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Riconoscere le emozioni: il primo passo per regolarle

Si può dire che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno, ma in che modo? In questo ci vengono in aiuto le emozioni.

Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Ogni giorno della propria vita il mondo interno, soggettivo, di ciascun essere umano entra in contatto con il mondo esterno dotandolo di significato.

Il mondo interno è formato da quello che più caratterizza la persona e ne fanno parte: il carattere e le strutture di personalità, le credenze e il sistema di valori propri di ciascuno. Il mondo interno è quella cosa per cui a fine giornata una persona può dire “oggi è stata una bella giornata” o il contrario. Per ogni persona una giornata può essere bella o brutta semplicemente per il significato che essa stessa dà a quella giornata: una giornata molto faticosa può essere ritenuta molto soddisfacente da alcuni e terribile da altri.

Dare significato al mondo: il ruolo delle emozioni

Si può dire quindi che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno. Ma in che modo diamo un significato? In questo ci vengono in aiuto le emozioni. Seconda alcune teorie, infatti, le emozioni sono degli stati mentali in grado di direzionare una persona nel proprio mondo, per fare questo le emozioni aiutano gli esseri umani cosa si frappone tre sé e il proprio scopo: se lo scopo è avere una giornata rilassante, avere un lavoro molto faticoso non ci permette di raggiungere lo scopo, per questo possiamo sentire o un fallimento oppure un’ingiustizia. Se lo scopo è quello di ottenere una promozione lavorativa, ma non siamo certi di riuscire a consegnare tutto il nostro lavoro a fine giornata, lo scopo non è ancora fallito, ma è minacciato.

Ma cosa succede esattamente quando definiamo una giornata “brutta”? Cos’è che ci fa dare questa definizione di una giornata? Come abbiamo appena visto i nostri pensieri, basati sul sistema di valori centrali, ci danno un’indicazione di come stanno andando le cose per noi, ma sono le emozioni che ci danno un indice percepibile di come abbiamo vissuto la nostra giornata, o di come la stiamo vivendo. Quando alla sera parlando con un amico sosteniamo di aver avuto una brutta giornata, l’indicazione di quanto è stata brutta difficilmente ci viene data in modo del tutto razionale. Spesso è quello che sentiamo a darci delle indicazioni più chiare: se sentiamo di stare un po’ male, probabilmente la giornata è stata un po’ brutta, se sentiamo di essere sconvolti dalle nostre emozioni negative probabilmente la giornata si è allontanata moltissimo dai nostri scopi, facendola diventare una giornata pessima.

Riconoscere le emozioni e i pensieri che le generano

A molti verrebbe da chiedersi il motivo per cui la giornata è andata così male: se è facilmente individuabile il motivo, è altrettanto semplice trovare una soluzione o una modalità alternativa a quella già provata. Il problema sorge quando ci si sente giù di morale, o in generale male senza avere un’idea precisa del perché. È proprio in queste situazioni che riconoscere le emozioni che stiamo provando e riconoscere i nostri pensieri diventa molto importante. Se è vero infatti che è possibile riconoscere le emozioni provate partendo dall’informazione che arriva dai pensieri, che tuttavia talvolta sono veloci e confusi nella testa delle persone, è altrettanto possibile arrivare a dare un significato al malessere che pervade la persona anche prendendo come informazione iniziale l’emozione che si sta provando. Le emozioni sono sicuramente più immediate rispetto al contenuto cognitivo, che in situazioni particolarmente attivanti e stressanti, tende a fluire velocemente saltando da un contenuto all’altro senza seguire un vero e proprio processo logico.

Ma cosa succede quando ci si dice che si sta semplicemente male? In questo caso a volte diventa molto difficile ricondurre il malessere soggettivo, il nostro mondo interno, con gli eventi che succedono nel mondo. Capire cosa si sta provando in una determinata situazione è molto importante per comprendere a che punto siamo rispetto ai nostri scopi: sono minacciati? Siamo in una situazione di ingiustizia? O piuttosto ci troviamo di fronte ad una perdita o ad un fallimento? Capire se si è in ansia, arrabbiati oppure tristi ci aiuta a capire cosa possiamo fare per regolare lo stato mentale spiacevole che stiamo provando.

Emozioni e correlati fisiologici

Un valido aiuto per comprendere quale emozione si sta provando in un dato momento arriva dal correlato fisiologico che ciascuna emozione porta con sé. Quando ci attiviamo in seguito ad una emozione sentiamo, di solito, qualcosa nel corpo.

Alcuni ricercatori finlandesi ci vengono in aiuto per riconosce quale emozione si sta provando, partendo dal tipo di attivazione corporea percepita. È stata infatti tracciata una mappa corporea di alcune emozioni.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of The National Academy of Sciences nel 2013 da un team di ricercatori dell’università di Aalto.

Alla ricerca hanno partecipato 700 persone provenienti da Svezia, Finlandia e Taiwan; in questo modo è possibile dimostrare che il codice delle sensazioni corporee legate alle emozioni è universale e non legato a fattori culturali. I ricercatori hanno indotto diversi stati emotivi attraverso la visione di film o la lettura di storie, successivamente hanno fornito ai partecipanti alcune foto del corpo umano ed è stato loro chiesto di colorare, con colori diversi colori, le parti del corpo che sentivano attivarsi o disattivarsi in risposta all’emozione suscitata.

È emerso ad esempio che quando le persone provavano l’emozione rabbia le parti del corpo ad attivarsi maggiormente sono i pugni e la parte alta del tronco insieme alla testa; in caso di paura si percepisce maggiormente una sensazione fisica attivante in mezzo al petto, mentre nel caso in cui si provi ansia oltre all’attivazione nel petto i partecipanti percepivano anche una sensazione di torpore negli arti; in caso di tristezza o depressione il torpore sembra essere percepito in modo molto maggiore rispetto a quando sono provate altri tipi di emozioni; la vergogna sembra attivare il corpo principalmente all’altezza delle guance; mentre l’emozione che sembra attivare il nostro corpo in modo più omogeneo è la felicità, che insieme allo stato d’animo definito dai ricercatori come amore produce un’attivazione intensa ed omogenea.

 

Emozioni riconoscerle per imparare a gestirle partendo dal corpo - Psicologia

 

I ricercatori hanno spiegato che nel condurre lo studio non hanno fatto riferimento a nessuna sensazione specifica, come potrebbero essere per esempio la sudorazione o la sensazione di calore, ma anzi hanno incoraggiato i soggetti a riportare sensazioni nette, come ad esempio la percezione di un’aumentata attivazione o disattivazione di differenti sistemi fisiologici.

