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Morire di carcere: un’interpretazione psicologica del suicidio dietro le sbarre

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Un atto di eliminazione di se stesso, deliberatamente iniziato ed eseguito dalla persona interessata, nella piena consapevolezza o aspettativa di un risultato fatale”: questa la definizione di suicidio che fornisce nel 1998 l’OMS e che rappresenta in se stessa tutta la tragicità del tema.

Morire, togliersi la vita, come soluzione estrema a un dolore intollerabile: ma quali connotati specifici assume il suicidio in carcere? Quali peculiarità presenta questo evento nefasto, irrimediabile, all’interno della realtà carceraria?

 

Suicidio in carcere: uno sguardo ai dati

Secondo il dossier Morire di carcere del gruppo Ristretti Orizzonti, al 24 aprile 2017, sono 949 i casi di suicidio in carcere totali tra il 2000 e il 2017 (Ristretti. it, 2017); un numero che ha toccato le 1312 unità se si considera il periodo compreso tra il 1990 e il 2014 (con un tasso di suicidio pari al 9,88%). Un dramma considerato che il tasso di suicidi nella popolazione italiana fuori dal carcere fra il 1990 e il 2014 è stato dello 0,5 ogni 10.000 residenti, quindi con una frequenza di suicidio in carcere di circa venti volte superiore (Digiovanni, 2015).

Cifre allarmanti che richiedono una spiegazione da rintracciare all’interno della condizione esistenziale del detenuto in una prospettiva che superi una visione tradizionalista legata alla psicopatologia individuale e consideri invece l’ambiente carcerario come luogo di relazioni mancate.

 

I vissuti del detenuto: perché la scelta suicidaria?

Solitudine, segregazione tanto fisica quanto psicologica, scarsa autonomia (dall’orario in cui svegliarsi a quello in cui mangiare) generano assenza di speranza, all’interno di ambienti fisici angusti come le celle o anonimi e ampi come i corridori: condizioni drammatiche di impotenza decisionale e isolamento che possono portare alla scelta suicidaria.

Un fenomeno noto come spoliazione del Sé che, all’ingresso di un’istituzione totale come il carcere, consiste in atti mortificatori come la sottrazione di oggetti personali, la negazione della sessualità, fino all’adeguamento al ruolo di internato sottoposto a regole rigide, imposte dall’esterno, e la perdita delle relazioni con il mondo esterno (Goffman, 1961).

Una scelta, quella del suicidio in carcere, nata, quindi, dall’alienazione, e che tocca il suo apice in particolari momenti stressanti, con una frequenza alta nei primi giorni d’ingresso in carcere, o in occasione della notizia della revoca di una misura alternativa o dell’abbandono del coniuge (Manconi e Torrente, 2015, citati in Digiovanni, 2015).

Se questa condizione di estraniazione dalla condizione di essere umano titolare di diritti è difficile da gestire nel periodo successivo alla condanna, situazione analoga si presenta in attesa della sentenza: secondo un uno studio condotto da Torrente (2009) in Piemonte, Liguria e Campania, 25 persone su 48 decidono di commettere suicidio in carcere mentre sono ancora sottoposte a misura cautelare, a indicare come l’incertezza sul futuro pesi non meno dell’inevitabilità di una condanna (citato in Digiovanni, 2015). Osservando nel dettaglio gli eventi precipitanti (e inibenti) la scelta suicidaria alcuni fattori risultano dominanti.

Rispetto al fattore individuale che favorirebbe il fenomeno del suicidio in carcere, Baccaro e Morelli (2009, citati in Digiovanni, 2015) prendono in considerazione il fattore resilienza (e la sua assenza) come contraddistinto dalla capacità di sognare, dall’ironia, dallo stato di salute pre-carcere, dalle risorse intellettive e dalla presenza di reti sociali e familiari. Esistono poi elementi propri dell’organizzazione carceraria che favoriscono la disperazione che porterebbe poi al proliferare di casi di suicidio in carcere, tra questi un regime che limita la mobilità, l’inattività prolungata e la presenza di regole autoritarie, che prevedono sanzioni disciplinari, isolamento, orari rigidi.

Accanto a una gestione di tipo autoritario/restrittivo e all’assenza di opportunità rieducative, influisce anche il fattore sovraffollamento carcerario, con tutte le sue conseguenze riscontrabili nella scarsa igiene, dovuta a condizioni disumane di convivenza che, secondo la Corte europea, si sostanziano nella permanenza in meno di 3 m² di spazio vitale per ciascun detenuto. Dignità persa che vanifica la stessa funzione rieducativa della pena e che limita l’accesso alle opportunità rieducative, a causa dell’elevato numero di detenuti.

In una siffatta cornice di regole asfittiche precostituite e limitazione degli spazi di movimento, si inserisce un potente fattore che aggrava la pena e la restrizione della libertà: in carcere il concetto di tempo e spazio muta, delineando un mondo chiuso dove l’allontanamento fisico dalla società (rappresentato dalle porte delle prigioni) determina abbandono e sconforto (Gonin, 1994, citato in Digiovanni, 2015).

Segregazione interna, separazione da se stessi e dalla propria autodeterminazione, ma anche allontanamento fisico dalla città (il carcere posto per lo più ai confini cittadini) rimandano al meccanismo psichico della rimozione, dove vi è un condannato da dimenticare, cattivo, colpevole fonte di vergogna. In tale contesto i rapporti con la propria famiglia, così vitali per il benessere psicologico, risultano spesso sporadici, segnati da una riservatezza non prevista dall’Ordinamento penitenziario (per lo più infatti i colloqui avvengono alla presenza degli operatori penitenziari). Ecco che uno spazio fisico vuoto, ampio (i corridoi) ovvero minuscolo (una cella microscopica per un essere umano), si veste da non luogo che accresce le sofferenze.

E se è vero che “la relazione è quella che fa di uno spazio un luogo” (Buffa, 2015) si evince la priorità di una umanizzazione della pena, che preceda l’importanza di un’attenzione agli spazi fisici, addirittura alla salute fisica dei detenuti (Digiovanni, 2015). Perché è all’interno di una relazione fondata sulla comunicazione (con gli operatori, con la società), e incentrata sul coinvolgimento attivo del detenuto alla sua risocializzazione (e non sull’aprioristica imposizione di regole e punizioni), che può accrescersi la fiducia nel futuro e la resilienza nella disperazione. Viceversa, l’unica forma di comunicazione che il detenuto potrà tentare è quella di un corpo martoriato, ferito, punito, in una privazione volontaria della propria esistenza che esprime l’unica di libertà di scelta (e paradossalmente di vita) che un’istituzione totale può concedere.

Una migliore qualità di vita a portata di zampa: la funzione psicoterapeutica del cane

Nella schizofrenia la terapia assistita con animali, nella fattispecie con i cani, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici.

 

La relazione che si crea fra individui e animali da compagnia ha dei riverberi positivi sulla salute umana, determinando una condizione di benessere. La terapia assistita con animali (AAT) produce molti benefici in diverse patologie, quali, ad esempio, le malattie cardiovascolari e le sindromi psichiatriche (sindromi depressive e sindromi psicotiche). Alla base di ciò, c’è il legame che si crea fra il paziente e l’animale, che determina un miglioramento della socialità e dell’emotività della persona. Nella schizofrenia la terapia assistita con il cane, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici.

Keywords: Terapia assistita con animali, schizofrenia, sintomatologia psicotica, qualità della vita.

 

La terapia assistita con animali: gli effetti positivi sulla schizofrenia

La relazione che si crea fra individui e animali da compagnia ha dei riverberi positivi sulla salute umana, determinando una condizione di benessere (Fine, 2010).

La terapia assistita con animali (AAT) produce molti benefici in diverse patologie, quali, ad esempio, le malattie cardiovascolari e le sindromi psichiatriche (sindromi depressive e sindromi psicotiche) (Pedersen e al., 2011; Barak e al., 2001).

Alla base di ciò, c’è il legame che si crea fra il paziente e l’animale, che determina un miglioramento della socialità e dell’emotività della persona (Fine, 2010).

Nelle sindromi psicotiche, alcune ricerche effettuate (Rossetti e King, 2010; Kamioka e al., 2014) indicano che la terapia assistita con animali, abbinata ad altre terapie (farmacoterapia e riabilitazione psicosociale),  ha un buon riscontro terapeutico sui pazienti affetti da tali psicopatologie. In essi, a seguito di questo tipo di intervento, si è notato un miglioramento dell’autostima, dell’autoefficacia, della funzionalità quotidiana e della sintomatologia psicotica (riduzione dei deliri, delle allucinazioni, dell’apatia, dell’appiattimento emotivo e dei disturbi comportamentali).

A confermare ulteriormente queste evidenze scientifiche sono i risultati di una ricerca  (Calvo e al., 2016), che ha indagato gli effetti della terapia assistita con animali su 14 pazienti affetti da schizofrenia. In pratica, è stato analizzato l’effetto che tale cura ha sui sintomi della schizofrenia e sulla qualità della vita dei pazienti.

Per validare i risultati dello studio è stato utilizzato il Test PANSS (Kaye e al., 1989), che accerta quantitativamente la presenza dei sintomi psicotici, e il Questionario EuroQol-5 (EQ-5D) (Bobes e al., 2005), che indaga la qualità della vita. Inoltre, a ciascun paziente è stato misurato il cortisolo, ormone dello stress (Fortunato e al., 2008), nella saliva.

I test menzionati sono stati somministrati sia prima della sperimentazione che successivamente ad essa. La misurazione del cortisolo salivare è stata effettuata sia prima che dopo ogni singola seduta di terapia assistita con animali.

La terapia assistita con i cani prevedeva tre fasi. Nella prima, con l’ausilio di un operatore, si faceva nascere un legame emotivo fra il paziente e il cane. Nella seconda fase si consolidava il legame, facendo fare ad essi delle lunghe passeggiate. Nella terza fase il paziente, avendo ricevuto istruzioni al riguardo, addestrava il cane e giocava con esso.

La terapia è stata effettuata per 6 mesi con 2 sedute alla settimana di 1 ora circa. Abbinata alla terapia assistita con animali, c’era la terapia farmacologica e la riabilitazione psicosociale, che comprendeva 5 tipi di intervento, ovvero psicoterapia individuale, psicoterapia di gruppo, psicoterapia familiare, terapia orientata ad implementare le funzionalità legate alla quotidianità e terapia finalizzata ad incrementare le abilità sociali.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che la terapia assistita con il cane, coadiuvata da altre terapie opportune, riduce i sintomi psicotici e migliora la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. Inoltre, ogni singola seduta con l’animale ha un effetto rilassante, come confermato dalla riduzione della quantità di cortisolo nella saliva.

Il rimuginio desiderante nel disturbo bipolare: uno studio pilota

Il rimuginio desiderante nel disturbo bipolare: uno studio pilota

S. Righini*, E. Mellina*, G. Caselli**, M. Baldetti*, F. Turchi*
*Centro Studi Cognitivi Firenze
** Studi Cognitivi Modena

 

Il rimuginio è uno stile di pensiero ciclico, persistente, di attenzione focalizzata su di sé e costituisce un sintomo residuale nei disturbi depressivi giocando un importante ruolo nella ricaduta e nel mantenimento del disturbo. Per quanto riguarda lo stile di pensiero dei pazienti bipolari la letteratura evidenzia come la ruminazione sia caratteristica sia della fase depressiva che di quella eutimica. Ancora pochi sono gli studi sulla fase maniacale o ipomaniacale anche se la letteratura che collega lo stile di pensiero ripetitivo alle emozioni positive rimanda alla descrizione del rimuginio desiderante le cui caratteristiche presentano dei punti di convergenza con lo stile di pensiero tipico della fase ipo-maniacale, il quale tende a produrre sensazioni di stima verso se stessi, treni di pensieri molto rapidi, aumento della focalizzazione su attività immediatamente gratificanti, aumento dell’impegno nella produzione di piani d’azione orientati al raggiungimento di un obiettivo, spinta verso decisioni basate sul qui ed ora, iperattivazione generale.

Lo studio ha l’obiettivo di esplorare la presenza di rimuginio desiderante relativo alla fase ipo-maniacale del disturbo bipolare poiché questo potrebbe concorrere al mantenimento del disturbo ed influire sulle ricadute e sull’aderenza al trattamento, anche farmacologico, particolarmente critica per questi pazienti.

A questo scopo è stata costruita, da psicoterapeuti esperti in Terapia Metacognitiva, un’intervista semistrutturata, in questo primissimo step somministrata a n. 6 pazienti bipolari in fase eutimica, per esplorare le credenze metacognitive positive e negative sul pensiero relativo alla fase ipo/maniacale.

I risultati mostrano come lo stile di pensiero ripetitivo in cui sono coinvolti i pazienti bipolari in fase maniacale o ipomaniacale abbia le caratteristiche del rimuginio desiderante, sostenuto in particolare da meta-credenze positive sul trigger e sullo stato desiderato, quello ipomaniacale o quantomeno ipertimico, nonché da meta-credenze negative di incontrollabilità e pericolosità del pensiero. Emerge inoltre una quota di rimuginio desiderante “di stato” in fase eutimica, riferita sempre alla fase ipo-maniacale, la quale agisce come sintomo residuale e potrebbe concorrere al mantenimento del disturbo, al presentarsi di ricadute nonché alla scarsa aderenza al trattamento. Se la ricerca futura confermerà questi risultati sarà necessario tenere in dovuta considerazione la presenza ed il ruolo del rimuginio desiderante nel progetto terapeutico con pazienti bipolari.

 

Vegan-sexuality ovvero ama come mangi: processi cognitivi e preferenze sessuali di chi sceglie un’ alimentazione vegetariana

E’ plausibile quindi riconoscere un nesso tra alimentazione vegetariana e specifiche preferenze sessuali: oggigiorno si parla del fenomeno definito vegan-sexuality per descrivere la preferenza di alcuni vegani ad impegnarsi in rapporti sessuali e relazioni intime solo con altri vegani

Gabrieli Anna Azzurra e Fregni Eleonora – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Introduzione: la diffusione dell’ alimentazione vegetariana

L’ alimentazione da diversi anni sta assumendo un ruolo sempre più importante nella vita degli italiani, configurandosi come una vera e propria filosofia del cibo all’interno di uno stile di vita sano spesso contrapposto ad un’esistenza frenetica. Si assiste alla nascita di diverse discipline alimentari a partire da interrogativi legati a questioni etiche e morali rispetto al ciclo di vita degli animali e alla diversa salubrità degli alimenti per il corpo umano.

Secondo le rilevazioni dell’Eurispes, l’Istituto privato di Studi Politici, Economici e Sociali con sede a Roma, negli ultimi quattro anni in Italia il numero di chi segue un’ alimentazione vegetariana è variato dai 4,9% del 2013 a oltre il 8%, di cui l’1% vegano, nel 2016.

Tale dato in forte crescita è diventato oggetto di interesse da parte delle Istituzioni oltre che le grandi multinazionali che di fatto hanno modificato il mercato proponendo sempre più prodotti a base vegetale. Secondo il comunicato ANSA del 16 aprile 2014, nell’autunno dello stesso anno è stata lanciata la prima rete italiana di farmacisti in grado di dare consigli a chi segue questi regimi alimentari. Pharmavegana è il nome del progetto che prevede la presenza, nelle farmacie contrassegnate da apposito bollino, di un professionista specializzato per consigliare farmaci e integratori “eticamente corretti”; non solo quindi cosa evitare ma anche come integrare l’alimentazione di chi ha scelto di escludere carne e pesce o, nel caso dei vegani anche latte, uova e derivati.

All’interno del grande gruppo dei vegetariani occorre fare una distinzione difatti ci sono i semi-vegetariani che mangiano tutto ad eccezione delle carni rosse, quelli che escludono le carni animali tranne pesce e quelli che escludono tutte le carni.

I motivi che spingono alla scelta di un’ alimentazione vegetariana rispetto a quello più tradizionale,che prevede il consumo di carne, possono variare da questioni salutiste (vegetariani salutisti-VS) a quelle più prettamente etiche ed ambientali (vegetariani morali- VM).

Ma quali sono i processi cognitivi che conducono all’esclusione della carne dalla propria alimentazione?

Recenti studi (Fessler, Arguello, Mekdara & Macias, 2003) hanno indagato il ruolo delle emozioni, in particolare il disgusto, nel complicato processo di ragionamento che conduce alla scelta di uno specifico stile alimentare. Alcuni studiosi (Bastian, Loughnam, Haslam & Radke, 2012) invece si sono soffermati sui meccanismi utilizzati per superare il “paradosso della carne”, ovvero la preoccupazione per il benessere degli animali in contrapposizione alle abitudini culinarie carnivore.

Infine alcune ricerche (Potts & Parry, 2010) si sono interessate all’emergente fenomeno della vegan-sexuality, quindi come la scelta di un determinato stile alimentare può influenzare anche le preferenze in un contesto così intimo come la sessualità.

 

Il disgusto e la scelta di adottare un’ alimentazione vegetariana

Gli studiosi comportamentali sono stati spesso interessati alla relazione tra credenze morali ed emozioni. La visione tradizionalista dello sviluppo del ragionamento morale (Lasley, 1996) dimostra che la posizione morale viene adottata a partire da processi cognitivi e le emozioni sono quindi una conseguenza, mentre secondo le nuove correnti (Cosmides & Tooby, 2000) sono le emozioni stesse che producono i ragionamenti cognitivi.

Le persone che adottano un’ alimetazione vegetariana per motivi morali (VM) si distinguono da chi adotta delle motivazioni salutiste (VS) in virtù di differenti giustificazioni di esclusione della carne dai loro regimi alimentari. I VS evitano la carne  perché reputata malsana e spesso cancerogena (comunicato OMS n°240 del 26 ottobre 2015) mentre VM la escludono per questioni legate a crudeltà, degrado e politiche. Per i VM il non cibarsi di carne è un imperativo morale e, a differenza dei VS, sono sconvolti dal consumo di carne altrui (Rozin et al,1997). Confrontando i VM e i VS, Jabs et all.(1998) riferiscono che  i VM trovano la carne più disgustosa . Il disgusto è un’emozione che trae origine da un tipo di repulsione ideologica legata al cibo ma che mediante l’evoluzione culturale, è applicato ad una grande varietà di oggetti, persone o eventi reputate immorali (disgusto socio-morale- Haidt, Koller & Dias,1993). Rozin et all (1997) affermano, in linea con gli approcci tradizionali, che i VM trovano la carne più disgustosa in quanto hanno adottato una posizione anti-carne per motivi filosofici ed etici; successivamente (consciamente o inconsciamente) collegano il cibarsi di carne con forti emozioni che forniscono un ulteriore forza motivazionale alle loro posizioni. In breve, gli autori sostengono che il concetto di consumo di carne come immorale crea sia un opportunità sia un incentivo per definire la carne stessa disgustosa.

Il contatto con o l’esposizione ad animali (ex. scarafaggi), morte e corpi coinvolti in violenze sono tre dei maggiori elementi in grado di elicitare disgusto (Fiddes,1991). I moderni metodi di trasformazione, confezionamento, cottura e presentazione della carne rimuovono o mascherano l’idea che la carne sia una parte interna di una creatura una volta vivente. Spesso il primo passo verso l’adozione di un’ alimentazione vegetariana è l’evitamento di alcuni tipi di carne. Nonostante il VM eviti qualsiasi tipo di carne, nella popolazione occidentale l’esclusione della carne inizia da quella rossa e prosegue con le altre. Il sangue è un potente stimolo di disgusto e difatti chi non mangia carne rossa sembra essere disgustata dalla presenza di sangue (Kubberod et all, 2002). Nella carne di maiale, pollame e pesce appare come se i tessuti fossero stati drenati dal sangue, il processo di trasformazione altera artificialmente il potere evocativo della carne.

Sebbene il moderno mercato della carne riduca gli stimoli che suscitano disgusto, tali caratteristiche permangono salienti nella carne rossa rispetto gli altri prodotti di origine animale, e quindi è plausibile pensare che la sequenza di carni da evitare nelle prime fasi di vegetarianismo potrebbe riflettere la relativa disponibilità di stimoli-disgusto.

Alcuni dati demografici evidenziano che in occidente le donne che seguono un’ alimentazione vegetariana sono più numerose rispetto agli uomini (Beardsworth & Bryman,1999), le donne mangiano molto meno carne rispetto agli uomini (Richardson, et all. ,1993) mentre Mooney e Walbourn (2001) dimostrano che le donne che evitano la carne esprimono significativamente maggiore disgusto rispetto a quelle che non mangiano carne.

Fessler et all. nel 2003, cercarono di determinare se il disgusto seguisse l’adozione di una posizione morale o se l’emozione è in realtà la spinta motivazionale al divenire vegetariani per principi morali.

Gli autori svilupparono un’indagine web a cui parteciparono 945 soggetti (326 uomini e 619 donne) divisa in due parti. Nella prima parte ai soggetti veniva chiesto di indicare la frequenza del consumo di determinate categorie di carne durante la settimana mentre nella seconda parte ai partecipanti che avevano sottolineato di non mangiare tre o più delle carni descritte, veniva chiesto di selezionare una o più delle seguenti ragioni: gusto, odore, aspetto, ragioni etiche, motivi ambientali o motivi di salute. Successivamente veniva somministrato il D-Scale (Haidt et al., 1994), strumento costruito per valutare la sensibilità al disgusto in otto contesti (cibo, animali, prodotti per il corpo, sesso, corpi coinvolti in violenze, morte, igiene e pensiero magico circa la contaminazione).

I risultati evidenziarono che coloro che evitavano la carne per ragioni etiche e ambientali non dimostravano una sensibilità maggiore al disgusto rispetto a quelli che evitavano la carne per motivi di salute o di gusto.

Quindi i risultati mettono in discussione la nuova prospettiva emergente, che si contrappone a quella più tradizionalista, in cui l’aderenza al vegetarianismo morale è visto come derivante da maggiori reazioni-disgusto alla carne. Pertanto si può concludere, in linea con le precedenti ricerche (Rozin et all. (1997), che il disgusto nei vegetariani morali sembra più una conseguenza, piuttosto che la causa, dell’adozione di una posizione morale.

 

Il Paradosso della carne

La carne è un elemento centrale delle diete di molte persone eppure quest’ultime amano anche gli animali e sono disturbate dal danno procurato a loro. Questa incoerenza tra un amore per gli animali e il piacere di mangiare la  carne crea un fenomeno denominato “paradosso della carne” (Loughnan, Haslam, e Bastian, 2010). Per questo motivo, alle persone raramente piace pensare da dove proviene la carne, i processi che la portano nel nostro piatto o le qualità di vita degli animali dal quale è estratta (Vialles, 1994). I mangiatori di carne fanno di tutto per superare questa contraddizione tra le loro credenze e comportamenti.

Esplorare questo paradosso della carne è importante per tre motivi.

In primo luogo, fornisce una nuova prospettiva da cui osservare i processi psicologici di base associati all’azione morale di tutti i giorni. Mangiare carne è un comportamento moralmente significativo, eppure raramente è concettualizzato come una scelta morale. Potrebbe essere utile un’indagine per spiegare come i processi cognitivi e motivazionali possono oscurare la responsabilità morale. In secondo luogo, l’appetito è un potente forza che plasma gran parte del comportamento umano e, pertanto, può essere una potente componente del ragionamento motivato (Kunda, 1990) all’interno del dominio morale. In terzo luogo, le pratiche culinarie non sono le uniche fonti di piacere, ma sono anche importanti elementi di significato all’interno della cultura (Berndsen & van der Pligt, 2005). Le persone sono molto motivate a proteggere le loro pratiche culturali, per cui un’analisi rispetto al consumo di carne può fornire una conoscenza delle strategie che la gente mette in atto per mantenere i moralmente discutibili, ma cari, impegni culturali. Bastian et all. in una ricerca del 2012 si sono concentrati sui processi psicologici che facilitano le persone nella loro pratica culinaria di mangiare carne.

