cui si acquisiscono informazioni su peso, altezza e quadro sintomatologico del paziente.

Promotrice di questa posizione è Erin Green (2017), la quale sostiene che, nonostante il bisogno di replicare ed ampliare i dati, quelli raccolti attraverso la ricerca presentata siano validi per un primo cambiamento all’approccio clinico con il paziente, mancando attualmente indicatori e algoritmi specifici che guidino la scelta del trattamento per pazienti sia depressi che obesi.

Tale modalità di cura mira a rendere la farmacoterapia più precisa e senza costi aggiuntivi, semplicemente prendendo in considerazione fattori già disponibili nel colloquio anamnestico. Tale linea di ricerca, dunque, invita a ridefinire la valutazione del paziente, includendo variabili tra loro complementari che possano essere predittive di un outcome positivo.

Il ruolo della catastrofizzazione del dolore nella percezione del dolore

Catastrofizzazione del dolore: nel paziente con dolore cronico le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo.

Fumagalli Francesca Maria – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

La definizione di dolore più condivisa, proposta dall’ International Association for the Study of the Pain (IASP), descrive il dolore come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata ad un danno reale o potenziale del tessuto, o descritta con riferimento a tale danno” (Turk e Okifuji, 2001). Questa definizione è stata accolta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e sottolinea come il dolore sia un’esperienza “somatopsichica” unitaria (Molinari e Castelnuovo, 2010). Esistono due tipologie di dolore (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009): il dolore acuto, “utile”, ossia un segnale d’allarme, che ci permette per esempio di diagnosticare precocemente una malattia e il dolore cronico, “inutile”, quando la sofferenza degenera dalla sua funzione iniziale di allarme e diventa un sintomo prolungato, che lede il benessere della persona e la sua qualità della vita. Il dolore che perdura nel tempo, diventando fonte di disabilità per la persona, si tramuta in malattia, condizionando l’intera vita del soggetto; per la sua durata imprevedibile e la sua intensità variabile, con una tendenza ad aumentare col tempo, viene anche chiamato “dolore totale” (Notaro, Voltolini e Ferrario et al., 2009).

 

Ansia e catastrofizzazione nel dolore

La prevalenza dell’ansia nella popolazione con dolore cronico arriva al 60% se si considerano in modo unitario il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo dell’adattamento con ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo da stress post-traumatico e l’agorafobia (Ercolani e Pasquini, 2007).

Inoltre Ercolani e Pasquini (2007) ricordano che l’ansia di rado si manifesta in modo isolato, ma di solito coesiste con la depressione e nel paziente con dolore cronico non maligno le componenti dominanti dell’ansia sono l’ipervigilanza e la catastrofizzazione. In questi pazienti l’ansia assume le caratteristiche della paura della morte, del dolore incontrollabile oppure di preoccupazioni per famiglia, problemi finanziari, perdita della dignità e del controllo del proprio corpo e dell’inquietudine spirituale, come ricorda Antonelli (2003).

La catastrofizzazione del dolore si è rivelata essere una delle variabili psicologiche con la più robusta e consistente associazione sia con il dolore in forma acuta che cronica, sia con la percezione del dolore in contesto sperimentale (Fillingim, 2015).

Non è chiaro quando il termine catastrofizzazione sia stato introdotto nella letteratura psicologica, inizialmente venne usato per descrivere la presenza di pensieri eccessivamente negativi, tipici dei pazienti depressi (Sullivan, 2009). Beck (1967) descrive la catastrofizzazione come una “distorsione cognitiva” che può contribuire allo sviluppo o all’esacerbazione dei sintomi di depressione. Secondo la definizione di Sullivan e collaboratori (2000) la catastrofizzazione può essere intesa proprio come un set mentale messo in atto durante un esperienza di dolore attuale oppure quando tale esperienza viene anticipata. Quando la tendenza a catastrofizzare viene trattata in relazione alla sintomatologia ansioso-depressive essa è intesa in modo “patologico”, in termini globalmente negativi; nel contesto del dolore, la catastrofizzazione non possiede necessariamente questa valenza (Sullivan et al, 2009). Nella vita quotidiana di alcuni soggetti infatti la tendenza a catastrofizzare può avere una valida funzione di strategia di coping (Sullivan, 2009).

