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Quando una storia finisce: la paura di un mondo nuovo – Le risposte di fluIDsex

Ho paura del mio corpo, ho paura di essere toccata di nuovo. Esco da una relazione decennale, primo e unico amore della mia vita, e ora credo di non essere più capace di relazionarmi con uomini che mi interessano. Mi sento di nuovo l’eterna adolescente: inconsapevole, insicura, timida, impacciata. Come posso mettermi in gioco di nuovo se sono sempre a disagio e non sono capace di lasciarmi andare? Anche solo per un abbraccio o per un innocente saluto, mi irrigidisco e mi chiudo a riccio. Sono pronta a mettermi in gioco? Io sento di sì (Onde Quadre)

 

Cara Onde Quadre,

Uscire dalla casa d’origine per avventurarsi e scoprire il mondo non è una passeggiata: si tratta infatti di lasciare quello spazio “sicuro”, di cui conosciamo leggi e linguaggi, per avvicinarci a un mondo totalmente imprevedibile e sorprendente. Questo spaventa: è innegabile. Ma, nonostante questo, l’infante decide comunque di immergersi nel mondo, iniziando quel processo che lo porterà alla conquista dell’adultità,e divenendo, così, adolescente.

Le rievoca qualcosa? Come un’adolescente goffa e titubante si muove all’interno di un mondo nuovo, infatti, lei sembra avvertire quello spaesamento tipico dall’esplorazione di un mondo che funziona diversamente e che parla una lingua nuova, diversa da quella finora usata con l’ex compagno, funzionale esclusivamente all’interno della vostra particolare coppia. Una lingua nuova, con codici ed espressioni diverse da quella parlata fino ad adesso con il suo compagno, efficace unicamente all’interno della vostra particolare coppia.

Tuttavia questa paura sembra generare in lei un blocco che pare un ostacolo. Come riuscire a superarlo? Probabilmente accettare che la fine dell’unica e più importante storia con un uomo comporti un senso di smarrimento e di oggettive difficoltà a capire il mondo dell’altro e a farsi capire da questo può essere un passo importante. Come anche fermarsi a riflettere su cosa della possibilità di essere toccata da mani nuove la spaventa. Che sia la possibilità di sperimentare nuovamente una sensazione di piacere con un uomo diverso dal suo ex compagno (e quindi più “difficile da prevedere”)? Convinta che i tempi siano maturi dall’energia con cui afferma di sentirsi “pronta”, la invito a riflettere su quale possa davvero essere il rischio del “mettersi in gioco” con un uomo nuovo e su cosa la spaventa tanto da “bloccarla”.

Irene Lisa Gargano

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Come migliorare la propria grafia nell’età digitale

La grafia è regolata dal cervello ed, in particolar modo, dalla memoria motoria. E’ proprio lei ad immagazzinare l’input motorio e rimandare l’output al resto del corpo che, come un meccanismo perfetto, riprende il movimento e, grazie all’allenamento continuo, permette di migliorare la fluidità dello stesso.

“Ogni lettera, basata su cerchi e quadrati, è un microcosmo che riflette la perfezione e la bellezza del macrocosmo”

(tratto da Calligrafia, l’Arte della bella scrittura, E.Pulvirenti)

 

La scrittura ai tempi dell’era digitale

Siamo ufficialmente nell’età del digitale, dove i nostri figli sanno utilizzare uno smartphone e noi comunichiamo con gli audio e i video.
Scriviamo con la penna grafica, prendiamo appunti con l’Ipad, impariamo con le slide, veicoliamo le nostre emozioni e i nostri ricordi grazie ad una tastiera, relegando il compito di memorizzare agli strumenti che oggi abbiamo a disposizione.

Questo semplifica (e velocizza) grandemente il lavoro che ognuno di noi deve svolgere nell’arco della giornata, ma abbiamo lasciato indietro alcune componenti fondamentali.

Mentre i nostri genitori erano quasi costretti all’ora di bella scrittura in cui stanghette, ondine e cerchietti erano all’ordine del giorno, oggi la calligrafia, soprattutto nel sistema scolastico, ha perso il suo ruolo centrale di portatrice di bellezza, di microcosmo estetico da tramandare da insegnante ad alunno, di veicolo di attenzione e concentrazione, di ritmo, di ordine.

La “vecchia scuola” si fondava su presupposti che sarebbero stati scoperti e confermati scientificamente da lì a pochi decenni: l’esercizio continuato, l’allenamento grafico e la costruzione delle lettere a partire dai singoli tratti è un un buon predittore per l’età adulta. In poche parole, chi aveva svolto quell’allenamento grafico durante i primi anni della scuola elementare (ora chiamata scuola primaria) aveva molte più probabilità di sviluppare una bella grafia da adulto.

E’ altresì vero che oggi, questo genere di allenamento grafomotorio, risulterebbe funzionale come predittore di eventuali disturbi dell’apprendimento legati alla grafia tanto per poter intervenire in tempo nel recupero e/o nel potenziamento delle abilità grafiche.

Le componenti della grafia e il ruolo del cervello

Ma di cosa è composta principalmente la scrittura? E che ruolo svolge il cervello, in tutto questo?

La grafia si basa principalmente su tre componenti:
– Coordinazione oculo-manuale
– Motricità fine della mano
– Dinamicità del corpo.

Tutto ciò è regolato dal cervello ed, in particolar modo, dalla memoria motoria. E’ proprio lei ad immagazzinare l’input motorio e rimandare l’output al resto del corpo che, come un meccanismo perfetto, riprende il movimento e, grazie all’allenamento continuo, permette di migliorare la fluidità dello stesso. Sì, perché l’obiettivo principale della grafia è quello di poter creare una parola intera da un unico gesto (al massimo due, nel caso di trattini e puntini!), velocizzando ed economizzando al massimo il lavoro di mente e corpo.

Se siamo rimasti colpiti dalla parola allenamento è perché imparare la grafia (o semplicemente migliorarla) non è così diverso dal prepararsi per una maratona o cominciare a suonare uno strumento: l’ esercizio cosiddetto sensato, ovvero quello dove ci rendiamo conto dei punti di forza e dei punti di debolezza e dove aggiustiamo continuamente il tiro, permette di incrementare la correttezza e la velocità del meccanismo stesso.

Questa è l’unica parola “brutta” che leggerete perché la parola allenamento rimanda sempre ad un’immagine di fatica e privazione, anche se ciò è necessario, soprattutto quando siamo desiderosi di voler migliorare la nostra grafia in età adulta.

La notizia bella è che tutti possono riuscirci.

Sì, perché il nostro cervello è plastico ed, escludendo disturbi neurologici o condizioni particolari, siamo tutti capaci di ottenere miglioramenti.

Basta seguire dei piccoli accorgimenti nelle nostre abitudini quotidiane, come:
– Scrivere il più possibile a mano (es., prendere appunti)
– Utilizzare lo strumento che troviamo più maneggevole (es., penne gel)
– Dedicarsi agli esercizi grafomotori almeno dieci minuti al giorno (su Internet avete ampia scelta)
– Non perdere la speranza, il cambiamento necessita di costanza.

I benefici della scrittura sono molteplici e risaputi: oltre alla capacità di farci rilassare, studi scientifici hanno rivelato che utilizzare la scrittura per prendere appunti aumenta la capacità di memorizzare. Questo perché la scrittura diventa una memoria esterna alla quale potersi affidare per alleggerire il carico cognitivo dell’apprendimento.

E allora prendiamo carta e penna e cominciamo ad allenarci!

La musica come strumento di prevenzione e benessere nella relazione di attaccamento

La musica ha delle potenzialità educative, preventive e terapeutiche che la rendono un interessante strumento in grado di facilitare la comunicazione, la relazione, lo scambio emotivo e affettivo; essa nasconde potenzialità anche per il benessere della relazione di attaccamento tra madre e bambino.

Camilla Bongiovanni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il potere della musica è noto da millenni, ma l’idea di una musicoterapia strutturata emerse soltanto verso la fine degli anni Quaranta, soprattutto per via del gran numero di soldati che tornavano dai campi di battaglia della seconda guerra mondiale con ferite alla testa e lesioni cerebrali traumatiche o «affaticamento da battaglia». Nel caso di molti di questi soldati si scoprì che il loro dolore, la loro sofferenza e perfino – pareva – alcune risposte fisiologiche (frequenza del polso, pressione ematica e simili) potevano essere alleviati o migliorati dalla musica.(Sacks, 2010)

La musica, intesa come forma d’arte fortemente comunicativa e emozionale, ha delle potenzialità educative, preventive e terapeutiche che la rendono un interessante strumento in grado di facilitare la comunicazione, la relazione, lo scambio emotivo e affettivo, la motricità, il linguaggio e, in modo indiretto, il benessere della persona.

In particolare, l’uso della musica e degli elementi musicali, come suono, ritmo, melodia e armonia, in un percorso volto a soddisfare necessità fisiche, emozionali, psicologiche e sociali dei soggetti coinvolti e a sviluppare le funzioni potenziali e residue dell’individuo, migliorando così la sua qualità della vita, si può definire, a prescindere dall’ambito di applicazione, musicoterapia: la musicoterapia è dunque una modalità di approccio alla persona che utilizza il suono e la musicalità come strumento di comunicazione non verbale, per intervenire a livello educativo, preventivo e terapeutico (Postacchini, 1985; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Sacks, 2010).

Il potere benefico della musica: da dove deriva?

Le potenzialità della musica rispetto al benessere fisico, psicologico e sociale dell’uomo si basano sul fatto che quest’ultima veicola un significato emotivo, soggettivo e spesso molto intenso: tramite la musica, è possibile esplicitare, condividere ed elaborare in modo funzionale il proprio vissuto emotivo, entrando così in risonanza emotiva con sé stessi e con l’altro.

L’aspetto prettamente emotivo dell’esperienza musicale, poi, è strettamente connesso a quello fisiologico: l’ascolto di melodie lente e tendenzialmente classiche, comporta una riduzione complessiva del livello di attivazione dell’organismo, in particolar modo della pressione arteriosa, del battito cardiaco, del ritmo respiratorio e della secrezione di corticolo, riduzione che ha degli effetti benefici sul benessere psicofisico dell’organismo, oltre a veicolare vissuti di affettività ed emotività positiva (Shenfield, Trehub, Nakata, 2003; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007).

Infine, la musica può diventare uno strumento molto utile per la stimolazione dello sviluppo neurobiologico delle strutture cerebrali nel bambino oppure dell’adulto, nel caso di lesioni, traumi o danni alle aree corticali e sottocorticali. Infatti, essendo la musica una funzione complessa che coinvolge e stimola ampie reti neurali ed essendo essa accessibile a tutti, a prescindere dalle competenze linguistiche, cognitive e sociali, le esperienze musicali sembrano poter modificare entro certi limiti le connessioni cerebrali e migliorare alcune capacità non prettamente musicali, come la memoria, le competenze simboliche, la coordinazione motoria (Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Sacks, 2010).

Gli effetti della musica sulla relazione di attaccamento

Per quanto riguarda nello specifico la prima infanzia e la relazione di attaccamento, le opportunità che la musica offre rispetto allo sviluppo cognitivo, linguistico e relazionale del bambino e rispetto al funzionamento, al benessere e alla condivisione dell’affettività positiva nella coppia genitore-bambino, sono state ampiamente dimostrate negli ultimi decenni (Postacchini, 1985; Standley, 2002; Tafuri, Villa, 2002; Abad, Edwards, 2004; Schwaiblmair, 2005; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Tafuri, 2007; Shoemark, Dearn, 2008; Edwards, 2011a, 2011b).

La relazione di attaccamento, infatti, si basa sulla regolazione interattiva e reciproca degli stati psicobiologici e, di conseguenza emozionali, di madre e bambino: durante episodi di sintonizzazione reciproca all’interno della diade, la musica e gli scambi ritmici e melodici nella diade possono diventare strumenti fondamentali per il benessere nella coppia madre-bambino, dal momento che stimolano e rinforzano schemi di interazione strutturati, ma flessibili, basati sull’alternanza dei turni e quindi su un consolidato sistema di aspettative reciproche, su cui la sicurezza della relazione di attaccamento può fondarsi (Malloch, 1999; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007; Tafuri, 2007; Shoemark, Dearn, 2008; Edwards, 2011a, 2011b).

Secondo Edwards (Edward, 2011a), la musicalità comunicativa dello scambio madre-bambino, costruita su un ritmo musicale flessibile, negoziato e condiviso tra i membri della diade, che continuamente modulano tempo, intensità, intonazione e movimento in modo tale da adattarsi al partner, permette al caregiver e all’infante di esprimere e di scambiare con l’altro informazioni sul proprio stato emotivo, rafforzando così il legame e il rispecchiamento reciproco nella diade; la musica può essere nella prima infanzia uno dei principali mezzi di sintonizzazione con l’adulto e di comunicazione, istintivo, implicito, non verbale e, in quanto tale, adeguato al livello di sviluppo linguistico, cognitivo e emotivo del bambino.

This musical experience can offer a supportive holding place for the incomprehensible of their feeling world until it is ready, like the infant’s eventual development of words, to become a story that can be hold. (Edwards, 2011a)

La musica, però, non ha un ruolo soltanto nella sincronia emotiva all’interno della relazione di attaccamento: le esperienze musicali, soprattutto se partano dello scambio tra madre e bambino, stimolano e sostengono lo sviluppo dei processi percettivi, linguistici, cognitivi e di elaborazione e integrazione delle informazioni provenienti dal mondo esterno (Standley, 2002; Tafuri, Villa, 2002; Schwaiblmair, 2005; Schön, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007); inoltre, tramite la musica, intesa come rituale e esperienza esclusiva e ripetuta in contesti o in momenti particolari, il bambino ha la possibilità di raggiungere con più facilità e continuità compiti evolutivi cruciali, come la regolazione della nutrizione, del ritmo veglia-sonno, della stimolazione attentiva e affettiva.

A conferma del potenziale ruolo della musica nella prima infanzia e, specificamente, nella relazione di attaccamento, la meta-analisi condotta da Standley e colleghi (Standley, 2002) conferma l’effetto, significativo, globale e unidirezionale della musica sul miglioramento della relazione madre-bambino, oltre che sul benessere di entrambi: ad esempio, dalla ricerca emerge che melodie e suoni ripetitivi e musicali hanno un effetto immediato nel rilassamento del neonato, riducendo il livello di attivazione e di stress e inducendo il sonno e la calma; inoltre, la musica stimola e orienta lo sviluppo linguistico del piccolo, in quanto fornisce gli elementi sonori di base, tra cui non solo i suoni, ma anche la ritmicità e l’intonazione, della lingua madre; continuando, la musica, come esperienza ripetuta, protetta e semplificata, costituisce un meccanismo che permette di mantenere una sorta di equilibrio, durante stimolazioni multimodali e complesse, stimolando e incrementando lo sviluppo neurologico del neonato e promuovendo la tolleranza a stimolazioni sempre più articolate; infine, la musica può offrire ulteriori benefici al neonato e al caregiver, rafforzando il legame emotivo e la sintonia tra i due e creando spazi di affettività positiva.

This meta-analyses on music research with premature infants showed an overall large, significant, consistent effect size of almost a standard deviation. […] Music alone or combined with the human voice would seem to be a valuable resource for enhancing developmental goals and functioning to reduce stress, to provide developmental stimulation during a critical period of growth, to promote bonding with parents, or to facilitate neurologic, communication, and social development. (Standley, 2002)

Emotional Faces Memory Task: il trattamento della depressione attraverso l’uso di un software

Un trattamento possibile per la cura della depressione utilizza la tecnologia Emotional Faces Memory Task (EFMT) che ha determinato una riduzione significativamente maggiore dei sintomi di disturbo depressivo maggiore (DDM)

 

Un trattamento possibile per la cura della depressione utilizza l’ Emotional Faces Memory Task (EFMT), una tecnologia originariamente sviluppata da due ricercatori del Monte Sinai, che ha determinato una riduzione significativamente maggiore dei sintomi di disturbo depressivo maggiore (DDM) rispetto a un gruppo di controllo, secondo i risultati clinici iniziali presentati alla “Convenzione Scientifica annuale della Società di Psichiatria Biologica”, il 19 maggio 2017 a San Diego.

Diventa sempre più urgente il bisogno di trattamenti efficaci per il disturbo depressivo maggiore (DDM) che stiano al passo con la sempre più avanzata comprensione della plasticità neurale fornita dalle neuroscienze cognitive.

L’ Emotional Faces Memory Task per la cura del disturbo depressivo maggiore

L’ Emotional Faces Memory Task è stato progettato per migliorare l’elaborazione delle informazioni emotive e il controllo dei networks cerebrali ad esse collegati, ed è stato presentato come studio sperimentale da Iacoviello et al., nel 2014.

In questo primo lavoro i risultati hanno dimostrato che i partecipanti al training Emotional Faces Memory Task presentavano una riduzione sintomatica di circa il 50% rispetto al gruppo di controllo, con miglioramenti minimi anche nell’attenzione e nella memoria di lavoro.

A fronte di tali risultati il gruppo di ricerca della Icahn School of Medicine del Mount Sinai di New York formato dal Dottorato di Ricerca di Brian Iacoviello, Assistente Professore di Psichiatria, Direttore degli Affari Scientifici per Click Therapeutics e da Dennis S. Charney, MD, Anne e Joel Ehrenkranz, Presidente e Professore di Psichiatria, Neuroscienze e Scienze Farmacologiche, ha proposto che l’ Emotional Faces Memory Task, cioè uno specifico trattamento cognitivo-emozionale fosse proposto ai pazienti tramite un’applicazione sulla piattaforma Click Neurobehavioral Intervention (CNI), piattaforma clinica-validata per il reclutamento del paziente sviluppata da Click Therapeutics ™.

Il meccanismo sottostante il disturbo depressivo maggiore comporta uno squilibrio nell’attività di regioni cerebrali specifiche: gli individui con disturbo depressivo maggiore dimostrano un’iperattività dei sistemi neurali coinvolti nell’elaborazione di emozioni, come l’amigdala, correlata ad una diminuzione dell’attività della corteccia prefrontale. L’amigdala è coinvolta nel riconoscimento di stimoli emozionali salienti in entrata, mentre la corteccia prefrontale, in quanto centro esecutivo del cervello, decide se gli stimoli in arrivo sono o meno degni di nota ed è coinvolta nei processi di regolazione emotiva.

Ai pazienti cui è stato somministrato il trattamento basato su Emotional Faces Memory Task veniva inizialmente richiesto di riconoscere un’emozione attraverso espressioni facciali presentate su uno schermo  e, in una seconda fase, veniva poi chiesto di identificare in termini quantitativi il numero di volti che esprimevano la stessa emozione.

L’obiettivo è quello di cercare di bilanciare l’attività cerebrale nelle regioni cerebrali deputate all’elaborazione delle emozioni, per promuovere un lavoro sincrono tra queste diverse aree cerebrali.