La gente spesso separa mentalmente la carne dagli animali (Hoogland,de Boer, e Boersema, 2005), in modo tale che possano mangiare costolette di maiale o bistecche di manzo senza pensare a maiali o mucche. Il disinvestimento mentale dell’origine della carne ha una funzione importante per i mangiatori di carne, riduce la dissonanza suscitata dal piacere di mangiare la carne e il danno che gli animali subiscono per produrla. Un altro modo per rendere meno fastidiosa la sofferenza legata agli  alimenti di origine animale è negare che essi possiedono capacità morali rilevanti (Bilewicz, Imhoff, e Drogosz, 2011). Il possesso di capacità mentali costituisce la base per attribuire un valore morale, così negando queste capacità, come quella di soffrire e provare dolore, abbassa lo status morale di un animale. La negazione delle capacità mentali ad animali si configura quindi come un processo psicologico che agisce per facilitare l’effettiva abitudine di consumare carne in modo da mantenere le pratiche alimentari culturali.

Il pensiero che gli animali sentano dolore quando vengono macellati, o abbiano la capacità di pensare e di capire il loro destino, toccherebbe anche l’amante della carne più sfrenato. Nel suo recente libro Eating Animals, Jonathan Safran Foer (2009) promuove uno stile di vita e un’ alimentazione vegetariana evidenziando le capacità mentali di molti animali e la loro paura e dolore associate con la produzione industriale di carne. Riconoscere che gli animali hanno una mente li rende molto simili a noi in diverse prospettive morali, e questo assunto va in conflitto con la nostra abitudine di mangiare carne.

Le persone si riconoscono dei diritti morali in base al fatto di possedere una mente (Gray,Gray & Wegner, 2007) ed è proprio questo dato che ci offre il diritto ad un trattamento umano. Riconoscere che un animale ha una mente ma viene ucciso per produrre cibo può creare un conflitto morale per i mangiatori di carne. Tuttavia l’idea che gli animali abbiano capacità mentali attenuate rispetto agli esseri umani non è senza supporto. Le menti animali sono meno complesse della mente umana (Penn & Povinelli, 2007) e le laiche percezioni delle menti animali in generale concordano (Haslam, Kashima, Loughnan, Shi, e Suitner, 2008). Filosofi quali sant’Agostino, Cartesio e Kant hanno indicato queste differenze di capacità mentali per giustificare il minore status morale degli animali (Wennberg, 2003). Riconoscere la mancanza di una mente nell’animale è la chiave attraverso la quale le persone giustificano l’uso di animali a fini alimentari (Singer, 1990). Tuttavia, gli esseri umani sono relativamente imprecisi nell’attribuire delle capacità mentali agli animali (Mameli & Bortolotti, 2006), e infatti questa concessione potrebbe dipendere più da motivazioni soggettive che da fatti oggettivi (Marcu,Lyons & Hegarty, 2007).

Le persone quando sentono il bisogno di compagnia o di qualcuno che comprenda il loro comportamento, riconoscono le capacità cognitive degli animali (Epley, Waytz, Akalis, e Cacioppo, 2008). Mentre negare la mente agli animali riduce la preoccupazione per il loro benessere, giustificando il danno causato a loro nel processo di produzione di carne.

Secondo l’ action-based model of dissonance (Harmon-Jones, Harmon-Jones, Fearn, Sigelman, e Johnson, 2008), le persone sono motivate a ridurre i conflitti cognitivi che interferiscono con il comportamento effettivo (dissonanza). Negare menti animali rende il danno portato a loro meno fastidioso, facilitando il consumo di carne. La dissonanza può quindi fornire la comprensione dei processi attraverso i quali la gente diminuisce la responsabilità morale e mantiene le pratiche culinarie, evitando un’ alimentazione vegetariana.

Sebbene l’esperienza di dissonanza comporti stati affettivi negativi (Harmon-Jones, 2000), questo non è l’unico motivo per cui la gente potrebbe provare emozioni negative nel momento in cui mangia la carne.

L’effetto è centrale non solo per la nostra esperienza di alimentazione (Rozin, 1996), ma anche per le nostre convinzioni circa la moralità (Greene, Sommerville, Nystrom, Darley, & Cohen, 2001).

Come il disgusto viene reclutato nel processo morale che trasforma le nostre preferenze culinarie in un valore (Rozin, Markwith, & Stoess, 1997), allo stesso modo, vergogna e colpa sono regolarmente suscitate dalla percezione di trasgressioni morali  (Tangney, Miller, Flicker, e Barlow, 1996); di conseguenza gli animali che possiedono qualità moralmente rilevanti possono innescare questi stati emotivi.

La protezione contro questi stati affettivi negativi è importante in quanto così facendo manteniamo pratiche culinarie che non sono solo fonti di piacere, ma sono anche importanti comportamenti significativi all’interno della cultura di appartenenza (Berndsen &van der Pligt, 2005). Negare al cibo animale capacità di percepire dolore e sofferenza o di comprensione può essere un elemento chiave nella riduzione degli stati affettivi negativi associati con il loro consumo, pertanto, questo processo sostiene il piacere e il significato culturale della pratica culinaria  (Plous,2003).

 

Una nuova corrente: la vegan-sexuality

Potts e Parry nel 2010 esplorano il fenomeno definito vegan-sexuality per descrivere la preferenza di alcuni vegani ad impegnarsi in rapporti sessuali e relazioni intime solo con altri vegani. E’ plausibile quindi riconoscere un nesso tra alimentazione vegetariana e specifiche preferenze sessuali. La spiegazione del fenomeno della vegan-sexuality si inserisce lungo un continuum in cui da una parte vi è una forma di preferenza sessuale influenzata dal proprio stile alimentare con un aumento della probabilità di attrazione sessuale nei confronti di coloro che condividono credenze simili; dall’altra questa tendenza potrebbe configurarsi  come una forte avversione sessuale per i corpi di coloro che consumano carne e altri prodotti animali.

Durante un sondaggio del New Zeland Centre for Human-Animal Study al fine di esplorare i punti di vista e le esperienze della popolazione schierata contro lo sfruttamento degli animali e la vivisezione, Potts e White (2007) focalizzano la loro attenzione sui commenti di alcune donne con alimentazione vegetariana /vegana che dichiarano di preferire una relazione solo con altre persone che non consumano carne o altri prodotti animali.

Credo che siamo quello che mangiamo, per cui credo di fare molta fatica nel contatto di fluidi corporei, soprattutto sessuali”; “Non potrei essere in una relazione intima con chiunque mangi animali. I nostri mondi sono troppo distanti tra loro e la probabilità di riuscita del rapporto è molto bassa. Non riesco a pensare di baciare delle labbra che permettono di far passare  pezzetti di animali morti”; questi solo alcuni dei commenti su cui i due autori si sono soffermati.

E’ importante sottolineare come la vegan-sexuality non è una forma innata o predeterminata di sessualità ma si conforma più come una preferenza/inclinazione nei confronti di chi ha adottato uno stile di vita etico.

In conclusione è probabile, come già evidenziato in precedenti ricerche (Fox & Ward, 2008), che coloro che scelgono uno stile di vita etico estendano tale impegno sia all’alimentazione sia all’importante sfera dei rapporti intimi e il fenomeno della vegan-sexuality ne è un chiaro esempio.

 

Conclusioni: cosa spinge a scegliere un’ alimentazione vegetariana

Abbiamo visto come le emozioni, quali il disgusto, vergogna e colpa siano strettamente legate al ragionamento cognitivo che conduce alla scelta di una alimentazione vegetariana. Sono state esplorate inoltre le strategie per superare il cosiddetto “paradosso della carne” che quindi permetterebbe alle stesse persone che amano gli animali di cibarsi di carne diminuendo l’impatto emotivo dell’immagine dei comuni metodi di macellazione e allevamento.

Tra le critiche mosse contro la scelta del vegetarianismo come principale stile alimentare, vi è stata quella di definirlo come elemento predisponente ad alcuni disturbi del comportamento alimentare a causa della percezione di perdita di controllo (Robinson-O’Brien  et all. 2009). Numerose ricerche però hanno evidenziato come una alimentazione vegetariana possa essere utilizzata per camuffare un preesistente disturbo del comportamento alimentare (Curtis & Comer, 2006). Verosimilmente questo sarebbe anche il motivo per cui tale condotta è più diffusa tra gli adolescenti che presentano disturbi del comportamento alimentare, rispetto alla popolazione generale degli adolescenti (Perry, McGuire, Newmark-Sztainer & Story, 2001).

In conclusione, è emerso, come filo conduttore di tale scelta alimentare, lo sviluppo di uno sguardo più attento a ciò che ci circonda. Centrale nell’adozione di tali comportamenti è il concetto di amore, per sé stessi nel caso dei Vegetariani Salutisti e nei confronti degli animali e dell’ambiente per i Vegetariani Morali. Tale concetto rimane presente anche se in difetto (mancanza d’amore per sé stessi) nel caso in cui tali comportamenti alimentari siano funzionali al mascheramento di disturbi alimentari latenti.

Alla luce di quanto precedentemente descritto, tale fenomeno in larga espansione avrebbe bisogno di una maggiore attenzione da parte degli istituti di ricerca al fine di indagare ancora più nel dettaglio le motivazioni oltre che le potenziali conseguenze e ripercussioni sulla popolazione.

Sherlock holmes e il futuro del marketing: Martin Lindstrom Small Data Symposium – Report dall’evento

Martin Lindstrom è un po’ lo Sherlock dei nostri giorni. Famosissimo consulente di marketing di aziende come Walt Disney Company, Nestlé, PepsiCo, American Express, non è né psicologo né sociologo né detective, bensì uno straordinario osservatore, collezionista e interprete di dati.

 

Ho da poco scoperto Sherlock e ancora mi domando come ho potuto vivere senza aver mai visto questa serie tv. La versione in chiave moderna delle avventure di Sherlock Holmes è un esilarante capolavoro che ha come punto di forza le straordinarie (e talvolta inopportune) infallibili capacità deduttive del protagonista.

Martin Lindstrom è un po’ lo Sherlock dei nostri giorni. Famosissimo consulente di marketing di aziende come Walt Disney Company, Nestlé, PepsiCo, American Express, nonché tra i maggiori esperti di brand building al mondo, non è né psicologo né sociologo né detective, bensì uno straordinario osservatore, collezionista e interprete di dati.

Martin Lindstrom ha trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita intervistando migliaia di consumatori di determinati brand – uomini, donne e bambini – nelle loro case in 77 paesi del mondo, a volte facendosi ospitare e vivendo con loro alcuni giorni, il che può sembrare alquanto eccentrico! In realtà questa strategia gli ha permesso di raccogliere un’enorme mole di informazioni che rappresentano il Santo Graal per ogni azienda, la chiave per arrivare al cuore (e al portafoglio) di ogni consumatore.

 

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Martin Lindstrom: altro che Big Data!

Se un’azienda vuole comprendere le ragioni che spingono un consumatore a scegliere un brand piuttosto che un altro, non deve basarsi solo sui Big Data (che esprimono correlazioni, non causalità), ma deve prendere in considerazione anche quelli che Martin Lindstrom definisce Small Data, cioè preziose informazioni nascoste nei dettagli della vita di tutti i giorni dei consumatori. Dopotutto, è nei dettagli che si nasconde il diavolo, no? Ed è proprio ignorando questi dati che si rischia di fare scelte controproducenti per il proprio brand.

 

Conosci i tuoi consumatori?

Come si può pensare di capire i propri consumatori – anche potenziali – se non si conosce la loro vita? E come si fa a conoscere la loro vita se non si parla con loro, se non si interagisce fisicamente con loro, se non si vede con i propri occhi dove e come vivono?

Anni fa la iRobot chiamò Martin Lindstrom per una consulenza: il Roomba, l’aspirapolvere a forma di disco nero, stava perdendo quote di mercato e non riuscivano a capire come mai. Martin Lindstrom trascorse del tempo negli appartamenti dei proprietari di Roomba a New York e nel New England e scoprì, osservando le loro case e chiacchierando con loro, che i proprietari di questo aspirapolvere andavano letteralmente pazzi per questo robottino, ma non tanto per la sua indubbia efficienza!

Lo consideravano quasi un animale da compagnia, gli davano un nome, anziché riporlo nello sgabuzzino lo lasciavano spuntare da sotto il divano come se si fosse nascosto e l’espressione più utilizzata per descriverlo era “è così tenero, aaawwww”! Ne erano talmente entusiasti che lo consigliavano a tutti; e si sa, non c’è miglior testimonial per un brand di un amico che consiglia un prodotto.

Peccato che qualche ingegnere troppo zelante, per rendere il Roomba più silenzioso, avesse eliminato nei modelli successivi il caratteristico suono che il robottino emetteva andando a sbattere contro un ostacolo: un tenerissimo “oh-oh!”. Lo aveva così reso “senza anima”, non più cuccioloso, alla pari di qualsiasi altra vuota diavoleria ipertecnologica, per la quale era difficile perdere la testa e parlarne con entusiasmo quasi fanatico. Bastò quindi rendere il Roomba nuovamente umano per risolvere il problema del calo delle vendite: quando Roomba tornò a esclamare il suo carinissimo “oh-oh”, tutti si innamorarono nuovamente di lui.

 

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Questo aneddoto illustra benissimo l’errore che spesso compiono le aziende: si dimenticano che i consumatori sono umani, irrazionali ed emotivi. Un brand che voglia avere successo non deve mai dimenticarsi che a muovere le scelte dei consumatori sono le emozioni e per scoprirle non è sufficiente affidarsi ai Big Data o alle informazioni che vengono restituite dai social network (dove mentire sulla propria immagine è la prassi); bisogna invece tornare al contatto reale con i propri clienti.

Il “Martin Lindstrom Small Data Symposium”, organizzato da NeuroPeople® il 28 aprile 2017, era tra gli eventi dell’anno più attesi nel settore marketing e comunicazione e non ha di certo deluso le aspettative. Se già con il libro Neuromarketing Martin Lindstrom aveva ribaltato le conoscenze finora acquisite sui comportamenti di consumo, con Small Data ha portato avanti la sua rivoluzione, illustrando come raccogliere i piccoli indizi che possono svelare i grandi trend e mostrando come nel marketing acquisterà sempre più importanza la riscoperta della relazione reale e non più (solo) virtuale con il consumatore.

Durante il simposio Martin Lindstrom ha sottolineato come le scelte di consumo siano guidate soprattutto a livello subconscio – suoni, sensazioni tattili, immagini, odori, ecc. giocano un ruolo decisivo, così come i marcatori somatici – e che non conta tanto cosa dice il consumatore, bensì cosa prova.

Diventa pertanto fondamentale trascorrere del tempo con il consumatore per individuare le emozioni che rappresentano la spia di una mancanza di equilibrio tra ciò che egli desidera e ciò che ha, perché è lì che si presenta l’opportunità per sviluppare un nuovo brand. Che cosa ci raccontano i libri sfoggiati sul tavolino in salotto, le calamite attaccate al frigorifero, il robottino che spunta da sotto il divano del mondo interno del loro proprietario

Raccogliere i piccoli indizi e parlare con i consumatori per scovare le loro emozioni e identificare così i loro desideri: questo è Il futuro del marketing. In pratica, essere un po’ Freud e un po’ Sherlock Holmes. Elementare, Watson, no?!

Essenza e operatività della psicoterapia cognitiva. Un seminario di Studi a Palermo

Si è svolto a Palermo il 18 aprile scorso, nella ridente sede di Villa Niscemi, il seminario di studi condotto dal professor Roberto Lorenzini, psichiatra psicoterapeuta e direttore didattico IGB Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva Sede di Palermo, che ha illustrato i principi cardine su cui si fonda l’approccio cognitivo al funzionamento della mente e i principi base su cui, a partire da tali presupposti, poggia la psicoterapia cognitiva.

 

Metacognizione e dipendenze - nuove prospettive terorico-cliniche - Workshop Palermo - Istituto TolmanIl cognitivismo nasce nella prima metà del Novecento negli Stati Uniti ad opera di autori come Beck – spiega Lorenzini – L’idea centrale è che le emozioni siano influenzate dai pensieri e che siano questi ultimi a determinare la realtà, costituita dalle interpretazioni mediate dall’azione di schemi e credenze con origini nell’infanzia”.

Ciò che è rilevante quindi, più che la realtà in sé, il modo in cui noi parliamo a noi stessi, è il dialogo interno che fornisce la nostra personale visione di noi e del mondo, tanto nella salute quanto nella patologia.

Esemplificando: se arriva il mio capo e non mi saluta, posso interpretare in modi diversi questo evento, a cui seguiranno diverse emozioni, frutto di altrettante interpretazioni. Così se penso Chi si crede di essere? adotto una valutazione da cui scaturisce rabbia; se penso Che ho fatto? mi sentirò preoccupato; ancora se penso Qui nessuno si accorge di me, mi sentirò depresso. Ecco che la depressione si spiega con tipici pensieri negativi di inutilità che risalgono a un’età precoce dello sviluppo: le vicende infantili sono determinanti nella valutazione di se stessi e del mondo e ciò contrasta con il luogo comune secondo cui il cognitivismo non si interesserebbe del passato”.

Quali sono nel dettaglio gli elementi strutturali del cognitivismo, con particolare riferimento alle credenze che tanta importanza hanno nella strutturazione del proprio mondo?

Gli elementi essenziali del cognitivismo sono gli scopi e le credenze. I primi guidano il comportamento e sono in parte automatici, come nel comportamento predatorio, e in parte appresi, per cultura, modificandosi nel tempo. Le credenze sono la fotografia della realtà, e fanno scegliere una strada piuttosto che un’altra per raggiungere il nostro scopo. La caratteristica centrale delle credenze è la loro inerzia, la loro resistenza al cambiamento – continua Lorenzini – Esemplificando: la credenza per cui tutti mi devono amare è adattiva almeno in età precoce, quando l’interesse del bambino è l’amore dei genitori; non è più adattiva a quarant’anni poiché non è possibile essere amati da tutti. Ecco che, spinto da questa credenza, metterò in atto determinati comportamenti, come l’eccessiva richiesta di attenzioni, che avranno solo l’effetto di allontanare gli altri. Ugualmente dalla credenza per cui stare da solo è terribile seguirà un comportamento di eccessivo attaccamento agli altri, e facilmente ciò condurrà all’essere lasciati. Insomma, il meccanismo nevrotico fà sempre gli stessi errori, amplificandoli. Obiettivo della psicoterapia orientata alla modificazione delle credenze disfunzionali sarà pertanto individuare differenti strategie di perseguimento degli scopi o, se lo scopo è irraggiungibile, imparare a cambiare strada”.

Quali le opzioni offerte dalla psicoterapia cognitiva per il miglior adattamento della persona agli scopi vitali per il suo benessere, in particolare la vicinanza emotiva?

Il primo passo è la presa di consapevolezza del carattere disadattivo delle credenze, che limitano di fatto la realizzazione personale e sociale, attraverso una presa di distanza critica (Quello che penso è utile? Mi serve?). Il secondo passo è l’adozione di pensieri più realistici, che consentano di raggiungere più agevolmente gli scopi, tecnica nota come ristrutturazione cognitiva. Obiettivi che possono essere raggiunti solo attraverso un’adeguata relazione terapeutica, entro la quale si gioca la partita: infatti il terapeuta, a differenza degli altri, non deve compiacere il paziente e le sue credenze, di modo che il paziente stesso possa individuarne la problematicità”.

Strategie differenziate e molteplici per raggiungere gli scopi, ovvero più scopi per la propria vita, dalla famiglia al lavoro agli amici, affinché l’eventuale insuccesso in un’area non determini il crollo dell’intero mondo della persona. E di crollo della realtà, di frattura di senso e di necessità di ricostituire un senso nuovo è stata dedicata la seconda parte della lezione, attraverso la disamina dei pensieri deliranti e del lavoro terapeutico con i disturbi psicotici.

Partiamo dalla considerazione che il pensiero delirante si pone in continuità con quello normale e che non necessariamente è bizzarro, come nel pensare che qualcuno mi vuole male; ciò che ovviamente caratterizza il delirio è la sua impenetrabilità ovvero la resistenza alla critica, che diventa il punto focale dell’intervento – continua Lorenzini – La relazione terapeutica, decisiva per il buon esito terapeutico, dev’essere incentrata sull’ascolto attivo e non giudicante e tendere alla critica del delirio, spingendo il paziente a formulare ipotesi alternative (meno angoscianti) alle credenze psicotiche. Ciò in vista della riformulazione di un progetto esistenziale che dia dignità e una migliore qualità della vita, un risanamento a quel senso inaccettabile di invalidazione di temi fondamentali, che costituiscono i pilastri dell’identità, come ad esempio l’essere un buon padre, che possono aver dato origine al delirio paranoico”.

Un compito complesso, in cui il terapeuta mette in moto empatia, tecnica, abilità che si scontrano con meccanismi di difesa difficili da smantellare, poiché utilizzati al fine di dare un senso a un vissuto che improvvisamente e irrimediabilmente risulta arcano, perduto, negato.

Un percorso impegnativo di natura psicologica da accostare a un supporto farmacologico, benchè l’attuale stato dei servizi non possa vantare un reale ed efficace utilizzo della componente non farmacologica della cura. “Per la psicosi prevale ancora il modello medico e socio-riabilitativo sul modello psichiatrico della legge 380. La psicoterapia a mio avviso sembra limitarsi a favorire l’aderenza ai farmaci e a far accettare costruttivamente il problema, funzioni limitative rispetto alle competenze proprie dello psicoterapeuta. Per il futuro confido nella sensibilità delle istituzioni per un coinvolgimento maggiore dei professionisti della mente nel trattamento di patologie di ogni livello di gravità” conclude Lorenzini.

 

 

Una mappa cerebrale del disturbo bipolare

Una nuova ricerca che ha utilizzato tecniche di neuroimmagine dimostra che le persone con disturbo bipolare presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione.

 

Il disturbo bipolare, o sindrome maniaco depressiva, è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, con alternarsi di episodi maniacali e depressivi. Una nuova ricerca che ha utilizzato tecniche di neuroimmagine dimostra che le persone con questa patologia presentano differenze nelle regioni del cervello che controllano l’inibizione e l’emozione.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il disturbo bipolare colpisce circa 60 milioni di persone nel mondo. È un disturbo psichiatrico debilitante con gravi implicazioni per coloro che ne sono colpiti e le loro famiglie. Rivelando una chiara e consistente alterazione di alcune regioni frontali e temporali del cervello, i risultati pubblicati offrono una visione dei meccanismi sottostanti al disturbo bipolare.

Ole A. Andteassen, autore principale dello studio ha dichiarato:

Abbiamo creato la prima mappa cerebrale del disturbo bipolare, risolvendo anni di incertezza su come sia diverso il funzionamento cerebrale delle persone affette da questo disturbo.

Lo studio riportato è stato parte di un consorzio internazionale e si estende su 76 centri, includendo 26 diversi gruppi di ricerca in tutto il mondo.

I ricercatori hanno effettuato la risonanza magnetica (MRI) su 6503 soggetti, dei quali 2447 adulti affetti da disturbo bipolare e 4056 soggetti sani.

Sono stati analizzati e presi in considerazione anche gli effetti dei farmaci comunemente usati per trattare il disturbo bipolare, l’età dell’insorgenza di malattie, la storia della psicosi, lo stato dell’umore, le differenze di età e di sesso.

I risultati hanno mostrato la riduzione della materia grigia nel cervello dei pazienti con disturbo bipolare rispetto ai controlli sani. Le maggiori differenze si sono riscontrate nelle parti del cervello che controllano l’inibizione e la motivazione, ovvero alcune regioni frontali e temporali.

I risultati hanno anche mostrato diverse alterazioni del cervello in pazienti che hanno preso litio, anti-psicotici e trattamenti antiepilettici. Dai dati è emerso che il trattamento con il litio è associato a un minor assottigliamento della materia grigia nelle aree frontali e temporali, che suggerisce un effetto protettivo sul cervello.

 

Onora il padre e la madre: non c’è futuro senza avere parlato con chi ci ha dato la vita

Le storie che ascolto: figli che non possono onorare i genitori e fanno una dannata fatica a scriversi addosso il nome di Padre, Madre. In quell’assenza di orgoglio per le radici, allo psicoterapeuta il compito di ridare significato.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 16/04/2017 su LA LETTURA del Corriere della Sera,  all’interno di uno speciale sui dieci comandamenti rivisitati in chiave moderna. 