Sullivan, Bihop e Pivik (1995), con lo scopo di realizzare uno strumento self-report valido e indicativo della tendenza a catastrofizzare il dolore sia in popolazione clinica che normale, nel 1995 sviluppano la Pain Catastrophizing Scale (PCS). Tale scala è intesa come uno strumento di valutazione comprensivo per l’indagine dei pensieri catastrofici correlati al dolore; valuta tre dimensioni del dolore quali la ruminazione (con item quali “continuo a pensare a quanto intensamente voglio che il dolore finisca”), l’esagerazione (ad esempio “mi chiedo se qualcosa di serio possa accadermi”) e il sentimento di impotenza (ad esempio “sento di non riuscire ad andare avanti”). Tale strumento di valutazione è stato validato in lingua italiana dal gruppo di Monticone e collaboratori (2011), la Pain Catastrophizing Scale Italian version (PCS-I), usata per la valutazione dei pensieri e dei sentimenti che i soggetti provano nel momento in cui sperimentano dolore.

 

Come i pensieri catastrofici influenzano il dolore

Sono stati proposti differenti modelli teorici per spiegare il modo in cui la presenza di pensieri catastrofici possano influenzare la percezione del dolore (Sullivan et al, 2001).

 

Dolore, catastrofizzazione e rimuginio

Secondo il modello di Beck, la catastrofizzazione del dolore può essere considerato uno schema mentale cognitivo ed affettivo negativo, caratterizzato dall’amplificazione degli effetti negativi del dolore, dalla ruminazione e dal rimuginio sul dolore, e da sentimenti di impotenza nell’affrontarlo (Sullivan et al, 2001). Coloro che tendono a catastrofizzare il dolore risultano avere una minore percezione di controllo del dolore, un funzionamento sociale ed emotivo peggiore, e una peggiore risposta ai trattamenti medici (Lo Sterzo, 2015). Secondo tale prospettiva i pensieri catastrofici legati al dolore verrebbero trattati similmente al trattamento attuato per la depressione, utilizzando per esempio tecniche come la ristrutturazione cognitiva, con lo scopo di ridurne la disfunzionalità (Sullivan, 2009). Ciò comporterebbe un miglioramento del funzionamento fisico e psicologico nel breve termine ed un aumento della probabilità di ritornare a lavoro nonostante la presenza di dolore persistente (Lo Sterzo, 2015).

 

Attenzione e dolore

Un secondo modello descrive la catastrofizzazione come una forma di valutazione o appraisal (Sullivan, 2009). Questo processo di valutazione ha come risultato un’aumentata attenzione al dolore, che comporta una percezione di minaccia maggiore e l’aspettativa di un dolore più forte (Sullivan, 2009). In questa ottica un intervento utile comporta l’uso di tecniche di spostamento del focus attentivo dai pensieri catastrofici, per esempio attraverso strategie di distrazione. Questo teoricamente comporterebbe una riduzione delle risorse attentive destinate ai pensieri catastofici e alla percezione del dolore (Eccelston & Crombez, 1999).

I risultati di numerose ricerche hanno mostrato che la catastrofizzazione è strettamente associata ad altre componenti della valutazione. Per esempio, potrebbe essere correlata con le valutazioni dell’efficacia percepita dal soggetto nel controllo o nella diminuzione del dolore: un’associazione negativa tra catastrofizzazione e valutazione del controllo sulla situazione è stata già riportata (Crisson e Keefe, 1988). Pare inoltre che la catastrofizzazione funzioni come un processo di appraisal, collegando le credenze sul dolore (beliefs) con gli esiti del dolore (Sullivan et al., 2000).