In questa ipotesi di ricerca, la terapia ha ridotto del 42% i sintomi della depressione maggiore nel gruppo sperimentale solo dopo sei settimane, a fronte della riduzione di solo il 15,7% nel gruppo di controllo, a cui veniva chiesto di svolgere un compito simile in assenza di emozioni ma con altre espressioni facciali neutre.

L’obiettivo è quello di regolare l’anormalità di pensiero che vediamo nei pazienti con disturbo depressivo maggiore – ad esempio, la ruminazione – lavorando su queste specifiche aree cerebrali. In tal senso, secondo lo studio le regioni deputate al controllo cognitivo resteranno attive anche mentre il cervello sta elaborando stimoli emozionali salienti, dando all’individuo la capacità di  regolare in modo piu’ adattivo l’attenzione, diminuendo le quote di ruminazione e pensiero perseverante – ha dichiarato il dottor Iacoviello.

Attraverso questa tecnica i pazienti possono impegnarsi nel controllo cognitivo e imparare ad regolare meglio le proprie emozioni .

Porteremo avanti questi risultati incoraggianti – continua Iacoviello – è entusiasmante avere l’opportunità di testare il programma in un grande sistema sanitario come il Monte Sinai.

Il programma in fase sperimentale è ora nelle mani di Click Therapeutics per ulteriori sviluppi, perfezionamenti e conversione in un vero e proprio dispositivo mobile, per ottenere l’approvazione della FDA come indicazione per il trattamento del disturbo depressivo maggiore e fornire una vera applicazione del futuro.

 

Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto – Report dal Seminario

“I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico e intervento” è un interessante corso di formazione pratica avanzata proposto dal Centro Clinico Crocetta di Torino, che ha come filo conduttore il concetto di dissociazione traumatica. Il calendario del master è stato ricco di appuntamenti formativi che si sono svolti a partire da gennaio e termineranno a settembre 2017, con due giornate dedicate alla comprensione del rapporto tra disturbi alimentari, trauma e dissociazione.

di Valentina Congedo

Il-trattamento-della-dissociazione-traumatica-Programma-2017Giovanni Tagliavini e Porzia Talluri sono stati i relatori del seminario del 17 giugno “Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto: riconoscere e comprendere la dissociazione somatoforme”.

Giovanni Tagliavini, direttore di Area Trauma, si è soffermato sul rapporto tra corpo e mente, sul ruolo del corpo nella salute mentale, sugli effetti che il trauma e la dissociazione hanno sulla fisiologia dell’organismo.

Porzia Talluri, psicoterapeuta, terapista HRV e Neurofeedback, ha aperto il suo intervento con alcuni cenni di neurobiologia evolutiva, descrivendo come si evolvono le strutture e le funzioni cerebrali fin dalla gestazione e l’impatto che può avere il trauma su un sistema nervoso in via di sviluppo. Inoltre, ha illustrato in modo pratico il funzionamento e l’uso del neurofeedback in psicoterapia. L’intera platea è stata invitata a svolgere esercizi di respirazione diaframmatica, per sperimentarne direttamente gli effetti benefici. Ci sono stati  proposti anche esercizi di riattivazione corporea, per stimolare la concentrazione, riappropriarsi del corpo e apprendere strategie per ridurre l’effetto “contagioso” che il trauma e la dissociazione possono avere, in formazione e terapia.

La dott.ssa Talluri ha terminato il suo intervento nella mattinata del 18 giugno, dando avvio alla seconda parte del seminario, dal titolo “Corpo, trauma e dissociazione nell’adulto. Ascoltare, curare e vivere il corpo, attraverso il corpo: neurofeedback, biofeedback, yoga e altri approcci corporei”.

Successivamente, è intervenuta la dott. ssa Stefania Nobili, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale con una formazione specifica nell’uso dello yoga a scopo terapeutico. Ha descritto alcuni elementi di teoria e pratica yogica; oltre a fornire una cornice di riferimento per comprendere l’utilità dello yoga affiancato a una psicoterapia, la dott.ssa Nobili ha proposto un’esperienza diretta, facendo sperimentare ai presenti alcune posizioni finalizzate a ristabilire il contatto con il corpo e a recuperare energie. In ultimo, ha introdotto un protocollo di applicazione dello yoga al trattamento psicologico dei pazienti traumatizzati.

Il ruolo del corpo nella salute mentale

G. Tagliavini ha sottolineato che l’integrazione è la parola d’ordine del lavoro psicologico. La salute mentale ha come presupposto un’elevata capacità di integrazione di un ampio spettro di fenomeni in una stessa personalità.

L’obiettivo principe della psicoterapia è l’integrazione di tre livelli di funzionamento della personalità: pensiero, emozione e corporeità. Solo in questo modo è possibile restituire completezza ed equilibrio all’esperienza individuale (con ricadute positive sull’agire relazionale).

I pensieri hanno la caratteristica di essere multipli; le emozioni, invece, sono binarie, mentre il corpo è sempre unico e affermativo.

Il corpo sempre fa, sta, sa, ricorda e, al suo livello integrativo, distingue e collega. È un’area della personalità che non si può ridurre ad altro, poichè rappresenta la modalità primaria e immediata di fare esperienza, la base dello sviluppo psichico e del suo funzionamento per tutta la vita. Il senso di sè è incarnato nel corpo e le esperienze coscienti sono orientate in relazione al corpo.

Il senso di sè secondo William James

William James scriveva che la peculiarità del corpo è la sua doppia natura di agente senziente e oggetto sentito, due dimensioni opposte eppur connesse dall’unicità del corpo stesso. In altre parole, William James sosteneva che il senso di sè si traduce nelle affermazioni “Io sono un corpo e agisco il mio corpo” e al tempo stesso “io ho un corpo”.

Le dimensioni della corporeità

Le teorie psicologiche attuali sul trauma riprendono queste affermazioni per astrarre le seguenti dimensioni della corporeità lungo le quali si compone la salute mentale:

  • L’ownership, ossia il senso di essere i “titolari’ del proprio corpo. Come sosteneva Cartesio, tendiamo ad identificarci coi nostri pensieri, ma essi dovrebbero farci concludere che possediamo un corpo e che ci identifichiamo con esso.
  • L’agency, ossia il senso di essere i “gestori” del proprio corpo, agenti attivi sulla realtà interna ed esterna.
  • La safety, ossia il senso di sicurezza, che comporta il sentirsi “beneficiari” del proprio corpo. La safety implica la capacità di distinguere tra propriocezione ed enterocezione, la stabilità e la congruenza delle proprie percezioni, la fiducia in esse.

Il trauma e i suoi effetti sul corpo: la dissociazione somatoforme

Un evento traumatico non elaborato divide in pezzi il sistema psichico: la disintegrazione investe sia le risposte immediate all’evento (neurovegetative, emotive, cognitive) che le dinamiche conseguenti (creazione dei ricordi e delle difese).

Il corpo traumatizzato sopravvive applicando una dissociazione primaria, che consiste nell’interruzione di alcune funzioni psichiche; spesso, successivamente, consolida queste difese con una dissociazione secondaria, ossia la divisione in parti indipendenti.

L’impossibilità a integrare ha un effetto perdurante, come se ciascun pezzo si respingesse e si opponesse all’integrazione.

Il senso di ownership, agency e safety sono perduti; ma poichè il corpo è sempre affermativo, sa, ricorda, distingue e collega le esperienze in modo traumatizzato.

Integrazione vs disintegrazione traumatica

Gli effetti sul corpo della dissociazione traumatica

La disintegrazione psichica dovuta al trauma lascia cicatrici più o meno profonde a seconda della gravità e della fase evolutiva in cui esso si verifica.

La più grave è la somatizzazione, che genera un “corpo danneggiato”.

Nelle primissime fasi evolutive, se i bisogni di un infante non vengono riconosciuti, l’attivazione neurobiochimica e comportamentale aumenta. Si verifica un iperarousal e si attivano le difese legate al sistema nervoso simpatico (comportamenti di attaccamento volti a stimolare l’accudimento, attacco, fuga). Se nessuna di queste difese funziona, si verifica un’ipoarousal che segnala l’attivazione del sistema parasimpatico (difese come svenimento, addormentamento, dissociazione, morte apparente).

Gli studi di R. Spitz sui bambini ospedalizzati mostrano gli effetti traumatici di una costante e inesorabile trascuratezza: la depressione anaclitica può diventare vacuità e addirittura generare un danno neurologico irreversibile. Ciò prova che un grave danno non deriva necesssariamente da un abuso o da comportamenti agiti, ma anche da gravi omissioni delle cure di base.

La disregolazione dell’arousal

Un’altra conseguenza del trauma sul corpo è la disregolazione dell’arousal, che genera un “corpo analfabeta”. In questo caso, i due sistemi simpatico e parasimpatico non svolgono la reciproca funzione equilibratrice e la persona non sperimenta il normale ciclo della risposta fisiologica. La neurocezione è difettosa: si verifica l’incapacità a leggere o integrare gli stimoli enterocettivi e esterocettivi (fino a generare confusione tra interno ed esterno).

I due sistemi autonomi possono andare in blocco, restando fermi su un iper o un ipoarousal; si possono verificare “situazioni sospese” episodiche o croniche nel corpo (pensieri, ideazioni o azioni che restano incomplete, si ripetono ed esauriscono psichicamente la persona traumatizzata); può diventare difficoltoso l’apprendimento dall’esperienza (il collegamento di categorie di eventi all’attualizzazione di uno stato corporeo-emotivo).

Il corpo inquietante

Un’ulteriore conseguenza del trauma è la convivenza con un “corpo inquietante”.

I fenomeni dissociativi si espandono lungo un continuum che porta a percepire il rapporto con se stessi e con il mondo esterno da “non reale”, a “non vero”, a “non mio” (che comporta la perdita dell’ownership), fino a “non me”. La persona traumatizzata sente il corpo come non riconosciuto e sperimenta episodi di depersonalizzazione e derealizzazione.

 

Infine, altra conseguenza del trauma sono le riattualizzazioni traumatiche, che si verificano in “un corpo conteso, usato, abusato”, a cui vengono sottratte energie dalla lotta tra le parti dissociative, come ha descritto vividamente Dolores Mosquera nel seminario del 21 e 22 gennaio.

 

Trattare la dissociazione somatoforme in terapia. L’uso del neurofeedback

Il senso di safety, ownership e agency sono le precondizioni per attivare i sistemi motivazionali superiori, come ad esempio quelli sociali. Il paziente, quanto più è gravemente traumatizzato, tanto più baserà la sua vita psichica sull’attivazione dei sistemi di sopravvivenza o quelli di difesa legati ai due sistemi nervosi autonomi.

Le situazioni più compromesse sono quelle in cui si riscontrano sintomi negativi: diagnosticare l’assenza di una funzione psichica attesa (come la capacità di percepire il proprio corpo o l’ambiente), è più difficile. Inoltre, se il disturbo comporta l’uso di difese tipiche dell’attivazione del sistema parasimpatico, il paziente sta peggio rispetto a un altro che utilizza le difese attive.

Anche se il paziente dice di non sentire il corpo, qualcosa in esso sta succedendo; il terapeuta deve aiutarlo a parlare del proprio corpo in modo affermativo.

Gli esami medici rivelano peculiari modificazioni cerebrali nelle persone maltrattate, soprattutto a carico della corteccia orbitofrontale: la parte più danneggiata è quella deputata alle funzioni integrative.

Il lavoro del terapeuta consiste nell’ancorare il pensiero all’emozione, e l’emozione al corpo. L’integrazione a cui tendere deve andare sia in direzione top – down che bottom – up, nella doppia via dai centri di controllo e integrazione superiori, attraverso i circuiti cerebrali delle emozioni, arrivando ai centri più antichi di regolazione fisiologica del sistema nervoso autonomo.

Come ha spiegato Porzia Talluri, l’attivazione del sistema nervoso simpatico e parasimpatico oscilla all’interno di una finestra di tolleranza. Se la persona passa troppo tempo fuori dalla finestra di regolazione (quindi in condizione di disregolazione) la finestra tende a restringersi, attivando un circolo vizioso. La disregolazione porta a irritabilità, alterazione del ritmo sonno-veglia, della fame o dell’evacuazione, cioè delle funzioni di base.

Il trauma, circoscritto o cumulativo, spinge l’individuo al di fuori di questa finestra di tolleranza, innescando gli automatismi difensivi prima del sistema simpatico, poi di quello parasimpatico. Inoltre, genera una paura soverchiante; tale emozione perde la sua funzione utile di segnalazione del pericolo e si tramuta in uno stato di allarme di sottofondo.

IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA - Seminario Dissociazione Traumatica - NeurofeedbackDurante il seminario, la dott.ssa Talluri ha applicato su un volontario un codificatore di funzioni e reazioni corporee. Esso riporta alcuni parametri di reattività fisiologica agli eventi come il battito cardiaco, il ritmo della respirazione, l’umidità della pelle, l’attività muscolare.

Questa registrazione dell’attivazione fisiologica è usata nel neurofeedback. Esso prevede un training che agisce sul respiro, l’unica variabile del funzionamento del sistema nervoso autonomo controllabile dall’individuo. L’armonia tra una corretta respirazione e il ritmo della frequenza cardiaca serve a calmare la paura, ma anche l’innesco degli automatismi fisiologici.

Una buona ossigenazione permette di essere più presenti e attenti; saper trasformare la respirazione alta “clavicolare”, in respirazione prima toracica, poi diaframmatica è un metodo per tenere sotto controllo l’ansia e gli attacchi di panico; inoltre la respirazione diaframmatica genera un utile massaggio agli organi interni, agendo positivamente sul sistema enterico; può aiutare a ridurre i problemi di insonnia.

Il neurofeedback e l’allenamento alla respirazione rimettono in equilibrio la bilancia tra sistema simpatico, parasimpatico ed enterico; questa abilità di respirare lentamente esercitata diventa una memoria procedurale che il paziente richiama al bisogno; è una capacità che alimenta il senso di autoregolazione del paziente, di ownership, agency e safety del corpo.

In terapia, è necessario cercare ogni opportunità per far vivere al paziente un’esperienza di sicurezza corporea nella prossimità con l’altro, favorendo i processi di autoregolazione anche mediante il recupero dei ricordi positivi; inoltre la terapia rappresenta un’occasione di sperimentare la regolazione interpersonale, tramutandosi in una graduale esperienza di risanamento degli effetti di disintegrazione a opera del trauma e della dissociazione.

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IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA - Seminario a Torino

IL TRATTAMENTO DELLA DISSOCIAZIONE TRAUMATICA -


I prossimi appuntamenti del corso di formazione pratica avanzata Il trattamento della dissociazione traumatica Programma 2017 (Scarica PDF)

 

Lo sviluppo del bambino: prime tappe e grandi conquiste. A che gioco giochiamo?

Ogni mamma è presa da mille ansie e paure alla nascita del proprio bambino, mille domande si susseguono, alcune si documentano leggendo libri, riviste, facendo ricerche su internet: nella molteplicità di informazioni che si acquisiscono sarà saltato fuori il nome di Piaget. Ma chi è e cosa ha da dire sui bambini?

 

Ogni mamma è presa da mille ansie e paure alla nascita del proprio bambino! Mille domande si susseguono, alcune si documentano leggendo libri, riviste, facendo ricerche su internet. Come sarà? Cosa posso fare? Mi riconoscerà?

Piaget e le tappe dello sviluppo del bambino

Nella molteplicità di informazioni che si acquisiscono sarà saltato fuori il nome di Piaget. Ma chi è e cosa ha da dire sui bambini?

Piaget è un biologo ed epistemologo francese molto importante per aver descritto minuziosamente le tappe dello sviluppo del bambino dalla nascita all’età adulta.

La sua teoria si fonda su quattro stadi che il bambino attraversa dalla nascita.

Gli stadi, come definiti dallo stesso Piaget, si suddividono in :

  • Stadio senso-motorio da 0 ai 2 anni
  • ​Stadio pre-operatorio dai 2 ai 6 anni
  • ​Stadio operatorio concreto dai  6 ai 12
  • ​Stadio operatorio formale dai 12 anni in poi

Ognuno di questi stadi rappresenta dei traguardi raggiunti e determina nuove conquiste e nuovi obiettivi. Ma nel concreto cosa succede?

Lo stadio senso motorio

Immaginiamo una mamma alle prime armi che si trova a sperimentare i primi sorrisi del bambino verso di lei. Che sta succedendo?

Secondo Piaget il bambino in questa fase è egocentrico, conosce il mondo esterno attraverso due processi fondamentali che sono l’assimilazione, come suggerisce la parole stessa, immagazzina informazioni, un esempio ne è il gioco, e l’accomodamento, quando il bambino adatta i propri schemi ai nuovi dati dell’esperienza.

Il bambino non è ancora capace di distinguere sé stesso dal mondo esterno per cui suoni, persone, cose, si susseguono senza una ragione. Ma via via che le sue funzioni cognitive si svilupperanno tutto inizierà per lui ad avere un senso.

Piaget suddivide lo stadio senso-motorio in altri 6 sottostadi, essendo questo momento per il bambino molto ricco di stimoli e crescita.