 

Mirella ringrazia il marito della madre: c’era nei momenti difficili. Il padre naturale non la cerca da tre anni. Se racconta alla madre le violenze che subisce dal marito ottiene in cambio un “Te la cerchi”, seguito da un silenzio ostile. Silvia chiede al nuovo compagno della madre di accompagnarla all’altare. Il padre non è invitato, da piccoli picchiava lei e il fratello, sentivano la madre piangere quando a letto la sottometteva con violenza.

Arturo cerca memorie in cui il padre medico gli è stato vicino. Invano, il suo unico piacere era mangiare yogurt. Per il resto: una presenza stanca, accasciata sul divano. Prova ad avere un figlio con la compagna e non sa se sarà capace di crescerlo. Vuole diventare pittore, teme che il padre non avrebbe approvato.

Giulio ha due figlie con l’ex-moglie, e un altro da una donna che già lo ha sostituito nel proprio letto. Si chiede cosa potrà trasmettere ai figli, che ama. Dei propri genitori ricorda freddezza emotiva e incapacità di dargli coraggio.

Sono le storie che ascolto. L’immagine che mi accompagna è l’invocazione dell’uomo crocifisso: Eloì, Eloì, Lemà sabactàni. Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Nel mio film privato l’uomo stavolta scende dalla croce e s’incammina per una landa desolata. Ora è lui il Padre, il protagonista de La Strada di Cormac McCarthy. Arranca in un mondo post-atomico, intorno non c’è nessuno di cui fidarsi, del passato restano macerie e parole che fanno riferimento a oggetti che non esistono più. Lo tiene in vita il Figlio, se ne deve occupare; della mano carezzevole della madre rimane solo un ricordo sbiadito, confuso nella luce lattiginosa.

Le storie che ascolto: figli che non possono onorare i genitori e fanno una dannata fatica a scriversi addosso il nome di Padre, Madre. In quell’assenza di orgoglio per le radici, allo psicoterapeuta il compito di ridare significato.

Non c’è futuro senza avere parlato con chi ci ha dato la vita, non importa se ci abbia dato in lascito oro, sangue o rifiuti. Se il dialogo reale è impossibile, allora chiedo: “Chiuda gli occhi, torni lì, in cucina, papà sta per picchiare mamma. Gli dica: ‘Non farlo, con fermezza. Fatto?”. “”. “Come si sente ora?” “Paura”. “Respiri a fondo, le sono vicino. Come va?” “Sollevata”. “Riapra gli occhi, cosa pensa?”. “Ho anche ricordi in cui mio padre mi teneva in braccio”.

Tante vite così si liberano, il passato non più incubo o cumulo di ruderi che paralizza la costruzione di nuove opere. Arturo mi manda una foto: il manifesto della sua prima mostra tenuto dalla manina del figlio.

Solitudine DOC – Narrativa & Psicologia

Il dottor Oreste Nobile aprì la finestra. L’aria era umida, carica di elettricità e imminenza. Dalla strada arrivavano a intervalli irregolari i peti striduli dei motorini truccati. Mancavano ancora dieci minuti alla prossima visita. Un nuovo paziente. Al telefono gli era sembrato giovane, molto calmo, educatissimo. Solo qualche brusca accelerazione nella seconda metà delle frasi, come per essere sicuro di riuscire a terminarle prima di essere interrotto. Si chiamava Marco.

Dieci minuti. Quando c’era una pausa del genere tra le consecutive incursioni nelle esistenze altrui, Oreste Nobile faceva il suo solito esperimento. Tallonava un umore differente dal consueto stato di sospensione, di attesa, in cui cuoceva a bagnomaria per la maggior parte della giornata. Metteva il naso fuori da quella condizione dell’animo che aveva eletto a dimora fissa. Diceva a se stesso che c’era un certo gusto nell’indurre, guidare, accendere o spegnere a piacimento i propri stati mentali. In realtà, lo faceva per stimolare i riflessi del suo apparato affettivo, per controllarne l’efficienza. Per verificare che all’interno del suo involucro di carne, ossa e sangue fosse ancora presente un dispositivo emotivo. Avrebbe capito solo nella vecchiaia che faceva questo esperimento per assicurarsi di essere ancora vivo.
E tra tutti gli stati mentali tra cui scegliere, il suo preferito era la nostalgia.

Quando aveva poco tempo, con la nostalgia andava bene anche una sveltina. Bastava cercare in rete il titolo di un classico o di un tormentone degli anni ’70 o ’80. Già sull’attacco di Hotel California o de L’estate sta finendo avvertiva il prurito interno inconfondibile dell’imminente eiaculazione di nostalgia. Che non appena avvenuta, si coagulava quasi subito in una specie di indignazione. Lì, di immagini mentali, di ricordi – magari i suoi sedici anni, quella spiaggia in una sera di fine Agosto, di quelle in cui capisci che ormai ci vuole la felpa, il viso di lei, la disperazione totale per la sua partenza l’indomani – manco a parlarne. Non si spiegava come mai con lui i ricordi fossero così fisici, ostili, spietati. Perché non riuscisse a vederli come immagini proiettate dietro agli occhi, attenuate come sogni, immateriali. Perché avessero invece quella consistenza solida, contundente, che impattava ripetutamente sulle pareti interne dello stomaco producendo quella vibrazione sorda somigliante ai prodromi di un’ulcera.

Stavolta se la prese più comoda. Anche se aveva solo dieci minuti, decise che qualche preliminare con la nostalgia potesse starci. Si avvicinò alla sua nostalgia con un passo silenziosissimo, come un bambino che attraversa il corridoio in punta di piedi per non svegliare un genitore sempre arrabbiato. Non cercò una canzone. Digitò su google la parola pacman, scegliendo pacman tra pacman, pucman, packman e puckman, perché su questo sono sempre esistite scuole di pensiero diverse. E mentre digitava diceva a se stesso sapendo di mentire (questo faceva parte dei preliminari) che era solo per fare una partita.

Durante lo stacchetto musicale iniziale – di cui la bocca itterica di nome Pac-Man rimane immobile ad aspettare rispettosamente la fine – Oreste sorrise. Ma appena i fantasmini colorati si gettarono all’inseguimento di Pac-Man, in Oreste si riaccesero sinapsi dormienti. Gli schemi per mangiare più puntini possibili prima di raggiungere e ingollare la pillola che trasforma i predatori in prede. Completò il primo quadro con qualche esitazione.

Un paio di volte rischiò seriamente che il fantasmino rosso placcasse Pac-Man, ma lo salvò il movimento – identico a quando la sua mano lo compiva a dodici anni – di mangiare la pillola e cambiare istantaneamente direzione per inghiottire in un attimo l’inseguitore.
Accadde alla fine del secondo quadro, proprio durante il siparietto che Pac-Man e i fantasmi fanno per complimentarsi col giocatore e avvertirlo implicitamente che da quel momento in poi si farà sul serio, che sarà tutto più veloce e spietato. Si fece annunciare dal desiderio improvviso che la vita reale, magari con una telefonata, lo distogliesse dalla vita mentale, nella quale qualcosa stava prendendo una brutta piega.
Poi si manifestò.

Qualcosa di simile a quello che succede a un tossico quando si inietta un’overdose. Si era sparato nelle vene nostalgia tagliata con roba dalla chimica letale. Rimasugli di dolore senza nome. La sua mente stava usando la nostalgia come la punta metallica di quei martelli appesi ai finestrini dei treni sopra la scritta “Da usare solo in caso di emergenza”. E quella punta stava intaccando un locus minoris resistentiae preciso. Un punto di rottura potenziale.
Si rese conto che stava invidiando il mondo incosciente di pacman. I fantasmini che uccidono Pac-Man quasi controvoglia, come se in fondo un po’ gli dispiacesse. Pac-Man stesso, con il suo unico scopo: divorare tutti i puntini del quadro digerendoli all’istante, senza mai defecare come sarebbe logico, né dare mai l’impressione di averne bisogno. E ricominciare daccapo. Invidiava quella forma elementare di progressione nell’uguale. A ogni nuovo quadro il mondo di pacman, semplicemente, accelera un po’. E il destino di Pac-Man è segnato perché lui a ogni quadro accelera un po’ meno, impercettibilmente, di quanto accelerino i fantasmini. Però almeno – questo Oreste invidiava più di tutto – quella di pacman era la vita senza passato e senza futuro.
Senza quell’assurda presa per il culo che è il tempo.

Quando sentì il suono del citofono chiuse istantaneamente il display del portatile.
Nel tempo aveva imparato che il suono del citofono dice molto del mondo interno di una persona. Esistevano due estremi della psiche citofonante. Da un lato gli individui incapaci di registrare la presenza di altre anime dentro i corpi in movimento attorno a loro, convinti che l’unica interiorità possibile fosse la propria, e che la vita fosse un romanzo di cui essi erano i narratori onnipotenti e onniscienti. Questi suonavano forte, ripetutamente, facendoti saltare in aria.

All’estremo opposto, quelli che stavano al mondo sentendosi personaggi inanimati a cui qualche narratore onnipotente regala la vita, quelli in cui qualsiasi guizzo di vita autonoma, qualsiasi momentanea intuizione del fatto che sia possibile stare al mondo senza permesso, generava un’ansia incontenibile. Questi suonavano solo mezza volta, senza premere il pulsante fino in fondo, senza convinzione. Tanto che rischiavi di non sentire il citofono se eri sovrappensiero o se dalla strada arrivava un po’ di rumore.

Stavolta però Oreste sentì un suono diverso. Il prototipo del suono del citofono. Il suono del citofono che meglio rende l’essenza del suono del citofono. Durata, intensità, frequenza di stimolazione della catena di ossicini dell’orecchio interno di chi riceve la citofonata. Tutto perfettamente misurato. Oreste pensò che chi suonava doveva avere per forza studiato, pensato come bussare nel modo più canonico possibile al citofono.

Sui vent’anni. Magro, non alto, non basso. Gli occhi nerissimi. I muscoli della mandibola incapaci di quiete. Indossava pantaloni di velluto a coste larghe e una giacca di tweed irlandese di colore indefinibile.

«La ringrazio per avermi ricevuto così presto.», fece, mentre si accomodava su una delle tre poltroncine Nantucket che Oreste aveva appena acquistato a Ikea. Marco aveva la stessa espressione che probabilmente avrebbe avuto stampata sul viso durante un colloquio di lavoro. Il livello di contrazione di ogni singolo muscolo facciale tarato al millimetro. Una voce perfettamente modulata, ma senza prosodia. Il timbro dell’adulto, ma l’intonazione distaccata del bambino intelligente che recita per l’ultima volta la poesia di Natale davanti a genitori che meditano separazioni e a parenti dilaniati dalla noia.

«Si figuri. È la prima volta che vede uno specialista?»
«No. La prima in assoluto è stata quando i miei genitori mi hanno portato da piccolo da un neurologo. Se ricordo bene fu perché secondo loro avevo una difficoltà nell’apprendimento. Il dottore però non riscontrò anomalie di sorta.»
«Quanti anni aveva più o meno?»
«Otto.»
«Ok. C’è stato qualche altro intervento da allora?
«Sì, una psicoterapia terminata pochi mesi fa.»
«Quanto è durata?»
«Circa un anno e mezzo.»
«In questo caso di chi è stata la decisione di iniziarla?»
«Mia, ma fortemente incoraggiata dai miei dopo quasi un anno che lottavo contro il mio disturbo ossessivo compulsivo
«Posso chiederle come mai è terminata?»
«Mah, col dottore ci siamo lasciati bene. Gli ho detto che volevo provare un approccio diverso perché mi sembrava che nonostante i progressi innegabili fossimo in stallo. Lui ha accettato di buon grado. Ha ammesso onestamente che avevo ragione e mi ha incoraggiato. È proprio lui che mi ha indirizzato a lei.»

La testa di Oreste ebbe un leggero sussulto, gli occhi si socchiusero per un attimo. L’abbozzo del gesto che facciamo quando qualcuno fa finta di darci uno schiaffo. «Quando parla di progressi a cosa si riferisce esattamente?»
«Beh, ecco. All’inizio avevo ossessioni di contagio e di controllo, che sono sparite completamente, anche prima che conoscessi il dottore. Ora le mie ossessioni riguardano la mia capacità intellettuale. Quando leggo qualsiasi cosa che richieda un impegno intellettuale iniziano a venirmi mille dubbi. Il dottore mi ha fatto capire molto bene come funziona il mio disturbo ossessivo compulsivo. È tutto su questo diagramma.»

Tirò fuori dal taschino interno della giacca un foglio ripiegato in quattro e lo aprì mostrandolo a Oreste. Una serie di rettangoli disegnati con una penna nera, collegati da frecce che davano il senso immediato di una successione logica, ovvia. All’interno di ciascun rettangolo c’erano frasi piuttosto articolate. In alcuni rettangoli una sola parola a caratteri cubitali. Lo sguardo di Oreste, appena gli fu messo il foglio davanti, fu catturato dalla parola ANSIA scritta con un pennarello rosso.

Mentre indicava con una penna i collegamenti tra i rettangoli, il tono di Marco diventò professorale, monocorde:
«Come vede il diagramma mostra come appena incontro una difficoltà nella lettura, un passaggio di non immediata comprensione, vengo assalito da pensieri automatici negativi come ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’, ‘se non sono abbastanza intelligente non raggiungerò mai i miei obiettivi e fallirò. Poi mi dico anche ’se mi viene il dubbio di non essere intelligente, evidentemente non lo sono’. La mia ansia è una reazione a questi pensieri. Ed è per tentare di ridurre l’ansia, zittire i pensieri e contrastare l’idea di non essere abbastanza intelligente che rileggo il passaggio che non ho capito la prima volta. Il problema è che l’ansia stessa distoglie l’attenzione dal contenuto del testo. Lo rileggo mentre sono immerso in uno stato di paura, e mentre altri pensieri mi dicono ‘e se non capisco nemmeno questa volta? Vorrebbe dire davvero che non sono intelligente!’. Quindi è ovvio che io non capisca. Mi ritrovo a rileggere dieci volte la frase, e finisco per sentirmi definitivamente scemo per quello che sto facendo, anche per il fatto stesso di leggere ripetutamente la frase. Per questo chiudo il libro, scoraggiandomi definitivamente. Prima è successo con i libri universitari. Tanto che dopo i primi due esami che ho superato a stento, non sono riuscito a darne altri. Per un breve periodo i libri che sceglievo per passione intellettuale mi erano di conforto. Poi il problema si è esteso anche a quel tipo di lettura.»

Nella mente di Oreste passò, rapidissima, l’immagine di se stesso a otto anni curvo sul tavolo della cucina a scrivere. Ricordò un pomeriggio di inverno con la pioggia che cadeva fitta, obliqua. Suo padre lo aveva preso a scuola, e poco prima, nel breve tragitto tra l’auto parcheggiata e il portone di casa, lo zainetto era caduto in una pozzanghera. I quaderni inzuppati. Oreste aveva deciso di ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva che teneva sempre pronti per emergenze del genere. La scena si fermava lì. Non ricordava altro.

«L’ho ascoltata con molta attenzione, Marco. Conosce il meccanismo del sintomo con grande precisione. Complimenti. Mi ha detto che il dottore le ha insegnato delle strategie per gestire il sintomo. Mi fa capire meglio?»
«Il dottore mi ha spiegato prima di tutto quanto sia importante riconoscere il primo pensiero, quello che avvia il processo dell’ansia – ‘non sono in grado di capire perché non sono abbastanza intelligente’ – e di vederlo come il prodotto della mia mente, qualcosa che può transitare nella mente di chiunque, e semplicemente lasciarlo andare. Non assecondarlo, non vederlo come assolutamente vero. Poi mi ha insegnato una tecnica di respirazione e rilassamento che serve per portare l’attenzione sul corpo e sul momento presente, in modo da distoglierla dalla tendenza ad assecondare quel pensiero ed evitare che si attivi la catena di pensieri negativi successivi.»

Nel tono di Marco, Oreste coglieva un vago compiacimento. Se alla base della sua angoscia c’era la paura di non capire, e di scoprirsi per questo stupido, capire alla perfezione il meccanismo cognitivo che stava mandando al macero la sua vita, spiegarlo a un terapeuta, esattamente come un terapeuta l’aveva spiegato a lui, sembrava riabilitarlo agli occhi di se stesso. Oreste fu quasi tentato di dirglielo. Di dirgli qualcosa che – per quanto rivestito di garbo – sarebbe suonato in ogni caso come una provocazione insulsa. Qualcosa come curioso che lei abbia tanta paura di non capire i concetti e poi sembri così padrone nel comprendere concetti psicologici complessi. Più o meno così. Giusto per evidenziare quella contraddizione tra la vulnerabilità che chiedeva aiuto e la pedanteria che sembrava ritrattarne il bisogno. Una contraddizione che aveva già acceso la miccia dell’irritazione di Oreste, e aveva appena fatto comparire sul set della sua mente la sua risposta preferita a ogni forma di pedanteria.

La scena di Ricomincio da Tre di Massimo Troisi in cui il protagonista, Gaetano, tenta di convincere Robertino a spezzare le catene dei suoi complessi e del comportamento soffocante della madre. (Oreste aveva sempre pensato che quella scena, di una comicità inarrivabile, avesse un retrogusto amaro. Che il protagonista, Gaetano, che Massimo Troisi stesso, stessero incontrando la versione iperbolica del proprio doppio. Ciò che l’attore sarebbe diventato se il suo talento non l’avesse tratto in salvo).

La voce di Massimo Troisi penetrò nella stanza con la prepotenza di un’allucinazione, tanto che Oreste dovette contrarre sul nascere un sorriso e con esso la tendenza della lingua e della mandibola a partire per recitare la battuta che sapeva a memoria. Robè…tu devi uscire, ti devi salvare, Robè, t’hanno chiuso dint’ ‘a stu’ museo, tu devi uscire, và mmiezo’a strada, tocc ‘e femmene, va a arrubbà, fa chello che vuò tu. La battuta che terrorizza Robertino, che inizia a urlare e chiamare Mammina, mammina!!. Poi, la resa rabbiosa di Massimo Troisi. La frase che ogni essere umano dovrebbe urlare davanti allo specchio almeno una volta nella vita. Ma vafancul’ tu e mammina!!!

Individui come Marco instillavano in Oreste l’impulso a urlarla, quella frase.
Ma vafancul’ tu e il tuo dottore!!!

«Ascolti, Marco, può tornare con la mente a un momento recente in cui ha aperto un libro, qualcosa che la impegnava intellettualmente?»
«Un momento?», disse Marco, l’espressione di legno impercettibilmente deformata dal sollevamento di un sopracciglio.
«Intendo: mi porta su una scena specifica in cui le è comparso il sintomo?»
«Beh, non saprei…Sì…Qualche giorno fa stavo leggendo La grammatica trasformazionale di Chomsky. Mi appassiona molto comprendere come prende forma la capacità linguistica, e la soluzione di Chomsky mi sembra geniale. Lui si è chiesto come mai i parlanti di una lingua sono in grado di produrre e di comprendere un numero indefinito di frasi che non hanno mai udito prima o che addirittura possono non essere mai state pronunciate prima da qualcuno. E risponde mettendo in evidenza l’intrinseca creatività di noi esseri umani. Quella creatività che ci fa generare continuamente nuove frasi, anche senza averle mai sentite prima, sulla base di regole che possediamo in modo innato. Così, riuscendo a creare infinite combinazioni di parole, possiamo dire tutto.»

«Si sente molto che è un argomento che l’appassiona.»

«Mi appassiona soprattutto l’idea chomskyana che la mente contenga principi grammaticali inconsci che la guidano nella produzione del linguaggio. Mi fa pensare che abbiamo in generale dentro di noi, inconsciamente, la capacità di risolvere i problemi che la vita ci pone. Un modo del tutto istintivo, immediato e semplice di fare le cose…Eppure io non ci riesco, complico le cose. Forse ho perso questa capacità. Mi domando se esista una specie di grammatica esistenziale chomskiana che io ho perso definitivamente o forse non ho mai acquisito.»

«Ritorni a quel momento, mentre leggeva il libro. Cosa è successo?»

«Quello che succede sempre…Arrivo a un passaggio un po’ più lungo, magari leggermente complesso. Lo leggo fino in fondo. Alla fine del periodo realizzo che non ho capito bene, quindi ricomincio a leggere la frase dall’inizio. E lì comincio a chiedermi ‘come faccio a essere sicuro che sto veramente capendo il concetto che l’autore vuole esprimere? Chi me la dà la certezza che sto capendo veramente quello che l’autore vuole concettualizzare?’»

Marco fece una pausa. Riaggiustò la posizione sulla poltrona, come se volesse utilizzare al meglio il diaframma e regolare la giusta quantità di aria da emettere a ogni frase. Deglutì e continuò:

«A quel punto mi sale l’ansia. Succede sempre così.»

«In quel momento la possibilità di non aver capito bene il concetto l’ha spaventata?!»

«Sì. E dovevo capire prima possibile.»

«Doveva capire. Prima possibile. E che ha fatto?»

«Leggo e rileggo quella frase. Ma ogni volta, mentre la rileggo, penso sempre più insistentemente ‘chi ti dice che ora hai capito veramente?’. E intanto l’ansia sale, sale. Fino al punto in cui sono costretto a chiudere il libro. Quando mi prende così ho un crollo. Non riesco a uscire più di casa per paura che il problema si presenti anche con le frasi dette dalle persone con cui dialogo. Immagini se un collega di università mi chiedesse ‘andiamo a prendere un caffè?’, e mi venisse il dubbio di non aver capito il significato. Rimarrei lì come uno stupido.»

Oreste annuì lentamente. Poi disse:

«In quel momento, mentre leggeva Chomsky e si è presentato il problema, ha provato a mettere in atto le strategie del dottore?»

«Ci ho provato, ma non ci sono riuscito, anzi…Come le dicevo, solo qualche volta all’inizio ha funzionato. Il sintomo compariva, mi rilassavo, respiravo e mi calmavo. Ma dopo le prime due o tre volte è accaduta la cosa peggiore che potesse accadere. Non so come, ma usare la tecnica insegnatami dal dottore ha innescato una nuova serie di dubbi. Veramente brutti.»

La voce di Marco aveva subito un improvviso rallentamento. La frequenza diminuita di un’ottava. L’espressione del viso attraversata da una smorfia di dolore che indugiò ai lati delle labbra creando due rughe profonde, simmetriche come parentesi tonde.

«Dubbi veramente brutti? Ha cambiato espressione mentre lo diceva. Le va di raccontarmeli?»

«Io…Ecco…Metto tutta la mia attenzione sul respiro, come mi ha insegnato il dottore, e inizio a chiedermi ‘come faccio a essere certo che sto usando la tecnica più efficace per gestire il mio sintomo?’, ‘come faccio a essere certo che anche se è la tecnica più efficace io la stia usando nel modo più efficace o se sarò mai in grado di farlo?’.»

Ci fu una pausa. Una folata di vento fece vibrare leggermente i vetri della finestra che stava accanto alla poltrona di Oreste. La carezza gelida, rapida, raggiunse la sua guancia sinistra. Come ogni volta che succedeva, Oreste pensò che era arrivato il momento di cambiare quegli infissi scadenti.

«Mi dispiace. Tutto questo deve farla sentire senza vie d’uscita.»

Fu proprio in quel momento, quando sentì la sua voce dire ‘Mi dispiace’, che Oreste ricordò il seguito di quel pomeriggio di inverno in cui aveva deciso che l’unica speranza di salvezza fosse ricopiare alla lettera cinque mesi di compiti sui quaderni di riserva. Prima, la sua mano ricordò il dolore per la tensione prolungata nel calcare la penna sul foglio lentamente per non sbagliare. Poi lui si rivide desistere dopo sei ore di lavoro ininterrotto e scoppiare a piangere. Rivide sua madre che era corsa ad abbracciarlo. Gli aveva detto che poteva davvero bastare così, che avrebbe parlato lei con la maestra, risolto tutto, che ora Oreste doveva solo guardarsi un bel cartone. Rivide suo padre portargli la pizza, come faceva sempre quando voleva consolarlo.