Questo studio può essere di grande aiuto nella clinica, soprattutto a tutti quei pazienti che trovano difficoltà nel riconosce quale emozione sentono. La possibilità di avere strumenti come una mappa corporea delle emozioni potrebbe riuscire a facilitare queste persone, partendo dal proprio corpo, partendo da cosa sentono e dove. Avere dei risultati generalizzabili potrebbe essere utile per capire quindi cosa significa per ciascuno “ho avuto una pessima giornata”, semplicemente focalizzandoci su quale parte del corpo sento attivata, o in quale parte sento torpore.

Bullismo: le conseguenze sulla salute e gli interventi di prevenzione

Il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

 

Il fenomeno del bullismo e le conseguenze sulla salute

Il bullismo è una forma di comportamento aggressivo che caratterizza alcune relazioni tra pari. All’interno della definizione di bullismo rientrano sia comportamenti aggressivi diretti (ad esempio, aggressione fisica) sia comportamenti aggressivi indiretti (ad esempio, diffondere calunnie, escludere dal gruppo). Due elementi risultano essere indispensabili per definire meglio tale fenomeno:
– Intenzionalità: vi deve essere intenzionalità da parte del bullo di arrecare un danno fisico o psicologico alla vittima.
– Persistenza nel tempo: gli episodi di bullismo avvengono in maniera sistematica per lunghi periodi di tempo.

Le ricerche ritengono che, il reiterarsi degli episodi di bullismo nel tempo, abbia un notevole effetto negativo sulla salute, per tutta la vita. In particolare, il Dr. Tye sostiene che quando un individuo è esposto a periodi brevi di stress, il corpo è in grado di reagire efficacemente recuperando il funzionamento normale. Al contrario, quando l’esposizione allo stress è cronica, come nel caso del bullismo, tale processo di recupero risulta essere molto più difficoltoso, in quanto lo stress eccessivo influenza negativamente i processi fisiologici. In particolare, a essere alterati sono la risposta infiammatoria, ormonale e metabolica dell’organismo. Tali modificazioni contribuiscono allo sviluppo di malattie, tra cui diabete, malattie al cuore, depressione e altre patologie psichiatriche.

Interventi di prevenzione del bullismo

Dunque, il bullismo, come forma di stress cronico, può avere importanti implicazioni negative sulla salute fisica e mentale. In questi casi, un intervento tempestivo è di fondamentale importanza. Un’efficace alternativa, relativa agli interventi anti-bullismo, è rappresentata dagli approcci che agiscono in prevenzione.

Tenendo conto che episodi di bullismo possono avvenire in svariati contesti verranno esposti alcuni interventi di prevenzione che potrebbero essere applicati all’interno del contesto scolastico. Nell’ambito della scuola, gli interventi possono avvenire su diversi livelli:
– Politica scolastica: l’adozione di una politica anti-bullismo, intendendo con ciò, l’inaccettabilità di qualsiasi forma di prepotenza, accompagnata dall’impostazione di obiettivi e linee guida antiviolenza e basate sulla cooperazione.
– Attività informativa e di sensibilizzazione – livello scuola: un’importante attività è l’informazione e la sensibilizzazione sul bullismo, ad esempio attraverso conferenze. In queste attività, risulta fondamentale la partecipazione dei genitori, degli insegnanti e di tutto il personale scolastico.
– Intervento di cortile: tenendo conto che la maggior parte degli episodi di bullismo avvengono in luoghi privi della supervisione diretta degli adulti, risulta fondamentale, in primo luogo, individuare le zone più pericolose e, successivamente riorganizzare gli spazi e le regole.
– Livello classe: in questa tipologia di interventi si agisce all’interno della classe e viene richiesta la partecipazione attiva degli studenti. Nell’intervento anti-bullismo è fondamentale coinvolgere l’intero gruppo classe, al fine di modificare il clima, le regole e le dinamiche relazionali.
– Livello individuale: spesso, gli individui che assumono in ruolo di bullo o di vittima, necessitano di un’attenzione particolare e di un aiuto psicologico mirato, come l’apprendimento di importanti abilità sociali.

Il bullismo è un fenomeno multi-sfaccettato, per questo motivo necessita di interventi globali. Un fattore molto importante è rappresentato dall’interazione scuola-famiglia. Lavorare in sinergia rappresenta un elemento fondamentale affinché un intervento anti-bullismo risulti efficace.

 

Le donne dei Baustelle: riflessioni psicologiche sui testi delle canzoni

Le donne descritte da Bianconi dei Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

 

Le donne delle canzoni dei Baustelle

I Baustelle sono un gruppo indie-pop-rock toscano il cui leader, nonché autore dei testi, è Francesco Bianconi. Ascoltando le loro canzoni, dal primo album del 2000 (“Sussidiario illustrato della giovinezza”) all’ultimo di quest’anno dal titolo “L’Amore e la Violenza”, spesso si rimane colpiti dalla bravura del cantautore nel tratteggiare con maestria da scrittore, personaggi dal profilo psicologico di grande spessore. Tra di essi, risultano particolarmente interessanti le figure femminili.

Le donne descritte dai Baustelle appaiono, infatti, tutte molto simili tra loro: caratterizzate dalla stessa età anagrafica (in genere adolescenti o giovani donne) e provenienti generalmente dalla provincia, recitano spesso il ruolo di personaggi dai tratti borderline e socialmente ai margini della società. Rientrano in questa categoria Martina e Betty delle omonime canzoni, e le ragazze senza nome descritte in “La guerra è finita” e “Perché una ragazza di oggi può uccidersi”.

Martina: la prima figura femminile delle canzoni dei Baustelle

In ordine cronologico, la prima figura ad “entrare in scena” sul metaforico “palcoscenico” musicale messo in piedi da Bianconi è Martina.

https://www.youtube.com/watch?v=RmE7Wc3gka4

Più che con una donna reale, tuttavia, in questo testo si ha l’impressione di avere a che fare con una sorta di archetipo letterario che vede la figura femminile come un soggetto disintegrato e ambivalente: da un lato fonte inesauribile di dolcezza (“miele infinito per anima”); dall’altro, inaspettato calvario (“Per calvario un angelo”). Tale ambivalenza, in qualche modo, sembra richiamare metaforicamente figure mitologiche come Medusa, raffigurata come una donna bellissima e al tempo stesso letale. La stridente commistione tra stati mentali tanto intensi quanto inconciliabili, che la donna evoca, è resa molto bene dal registro musicale che alterna delicati arpeggi a violente rasoiate di accordi.

Le figure femminili protagoniste di suicidi nelle canzoni dei Baustelle

Nel 2005 i Baustelle partoriscono “La Malavita”, terzo album del gruppo. Qui spiccano due figure femminili entrambe tragicamente protagoniste di suicidi. In “La guerra è finita”, la protagonista è una ragazza giovane ritratta nostalgicamente come un’amica perduta dell’adolescenza (Era mia amica/Era una stronza/aveva sedici anni appena).