  1. riflessi innati (dalla nascita a 1 mese): il bambino non agisce sulla realtà ma aspetta che essa soddisfi i suoi bisogni. In questa fase il bambino manifesta pianto per ottenere qualcosa.
  2. reazioni circolari primarie (dai 2 ai 4 mesi): il bambino scopre di essere “agente” cioè comprende che lui può fare. In questa fase il bambino mostra interesse per gli oggetti. Cerca conferme nello sguardo della madre e pian piano con il suo aiuto inizia a giocare. Molto importante è infatti il ruolo della madre che grazie allo scambio favorisce nel proprio bambino intenzionalità e reciprocità. In questo periodo si vedranno bambini che si succhiano i piedi e mettono in bocca tutto ciò che trovano. È il loro modo di conoscere il mondo. Proporre al bambino oggetti diversi, con diverse consistenze è un modo per fargli scoprire nuove cose.
  3. reazioni circolari secondarie (dai 4 agli 8 mesi): il bambino inizia ad avere assimilato informazioni e utilizza schemi per svolgere un azione. Inizia ad afferrare le cose e si diverte nel vedere il ripetersi di un azione che fa: per esempio prende una pallina e la vede rotolare. Si possono creare situazioni semi-strutturate dove lasciare i bambini liberi da pericoli, con giochi fatti con le cose che si hanno in casa. Per esempio un libro tattile fatto con tessuti diversi, vari materiali che il bambino si diverte a toccare e manipolare iniziando a percepire cose piacevoli e non. Afferrare le cose e si diverte nel vedere il ripetersi di un azione che fa : per esempio prende una pallina e la vede rotolare. Si possono realizzare piccoli percorsi con oggetti di diversa grandezza consistenza. Altro gioco da poter fare è riempire piccoli contenitori con materiali diversi (riso, farina) cosi che il bambino agitandoli impari a distinguere suoni diversi.
  4. coordinazione mezzi-fini (dagli 8 ai 12 mesi): il bambino coordina schemi d’azione più complessi per esempio tira una coperta per avvicinarsi l’orsacchiotto che c’è sopra. In questa fase il bambino inizia a percepire che un oggetto nascosto rimane li anche se lui non lo vede più. Si può giocare con lui a nascondere gli oggetti sotto una coperta e poi scoprirli. Il bambino rende partecipe nel gioco la madre si ha così l’emergere dell’attenzione condivisa. Il bambino prova piacere nel giocare con l’altro. Il gioco del cucù che può sembrare banale serve al bambino per percepire la permanenza dell’oggetto. Si può nascondere la mamma dietro un panno cosi come si può nascondere il bambino per una maggiore percezione di se stesso ed del mondo al di fuori.
  5. reazioni circolari terziarie (12-18 mesi): in questa fase il bambino inizia a risolvere problemi mediante tentativi ed errori per esempio per raggiungere un oggetto utilizzerà diverse strategie fino a trovare quella che gli permetterà di averlo.il bambino inizia ad allontanarsi dalla madre ed esplorare l’ambiente. Iniziano le prime relazioni triadiche. Il bambino pian piano diventa libero nel gioco, indica ciò che gli serve.
  6. comparsa funzione simbolica (dai 18 mesi in poi): il bambino prima di questa età ha una rappresentazione degli oggetti solo attraverso i sensi ora invece è in grado di avere una rappresentazione mentale. Questo  fa si che nel bambino inizi a manifestarsi l’imitazione differita, cioè il bambino vede un comportamento e lo riproduce a distanza di tempo, il linguaggio ed il gioco simbolico. Vediamo a questa età bambini che iniziano a giocare al gioco del “ fare finta”. i bambini iniziano a giocare con ciò che trovano come per esempio mettere in fila sedie per fare un treno, far finta di cucinare, prendersi cura della bambola.

Da qui si passa, secondo Piaget, ad una seconda fase lo stadio pre- operatorio del quale ci occuperemo più avanti.

I giochi da fare con i bambini sono infiniti, bastano semplici materiali e soprattutto voglia di giocare con il proprio bambino. Può essere utile anche dare uno sguardo alle attività della Montessori che si è molto occupata della parte ludica dei bambini.

Esperienza di trattamento psicoterapeutico all’interno della Casa di reclusione di Modena sugli aggressori sessuali

Il fenomeno dei reati sessuali è da sempre presente nella nostra società, cosi come in altre culture più distanti dalla nostra, ma ad oggi tale tipologia di crimine è sicuramente tra quelle che suscitano un maggiore allarme a livello sociale.

Manuela Cammarata – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Il fenomeno dei reati sessuali è da sempre presente nella nostra società, cosi come in altre culture più distanti dalla nostra, ma ad oggi tale tipologia di crimine è sicuramente tra quelle che suscitano un maggiore allarme a livello sociale soprattutto per la ferocia con cui viene commesso e per l’aumentata visibilità, che deriva da una maggior attenzione dei media sull’argomento, che fa percepire all’opinione pubblica un suo crescente aumento. Ad aumentare, poi, la complessità del caso vi è il rapporto che spesso unisce la vittima all’autore del reato stesso, rapporto che molto spesso è di tipo parentale e che pertanto rischia spesso di nascondere l’abuso dietro ad atteggiamenti di omertà e segreto all’interno del nucleo familiare.

Reati sessuali: l’importanza della prevenzione e del recupero

A fronte di questo sempre più frequente dilagarsi di reati sessuali, dunque, vi è la necessità, da un lato, di salvaguardare la vittima e, dall’altro, di applicare non solo delle pene ma anche dei programmi di recupero nei confronti degli aggressori sessuali (sex offenders) in modo da ridurre al minimo il rischio di recidiva futura.  Tuttavia, nonostante il sempre crescente interesse verso questo tema, attualmente sono ancora poche le iniziative volte sia alla prevenzione dei reati sessuali che al sostegno e al recupero degli attori, e con ciò si rischia poi di promuovere e sostenere la cultura della stigmatizzazione e dell’esclusione che, invece di permettere un’adeguata prevenzione dell’abuso e un successivo reinserimento nella società dell’abusante, favorisce e alimenta il reato stesso.

Se molta attenzione, dunque, si dedica, giustamente, alle vittime di reati sessuali, poca invece ne viene concessa, in termini trattamentali e di recupero, all’aggressore sessuale che, una volta condannato, sconta la propria pena presso sezioni protette degli Istituti Penitenziari, con scarse possibilità di adeguato trattamento psicoterapeutico e successivo reinserimento nella società.

Chi sono gli aggressori sessuali?

Ma chi sono gli autori di reato a sfondo sessuale? E quali sono le loro possibilità di recupero?

Autori di reati a sfondo sessuale: art. 609 bis c.p. : violenza sessuale, art. 609-ter c.p. : circostanze aggravanti, art 609 quater c.p. : atti sessuali con minorenne, art 609 quinquies c.p. : corruzione di minorenne,  art. 609 octies c.p. : violenza sessuale di gruppo.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, gli aggressori sessuali non costituiscono una tipologia omogenea di pazienti, in quanto si diversificano per età, classe sociale, storia pregressa, tipo di aggressione, modalità di operare il reato, comportamenti e desideri e/o tendenze sessuali. Tuttavia è riconosciuto in letteratura che, in generale, da un punto di vista clinico è possibile per questi pazienti effettuare una diagnosi psicopatologica; quella più diffusa è legata ai disturbi di personalità classificati nel DSM-IV. Tra questi , in particolare, emergono:

  • Il disturbo antisociale di personalità: caratterizzato da aspetti di ostilità e aggressività; si tratta di personalità inclini ad agire in maniera aggressiva e imprevedibile. Comprende molti dei deficit che gli aggressori sessuali presentano come ad esempio la carenza di empatia e di considerazione dei sentimenti altrui, irresponsabilità, impulsività, relazioni interpersonali povere, abilità sociali ed affettive scarse o insufficienti; (Fernandez, Marshall. 2003), (Covell, Scalora,M. 2002)
  • Il disturbo narcisistico: il quale evidenzia un quadro pervasivo di grandiosità, mancanza di empatia e manipolazione allo scopo di raggiungere la gratificazione immediata dei propri bisogni (tra questi anche quello sessuale);
  • Il disturbo bordeline di personalità: caratterizzato da una modalità pervasiva d’instabilità delle relazioni interpersonali e dell’immagini di sé, allo scopo di evitare costantemente l’abbandono e che porta il soggetto ad una continua ricerca di conferme e considerazione.

Inoltre, nelle biografie degli artefici di reati sessuali, ritroviamo spesso traumi ed episodi di maltrattamenti subiti in età infantile. E’ altresì importante sottolineare, in ogni caso, come non sia del tutto corretto attribuire la causa dei reati sessuali alla presenza costante di componenti patologiche. In numerosi casi, infatti, questi comportamenti sono propri di persone, senza particolari problemi psicologici o comunque con problemi non superiori a quelli della maggior parte delle persone.

Gli aggressori sessuali, pertanto, rappresentano un gruppo eterogeneo, e anche dietro comportamenti simili si incontrano tratti psicopatologici differenti. A complicare lo scenario si aggiunge il fatto che essi presentano spesso parafilie multiple, oppure una comorbilità tra diversi disturbi. (Aubut  1993b), (Dettore, Fuligni  2006), (Marshall, 2007)

Aggressori sessuali e mancanza di empatia

Al di là di questo aspetto poi, ciò che si mette in evidenza in questi pazienti è la loro limitata, o a volte addirittura assente, capacità empatica, capacità cioè di riconosce le emozioni altrui e di assumere una prospettiva diversa rispetto alla propria.

La crescente attenzione al fenomeno relativo ai reati sessuali, pone la società e le istituzioni di fronte alla necessità di promuovere misure legislative volte alla sicurezza sia della società stessa ma soprattutto del singolo, e di promuovere anche interventi mirati sia alla prevenzione del reato che al trattamento degli aggressori sessuali.

Appare ovvio, in questo senso, che il trattamento debba essere rivolto alla riduzione significativa del rischio di recidiva da parte dei sex offenders una volta scontata la propria misura detentiva. Per tale motivazione, il carcere non può e non deve avere una finalità esclusivamente punitiva, ma deve diventare anche una opportunità per accedere ad una riflessione su di sé e sui proprio meccanismi. Tale obiettivo è raggiungibile attraverso una presa in carico del paziente che porti l’autore di reato sessuale a:

  • Un lavoro di presa di coscienza del reato commesso;
  • Un lavoro di acquisizione o rinforzo delle capacità empatiche;
  • Una presa di coscienza delle proprie difficoltà e dei propri limiti;
  • Un lavoro di modificazione delle distorsioni cognitive;
  • L’identificazione delle fantasie sessuali devianti e dei fattori che hanno concorso alla messa in atto dell’abuso;
  • Lo sviluppo di strategie di coping e gestione dello stress più funzionali.

Reati sessuali e interventi per gli aggressori sessuali: l’esperienza della Casa Circondariale di Modena

Nell’ottobre del 2013, in seguito alla richiesta da parte della Direzione della Casa Circondariale di Modena, si sono svolti incontri di coordinamento e programmazione tra il Direttore dell’Istituto, l’area educativa del carcere, il referente del programma carcere del Dipartimento Cure Primarie e il Direttore del servizio di Psicologia Clinica dell’Azienda USL di Modena per definire un progetto d’intervento per i detenuti autori di reati a sfondo sessuale presenti all’interno dell’Istituto (attualmente presenti 90) che sono stati condannati o sono in attesa di una condanna definitiva.

Opportunamente, si potrebbe pensare che per queste persone l’ambiente penitenziario potrebbe costituire la prima meditata e reale occasione di incontro con figure professionali a valenza terapeutica ed educativa e che ciò potrebbe favorire una presa di contatto, in un momento esistenziale particolare come la detenzione, per l’inizio di un percorso di potenziale cambiamento.

Nello specifico il trattamento ha come obiettivi:

  • Promozione della consapevolezza, motivazione e responsabilità rispetto al proprio agito.
  • Acquisizione di strategie di contrasto nei confronti degli impulsi sessuali patologici.
  • Riconoscimento e prevenzione dei comportamenti a rischio di recidiva.
  • Definizione di percorsi alternativi alla detenzione o fine pena.

Vale la pena osservare come il trattamento degli aggressori sessuali si basa oltre che sulla scelta delle tecniche, anche sul delicato equilibrio tra empatia e distanziamento, che serve ad evitare sia la collusione ma anche il rifiuto. In sintesi una sorta di equilibrio tra pena e trattamento.

Il lavoro di recupero dei sex offenders svolto presso la Casa Circondariale di Modena inizia con una fase di selezione e valutazione preliminare dei pazienti che nasce dal confronto con gli Educatori dell’Istituto Penitenziario, referenti del caso, e lo Psicologo dell’ASL, formato e competente sul tema, i quali condividono insieme l’idea di un possibile intervento.

A questo primo momento segue poi una fase di assessment individuale svolta dallo psicologo.

In particolare ci sono almeno 3 fattori che devono essere indagati per permettere al detenuto di essere inserito nel percorso di trattamento:

  1. Ammissione, o parziale ammissione, del reato commesso e della propria responsabilità;
  2. Riconoscimento del proprio problema e del proprio disagio;
  3. Volontà di partecipare ad un percorso di trattamento psicoterapeutico.

Successivamente, sempre in questa seconda fase, viene somministrato al paziente del materiale testistico (MMPI-II; MCMI-III; CORE) che permette di ottenere un quadro abbastanza chiaro e coerente del proprio funzionamento e dei tratti che ne caratterizzano la personalità, e che permette quindi di poter valutare l’effettiva trattabilità del paziente stesso.

A questa fase di assessment, dopo un’adesione spontanea al programma che prevede l’accettazione delle condizioni anche in forma scritta, segue poi il trattamento vero e proprio che consiste sia in colloqui individuali con lo psicologo, che permettono al paziente di poter lavorare su aspetti più personali che riguardano il proprio vissuto e la propria storia personale, sia in una terapia di gruppo che permette di poter lavorare invece su aspetti più condivisi. Il lavoro di gruppo con gli aggressori sessuali si svolge con cadenza settimanale e tratta tematiche come prevenzione della recidiva, stili di attaccamento, genitorialità, riconoscimento del concetto di violenza, acquisizione di nuove strategie di coping e gestione dello stress, acquisizione di nuove modalità comunicative più funzionali dei propri bisogni.

Obiettivo fondamentale in tutte queste fasi è che il paziente autore di reati sessuali cominci a  prendere coscienza del reato commesso, questo perché, nella maggior parte dei casi vi è una sottovalutazione o addirittura la negazione del reato stesso da parte dell’aggressore.

Le problematiche relative a questo intervento psicoterapeutico, tuttavia, sono diverse poiché riguardano aspetti clinici che si intrecciano con aspetti di tipo sociale e culturale, spesso difficili da mettere in discussione nel paziente stesso.

È chiaro che un lavoro psicoterapeutico con i sex offenders è necessario ed importante proprio perché l’espiazione della pena intesa come semplice detenzione punitiva non ha alcuna utilità se non si riduce attraverso la propria messa in discussione anche il rischio che il reato venga commesso nuovamente in futuro.

Affinché questo tipo di lavoro svolto abbia dunque significato, una volta scontata la pena (o nel momento in cui vengano concesse le misure alternative previste dall’Ordinamento Penitenziario), sarebbe opportuna una presa in carico da parte dei Servizi Sanitari competenti per Territorio di residenza per la continuità del percorso psicoterapeutico, cosi come avviene per altri tipo di reato o problematiche (es: tossicodipendenza). Tuttavia al momento emergono diverse difficoltà per la presa in carico esterna del paziente presso i Servizi territoriali.

Tra le difficoltà che emergono, maggiormente rappresentativa è quella di una non adeguata preparazione rispetto al tema ed al suo trattamento. Questo probabilmente perché ancora oggi si fatica a riconoscere che il comportamento sessuale aggressivo sia solo uno tra i diversi aspetti della vita del paziente e che tale persona invece, con un adeguato tipo di intervento, possa essere in grado di acquisire nuovi strumenti e nuovi stili di comportamento più funzionali.

In sintesi con questa esperienza si è evidenziato come vi sia ancora oggi:

  • Carenza di una cultura del trattamento per gli autori di reati sessuali e la necessità di interventi di sensibilizzazione in questa direzione;
  • Carenza di strutture e servizi sul territorio che garantiscano la continuità del trattamento e della presa in carico in un tempo successivo all’esecuzione di pena in carcere ed all’intervento trattamentale intra-murario;
  • Carenza di una rete o connessione che permetta la conoscenza reciproca, lo scambio ed il confronto.

In questi due anni e mezzo in quattro occasioni, su circa 30 pazienti trattati, è stato possibile realizzare un invio ed una successiva presa in carico del paziente da parte di un Servizio Sanitario pubblico.

In conclusione, come ci dicono gli stessi dati ufficiali Istat, la maggior parte dei reati sessuali sono reati relazionali. Questo comporta una problematica rispetto alla gestione del fenomeno, che non può solo essere deputata al settore penitenziario, ma che deve coinvolgere i servizi con competenze specifiche in questa direzione.

Deve essere chiaro che gli uomini che entrano nel circuito penitenziario non rimarranno per sempre rinchiusi tra le mura del carcere, così come non lo rimarranno le nostre paure. Un giorno non troppo lontano infatti torneranno ad essere cittadini liberi. La sfida, l’obiettivo è dunque quello di cercare di renderli liberi anche dalle passate azioni violente attraverso una messa in discussione di se stessi in un delicato momento esistenziale com’è la privazione della libertà, perché solo cosi si può evitare il perpetuarsi di una storia già, purtroppo, tristemente nota.

Le persone ansiose si preoccupano del rischio o della perdita?

Ogni giorno tutti noi ci troviamo a dover compiere delle scelte, questo compito, a volte banale, è particolarmente difficile per le persone ansiose, ovvero una fetta di popolazione ormai molto estesa. Capire i processi cognitivi che sottostanno alle patologie di tipo ansioso è importante per poter delineare un trattamento terapeutico cognitivo adeguato.

 

Dalla letteratura si evince che, tra i vari processi cognitivi implicati, anche il decision making è deficitario (Hartley & Phelps,2012). Infatti, le persone ansiose presentano difficoltà nel compiere delle scelte, rinforzando il loro comportamento evitante (Butler & Mathews, 1983; Giorgetta et al., 2012; Maner et al., 2007; Mueller et al., 2010).

Rischio o perdita: Cosa temono le persone ansiose?

Una forte influenza sui processi di decisione è data dall’avversione al rischio o alla perdita, ma negli ansiosi quale dei due fattori ha più peso?

Questo è l’interrogativo a cui ha risposto una ricerca recente effettuata presso l’Istituto di Neuroscienze Cognitive dell’Università di Londra (2017). I partecipanti di questa ricerca erano 25 pazienti con disturbo d’ansia generalizzato e 23 soggetti sani che dovevano svolgere un compito decisionale. Nello specifico, i tipi di scelta da compiere erano due: decisioni guidate dall’avversione al rischio e alla perdita o guidate soltanto dal rischio. Cambiare la formulazione della domanda, per esempio descrivendo un guadagno certo contro uno più alto ma più rischioso, permetteva di separare la preoccupazione dovuta la rischio da quella per la perdita.

I risultati hanno dimostrato che i soggetti ansiosi, a differenza di quelli sani, presentavano livelli di avversione al rischio più alti, cosa che non si verificava per l’avversione alla perdita i cui i livelli risultavano uguali per entrambi i gruppi. Ciò aggiunge e in parte modifica la letteratura relativa ai processi cognitivi alla base dell’ansia secondo cui le persone ansiose, rimuginando eccessivamente sui potenziali esiti negativi, avrebbero dovuto presentare più elevati livelli di avversione alla perdita. Da questo studio, invece, si evince che la difficoltà degli ansiosi sta nel compire scelte rischiose, cosa che condiziona i loro pensieri, comportamenti ed emozioni, oltre a guidare il comportamento di evitamento.

Alla luce di quanto emerso, sarebbe utile indirizzare il trattamento terapeutico cognitivo-comportamentale verso una maggiore tolleranza del rischio piuttosto che su una riduzione della sensibilità agli esiti negativi.

 

 

Terapie solidali supervisionate: alla ricerca dell’identità professionale

Gli specializzandi della Scuola Cognitiva di Firenze (SCF) hanno l’occasione di seguire i loro primi pazienti nell’ambito del Servizio di Terapia Solidale del Centro Clinico della scuola. Accedono a tale servizio quelle persone che presentano un disagio psicologico e che per motivi economici non possono ricorrere a una cura psicologica più accessibile.