E in quell’istante di coscienza esplosa capì anche il perché. Perché quella pizza era la più buona che avesse mangiato in vita sua. E capì il perché di tutto quel bisogno di provare nostalgia, magari passando attraverso l’invidia per Pac-Man.
Indursi la nostalgia era il tentativo di arrivare, per approssimazioni ripetute, al sapore di quella pizza.
Era tutto così semplice. Autoevidente. E ora era vitale che anche Marco capisse.

«Ascolti, Marco. Torniamo per un attimo alla scena in cui lei teme di non capire il testo di Chomsky. Vuole?»
«Va bene.»
«Lei chiude il libro, come mi ha detto. Ora immagini di chiudere il libro con la certezza di non capire. Forse perché è stanco e non ha la solita prontezza nel cogliere i concetti, o forse perché in fondo Chomsky oggi non le piace poi tanto, e leggerlo non è molto diverso da studiare un testo universitario, non so. Fatto sta che sta rinunciando perché oggi proprio i concetti non le entrano in testa. Può provare a immaginarlo veramente?»
Marco sorrise strizzò per un attimo gli occhi come per mettere a fuoco.

«Ok, sì. Sto immaginando.»

«Bene Marco. Ora, che ne pensa di Marco che realizza che non capisce con la prontezza che vorrebbe, che almeno per ora sta rinunciando perché i concetti non gli entrano in testa?»
La fronte di Marco si corrugò.

«Non so…un cretino.»
Appena un fremito nella voce.

«Chi la sta chiamando cretino, Marco?»

«Come dice?»

«Le sto chiedendo, dove è andata un attimo fa la sua mente? Chi la sta chiamando cretino?»

«Mio padre, ma non me la sento di parlarne ora.» disse Marco aprendo gli occhi e abbassando lo sguardo.

«Certo, non si preoccupi. Ci sarà tempo. Ha ricordato qualcosa. Ce ne occuperemo con calma, ma…»

«È strano» – interruppe Marco, lo sguardo fisso sulla mano destra di Oreste – «anche col dottore eravamo arrivati a parlare di mio padre, del fatto che era molto severo ed esigente sul mio rendimento scolastico. Gli avevo anche raccontato che qualche volta mi chiamava cretino se facevo qualche errore. Ma non mi era mai tornata in mente quella scena…»

«Sì. Ha rievocato un ricordo e l’ha rivissuto in prima persona. Quando se la sentirà…»

Marco lo interruppe:

«…Quando ero alle elementari mio padre si metteva sempre vicino a me quando facevo i compiti. In italiano andavo molto bene, e facevo i compiti rapidamente. Ma sulla matematica ero più incerto. Avevo bisogno di ragionarci un po’ su…La maestra ci aveva appena insegnato il metodo per risolvere le divisioni a due o più cifre… Quella volta mi bloccai su una divisione. Me la ricordo quella divisione. Cinquecentosettantasei diviso otto. Rimasi bloccato. Lui si innervosì. Ripeteva, sempre più arrabbiato, ‘allora, si abbassa il 57, quindi quanto fa 57 diviso otto?’…Non so perché, ma anche se nella mente mi ripetevo sette per otto cinquantasei, sette per otto cinquantasei…non riuscivo a scrivere il sette sotto la linea del risultato e a riportare il resto di uno. In quel momento, non so come spiegarglielo meglio, ma era semplicemente inconcepibile che ci fosse il resto di uno…Lui chiuse il quaderno con un gesto che ricordo molto calmo e mi disse ‘sei un cretino’. Anche la voce era calma, come se chiamarmi cretino fosse stata una rivelazione per lui, che lo avesse fatto rassegnare e calmare.»

Si fermò. Oreste avvertì la connessione elettrica tra il tremore fine della propria mandibola e l’imminenza delle lacrime di Marco.
«Marco, ascolti, lei ha fatto già un percorso utile. Ha imparato tanto sul suo sintomo e sul suo funzionamento psicologico. Non le darei nulla di più entrando anche io nel merito. Voglio invece dirle la cosa che più mi colpisce in ciò che mi ha detto.»

Oreste attese che Marco annuisse, poi continuò:

«Il suo sintomo si basa su un dubbio su se stesso, sul non essere abbastanza intelligente. Il dubbio di essere cretino. Stiamo vedendo che questo dubbio ha probabilmente origine da scene vissute in cui la persona da cui avrebbe voluto essere apprezzato e amato le dava l’impressione di essere profondamente deluso da lei se solo aveva qualche incertezza, se aveva semplicemente bisogno di un po’ di tempo per capire. E non è tutto. In quei momenti durissimi per lei in cui è assalito da questo dubbio dolorosissimo, c’è una parte vulnerabile di lei che desidererebbe ricevere conforto, comprensione. C’è il bisogno che abbiamo tutti di un altro che ci sia per noi. Quel momento di vulnerabilità invece è affrontato da lei come un problema di matematica. È qualcosa che si deve risolvere efficacemente, con la migliore strategia possibile. Il problema è che lei, anche quando ha più bisogno di non essere solo, è completamente solo. La sua mente non contempla la possibilità di essere aiutato nei momenti in cui è più vulnerabile da un altro accogliente e comprensivo. L’altro è solo qualcuno che le fornisce una strategia che lei dovrà utilizzare da solo.»

Marco rimase in silenzio.

Guardava Oreste con gli occhi umidi di lacrime che sembravano chiedere il permesso di scendere.

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia – 04

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La sintonizzazione affettiva in psicoterapia come strumento di cambiamento

Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

Lorenza Gabrielli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

È opinione diffusa che la psicoterapia non sia solo la “terapia della parola”, ma come, in quanto relazione profonda e significativa, possa esplicarsi a livello implicito, poggiando su aspetti che vanno al di là delle verbalizzazioni e che richiedono al terapeuta la capacità di utilizzare la relazione stessa come strumento di lavoro. Nuove prospettive terapeutiche mettono in evidenza come non siano solo le parole la chiave per la modifica dei contenuti mentali disfunzionali alla base della sofferenza psichica (Tarantino & La Mela, 20013), ma che la relazione stessa offra le possibilità di vivere esperienze correttive, fondamentali sia per il cambiamento che, per costruire quelle condizioni di base che possono rendere più efficaci i vari interventi psicoterapeutici.
Obiettivo dell’articolo è quello di analizzare uno specifico aspetto della relazione, ossia il processo di sintonizzazione affettiva e riflettere sul potere che essa può assumere, sia in quanto strumento di conoscenza, che di cambiamento.

La sintonizzazione affettiva nella relazione madre-bambino

Il concetto di sintonizzazione affettiva è stato sviluppato principalmente all’interno della precoce relazione madre-bambino (Stern, 1985; Tronick, Bruschweiler-Stern, Harrison, Lyons-Ruth, Morgan, Nahum, et al., 1998; Jonsson, Clinton, Mazzaglia, Novak, & Sörhus, 2001). Osservando una madre ed un neonato che interagiscono, si rimane immediatamente meravigliati, da come lo scambio non riguardi parole o pensieri, ma stati affettivi che vengono mutualmente condivisi e regolati, quasi come una danza armoniosa, che porta il neonato ad integrare e regolare i propri stati e le proprie sensazioni verso livelli di maggiore complessità, alla conquista della propria identità ed integrità.

Nello specifico, l’osservazione precoce dello scambio interattivo di questa diade ha portato a chiedersi in che modo la madre riesca a comunicare al proprio figlio non solo che ha capito i suoi segnali, ma che ha colto il vissuto emotivo sottostante a quel comportamento e lo utilizza per regolare lo stato affettivo dell’altro. Secondo Stern (2005) il processo chiave che permette questo tipo di comunicazione è proprio la sintonizzazione affettiva, un processo trasmodale, continuo e, in parte, inconsapevole che permette di condividere gli stati affettivi. Pur prendendo le mosse dal processo di imitazione, che caratterizza i bambini fin dalle primissime settimane di vita (Melzoff & Moore, 1977) e che permette loro di coordinare il proprio comportamento a quello del caregiver sulla base dell’interpretazione dei comportamenti visibili, la sintonizzazione appare un processo qualitativamente diverso che, a partire dagli 8 mesi, permette una connessione profonda degli stati affettivi. Studi successivi (Jonsson et al., 2001) hanno dimostrato come il passaggio dal processo imitativo a quello di sintonizzazione affettiva avvenga già a partire dal sesto mese di vita e che si tratti di un processo transculturale ed innato.

Gli studi di Tronick et al. (1998), rendono evidenti gli effetti negativi che la mancata sintonizzazione affettiva può determinare. Se viene chiesto ad una madre di mantenere un’espressione del volto neutra e cercare di non rispondere alle sollecitazioni del bambino, quest’ultimo ne appare subito turbato: cercherà inizialmente di attirare l’attenzione della madre, di sollecitare in lei una risposta, ma se anche questi tentativi falliranno, distoglierà l’attenzione e mostrerà uno stato di forte disagio. Il processo è chiaramente esplicato nel classico esperimento eseguito con il paradigma dello Still Face.

https://www.youtube.com/watch?v=apzXGEbZht0

Come sottolinea Tronick et al. (1998), singoli momenti di mancata sintonizzazione nella relazione diadica sono normali e non determinano di per sé effetti negativi sullo sviluppo, purché l’individuo possa comunque vivere esperienze di riparazione e sintonizzazione. Tali esperienze sembrano rappresentare la base per lo sviluppo di un attaccamento sicuro tra madre e bambino, oltre a favorire un senso di benessere e di crescita verso la resilienza (Siegel, 2013). Nel momento in cui un neonato vive l’esperienza di una sintonizzazione all’interno di un sistema diadico, la sua mente raggiunge stati di maggiore coerenza e arricchimento e quest’esperienza di connessione fornisce la sensazione di “essere visti” e di sentirsi al sicuro.
Se questo avviene nella precoce relazione diadica madre-bambino e offre la possibilità di sviluppare stati mentali di maggior integrazione, una maggior regolazione e sicurezza emotiva, in che modo può essere utile all’interno del processo psicoterapico?

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di conoscenza

La possibilità di sintonizzarci sugli stati affettivi dell’altro, ci offre uno strumento di conoscenza molto potente, che va al di là delle parole e che ci permette di entrare in contatto profondo con gli stati affettivi dell’altro.

Secondo Siegel (2013) il modo in cui un terapeuta porta se stesso in connessione con il proprio paziente rappresenta uno dei fattori cruciali che può spiegare il motivo per cui le persone rispondono positivamente agli sforzi terapeutici; il terapeuta stesso con la sua presenza, e con la sua capacità di mantenere la mente aperta a flussi di informazione che vanno al di là delle parole e con un continuo monitoraggio dei propri stati interiori, diventa esso stesso strumento di cambiamento. Secondo l’autore la sintonizzazione affettiva presenta due principali dimensioni: il lato fisico, che implica la capacità di prestare attenzione non solo alla dimensione verbale, ma a tutti quei segnali non verbali, come il contatto visivo, l’espressione del volto, il tono della voce, la postura, i movimenti del corpo, i tempi e l’intensità delle risposte, e il lato soggettivo, ossia la risonanza che questi segnali hanno in noi e che permettono di vedere profondamente il nostro interlocutore e di offrire a lui l’esperienza di “sentirsi sentito” (Siegel, 2013 p.29). Ciò richiede una sorta di elaborazione implicita, che va al di là delle parole e del ragionamento verbale e che per tal motivo richiede al terapeuta la capacità di rimanere “aperto” all’altro e a se stesso, attento al momento presente e a tutto quel flusso continuo di informazioni in entrata, che avvengono nel qui ed ora senza lasciare che idee preconcette distolgano l’attenzione.
Ma come avviene questo? In che modo il terapeuta può, con la sua presenza, offrire al paziente l’esperienza di “sentirsi sentito”?

Le basi neurobiologiche della sintonizzazione affettiva

Le neuroscienze possono offrirci una spiegazione di questo processo: seppur la ricerca sia ancora solo all’inizio, la scoperta dei neuroni specchio ha offerto le basi fisiologiche per la comprensione del processo di sintonizzazione. Il nostro sistema nervoso sembra aver plasmato un canale affettivo diretto, che ci permette di entrare in risonanza con l’altro; come sottolinea Stern: “Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle (Stern, 2005, p.64)”.

I neuroni specchio rappresentano un particolare tipo di cellule della nostra corteccia cerebrale che si attivano non solo quando eseguiamo un certo atto motorio finalizzato ed intenzionale (ad esempio afferrare), ma anche quando osserviamo un’altra persona compiere quelle stesse azioni. Ciò significa che, nel momento in cui osserviamo un’altra persona compiere un atto motorio finalizzato ed intenzionale, si attiva in modo automatico la stessa rete neurale che si attiverebbe se fossimo noi a compiere effettivamente quell’azione (Gallese, 2001); tale meccanismo ci permette quindi di comprendere l’intenzionalità di un atto motorio altrui (Tarantino & La Mela, 2013).

Alcuni studiosi (Gallese, 2001; Carr, Iacoboni, Debeau, Mazziotta & Lenzi, 2003; Iacoboni, 2008) sostengono che i neuroni specchio sono essenziali anche per spiegare il modo in cui ci sintonizziamo con gli stati interni degli altri. Nello specifico Gallese (2001) parla di “simulazione incarnata” (embodied cognition) per definire quel processo di riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, degli stati mentali dell’altro, che vengono compresi perché sono condivisi a livello neurale.

Iacoboni (2008) sostiene che le aree dei neuroni specchio ci aiutano a comprendere le emozioni dell’altro attraverso una sorta di imitazione o simulazione interna dell’espressione facciale osservata. Quando osserviamo l’espressione emotiva facciale del nostro interlocutore, i neuroni specchio, attraverso l’insula, inviano dei segnali al sistema limbico, che a sua volta produce in noi la sensazione dell’emozione osservata (simulazione). L’insula nuovamente raccoglierebbe le informazioni corporee e le porterebbe all’insula posteriore che registra gli stati corporei nella corteccia, ma non nelle aree prefrontali. Tale processo ci permetterebbe di avere una percezione corticale dello stato del corpo, pur senza consapevolezza (Siegel, 2013).

Ma se la sintonizzazione affettiva passa attraverso una sorta di imitazione interna dell’espressione facciale, come facciamo a non confondere le nostre reali sensazioni da quelle che osserviamo negli altri? Come facciamo a non rimanere coinvolti in uno stato di confusione emotiva senza confini io-tu?

Solamente nell’uomo sembra che l’attivazione dall’insula posteriore venga trasmessa a quella anteriore la quale, connessa con le regioni prefrontali mediali e del cingolato anteriore, ci porta ad avere una rappresentazione secondaria (ossia una rappresentazione della rappresentazione posteriore), che ci permette di mantenere un certo distacco dal senso diretto del corpo e di averne consapevolezza (enterocezione) (Siegel, 2013); tale processo offrirebbe quindi la possibilità di conoscere in profondità lo stato emotivo dell’altro, pur non confondendoci con esso. Ecco come “un atteggiamento del terapeuta mirato al costante sintonizzarsi sulle espressioni corporee e in particolare facciali del paziente” (Tarantino & La Mela, 2013 p. 257) ci permetterebbe di conoscere lo stato affettivo dell’altro.

La sintonizzazione affettiva nella relazione terapeutica: uno strumento di cambiamento

Abbiamo fin qui visto come la sintonizzazione affettiva possa rappresentare un potente strumento che, poggiando su meccanismi neurali, ci permette di conoscere ed entrare in profondo contatto con i vissuti dell’altro. Si tratta di uno strumento potente e come tale va utilizzato con consapevolezza. Cosa succederebbe infatti se la madre nel video di Tronick, dopo essersi sintonizzata con il figlio scoppiasse anche lei in lacrime in seguito all’attivazione dei suoi neuroni specchio? Che utilità potrebbe avere un terapeuta che si dispera con il proprio paziente, o che si arrabbia con esso in risposta ad eventuali attacchi di quest’ultimo?

Per rispondere a questa domanda è bene considerare come il processo simulazione incarnata (Gallese, 2001) faccia parte dell’essere umano e pertanto è sempre bidirezionale: terapeuta e paziente si influenzano costantemente in modo reciproco.

Nuovamente l’esempio della relazione madre- bambino ci può essere utile: nel momento in cui un neonato esprime un determinato stato mentale, la madre, sintonizzandosi con esso, reagisce nei suoi confronti; quando le madri si sintonizzano con il loro bambino, si attiva anche un’altra area corticale denominata pre-SMA che permetterebbe loro non solo di rispecchiare le emozioni, ma di attivare anche una serie di progetti motori allo scopo di interagire con il figlio nel modo più efficace (Iacoboni, 2008). L’osservazione da parte del bambino della reazione della madre attiva a sua volta in lui una simulazione automatica del comportamento della stessa. Se la relazione della madre è sintonica con lo stato del bambino, quest’ultimo avrà la possibilità di dare continuità e coerenza ai propri stati mentali, e ciò avrà influenze positive sul suo sviluppo.

Allo stesso modo il terapeuta non rispecchia letteralmente gli stati mentali del paziente ma dà risposte empatiche congruenti che offrono al paziente la possibilità di vedere ed internalizzare la risposta modulata, aiutandolo a regolare, comprendere e trasformare l’esperienza emotiva; in poche parole il paziente esperisce se stesso rappresentato con sicurezza nella mente del terapeuta (Gallese, 2001). Come sottolineano Tarantino e La Mela (2013) ciò potrebbe fornire una prima base neurobiologica di come le emozioni, anche in psicoterapia, siano segnali comunicativi capaci di attivare in sè e nell’altro piani comportamentali impliciti e scopi evoluzionisticamente significativi, e ciò potrebbe essere in sintonia con altre teorizzazioni relative allo scambio relazionale, quali ad esempio la teoria dei sistemi motivazionali (Liotti, 2014).

Conclusioni

In questo breve articolo si è cercato di analizzare una piccola, ma potente componente della relazione terapeutica, ossia la sintonizzazione affettiva, osservandone le basi neurobiologiche e il significato evolutivo che essa assume nella relazione madre- bambino. Come abbiamo visto la sintonizzazione affettiva avviene all’interno di scambi comunicativi ricchi, in larga misura al di fuori della consapevolezza e quasi in modo automatico e, in questo, si distingue dall’empatia, che richiede invece la mediazione di processi cognitivi (Inzani, Cazzaniga, Martelli, & Salina, 2004)

Poggiando su aspetti così fondanti dell’esperienza umana e meccanismi non verbali è bene sottolineare come si tratti di un processo che richiede al terapeuta una profonda capacità di ascolto, di focalizzazione sul momento presente e di conoscenza di se stesso, per utilizzarla come strumento terapeutico e per evitare di rispondere in modo automatico e inconsapevole al paziente, con il rischio di perpetuare le sue esperienze problematiche.

Rojava calling: creare gruppi di resilienza nel nord-est della Siria

Resilience Group, cominciamo dalla fine. Siamo sulle rive del fiume Tigri, un nome che evoca storie antichissime. Questo tratto del fiume segna il confine tra l’Iraq e la Rojava, la regione del nord della Siria ora sotto il controllo dei curdi. È da lì che stiamo tornando, avendo terminato il nostro lavoro.

Cristina Angelini, Edoardo Pera

 

La gente attraversa il fiume su barche a motore che assomigliano a mezzi anfibi militari. Stiamo aspettando che ne arrivi una per noi. Tra le famiglie in attesa, i pacchi e le valigie improvvisate, anche dei bambini con dei fiori in mano. Sbarca un giovane con la sua famiglia e tutti corrono verso di loro. Il giovane bacia la mano di un anziano in segno di rispetto, ma l’altro lo bacia sulle guance, tenendogli teneramente la testa tra le mani come se non credesse ai suoi occhi. Le lacrime solcano le sue molte rughe. Rughe antiche, bruciate dal sole. Anche altri piangono, chissà da quanto tempo non si vedevano o se avevano perso la speranza di ricongiungersi. Questa è terra di separazioni e lutti, di forti emozioni.

Anche noi siamo commossi, ci teniamo un po’ in disparte di fronte al loro momento. Con queste immagini nel cuore lasciamo questa parte della Siria. Speriamo di tornarci. Anche se nel freddo di questo marzo il riscaldamento ha funzionato poco e l’acqua calda ancora meno. Anche se l’elettricità fornita dal “governo” andava e veniva e si restava al buio finché non partivano i generatori. Ma il calore, la determinazione e la gentilezza della sua gente ci hanno toccato profondamente.

 

Il training per creare i Resilience Group in Siria

Repressa dal regime di Assad prima e ora in prima linea contro l’Isis, la popolazione ha un alto livello di traumatizzazione; tutti hanno morti in famiglia, martiri di una guerra che cambia avversari ma sembra non finire mai.

Un Ponte Per (UPP), associazione di volontariato nata nel 1991 subito dopo la fine dei bombardamenti in Iraq, fa ora interventi in molti altri paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo. E’ tra le poche Ong presenti in Rojava lavorando già da tempo in partnership con la Mezza Luna Rossa curda, l’equivalente della nostra Croce Rossa, fornendo farmaci e supportando i servizi di prima emergenza.

Ora ha proposto un training per creare Resilience Group per bambini, soprattutto profughi di Mosul, facendo formazione a circa venti operatori della Mezza Luna, nessuno con uno specifico background psicologico: nessuno psicologo, nessun assistente sociale o educatore; solo infermiere, paramedici che operano sulla linea del fronte e qualche ex insegnante. A questo gruppo, eterogeneo ma accomunato dal non avere alcuna nozione di psicologia, e soprattutto di psicologia infantile, abbiamo fatto un training di formazione di cinque giorni pieni, con una traduzione dall’inglese al curdo e all’arabo.

Resilienza, come è noto, è un termine che viene dallo studio dei metalli, e indica la capacità di un materiale di tornare allo stato originario dopo essere stato stressato in vari modi.  L’American Psychological Association definisce la resilienza come il processo di riuscire ad adattarsi in risposta a significativo stress, trauma e avversità. Sottolinea anche che la resilienza non è un fenomeno straordinario e neanche soltanto un tratto di personalità che le persone hanno o non hanno, ma che può essere stimolata e incrementata.

I Resilience Group sono quindi gruppi creati per tutti coloro, in questo caso bambini e adolescenti, che vivono in condizioni di stress significativo (in situazioni di guerra, in campi di rifugiati ecc.). Vi si fanno attività non necessariamente terapeutiche ma che promuovano le relazioni, che siano piacevoli e strutturate e che dunque in questo modo promuovano salute.

La IASC (Inter Agency Standing Committee), punto di riferimento per il supporto psico-sociale e la salute mentale in situazioni di emergenza, evidenzia che i Resilience Group vanno ad agire sul livello del supporto familiare e comunitario, rinforzando le risorse esistenti e cercando di ridurre il numero di coloro che avranno bisogno di aiuto psicologico o psichiatrico specialistico (1). Ma anche chi ha bisogno di questo aiuto più specialistico beneficia moltissimo dell’essere incluso in questi gruppi di incontro, gioco, scambio tra pari, che si svolgono settimanalmente in uno spazio strutturato con uno o due facilitatori e con una partecipazione attiva dei partecipanti. La scelta delle attività avviene infatti insieme ai bambini: è per renderli parte attiva e dare loro la possibilità di scegliere qualcosa nella loro vita. L’approccio self-help è infatti vitale per chi è passato attraverso l’esperienza di uno stress soverchiante e permette di recuperare una qualche misura di controllo su alcuni aspetti della propria vita, cosa che già di per sé promuove la salute mentale.

Il gruppo funziona inoltre come opportunità di screening secondario per osservare i bambini in un contesto “naturale”, tra pari, durante attività sociali e per un tempo più lungo, e non durante un colloquio individuale, spesso durante un assessment veloce.  Così è più facile individuare chi ha bisogno di aiuto specialistico, bambini con comportamenti anomali o che hanno svelato nel gruppo situazioni di sofferenza o abuso, a volte parlandone direttamente, a volte attraverso il disegno.