Questa canzone riesce a sintetizzare in maniera esemplare le caratteristiche peculiari dell’adolescenza, periodo che coincide spesso con un percorso, più o meno lungo, di strutturazione identitaria, attraverso il quale la persona entra in contatto, volontariamente o meno, con un ampio spettro di possibili Sé e altrettanto possibili percorsi esistenziali. E’ la fase – tipica delle società occidentali economicamente più sviluppate – della cosiddetta “moratoria psico-sociale” (Erikson, 1968), corrispondente, appunto, ad un periodo di sperimentazione di sé, delle proprie capacità e delle proprie attitudini. I versi riportati di seguito, infatti, descrivono l’immagine di una persona dinamica, in continuo movimento e alla ricerca di un’identità che al momento appare una lontana chimera, persa tra dipendenze, condotte trasgressive e autodistruttive:

Vagamente psichedelica/La sua t-shirt all’epoca/Prima di perdersi nel punk/Prima di perdersi nel crack/Si mise insieme ad un nazista/Conosciuto in una rissa.

A ciò fa da sfondo, immancabilmente, un profondo vissuto di insoddisfazione esistenziale che si risolve in un suicidio: tale gesto, che esternalizza in maniera tragica un conflitto interiore, va inteso come l’atto definitivo di rivolta della ragazza contro la società. In tal senso, le parole scritte sul biglietto, da lei lasciato, testimoniano la presa di coscienza dell’impossibilità di pervenire ad una soluzione, ad un adattamento con una realtà esterna vista come incompatibile rispetto ai propri ideali:
La penna sputò parole nere di vita/La guerra è finita/Per sempre è finita/Almeno per me.

La tematica del suicidio si ripropone in “Perché una ragazza d’oggi può uccidersi”. Il titolo è un chiaro riferimento a “Io la conoscevo bene”, film di Antonio Pietrangeli del 1965. Il testo si snoda attraverso una serie di riflessioni di due “conoscenti” sulle possibili motivazioni che hanno spinto la protagonista a togliersi la vita. Più avanti si capirà che, in realtà, i due sono rispettivamente il fidanzato e la più cara amica della sfortunata protagonista, entrambi rei confessi di un “tradimento” nei suoi confronti. Tale evento, sapientemente, viene indicato dai due come la vera “causa scatenante”:
Ma la causa scatenante/il motivo vero siamo io e te/io che l’ho tradita/ tu che le sei stata amica

Dico “sapientemente” perché Bianconi dei Baustelle, qui, invece di fermarsi a quello che sembra il fattore causale immediatamente evidente, si addentra pian piano nella psicologia della donna, allo scopo di comprendere le reali ragioni – in Psicologia li chiameremmo i “fattori predisponenti” – che l’hanno spinta a compiere il tragico atto. Le due voci-narranti della storia (l’altra è quella di Rachele Bastreghi) cominciano, quindi, a elencare una serie di ipotesi per spiegare l’evento e che permettono di fare alcune interessanti inferenze sulla psicologia della “vittima”.

Innanzitutto la protagonista appare come una ragazza solitaria e poco interessata ai rapporti sociali (Forse perché non le piace la gente); particolarmente interessante, tuttavia, è il verso successivo (o quella festa che ha dentro di sè/quando vorrebbe la tranquillità/il niente), il quale, utilizzando le chiavi di lettura delle teorie cognitiviste, è in grado di fornire qualche spunto sui possibili stati mentali ricorrenti nella donna: la “festa” , per esempio, potrebbe alludere alla presenza di stati mentali caotici, poco integrati, o più semplicemente alla presenza di processi di pensiero ripetitivi (ruminazione e/o rimuginazione).

Quest’ultima ipotesi riporta alla mente le parole di Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva: “Le persone restano intrappolate nel disturbo emotivo poiché le loro metacognizioni causano un particolare pattern di risposta a esperienze interne che mantengono l’emozione negativa e rafforzano le credenze/idee negative” (Wells, 2009, p.1). In tale ottica, la comparsa di pensieri negativi come “non sono all’altezza” attiva specifiche metacredenze sulla ruminazione e/o la rimuginazione (es. “se rumino/rimugino uscirò da questa situazione”) che tuttavia si rivelano disfunzionali in quanto, anziché risolverle, rafforzano e mantengono le credenze e le emozioni negative da esse evocate.

Volendo continuare questo “gioco” di interpretazione, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la ragazza al momento del gesto versasse in uno stato depressivo acuto; tale aspetto troverebbe conferma nei versi successivi:
Certo perché/non le importa più niente/del freddo forte che fa/nella città/per farla breve che tempo farà/per sempre

Queste parole potrebbero, infatti, essere lette alla luce della famosa triade cognitiva di Beck (1979), usata per descrivere la depressione: secondo il fondatore della Terapia Cognitiva, infatti, la sindrome depressiva è riconducibile alla presenza di una triade di credenze negative su di sé, il mondo e il futuro. La ragazza della canzone, difatti, sembrerebbe nutrire profonda sfiducia e pessimismo verso il mondo esterno e il futuro.
Ma, a mio avviso, i versi più interessanti e in grado di delineare in modo più dettagliato il quadro personologico della ragazza sono quelli riportati qui di seguito:
Forse perché quello che lei voleva/era una vita da star/Milano style/ come credete che si sentirà adesso?

Prendendo spunto anche dalle riflessioni di Riva (2016), si può immaginare che la ragazza provasse un profondo senso di inadeguatezza, un vissuto che spesso ricorre in gran parte degli adolescenti di oggi e che appare sempre più legato alle dinamiche sociali tipiche della nostra epoca, plasmate profondamente dai social-media e permeate da crescenti bisogni narcisistici di affermazione mediatica del Sé. In tale quadro il suicidio rappresenterebbe un gesto sensazionale, in grado di farla uscire dall’anonimato e di proiettarla nella dimensione di notorietà tanto agognata.

Tematiche simili vengono riproposte in “Betty” (da “L’Amore e la Violenza”, 2017). La canzone, infatti, ci offre il ritratto della tipica adolescente contemporanea, la cui soggettività appare sempre più inscindibile dalle immagini e dai significati veicolati sui social network (Manda messaggi al mondo/Quando le va di uscire/Che bel profilo/E quante belle fotografie)

Sembra prendere corpo quella dimensione di “interrealtà” a cui fa riferimento sempre Riva (2010), in cui non c’è più separazione tra il mondo reale e quello virtuale dei social: secondo tale ipotesi, a differenza di quanto avveniva in passato, adolescenti e giovani adulti di oggi permarrebbero per un tempo indefinito (forse addirittura per l’intera durata della propria esistenza) in uno stato dinamico di costruzione e ri-costruzione della propria identità.