L’attenzione rivolta al dolore potrebbe essere quindi un substrato psicologico critico della relazione tra catastrofizzazione ed esperienza del dolore, in particolare contribuendo ad aumentare il distress fisico ed emotivo (Sullivan, 2009). Alcune metodologie, come una versione modificata del test di Stroop (Williams, Mathews, & MacLeod, 1996) o il paradigma “Dot-Probe” (MacLeod, Mathews & Tata, 1986) potrebbero essere utili per approfondire il fenomeno della focalizzazione attentiva correlata al dolore nei soggetti con tendenza alla catastrofizzazione.

Uno studio di Khatibi e collaboratori (2009) ha cercato di determinare se pazienti affetti da dolore cronico mostrino una forma di attenzione selettiva per immagini di volti esprimenti dolore. La ricerca ha utilizzato proprio una versione modificata del dot-probe detection task: in questo compito (MacLeod, Mathews & Tata, 1986), due stimoli lateralizzati, uno minaccioso e l’altro neutro, appaiono brevemente sullo schermo e la loro scomparsa è seguita dalla comparsa di un probe (una figura geometrica) nella posizione precedentemente occupata da uno dei due stimoli. Ai partecipanti viene richiesto di rispondere il più velocemente possibile alla comparsa del probe. I tempi di reazione in questo compito forniscono “un’istantanea” della distribuzione dell’attenzione spaziale del soggetto, con risposte più veloci alla comparsa del probe in regioni dello spazio verso cui era stata diretta l’attenzione in precedenza. Nello studio di Khatibi e collaboratori (2009) vengono presentate espressioni facciali di dolore, di felicità e neutre. I risultati suggeriscono che i pazienti affetti da dolore cronico, rispetto ai soggetti di controllo prestino attenzione selettivamente ai volti esprimenti dolore; inoltre la tendenza a shiftare l’attenzione verso tali stimoli è influenzata positivamente dall’elevato livello di paura del dolore o delle lesioni: maggiore è il livello di paura per il dolore, maggiore l’attenzione rivolta agli stimoli di dolore (Khatibi et al., 2009). Saranno necessari ulteriori studi per approfondire tale aspetti.

 

Catastrofizzazione del dolore come strategia di coping

Un ulteriore modello ipotizza che la tendenza a catastrofizzare possa essere vista come una modalità di coping, in particolare come un metodo per elicitare il supporto sociale da parte degli altri (Sullivan, 2009). Questa ipotesi è stata avvalorata dagli studi che mostrano come i soggetti con la tendenza a catastrofizzare, ossia i catastrophizer non solo sperimentano maggior dolore, ma sono anche in grado di esprimerlo in maniera più evidente (Sullivan et al., 2000).

Questa proposta valorizza un’eventuale dimensione adattiva della catastrofizzazione: le ricerche sviluppate negli ultimi decenni indicano che gli individui che tendono a catastrofizzare sono più attenti ai segnali di dolore e più in grado di manifestare il distress provato sia dal punto di vista fisico che emotivo (Sullivan et al., 2001). Se consideriamo che il dolore è spesso indicativo della presenza di un danno tissutale, prestare maggior attenzione ai segnali di dolore può avere un ruolo adattivo: maggior attenzione ai segnali di dolore comporta una miglior comunicazione del dolore stesso e può portare a un individuazione e trattamento tempestivo della causa del dolore stesso.

La catastrofizzazione potrebbe rappresentare una dimensione più ampia di un approccio di coping di tipo interpersonale o condiviso: gli individui potrebbero differire per il grado in cui essi adottano obiettivi sociali o relazionali nei loro sforzi ad affrontare lo stress (Sullivan et al., 2000). Gli autori affermano che i catastrophizer possono impegnarsi in espressioni del dolore esagerate, in modo tale da massimizzare la vicinanza delle persone a loro prossime, sollecitare assistenza ed incitare risposte empatiche da parte di altri membri del gruppo sociale; perseguendo questi obiettivi di carattere sociale, i catastrophizer potrebbero inavvertitamente rendere la loro esperienza di dolore molto più negativa (Sullivan et al., 2000). In aggiunta, sollecitazioni o risposte collusive da parte di altri potrebbero servire per innescare, mantenere o rinforzare un’espressione del dolore esagerata.