Abbiamo creato gruppi di resilienza per bambini e adolescenti già in Giordania e in Libano, soprattutto per i rifugiati siriani. A volte nei campi profughi, altre nei centri di salute tipo consultori creati nei progetti di AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo). Ci sono molte ricerche internazionali che mostrano come funzionino bene e restituiscano la possibilità di uno spazio sicuro, regolare e strutturato nel mezzo del caos di un’emergenza, di una migrazione forzata, di perdite e lutti (2).

 

Le criticità che emergono nei gruppi di resilienza

Però.

C’è un però che abbiamo spesso osservato all’interno dei gruppi di resilienza. C’è sempre un momento critico, quello in cui un bambino/a, nel mezzo di un gioco, parla del lutto di un genitore (non ho più la mamma…) o di qualcuno disperso (non so più niente di mio papà…), o di un bombardamento cui ha assistito, ecc. Spesso in questo momento il facilitatore, anche se bravissimo a relazionarsi coi bambini ed espertissimo di giochi, non sa come reagire, c’è un attimo di gelo. Questo blocco può essere dannosissimo, può rimandare a quel bimbo o quella bimba che quello è un argomento tabù e che è meglio non parlarne più.

Si può fare qualcosa per evitare che questo accada? Anche se il gruppo non è condotto da psicologi clinici? Noi crediamo di sì, e crediamo che possano essere dati strumenti d’intervento anche a personale non specializzato, specialmente in quei contesti in cui questo personale non è reperibile.

Molti credono che all’interno dei gruppi di resilienza non debbano essere sollevate questioni di natura psicologica perché rischierebbero di non essere gestite bene (lutti, traumi, violenza assistita ecc.). Il problema però è che queste questioni si sollevano da sole, se chi partecipa ai gruppi le ha vissute. Non è qualcosa che si può controllare. Noi abbiamo quindi deciso di dare anche agli operatori non specializzati strumenti per gestire questi momenti, per non lasciare il bambino che li ha sollevati, e anche tutto il gruppo che assiste, con l’idea che ci siano dei temi tabù connessi col dolore, con la rabbia ed in genere con le esperienze negative.

 

L’impiego della psico-educazione nei gruppi di resilienza

Quello che noi proponiamo ha a che fare con la psico-educazione e col prendere contatto con ciò che c’è. Nelle attività dei Resilience Group possono essere inseriti momenti di gioco riguardanti le emozioni: la visione di pezzi del film “Inside-out” per riconoscere le emozioni fondamentali; faccine con diverse espressioni da riconoscere; giochi di gruppo in cui i bambini devono dire come si sentirebbero in una serie di situazioni (belle e brutte) aiutando a sviluppare la loro funzione di monitoraggio metacognitivo, cioè la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni. Sapere cosa proviamo aiuta parecchio a stare meglio, come evidenzia l’approccio di terapia metacognitiva interpersonale. Non riuscire a farlo crea un problema nella capacità autoriflessiva, ed è quindi difficile definire e descrivere pensieri, credenze, immagini e ricordi, lasciandoci in uno stato di confusione, anche dovuto al non riconoscere le risposte corporee che sono aspetti dell’emozione. (3).

E’ importante far dire dove sentiamo le emozioni nel corpo. “Io la tristezza la sento nel pancino”, “Io in gola perché non riesco a parlare”… e così via. Abbiamo disegnato la sagoma del corpo di ogni bambino, e lui/lei disegna ciò che prova nel punto del corpo in cui lo prova usando i colori: per esempio, il colore rosso se prova rabbia, nero per la tristezza, giallo per la gioia, blu per la paura, ecc.

Importante anche la normalizzazione delle emozioni: “Come ti senti a pensare tua mamma che non c’è più? Ti manca? Sei triste? Beh, è normale… Chi altro ha provato questo? Chi conosce un altro bambino che ha perso la mamma?”. Normalizzare le emozioni, soprattutto quelle brutte legate agli eventi negativi. Imparare a riconoscere ciò che si prova e a contestualizzarlo senza farsene spaventare, prendendo atto del fatto che non siamo i soli a provare certe cose e che certe emozioni sono naturali in risposta ad alcuni avvenimenti.

Cosa fare insieme ai bambini poi con queste emozioni? Per esempio si può disegnare la tristezza per farla andare via, disegnare la rabbia, perché disegnandola non facciamo male a nessuno, e guardandola diminuisce. Ma possiamo anche disegnare la gioia, le cose belle che abbiamo fatto nella nostra vita e le risorse che abbiamo, le nostre qualità, e disegnare un “posto sicuro”, o un bel ricordo a cui tornare per riviverne le emozioni (qui abbiamo trovato utilissimo aggiungere la stimolazione bilaterale dell’EMDR, anche fatta sotto forma di gioco come nell’ “abbraccio della farfalla”, in cui si incrociano le braccia facendo un lieve tapping alternato con le mani, simulando il movimento di due piccole ali) (4).

Utile anche misurare l’entità delle emozioni: quanto è forte ciò che senti da 0 a 10? Questo anche per poter successivamente misurare le variazioni nel termometro delle emozioni, un abbassamento di quelle negative e magari un innalzamento di quelle positive.

Per aiutare l’elaborazione del lutto può invece essere utile disegnare ciò che si è fatto di bello con la persona che non c’è più; disegnare un bel ricordo di lei, o cosa si avrebbe voluto fare con lei. E anche riflettere insieme su come possiamo onorare chi non c’è più, e per onorarne la memoria. Per esempio fare un bel disegno per lei, mandarle un pensiero gentile ecc. (5, 6).

Tutto questo aiuta a parlare di ciò che è difficile verbalizzare, ma proprio verbalizzandolo lo capiamo meglio, prendiamo confidenza e ci fa meno paura. Bisogna fare amicizia con la paura quando la paura è di casa. Imparare a riconoscere la rabbia e a non sentirci sbagliati e cattivi quando la proviamo, perché solo così riusciremo a modularla. E ricordare le esperienze belle vissute, che saranno nostre per sempre e che sono i mattoncini su cui costruire il futuro.

Il ruolo del perfezionismo e del workaholism nella sindrome del burnout: uno studio sperimentale – Riccione, 2017

Il ruolo del perfezionismo e del workaholism nella sindrome del burnout: uno studio sperimentale 

Carlucci Chiara, D’Alessandro Rina, Di Ridolfo Giorgia, Solomita Marianna Aurora,
Lorenzini Roberto, Mezzaluna Clarice, Tripaldi Simona (*)
(*) Studi Cognitivi, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo – Comportamentale, Milano, Sede di San Benedetto del Tronto (AP)

 

Una serie di ricerche dimostra che il costrutto multidimensionale del Perfezionismo e la Workaholism siano precursori del Burnout, rilevando un effetto mediazionale della Workaholism nella relazione tra Perfezionismo e Burnout. Sembrerebbe infatti che i perfezionisti abbiano più probabilità di diventare dipendenti dal lavoro rispetto ad altri, e i maniaci del lavoro possiedano un rischio di sviluppare Burnout superiore rispetto ad altri (Taris, 2010).

Scopo del lavoro è lo studio del tratto multidimensionale del Perfezionismo in relazione a due patologie lavorative: Workaholism e Burnout.
Nello specifico si intende indagare: le relazioni presenti tra Perfezionismo, Workaholism e Burnout; il ruolo predittivo di Perfezionismo e Workaholism sul Burnout; se l’associazione tra Perfezionismo e Burnout sia mediata dalla Workaholism.

Il campione è costituito da 295 lavoratori di aziende e ospedali; fascia d’età compresa tra i 20 e i 60 anni.

Ogni soggetto ha compilato i seguenti test: Stress Burnout Inventory (SBI), Multidimensional Perfectionism Scale (MPS), Work Addiction Risk (WART), State Trait Anxiety Inventory – Ansia di Stato (STAI), Beck Depression Inventory-II (BDI-I).

Nell’esaminare i dati sono state elaborate analisi di correlazione, regressione e mediazione.

I risultati evidenziano le correlazioni positive del Burnout con tutte le altre variabili in esame, confermando in questo modo la prima ipotesi della ricerca.

Le analisi predittive confermano una predizione positiva della Workaholism sul Burnout, mentre, rispetto al Perfezionismo, si rileva che l’unica sottoscala predittrice è “Critiche genitoriali”. Inoltre le analisi mediazionali, oltre a confermare il ruolo mediatore della Workaholism tra Perfezionismo e Burnout, mettono in luce un effetto diretto e indiretto della sottoscala “Critiche Genitoriali” sul Burnout.

In linea con le ricerche precedenti, lo studio ha messo in rilievo le relazioni significative del Burnout con Stress, Ansia e Depressione, confermando il ruolo predittivo del Perfezionismo (con particolare riferimento alla variabile delle “Critiche Genitoriali”) sullo sviluppo del Burnout, e l’effetto mediazionale della Workaholism nella relazione tra Perfezionismo e Burnout (Taris, 2010).

I dati emersi consentono di ipotizzare che un soggetto con una storia di criticismo genitoriale potrebbe essere maggiormente predisposto, in contesti lavorativi stressanti e con un carico di lavoro eccessivo, a sviluppare una delle sindromi oggetto dello studio.

 

Che c’è di male nel sentirsi speciali? Trasformare il narcisismo in un vantaggio per sé e per gli altri (2016) di Craig Malkin – Recensione del libro

A quanto pare siamo nel pieno di una “epidemia di narcisismo ”, nel libro Che c’è di male nel sentirsi speciale l’autore Craig Malkin ci aiuta a superare ciò che vi è di male, e ad abbracciare ciò che vi è di buono, nel sentirsi speciali.

 

Nel libro “Che c’è di male nel sentirsi speciale” l’autore Craig Malkin ci aiuta non solo a comprendere le persone che ci circondano (quelle con cui vivete e lavorate) e a trattare con loro, ma anche aiutare a comprendere meglio noi stessi. Il libro è di ottimo aiuto a superare ciò che vi è di male, e ad abbracciare ciò che vi è di buono, nel sentirsi speciali.

Il libro si suddivide in tre sezioni: la prima descrive cos’è il narcisismo, la seconda descrive le origini del narcisismo e la terza descrive come riconoscere ed affrontare il narcisismo.

Chiunque usa la parola narcisismo: l’uomo della strada, attori, critici sociali, terapeuti, un giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, il Papa. A quanto pare siamo nel pieno di una “epidemia di narcisismo” ed è facile vedere perché il termine sia onnipresente. Nulla fa parlare di più la gente di una malattia che si va diffondendo, specialmente se, come sembra temere Ben Affleck, la condizione è terminale.

 

Il narcisismo: distruttivo o funzionale?

Ma che cosa significa esattamente narcisismo? Per una parola che viene infilata nei discorsi con tanta frequenza e tanta paura, la sua definizione sembra vaga in modo preoccupante. Colloquialmente, è diventata poco più di un insulto popolare: si riferisce a un senso eccessivo di sé, ammirazione di sé, centratura su di sé, egoismo, importanza solo di sé.

La stampa è probabile che affibbi questa descrizione a qualsiasi celebrità o qualsiasi politico i cui tentativi di farsi pubblicità o le abitudini egoistiche siano finiti fuori controllo. Ma è tutto qui il narcisismo? Vanità? Ricerca dell’attenzione? Anche negli ambienti della psicologia il significato è fonte di confusione. Il narcisismo può essere un tratto sgradevole ma comune della personalità, o un disturbo raro e pericoloso della salute mentale. Ma facciamo attenzione, perché fra i ricercatori nel campo della salute mentale c’è una forte inclinazione a pensare che non debba essere affatto da considerare una malattia.

Il narcisismo può essere dannoso, è vero, e il web è pieno di articoli e blog di persone che hanno sofferto a causa di individui estremamente narcisisti: amanti, partner, genitori, fratelli e sorelle, amici e colleghi. Le loro storie sono commoventi quanto spaventose. Ma questa è solo una piccola parte del narcisismo, non il quadro completo. Oggi, invece, ha cominciato a emergere una nuova sorprendente concezione, che mette in luce tutti i modi in cui il narcisismo sembra anche aiutarci. Offre addirittura qualche speranza di cambiamento quando le persone che amiamo corrono il rischio di scomparire in se stesse per sempre.

Il narcisismo è più di una macchia ostinata del carattere, di una grave malattia mentale o di una malattia culturale in via di rapida diffusione, trasmessa dai social media. Assumere che si tratti di un problema non ha più senso che farlo se parlassimo di battito cardiaco, di temperatura corporea o di pressione sanguigna. Perché, in effetti, è una tendenza umana normale e pervasiva: l’impulso a sentirsi speciali.

Negli ultimi venticinque anni circa, gli psicologi hanno compilato enormi quantità di dati empirici in base ai quali la maggior parte delle persone sembra convinta di essere migliore di quasi tutti gli altri sulla faccia della Terra. Questo può portarci solo a una inevitabile conclusione: il desiderio di sentirsi speciali non è uno stato mentale riservato a rompiscatole arroganti o sociopatici.

Si è scoperto che chi si vede migliore della media è più felice, più socievole e gode spesso di una migliore salute fisica dei suoi simili più umili. La baldanza nella sua andatura è associata a una serie di qualità positive, come creatività, leadership, grande autostima, che possono favorire il successo nel lavoro. L’immagine rosea che ha di sé gli dà sicurezza e lo aiuta a far fronte alle difficoltà, anche dopo un fallimento devastante o una perdita orribile.

Sentirsi speciali sembra aiuti anche chi sopravvive a una tragedia ad affrontare il futuro con minore paura e maggiore speranza (indagine effettuata con i sopravvissuti alla tragedia dell’11 settembre) Risulta vero anche il contrario: le persone che non si sentono speciali spesso soffrono di depressione e ansia; è anche meno probabile che ammirino i loro partner. Non è che la loro visione del mondo sia sbagliata; molto spesso è molto più accurata rispetto a quella di persone che hanno un’alta opinione di sé. Ma sacrificano, per quel realismo, la loro felicità; vedono se stesse, i propri partner e il mondo stesso in una luce un po’ più offuscata. I ricercatori lo definiscono l’“effetto più-triste ma più-saggio”. È un’ironia della sorte, in un certo senso: è il contrario di quel che ci è stato insegnato sul narcisismo. Non è un male, ma un bene sentirsi un po’ migliori dei nostri simili, sentirsi speciali.

In effetti, potremmo averne bisogno. Dove comincino i problemi (se il narcisismo sia dannoso o aiuti, se sia sano o malato) dipende totalmente dal grado in cui ci sentiamo speciali.

Il narcisismo, a quanto pare, copre un ampio spettro di gradazioni. Se moderato può aprire la nostra mente e rafforzare il senso del nostro potenziale, ispirando la nostra fantasia e accendendo la passione per la vita. Può addirittura rendere più profondo il nostro amore per familiari, amici e partner. Il fattore di gran lunga più potente per prevedere il successo nelle storie d’amore è la tendenza a vedere i partner come migliori di quel che sono in realtà. Lo definisco “sentirsi speciali per associazione”.

Recentemente due psicologi, Benjamin Le dello Haverford College e Natalie Dove della Eastern Michigan University hanno passato in rassegna oltre cento studi che riguardavano un totale di circa quarantamila persone impegnate in relazioni sentimentali e hanno trovato che la durata di una coppia dipendeva spesso non dal fatto che i partner avessero personalità vincenti, una solida autostima o sentimenti di vicinanza, ma dal fatto che una o entrambe le persone avessero illusioni positive, cioè che vedessero il partner come più intelligente, più talentuoso e più bello di quanto non fosse secondo un metro oggettivo.

Credere di tenere per mano la persona più stupenda che ci sia nella stanza fa sentire speciali anche noi.

Un narcisismo moderato può rafforzare l’amore, ma se diventa troppo può diminuirlo o addirittura distruggerlo. Chi sviluppa una dipendenza dal sentirsi speciale diventa presuntuoso e arrogante. Smette di pensare che il partner sia la persona migliore o la più importante nella stanza, perché ha il bisogno di pretendere per sé quella qualifica. E perde la capacità di vedere il mondo da qualsiasi altro punto di vista che non sia il proprio.

Questi sono i veri narcisisti e, nei casi peggiori, esibiscono anche due altri tratti di una cosiddetta “triade oscura”: una totale mancanza di rimorso e una propensione per la manipolazione. Il pericolo, quindi, è in agguato verso le estremità della scala del narcisismo. Solo nel mezzo, dove il bisogno di emergere fra sette miliardi di altri esseri umani non ci rende ciechi ai bisogni e ai sentimenti degli altri, stanno la salute e la felicità. Come la maggior parte delle cose nella vita, un narcisismo sano si riduce al trovare il giusto equilibrio. Al cuore del narcisismo sta un antico dilemma: quanto dobbiamo amare noi stessi e quanto dobbiamo amare gli altri? Il saggio e studioso ebreo Hillel il Vecchio riassumeva il dilemma in questo modo: “Se non sono per me stesso, chi sono? E se sono solo per me stesso, allora che cosa sono?”. Per rimanere sani e felici, abbiamo tutti bisogno di investire in una certa misura in noi stessi. Abbiamo bisogno di una voce, di una nostra presenza, per avere un impatto sul mondo e sulle persone intorno a noi, altrimenti, alla fine diventiamo nulla

 

Varietà di “specialità”: narcisisti estroversi, introversi e altruistici

Senza dubbio abbiamo incontrato qualche narcisista estroverso: è il tipo di narcisista di cui si sente spesso parlare, quello di cui tanto si discute. Sono persone chiassose, vanitose e facili da individuare. Sbandierano la loro ricchezza e quel che possiedono, si affannano per essere al centro dell’attenzione in ogni occasione, lottano incessantemente per salire nella gerarchia del luogo in cui lavorano. Il narcisismo però si manifesta anche in altri modi. Una spinta intensa a sentirsi speciali può produrre due altri tipi di comportamento narcisistico: quello introverso e quello altruistico. I narcisisti introversi (o “vulnerabili” o “nascosti” o “ipersensibili”), come ogni altro narcisista, sono convinti di essere meglio degli altri, ma temono così visceralmente le critiche da sfuggire le persone e l’attenzione, quasi vittime del panico. La loro timidezza e riservatezza esteriore fanno sì che vengano facilmente scambiati per persone ritrose.

Credono di possedere un’intelligenza non riconosciuta e talenti nascosti; si vedono come più bravi a comprendere le complessità del mondo che li circonda, più in sintonia con quelle complessità. Quando devono definirsi, si dichiarano concordi con affermazioni come Sento di essere diverso per temperamento dalla maggior parte delle persone. Agli occhi di un osservatore appaiono fragili e ipersensibili. Nel corso di una conversazione, è facile che si agitino subito per una parola fuori posto, per un cambiamento di tono o per un breve allontanamento dello sguardo e chiedano Che cosa volevi dire? o Perché ti sei girato? Nei narcisisti introversi vi è una forma di rabbia: un ribollire di amarezza per il “rifiuto” del mondo a riconoscere i loro doni speciali.

I narcisisti altruisti, non sono concentrati sull’emergere, sull’essere lo scrittore più bravo, il ballerino più dotato o il genio più incompreso o trascurato. Si considerano invece particolarmente attenti, comprensivi ed empatici. Dichiarano con orgoglio quanto devolvono in opere di beneficenza o quanto poco spendono per sé. Vi chiudono in un angolo durante una festa e vi dicono in confidenza, tutti eccitati, quanto si sono dedicati al loro vicino in lutto: Io sono così, sono nato per ascoltare! Si credono migliori del resto dell’umanità, ma amano il loro status di persone che danno, non che prendono. Sono d’accordo con affermazioni come Sono la persona più disponibile che conosco e Sarò famoso per le buone azioni che ho compiuto. Come si può vedere, non tutti i narcisisti si presentano allo stesso modo. Ricordiamoci però: nonostante tutte le differenze, condividono tutti una motivazione dominante, ciascuno è disperatamente avvinghiato al sentirsi speciale. Semplicemente, lo fa in modi diversi.

 

Da 0 a 10: le varietà del narcisismo

Invece di considerare il narcisismo in termini di tutto o nulla, immaginiamo un segmento che va da 0 a 10 con il desiderio di sentirsi speciali che cresce progressivamente nel passaggio da sinistra a destra.

 

La “scala” del narcisismo

Che c e di male nel sentirsi speciali Trasformare il narcisismo in un vantaggio per se e per gli altri (2016) di Craig Malkin - Recensione del libro

 

I due estremi, 0 e 10, non sono punti in cui la vita sia particolarmente sana. A 0 le persone non godono mai della sensazione di essere speciali in qualche modo. Forse non l’hanno mai provata. A prima vista, potrebbe sembrare sano. Alla maggior parte di noi è stato inculcato, o per motivi religiosi o familiari o culturali, che qualsiasi cosa anche lontanamente si avvicini al desiderio di un trattamento o di un’attenzione speciale è male.

Il nostro disgusto è riassunto dalla domanda: Che cosa ti renderebbe così speciale? Riconosciamo tutti il rabbuffo nella domanda retorica. Quello che si vuol dire realmente è Ti stai comportando come se fossi speciale. Smettila! Nella maggior parte delle culture in tutto il mondo spesso l’umiltà è considerata il massimo della virtù. Nessuno ha il diritto di sentirsi speciale in alcun modo, si arguisce, perciò dobbiamo onorare le persone che non vi indulgono mai, questo significa realmente: totale mancanza di stima di sé, senso di pura ordinarietà, timore di non meritare elogi, amore o attenzione più di altri, quali che siano le circostanze. Non ci vuole molto per capire che da qui ha origine una serie di problemi. Vivere allo 0 significa che non solo non accettereste simpatia e assistenza, ma che potreste addirittura respingerle. La vita all’altro estremo è altrettanto misera. Mentre chi si trova allo 0 evita costantemente le luci della ribalta, chi si colloca all’estrema destra della scala si dà continuamente da fare per essere sotto i riflettori oppure lo desidera ardentemente, anche se senza clamore. Nella sua mente smette di esistere quando gli altri non riconoscono la sua importanza. È dipendente dall’attenzione e, come per molti altri casi di dipendenza, farebbe di tutto per avere la sua dose, così anche l’amore autentico viene in seconda istanza.

Al punto 10 la nostra umanità collassa sotto il peso della posa vuota e dell’arroganza. Trovarsi a 10 a 9 non è molto meglio. Chi è a 9 è ancora nei domini del narcisismo oscuro: può vivere senza sgomitare per arrivare sotto i riflettori, ma a costo di grande sofferenza, tanto che normalmente ha bisogno di un aiuto professionale per rompere quell’abitudine. Le persone a 1 soffrono altrettanto: la loro avversione a sentirsi speciali è comunque senza cedimenti. Possono tollerare un po’ di attenzione in occasione del loro compleanno, ma la odiano. Avvicinandoci a 2 e 3, 7 e 8 lungo la scala, ci lasciamo alle spalle la rigidità compulsiva che si trova nei pressi di 0 e 10 ed entriamo nell’area dell’abitudine. In questa zona la flessibilità dei sentimenti è maggiore e di conseguenza vi sono maggiori possibilità di cambiamento. A sinistra, a 2, le persone amano sentirsi speciali, anche se non molto spesso; a 3 possono anche avere, nel loro intimo, sogni di grandezza. Sulla destra, a 8, ogni tanto possono mettere da parte i loro sogni fiammeggianti e darsi pensiero di altre persone; a 7 hanno iniziato di nuovo a dare segni di umanità, ogni tanto riescono anche ad ammettere di aver commesso errori comuni.

L’intervallo più sano è al centro, fra 4 e 6: questo è il mondo della moderazione. Anche qui si possono trovare ambizioni intense e ogni tanto l’arroganza, ma il sentirsi speciali non è più compulsivo, è solo divertente. A 5, proprio al centro, non c’è il bisogno costante di sentirsi (o di evitare di sentirsi) speciali. Qui le persone nutrono sogni vivaci di successo e grandezza, ma non ci sguazzano per tutto il tempo. Il 6 rimane comunque nell’intervallo sano: è perfettamente possibile avere un forte impulso a sentirsi speciali e rimanere comunque sani. Il narcisismo sano sta tutto nel passare senza soluzione di continuità fra l’egoismo e l’attenzione altruistica (far visita allo stagno di Narciso, ma mai tuffarsi fino in fondo per inseguire il proprio riflesso).