Il chiaro riferimento alla tematica dell’identità fluida descritta da Bauman (2003) si intreccia, poi, con quella dell’ “analfabetismo emotivo”: nella dimensione dell’interrealtà, infatti, le relazioni mediate dalla fisicità dei corpi sono sostituite da quelle del medium virtuale, con il risultato che vengono perse le coordinate emotive. Accade così che stati emotivi contrapposti e inconciliabili vengono espressi e comunicati nello stesso momento (Ride quando la tocchi/Finge quando sorride), perdendo ogni significato (Vive bene, vive male/Non esiste differenza/Tra la morte di una rosa/E l’adolescenza). Ciò significa che i rapporti umani reali finiscono sempre più con l’assumere le caratteristiche delle relazioni virtuali, in cui tutto è possibile ma nulla è reale. La metafora del gioco sembra pertanto riuscire a descrivere efficacemente il modo in cui ci si relaziona con l’Altro oggi (Betty è bravissima a giocare/Con l’amore e la violenza).

Per l’ennesima volta, il suicidio, come un mantra, viene evocato da Bianconi come gesto risolutivo che assume i toni di un desiderio liberatorio della ragazza rispetto ad una realtà (anzi un’interrealtà) opprimente e di cui tutti siamo divenuti ormai dipendenti (Betty ha sognato di morire/Sulla circonvallazione/prima ancora di soffrire/Era già in putrefazione/Un bellissimo mattino/Senza alcun dolore/Senza più dolore).

Gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo: esistenza di una possibile relazione

Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gamblinggioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo. Ciò potrebbe generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. 

Elena Rizzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Nell’ambito della ricerca psicologica clinica, è sempre di notevole interesse l’indagine dell’esistenza di relazioni tra diverse manifestazioni psicopatologiche. La ragione di tale interesse risiede nella possibilità di generare importanti implicazioni teoriche e cliniche utili allo sviluppo e al miglioramento delle strategie di prevenzione e di trattamento delle patologie in questione. Varie ricerche presenti in letteratura si sono occupate di indagare l’esistenza di una possibile relazione tra i comportamenti di gambling o gioco d’azzardo patologico, shopping compulsivo e accumulo compulsivo.

 

Gambling, shopping compulsivo e accumulo compulsivo

Il gambling, o gioco d’azzardo patologico, viene definito come un comportamento problematico persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi (DSM-5; APA, 2013).

Lo shopping compulsivo consiste in una “cronica, anormale forma di shopping e di spesa caratterizzata principalmente da un irresistibile, incontrollabile e ripetitivo impulso/desiderio di acquistare” (Edwards, 1992, pp. 54), il quale viene reiterato fino a determinare effetti dannosi per l’individuo e le persone che gli stanno vicine (Pani & Biolcati, 2006).

L’accumulo compulsivo è caratterizzato dalla persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni a prescindere dal loro reale valore, che comporta l’ingombro degli spazi vitali compromettendone l’uso previsto e causa disagio o compromissione del funzionamento della persona (DSM-5; APA, 2013).

Le prime due manifestazioni cliniche vengono convenzionalmente incluse nella macrocategoria delle dipendenze comportamentali, mentre la terza viene definito un disturbo correlato al Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

 

Cosa sono le dipendenze comportamentali?

Il concetto di dipendenza comportamentale (behavioural addiction) nasce con l’intento di classificare quei comportamenti che rispecchiano i sintomi e le conseguenze delle dipendenze correlate all’uso di sostanze, pur non prevedendo l’assunzione delle stesse.

Negli ultimi anni, la crescente attenzione di ricercatori e clinici per l’argomento è stata mossa anche dalla proposta dell’inserimento all’interno della sezione dei Disturbi correlati a sostanze del DSM-5 (APA, 2013) di una sottocategoria appositamente dedicata a questo tipo di dipendenze. Se da una parte molti autori hanno sostenuto tale la proposta, dall’altra, molto più controversa e dibattuta è stata la scelta delle patologie da inserirvi (Black, 2013). Sono stati presi in considerazione diversi comportamenti patologici tra cui: il gambling o gioco d’azzardo patologico, l’uso compulsivo del computer (compulsive computer use), il comportamento sessuale compulsivo (compulsive sexual behavior) e lo shopping compulsivo (compulsive buying) (Grant, Brewer & Potenza, 2006).

Tuttavia, con la pubblicazione del DSM-5, si osserva che la categoria delle dipendenze comportamentali (Disturbi non correlati a sostanze), per ora, include soltanto una delle patologie considerate dagli studiosi: il Gioco d’Azzardo Patologico (gambling). Il mancato raggiungimento di un punto di vista condiviso e la conseguente impossibilità di formulare criteri diagnostici univoci anche per altri comportamenti patologici (come lo shopping compulsivo), sono probabilmente dovuti alla minore presenza di studi riguardanti tali comportamenti disfunzionali (Chiri, Gorrini & Sica, 2010). Ad ogni modo, nella pratica clinica, lo shopping compulsivo viene a tutti gli effetti riconosciuto come una dipendenza comportamentale e conseguentemente trattato.

 

Cosa sono i disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo?

I disturbi correlati al Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) sono quelle patologie che la ricerca ha identificato come aventi i tratti che caratterizzano i disturbi dello spettro ossessivo compulsivo, ovvero la presenza di pensieri ossessivi e comportamenti ripetuti (Mannelli, 2013). Tra di essi vi è il Disturbo d’Accumulo (Hoarding) che per la prima volta viene identificato come un’entità diagnostica a se stante e distinta dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo, al quale, in precedenza, veniva ricondotto (DSM-5; APA, 2013). Numerose ricerche, hanno infatti rilevato che un’elevata percentuale dei pazienti con una diagnosi principale di accumulo compulsivo non soddisfaceva i criteri per un’ulteriore diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo e che l’Hoarding è clinicamente, neurobiologicamente e geneticamente distinto dal DOC (An et al., 2009; Frost, Steketee, Tolin & Glossner, 2010; Mataix-Cols et al., 2010; Saxena et al., 2004).

 

Comportamenti normali vs comportamenti patologici

Tutti e tre i comportamenti in esame (gambling, shopping e accumulo) sono, in realtà, presenti normalmente nella gamma di azioni compiute dagli uomini; sono abitudini diffuse, quotidiane e socialmente accettate, ben lontane dall’apparire come un sintomo clinico. In questi casi, infatti, la psicopatologia si situa all’estremità di un continuum in cui al limite opposto vi è un comportamento normale ed equilibrato, il quale, potenzialmente, può addirittura aumentare il benessere psicologico dell’individuo (Pani & Biolcati, 2006).