La revisione dei principali modelli teorici proposta da Sullivan e collaboratori (2001) suggerisce che in realtà essi non siano necessariamente incompatibili e possano rappresentare diversi ambiti del rapporto tra le due variabili. I primi due modelli, la proposta Beckiana e l’appraisal model potrebbero essere intese come spiegazioni “prossimali” della relazione tra catastrofizzazione e dolore: essi aiutano a chiarire i possibili meccanismi alla base di questa relazione ed a spiegare l’insorgenza e il mantenimento della catastrofizzazione. Il modello della catastrofizzazione come strategia di coping può essere interpretato come una spiegazione più “distale” della relazione tra le due variabili: l’inseguimento di obiettivi sociali si trasformerebbe inavvertitamente in un meccanismo maladattivo, accrescendo la negatività dell’esperienza di dolore.

 

Variabili anatomiche e variabili psicologiche nel dolore

Il modello bio-psico-sociale del dolore suppone che l’esperienza del dolore sia determinata da un interazione complessa e bidirezionale tra fattori biologici, psicologici e sociali (Fillingim, 2015). Nel loro articolo Sullivan e collaboratori (2001) evidenziano la correlazione esistente tra gli aspetti fisiologici e gli aspetti psicologici della catastrofizzazione, ricordando come la teoria del cancello (gate control theory), nota anche come teoria del controllo del dolore in entrata, di Melzack e Wall (1965) sia stata la prima teoria a suggerire che il cervello possa giocare un ruolo dinamico nella percezione del dolore, invece che essere considerato un passivo ricettore di segnali nocicettivi.

Come suggerisce Summers (2000), la teoria propone che l’esperienza del dolore coinvolga tre dimensioni, distinte ma interconnesse: una componente fisiologica, che tratteggia il cammino dello stimolo doloroso dalla periferia al centro; due dimensioni psicologiche, di cui una riguarda la valutazione cognitiva, che partecipa al processo di costruzione di significato dell’esperienza del dolore, l’altra concerne un processo affettivo-motivazionale, legato a valori, alle credenze, ai tratti ed alle esperienze del singolo individuo (Molinari e Castelnuovo, 2010).

Sarebbero specifiche attività del cervello ad aprire o chiudere il meccanismo spinale del cancello, accrescendo o diminuendo la sensazione di dolore, e che i fattori psicologici abbiano un impatto sull’esperienza di dolore tramite la loro influenza sul meccanismo di controllo spinale. Lo studio dell’attività cerebrale correlata al dolore per mezzo di strumenti tecnologici, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) ha permesso di approfondire ancora di più il rapporto tra i meccanismi psicologici e fisiologici coinvolti nell’esperienza del dolore stesso, evidenziando come le variabili psicologiche collegate al dolore potrebbero avere specifici substrati neurofisiologici e neuroanatomici.

Uno studio di Bandura e collaboratori (1987) ha riscontrato la presenza di un collegamento tra variabili psicologiche e sistema degli oppiacei endogeni. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti a stressor (pressioni con freddo), in seguito sono state insegnate loro numerose strategie cognitive di controllo del dolore ed infine hanno valutato la fiducia che riponevano nelle loro abilità di tollerare il dolore. L’uso di strategie cognitive ha favorito una maggiore percezione di auto-efficacia (self-efficacy), con un aumento della tolleranza al dolore (Sullivan et al., 2001). Tuttavia, sulla percezione di auto-efficacia ha interferito di più la somministrazione di naloxone rispetto che l’uso di tecniche cognitive. La relazione che è stata osservata tra catastrofizzazione e self-efficacy suggerisce comunque che la catastrofizzazione potrebbe essere collegata in qualche maniera all’azione degli oppioidi endogeni.

Melzack (1990; 1993; 1999) ha poi proposto la teoria della neuromatrice, approfondendo ed ampliando il ruolo dinamico del cervello nella spiegazione del dolore. Questo modello suggerisce che nonostante l’elaborazione del dolore a livello cerebrale sia geneticamente determinata, può essere modificata dall’esperienza. È ragionevole pensare che, impegnandosi in attività cognitive che amplificano il segnale di dolore, i meccanismi neurali centrali diventino più sensibili nelle persone catastrophizer, causando uno stato di iperalgesia cronica (Sullivan et al., 2000).