Alessia Lucia Bitonti

 

Terapie solidali: un’occasione di crescita personale e professionale

Molti pazienti che si rivolgono al servizio e che decidono di intraprendere un percorso psicoterapeutico vengono affidati agli specializzandi del terzo e del quarto anno della scuola. Gli psicoterapeuti in formazione vengono affiancati e seguiti da supervisori esperti in incontri di gruppo a cadenza settimanale della durata di un’ora e mezza.

Lo studente in formazione è alla ricerca della propria identità professionale e le Terapie Solidali supervisionate sono un ottimo contesto di crescita personale e professionale. Le supervisioni diventano un luogo di confronto rispetto a quelle che sono, nella maggior parte dei casi, le prime esperienze cliniche e a tutto ciò che ruota intorno ad esse.

La psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) è uno specifico orientamento della psicoterapia, di comprovata efficacia, sviluppato da A.T. Beck nei primi anni ’60. E’ un trattamento di breve durata e orientato al presente, teso alla risoluzione di problemi attuali e alla modificazione di pensieri e comportamenti disfunzionali (Beck, 1964; Beck et al., 1979). Nel corso degli anni di studio, apprendiamo le molteplici teorie, i modelli di funzionamento psicopatologico, i protocolli e le tecniche di trattamento che appartengono alla TCC.

All’inizio della nostra formazione pratica impariamo ad utilizzare le tecniche di base e, altrettanto fondamentale, a concettualizzare il caso. Le supervisioni stimolano la riflessione sulla concettualizzazione, personalizzandola maggiormente sul paziente singolo. Inoltre, il repertorio di tecniche padroneggiate è ancora abbastanza limitato, e oltre a ciò, risulta complesso integrare la concettualizzazione con l’applicazione delle tecniche.

Alla luce di queste difficoltà sperimentate, inizialmente ho tentato di ottenere dai supervisori quella che secondo me doveva essere la risposta “perfetta” ai problemi, di concettualizzazione e di intervento, che via via si presentavano in terapia. Questa aspettativa però era eccessivamente rigida. È probabile che non arrivi la soluzione definitiva, quella che ti illumina e risolve tutto. Ciò contribuisce ad incrementare la sensazione di confusione, già grande quando si è alle prime armi! Cosa posso fare? Cosa devo fare? Le domande e i dubbi sono legittimi, ma l’illusione che ci sia una risposta precisa e assoluta li rende di fatto poco risolvibili.

Ma è proprio la riflessione, condivisa in supervisione, sul funzionamento del paziente che ci rende sempre più abili nella formulazione del caso; e parallelamente, la possibilità di mettere in pratica un ventaglio sempre più ampio di tecniche ci permette di padroneggiarle in modo più adeguato.
E’ attraverso questi processi di riflessione, confronto, condivisione e pratica che impariamo ad integrare sempre più abilmente la concettualizzazione all’applicazione delle tecniche, rendendo dunque tale applicazione sempre più flessibile ed efficace.

E’ altresì importante, oltre a tutto ciò, curare in supervisione tutti quegli aspetti relativi alla relazione terapeutica. La pratica clinica permette di esperire con sempre maggiore consapevolezza il proprio personale modo di stare all’interno della relazione, facilitando inoltre la presa di consapevolezza di possibili punti di collusione con il paziente e il superamento di impasse nella terapia. Ogni terapeuta in formazione tenderà a sviluppare le proprie competenze e l’identità professionale, in base a quelle che sono le sue naturali predisposizioni e in base al suo stile di personalità e relazionale.

La supervisione aiuta il terapeuta a rendere più fine e personalizzata la concettualizzazione del caso, sostenendo l’applicazione efficace e non meccanica delle tecniche e a comprendere e affrontare, mediante ragionevoli accorgimenti di good-practice, la riflessione e la discussione con il paziente delle sue difficoltà.

Le supervisioni infine diventano luogo di riflessione, di cambiamento e di crescita personale e professionale, favorendo la consapevolezza del proprio stile relazionale e terapeutico, e supportando l’armonizzazione delle caratteristiche personali e relazionali che andranno a definire l’identità professionale.

 

Sieropositività: “dirlo agli altri” fa bene

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo la sieropositività sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo.

Essere sieropositivi: la difficoltà di comunicarlo agli altri

Nel panorama internazionale dell’epidemia dell’infezione da HIV, suscitano sempre grande preoccupazione i casi di persone contagiate da partner sessuali che non sono a conoscenza, o conoscendolo non rivelano, del proprio stato sierologico.
Spesso, neppure il matrimonio o la convivenza sono sufficienti a proteggere dall’infezione.
Storie che rivelano quanto la difficoltà di accettare la malattia e il dolore di rivelarla agli altri possono influire negativamente sulla sua gestione.

Numerosi studi hanno mostrato che le persone consapevoli della propria sieropositività tendono a ridurre i comportamenti che potrebbero trasmettere l’infezione ad altri, tuttavia ce ne sono altri i quali suggeriscono che i cambiamenti delle abitudini sono difficili da mantenere e che dopo un certo periodo alcuni tra loro riprenderebbero a porre altri a rischio di contagio.

Dai dati di un ricerca relativa ad un campione di persone sieropositive in terapia negli Stati Uniti, emergeva che il 42% degli uomini omosessuali e bisessuali, il 19% degli uomini eterosessuali e il 17% delle donne riferivano rapporti senza rivelazione del proprio stato sierologico.
Secondo una ricerca più recente su omosessuali sieropositivi, i rapporti sessuali non protetti erano riferiti dal 46.7% di coloro che avevano un partner positivo e dal 15.6% di colori che ne avevano uno negativo. I contatti senza profilattico erano significativamente più frequenti con partner casuali.
Molto spesso il sesso non protetto era associato ad assunzioni di alcool o sostanze d’abuso e all’assenza di comunicazione della sieropositività.

Alcune organizzazioni sanitarie internazionali si sono interrogate se la responsabilità della diffusione del virus da parte di persone consapevoli del proprio stato sierologico non sia da attribuire ai principi di confidenzialità e di consenso informato che vigono in molti paesi, ma sono giunte alla conclusione che sono piuttosto il diniego, lo stigma, il senso di colpa, la discriminazione e le problematiche psicologiche a creare i maggiori ostacoli al contenimento della diffusione dell’infezione.

Massimo, 32 anni, da quando è sieropositivo non ha avuto altre relazioni. Da poco ha conosciuto un ragazzo che gli piace molto, si frequentano, stanno bene insieme. Lui decide di lasciarlo prima di avere rapporti sessuali. “Comunicargli la sieropositività avrebbe comportato l’ennesimo rifiuto nella mia vita, mi riporta alla mia infanzia, ad episodi di abbandono e abuso. Non posso sopportarlo. Preferisco lasciarlo prima. Forse l’unica soluzione per evitare questo dolore è frequentare da adesso in poi solamente sieropositivi come me”.

Cristina, 29 anni. “Ho problemi a dirlo agli altri. Allora vado in giro con spruzzino e disinfettante per pulire dove passo io. Ho paura che per causa mia gli altri possano vivere l’inferno che sto vivendo io.”

Gli aspetti emotivi connessi alla difficoltà di comunicare la sieropositività

Gli argomenti addotti per motivare il segreto riguardo il proprio stato di salute sono la paura del rifiuto o dell’abbandono, la convinzione che il partner non possa reggere alla notizia, che sia un passo troppo difficile o che sia necessario un tempo maggiore per poter affrontare prima le proprie emozioni. Si è visto anche che alcune persone sieropositive tendono a rifuggire da relazioni stabili per evitare pressioni alla rivelazione o comunque per non sentirsi in dovere di farlo. Alcuni studi dimostrano che le donne che non informano il partner utilizzano il profilattico con frequenza e regolarità pari a quelle delle donne che lo fanno, ma sono più a rischio di queste ultime di ripercussioni psicologiche negative (disturbi d’ansia o depressione con istinti suicidari).
La capacità di rivelare è legata al grado in cui la persona ha accettato la diagnosi e comunque è molto più difficile raccontarsi a ridosso di questa. Emerge che tra gli eventi stressanti, la rivelazione della propria sieropositività all’altro è seconda solo al ricevimento della diagnosi ed implica il dover affrontare alcune tematiche tra le quali l’immagine di sé, la sessualità e l’autostima.

Sara, 37 anni, scopre la sieropositività durante le analisi per la prima gravidanza. “Sono in preda allo sconforto, e dilaniata dalla scelta… comunico adesso la sieropositività al mio compagno o lo faccio alla nascita della bambina?…”

Simona, 46 anni. Viene a ritirare il risultato del test. Quando le comunico la diagnosi di sieropositività è sorridente. “Prima o poi doveva succedere. Anzi meglio così. Sto da 10 anni con il mio compagno sieropositivo. Adesso che lo sono anch’io possiamo condividere proprio tutto. Anche la terapia antiretrovirale e le visite mediche.”

Gli effetti della scoperta della sieropositività sulla relazione di coppia

Starace, nella sua monografia fa luce su alcune dinamiche di coppia confermando che, quando esiste una relazione di coppia, la scoperta della sieropositività determina una destabilizzazione della relazione che, se non conduce alla separazione, necessita di una rielaborazione e di una riformulazione delle dinamiche interne.

Laddove la notizia irrompe all’interno della coppia, fattori come le preoccupazioni circa l’intimità, la difficoltà di parlare di argomenti relativi alla sfera sessuale, il senso di responsabilità, la paura ma al tempo stesso il bisogno di mantenere intatto il piacere di un tempo rischiano di aumentare notevolmente il pericolo della trasmissione.

Inoltre, nonostante la conoscenza odierna delle modalità di trasmissione, spesso all’interno delle coppie consolidate si assiste ad un uso non costante del preservativo, visto come barriera, come distacco, come mancanza di reale e totale intimità con l’altro.

A questo bisogna aggiungere fenomeni diversi come quello dell’abnegazione, dell’accettazione del destino e della malattia dell’altro nel bisogno di dimostrare il proprio amore senza confini.
In queste situazioni, ciò che prevale è il dovere, del partner sieronegativo, di dimostrare all’altro la sua illimitata accettazione attraverso la condivisione dello stesso destino.

A fronte di episodi di sacrificio, si registrano anche casi di coppie che smettono di vivere completamente qualunque forma di sessualità e di scambio intimo, chiudendosi in un mutismo “sessuale” che è distruttivo, che svilisce la coppia, che finisce in taluni casi per distruggere completamente il rapporto.

Dall’altro lato, è dimostrato che ad alti livelli di adattamento coniugale corrispondono migliori livelli di aderenza alle terapie mediche. È emerso, inoltre, che i soggetti in coppia con un partner sieronegativo presentano livelli di aderenza più alti, a sostegno dell’ipotesi secondo cui, spesso, il partner sano – quando non collude con i bisogni di negazione intensa del partner sieropositivo – assume il ruolo di caregiver nella relazione, avvertendo il bisogno di occuparsi dell’altro e di vivere il proprio amore per l’altro come fattore protettivo nei confronti della malattia. La qualità del rapporto di coppia riveste una notevole importanza nell’adattamento psicologico dei due membri all’interno della coppia sierodiscordante per HIV.
D’altro canto, in letteratura è già documentata l’importanza delle relazioni interpersonali per gli esiti clinici a lungo termine e la qualità della vita dei pazienti con malattie croniche quali, ad esempio, il cancro e il diabete.

Allo stato attuale sono pochi gli studi dedicati al ruolo che i fattori relazionali giocano all’interno dei processi decisionali e/o delle strategie comportamentali adottate dalle persone con infezione da HIV in merito a pratiche preventive – ad esempio l’uso del preservativo – che coinvolgono altre persone che condividono col paziente una relazione affettiva stabile. La valutazione di tali elementi potrebbe fare luce sulle difficoltà specifiche sottostanti all’accettazione della convivenza con il virus, al saper riconoscere i propri desideri, al saper mediare con le paure o gli atteggiamenti iperprotettivi del partner, all’attrezzarsi per evitare il contagio senza rinunciare ad una sessualità soddisfacente, al non abbandonare una dimensione progettuale che consenta di vivere con il partner una prospettiva di futuro a lungo termine.

Le sfide per i clinici sono, quindi, molteplici tra cui: incrementare il livello di accettazione, cura e sostegno psicologico per le persone con HIV; creare tra gli individui una maggiore apertura riguardo HIV/AIDS a livello sia familiare che comunitario; promuovere e incoraggiare l’effettuazione del test e la rivelazione dello stato di sieropositività.

La segretezza, lo stigma, il diniego e la discriminazione che circondano l’infezione da HIV possono essere efficacemente contrastati attraverso una maggiore diffusione della rivelazione della sieropositività che rappresenta un importante obiettivo sanitario, ma soprattutto individuale; la rivelazione deve essere volontaria, rispettosa dell’autonomia e della dignità della persona e deve assicurare la giusta confidenzialità.

De Rosa e Marks hanno rilevato che le percentuali di comunicazione crescono con l’aumentare del numero di incontri con lo psicoterapeuta su questo tema.

Nello studio di Maman e colleghi sono stati gli stessi intervistati a sottolineare il ruolo dello psicoterapeuta nella loro decisione di informare altre persone della propria sieropositività.

Le conseguenze positive della rivelazione sono numerose: le persone intervistate hanno citato un aumentato sostegno e una maggiore accettazione, un rafforzamento dei legami con familiari e amici, la riduzione dell’ansia e dei sintomi depressivi, nonché la semplificazione della vita con l’eliminazione dei sotterfugi nella frequentazione dei centri ospedalieri e nell’assunzione della terapia antiretrovirale, con conseguente maggiore aderenza terapeutica.

Contrariamente alle aspettative, si è evidenziato anche che la comunicazione non è associata alla rottura delle relazioni stabili. Ed è interessante constatare che le conseguenze negative temute solo raramente si sono concretizzate nelle storie di coloro che hanno deciso di comunicare la propria sieropositività.

Tuttavia, approcci ed interventi mirati esclusivamente ad incoraggiare le persone con HIV a rivelarsi ai partner sessuali per ridurre la diffusione del contagio nella comunità non sono sufficienti a ridurre la diffusione del virus, ma piuttosto infondono false sicurezze in coloro che sono negativi e non si sono mai sottoposti al test.

Così come l’inserimento troppo precoce dei pazienti in gruppi di mutuo-aiuto incentrati sui benefici dell’aderenza terapeutica e sull’utilità della rivelazione della propria sieropositività agli altri spesso non ha raggiunto gli obiettivi desiderati ma piuttosto ha favorito l’abbandono del gruppo da parte di alcuni pazienti con specifici bisogni.

La terapia metacognitiva interpersonale con i pazienti sieropositivi

Tra le psicoterapie cognitive di ultima generazione la Terapia Metacognitiva Interpersonale ha la caratteristica di adattare gli interventi terapeutici alle capacità metacognitive del paziente dedicando grande attenzione alla cura della relazione terapeutica usata come fonte di informazioni e come luogo dove sperimentare per prima le modalità adattative di relazione.

La TMI, sviluppata principalmente per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essi associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e di riduzione dello stigma e al caso di un paziente sieropositivo con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza terapeutica ai regimi prescritti.

Questa si basa sull’idea che i pazienti sono guidati nella vita di relazione da un insieme di aspettative definiti “schemi interpersonali”, delle quali molto spesso non sono consapevoli e che mettono in atto in modo automatico, su come gli altri risponderanno ai loro desideri, speranze, piani e bisogni. A causa di queste aspettative le persone soffrono ancora prima di entrare in relazione con gli altri oppure compiono azioni che da un lato impediranno loro di realizzare tali desideri, dall’altro non indurranno gli altri a rispondere in modo positivo.

Il paziente teme la critica e l’abbandono (stigma interiorizzato) e tende ad interpretare il comportamento altrui come segnale di rifiuto ed utilizza l’evitamento ed il segreto per gestire la situazione, amplificando di fatto l’autostigma e la condizione di segretezza nonché la costante paura della perdita.

Questa formulazione del caso in TMI è un principio di partenza per creare un piano terapeutico che abbia come scopo iniziale il miglioramento della comprensione di sé ed in seguito il cambiamento dei processi cognitivo-affettivi sottostanti il tratto di personalità. La TMI descrive procedure formalizzate passo dopo passo per arricchire le narrazioni dei pazienti e promuovere la metacognizione fino a quando cominceranno a vedere le proprie descrizioni delle relazioni interpersonali come pattern interiorizzati e non più come riflessi della realtà.

Recentemente alcuni studi hanno rilevato un alto tasso di tratti alessitimici (anche per via dello specifico tropismo del virus) e disfunzioni metacognitive nella popolazione HIV-positiva.

Esempi di atti metacognitivi disfunzionali includono: difficoltà nel descrivere i propri stati interni; difficoltà nel riconoscere le emozioni nel volto degli altri; problemi nella comprensione degli eventi interpersonali e difficoltà nel comprendere le motivazioni sottostanti ai comportamenti.

Un elemento chiave della disfunzione metacognitiva è la scarsa differenziazione, cioè la mancanza di consapevolezza che la propria opinione su se stessi e gli altri è solo un punto di vista, che può cambiare quando le cose vengono osservate da un’altra angolazione. In questo caso il paziente è guidato da aspettative stereotipate riguardo a come comportarsi per raggiungere i propri obiettivi, riguardo a come si comporteranno gli altri e a quale sarà il destino dei propri desideri intimi.

In terapia, quindi, il paziente avrà bisogno di essere aiutato a formare una metarappresentazione in cui riconoscere che la sua credenza può essere parzialmente vera, ma riflette anche un suo schema in cui si sente costantemente rifiutato e danneggiato, uno schema fondato su memorie di figure di riferimento ingiuste ed episodi traumatici.

La TMI si focalizza sulla promozione della metacognizione utilizzando i seguenti passi:
1) promuovere la consapevolezza delle emozioni; 2) comprendere la causalità psicologica, per esempio come le azioni degli altri evochino una credenza che a sua volta suscita un’emozione e come quell’emozione attivi un comportamento; 3) evocare una serie di episodi associati per promuovere una consapevolezza di pattern stabili e di conseguenza riformulare gli schemi; 4) ottenere una differenziazione da pattern di attribuzione di significato presi come specchio della realtà.

Quando comunicare agli altri la sieropositività

Rivelarsi agli altri può essere realizzabile, se il paziente lo desidera, dopo che paziente e terapeuta hanno percorso i passi sopraelencati e raggiunto una conoscenza dei processi cognitivo-affettivi che determinano la sofferenza.

La decisione di raccontarsi è preziosa per la persona sieropositiva e per le persone significative e non deve essere messa in atto con fretta.