 

Aspetti demografici: età, genere, carriera

Il narcisismo è più diffuso fra i giovani: le persone che hanno meno di venticinque anni sono tendenzialmente le più narcisiste, mentre l’impulso a sentirsi speciali diminuisce con il passare degli anni.

Nella maggior parte delle società, le donne vengono criticate se sono loquaci e decise, mentre quelle stesse qualità sono incoraggiate negli uomini. Non sorprende quindi che vi sia una leggera differenza nel narcisismo abituale e una forte differenza, invece, in quello di tipo dipendente. Per una donna, una cosa è avere estrema fiducia in sé ed essere ipercompetitiva, ma l’essere tremendamente arrogante e aggressiva si allontana drasticamente dalle idee comuni di come una donna debba comportarsi.

Il narcisismo altruistico sembra equamente distribuita fra uomini e donne. I narcisisti altruistici possono credere dentro di sé di essere i genitori più bravi, i migliori amici o i più umanitari del mondo, oppure salire sul palcoscenico e gridarlo a tutti. Gli uomini sono più numerosi fra i più espliciti, mentre le donne superano gli uomini nel campo dei più silenziosi, ma nel complesso le differenze di genere sono poche. Cosa interessante, anche i narcisisti introversi sembra siano distribuiti abbastanza equamente fra i sessi.

Esistono professioni che sembrano esercitare un’attrazione magnetica su persone che appartengono a particolari livelli dello spettro. Quelle più vicine all’estremità superiore della scala tendono a gravitare verso carriere in cui si danno possibilità di potere, apprezzamento e fama. I presidenti degli Stati Uniti, in media, sembra siano più narcisisti della maggior parte dei comuni cittadini, secondo lo psicologo Ronald J. Deluga del Bryant College, che ha usato informazioni biografiche su tutti i presidenti, da George Washington a Ronald Reagan, per dar loro una valutazione in base all’NPI. Come era prevedibile, presidenti con un forte ego come Richard Nixon e Ronald Reagan hanno avuto un punteggio più elevato rispetto a leader più riservati come Jimmy Carter e Gerald Ford, ma quasi tutti sono arrivati a livelli abbastanza elevati da poter essere considerati “narcisisti”. Anche gli psicologi Robert Hill e Gregory Yousey della Appalachian State University hanno studiato le tendenze narcisiste dei politici (presidenti esclusi) e le hanno messe a confronto con quelle di bibliotecari, docenti universitari e religiosi. Ancora una volta i politici si sono classificati più in alto di ogni altro gruppo. Religiosi e professori sono risultati i più sani, i bibliotecari i meno narcisisti.

Le arti dello spettacolo sono un campo che esercita una forte attrattiva sui narcisisti – nulla di cui sorprendersi, visto che si parla di spettacolo; ma anche qui si possono trovare sfumature diverse di narcisismo, se si guarda con particolare attenzione attori e comici, fra le persone di spettacolo, stanno nel mezzo riguardo al narcisismo (le donne sono più narcisiste degli uomini, probabilmente perché l’aspetto è più importante per il loro successo). I musicisti sono i meno narcisisti. E chi sono i più narcisisti? (Rullo di tamburo…) Le stelle dei reality televisivi.

 

Le radici: la formazione di ecoisti e narcisisti

I due fattori più importanti nel determinare quel che diventiamo con il passare degli anni sono la natura e l’ambiente, ma quanto ciascuno dei due fattori contribuisca è argomento di un dibattito lungo e spesso acceso. Quando si parla di narcisismo, però, il jolly è in mano all’ambiente. Tutti noi siamo nati con un impulso a sentirci speciali (fa parte del nostro temperamento innato), ma se finiamo per atterrare sulle ali estreme dello spettro del narcisismo, diventando timida tappezzeria o presuntuosi e vanagloriosi, dipende soprattutto dall’ambiente che ci circonda.

 

L’ambiente che ci circonda ci fa scivolare verso l’alto o verso il basso

La fondamentale esperienza infantile che spinge i bambini troppo in alto o troppo in basso lungo la scala è sempre la stessa: un amore incerto.

Per posizionarsi al centro dello spettro, i bambini devono sentire che, a prescindere dal loro comportamento, possono sempre contare sulla certezza che le persone che li allevano li ascoltino e offrano loro conforto quando si sentono tristi, soli o spaventati. Questo è il carattere distintivo dell’amore sicuro e, quando non ne sono oggetto, i bambini modellano il loro comportamento in modo da cercare di guadagnarsi amore in modi malsani, come andare a caccia di attenzione (narcisisti) o tenersi nell’ombra.

Narcisisti si diventa in vari modi. I genitori che sembra notino o mostrino apprezzamento per i loro figli solo quando emergono (laureandosi a pieni voti, diventando campioni della squadra universitaria o reginette di bellezza) li predispongono a cercare con ogni mezzo applausi e approvazione per il resto della loro vita. Gli estroversi che crescono in queste condizioni è probabile finiscano nel gruppo dei narcisisti che inizialmente sembrano affascinanti ma poi si rivelano sgradevoli se conosciuti più da vicino; gli introversi, invece, possono diventare adulti fragili, che fremono di rabbia o si chiudono a riccio quando le persone non prestano un’attenzione rapita a tutto quello che dicono.

Ma tanto gli introversi quanto gli estroversi finiscono per salire nello spettro se i loro genitori si immischiano e interferiscono costantemente nella loro vita, fraintendendo e ignorando il loro bisogno di riservatezza o di spazio. Le persone che affrontano il compito di genitori in questo modo sono inevitabilmente a loro volta narcisisti, che danno sempre la precedenza al proprio desiderio di controllo o di attenzione rispetto al bisogno di autonomia dei figli, i quali imparano che, ogni volta che lasciano spazio ai bisogni di qualcun altro, rinunciano completamente alla propria identità. Se sono abbastanza estroversi, combatteranno per la loro libertà, alzando il volume e chiudendo le orecchie alle voci degli altri, esattamente come hanno fatto i loro genitori con loro. La soluzione qui sembra essere: se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro. Invece i genitori che sembrano cronicamente fragili sul piano emotivo (ansiosi o irosi o depressi) possono far sì che i loro figli imparano che l’unico modo per guadagnarsi amore è fare il minimo rumore possibile nella vita delle persone circostanti. Non posso chiedere di più ai miei genitori – potrebbero urlare o inveire – ma magari, se chiedo pochissimo, mi vorranno bene. L’idea è che bambini cresciuti eccessivamente nella bambagia finiscano per sentire, come Narciso, di avere un’origine divina.

Non possono sbagliare. Sono più in gamba, dotati di più talento, più belli di tutti gli altri bambini. Continuare a dire ai figli che sono speciali anche quando non hanno fatto niente di particolare, così va il ragionamento, diventeranno esseri umani egocentrici e vuoti. Continuare a trattarli come se fossero principi o principesse e cominceranno a comportarsi come se fossero di sangue reale. Potrebbero persino cominciare a trattare gli altri come se fossero i loro servitori.

 

Narcisismo sano: goditi i tuoi sogni

Godersi le fantasie di grandezza senza diventarne dipendenti richiede una capacità di sentirsi bene con se stessi – avere un forte senso di autostima e di valore, godere dell’attenzione e degli elogi – ma senza un bisogno costante di mettersi in mostra. Quanti riescono a ottenere questo risultato si credono capaci di cose straordinarie, ma non rimangono devastati quando periodicamente non ce la fanno. Sentono una spinta a cercare le luci della ribalta, ma possono abbandonare la ricerca quando il costo diventa eccessivo. I genitori aiutano i figli a dare un nome ai sentimenti, come tristezza, ansia, rabbia o paura, e a parlarne. Insegnano ai figli come rimarginare le ferite emotive prendendosi la responsabilità dei propri errori e ascoltando il dolore che hanno provocato. In conseguenza di queste molte lezioni emotive, i bambini imparano a dare e ricevere aiuto e amore. Questa, dunque, è la ricetta del narcisismo sano: una famiglia che incoraggia (ma non pretende) sogni di grandezza e un modello sano di amore e intimità. Mescolate e sommate il tutto e otterrete qualcuno che vive vicino al centro dello spettro.

 

Ecoismo sottile

Ecoisti sottili si concentrano sui bisogni degli altri. È una strategia inconscia per far sì che gli altri non li respingano; nella loro mente, quanto meno “spazio” occupano con le loro richieste e le loro preoccupazioni, tanto più gradevoli o amabili diventano. Per loro va bene essere notate, purché siano notate per quello che fanno per gli altri: essere partner che danno sostegno, lavoratori produttivi o ascoltatori attenti. Possono anche avere meravigliose relazioni affettive. L’unico indizio che vivono è la natura unidirezionale del loro sostegno.

Con gli ecoisti sottili si ha sempre la sensazione di aver bisogno di loro molto più di quanto loro abbiano bisogno di noi. Preferiscono di gran lunga essere sulla poltrona del terapeuta, non perché li faccia sentire superiori (come i narcisisti comuni), ma perché li distoglie dai loro desideri e dalle loro aspettative. Possono chiedere piccole cose, come regali di compleanno o di anniversario, o anche un po’ più di attenzione da un partner, ma stanno molto attenti a quanto chiedono, sempre timorosi di superare il confine che li separa dall’egoismo. In certi periodi si possono sentire felici e soddisfatti dei loro amici e delle persone che amano, ma solo fino a che i loro bisogni non diventano più difficili da contenere. I problemi crescono quando raggiungono nella loro vita dei punti in cui effettivamente vogliono di più.

 

Narcisisti sottili

I narcisisti sottili invece spesso sono solo cattivi ascoltatori, perennemente preoccupati della figura che fanno rispetto a tutti quelli che valgono di meno. Poiché vincere è un modo facile per sentirsi speciali, sono ossessionati dalle loro performance al lavoro oppure si confrontano costantemente con chiunque li superi per aspetto, talento o traguardi raggiunti. È come se stessero continuamente a consultare nella loro testa un immaginario tabellone con il loro punteggio. Tutti in realtà lo facciamo, ogni tanto, in particolare quando l’ambiente circostante lo favorisce.

Molte scuole, per esempio, fanno leva sulla competizione ed è facile rimanere fermi nel posto che si occupa in questa sorta di classifiche. Ma quando il nostro “punteggio”, in base a qualsiasi metro (che si tratti di aspetto, di talento o di capacità di aiuto), diventa una preoccupazione perpetua, vuol dire che siamo scivolati nel narcisismo malsano. In un modo o nell’altro, quando si parla con loro, si ha la sensazione che, invece di introiettare quello che gli si sta dicendo, stiano solo aspettando che si smetta di parlare, così che possano riprendere a seguire il filo del loro pensiero. Nella loro preoccupazione per la spinta a sentirsi speciali, dimenticano che il narcisismo non è l’unico modo, e nemmeno il migliore, per sentirsi in pace con se stessi. In certi momenti, la spinta a sentirsi speciali prende il sopravvento; queste persone non mentono, non rubano, non imbrogliano, né insultano gli altri, ma diventano così ossessionate dalla loro posizione in classifica nel mondo che non riescono più a vedere chi sta accanto a loro. Per un certo periodo possono essere affascinanti, attente, carismatiche e sensibili; a quanti sono loro vicini non sembra ci sia qualcosa che non va. Poi, all’improvviso, quella spinta a sentirsi speciali prende il sopravvento.

 

L’impennata dell’entitlement

Tutti abbiamo bisogno, ogni tanto, di sentirci “in diritto” di avere o di fare, così come abbiamo bisogno ogni tanto di sentirci speciali. Nel giorno del nostro compleanno, sentiamo di aver diritto a un po’ più di considerazione o di attenzione. Quando siamo malati, analogamente, possiamo sentire di aver diritto a un po’ più di aiuto. Questo atteggiamento può addirittura aiutarci a dire “no” a richieste irragionevoli e a farci valere quando ci sentiamo maltrattati. Ma questo senso di aver diritto, se raggiunge livelli estremi, diventa un atteggiamento costante per cui il mondo e tutti coloro che ci circondano dovrebbero sostenere il nostro stato elevato. È questo tipo di disposizione che tradisce il narcisista sottile.

L’aver diritto risolve un problema specifico per il narcisista. Per convincerci che siamo meglio degli altri è necessaria la presenza di altre persone, le quali hanno una propria volontà libera. L’unico modo per sostenere un bisogno continuo di torreggiare al di sopra di altri esseri umani è piegarli alla nostra volontà: chiedere riconoscimento, come un re che costringe i suoi sudditi a inginocchiarsi al suo cospetto. All’estremo, il senso di entitlement trasforma le interazioni quotidiane in una droga, un’altra occasione per provare quell’ebbrezza, quella “botta” narcisistica. E quanto più aumenta la dipendenza dal sentirsi speciali, tanto più cresce il senso di “aver diritto” a soddisfare i propri bisogni. Il narcisismo sottile è caratterizzato da impennate di entitlement, cioè i momenti in cui un amico, un partner o un collega, di norma comprensivo, si comporta furiosamente come se il mondo fosse in debito con lui. Di solito queste impennate sono innescate da un’improvvisa paura che il loro status speciale sia in qualche modo minacciato. Fino a quel momento, il bisogno che il mondo ruoti attorno a loro in genere è tenuto sotto controllo, perché non è stato messo in dubbio.

 

Il passaggio dal narcisismo sottile a quello estremo: entitlement e sfruttamento

Se le impennate non producono il rinforzo emotivo necessario, possono farsi così frequenti che l’entitlement diventa sfruttamento. Questo è il segno del passaggio dall’abitudine alla dipendenza. Il progressivo aumento del senso di “avere diritto” si rivela uno degli indicatori fondamentali che permettono di distinguere fra narcisismo sano ed estremo. In effetti, quando il senso di aver diritto raggiunge il picco e diventa sempre più costante, le persone entrano nel territorio della patologia. Lo sfruttamento è quello schema di comportamento per cui si fa qualsiasi cosa sia necessaria per andare avanti o per emergere, compreso far male ad altri. I narcisisti possono soffrire di incredibili periodi di rabbia, tristezza, paura e vergogna – fino ad arrivare a ottenere con il sotterfugio, pretendere, prendere a prestito o rubare la loro successiva dose di attenzione. Se per sentirsi speciali bisogna prendersi il merito del lavoro altrui, così sia. Se devono criticare spietatamente gli altri per sentirsi superiori, anche se questo significa calpestare senza alcun ritegno l’autostima del partner, lo faranno.

Sfruttamento ed entitlement sono strettamente collegati. Se credo veramente di meritarmi di essere trattato come la persona più intelligente, più bella o più premurosa del gruppo, farò in modo che succeda. Non aspetterò un colpo di fortuna o la buona volontà da parte degli altri, così che mi diano quello che voglio; me lo prenderò e basta.  Quando l’entitlement si trasforma in sfruttamento, i bisogni e i sentimenti degli altri cominciano ad avere sempre meno importanza. Tutti abbiamo bisogno ogni tanto di sentirci speciali. Chi soffre di un disturbo narcisistico della personalità, però, ha un bisogno fortissimo, in ogni campo della vita, di essere trattato come se fosse speciale. È anche spinto ad agire come se fosse speciale: sente di averne diritto, ha un atteggiamento da sfruttatore ed è privo di empatia.

Tende a essere estremamente arrogante e sdegnoso, ma può essere anche timido e pieno di vergogna. Molto spesso, oscilla tra i due atteggiamenti: un giorno si sente speciale e il giorno dopo crede di non valere nulla.

In ogni modo, questi narcisisti pretendono attenzione, ammirazione e approvazione o una considerazione speciale, perché non hanno molto il senso di chi sono, indipendentemente da come sono visti dagli altri. E lottano con le unghie e con i denti per far sì che l’impressione che suscitano sia una “buona” impressione. Per la persona con questo disturbo della personalità, gli altri sono semplicemente specchi, utili solo finché riflettono quel modo speciale di presentarsi che anelano così disperatamente di vedere. Se questo significa mettere in cattiva luce gli altri (poniamo, distruggendo i loro progetti al lavoro), pazienza. Dato che la vita è una continua competizione, di solito sono anche rossi dall’invidia per quello che gli altri sembrano avere. E lo faranno sapere.

 

Riconoscere e affrontare il narcisismo patologico: stare all’erta per identificare i narcisisti

Un segno fondamentale: i narcisisti eludono i sentimenti normali di vulnerabilità, come tristezza, paura, solitudine e preoccupazione. In ogni relazione si commettono errori e può succedere di fare del male ad altri. In una brutta giornata, quando abbiamo esaurito la pazienza per i problemi al lavoro o le piccole beghe con i figli, è facile sbottare quando ci viene rivolta dal(la) partner una domanda banale come “Ti sei ricordato di prendere il latte?”. Oppure, persi dentro le nostre preoccupazioni, possiamo trascurare di salutare le persone a cui vogliamo bene con un bacio o addirittura di dire un “ciao”. Piccoli sbagli come questi si possono riparare facilmente: basta dire che ci rincresce e ammettere di aver causato, accidentalmente o intenzionalmente, un dispiacere; e la maggior parte delle persone è in grado di comportarsi così, non appena si tranquillizza. I narcisisti però spesso sembra non siano capaci di mostrare rincrescimento o rimorso perché, come per ogni tipo di vulnerabilità, entrare in contatto in questo modo con le persone amate comporta una condivisione di tutti i sentimenti che il narcisismo patologico vuole nascondere.

 

Campanello d’allarme: fobia delle emozioni

L’interazione umana pone un problema spaventoso per i narcisisti che, nel profondo, sono persone straordinariamente insicure. Uno dei loro metodi preferiti per rafforzare la propria fiducia in se stessi è immaginarsi perfettamente autosufficienti e impenetrabili al comportamento e ai sentimenti degli altri. Di conseguenza, non lasciano trasparire quando si sentono scossi o feriti da qualcosa che avete detto o fatto. Esplodono invece in crisi di rabbia, che è una cosa che facciamo tutti quando siamo abbastanza sconvolti. Ma i narcisisti combinano con questo una esibizione di superiorità. Diventano altezzosi, possono addirittura mettere in evidenza tutte le vostre mancanze. Il loro obiettivo principale, in tutta la loro furia, è nascondere come avete colpito i loro sentimenti. Alcuni narcisisti non ammetteranno nemmeno la loro rabbia e diranno “Non sto mica urlando”, proprio mentre sono nel mezzo di una sfuriata terrificante.

Arrivano fino a questo punto per evitare di ammettere le loro emozioni. Ma la fobia delle emozioni può anche manifestarsi in modo molto più tranquillo. Poiché il narcisismo patologico è un tentativo di evitare ogni sentimento di vulnerabilità, come la tristezza o la paura, i narcisisti spesso stanno alla larga non solo dalle proprie emozioni, ma anche da quelle di tutti gli altri.

 

Campanello d’allarme: lo scaricabarile emotivo

Mentre la fobia delle emozioni segnala un disagio profondo nei confronti dei sentimenti, lo scaricabarile emotivo è un modo per liberarsi di quelle emozioni. È una forma più insidiosa di proiezione, in cui le persone negano i propri sentimenti sostenendo che appartengono a qualcun altro. Dopo non aver mai risposto al telefono per giorni, un’amica può avvicinarvisi e chiedervi: “Ce l’hai con me per qualcosa?”. Dato che non ha mai risposto ai messaggi che le avete lasciato, è molto probabile che quella irritata sia lei ma, anziché riconoscere quel sentimento come proprio, accusa voi di avercela con lei.

Nello scaricabarile emotivo, però, le persone non si limitano semplicemente a confondere i propri sentimenti con quelli di qualcun altro, vi spingono in realtà a provare quelle emozioni che per parte loro cercano di ignorare. In questo caso,vostro marito può lanciarsi in una filippica, lamentandosi di voi perché siete “sempre così arrabbiata”. Quando avrà finito, probabilmente vi sentirete effettivamente arrabbiate, anche se all’inizio non lo eravate. Questo è lo scaricabarile, il passaggio della patata bollente. Il vostro partner si libera della sua rabbia e la suscita in voi. È come se dicesse: “Non voglio questo sentimento. Ecco, prenditelo tu”.

 

Campanello d’allarme: controllo subdolo

Un altro campanello d’allarme è il bisogno costante di avere il controllo della situazione. In generale, i narcisisti non si sentono a loro agio a chiedere aiuto o a far sapere direttamente ciò di cui sentono il bisogno, perché questo li mette di fronte all’evidenza che dipendono da altri. Per questo, spesso organizzano gli eventi in modo da ottenere quello che vogliono. È un modo molto comodo per non dover mai chiedere nulla.

Gli effetti del controllo narcisistico sottile sono graduali. Lentamente, senza nemmeno rendervene conto, cadete nell’orbita delle preferenze e dei desideri di qualcun altro, finché un giorno vi svegliate e vi rendete conto di aver completamente dimenticato quello che volevate voi. È più una guerra di logoramento della vostra volontà che un assalto diretto alla vostra libertà. E, alla fine, il narcisista ottiene quello che vuole senza mai doverlo chiedere.

 

Campanello d’allarme: collocare le persone su un piedistallo

Quando le persone collocano compulsivamente su un piedistallo amici, amanti e superiori, si tratta semplicemente di un altro modo per sentirsi speciali. La logica è di questo genere: Se qualcuno di così speciale vuole me, allora anch’io devo essere molto speciale. A piccole dosi, non c’è nulla di sbagliato in questo. Fa parte del narcisismo sano la propensione a vedere i nostri amici e partner come migliori di quel che sono in realtà. Elevando le persone che ci stanno a cuore ci sentiamo a nostra volta innalzati. Per questo il vedere il partner attraverso lenti rosa è uno dei più robusti indicatori che fanno prevedere la buona riuscita di una relazione. C’è una differenza, però, fra l’ignorare le imperfezioni degli altri e cercare di eliminarle del tutto – e questo è ciò che narcisisti tentano di fare. Non vorrebbero neanche pensare a tutti gli aspetti per cui siete esseri umani comuni, perché le persone imperfette sono sempre una delusione. L’adorazione di un idolo ha sempre un prezzo, e il più evidente è l’assenza di una connessione più profonda. Guardare dal basso in alto qualcuno, quel tanto che basta a proteggere la relazione, concedendo all’altro o all’altra il beneficio del dubbio, ci consente di tenere sotto controllo le delusioni e di rimanere vicini. Collocare qualcuno su un piedistallo e pretendere che ci rimanga tranquillamente, invece, guasta l’intimità. Lo spazio fra due persone può essere verticale, ma è comunque una distanza.

 

Campanello d’allarme: immaginare di essere gemelli

È piacevole avere la sensazione di aver trovato l’anima gemella, con le stesse passioni, le stesse paure, le stesse idee e gli stessi interessi. È un po’ come guardarsi allo specchio. Avere un gemello costituisce una fonte costante di convalida. Con un gemello al mio fianco, posso dire a me stesso che le mie idee sono sensate, che i miei desideri sono importanti e che le mie necessità contano. Non ho bisogno neanche di possedere talenti speciali o una bellezza particolare per emergere. Posso distinguermi dalle masse con una relazione meravigliosa e del tutto unica. La fantasia del gemello non richiede neanche l’illusione della perfezione. Possiamo tollerare, o addirittura celebrare i nostri errori e i nostri difetti e sentirci comunque grandi.

I narcisisti spesso entrano in relazione fra loro e producono disastri sotto il bagliore intossicante dell’essere gemelli. È una relazione di mutuo vantaggio: anche le stelle più deboli sembrano illuminare il cielo quando sono in coppia. Per quanto emozionante possa essere, l’effetto gemello non può durare. Non esistono due persone, nemmeno i gemelli siamesi, che siano esattamente identiche. Dopo un po’ di tempo, quando le differenze diventano evidenti, la realtà si impone. Come le persone gestiscano questo cambiamento dice tutto sulla loro capacità di uscire dal narcisismo malsano.

 

Tendenze comuni: famiglia, amici, colleghi e capi

Qualunque dei segni premonitori può presentarsi presto nel corso di una relazione, ma alcuni hanno bisogno di un certo livello di intimità emotiva per manifestarsi a pieno.