Le motivazioni per le quali un soggetto può decidere di intraprendere e continuare tali attività sono molteplici. Il gioco d’azzardo, ad esempio, potrebbe costituire uno spazio magico in cui fantasticare sulla ricchezza e sui conseguenti cambiamenti della propria vita; oppure un’attività con la quale riempire o cancellare momentaneamente momenti di noia, mancanza di senso, di insoddisfazione o, peggio, di depressione e solitudine; o, ancora, un’attività per provare eccitazione e piacere (Croce, 2001; Pani & Biolcati, 2006).

Nel caso dello shopping, invece, di pari passo con l’affermazione della “cultura del consumo”, l’acquisizione di beni materiali ha assunto sempre di più una posizione centrale per l’individuo in quanto influenza il suo status sociale, contribuisce alla regolazione del suo umore ed all’espressione della propria identità e del proprio sé (Dittmar, 2001).

Infine, nel caso del comportamento di accumulo, sembra che esso esista persino per una ragione evolutiva (è riscontrabile anche in alcune specie animali), con la funzione di prevenire la scarsità di cibo e beni tipica di certi periodi dell’anno o di certe annate (Frost, 2010). Traslato nella società odierna, le ragioni che spingono gli individui a “conservare” sono, ad esempio, la paura di perdere qualcosa di importante oppure l’idea che gli oggetti possano servire in futuro (Frost, Kim, Morris, Bloss, Murray-Close & Steketee, 1998).

Questi tre comportamenti, tuttavia, possono in certe condizioni essere messi in atto in  maniera problematica e disfunzionale con gravi conseguenze per la salute dell’individuo (sia mentale che fisica) e con derive dannose riscontrabili in diverse aree: sociale, familiare, occupazionale, economica e legale.

Nel comportamento di gioco d’azzardo è presente un’intrinseca pericolosità potenziale dovuta sia a fattori individuali che ambientali, tra i quali l’aumento e la diversificazione dell’offerta delle possibilità di gioco degli ultimi decenni che consente un accesso al gioco più immediato, prevede giochi caratterizzati da un maggior rischio di additività e induce sempre di più alla messa in atto del comportamento in maniera solitaria ed asociale (Croce, 2001). Per quanto riguarda lo shopping, esso può diventare un comportamento patologico quando assume il ruolo di azione compensatoria di una mancanza, non materiale ma emotiva, per esempio per alleviare o sopprimere uno stato emotivo negativo, spesso depressivo (Fiore, 2015). Il comportamento di accumulo, invece, può in certi casi sfociare in un comportamento compulsivo che rappresenta unicamente un costo in termini di accumulo piuttosto che un effettivo beneficio: la funzionalità viene surclassata dall’eccesso (Frost, 2010).

 

Esistenza di una possibile relazione tra i tre comportamenti patologici

Le indagini svolte fino ad oggi indagano principalmente l’eventuale sussistenza di una co-occorenza tra le manifestazioni cliniche. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le ricerche sono state svolte indagando alternativamente una coppia dei tre comportamenti e raramente si sono occupate dello studio dei tre comportamenti patologici in un unico campione.

 

Gambling e shopping compulsivo

I risultati disponibili in letteratura sono concordi nel rilevare la presenza di una comorbidità tra le due manifestazioni cliniche, gambling (ovvero gioco d’azzardo patologico) e shopping compulsivo (Black, Monahan, Schlosser & Repertinger, 2001; Frost, Meagher & Riskind, 2001; Kausch, 2003; Lesieur & Rosenthal, 1991; Netemeyer et al., 1998; Specker, Carlson, Christenson & Marcotte, 1995). In aggiunta alla condivisone delle peculiarità delle dipendenze comportamentali, il motivo della stretta relazione tra i due comportamenti patologici potrebbe essere la condivisione di caratteristiche di attenzione focalizzata, gratificazione monetaria e scambio di denaro (Black & Shaw, 2008; Specker et al., 1995). Esistono, inoltre, delle preliminari evidenze a sostegno di un substrato neurobiologico condiviso. È stata, infatti, proposta l’ipotesi di un’origine serotoninergica comune, supportata da una piccola indagine pilota che mostra che i due disturbi rispondono al trattamento con gli SSRI (inibitori del “reuptake” della serotonina) con miglioramenti realmente promettenti (Alexander, 1996).

 

Shopping compulsivo e accumulo compulsivo

L’accostamento dei due comportamenti patologici, shopping compulsivo e accumulo compulsivo, è meglio comprensibile e giustificabile se si considera lo shopping compulsivo come una componente dell’acquisizione compulsiva, la quale costituisce un elemento cardine del più ampio fenomeno dell’ accumulo compulsivo (DSM-5; APA, 2013; Frost & Hartl, 1996).

Dalla comparazione dei deficit e delle manifestazioni cliniche emergono, in entrambe le patologie, difetti nel processo di presa delle decisioni e un ridotto controllo sull’attività mentale (Kyrios, Steketee, Frost & Oh, 2002). Queste difficoltà possono, in entrambi i casi, derivare da un’inadeguata gestione degli stati emotivi negativi (come ansia e depressione) oppure possono essere il risultato di credenze disfunzionali (ad esempio formulate in maniera perfezionistica). Un’ulteriore caratteristica comune, che spinge gli hoarders ad accumulare e gli acquisitori compulsivi a comprare, è la preoccupazione per la perdita di un’opportunità, ovvero di un bene che potrebbe essere utile in futuro (Frost et al., 1998). La co-occorenza delle due patologie è ampiamente provata (Frost, Tolin, Steketee, Fitch, & Selbo-Bruns, 2009; Hayward & Coles, 2009). Alcuni autori, tuttavia, precisano che un’attenta analisi dei risultati disponibili sull’argomento suggerisce che quasi tutti gli hoarders mostrano in associazione anche il comportamento di acquisto compulsivo, ma anche che non tutti gli acquirenti compulsivi soffrono di accumulo compulsivo (Mueller et al., 2007).