Serovich lo definisce un processo di decision-making diviso in sei passaggi che comprende dilemmi, barriere e decisioni per ognuno di essi. Il primo passo consiste nell’incoraggiare i pazienti a fare una ricognizione circa coloro che fanno parte della loro rete familiare e sociale e del tipo di supporto che ciascuno di essi può offrire. Il secondo sta nell’aiutare a valutare la natura della relazione che hanno con le figure individuate. Il terzo passo prevede la determinazione di qualunque circostanza che potrebbe influenzare la rivelazione, per esempio la capacità di alcuni possibili destinatari dell’informazione di mantenere la segretezza in proposito. Il quarto comprende la riflessione per ogni persona presa in considerazione circa le conoscenze e gli atteggiamenti riguardo HIV. Il quinto consiste nello sviscerare le ragioni per cui è importante comunicare ad alcune persone. Infine, il sesto passo include l’inserimento di tutte le persone identificate come potenziali destinatari in tre categorie: coloro da informare per primi, coloro da informare in un secondo momento, coloro per i quali è preferibile aspettare e vedere.

Molto utile, a questo punto del percorso terapeutico, può rivelarsi l’utilizzo di tecniche di Skills Building che aiutano a costruire e rinforzare capacità e strumenti necessari per adottare e mantenere comportamenti coerenti con il proprio desiderio di salute e che proteggano gli altri dal contagio.

Un modello di psicoterapia incentrato sulla relazione terapeutica in HIV e con interventi adattati alle capacità metacognitive dei pazienti sarebbe una pratica sanitaria necessaria a determinare il miglioramento di molteplici outcomes. In particolare, la disponibilità di programmi centrati sul paziente e sulle sue sofferenze relazionali incrementerebbe: 1) l’azione di vigilanza e prevenzione dell’epidemia e dei rischi secondari HIV correlati; 2) l’adesione alle cure mediche ed alle pratiche di cura ad esse correlate; 3) l’utilizzazione ed il mantenimento di una rete di supporto sociale.

L’infezione da HIV ha una declinazione relazionale per eccellenza, in quanto è nell’ambito della relazione sessuale che essa si trasmette e si diffonde. Inoltre è nell’acquisizione e nel mantenimento di comportamenti, da contrattare e gestire necessariamente all’interno di una relazione, che essa si previene e/o si cura. La persona sieropositiva ha una forte necessità di adottare comportamenti che contribuiscano notevolmente alla determinazione della qualità della vita e forniscano la costruzione di nuclei relazionali stabili che svolgono una forte azione di motivazione verso l’accettazione di malattia, l’adozione od il mantenimento di pratiche di sesso sicuro per sé e per gli altri, la gestione e l’aderenza alla terapia” (Starace).

 

Ai miei occhi (2016) di Donna L’ary – Recensione del libro

Ai miei occhi è un libro che parla al cuore e lo fa in una maniera particolare, usando l’ espressione artistica come linguaggio, prediligendo cosi il canale percettivo visivo, e favorendo una comprensione del vissuto interno della protagonista molto più impressionistico che intellettuale.

 

La traduttrice de Ai miei occhi, Marina Pompei, propone con quest’opera al pubblico italiano un lavoro pubblicato in Francia con il titolo appunto À mes yeux: Ai miei occhi. Il testo originale, che viene riportato anche in questa edizione, è una raccolta di tavole che riproducono i quadri dipinti da una giovane artista il cui pseudonimo è Donna L’ary. I quadri sono infatti un “moto terapeutico” che ha permesso a Donna di esprime l’indicibile attraverso la forma artistica. I suoi lavori sono un viaggio attraverso l’angoscia derivante dagli abusi subiti in tenera età ed il percorso che l’ha portata all’elaborazione di tale tragedia.

Ai miei occhi: come il trauma viene vissuto nella mente e nel corpo

Il libro Ai miei occhi si divide in due parti, nella prima sono riportate tutte le tavole con i commenti della sua autrice e nella seconda parte, Marina Pompei ci propone una lettura in chiave analitica e neurofisiologica del trauma che l’abuso lascia nel corpo e nella mente di chi lo subisce.

Le tavole sono di grosso impatto visivo ed hanno un forte potere evocativo circa il mondo interno di questa giovane ragazza. I colori, le forme, i tratti danno vita all’angoscia che diventa quasi tangibile nell’esperienza visiva che il lettore può fare. Osservando i disegni si potrà fare esperienza dei vissuti di rabbia, d’impotenza e dolore della giovane Donna. In alcune tavole la dissociazione dal corpo, che un’esperienza cosi drammatica porta con se, è estremamente evidente e più esplicativa di qualsiasi parola.

Trattandosi d’immagini e non di parole, rimando alla curiosità di chi si avvicinerà a questa lettura tutti i commenti a ciò che queste opere richiamano, lasciando all’intimità delle proprie percezione le conclusioni.

Nella seconda parte di Ai miei occhi la dott.ssa Marina Pompei ci offre un chiaro e fluente commento interpretativo del percorso di Donna L’ary. È molto interessante il lavoro che l’autrice fa attraverso il suo commento, creando un link che partendo dall’analisi delle immagini raffigurate nelle tavole si connette con il vissuto corporeo e il sottostante funzionamento neurofisiologico.

Nell’esposizione vengono affrontati i temi della dissociazione, dell’impotenza e delle conseguenze che queste esperienze generano nel profondo di chi ne è vittima. Nel corso della lettura di Ai miei occhi vengono fatti riferimenti agli approcci psicocorporei che possono essere un valido supporto al processo di “guarigione” analizzando il contributo della vegetoterapia, dell’ EMDR, della psicoterapia sensomotoria e delle tecniche di somatic experiencing. Infine l’opera si conclude con il confronto dell’esperienza di Donna L’ary  con l’opera di Rembrandt Il suicidio di Lucrezia.

Per concludere, il libro Ai miei occhi nella sua brevità ed essenzialità è un modo di entrare nell’esperienza psichica ed emotiva di quelle persone che portano i segni di violenze subite in un’epoca in cui non erano in grado di mentalizzare tali avvenimenti, offrendo così ai terapeuti la possibilità di crearsi un immagine e un’idea del mondo interno di chi spesso si rivolge a loro.

Come viene considerata l’ortoressia nervosa? Il dibattito controverso sulla definizione

L’ Ortoressia Nervosa (ON) è una manifestazione patologica di origine molto recente, che si è sviluppata in concomitanza con la formazione e la diffusione sempre più consistente di filosofie di vita salutiste (per esempio il vegetarianismo, il veganismo e l’alimentazione bio), nonché con un’attenzione della nostra società sempre più forte verso il mangiare sano. Questa condizione è sempre stata difficile da definire in termini clinici: infatti non è stata ancora clinicamente riconosciuta come un disturbo alimentare, in quanto non sono ancora stati stabiliti dei criteri diagnostici validati per l’ ortoressia nervosa.

Manuela Capolongo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Ortoressia nervosa: le difficoltà legate alle definizione diagnostica

Nella letteratura viene riportata l’evidenza dell’esistenza di questa espressione patologica e sono descritte e accettate le sue caratteristiche cliniche che si riscontrano nella popolazione.

A causa di questa mancata definizione diagnostica, intorno all’ ortoressia è sempre ruotato un alone di incertezza, che ha portato gli autori ad approfondire l’argomento, anche se la letteratura esistente a riguardo non è così estesa. Questi autori avevano l’intento di comprendere meglio cosa fosse l’ ortoressia, provando a darne una definizione più specifica e a collocarla rispetto ad altri disturbi.

Il risultato di questi studi è stata la formazione di una diatriba all’interno della letteratura: nello specifico è sorto il dubbio se l’ ortoressia debba essere classificata come un disturbo alimentare distinto e indipendente dagli altri, come un’espressione dei disturbi alimentari già esistenti o un disturbo ossessivo-compulsivo.

Questa difficoltà nasce dal fatto che l’ ortoressia nervosa presenta dei sintomi che si sovrappongono a quelli di questi disturbi, rendendo i confini tra essi meno definiti.
Questa è una questione molto interessante e importante, in quanto avere chiaro come si colloca l’ ortoressia in termini diagnostici e definitori permette ai clinici di diagnosticarla più facilmente e trattarla più efficacemente.

Ortoressia: quando il consumo di cibo sano diventa una fissazione

Per analizzare le varie posizioni presenti in letteratura su questo tema, è necessario partire dall’inizio: il termine ortoressia nervosa è stato introdotto per la prima volta da Steven Bratman nel 1997 per indicare una fissazione patologica sul consumo di cibo sano, ossia una fissazione non salutare verso cibi salutari.

L’ ortoressia diventa un disturbo quando la persona che ne soffre manifesta una vera e propria ossessione verso un’alimentazione corretta e sana, tanto da diventare fortemente selettiva nella scelta di cosa mangiare, arrivando ad eliminare dalla sua dieta molti tipi di alimenti, percepiti come non sani (per esempio con coloranti, conservanti, con troppo sale o troppo zucchero), ma anche interi gruppi di alimenti (carne, latticini, cereali, ecc). La persona ortoressica passa molto tempo della sua giornata (più di tre ore) a pensare ai cibi, specificatamente alla loro ricerca, analisi e preparazione.

Nel corso del tempo un ortoressico sviluppa delle regole altamente specifiche e rigide riguardo al cibo e alla fine costringe se stesso a seguire un regime alimentare auto-imposto e limitante. Questo regime alimentare provoca delle conseguenze negative per la persona, sia sul piano fisico, sia sul piano psicologico, che sul piano sociale.

Avendo ricordato le caratteristiche di base dell’ ortoressia, è possibile affrontare il dibattito sulla sua classificazione e definizione: il DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder- IV), pubblicato dall’APA (American Psychiatric Association’S) non riconosceva l’ ortoressia nervosa come un vero disturbo indipendente da altri, e non viene inserito in questi termini neanche nella nuova edizione del DSM-5: viene collocato insieme all’anoressia inversa all’interno dell’area del Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, categoria che indica un’anomalia della nutrizione e dell’alimentazione che si esprime attraverso una persistente incapacità di assumere un giusto apporto nutrizionale e/o energetico.

Le possibili definizioni di ortoressia e gli elementi in comune con i disturbi alimentari

A fronte di questa incertezza definitoria gli autori hanno provato a dare la propria visione, supportata da studi e ricerche, della natura controversa dell’ ortoressia.

Alcuni autori considerano l’ ortoressia come una variante dei disturbi alimentari esistenti, poiché alcuni suoi sintomi si sovrappongono con quelli dei disturbi alimentari.

In particolare molti autori hanno evidenziato la somiglianza con l’anoressia: l’ ortoressia e l’anoressia condividono la mancanza di piacere per quanto concerne il mangiare e uno spostamento del controllo della propria vita sul cibo.

Inoltre altri autori, in base ad alcuni studi, suggeriscono che l’ ortoressia potrebbe essere un precursore o un residuo di un disturbo alimentare.

Una lettura interessante del legame tra ortoressia e disturbi alimentari prevede che seguire una dieta ossessivamente salutare sia un metodo più socialmente accettabile rispetto all’anoressia e alla bulimia per perdere peso: quindi è possibile che alcuni pazienti usino l’ ortoressia per mascherare l’esistenza di un disturbo alimentare, in quanto il comportamento ortoressico può essere un modo socialmente approvato per esprimere i sintomi anoressici o bulimici.

Inoltre l’ ortoressia può essere manifestazione di anoressia nervosa in quanto i pazienti possono passare dall’avere sintomi più anoressici ad altri più ortoressici, come se procedessero per fasi, quindi in questo caso l’ ortoressia sarebbe meglio considerata come variante dell’anoressia.
Alcuni sintomi dell’anoressia nervosa sembrano andare maggiormente in parallelo con quelli dell’ ortoressia, come un’elevata ansia verso alcuni alimenti e il loro evitamento, bisogno del controllo e la natura egosintonica di questi sintomi, ma questo legame non è stato empiricamente dimostrato.

Per certi versi l’ ortoressia presenta delle somiglianze anche con la bulimia, in quanto entrambe sono focalizzate sulla modalità, in entrambi i casi non corretta, di assunzione di cibo.

Un ulteriore studio di Barnes (2016) conferma la sovrapposizione di alcuni aspetti dell’ ortoressia con l’anoressia e la bulimia: la prima ha in comune con le altre due un alto livello di perfezionismo, un’attenzione forte verso l’immagine del corpo e lo stile di attaccamento.

Il perfezionismo, costrutto caratterizzante l’anoressia e la bulimia, accomuna anche le persone ortoressiche, il cui scopo è quello di avere un’alimentazione perfetta e per questo seguono regole alimentari rigorose. L’aderenza a regole alimentari molto rigide può costituire anche il legame tra perfezionismo e disturbi alimentari e rendere sovrapponibili i sintomi ortoressici con quelli bulimici e anoressici.

Una negativa immagine del corpo e un’internalizzazione dell’idea della magrezza sono aspetti centrali nei disturbi alimentari, ma sono presenti, sebbene in misura minore, anche nelle tendenze ortoressiche: difatti queste ultime sono associate ad una maggiore preoccupazione per l’apparenza (quindi come appare il proprio corpo agli occhi degli altri), e una paura di diventare persone in sovrappeso; queste due caratteristiche spiegano il fatto che soprattutto i praticanti del fitness presentano tendenze ortoressiche e mostrano un’internalizzazione del concetto di magrezza così come l’ansia sociale per il proprio fisico, associata all’insoddisfazione verso la propria immagine del corpo, tipica di un disturbo alimentare.

Nonostante esista questa attenzione alla magrezza negli ortoressici, alcuni autori sottolineano il fatto che per questo tipo di paziente è molto più importante seguire una dieta assolutamente perfetta e sana, piuttosto che dimagrire, come vedremo più avanti.

Riguardo all’ultimo aspetto, gli stili di attaccamento ansioso, evitante e disorganizzato sono implicati nello sviluppo di anoressia nervosa e bulimia nervosa e questi tipi di attaccamento, secondo alcuni studi, sono predittori anche di sintomi ortoressici.

Un ultimo aspetto da considerare è l’autostima: in realtà i pazienti ortoressici sembrano avere un’autostima più alta rispetto ai pazienti anoressici o bulimici, ma per gli ortoressici una positiva autostima appare essere finalizzata a mantenere una dieta salutare e avere il controllo su tutti i loro desideri.

Alla luce di questi studi e conclusioni si potrebbe dedurre che l’ ortoressia nervosa sia espressione dei disturbi alimentari già esistenti, ossia anoressia e bulimia, e non un disturbo indipendente, in quanto presenta diverse somiglianze e sovrapposizioni con essi.

Però bisogna specificare che questi risultati non sono del tutto condivisi dalla comunità scientifica, perciò si devono considerare con cautela: altri studi ancora infatti smentiscono l’esistenza di questi legami.

Non tutti sono d’accordo con quanto detto sopra: Bratman infatti ha spinto a considerare l’ ortoressia come disturbo indipendente da altri, e non un’espressione di un altro disturbo alimentare. L’autore afferma che esistono delle differenze fondamentali tra l’ ortoressia e gli altri disturbi alimentari, che rendono la prima un disturbo alimentare a sé: il focus dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa è sulla quantità del cibo (la quantità di cibo ingerita), il focus dell’ ortoressia è invece sulla qualità (la qualità dei cibi che si scelgono di ingerire).

Secondo questa posizione, diversamente dall’anoressia e dalla bulimia, l’ ortoressia non riguarda il desiderio di diventare magri, distaccandosi così dai due disturbi alimentari: la forza trainante sembra essere il desiderio di seguire una dieta perfettamente salutare o pura. Gli ortoressici desiderano più essere puri e sani, piuttosto che magri.

Per esempio verdura e frutta biologica possono essere considerati alimenti sani (sia per un’anoressica sia per un’ ortoressica), perché essi sono percepiti salutari e con poche calorie; ma i dolcificanti artificiali e i piatti surgelati sono generalmente accettati da un’anoressica, ma non sono altrettanto ben visti da un’ ortoressica; viceversa per l’olio d’oliva: viene rifiutato dalle ragazze anoressiche, in quanto è ritenuto grasso e quindi calorico, mentre è accettato da un’ ortoressica, perché è definito uno dei “grassi buoni” dagli esperti nutrizionisti, i quali consigliano il suo consumo controllato perché presenta diversi benefici per la salute.

Quindi secondo questa concezione l’ ortoressia è fondamentalmente diversa dagli altri disturbi del comportamento alimentare, pur presentando delle somiglianze con essi, pertanto deve essere considerata un disturbo indipendente.

Un’altra posizione sostiene che l’ ortoressia nervosa possa essere meglio concettualizzata come un disturbo d’ansia, specificatamente come una variante del Disturbo Ossessivo-Compulsivo).

Bratman considera un requisito fondamentale dell’ ortoressia l’adesione ossessiva a un regime alimentare rigido, che prevede la sensazione di essere costretti a portare i propri cibi ai pranzi, pesare e misurare attentamente tutti i cibi consumati, impegnarsi in schemi alimentari estremi, provare un senso di colpa nel caso si devii da questo schema e una generale preoccupazione per il cibo. Altri autori sottolineano invece la relazione tra l’ansia e la perfezione nell’ ortoressia nervosa, comuni elementi nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

Secondo questa concezione le auto-imposizioni di restrizioni alimentari tipiche dell’ ortoressia (compulsione), sarebbero messe in atto per ridurre l’ansia relativa al cibo (ossessione), che è guidata dall’enfasi culturale su schemi alimentari salutari da seguire alla lettera.

Nelle persone con ortoressia, la compentente ossessiva di un disturbo ossessivo-compulsivo enfatizza le abitudini a seguire un’alimentazione “pura”.
Anche in questo caso però non si è riusciti a raggiungere una decisione unanime e un accordo tra gli esperti, in quanto, nonostante le somiglianze appena elencate, l’ ortoressia non presenta tutte le caratteristiche necessarie per essere considerato un disturbo ossessivo-compulsivo (per esempio nell’ ortoressia sembrano mancare le ossessioni bizzarre che i pazienti mettono in atto con gesti ripetitivi ed eccessivi (rituali) per neutralizzare quel pensiero).

Conclusioni

Quindi, per molto tempo c’è stata non poca confusione sulla natura dell’ ortoressia: è un disturbo? Fa parte dei disturbi alimentari già esistenti? Può essere classificato come un disturbo d’ansia?

A fronte di questa incertezza diagnostica sono aumentati studi e ricerche a riguardo, con l’intento di fare chiarezza sulla questione: essa infatti non è solo un problema puramente di definizione, ma è fondamentale perché dalla sua classificazione si può iniziare a mettere a punto delle strategie più efficaci di prevenzione e terapia.

Però la letteratura esistente si è concentrata prevalentemente sul misurare la prevalenza in differenti paesi di questa condizione e ad esaminare i fattori di rischio (età, genere, BMI, ecc), producendo risultati interessanti, ma di natura aneddotica e descrittiva.

In conclusione è necessario che nella letteratura si approfondisca la natura di questa nuova patologia, a fronte della controversia riguardo alla sua difficile definizione: anche se non potrebbe essere ancora considerato come un disturbo alimentare indipendente, l’ ortoressia prevede un disturbo delle abitudini alimentari; perciò si pensa che dovrebbe essere trattato come un disturbo concernente un comportamento alimentare anormale, legato a sintomi ossessivi-compulsivi.