In famiglia, per esempio, il narcisismo malsano può manifestarsi facilmente attraverso uno qualunque dei segni premonitori. La fantasia del gemello è uno stratagemma comune del genitore silenziosamente narcisista. Per esempio, una madre che sognava di diventare un’artista può esaltare i primi, per quanto rozzi, tentativi di dipingere della figlia di sette anni, ignorando invece, o addirittura liquidando con un’alzata di spalle, il suo talento per il calcio. Oppure, una sorella narcisista può nutrire il senso di essere più saggia della sorella minore giocando allo scaricabarile emotivo, mettendo in dubbio in ogni occasione le sue decisioni, per quanto ben ragionate (“Sei sicura che sia quello che vuoi fare?”).

Anche gli amici narcisisti applicano tattiche simili. Il vostro migliore amico può esercitare un controllo subdolo mandando a monte i vostri piani per un’uscita serale. Analogamente, può sfuggire a ogni argomento emotivo quando cominciate a parlarne. La tattica che compare di gran lunga più spesso nelle amicizie che in ogni altro tipo di relazione è la fantasia del gemello, che è normale negli adolescenti e nei giovani adulti che hanno superato da poco i vent’anni migliore amico può esercitare un controllo subdolo mandando a monte i vostri piani per un’uscita serale. Analogamente, può sfuggire a ogni argomento emotivo quando cominciate a parlarne. La tattica che compare di gran lunga più spesso nelle amicizie che in ogni altro tipo di relazione è la fantasia del gemello, che è normale negli adolescenti e nei giovani adulti che hanno superato da poco i vent’anni. Ma attenzione! Il gemellaggio crea un potente legame emotivo, poco meno forte di un amore romantico, e i narcisisti sottili spesso sguazzano in questo tipo di intensità di sentimenti. Accade più spesso fra le donne, ma anche i maschi narcisisti ogni tanto “si gemellano”. Il gemellaggio crea un potente legame emotivo, poco meno forte di un amore romantico, e i narcisisti sottili spesso sguazzano in questo tipo di intensità di sentimenti. Accade più spesso fra le donne, ma anche i maschi narcisisti ogni tanto “si gemellano”.

 

Cambiamento e recupero: trattare con amanti, familiari e amici

Quando ci ritiriamo in noi, ingoiando le parole che ci verrebbero alle labbra o camminando sulle uova, non facciamo che rafforzare il narcisismo degli altri. Ricordiamoci sempre che il narcisismo malsano è un tentativo di occultare la normale vulnerabilità umana, in particolare quei sentimenti dolorosi di insicurezza, tristezza, paura, solitudine e vergogna. Se il partner può sopportare di condividere e sentire alcune di queste emozioni, allora c’è ancora speranza. Ma è possibile dare delle spinte gentili ai narcisisti perché escano dal loro nascondiglio solo se siamo disposti a condividere stessi sentimenti di fragilità. Può sembrare semplice, ma in realtà non lo è. Siamo tutti un po’ restii a rivelare il nostro lato più debole, specialmente quando ci sentiamo minacciati. Come prima cosa dobbiamo scendere in profondità con noi stessi.

Le nostre emozioni più ovvie, quelle superficiali, di rado sono anche le più importanti. La frustrazione o la rabbia (o l’ottundimento) che sentiamo davanti all’arroganza e all’insensibilità di un narcisista ci proteggono; proprio sotto questi sentimenti, però, ci sono quelli molto più potenti che di solito siamo riluttanti a condividere. Siamo tristi perché qualcuno che amiamo è diventato così offensivo. Siamo terrorizzati che possa lasciarci o tradirci. Ci vergogniamo che ci abbia colto in fallo (o che sostenga di averlo fatto). Invece di dimostrarlo, però, indossiamo la nostra armatura di protezione. Le lacrime ci scendono sulle guance, ma la nostra voce è piena di rabbia. Oppure chiediamo scusa in continuazione, nascondendo il dolore dietro i “mea culpa”, anche se, dentro di noi, ci sentiamo profondamente feriti. Dobbiamo deporre questa corazza protettiva per dare agli altri la possibilità di comprendere come ci sentiamo veramente – e di rispondervi. Facendo in questo modo si aiuta il narcisista a uscire dai loro bunker emotivi e a raggiungere un’intimità più profonda. E’ importante, però, sentire un certo grado di sicurezza fisica ed emotiva.

Alcuni narcisisti manipolativi sono così abili nel recitare e nell’ingannare che è difficile capire se stanno facendo degli sforzi sinceri o vi stanno solo prendendo in giro. Il che ci porta a un’osservazione ovvia, ma che vale comunque la pena fare: Le persone che amate non possono cambiare se non sono disposte ad ammettere i loro problemi, non importa se sono alcolisti, giocatori compulsivi o narcisisti estremi. Se non riescono a sfuggire allo stato di negazione per arrivare a una qualche versione di “Penso di avere dei problemi”, lasciamo perdere. L’obiettivo qui è trovare qualche capacità di vicinanza reciproca e di reciproco sostegno, il che richiede la condivisione della vulnerabilità, non l’imposizione di regole.

Esistono alcuni modi:

  • Apritevi. cercare di essere espliciti in merito ai nostri bisogni e ai nostri sentimenti. Usare sollecitazioni empatiche. Questo non è solo fondamentale per lo sviluppo di una intimità sicura, ma fa anche impennare l’eccitazione quando si esce insieme. Non c’è niente di più eccitante che condividere tutto quello che si è e sentirsi accettati.
  • Siate padroni dei vostri desideri. Il sesso non ha a che fare con la purezza, ma con l’immaginazione e la libertà. È agire secondo il desiderio così come viene a galla – una verità che i cattivi ragazzi e le cattive ragazze sembra colgano perfettamente. Molti di noi invece sono così preoccupati dei sentimenti delle persone che amano da chiudere i propri desideri in una camicia di forza.
  • Sperimentate con l’arousal. Ogni sentimento intenso può rafforzare l’attrazione. La novità, quando ci esponiamo a nuove esperienze, è un afrodisiaco ben collaudato. Le nuove esperienze innescano il rilascio di dopamina, una sostanza chimica che nel cervello è associata a eccitazione e gratificazione. La dopamina ci spinge a tornare a chiedere ancora, non importa se l’eccitazione che desideriamo è data da una persona o da una droga. Il nostro partner diventa eccitante per associazione. I narcisisti spesso trascinano in avventure (e drammi) che fanno scorrere la dopamina imparate a generarne un po’ per parte vostra.

Come elicitare le emozioni tramite stimoli visivi: la costruzione di un database di dati multimediali

Il progetto di ricerca FIRB2012 (RBFR12VHR7) dal titolo “Interpreting emotions: a computational tool integrating facial expressions and biosignals based on shape analysis and bayesian networks” si inserisce nel filone di ricerca sullo studio delle emozioni. Il risultato finale consisterà nella costruzione di uno strumento oggettivo e quantitativo avanzato (non invasivo) utilizzabile nella pratica clinica i cui parametri siano stati selezionati in base alla loro capacità di misurare ed evidenziare differenze nella risposta emotiva di soggetti sani e nei pazienti psichiatrici.

Gaia Campanale, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Le emozioni e le difficoltà di riconoscimento delle stesse

Le emozioni sono risposte che l’individuo mette in atto per affrontare uno stimolo evocativo appropriato, attivando una valutazione cognitiva (percezione), un comportamento espressivo motorio, un’esperienza soggettiva (sentimenti), un’attivazione fisiologica e un comportamento finalizzato ad uno scopo (Plutchik, 1984).

L’abilità nel riconoscere le emozioni ha un valore evolutivo e adattivo, è una componente fondamentale per il nostro sistema di comunicazione non verbale e il nostro sistema di interazione sociale (Ekman, 1992). In alcuni casi, però, il processo di riconoscimento delle emozioni è compromesso (Adolphs, 2002), in molti soggetti psichiatrici è stata riscontrata una difficoltà nel riconoscere le emozioni.

Negli ultimi anni è stata posta particolare attenzione ai deficit nel riconoscimento delle emozioni nella schizofrenia (Lee et al., 2002), nella depressione (Surguladze et al., 2004), nei disturbi d’ansia (Weinstein, 1995; Mogg & Bradley, 2002), nel disturbo post-traumatico da stress (PTSD) (Antonini et al., 2006), nell’alessitimia (Catalano & Miragliotta, 2007), nei disturbi dello spettro autistico (Mongillo et al., 2008; Magnee et al., 2008).
In particolare in letteratura sono state rilevate problematiche riguardanti l’elaborazione emotiva in pazienti affetti da anoressia nervosa (Zucker et al. 2007; Jones et al., 2008; Harrison et al., 2010), in soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo (Sprengelmeyer et al., 1997; Jhung et al., 2010) e in bambini con sintomatologia ansiosa, difficoltà di apprendimento e deficit affettivi (Settipani et al., 2013; Waters et al., 2010).

Vi è una esigenza sempre più crescente di identificare strumenti quantitativi avanzati per il riconoscimento e la misurazione delle emozioni.
In questo i tradizionali questionari si sono rivelati uno strumento limitato poiché non permettono di indagare correttamente il vissuto emotivo provato da pazienti con disordini mentali. Per costruzione, tale strumento può rilevare solo le sensazioni oggettive di un individuo, la compilazione può essere influenzata da fattori esterni disturbanti e non permette di fare rivelazioni in tempo reale (sono somministrati prima o dopo l’emozione esperita).
Allo stesso modo, tecniche di brain imaging per monitorare il cervello nel momento in cui si prova un’emozione (EEG, fMRI, ecc.) sono troppo invasive e difficili da applicare a pazienti psichiatrici.
Studi precedenti hanno cercato di esaminare gli stati emotivi di pazienti psichiatrici a partire da informazioni delle espressioni e dei movimenti del volto (Tremeau et al., 2005) e l’analisi delle risposte psicofisiologiche a particolari stimoli, utilizzando tecnologie meno invasive.

 

Un progetto di ricerca: la costruzione di un database di dati multimediali per elicitare le emozioni

Il progetto di ricerca FIRB2012 (RBFR12VHR7) dal titolo “Interpreting emotions: a computational tool integrating facial expressions and biosignals based on shape analysis and bayesian networks” si inserisce nel filone di ricerca sullo studio delle emozioni. Propone, all’interno della comunità scientifica internazionale, un approccio sperimentale di alto profilo scientifico, sia per quanto riguarda lo sviluppo di metodologie innovative integrate tra diverse discipline della ricerca di base, sia per quanto riguarda la possibilità di approfondire tematiche relative alla reattività emotiva in popolazioni cliniche e non cliniche.

L’obiettivo a lungo termine è di saper descrivere dettagliatamente le reazioni emotive associate a stimoli elicitanti rabbia, paura, disgusto e realizzare uno studio avanzato di soggetti con disturbi d’ansia, disturbi alimentari e tratti ossessivo-compulsivi usando un approccio integrato di tipo multi-parametrico.
Il risultato finale consisterà nella costruzione di uno strumento oggettivo e quantitativo avanzato (non invasivo) utilizzabile nella pratica clinica i cui parametri siano stati selezionati in base alla loro capacità di misurare ed evidenziare differenze nella risposta emotiva di soggetti sani e nei pazienti psichiatrici.

In questo lavoro si è prefissato lo scopo di estendere e ampliare il campo di ricerca sulle emozioni, cercando delle soluzioni alternative per la tecnica di selezione di stimoli capaci di elicitare diversi stati emotivi. I database multimediali utilizzati nella ricerca nel campo delle emozioni sono archivi di documenti multimediali audio-visivi con specifici contenuti semantici ed emotivi, corredati da un set di metadati relativi alle etichette semantiche e all’emozione attesa, elicitate nel soggetto esposto allo stimolo, visivo e non.

Questi database hanno lo scopo di elicitare delle emozioni nei soggetti esposti, avere un miglior controllo sperimentale degli stimoli emotivi, incrementare la capacità di confrontare i risultati degli studi incrociati e facilitare la replicazione diretta degli studi intrapresi (Bradley & Lang, 2000).
I database multimediali sono strumenti standardizzati. Hanno una procedura uniforme per la somministrazione e questo ne consente un utilizzo più ampio in diversi ambiti di ricerca.

Hanno un contenuto strutturato e prefissato, sono corredati di istruzioni per la somministrazione e precise norme statistiche per lo scoring e l’interpretazione dei punteggi. Per questo motivo, i risultati dell’elicitazione dell’emozione possono essere misurati, replicati e validati da diversi gruppi di ricerca.
Tutti gli attuali database sono stati realizzati a partire dai due principali modelli per la rappresentazione delle emozioni: quello categoriale o quello dimensionale (Peter & Herbon, 2006).

I modelli dimensionali delle emozioni propongono che il significato affettivo di uno stimolo sia ben spiegato da un ristretto numero di dimensioni; queste sono state scelte per la loro abilità nel descrivere bene le misurazioni soggettive affettive con il minor numero di fattori possibili (Bradley & Lang, 1999).

Al contrario, i modelli categoriali delle emozioni considerano i primi poco accurati nel riflettere il sistema neurale sottostante alle risposte emozionali. Per i sostenitori di questo modello c’è un numero di emozioni universali tra le culture con basi biologiche e filogenetiche proprie (Ekman, 1992).
La maggior parte dei sostenitori di questa visione concorda nell’includere le cinque emozioni primarie.

Entrambe queste teorie possono effettivamente descrivere le emozioni in sistemi digitali, ma non sono mutualmente esclusive. Infatti, stimoli che in precedenza sono stati caratterizzati secondo una singola teoria, sono stati poi rappresentati anche nell’altra. Applicare entrambe le teorie può essere utile al fine di ottenere una definizione più completa degli stimoli affettivi.

Gli stimoli multimediali sono caratterizzati da uno specifico contenuto semantico, ovvero da etichette di termini che ne possano denotare il loro contenuto. In altre parole, è utilizzato il metodo di etichettamento mediante keyword definite al fine di descrivere l’immagine. Questo tipo di metodo può diventare molto potente se implementato nella giusta maniera, ma fino ad ora è stato utilizzato in maniera manuale e questo lo ha reso un lavoro particolarmente dispendioso e disfunzionale per quanto riguarda la soggettività nella scelta delle parole chiavi e l’ambiguità di quest’ultime a causa dell’uso di vocaboli mal costruiti o addirittura inesistenti. Ogni singolo stimolo multimediale può essere descritto con una singola parola chiave da un glossario, però, non supervisionato. Le relazioni semantiche tra i diversi concetti non sono così definite e diverse parole-chiave possono essere utilizzate per la descrizione del medesimo concetto.

Questo rappresenta un enorme difetto nel processo di recupero degli stimoli, perché una query (di ricerca) deve lessicalmente combinare le parole chiave del database e non è ottenibile una più significativa interpretazione semantica della query.
I descrittori semantici inadeguati producono tre effetti negativi che ostacolano il recupero stimoli: un basso richiamo, una bassa precisione e ad alto richiamo o, una mancata corrispondenza di vocabolario.
In questo modo i database multimediali affettivi contengono solo i dati circa gli stimoli stessi e non descrivono la semantica implicita del loro contenuto.
In sintesi, i dataset multimediali affettivi, standardizzati, offrono una pluralità di stimoli audio-visivi di qualità per i ricercatori del settore. Sono stati accuratamente costruiti e consentono misurazioni comparative valide, ma tuttavia vi sono diverse limitazioni che possono ostacolare la loro diffusione e applicazione.

All’interno del progetto Firb è stato fatto uno studio pilota (Campanale, 2014) che ha portato alla costruzione di un database di stimoli visivi (immagini) per elicitare 4 emozioni target primarie (neutra, paura, rabbia e disgusto). Questo studio è uno step cruciale dell’intero progetto Firb, perché gli stimoli scelti sono poi stati presentati nelle sessioni sperimentali.
Al fine di realizzare un database di immagini da utilizzare durante le sessioni sperimentali è stato realizzato, in collaborazione con i Sistemi Informativi dell’Università Vita-Salute San Raffaele (Ing. Cibrario), un questionario online pubblicizzato tramite i social networks e il passaparola.
Sono stati inizialmente inclusi nel questionario 80 stimoli visivi (immagini) che venivano presentati in due sessioni da 40 immagini ciascuna. Questi stimoli sono stati scelti da un’equipe di psicologi professionisti per evocare le 4 emozioni di base di interesse (neutra, rabbia, paura e disgusto).

Prima di iniziare il questionario al soggetto vengono chiesti alcuni dati anagrafici (età, sesso, nazionalità, anni di scolarità, livello massimo del titolo di studio, altri titoli di studio conseguiti, con chi vive) e viene assegnato un codice di riconoscimento per le successive analisi, solo in seguito ha inizio la valutazione degli stimoli.
Ogni immagine resta attiva nello schermo per 4 secondi e, dopo che la figura sparisce dallo schermo, al soggetto viene chiesto di:
1) indicare l’emozione percepita, scegliendo da una lista di 6 emozioni (rabbia, paura, disgusto, felicità, tristezza, neutra);
2) quantificare l’emozione provata usando una scala likert a 5 punti (1= pochissimo, 5 = moltissimo);
3) valutare le tre dimensioni di pleasure (piacere), arousal e dominanza usando il SAM (Self Assessment Manikin, Lang, 1980).

Il focus è stato posto sull’etichettamento degli stimoli selezionati.
In questo database, il campione di partecipanti che ha valutato gli stimoli visivi non è rappresentativo della popolazione sana generale. Per ovviare questo problema, si è creato il questionario online.
Infine, sono stati selezionati i 20 stimoli più regolarmente valutati, per studiare le emozioni in laboratorio durante le sessioni sperimentali. Per essere più precisi, tra i criteri di selezione degli stimoli si è considerato non solo l’accordo tra i valutatori, ma anche il contenuto e la qualità dell’immagine.

Lo scopo di queste analisi è di valutare su un campione di popolazione generale la corrispondenza tra l’emozione attesa e dichiarata e valutare come sono classificate le immagini in base alle risposte soggettive sulla scala del SAM (Lang, 1980).
Rispetto agli altri database già esistenti non si sono valutate solo le correlazioni, ma si sono impiegate tecniche multivariate, come l’analisi dei cluster e lo scaling multidimensionale, per far emergere strutture dei dati altrimenti non rilevabili e per riprodurre in modo parsimonioso la complessità delle relazioni celate nella matrice di dati.

Inoltre, a differenza di altri database che compiono le loro valutazioni utilizzando le dimensioni di pleasure e arousal, grazie a queste tecniche avanzate si sono prese in considerazione contemporaneamente tutte e tre le dimensioni del SAM, integrando anche l’informazione dataci dalla dominanza.
Il vero punto innovativo di questo lavoro è aver applicato questi metodi statistici multidimensionali alla valutazione dei SAM, solitamente analizzati tramite medie e deviazione standard. In questo modo si ha una valutazione più completa.

Dei 309 soggetti che hanno risposto al questionario online, 198 hanno completato più di metà questionario (hanno valutato almeno 40 immagini) e le loro valutazioni sono state considerate nelle analisi successive. Di questi 198, 127 sono femmine (64,1%) e 71 sono maschi (35,9%). L’età media del campione è 29,495 (DS = 8,5892), con un range che varia dai 18 ai 62 anni. In media sono state raccolte 173 valutazioni per ogni immagine, un grande numero rispetto ai database già esistenti.

 

Le analisi e i risultati dello studio

Per classificare le immagini e verificare se c’è una corrispondenza tra emozioni attese e dichiarate dal partecipante, sono state utilizzate tecniche di scaling multidimensionale per creare mappe di percezione e tecniche di cluster analysis. Sono state analizzate le risposte ai SAM (valutazione delle 3 dimensioni di pleasure, arousal e dominanza) e le risposte relative al grado con cui è stata provata l’emozione dichiarata. In particolare è stata analizzata la matrice di punteggi medi ottenuti nel SAM per ciascuna immagine.

Si è visto che la maggior concordanza si ha per le modalità di risposta “disgusto”, “paura” e “neutra” e in particolare, adottando l’interpretazione dei valori di K secondo i criteri di Landis e Koch (1977), la concordanza rispetto queste categorie di risposta è moderata.
Tutte le analisi effettuate sul campione di adulti evidenziano che i soggetti sono sostanzialmente abili a distinguere uno stimolo visivo emotivamente carico da uno neutro: il gruppo di immagine neutre è sempre ben distinto dalle restanti immagini.

Attraverso uno scaling multidimensionale sul campione totale dei soggetti adulti, si è partiti da una matrice di dati iniziali costituita dalle 80 immagini rappresentanti le 4 emozioni e le medie dei 3 SAM. Partendo dai dati raccolti è stata costruita una mappa di percezione delle immagini, sulla base della risposta soggettiva fornita dal soggetto nel SAM. In questo caso si è scelta una soluzione non metrica, richiedendo semplicemente che l’ordinamento delle distanze nella configurazione ottenuta rispecchi l’ordinamento degli indici di dissimilarità originari. Questo perché, anche se la matrice di partenza contiene dati continui (medie dei SAM), i dati di partenza sono categoriali.

Anche attraverso l’analisi dei cluster su tutto il campione è stato possibile riscontrare la stessa distribuzione delle immagini. Gli stimoli neutri tendono a formare un cluster a parte, rispetto gli altri stimoli visivi.
Inoltre, attraverso il metodo del legame medio tra gruppi, si è stati in grado di evidenziare gli outlier presenti nel campione.

Diversamente da database già esistenti IAPS (Lang et al., 1995; Lang & Greenwald, 1988), GAPED (Dan-Glauser, & Scherer, 2011) e NAPS (Marchewka, Zurawski, Jednoróg, & Grabowska, 2013), l’aspetto innovativo di questo studio consiste nell’aver valutato non solo le relazioni tra le dimensioni di Pleasure e Arousal, ma anche la dimensione della dominanza tramite tecniche multivariate quali l’analisi dei cluster e lo scaling multidimensionale. Questo tipo di indagine ha permesso di creare delle mappe di percezione, che hanno evidenziato un particolare orientamento delle immagini, separando nettamente le immagini neutre da quelle non neutre.

Analizzando, invece, le due dimensioni di Pleasure e Arousal tramite scatterplot si è notata una forte correlazione positiva, evidenziando, per costruzione della scala del SAM, che alti livelli di Arousal corrispondono a bassi livelli di Pleasure, e viceversa.

Si sono eseguite le stesse analisi stratificando per sesso, esaminando l’influenza del genere nella classificazione degli stimoli.
L’importanza delle differenze tra i generi è stata documentata nei processi cognitivi come la memoria, le emozioni, e la capacità visiva (Cahill, 2006). È stato dimostrato che gli stessi stimoli visivi possono suscitare diversi livelli di eccitazione (arousal) e di valenza (pleasure) nei due diversi generi. Rispetto agli uomini, le donne reagiscono più fortemente agli stimoli con connotazione negativa.

L’analisi stratificata per il genere in questo studio, conferma questi dati, mostrando che le correlazioni tra Pleasure e Arousal sono molto più forti nel sottocampione femminile. L’indice di correlazione di Spearman tra Arousal e Pleasure per le femmine risulta pari a r = 0,72 e per i maschi r = 0,687.
Le femmine sembrano quindi essere più emotive, perché maggiormente attivate da stimoli con valenza negativa (contenuto di rabbia e paura). I maschi, al contrario, si attivano molto meno.

In linea con gli studi elettrofisiologici, le donne mostrano una maggior ampiezza dei potenziali evento-correlati per gli stimoli spiacevoli e molto “attivanti”, di quanto non facciano gli uomini (Lithari et al., 2010).
Un altro aspetto innovativo di questo progetto riguarda la scelta del modello categoriale delle emozioni, basato su un numero di emozioni universali con basi biologiche e filogenetiche proprie (Ekman, 1992).

In questo sistema di classificazione di tipo categoriale, stati emotivi diversi sono fenomeni qualitativamente distinti. Ogni stato emotivo è caratterizzato da agiti specifici, manifestazioni neurofisiologiche unitarie e corrispettivi psicologici specifici. Approcciandosi con questa mentalità categoriale, si è analizzata ogni singola emozione (valutazione soggettiva del soggetto rispondente) tramite livelli specifici di arousal, pleasure e dominanza.