 

Gambling e accumulo compulsivo

I dati presenti in letteratura sul legame tra gambling e accumulo compulsivo sono minori e discordanti (Hayward & Coles, 2009). Tuttavia, il fatto che alcuni autori abbiano rilevato una maggiore presenza di tratti ossessivi/compulsivi in giocatori patologici rispetto a giocatori nella norma (Blanco et al., 2009; Blaszczynski, 1999), ha spinto altri ricercatori ad avanzare ed indagare l’ipotesi che anche nel gambling o gioco d’azzardo patologico (come nello shopping compulsivo e nell’ accumulo compulsivo) vi possa essere un pensiero intrusivo o una paura ossessiva di perdere un’opportunità (Frost, Meagher & Riskind, 2001). Nel loro studio, infatti, essi rilevano che giocatori patologici ottengono punteggi significativamente più alti nelle scale misuranti l’hoarding (e in quelle misuranti l’acquisto compulsivo) rispetto ai giocatori non patologici. Gli autori, inoltre, contribuiscono a delineare un’importante differenza nella relazione tra shopping compulsivo e gambling rispetto a quella tra shopping compulsivo e hoarding: nel primo caso, infatti, esiste soltanto in relazione all’acquisto compulsivo di beni (necessariamente attraverso il denaro); mentre, nel secondo caso, è presente anche considerando l’acquisizione di beni gratuiti.

La letteratura sembrerebbe, quindi, evidenziare la presenza di una relazione tra i tre comportamenti patologici, decisamente più evidente e supportata nel caso di gambling e shopping compulsivo e nel caso di shopping compulsivo e accumulo compulsivo, meno significativa (ma anche meno indagata) nel caso di gambling e accumulo compulsivo.

I risultati ottenuti in un’indagine preliminare svolta con un campione di giocatori d’azzardo tratto dalla popolazione italiana sono in linea con queste evidenze (Rizzi, 2014). Sono state, infatti, rilevate una forte correlazione tra comportamento di gioco d’azzardo patologico e comportamento di shopping compulsivo e delle differenze significative tra giocatori non patologici e giocatori patologici negli indici inerenti all’acquisizione compulsiva (più alti nei giocatori patologici), ad eccezione degli indici relativi all’acquisizione di beni gratuiti. È stata poi evidenziata la presenza di un’importante correlazione tra shopping compulsivo e accumulo compulsivo, supportata anche dal fatto che tutti i partecipanti identificati come hoarders sono risultati essere anche acquisitori compulsivi. Anche in questa ricerca, tuttavia, non vale il contrario, ovvero non tutti gli acquisitori compulsivi sono risultati essere anche hoarders. Infine, come in letteratura, i risultati relativi alla relazione tra gambling e accumulo compulsivo sono meno chiari, poiché evidenziano la presenza di una correlazione tra i due comportamenti patologici (seppur non per tutti gli indici inerenti l’hoarding) e la presenza di una differenza negli indici dell’ accumulo compulsivo tra giocatori non patologici e giocatori patologici ma non statisticamente significativa. L’indagine compiuta rappresenta un’importante punto di partenza che tuttavia necessita di essere ampliato e integrato, al fine di confermare le evidenze emerse e colmare le lacune conoscitive.

Cosa sono le Anfetamine e i loro effetti – Introduzione alla Psicologia

Le anfetamine o amfetamine (amine simpaticomimetiche) sono sostanze di origine sintetica. Esse presentano una struttura chimica simile agli stimolanti naturali prodotti dall’ organismo, come l’ adrenalina, la noradrenalina, la dopamina e la serotonina. Le anfetamine agiscono stimolando il sistema nervoso centrale e il sistema simpatico mimando o imitando gli effetti della sostanza endogena naturalmente prodotta, da cui il nome simpaticomimetiche.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia

Le anfetamine furono scoperte a fine ‘800 e diede nome ad una classe di molecole simili per struttura e per azione farmacologica chiamate, appunto, anfetamine. L’ anfetamina fu sintetizzata per la prima volta nel 1887, presso l’ università di Berlino, da un chimico rumeno, Lazar Edeleanu, passato alla storia con il nome di Edeleano. La sostanza, però, inizialmente non fu utilizzata in ambito clinico.

Nel 1920 Gordon Alles utilizzò, per la prima volta, l’ anfetamina in ambito medico, viste le notevoli proprietà vasocostrittorie utili per trattare l’ asma, la febbre da fieno e la rinite. Le anfetamine, dunque, dovevano costituire un sostituto sintetico dell’efedrina, principio farmacologico naturale estratto dalla pianta Efedra, efficace nel trattamento sintomatico dell’asma, ma di difficile estrazione. Le anfetamine, fin dall’ inizio, ebbero un grosso successo commerciale, soprattutto per le loro proprietà stimolanti. Per questo, nel 1932 alcuni laboratori farmaceutici iniziarono la commercializzazione di un prodotto a base di anfetamine che si chiamava la benzedrina e nel 1959, visto il crescente uso di sostanze a base di anfetamine, fu reso disponibile il prodotto in farmacia.

L’ impiego delle anfetamine iniziò a diffondersi durante la seconda guerra mondiale, poiché era somministrata ai soldati per diminuire la loro paura e aumentare il loro grado di concentrazione. Alcuni anni più tardi si diffuse fra la popolazione studentesca che la usava per aumentare il livello di concentrazione e memoria.

Caratteristiche e differenze tra le anfetamine

Le anfetamine sono psicostimolanti sintetici molto facili da sintetizzare e tra essi troviamo: l’ anfetamina, la metanfetamina, il metilfenidato (Ritalin), il modafinil, l’ efedrina (anoressizante). I primi due sono droghe, mentre gli ultimi tre farmaci.

Modalità d’assunzione

Le anfetamine si presentano in varie forme e si assumono in vari modi: – polveri, si sniffano o si iniettano per via endovenosa; – compresse, si ingeriscono o frantumate si sniffano o si iniettano; -capsule, si ingeriscono.

Le metanfetamine possono essere: – cristalli, detti anche “ice” di varia grandezza, che si possono fumare, ingerire o iniettare; – polveri o compresse, iniettate o ingerite. Inoltre, le Anfetamine e le metanfetamine possono essere assunte anche per via anale. La modalità, dunque, d’ uso delle anfetamine dipende dalle abitudini culturali e ambientali in cui sono assunte e variano nel tempo e a seconda del diverso costume sociale.

Il metodo più usato, poiché ne aumenta la durata degli effetti, è assumere la sostanza per via orale. Lo sniffare produce un rapido effetto, ma potrebbe portare a lesioni al naso; invece, iniettare l’ anfetamina per via endovenosa aumenta i rischi di overdose dato che la sostanza raggiunge rapidamente il cervello e le impurità presenti sono introdotte direttamente nel flusso sanguigno con rischio possano presentarsi delle infezioni quali, per esempio, la setticemia.

Perché si usano

Le anfetamine si utilizzano per svariate ragioni. Ci sono persone che le assumono per sentirsi particolarmente vigili o per migliorare la performance nello sport o nel lavoro o aumentare la stima e fiducia in se stessi. Esse riducono la stanchezza, aumentano la resistenza e non fanno sentire lo stimolo della fame o della sete. Le metanfetamine, in particolare, mostrano effetti amplificati rispetto alle anfetamine poiché inducono un maggiore rilascio di dopamina. Per questo favoriscono una maggiore sensazione di benessere e buon umore. Oltre che sostanze d’ abuso, le anfetamine si utilizzano a fini terapeutici in varie patologie, a esempio la narcolessia, l’ obesità, il deficit dell’ attenzione e iperattività (ADHD) o patologie asmatiche.