Capendo sempre meglio la definizione diagnostica dell’ ortoressia, si comprende sempre meglio come aiutare le persone che ne soffrono.
Rimane il fatto che la natura dell’ ortoressia rimane ancora un concetto controverso e su cui si dibatterà ancora a lungo, e proprio per questo affascinante e interessante da approfondire.

 

fMRI: predire l’autismo con l’imaging cerebrale

Secondo uno studio finanziato da Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) e dal National Institute of Mental Health (NIMH), utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è possibile identificare i pattern di attivazione delle connessioni cerebrali ai fini di una diagnosi precoce dell’ autismo.

 

Conoscere le funzioni cerebrali del bambino può essere utile per prevedere con precisione quali neonati ad alto rischio potrebbero essere diagnosticati come affetti da autismo.

Secondo uno studio finanziato da Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) e dal National Institute of Mental Health (NIMH), utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è possibile identificare i pattern di attivazione delle connessioni cerebrali ai fini di una diagnosi precoce del disturbo autistico; infatti, l’autore dello studio Emerson e colleghi, hanno potuto prevedere con maggior accuratezza se un bambino di 6 mesi avrebbe sviluppato autismo a 24 mesi di età.

Le caratteristiche dell’autismo

Il disturbo dello spettro autistico (DSA) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da deficit nella comunicazione, nell’interazione sociale e da pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti e ripetitivi che emergono tipicamente verso i 24 mesi di età.

L’autismo colpisce circa 1 su 68 bambini negli Stati Uniti. I fratelli dei bambini con diagnosi di autismo hanno un rischio maggiore di sviluppare tale disturbo. Anche se la diagnosi e l’intervento precoce potrebbero contribuire a migliorare i risultati a lungo termine, attualmente non esiste alcun metodo per diagnosticare la malattia prima che i bambini mostrino i sintomi comportamentali.

Come dichiarato da Diana Bianchi, Direttrice NICHD, studi precedenti hanno dimostrato che le anomalie neuroanatomiche tipiche dell’autismo si strutturano prima che emergano i sintomi comportamentali tipici, di conseguenza, se studi futuri confermeranno questi risultati, la rilevazione delle differenze cerebrali potrà consentire ai medici di diagnosticare e trattare l’autismo precocemente.

La fMRI per individuare precocemente l’autismo

In un recente studio pubblicato su Science Translational Medicine, un team di ricercatori dell’University of North Carolina a Chapel Hill e Washington University School of Medicine in St. Louis, si è concentrato sulla connettività funzionale del cervello studiando come le regioni cerebrali lavorino insieme durante lo svolgimento di diversi compiti e durante la condizione di riposo in neonati di 6 mesi ad alto rischio.
Utilizzando l’fMRI su 59 bambini di 6 mesi con un elevato rischio familiare per Disturbi dello Spettro Autistico (aventi cioè fratelli maggiori affetti da autismo) è stato possibile effettuare le scansioni cerebrali mentre i neonati erano in una condizione di riposo naturale. Essi sono stati ritenuti ad alto rischio perché avevano dei fratelli più grandi affetti da autismo.

All’età di 2 anni, 11 dei 59 neonati di questo gruppo sono stati diagnosticati con tale disturbo.

I ricercatori hanno utilizzato una tecnologia computerizzata dotata di un algoritmo basato su un “apprendimento automatico”, addestrato per separare i risultati delle immagini funzionali in due gruppi “con autismo” e “senza autismo” e per prevedere diagnosi future. Questo metodo ha identificato l’82% dei neonati che avrebbero sviluppato autismo (9 su 11) ed ha identificato correttamente tutti i neonati che non lo avrebbero sviluppato.

Un’altra analisi ha testato quanto questi risultati possano effettivamente essere applicati anche ad altri casi e l’esito raggiunto mostra che il programma automatico è in grado di prevedere diagnosi per gruppi di 10 neonati con un’accuratezza pari al 93%.

In conclusione, dallo studio i ricercatori hanno trovato 974 connessioni funzionali cerebrali in neonati di sei mesi associati a comportamenti correlati con l’autismo (comportamento sociale, linguaggio, sviluppo motorio e comportamento ripetitivo). I risultati suggeriscono che una singola scansione fMRI possa prevedere accuratamente l’autismo tra i neonati ad alto rischio.

Queste evidenze dovranno, tuttavia, essere replicate su campioni molto più ampi ma rappresentano già un passo importante verso la precoce individuazione di soggetti con autismo prima che sviluppino i caratteristici sintomi comportamentali. In futuro, le neuroimmagini potranno essere uno strumento utile a supportare la diagnosi di autismo e di conseguenza, aiutare il medico curante a valutare il rischio di sviluppare l’autismo in bambini in età precoce.

Il transfert nella psicoanalisi interpersonale

La corrente psicoanalitica di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan: egli spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert)

 

La corrente psicoanalitica che oggi viene rubricata sotto la definizione di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan nell’America del Nord nei primi anni del novecento che trovano radicamento in Europa nel secondo dopoguerra.

Dallo schermo bianco unipersonale all’osservazione partecipe bipersonale: il ruolo del transfert

L’intuizione di Sullivan, divenuta per esperienza diretta poi consapevolezza, sulle inclinazioni partecipatorie dell’analista e dei loro usi potenziali nel processo terapeutico rappresentò una svolta paradigmatica nella psicoanalisi e determinò il passaggio dal modello dello “schermo bianco” della psicologia unipersonale al modello di analisi della “osservazione partecipe” bipersonale (Hirsch, 1995).

Come ci ricorda Hirsch (1995):

Lo scienziato come ricercatore personale inevitabilmente interagisce con i dati in studio, e quindi la conoscenza diventa contestuale. Le idee e le percezioni del ricercatore/osservatore analitico sono inestricabilmente legate alla persona osservata. L’applicazione di Sullivan di questo punto di vista ai dati della psicoanalisi, spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert) (p.642).

Secondo questa prospettiva teorica il transfert viene considerato come il: “trasferimento inconscio di un’esperienza da un contesto interpersonale ad un altro”  (Fiscalini, 1995). In altre parole, le relazioni interpersonali del passato vengono rivissute in situazioni attuali.

Questa esclusività ha trovato varie obiezioni e nella grande maggioranza i teorici interpersonalisti avvertono di non porre un esclusivo focus sulle “caratteristiche ripetitive” del rapporto analitico, poiché questo potrebbe portare a trascurare il significato terapeutico del reale rapporto con l’analista.

La Thompson (1950), Cohen (1952) e Wolstein (1959), tra gli altri, hanno puntualmente e concordemente osservato che gli esseri umani, in virtù di operazioni caratteriologiche e di atteggiamenti difensivi, fanno pressioni su altri esseri umani in svariati modi non verbali per comportarsi o per reagire come gli adulti significativi nelle fasi iniziali delle loro vite. Di conseguenza: ”il vecchio modo di reagire sembra essere automaticamente ripetuto” (Thompson, 1950, p.57), quando in realtà è attivamente ricreato. Di conseguenza, nella situazione analitica, gli atteggiamenti del paziente rappresentano sempre: “un insieme di valutazioni transferali e realistiche” (Thompson, 1950, p. 100). Nella stanza di analisi, come nella vita di tutti i giorni, l’esperienza dell’individuo è sempre un complesso sistema di correlazioni transferali e non transferali.

Secondo Fiscalini (1995) è questa la principale revisione del concetto di transfert pertinente all’indirizzo interpersonalista: viene messo in discussione il tradizionale assunto che lo caratterizza come distorsione.

Seguendo l’analisi proposta da Fiscalini (1995), gli analisti interpersonali sono stati aperti storicamente ai concetti relativistici o prospettivistici di verità, significato e ai concetti democratici di autorità analitica. Sullivan (1954), primo fra tutti, parlava di “convalidazione consensuale” cioè di verità come accordo sociale o consenso, e dunque posizionò un concetto relativistico culturale ed interpersonale di verità al centro della teoria e della pratica psicoanalitica.

Critici nei confronti dei concetti autoritari dell’analista “oggettivo”,  Gill (1983), Hoffman (1983) e Levenson (1988) come molti altri interpersonalisti contemporanei, rifiutano la nozione di analista come arbitro della realtà analitica.

Come affermano Gill (1983) e Hoffman (1983), nei riguardi delle esperienze transferali, è più appropriato parlare di rigidità di percezione intesa come errata contestualizzazione dei dati analitici piuttosto che di distorsioni proiettive. Hoffman (1983) argomenta che in linea di principio il transfert opera in maniera molto simile a un “contatore geiger”, con l’esperienza passata che sensibilizza un individuo a concentrarsi o a vedere selettivamente significati che potrebbero essere elusivi o dimostrarsi di poco interesse dinamico.

Più radicale, Levenson (1988), asserisce che l’esperienza transferale che i pazienti hanno dell’analista rappresenta la percezione reale o veritiera, piuttosto che semplicemente plausibile, che questi hanno della situazione analitica. Levenson spiega che l’analista è invariabilmente “trasformato” dalla nevrosi del paziente e dunque invariabilmente replica (re-enact) la situazione originale di transfert all’interno della situazione analitica.

Sotto questo aspetto il transfert non è attribuibile a distorsioni proiettive o a costruzioni verosimili e rappresenta sempre un’interazione reale.

Psicoterapia breve per il benessere psicologico (2017) di G. A. Fava – Recensione

Durante la mia pratica psicoterapica sono stata incuriosita dal titolo di questo libro: Psicoterapia breve per il benessere psicologico. “Breve”… mi sono chiesta come può una psicoterapia definirsi “breve o “lunga”?

 

Sappiamo bene che la durata di un percorso psicoterapeutico è molto variabile; tutto dipende da vari fattori: il disagio in questione, la motivazione alla terapia, le metodologie usate dal terapeuta, la collaborazione da parte del paziente, e ancora…

Quindi mi sono interrogata su cosa intendesse Fava per psicoterapia “breve”; forse un metodo un po’ insolito per condurre il paziente verso il “benessere psicologico”?

Mi sono quindi cimentata nella lettura del libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico con gran curiosità.

Psicoterapia breve per il benessere psicologico: alla scoperta della WBT

Un libro lineare, Psicoterapia breve per il benessere psicologico, suddiviso in tre parti. Fava ci conduce e ci addestra con ordine alla sua metodologia clinica sviluppata da egli stesso in prima persona: la Well-Being Therapy (WBT).

Nella prima parte del libro Fava con gran coinvolgimento ci conduce in quella che è la sua formazione di terapeuta, raccontandoci anche il suo percorso personale che lo ha condotto verso la pratica psicoterapica.

Fava ci trasporta all’interno dei suoi casi clinici più significativi, quelli che lo hanno indotto a sperimentare una nuova metodologia volta a risanare il benessere paziente: procedere in una direzione per certi versi “opposta” a quella della classica pratica della Terapia Cognitivo Comportamentale.

Alla base della conosciuta terapia cognitiva vi è un monitorare la sofferenza del paziente, identificarne le situazione in cui si verifica per individuare un modo di pensare disfunzionale che a sua volte è alla base di emozioni sgradevoli provate.

Fava, sull’esperienza di un suo paziente che non aveva reagito bene alla TCC, sceglie di comportarsi diversamente: monitorare non più la sofferenza, bensì il benessere del paziente e i fattori che lo interrompono.

…”Andare dallo psicoterapeuta e parlare del proprio benessere, che cosa strana”, mi sono detta. Eppure i pazienti di Fava ne hanno avuto un gran beneficio; quel beneficio che gli ha consentito di andare oltre con questa pratica: validarla per applicarla a vari disturbi.

Il paziente si concentra sulle sensazioni di benessere che prova, vi ci associa i pensieri disturbanti che interrompono questo stato positivo per potervi poi intervenire come un osservatore che smentisce le idee disfunzionali.

Fava, in Psicoterapia breve per il benessere psicologico, dà una spiegazione all’esito positivo a cui erano andati incontro i suoi pazienti con la WBT: concentrarsi sul proprio malessere non sempre è funzionale, anzi potrebbe indurre il paziente a rimuginare sulla propria sofferenza scoraggiandolo e impedendogli di impegnarsi nel portare a termine la terapia.

Il focalizzarsi sui suoi (anche brevi) periodi di benessere invece motiva il paziente a far sì che quei pochi momenti positivi possano aumentare. E per raggiungere questo obiettivo il paziente dovrà metterci del suo. Assumono un ruolo fondamentale gli homework e il tenere un diario che consenta a terapeuta e paziente di monitore le sensazioni provate e ragionarci su.

Cosa si intende per psicoterapia breve?

Nella seconda parte del libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico Fava chiarisce cosa intende per “psicoterapia breve”: un percorso della durata di otto sedute poste a distanza di due settimane l’una dall’altra.

Ogni capitolo rappresenta una seduta, con al termine uno schema riassuntivo di quelli che sono gli obiettivi dell’incontro. L’autore ci conduce passo passo nella sua pratica clinica, esponendocela (talvolta con esempi da lui esperiti) e permettendoci di utilizzarla con adeguati suggerimenti e accortezze.

Ritengo che il libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico sia un’ottima guida per chiunque voglia cimentarsi in questa pratica terapeutica, applicabile a qualunque tipologia di disturbo come Fava ci illustra nella terza parte del libro.

Il quest’ultima sezione l’autore ci espone le applicazioni cliniche della Well-Being Therapy, descrivendo la sua pratica a seconda dei vari disturbi psicologici, quali depressione, oscillazioni dell’umore e disturbi d’ansia di vario tipo. Con meticolosità Fava ci conduce in ogni disagio, illustrando anche una fase di assessment del disturbo stesso e procedendo poi nell’addestrarci all’utilizzo della WBT a seconda del caso che potremmo trovarci di fronte.

In molti casi Fava abbina alla WBT delle tecniche cognitivo – comportamentali, suggerendoci anche le implicazioni cliniche a seconda dei contenuti che il paziente potrebbe portarci.

Otto sedute che potrebbero anche ridursi a quattro. L’autore infatti ci esplicita la possibilità di rendere il trattamento ancor più breve, dimezzando il tempo e proponendoci, per chi vuole, un programma articolato in soli quattro incontri.

La sensazione che si ha al termine della lettura di Psicoterapia breve per il benessere psicologico è senz’altro quella di aver appreso qualcosa di nuovo; una nuova metodologia di trattamento, che forse non tutti condivideranno, ma Fava ci lascia con la curiosità di sperimentarci in questa nuova tecnica, sicuramente utile in quei casi dove la classica terapia cognitiva non ha raggiunto gli esiti sperati, ma anche in tutti quei casi in cui il paziente desidera vedere un miglioramento in breve tempo.

Un libro completo, che espone la Well-Being Therapy senza omettere nulla, descrivendo casi concreti e offrendoci le giuste linee guida in maniera schematica. Anche il non esperto in questa pratica può sperimentarsi nella sua applicazione.

Una tecnica interessante, sia da applicare alla TCC sia da utilizzare in maniera autonoma.

Impossibile poi non notare la passione di Fava nello scrivere il suo libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico: non solo ci ha voluto mettere al corrente di come egli stesso ha sperimentato la WBT e il percorso che ha dovuto sostenere per validare la tecnica, ma ci inoltra all’interno dei suoi casi clinici facendoci vivere la terapia da un punto di vista pratico.

Gli interrogativi che mi ponevo prima di cimentarmi nella lettura hanno trovato le giuste risposte. Senz’altro posso dire di sentirmi arricchita da una nuova tecnica psicoterapica che non conoscevo, e che adesso posso definire  interessante, utile e assolutamente da applicare.

Deprivazione del sonno: un importante aiuto nella terapia dei disturbi dell’umore

I disturbi dell’umore rappresentano una classe di disturbi psichiatrici comprendente, secondo il DSM-IV TR, alcune delle patologie psichiatriche più diffuse al mondo come la depressione maggiore e il disturbo bipolare tipo I e tipo II. La deprivazione del sonno è una tecnica non molto nota ma di importante aiuto nel supportare le normali terapie di prassi che si effettuano per la cura dei disturbi dell’umore. Rientra tra quelle terapie denominate cronobiologiche.

Ileana Capozza, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO 

 

La deprivazione del sonno come trattamento per i disturbi dell’umore

In base agli studi più recenti, nella terapia dei disturbi dell’umore le tecniche di deprivazione del sonno ottengono effetti rilevanti e sostenuti, sia quando utilizzate da sole sia in combinazione con specifiche terapie farmacologiche. Di notevole importanza è il fatto che gli effetti collaterali di suddette terapie siano pressocchè marginali.

Considerando i più recenti dati al riguardo, ci si aspetta che la depressione nel 2020 diventi uno dei più grossi oneri tra i disturbi psichici. Soltanto il 50-70% dei pazienti affetti da depressione maggiore ricorrente ad esempio, risponde al primo trattamento antidepressivo, meno del 40% di essi va incontro a completa remissione di malattia.

L’utilizzo della terapia farmacologica antidepressiva viene scoraggiata spesso in alcune condizioni mediche, nonché in alcune condizioni psichiatriche quali, talvolta, gli stessi episodi depressivi .E’ importante mettere in evidenza a tal proposito il rischio che si corre prescrivendo una qualunque terapia antidepressiva con la conseguenza di trasformare, nel caso di una depressione bipolare non riconosciuta ad esempio, la fase depressiva di un paziente in una fase eccitativa, e quindi rendendone ancora più difficoltosa la stabilizzazione e peggiorandone il decorso complessivo: il viaggio del tono dell’umore verso l’euforia, l’eccitamento, la rabbia e l’agitazione può essere indotto da trattamenti antidepressivi farmacologici aggressivi in soggetti predisposti. In queste tipologie di pazienti i trattamenti cronobiologici, come la deprivazione di sonno, offrono un valido metodo sostitutivo o di supporto.

Un’altra condizione nella quale è opportuno evitare l’utilizzo della terapia farmacologica antidepressiva è durante la gravidanza, per non incidere sullo sviluppo fetale e per scongiurare la comparsa di comportamenti ansiosi nell’età adulta, conseguenti all’esposizione prenatale ai farmaci antidepressivi.

Pertanto è importante sottolineare come le terapie cronobiologiche siano state supportate da numerosi studi clinici che ne hanno appunto provato l’utilità ed efficacia. Il livello di miglioramento indotto dalla cronobiologicoterapia dopo una sola notte di deprivazione di sonno, è paragonabile a quello osservato dopo sei settimane di terapia con antidepressivi. Le risposte terapeutiche osservate sono perciò molto simili a quelle che si ottengono quando il paziente viene sottoposto a terapia farmacologica, ma con una differenza sostanziale: l’effetto terapeutico diventa clinicamente rilevante poche ore dopo l’inizio del trattamento di deprivazione del sonno (il giorno dopo nella maggior parte dei casi), facendo scomparire perciò il più o meno lungo periodo di latenza (generalmente due settimane) che si osserva dopo la somministrazione del farmaco.