Per esempio, le interazioni sociali che rinforzano il dolore ed i sintomi fisici durante l’infanzia possono avere conseguenze fisiologiche a lungo termine: stimolazioni eccessivamente avversive, violenze multiple, malattie o abusi, possono alterare l’architettura neurale e causare uno stato cronico di iperalgesia.

Per Sullivan e collaboratori (2001) le recenti ricerche suggeriscono che la relazione tra catastrofizzazione ed il meccanismo nocicettivo centrale sia bidirezionale: anche se il processo che sta alla base della relazione potrebbe inizialmente essere di natura psicologica, le variazioni della sensibilità neurale, causate dall’esperienza, potrebbero essere tali da portare questi processi sempre più sotto il controllo fisiologico. La natura potenzialmente autosufficiente della relazione bidirezionale tra catastrofizzazione e processo di percezione del dolore potrebbe essere uno dei fattori che contribuisce alla cronicizzazione di alcune condizioni di dolore.

La catastrofizzazione può essere considerata un buon indicatore per accresciute esperienze di dolore: alcune sue caratteristiche, come la sua relativa stabilità, la sua possibilità di misurazione e la grandezza del suo legame con il dolore e con gli outcomes legati al dolore rende la catastrofizzazione adatta alle ricerche sulla psicologia del dolore (Sullivan et al., 2001).

 

Componenti genetiche e psicologiche nella percezione del dolore

Seguendo le proposte del modello bio-psico-sociale, in anni recenti sì è dato spazio allo studio dell’aspetto biologico del dolore (Fillingim, 2015), in particolare al contributo della componente genetica, con il tentativo di individuare geni associati alle risposte al dolore sia clinico che sperimentale (Fillingim et al.,2008; Diatchenko et al., 2013), apportando nuove informazioni riguardo al circuito biologico che contribuisce all’esperienza di dolore. Ma l’influenza della componente genetica e di quella psicologica sulla percezione del dolore è quasi sempre stata concettualizzata separatamente (Fillingim, 2015). Trost e collaboratori (2015), in uno studio condotto su gemelli monozigoti e dizigoti, ipotizzano che vi sia un substrato genetico che contribuirebbe alla sviluppo della tendenza a catostrofizzare, una delle variabili psicologiche che maggiormente correlano con il dolore.

L’idea che la catastrofizzazione sia in parte geneticamente determinata non stupisce, alla luce degli studi che già hanno dimostrato come molti fenotipici psicologici come la personalità, la depressione e le funzioni cognitive lo siano (Bouchard & McGue, 2003; Spangers et al., 2010). Nonostante tale evidenza, Trost e collaboratori (2015) sottolineano come la maggior quota di variabilità nella catastrofizzazione del dolore sia attribuibile a fattori ambientali: potrebbe esservi una predisposizione innata verso la catastrofizzazione la quale causerebbe un’elevata attenzione rivolta alle informazioni legate al dolore, ciò faciliterebbe l’apprendimento di una tendenza a prestare maggior attenzione agli outcome negativi correlati al dolore (Fillingim, 2015).

Questi risultati inoltre sottolineano come la nostra propensione a separare i fattori di rischio in diversi domini (ad esempio biologico vs psicologico) rappresenti una distinzione artificiale, basata principalmente bias e limitazioni delle ricerche scientifiche più che su di una accurata caratterizzazione di cosa influenzi la salute dell’uomo (Fillingim, 2015). I futuri studi sui correlati sociali, cognitivi, emozionali e fisiologici della catastrofizzazione contribuiranno in maniera sostanziale allo sviluppo e all’elaborazione di una teoria comprensiva, che affronti l’interazione tra i fattori psicologici e fisiologici che sono alla base dell’esperienza del dolore (Sullivan et al., 2001).

cancel