Effetti

Le anfetamine sono stimolanti sintetici usati per aumentare le prestazioni fisiche (doping). Gli effetti delle anfetamine sono numerosi: a livello del sistema nervoso centrale si riduce la percezione di fatica e aumentano le capacità intellettive attraverso un incremento dell’ attenzione e della concentrazione. Di conseguenza, il soggetto avverte un notevole senso di benessere, è euforico e sprezzante del pericolo; a livello dei sistemi cardiocircolatorio e respiratorio si ha tachicardia, aumento della pressione arteriosa e incremento del ritmo della respirazione. Altri effetti sono l’ aumento del metabolismo basale, variazione dei meccanismi di termoregolazione, ipertermia, perdita dell’ appetito ecc.

Grazie ad alcuni effetti prodotti, come la riduzione del senso di fatica e la diminuzione del senso di fame, le anfetamine si utilizzano, illegalmente, sia in ambito sportivo sia in ambito dietologico. Gli effetti positivi, nel giro di poco tempo, però, diventano secondari a una serie di effetti negativi dovuti alla dipendenza e all’ assuefazione alla sostanza. Per questo, sono frequenti disordini cardiaci molto gravi, a volte mortali, causati dall’ assunzione di dosi eccessive.

Inoltre, l’ eliminazione del senso di fatica spinge il soggetto, in particolar modo in ambito sportivo, ad andare oltre i propri limiti fisici con il manifestarsi di notevoli disagi e problemi. E’ possibile riassumere gli effetti come segue:

  1. sistema nervoso centrale: senso di benessere ed euforia, minore percezione della fatica, sprezzo del pericolo, sensazione di potere e superiorità, comportamenti stravaganti, aumento delle capacità intellettive, diminuzione dell’appetito.

2. sistema cardiocircolatorio e respiratorio: incremento della pressione arteriosa, aumento della frequenza cardiaca (tachicardia), aumento del ritmo respiratorio (tachipnea).

3. metabolismo corporeo: aumento del metabolismo basale, termoregolazione, ipertermia, marcato effetto anoressizzante.

L’ abuso di queste sostanze, nel tempo, potrebbe portare al manifestarsi di molti disturbi, tra cui: Depressione, Ansia, allucinazioni, cefalea ricorrente, delirio, disturbi legati alla sfera del sonno, irrequietezza, loquacità e logorrea, midriasi frequente, secchezza delle fauci, tremori diffusi, nausea e vomito.

Quando termina l’ effetto dell’ anfetamina si ha un crollo fisico e psicologico: si percepisce spossatezza, irritabilità, depressione. In sostanza, quando termina l’ effetto della droga, si ottengono sintomi opposti a quelli avuti in precedenza. Questi stati, mentali e fisici, fungono da innesco per l’ assunzione della dose successiva previo il crollo.

L’ uso prolungato di anfetamina oltre a provocare una forte diminuzione di peso, può portare a psicosi, a manie di persecuzione, etc. Chiaramente, l’ abuso della sostanza in casi estremi può portare anche alla morte. Inoltre, l’ attivazione del sistema della ricompensa o del piacere, da parte delle anfetamine, comporta un continuo rilascio di dopamina che induce dipendenza e profonde modificazioni delle funzioni cerebrali.

Il più grave effetto dovuto all’ abuso di anfetamina è la dipendenza e l’ assuefazione: l’organismo umano si adegua all’effetto della sostanza, e per avere la stessa intensità degli effetti richiede l’ assunzione di una dose sempre maggiore. Di conseguenza, se si interrompesse l’assunzione insorgerebbe la sindrome da astinenza. Da un punto di vista psicologico si avrà la ricerca costante e attiva della sostanza attraverso la messa in atto di comportamenti (craving), volti alla ricerca della sostanza ogni qualvolta si verifica il desiderio della stessa (pensiero desiderante).

Utilizzo

In Italia le anfetamine sono ritenute illegali per legge e per questo ne è proibita la produzione e la vendita. Di conseguenza, chi ritenuto in possesso di sostanza, la produce o la vende sarà punito con la reclusione o attraverso l’ applicazione di sanzioni.

L’ uso farmacologico delle anfetamine è limitato all’ ambito medico per la cura del morbo di Parkinson, della narcolessia, dell’ ADHD e dell’ obesità.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Etero-curiosi, Bi-curiousi , Fluidi (ecc…): quando le etichette non servono – Le risposte di fluIDsex

Dato che si parla di sessualità fluida… se una persona che si è sempre ritenuta eterosessuale, ha un’esperienza – isolata – omosessuale con una persona “x”, deve iniziare ad avere dei dubbi sul proprio orientamento?

 

In medicina, in particolare negli studi sulla salute sessuale, si fa uso dei termini WSW (women who have sex with women) o MSM (men who have sex with men) o anche WSWM (women who have sex with women and men) e MSMW (men who have sex with men and women), per indicare persone che hanno avuto o continuano ad avere rapporti sessuali con individui dello stesso sesso ma non si identificano come gay o bisessuali.

Quando parliamo di identità sessuale e orientamento sessuale parliamo di etichette con cui potersi identificare e con le quali comunicare anche con gli altri. Ovviamente non tutti sentono il bisogno di far ciò, d’altronde, identificarsi come bisessuale, omosessuale, eterosessuale (…) non vuol dire smettere di avere dubbi riguardo alle attrazioni affettive o sessuali nei confronti di altre persone, a prescindere dal loro genere.

Dipende dal singolo individuo capire se un’esperienza isolata sia qualcosa che ci ha piacevolmente sorpresi o qualcosa che possa descrivere al meglio la propria identità.

Quando abbiamo dei dubbi, molto spesso ci troviamo davanti ad un bivio: continuare a percorrere la strada che abbiamo intrapreso, ammettendo che non sempre sappiamo a priori cosa può piacerci, o lasciarsi trasportare da desideri, curiosità e “vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio”?

 

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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Il disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine: uno sguardo alle più rilevanti considerazioni scientifiche recenti

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano. Inoltre presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

 

Il Disturbo da gioco d’azzardo: una dipendenza comportamentale

Le “dipendenze comportamentali” o “nuove dipendenze”, sono definibili come forme di addiction nelle quali avviene una dedizione eccessiva ad un’abitudine o ad un comportamento che può determinare disagio, sofferenza psichica e rendere problematiche molte relazioni sociali e familiari (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Tra le dipendenze comportamentali il “Disturbo da gioco d’azzardo” ha trovato una collocazione nosografica. Infatti, il DSM-5 (APA, 2013) considera il gioco patologico una diagnosi formale e lo annovera tra i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction, nella sottocategoria dei “disturbi non correlati a sostanze”.