Nel corso degli anni, si sono sviluppate sempre di più evidenze cliniche in supporto all’efficacia della deprivazione del sonno, soprattutto comprovate dagli studi sempre più approfonditi sui meccanismi biologici presenti alla base dell’efficacia stessa. Pertanto si può affermare che queste tecniche possano tranquillamente rientrare tra i trattamenti di prima battuta per i disturbi dell’umore.

Gli effetti antidepressivi della deprivazione del sonno si osservano in diverse sindromi depressive, osservando una maggiore efficacia nella depressione maggiore endogena, depressione reattiva, unipolare, nei disturbi bipolari, nella depressione schizoaffettiva, nella depressione precoce o secondaria alla malattia di Parkinson, alla depressione in gravidanza e nel postpartum ed infine nella sindrome disforica premestruale; la deprivazione del sonno può essere definita come il nucleo portante delle cronobiologicoterapie e consiste nell ’esposizione controllata a stimolazioni biologiche come la deprivazione di sonno, che agiscono sui ritmi biologici stessi, aventi lo scopo di ottenere effetti terapeutici. Si può affermare comunque che il suo utilizzo sia pressocchè ristretto ai disturbi dell’umore.

Per quanto concerne la depressione è stato verificato come le variazioni dell’umore nell’arco delle ore diurne influenzino la risposta alla privazione del sonno; i pazienti che mostrano la tipica fluttuazione dell’umore diurna con un miglioramento serotonino della sintomatologia, traggono maggior giovamento dal trattamento cronobiologico rispetto ad altri. Le caratteristiche intrinseche del tipo di sonno di ogni singolo paziente possono influenzare la risposta al trattamento, così come una bassa attività simpatica a livello periferico in associazione con un’alta attività noradrenergica a livello centrale la influenzano positivamente.

Come avviene la deprivazione del sonno

Ma come si svolge la deprivazione del sonno e come viene somministrata al paziente?

Vengono distinte due modalità, una detta totale ( che consiste nella somministrazione del periodo di deprivazione del sonno che comincia la mattina dopo regolare risveglio e termina 36 ore dopo fino alla sera del giorno successivo) e una detta parziale (che comincia con il risveglio nella seconda parte della notte e che include anche il giorno seguente fino alla sera).

I sintomi depressivi sono il primo obbiettivo terapeutico della deprivazione del sonno ed il rapido miglioramento che si ottiene include anche i pensieri e la pianificazione suicidaria. La deprivazione del sonno porta in tempi brevi al miglioramento della sintomatologia depressiva ed è molto utile anche nei pazienti che sono resistenti ai comuni trattamenti farmacologici. Numerosi studi clinici hanno dimostrato che gli effetti antidepressivi non possono, però, osservarsi prima del temine dell’intera notte di deprivazione e non diventano clinicamente evidenti prima dell’esposizione alla luce del giorno.

Rimane ancora dibattuto se piccoli riposi durante la notte di veglia abbiano il potere di bloccare il potere antidepressivo della deprivazione del sonno; in ogni caso dati clinici comprovati hanno dimostrato che questa eventuale influenza negativa sull’effetto antidepressivo dipenda dalle caratteristiche individuali di ogni singolo paziente sottoposto alla cura. La scelta tra l’utilizzo della TSD (total sleeep deprivation) o la PSD (partial sleep deprivation) dipende dalla gravità della sintomatologia sulla quale si intende agire.

Il trattamento generalmente viene ripetuto tre volte a settimana: si effettuano 36 h di deprivazione e durante la nottata di deprivazione vengono sottoposti a light therapy per contrastare la sonnolenza che può insorgere. I pazienti nei quali non si osserva l’effetto terapeutico dopo il primo trattamento vengono sottoposti ad un secondo ciclo. Dopo il trattamento i pazienti anticipano significativamente il momento di andare a letto e dormono maggiormente e meglio rispetto a prima del trattamento stesso (quando normalmente il loro sonno era disturbato dall’insonnia legata allo stato depressivo). Ciò che si ottiene da suddetto trattamento è un grado meno severo della sintomatologia depressiva ed un oggettivo miglioramento nell’umore che dura nel tempo. Nei giorni successivi al trattamento però i pazienti tendono a mostrare un progressivo peggioramento e la gravità del quadro depressivo ritorna ai livelli osservati prima del trattamento. Dopo il sonno di recupero, non necessariamente si osserva la ricaduta nel primo giorno dopo la deprivazione del sonno, alcuni pazienti mostrano un miglioramento atipico subito dopo il recupero invece che dopo la notte di veglia.

Ed è proprio per queste ultime considerazioni riguardo alla presenza di ricadute dopo il trattamento che risulta fondamentale, per evitarne i rischio, combinare la cronobiologicoterapia con farmaci antidepressivi e stabilizzatori dell’umore. La deprivazione del sonno affretta l’ azione antidepressiva dei farmaci. L’unica associazione non fruttuosa osservata emersa dagli studi clinici è quella con la trimipramina, mentre per quanto riguarda i disturbi bipolari il gold standard risulta l’associazione tra deprivazione del sonno e sali di litio, grazie alla quale si ottiene una eutimia stabile nel tempo senza la necessità dell’utilizzo di altre terapie farmacologiche.

Il meccanismo di azione della deprivazione del sonno

E’ stato provato che gli obiettivi della deprivazione del sonno sono i sistemi della serotonina, della norepinefrina e della dopamina, andandone a potenziare la neurotrasmissione. Ci sono dei fattori biologici come le varianti genotipiche, i livelli basali dei suddetti neurotrasmettitori e la quantità dei recettori occupati che influenzano in modo rilevante la risposta terapeutica. È stato inoltre osservato che la deprivazione del sonno aumenti i livelli circolanti di ormoni tiroidei. Ancora più importante è stata la scoperta di cambiamenti metabolici in determinate aree cerebrali osservati mediante tests di neuroimaging: si sono osservati un decremento nella perfusione nel cingolato ventrale ed amigdala ed un aumento dell’attività metabolica a carico della corteccia del cingolato anteriore e della corteccia mediale prefrontale. Più sono alti i livelli metabolici di base dell’attività glutammatergica a livello del cingolato, maggiore è il decremento di questa indotto dalla deprivazione del sonno e migliore è l’effetto terapeutico della stessa. Gli stessi risultati che vengono ottenuti in pazienti sottoposti ad un singolo ciclo di deprivazione del sonno si sono osservati nei pazienti sottoposti ad un mese di paroxetina. Pertanto si può certamente affermare che la neurotrasmissione glutammatergica può avere un ruolo nel rapido ottenimento dell’effetto antidepressivo post deprivazione del sonno, conseguentemente ad una riduzione della concentrazione corticale del glutammato, e parallelamente all’ osservazione della risposta clinica al trattamento cronobiologicoterapeutico.

È stato inoltre ipotizzato che la presenza di importanti cambiamenti nella omeostasi del sonno svolga un ruolo rilevante nell’effetto antidepressivo della cronobiologicoterapia: sono state fatte delle scoperte sull’ipotesi che ci fosse un’alterata omeostasi del sonno nei disturbi bipolari, con un alterato pattern di eccitabilità corticale durante la fase di deprivazione del sonno somministrata ai pazienti bipolari in fase depressiva.

Gli effetti collaterali e le controindicazioni della deprivazione del sonno

Si può affermare indiscutibilmente che la deprivazione del sonno abbia un ruolo stressogeno non indifferente e che rimaner svegli un’intera notte possa inaspettatamente far precipitare anche condizioni cliniche gravi.

A tal proposito è importante sottolineare le risposte terapeutiche ottenute e non ottenute quando la somministrazione del trattamento è stata effettuata in disturbi differenti dai disturbi dell’umore: nella depressione delirante la letteratura suggerisce cautela nella somministrazione della deprivazione del sonno. Infatti, durante uno studio controllato in cui è stata somministrata in associazione con dopamina, si è osservato come in alcuni pazienti affetti da depressione psicotica si sia stata una risposta terapeutica antidepressiva importante, di contro però all’acuirsi della sintomatologia positiva (con l’incremento della frequenza e gravità dei deliri) dopo il sonno di recupero. In caso di pazienti affetti da stati misti con prevalenza di sintomatologia depressiva è stato osservato che la somministrazione di deprivazione del sonno favorisce il viraggio verso lo stato maniacale con aggravamento della sintomatologia. Per quanto riguarda invece i pazienti affetti da malattia di Parkinson, la somministrazione della deprivazione del sonno è stata associata ad un miglioramento prolungato della depressione che può insorgere durante tale patologia; infatti la stessa eccessiva durata del sonno è stata associata ad un maggior rischio di sviluppare la malattia di Parkinson , probabilmente a causa dell’incremento marcato nella neurotrasmissione dopaminergica che si osserva, per l’appunto, durante la deprivazione del sonno.

È importante inoltre considerare come la deprivazione del sonno possa essere un trigger per le crisi comiziali, pertanto deve essere utilizzata con cautela nei pazienti affetti da epilessia. Nei pazienti affetti da disturbo bipolare in stato eutimico, i bruschi cambiamenti nel ciclo sonno-veglia, possono scatenare l’episodio maniacale, con incremento delle attività nelle quali questi pazienti cominciano ad affaccendarsi e con la riduzione della loro necessità di dormire; il viraggio verso la mania, dopo trattamento con deprivazione del sonno, si osserva soprattutto nei pazienti che mostrano rapidi cicli depressione-mania/ipomania. Nonostante queste osservazioni però si può affermare che la mania che può insorgere post deprivazione del sonno, risulta prevalentemente mite e moderata, infatti meno della metà di questi pazienti necessita della somministrazione di stabilizzatori dell’umore per ritornare allo stato di eutimia. Inoltre nei pazienti ospedalizzati la somministrazione di benzodiazepine per via endovenosa porta rapidamente ad una completa risoluzione del quadro maniacale. I pazienti in cui la deprivazione del sonno induce ipomania, ritornano all’eutimia attraverso la somministrazione di Sali di litio o benzodiazepine. In altri, basta il sonno di recupero per riportarli all’eutimia. Peraltro gli stati maniacali osservati post deprivazione del sonno non rientrano nel DSM-4 perché non rispondono ai criteri necessari. In questi casi, comunque, è il terapeuta stesso che sconsiglia l’utilizzo della deprivazione del sonno, quando cioè il rischio di sviluppare la sintomatologia maniacale supera di gran lunga gli effetti benefici del trattamento stesso.

Nei pazienti sottoposti a terapia neurolettica depot è stato dimostrato un effetto antidepressivo deludente post deprivazione del sonno; in questi pazienti infatti viene consigliato un completo washout del farmaco se si vuole somministrare il trattamento cronobiologico.

In generale è perciò molto importante indagare sulle condizioni cliniche di base che il paziente presenta, per evitare che queste peggiorino dopo l’inizio del trattamento cronobiologicoterapico.

Gli effetti collaterali che si riscontrano in ogni caso sono i seguenti: sonnolenza diurna ed il viraggio verso mania o ipomania nel paziente bipolare. Per quanto riguarda la prima, si può cercare di ovviare ad essa attraverso la somministrazione della light therapy durante la nottata nella quale il paziente viene deprivato del sonno e per quanto riguarda il secondo effetto collaterale citato lo si può ridurre con la concomitante somministrazione di stabilizzatori dell’umore. Un altro effetto collaterale può essere l’insorgenza di crisi di panico o ansia nel paziente bipolare che presenti comorbidità con il disturbo di panico; pertanto in questi casi è bene informare con precisione il paziente su tutta la procedura e sulla eventuale ( ma non necessariamente verificabile) insorgenza della crisi di panico durante la notte di deprivazione.

La problematica più evidente resta, comunque, la breve durata dell’effetto antidepressivo: dopo il sonno di recupero più dell’80% dei pazienti che hanno risposto alla deprivazione del sonno sviluppano però una ricaduta della patologia di base, soltanto una minoranza di pazienti mantengono nel tempo l’ottenuto miglioramento della sintomatologia. Questi ultimi pazienti però, nel corso dei giorni successivi, mostrano una tendenza al progressivo peggioramento e la gravità della loro patologia spesso ritorna ai livelli precedenti al trattamento. Sono state però studiate delle strategie per ovviare a queste problematiche e sostenere gli effetti terapeutici della deprivazione del sonno nel tempo: come già accennato è fondamentale la combinazione di più trattamenti cronobiologicoterapici tra di loro, l’uso concomitante di farmaci come stabilizzatori dell’umore, antidepressivi e Sali di litio a seconda della patologia di base. Come già detto importanti sono anche i cicli ripetuti della deprivazione del sonno in associazione con la somministrazione delle altre tecniche cronobiologiche.

Tutto questo dimostra l’importante binomio togliere il sonno per togliere la depressione attraverso la “terapia della veglia” andando ad agire sul tanto nominato orologio biologico situato sopra il chiasma ottico: esso è estremamente sensibile alla luce del giorno e all’esposizione al buio, rispondendo a queste due stimolazioni rispettivamente aumentando la secrezione di serotonina e di melatonina. Filtrando le prime luci del giorno esso fa partire tutte le funzioni fisiologiche del corpo che si esplicano nel quotidiano di ognuno. È un orologio perfetto salvo che nella depressione: toccando con le già discusse regole il ritmo del sonno si possono ottenere risultati straordinari.

 

Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli (2016) – Recensione del libro

L’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, Marie Rose Moro, guida il lettore attraverso il punto di vista degli adolescenti. Questo stimola la riflessione, introducendo i temi che poi vengono approfonditi con l’esperienza che Rose Moro ha maturato in molti anni di pratica clinica.

 

Il compito difficile cui sono chiamati i genitori è quello di essere presenti alla giusta distanza che permetta ai figli di non sentirsi controllati ma di sentirsi protetti.

 

L’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, Marie Rose Moro, guida il lettore attraverso il punto di vista degli adolescenti.

Ogni capitolo, infatti, è introdotto dalle parole che gli stessi ragazzi utilizzano per descrivere la loro esperienza. Questa modalità stimola la riflessione, introducendo i temi che poi vengono approfonditi con l’esperienza che Rose Moro ha maturato in molti anni di pratica clinica.

L’entrata in adolescenza segna l’inizio di una fase di grande cambiamento contraddistinta da una mente in fermento che cerca di rispondere a nuovi compiti evolutivi.

Secondo Rose Moro, autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, l’adolescenza è un concetto antropomorfo in quanto esiste sicuramente nelle società occidentali ma non in tutto il pianeta. Occupandoci della nostra cultura di appartenenza possiamo collocare l’inizio dell’adolescenza intorno agli 11 anni ed il tuo termine verso i 18-20 anni. Tuttavia l’uscita dall’adolescenza si sta posticipando negli ultimi decenni a causa di una tardiva uscita dei ragazzi da casa, sia per motivi economici che per motivi di studio.

Gli adolescenti si raccontano – Le due caratteristiche principali dell’adolescenza

Le due caratteristiche principali dell’adolescenza evidenziate dall’autrice sono:

  1. Separazione-individuazione: ovvero quel processo che permette all’adolescente di costruire la propria identità allargando il proprio spazio mentale. I ragazzi iniziano a costruirsi la loro autonomia e per farlo hanno bisogno di mettersi in contrapposizione ai genitori, di identificarsi con modelli diversi. In questo processo rivestono un ruolo anche le bugie che manifestano una protezione dell’intimità dei ragazzi ed i genitori dovrebbero cercare di comprendere che con esse manifestano il bisogno di “tenersi qualcosa per sé”. Cosa ben diversa è quando le bugie nascondono un comportamento rischioso, in tal caso si potrebbe creare una situazione paradossale per la quale ad es. un figlio si sente male per aver bevuto alcool e non si sente autorizzato a chiedere aiuto alla propria mamma o al proprio papà. E’ dunque importante comprendere il significato di una bugia. I figli si separano dai genitori ed è il normale processo di crescita, per questo chiudono la porta della camera, non danno accesso al profilo Facebook ecc.. In questo importante processo il compito dei genitori è quello di restare presenti senza diventare inquisitori.
  2. Il secondo cambiamento importante è rappresentato dalla sessualità: può essere molto difficile per un adolescente vedere profondamente modificato il proprio corpo e difficile accettare le nuove sensazioni. Il genitore ricopre un ruolo fondamentale nell’accettazione della maturazione sessuale, poterne parlare significa non creare un tabù, aiuta loro a vivere il passaggio dall’affettività alla sessualità in modo consapevole, sapendo cosa aspettarsi. In alcuni casi possono aver difficoltà a parlarne con un genitore ma riescono a farlo con un altro adulto.

Mentre i figli entrano in adolescenza i genitori vivono spesso un momento di smarrimento: il bambino che conoscevano non c’è più e loro, spesso, non riescono a ridefinire il loro ruolo. Può accadere che pur di restare vicini ai propri figli cercano di essere loro amici, tuttavia questo non è il giusto modo perché il genitore ha un ruolo diverso. Il ruolo genitoriale si divide in due assi principali ovvero un ruolo protettivo ed uno contenitivo: proteggerli e, allo stesso tempo, permettere ai figli di conoscere i limiti (contenerli), affinché li possano interiorizzare per sapersi regolare da soli. Due elementi cardine:

  • Un genitore può essere autoritario spiegando che le scelte sono fatte per il bene del figlio.
  • Un genitore ha il dovere di essere presente alla giusta distanza perché il proprio figlio ha bisogno di essere protetto ma anche di distanziarsi per diventare adulto.

Adolescenti e Identità

Nel libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, importanza viene data anche alla domanda: ma come fanno gli adolescenti a costruirsi la loro identità? Lo strutturarsi di una propria identità non passa solo dal distanziarsi dai genitori ma passa anche attraverso la scelta del look (capelli, abbigliamento, piercing) e l’appartenenza al gruppo dei pari. Per distanziarsi l’adolescente, infatti, si avvicina a chi -come lui- vive gli stessi turbamenti. Gli amici diventano una seconda famiglia. Se un giovane non avesse i suoi amici intorno a lui, mentre si sta “staccando” dai suoi genitori, proverebbe un sentimento di totale solitudine. Inoltre, il gruppo ha una seconda funzione ciò quella dell’identificazione. Nel suo gruppo l’adolescente può identificarsi con gli amici, avere dei punti di riferimento comuni (musica, vestiti, ecc…), può immaginare come sarà domani. L’adolescente crea per sé uno spazio che lo guiderà nel diventare un adulto. In tal senso si osserva come i ragazzi attribuiscano una profonda importanza alla scelta del look poiché esso diventa un modo di esprimere la propria identità.