Uno studio di psicopatologia del trauma a cavallo tra quattro paesi: PTSD, Credenze e Dissociazione – Riccione, 2017

Uno studio di psicopatologia del trauma a cavallo tra quattro paesi: PTSD, Credenze e Dissociazione

T. Ciulli, G. Mazzoni, I. Fernandez, C. La Mela

Scuola Cognitiva di Firenze (SCF) -Studi Cognitivi, Firenze, Italy; Casa di Cura Neuropsichiatrica Poggio Sereno, Firenze, Italy; Istituto EMDR, Italia Scuola Cognitiva di Firenze Scuola di Specializzazione in Psicoterapia

Forum di Psicoterapia e Ricerca Studi Cognitivi Network –Riccione, 5-6 maggio 2017

 

Numerosi sono i soggetti colpiti da esperienze traumatiche durante la loro vita. Diverse ricerche empiriche supportano l’efficacia di terapie basate sull’esposizione al trauma quali, la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), compresa l’Esposizione Prolungata (PE), la Terapia Cognitiva (CT), la Terapia Cognitiva Processuale (CPT) e l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

Tutti questi trattamenti seppur differenti, enfatizzano i processi di elaborazione di elementi quali emozioni, informazioni e valutazioni relative alle memorie traumatiche. Inoltre, in numerosi studi il PTSD è talora associato a sintomi dissociativi ed è un fenomeno presente in contesti culturali diversi (APA, 2014). Infine, alcuni autori ipotizzano come stati dissociativi possano connettersi con aspetti cognitivi negativi in soggetti con PTSD (Thompson-Hollands et al., 2017).

Gli obiettivi del nostro studio sono: 1) esaminare la tipologia di cognizioni connesse ad esperienze traumatiche, 2) indagare il livello di correlazione tra credenze negative connesse ad esperienze traumatiche e grado di dissociazione, 3) esplorare eventuali differenze di contesto tra gruppi di diversa nazionalità.

Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità – Recensione

A più di dieci anni dal precedente volume in cui proponevano un modello di funzionamento e trattamento dei disturbi di personalità (DP), con questo libro gli autori raccontano l’evoluzione concettuale e procedurale del loro modello avvenuta in questi ultimi anni di cambiamenti in ambito teorico e di pratica clinica. Il libro propone un modello integrato di terapia dei disturbi di personalità che aggiunge al principio cognitivista della centralità dei significati personali nei processi psicologici, l’importanza dello sviluppo delle abilità metacognitive.

Ivana Buccione e Giovanni M. Ruggiero

 

 

Curare i casi complessi: La suddivisione del libro in due parti

Il lavoro è suddiviso in due parti. La prima, più teorica, illustra l’attuale dibattito sui DP e la cornice concettuale in cui si sviluppa il trattamento proposto. Si fa particolare riferimento alla crisi della nosografia attuale, all’introduzione del modello alternativo per la diagnosi dei DP che affianca alla classificazione categoriale quella di tipo dimensionale, e alla presenza di casi complessi che presentano aspetti psicopatologici multiformi. Gli autori discutono il concetto chiave di metacognizione e lo propongono come possibile fattore generale della patologia di personalità, e presentano una struttura gerarchica dell’intervento per i DP, precisando terapie e tecniche che integrano nei loro interventi.

La seconda parte descrive il trattamento sviluppato presso il centro, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), a partire dalla fase di pre-trattamento, che va dal primo colloquio clinico, alle procedure di assessment e restituzione diagnostica, fino al contratto terapeutico. Viene data particolare attenzione all’uso terapeutico della relazione e ai cicli interpersonali attivati durante la terapia, sottolineando come questi ultimi siano una preziosa occasione per comprendere il paziente e perseguire importanti obiettivi di cura. Gli autori espongono procedure e tecniche per la gestione degli stessi, attraverso la descrizione dei cicli tipici dei differenti DP. Passano poi in rassegna i principi della TMI, descrivendo obiettivi, setting e procedure di intervento diversificati e integrati per migliorare le singole sottofunzioni metacognitive.

 

L’importanza di identificare e gestire gli stati mentali problematici

Il libro ci guida attraverso l’identificazione degli stati mentali problematici, sia nella componente cognitiva che emotiva, e spiega come sviluppare nel paziente l’abilità di monitoraggio di questi elementi. Di seguito viene approfondita l’attività di integrare i vari stati mentali presenti nelle narrazioni dei pazienti, promuovendo lo sviluppo di buone memorie autobiografiche e della costruzione del senso di sé. Gli autori proseguono descrivendo le difficoltà di differenziazione e decentramento, necessarie per assumere distanza critica dal proprio modo di rappresentare la realtà e proporre letture di sé e degli altri meno soggettive e stereotipate.

Proprio il decentramento e l’integrazione sembrano essere aspetti prognostici dell’esito dell’intervento nei casi (quasi) impossibili, come gli autori definiscono i casi al limite della trattabilità. I pazienti più gravi sono, infatti, quelli caratterizzati da un pensiero più egocentrico (basso decentramento) e più bassa integrazione, spesso presente in chi ha vissuto esperienze traumatiche e di maltrattamento.

Nel capitolo conclusivo del volume viene proposta una check-list di domande che aiutano il terapeuta ad applicare le tecniche e le procedure TMI e a valutare l’aderenza al trattamento.

Un libro che nasce dall’esperienza di professionisti che da oltre venti anni svolgono attività clinica e di ricerca nell’ambito del trattamento dei disturbi di personalità, e che per questo si propone come punto di riferimento per terapeuti esperti e per allievi in formazione.

Il libro è anche un passo avanti verso l’adozione di procedure formalizzate. L’operazione avviene nello spirito di adesione e fedeltà a linee guida che vorrebbero essere più flessibili e clinicamente realistiche di protocolli più o meno rigidi. Una scelta che ha i suoi pro e i suoi contro, ma che rimane legittima e promettente.

 

Paranoia e complottismo: quali sono le differenze?

Paranoia e complottismo: Mentre il paranoico lotta con tutte le forze contro la percezione della propria vulnerabilità ontologica, molti complottisti scimmiottano la diffidenza, brandiscono una paranoia-giocattolo, solo per alimentare una forma di autocompiacimento, per la ricerca narcisistica di apprezzamento speciale, di distinzione dalla massa. Il paranoico è egocentrico, e per lui questo egocentrismo è fonte di tortura; il complottista è egotista, e per lui questo egotismo è fonte di gratificazione.

 

Ho letto gli articoli di Giovanni Maria Ruggiero intitolati L’origine del complottismo: dalla landa delle ipotesi ragionevoli alle terre selvagge dei deliri e Credulità e paranoia nel Bel Paese: gli italiani sono più creduloni o complottisti?

Li ho trovati piacevoli, incisivi, stimolanti. Porto con me due punti importanti: 1) di fronte al caos, a eventi inspiegabili, crudeli, apparentemente contronaturali, la nostra mente è incapace di accettazione silenziosa; ricorda piuttosto un nerd saccente: usa troppo la logica, riscrive il mondo creando trame contorte purché prevedibili; essenzialmente perché l’imprevedibilità, il caos, per la nostra mente sono indigesti; 2) C’è una parentela strettissima tra recettività alle astrusità complottistiche e paranoia (“credulità e paranoia sono gemelle separate”, dice Giovanni): entrambe creano, personificano un “nemico” esterno, tallonano colpevoli diabolici per dare soluzione a problemi che è meglio non affrontare: nel caso del complottismo, il senso collettivo di impotenza rispetto alla noncurante spietatezza della natura; nel caso della paranoia, il dolore riferito di una ferita interna all’individuo, l’eco di “qualche aspetto spiacevole o indesiderabile della propria vita” che si insinua tra gli interstizi della coscienza.
Tutto convincente.

E’ vero: l’analogia tra paranoia e ideazione complottistica è indirettamente corroborata dalla ricerca. Idee a sfondo persecutorio e complottistiche possono presentarsi in forme più o meno sfumate anche nella popolazione generale (Chapman & Chapman, 1980; Claridge, 1997; Freeman, 2007; Peters, Joseph, & Garety, 1999; Shevlin, Murphy, Dorahy, & Adamson, 2007; Strauss, 1969). Questo assunto è tra l’altro coerente con l’idea che l’ideazione paranoide possa rappresentare una strategia adattativa appropriata a fronte di pericoli reali che è possibile incontrare nei contesti sociali (Gilbert, 2005). In altre parole, la paranoia può essere considerata un’euristica del tipo better safe than sorry (Gilbert, 1989) che non è appannaggio esclusivo dei “paranoici”: in termini di sopravvivenza, meglio sovrastimare la probabilità che l’altro sia malevolo e possa danneggiarmi piuttosto che stimare realisticamente quella probabilità per poi dovermene pentire anche solo una volta.

 

Le differenze tra la paranoia e il complottismo

Ok, diciamo che il complottismo è una forma di paranoia parafisiologica presente in grado variabile nell’essere umano e pure etologicamente fondata. Però per me pensare a questa continuità tra paranoia e complottismo è allo stesso tempo un invito forte a cercare le differenze tra le due. Un po’ come in quel gioco della Settimana Enigmistica, in cui ci sono due vignette apparentemente uguali, ma che differiscono per (di solito sette) piccoli particolari.

A questo punto mi viene in mente il marito morbosamente geloso del film “L’Enfer” di Claude Chabrol. Un uomo perfettamente adattato al suo ambiente, che sviluppa progressivamente il convincimento delirante che la moglie lo tradisca, e pure in un modo per lui particolarmente umiliante. Arriverà a ucciderla, convinto di essere nel giusto.

Poi mi sono venuti in mente alcuni miei pazienti. Un mio paziente di 32 anni costruì gradualmente il delirio in base al quale i servizi segreti dell’azienda per cui aveva appena iniziato a lavorare subito dopo la laurea avessero organizzato un complotto ai suoi danni con l’intento di ucciderlo. La terapia lo aiutò a capire che il suo delirio era la risposta alle situazioni, frequenti, in cui si sentiva debole fisicamente, fragile rispetto a un altro percepito come forte e dominante: Una questione di sopravvivenza…di essere alla mercé del più forte, disse una volta.

Un’altra mia paziente, 26 anni, la notte successiva alla rottura di un breve rapporto sentimentale con un coetaneo si svegliò in preda all’angoscia e sentì la voce del ragazzo che le impartiva ordini su come comportarsi con i genitori. Si convinse gradualmente che il ragazzo stesse ordendo con la sua banda un piano per abusare di lei sessualmente. La ragione, confessata con enorme imbarazzo: la banda la considerava sessualmente irresistibile. In una seduta della fase avanzata della terapia disse “Il nocciolo del problema sta in questo senso di inferiorità […] per tutta l’adolescenza ho avuto fortissima questa sensazione […]. Anche con le mie amiche avevo la sensazione che mi volessero danneggiare perché era come se andassero a colpire il mio punto debole…

Emil Kraepelin ci sarebbe andato a nozze. Tutti questi soggetti rientrano nella sua definizione di paranoia (1919) come psicosi caratterizzata da uno sviluppo progressivo di idee deliranti sistematizzate, incentrate su temi vari quali la grandezza, la persecuzione o l’infedeltà. Nosologia a parte, in tutti e tre i casi il soggetto si sente a livello preriflessivo, somatico, vulnerabile rispetto all’altro, che è percepito come dominante. La condizione più temuta per il sé è quella di subordinazione, sottomissione e inferiorità rispetto all’altro. Per chi voglia approfondire, io e i miei colleghi analizziamo nel dettaglio questo aspetto nel nostro manuale Terapia Metacognitiva Interpersonale della Schizofrenia (Salvatore, Dimaggio, Ottavi, Popolo, 2017).

Poi ho pensato al complottismo. E mi è subito venuta in mente una complottista convinta. Un’amica di mia moglie.
Per lei il vaccino trivalente è ovviamente causa di autismo. Tutte le volte che per contratto coniugale mi sono costretto a incontrarla, l’ho sentita delirare su multinazionali dei vaccini che ostacolano diabolicamente la presa di coscienza da parte della collettività di una verità così fondamentale. (Per inciso, pensava che Wakefield fosse la denominazione di una di queste multinazionali. Doveva aver carpito il nome da una conversazione e averlo poi leggermente decontestualizzato). Se penso all’amica di mia moglie però faccio un po’ fatica ad attribuirle un’incapacità di silenziare la mente razionale e di impedirle di mettersi al servizio di una diffidenza paranoide. Faccio fatica, insomma, a scorgere in casi come questo quell’iperproduzione di concatenazioni logiche che caratterizza l’ideazione complottistica, e che la rende per certi versi simile ai processi della paranoia. Vedo qualcos’altro. Qualcosa di più sottile. E insopportabile. E qui mi sa che si gioca la più importante differenza tra complottismo – almeno in casi come questo – e paranoia.

Mentre il paranoico lotta con tutte le forze contro la percezione della propria vulnerabilità ontologica, molti complottisti scimmiottano la diffidenza, brandiscono una paranoia-giocattolo, solo per alimentare una forma di autocompiacimento, per la ricerca narcisistica di apprezzamento speciale, di distinzione dalla massa. Il paranoico è egocentrico, e per lui questo egocentrismo è fonte di tortura; il complottista è egotista, e per lui questo egotismo è fonte di gratificazione. Il protagonista de L’Enfer, i pazienti che ho citato, e tanti altri che seguo, lottano per la loro sopravvivenza, l’amica di mia moglie lotta per affermare se stessa auto-alimentando la credenza di riuscire a vedere cose che gli altri non vedono, di essere più intelligente di chi la circonda, della moltitudine di incoscienti che ancora continuano a far vaccinare i propri figli.

Il paranoico ha onore, e onestà intellettuale: affronta il suo nemico sul campo. Molti complottisti cercano riscatto dall’insulto dell’anonimato, e in questo sono piuttosto codardi: per il complottista, come dice Giovanni, il nemico deve essere potente e invisibile, in modo tale che se pure riempirà il cielo di strie chimiche e la terra di bambini autistici, al complottista sarà bastato fargli “tana” e raccontare agli amici la propria astuzia (purtroppo, anche ai mariti degli amici!); poco importa se poi “si rassegnerà al dominio di quel nemico e si sentirà emendato dalla responsabilità di contrastarlo”.
E poi, un’altra differenza. Direi definitiva. I pazienti che ho citato sopra hanno chiesto aiuto. È successo quando si sono sentiti sfiancati dalla loro stessa diffidenza, o irrimediabilmente assediati da un nemico che era ormai ovunque. I complottisti – soprattutto quelli come l’amica di mia moglie – non chiederanno mai aiuto; devono convincerci del fatto che siamo noi ad avere urgente bisogno del loro, di aiuto.

Sully (2016), il decision making al cinema: il processo di scelta in condizioni di rischio

Oche canadesi: tanto è bastato per lasciare in grossi guai il comandante Chesley Sullenberger, Sully, che si è ritrovato sui cieli di New York con un Airbus a motori spenti e 155 persone da riportare a terra. Il lieto fine del volo US Airways 1549 è ormai storia, a questo punto possiamo chiederci quali sono i processi che hanno portato il comandante a prendere la decisione giusta in così poco tempo.

 

Il film Sully, diretto da Clint Eastwood e uscito nelle sale a dicembre 2016, è un fedele resoconto dei fatti del 15 gennaio 2009 e della successiva indagine alla quale il comandante Chesley Sullenberger è stato sottoposto. La pellicola esplora anche il vissuto personale e il disagio di un uomo che si è visto messo a giudizio, pur sapendo di aver preso la miglior decisione possibile. Lasceremo tutti i dettagli della vicenda a chi vorrà vedere il film, perché la parte che vogliamo qui esplorare è il processo decisionale, cioè quali sono stati i fattori che possono aver portato il comandante a fare quella che poi si è rivelata la scelta giusta.

Alle 3.25 pm del 15 gennaio 2009 l’Airbus A320-214 decolla dall’aeroporto LaGuardia di New York, ma non arriveràà mai a destinazione. Infatti 2 minuti e 11 secondi dopo il decollo, a una quota di 2700 piedi (820 m), avviene l’imprevedibile: il velivolo impatta contro uno stormo di oche canadesi e non uno, ma entrambi i motori subiscono una improvvisa e totale perdita di potenza. Bisogna trovare un modo per tornare a terra, e non c’è molto tempo per decidere.

Quello che viene definito “birdstrike” in aviazione è un evento noto e previsto, e i motori degli aerei di linea sono in grado di sopportare “l’ingestione” di piccoli volatili senza subire danni significativi. Ma le oche canadesi sono animali che arrivano a pesare anche cinque chili l’uno, e il caso ha voluto che non uno, ma entrambi i motori dell’aereo fossero coinvolti nell’impatto.

Oche canadesi: tanto è bastato per lasciare in grossi guai il comandante Chesley Sullenberger, Sully, che si è ritrovato sui cieli di New York con un Airbus a motori spenti e 155 persone da riportare a terra.

Il lieto fine del volo US Airways 1549 è ormai storia: l’aereo è ammarato sul fiume Hudson, e tutti i 155 occupanti dell’aereo sono stati tratti in salvo. L’impresa è stata definita “il miracolo sull’Hudson”,  e il comandante Sully è diventato un eroe nazionale.

Tuttavia la vicenda non si conclude con il salvataggio dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio, poiché subito dopo l’accaduto il National Transportation Safety Board (NTSB) avvia delle indagini per verificare se per il comandante sarebbe stato possibile rientrare in aeroporto invece che tentare il rischiosissimo ammaraggio nell’Hudson.

Inizialmente le simulazioni sembrano dare ragione al NTSB: il rientro al LaGuardia sarebbe stato possibile; ma per tutta la durata dell’indagine il comandante sosterrà con fermezza la bontà della sua decisione.

Se questi sono gli eventi, dobbiamo ancora esaminare la scelta che ne ha determinato il corso.

Per capire in quali condizioni ha agito il comandante Sully, il primo dato da prendere in considerazione è il tempo: la sua è stata una decisione presa nell’arco dei pochi secondi in cui si è svolto lo scambio di battute tra lui e la torre di controllo.

Diamo uno sguardo ai dati. Alle 3:27:36 il comandante comunica alla torre di controllo la perdita di potenza, e comincia la manovra per tornare al LaGuardia. Il controllore di volo blocca tutte le partenze, e dice a Sullenberger che può virare a sud est e atterrare sulla pista 13, ma già a questo punto il comandante risponde di non esserne più in grado. Alle 3.31, cioè meno di quattro minuti dopo la comunicazione dell’avvenuto birdstrike, il comandante Sully sta ammarando con successo nelle acque dell’Hudson.

A questo punto possiamo chiederci quali sono i processi che hanno portato il comandante a prendere la decisione giusta in così poco tempo.

Kahneman, Nobel 2002 per l’economia, nel suo libro “Pensieri lenti e veloci” (2012) parla di “intuizione esperta”, e riporta l’esempio del vigile del fuoco esperto che riesce a “intuire” che lo stabile dove si trovano lui e la sua squadra sta per crollare, evacuandolo per tempo e salvando in tal modo la propria vita e quella dei colleghi.

Per quanto possa sembrare quasi soprannaturale, Kahneman spiega che nell’intuizione del caposquadra dei vigili del fuoco non c’è nulla di magico, ma c’è la capacità di osservare e valutare formatasi in anni di esperienza sul campo.

Tuttavia, perché l’intuizione esperta possa ritenersi affidabile, deve essersi formata in un ambiente sufficientemente regolare e prevedibile (regolato da leggi fisse, con poca casualità), e in tale ambiente il soggetto deve avere avuto l’opportunità di fare molta pratica.

Senza dubbio, nelle intuizioni esperte dei piloti di aerei le due condizioni sono rispettate. Da una parte, la fisica del volo risponde a leggi fisse e quindi offre un ambiente prevedibile e regolare; dall’altra, il comandante Sullenberger aveva fatto estensiva pratica di tale ambiente regolare, in quanto al momento del decollo aveva 19.663 ore di volo all’attivo, delle quali 4.765 sullo stesso modello di aereo che stava pilotando quel 15 gennaio.

Quindi l’intuizione esperta può avere avuto un ruolo. Ma in che modo può aver lavorato l’intuizione esperta?

Qualcuno potrebbe pensare a una valutazione rischi-benefici delle opzioni che il comandante aveva a disposizione. Una volta preso atto che i motori avevano cessato di erogare potenza e che non c’era modo di riattivarli, le possibilità erano tre: rientrare all’aeroporto LaGuardia; andare verso il New Jersey all’aeroporto Teterboro oppure tentare l’ammaraggio nel fiume Hudson.

Se consideriamo il problema dal punto di vista delle possibili conseguenze, vediamo che le prime due opzioni hanno lo stesso valore e si contrappongono alla terza. Infatti, un avvenuto rientro a uno dei due aeroporti avrebbe significato atterrare in condizioni che garantivano le maggiori possibilità di sopravvivenza per gli occupanti del velivolo. Ma optare per uno dei due aeroporti avrebbe anche significato esporsi a rischio di completo disastro, in caso di errore di valutazione: infatti, non riuscire a raggiungere la pista avrebbe significato schiantarsi sugli edifici attorno all’aeroporto, moltiplicando così il numero delle potenziali vittime dell’incidente.

L’ammaraggio sull’Hudson era un’opzione i cui possibili esiti erano meno estremi: in caso di disastro completo, non ci sarebbero state vittime ulteriori oltre agli occupanti dell’aereo; ma anche in caso di un ammaraggio riuscito, le statistiche sulla percentuale di sopravvissuti degli ammaraggi (53% – planecrashinfo) non lasciavano spazio a previsioni molto ottimistiche sul numero delle possibili vittime.

Kahneman (2012) nel suo “schema a quattro celle” mostra come gli esseri umani tendono a esporsi a grossi rischi pur di avere la possibilità di evitare una perdita ingente; un po’ come il giocatore di azzardo che continua ad indebitarsi raddoppiando la posta, sperando di recuperare il proprio debito con una mano fortunata.

Trovandosi in un contesto di sole perdite, per Sully l’atterraggio in aeroporto sarebbe equivalso alla mano fortunata del giocatore d’azzardo: tutti salvi. Ma sappiamo che la scelta è stata un’altra, e che quindi l’intuizione esperta ha lavorato contro l’umana tendenza a correre grossi rischi, quando si tratta di scegliere tra due mali. Oppure no?

Gerd Gigerenzer (2015) nel suo libro “Risk Savvy” parla di scelte in contesti di rischio, e sostiene la grande utilità delle euristiche, cioè regole pratiche che nascono dall’esperienza. L’autore mostra come in contesti anche complessi, come quelli degli investimenti finanziari, euristiche molto semplici possono ottenere risultati migliori di modelli matematici complessi e di difficile applicazione.

Tra i casi che Gigerenzer cita c’è proprio quello del volo 1549. Ma questo significa che allora i piloti hanno usato un’euristica, per decidere se tentare l’ammaraggio o andare verso uno dei due aeroporti? Pare di sì, e il copilota Jeffrey Skiles intervistato in una trasmissione televisiva (The Charlie Rose Show, 11 febbraio 2009) ha spiegato quale.

La regola dice: “Guarda verso la torre di controllo: se la vedi dal finestrino, non ce la farai”. Questo significa che, nel momento in cui si rimane senza più propulsione, gli elementi del paesaggio che si vedono dal finestrino della cabina di pilotaggio sono quelli che non si riusciranno a raggiungere. Infatti, dal momento in cui i motori smettono di erogare potenza, l’aereo comincia la sua inevitabile discesa e il muso punterà verso il basso, e solo in quel momento i luoghi dove più verosimilmente avverrà l’atterraggio appariranno nella visuale dei piloti.

Forse grazie un’euristica, forse grazie all’intuizione esperta, e forse grazie anche alla fortuna; in ogni caso ciò che avvenne in quel 15 gennaio 2009 è stato giustamente ribattezzato “miracolo sull’Hudson”, poiché a quanto pare Chesley Sullenberger per portare in salvo le 155 persone che stavano sull’aereo (compreso lui stesso) ha domato non solo le leggi della fisica del volo, ma anche quelle delle scelte in condizioni di rischio.

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