Dunque, l’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, suggerisce come quando capita di discutere coi figli sul loro abbigliamento sia importante ricordare che non è una questione superficiale, ma che attraverso l’abbigliamento l’adolescente sperimenta chi vuole essere veramente. Se la critica sull’abbigliamento risulta un giudizio definitivo “vestito così sembri un drogato” lui/lei risponderanno come se fosse stata offesa la loro persona, tuttavia un parere “a me non piace molto questo abbigliamento” sarà comunque da prediligere perché fa parte del confronto che gli adolescenti devono avere coi propri genitori. L’adolescente è uno che sperimenta, cerca la propria libertà, sceglie di fare diversamente ed è parte integrante del processo di separazione/individuazione. L’influenza del gruppo spesso spaventa i genitori poiché capita che un adolescente alla ricerca di sé si faccia trascinare in una direzione non sua. E’ qui che i genitori devono essere bravi a far notare che c’è qualcosa che non va ed è importante esprimere il proprio punto di vista, come ad esempio: “so che è una festa e tutti berranno alcolici, ma vorrei che tu non bevessi”. Questo ha una funzione protettiva, anche se non è detto che l’adolescente rispetti la richiesta e, in tal senso, un genitore deve imparare a tollerare una buona dose di incertezza, anche se sembra intollerabile.

D’altro canto non tutti gli adolescenti entrano subito a far parte di un gruppo e vivono un periodo di solitudine e anche questa dimensione può far preoccupare i genitori. L’autrice ci suggerisce che la solitudine di per sé non è un problema, ma se questa nasce dalla paura di non esser accettati, da una delusione, allora è meglio dare un aiuto, sia questo dei genitori o di un professionista.

Nel libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, si ricorda che l’appartenenza al gruppo dei pari passa anche attraverso lo sport che, insieme alle altre passioni come la musica, i videogiochi ed internet, rappresenta certamente una delle passioni più sane. Lo sport, sia esso singolare o di squadra, porta i giovani ad entrare in relazione. Attraverso le esperienze motorie e corporee che procura, lo sport permette all’adolescente non solo di provare sensazioni di piacere – piacere di sentire il proprio corpo funzionare, di realizzare bei gesti o performance – ma anche di confrontarsi con dei limiti – le regole del gioco – o di superarli quando siano limiti fisici o psicologici. In questo modo lo sport rinforza la stima di sé. Grazie allo sport l’adolescente è attivo sul proprio corpo, invece di sentirsi passivo a causa dei cambiamenti che subisce con la pubertà.

Gli adolescenti e Internet: alcuni accorgimenti

Uno spazio importante, nell libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli, è riservato ad internet che costituisce parte integrante del mondo degli adolescenti. I giovani di oggi crescono nell’era digitale ed il rischio è che si crei una dipendenza da internet. L’autrice suggerisce di utilizzare qualche accorgimento per gestire il rapporto tra gli adolescenti e la navigazione in rete come ad es. quello di posizionare il computer in una zona di passaggio (sala) per monitorare l’uso che ne viene fatto. Per quanto riguarda tablet e cellulari, che possono essere portati sempre con sé, è necessario stabilire delle regole in fatto di “connessione”. Questi oggetti poiché permettono ai ragazzi sia di mantenersi in contatto con gli amici che di accedere al materiale scolastico, non possono essere vietati in assoluto. Tuttavia il loro utilizzo non deve impattare negativamente nella vita familiare, sociale, sportiva, ecc. “Che nostra figlia passi due ore su facebook o che nostro figlio giochi due ore a videogiochi di ruolo (gli RPG, role playing game) non è di per sé allarmante”. Invece, secondo Rose Moro può essere preoccupante se diventa il loro unico investimento nella vita.

Adolescenti e il rischio di assumere droghe e alcool

Ma internet non è l’unico elemento a rischio di dipendenza, si sottolinea in Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli. L’attrazione per droghe e alcool è motivo di coerenti preoccupazioni da parte dei genitori. Cosa suggerisce di fare l’autrice? La ferma posizione sul NO, deve lasciar spazio al confronto -prendendo ad es. una notizia del TG- sul tema delle droghe per permettere agli adolescenti di cogliere un’apertura affinché si possano sentire liberi di chiamare i propri genitori per chiedere aiuto qualora si trovassero in difficoltà a seguito dell’uso di cannabis o alcool. D’altronde fare prevenzione coi giovani risulta scarsamente efficace, loro conoscono bene i rischi che si corrono. Non si proiettano affatto in un futuro lontano di malattia, di morte o di pelle rovinata per gli effetti della sigaretta. Sono nell’immediatezza e nella sperimentazione. Se un genitore scopre che il proprio figlio fa uso di cannabis (ad es.) deve assolutamente parlarne con lui e se è solo all’inizio del suo utilizzo, è possibile cercare insieme cosa lo abbia portato fino a lì e come fare perché possa uscirne. Come convincere un adolescente a farsi aiutare? È sicuramente l’aspetto più difficile e l’autrice del libro Gli adolescenti si raccontano: genitori in ascolto dei propri figli sostiene che bisogna affermare subito, senza esitazioni: “La soluzione che hai trovato non è buona, ma ci mostra che c’è una difficoltà” e proporre quindi sia di risolverla insieme che di consultare uno specialista.

In conclusione, Rose Moro vuole dare un messaggio molto chiaro: Genitori, donate limiti e fiducia!

Mindfulness e disturbi del comportamento alimentare: gli effetti terapeutici

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari.

Francesca Casero, Elisa Covini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Come sottolinea Kabat-Zinn, il fondatore del primo programma di Mindfulness esplicitamente utilizzato per scopi clinici (la Mindfulness based Stress Reduction o MBSR), è curioso notare il fatto che in un mondo che va sempre più veloce, che rende necessaria una sempre maggiore specializzazione a discapito della visione d’insieme, che vede nella produttività il cardine su cui reggersi, pratiche quali la mindfulness che invitano a rallentare, a prendere maggiore contatto con l’esperienza del momento presente e a notare la profonda interconnessione che lega le diverse aree del sapere e della vita, suscitano sempre maggiore interesse. Probabilmente proprio perché il mondo sembra andare sempre più nella direzione opposta alla consapevolezza e sembra non tenere più conto dei ritmi insiti nella natura e nell’uomo stesso, l’utilizzo di pratiche volte a sviluppare la consapevolezza e a riappropriarsi del proprio spazio e dei propri ritmi appare quanto mai necessario. Altrimenti potrebbe arrivare il giorno in cui possiamo avere tutto ciò che vogliamo, ma non avere più né il tempo né la capacità di goderne.” (Chiesa, 2012).

Definizione e applicazioni cliniche della mindfulness

Con il termine Mindfulness, traduzione inglese della parola “Sati” della lingua pali, si intende essenzialmente una “modalità dell’essere, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale). Jon Kabat Zinn la descrive come “consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione, momento per momento, nel qui e ora, intenzionalmente e in modo non giudicante, alla propria esperienza”, la quale comprende sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni.

La Mindfulness non è una tecnica ma uno stato attentivo della mente, uno stato di coscienza in cui i pensieri, le emozioni e le azioni vengono liberate dagli abituali e talora automatici schemi di elaborazione che possono attivare e mantenere alcune condizioni disfunzionali, o talvolta patologiche, attuando un progressivo processo di consapevolezza e di decentramento.  «Si possono usare efficacemente delle metafore che aiutano a sviluppare il decentramento, come pensieri che galleggiano sull’acqua o un secchio con dell’acqua agitata, che gradualmente si calma», spiega il dottor Didonna, psicologo e psicoterapeuta, Presidente dell’Istituto Italiano Mindfulness, curatore e autore del libro “Clinical Handbook of Mindfulness” (2009).

Vedi il mondo in maniera diversa. E’ come se tu stessi camminando attraverso una foresta di notte, portando una torcia per illuminare il sentiero. All’improvviso spegni la torcia. Non hai più il fascio di luce puntato sul percorso, ma gradualmente i tuoi occhi si abituano all’oscurità e riesci a vedere tutta la scena. Avevo sempre dato per scontato che le mie emozioni fossero me stessa. Ora invece è come se le stessi osservando mentre nascono e scorrono dentro di me. Ti rendi conto che certe cose che pensavi fossero la tua identità in effetti sono solo esperienze. Sono sensazioni che fluiscono attraverso di te. Inizi a capire che i normali modi di percepire sono solo dei possibili punti di vista fra molti altri. Ci sono altri modi di vedere. Sviluppi quello che i buddisti chiamano l’occhio del principiante, vedi il mondo come lo vede un bambino, consapevole di tutte le cose insieme, senza una selezione e un’interpretazione cosciente».  (Siegel, 2009).

Il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del Buddismo (Meditazione Vipassana), dello Zen e dalle pratiche di meditazione Yoga, ma solo nel corso degli ultimi due decenni questo modello è stato utilizzato come paradigma autonomo in alcune discipline psicoterapeutiche occidentali, in particolare in quella cognitivo-comportamentale.  Fu utilizzata per la prima volta in un contesto sanitario (Dipartimento di Salute dell’Università del Massachusset), nei primi anni ’80, da Jon Kabat Zinn, attraverso un protocollo strutturato della durata di 8 settimane, il Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR).

Attualmente, interventi basati sulla Mindfulness si ritrovano sempre più spesso in setting ospedalieri e ambulatoriali, individuali o di gruppo, e trovano applicazioni cliniche nella prevenzione e la cura di problemi legati allo stress e alle malattie psicosomatiche, nei disturbi d’ansia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nella depressione, nell’abuso di sostanze, nei disturbi alimentari, nelle tendenze suicidarie e nel disturbo borderline, come pure nel caso di disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico), permettendo lo sviluppo di protocolli e modelli terapeutici validati di provata efficacia tra i quali la Mindfulness-Based Cognitive Therapy, la Dialectical Behaviour Therapy, l’Acceptance and Commitment Therapy e la Compassion Focused Therapy.

La mindfulness nel trattamento dei disturbi alimentari

Anche nell’ambito dei Disturbi alimentari la Mindfulness sta trovando sempre più applicazione come terapia di “terza generazione” ed è inserita in efficaci protocolli di cura quali: Emotion Acceptance Behavior Therapy (Wildes, Ringham, & Marcus, 2010), Dialectical Behaviour Therapy (Linehan, 1993) e Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB-EAT, Kristeller & Wolever, 2011), che integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR.

Un crescente numero di ricerche suggeriscono che la Mindfulness, intesa come attenzione intenzionale al momento presente in modo non giudicante, possa essere uno strumento di primaria importanza nel trattamento dei Disturbi alimentari. L’Anoressia nervosa, la Bulimia nervosa e il Disturbo da alimentazione Incontrollata sono infatti accomunati da mancanza di consapevolezza dei propri stati interni, da esperienze di evitamento degli stessi e dal forte desiderio di mantenere un controllo sul comportamento alimentare, sui propri pensieri, emozioni e bisogni/impulsi, i quali vengono, così, evitati e negati.

In questa prospettiva, dunque, tale meccanismo di mantenimento dei sintomi è evidente nel modello della disregolazione emotiva (Linhean, 1993; Telch et al. 2001), in cui il binge eating, la fame emotiva e i comportamenti di compenso rappresenterebbero una modalità di regolazione emotiva disfunzionale che, tuttavia, fungerebbe da rinforzo, permettendo di allontanarsi da esperienze di disagio e sofferenza.

Secondo alcuni studiosi, un meccanismo simile di rinforzo varrebbe anche per il mantenimento di sintomi quali il pensiero dicotomico, l’attenzione eccessiva al controllo del peso e delle forme del corpo e il comportamento restrittivo. Nei Disturbi alimentari, inoltre, si ritrova spesso anche un deficit nel riconoscimento e nella consapevolezza emotiva. Di conseguenza, si ritiene che gli interventi basati sulla mindfulness e sull’accettazione possano avere un effetto positivo nella riduzione dei sintomi, migliorando la capacità di accogliere e gestire adeguatamente emozioni negative, ovvero riducendo i meccanismi di evitamento delle esperienze dolorose, particolarmente significativi nella insorgenza e nel mantenimento dei disturbi alimentari. Maggiore è l’attenzione, la consapevolezza e l’accettazione verso le proprie esperienze, maggiore sembra essere la capacità di sviluppare strategie adeguate di soluzione del disagio e della sofferenza (Katterman et al., 2013). Uno dei processi cognitivi ai quali la minfulness sembrerebbe dovere la sua efficacia è la «disidentificazione», ovvero il distanziamento da pensieri e meccanismi emotivi, cognitivi o comportamentali disfunzionali, che vengono osservati e accettati, ma considerati altro da sé.

Una ricerca diretta da Julien Lacaille, psicologa dell’università canadese McGill in Quebec, ha mostrato come la Mindfulness possa aiutare a ridurre il desiderio irresistibile di alcuni cibi come, ad esempio, la cioccolata (che può divenire una vera e propria dipendenza). Dopo una prima fase di presa di coscienza del proprio desiderio, segue l’accettazione non giudicante che ridimensiona gli eventuali sensi di colpa ed infine il distacco dal proprio desiderio di cioccolata, vedendolo come altro da sé (Lacaille et al., 2014).

Se la mindfulness si è dimostrata efficace nel ridurre il “craving”, la fame emotiva e il binge eating, essa non sembra possa avere un effetto diretto sulla perdita di peso. Sembrerebbe, tuttavia, che tecniche di minfulness focalizzate sull’accettazione dei propri pensieri e stati emotivi e sulla pratica del “Mindful eating” siano efficaci se combinate a strategie comportamentali tradizionali nel raggiungimento di obiettivi ponderali significativi (Forman et al., 2013; Godsey, 2013).

Nell’Anoressia e Bulimia Nervosa, inoltre, la Mindfulness potrebbe rappresentare una qualità della mente molto utile anche alla riduzione del processo cognitivo del rimuginio. Il rimuginio è considerato una strategia cognitiva di evitamento particolarmente presente nell’Anoressia Nervosa, soprattutto nei termini di preoccupazioni ossessive sull’alimentazione, il cibo, il peso, il corpo, giudizi su di sé basati su peso e forma corporea e pensiero dicotomico (cibi sì-cibi no). La mindfulness, in qualità di abilità mentale di osservare i fenomeni cognitivi, fisici ed emotivi in modo non giudicante, rappresenterebbe la controparte del rimuginio e dell’evitamento mentale. In uno studio di Cowdrey et al., (2012) è stata dimostrata l’esistenza di una relazione tra rimuginio su “alimentazione-peso-forma del corpo” e “consapevolezza”. Secondo i risultati di questo studio i soggetti che presentavano buone capacità di “prestare attenzione al momento presente in modo intenzionale e non giudicante”, attuando dunque una disidentificazione dai propri processi cognitivi, avevano minori punteggi di rimuginio su cibo, peso e forme del corpo; viceversa i soggetti con elevata difficoltà ad accettare i propri pensieri negativi avevano maggiori pensieri rimuginanti sull’alimentazione, il peso e le forme del corpo (Albert e al., 2012).

Uno dei primi protocolli basati sulla Minfulness messi a punto nell’ambito dei Disturbi alimentari è il Mindfulness Based Eating Awareness Training (MB EAT, Baer e Kristeller, 2006), un programma d’intervento per la Bulimia Nervosa e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata basato sulla meditazione, l’accettazione e la consapevolezza. Esso integra elementi dalla terapia cognitivo comportamentale (TCC) con il protocollo MBSR. Il protocollo prevede 9 sessioni, durante le quali vengono affrontati i temi inerenti alle emozioni, alla possibilità di accettare e gestire alcune emozioni quali la rabbia e il senso di colpa; vengono svolti esercizi di meditazione consapevole sull’alimentazione, sul senso di fame e sazietà, sulla scelta degli alimenti, sulle sensazioni che possono scaturire attraverso il cibo e il gusto; alcuni temi vengono affrontati attraverso la meditazione del perdono e della saggezza. Ciascun incontro prevede una pratica meditativa, la condivisione, la discussione dei temi e l’assegnazione di compiti da svolgere in casa che riguardano per lo più la pratica formale e informale e il pasto consapevole. Gli ultimi incontri sono caratterizzati da una riflessione sulle possibili scivolate e dunque alla prevenzione delle ricadute.

I meccanismi neuropsicologici della mindfulness nei disturbi alimentari

Al fine di descrivere i meccanismi neuropsicologici della mindfulness, Malinowski ha presentato il Liverpool Mindfulness Modell (2013), che descrive minuziosamente cosa accade a livello corticale nelle differenti fasi della meditazione in riferimento per lo più alle funzioni attentive. Il modello fa riferimento a pratiche meditative caratterizzate da specifici processi neuropsicologici (Lutz et al., 2008), quali la modulazione dell’arousal, lo stato di vigilanza, l’orientamento e la selezione degli stimoli. Essi costituiscono 5 differenti ma interattivi networks cerebrali: alerting, orienting, executive, salience, default network.

E’ stato dimostrato che il default network viene attivato involontariamente dalle persone quando la mente è distratta, sogna a occhi aperti, produce pensieri ruminativi sul passato e sul futuro. Durante la pratica meditativa e in particolar modo nella fase di attenzione sostenuta si attivano le aree corticali e cerebrali dell’alerting network mentre quando l’attenzione sostenuta viene meno si attivano le aree raggruppate nel default network.

Le funzioni di monitoraggio dell’attenzione e le aree che costituiscono il salience network garantiscono il riconoscimento di tale condizione di default e dunque di abbandonare lo stato errante (executive network) e di riportare l’attenzione all’oggetto osservato e al momento presente (orienting network).

Gli studi di Luders (Luders et al., 2012) hanno evidenziato come la pratica meditativa possa favorire cambiamenti strutturali a livello corticale. In particolar modo la meditazione può aumentare il numero di girificazioni al livello della corteccia insulare, area particolarmente coinvolta nella regolazione delle emozioni. Studi recenti hanno inoltre evidenziato possibili correlazioni tra disturbi alimentari e alterazioni dell’insula (Franck et al, 2013). In uno studio condotto da Bryan Lask (2011) del Great Ormond Street Children’s Hospital (UK) su un gruppo di 8 donne affette da anoressia nervosa sono state rilevate, attraverso la scansione cerebrale per immagini, anomalie funzionali dell’insula, particolarmente coinvolta nel controllo del proprio corpo, degli stimoli della fame e della consapevolezza enterocettiva (Bryan Lask et al., 2011). Anche per quanto riguarda la bulimia nervosa sono state rilevate in pazienti affette dal tale patologia importanti anomalie morfologiche nel lato sinistro dell’insula antero ventrale. Ovvero, in tutti i soggetti affetti da disturbi dell’alimentazione è stato osservato un aumento del volume della materia grigia della corteccia orbito-frontale mediale e dell’insula (Frank G. et al., 2013). È’ stato dimostrato inoltre che i soggetti con anoressia nervosa presentano una diminuzione della sensitività e della consapevolezza enterocettiva.

Seppur lo stato della ricerca a proposito necessiti di ulteriori approfondimenti, tali studi sembrano supportare il ruolo della mindfulness come strategia terapeutica utile al trattamento dei Disturbi alimentari, facilitando lo sviluppo di un atteggiamento mentale volto alla consapevolezza e di un maggiore senso di padronanza e autoefficacia nei confronti dei propri processi emotivi, cognitivi e di comportamento.

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