Tra le varie tipologie di gioco d’azzardo, quella inerente alla slot-machine risulta essere una delle più diffuse ed è la più redditizia per lo Stato italiano (gli italiani nel 2016 hanno speso circa 4,6 miliardi di euro giocando alle slot-machine; Agipronews, 2016). Inoltre, l’attenzione dei ricercatori si è principalmente focalizzata su questa tipologia di gioco poiché presenta caratteristiche che facilitano lo sviluppo di un comportamento compulsivo, come: l’elevato ritmo di gioco, le numerose giocate possibili e l’immediatezza dei risultati.

I correlati neurali del Disturbo da gioco d’azzardo da slot-machine

Nell’insieme, i dati in letteratura indicano il coinvolgimento del sistema dopaminergico (e/o altri percorsi aminergici) nella patofisiologia del Disturbo da gioco d’azzardo (Potenza et al., 2003). Recenti studi (Van Holst et al., 2014) hanno poi mostrato che la gravità del gioco d’azzardo da slot-machine risulta essere associata ad una minore connettività tra le aree sensibili alla ricompensa (in particolare tra lo striato-ventrale destro e la corteccia cingolata anteriore). Interessanti in questo senso sono gli studi condotti nell’ambito dell’apprendimento, dato che il circuito della ricompensa assolve un ruolo fondamentale nella motivazione all’apprendimento generalmente inteso.

Nello svolgimento di un’attività la spinta motivazionale può essere legata ad uno stato di piacere di tipo endogenico, legato allo svolgimento dell’attività stessa, e ad uno di tipo esogenico, legato al raggiungimento degli obiettivi (quindi nel caso delle slot-machine alla vincita): questi stati di piacere suscitano emozioni positive che agiscono da rinforzi comportamentali, contribuendo al consolidamento dell’apprendimento. Secondo i modelli biologici contemporanei (Schultz, 2010), con il procedere dell’apprendimento l’attività dei neuroni dopaminergici nell’area tegmentale-ventrale (VTA) tende a diminuire, mentre l’attività evocata dagli stimoli che segnalano un’imminente consegna di ricompense tende ad aumentare.

In linea con questi modelli, Shao e colleghi (2013) propongono che un singolo episodio di slot-machine possa diminuire il valore positivo della ricompensa di risultati di vincita (piacere esogenico) ed incrementare il valore degli eventi di gioco (piacere endogenico) ad essi precedenti. Il dati confermano questa ipotesi e delineano come singoli episodi di gioco alle slot-machine impegnino meccanismo di rinforzo-apprendimento ben caratterizzati (mediati dal sistema dopaminergico-mesolimbico), innescando il trasferimento dei valori lontano dai risultati del gioco, verso stati anticipatori (dunque mentre i rulli della slot stanno girando).

Il gioco d’azzardo patologico è un comportamento acquisito, che si instaura e consolida nel tempo grazie alle stesse dinamiche di ogni tipo di apprendimento e ne condivide le basi neurofisiologiche. Come ben spiegato ne “La spirale del gioco. Il gioco d’azzardo da attività ludica a patologia” (Tani e Ilari, 2016) quando il gioco d’azzardo è ancora in una fase iniziale, il comportamento del giocatore è influenzato sia dalla spinta motivazionale di tipo esogenico sia da quello tipo endogenico.

A questi si aggiungono gli stimoli sensoriali: luci, suoni, colori, sensazioni tattili e così via, ovvero tutti quegli stimoli usualmente presenti nel contesto del gioco, che il giocatore impara ad associare sia al piacere esogenico che a quello di tipo endogenico (Arias-Carrion et al., 2010). Con il tempo, anche la sola presenza di quest’ultima tipologia di stimoli, è sufficiente per innescare, attraverso meccanismi di condizionamento operante, modificazioni nei livelli di rilascio di dopamina. In una fase più avanzata del decorso, gli stimoli di tipo esogenico perdono la loro forza motivazionale, mentre quelli di tipo endogenico, che hanno ormai modificato gli equilibri omeostatici del sistema dopaminergico, divengono una spinta motivazionale sempre più forte e vengono evocati anche dai semplici stimoli neutri. Gli stimoli offerti dall’attività di gioco alterano i livelli di dopamina determinandone un innalzamento anomalo, sia per durata che per intensità. Con il ripetersi degli eventi di gioco, i livelli di dopamina continuano a mantenersi alti, seppure attraverso modalità diverse e l’anomalia del sistema dopaminergico fa sì che nei giocatori patologici, al contrario di quanto accade nei non giocatori, la perdita non produca un abbassamento della gratificazione tale da disincentivare il comportamento di gioco (Clark et al., 2009).

Nonostante il ruolo svolto dalle alterazioni a carico del sistema di gratificazione, è necessario adottare un’ottica neuroscientifica, per cui tutti i disturbi psichiatrici sono da considerarsi disturbi “complessi”, cioè nella cui patogenesi sono coinvolti fattori, genetici o ambientali, che interagiscono tra loro in maniera articolata (Gazzillo e Lingiardi, 2014). Andrebbe sempre considerato che, affinché un tratto maladattivo, un sintomo o un disturbo si esprimano nell’individuo, debbano essere presenti più geni predisponenti e più fattori ambientali negativi, così come debba verificarsi un particolare modello di interazione gene-ambiente in grado di dar luogo alla specifica condizione psicopatologica.

Il rinforzo negativo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Sogna, perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare (Jim Morrison)

Il giocatore d’azzardo cerca di fuggire da sentimenti di ansia, rabbia, colpa e depressione attraverso la dissociazione prodotta dal gioco, come indicato dal Criterio A5 del DSM-5 (per il quale il giocatore “spesso gioca d’azzardo quando si sente a disagio”). Oltre a ciò, viene fornita l’opportunità di una vincita di denaro, fattore che può fornire un senso di speranza e contribuire a ridurre sentimenti di ansia, o proprio di mancanza di speranza.

Dunque l’elemento di svago o di distrazione, unito alla percezione di una scorciatoia verso la ricchezza, sono fattori di rischio per lo sviluppo del gambling da slot-machine patologico. Recenti risultati hanno di fatti evidenziato che i giocatori di Electronic Gaming Machine (EGMs) patologici siano più motivati a giocare per sfuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici (MacLaren et al., 2012). Inoltre bisogna considerare che le slot-machine sono progettate per fornire un’esperienza lieta, divertente ed interattiva in cui potenzialmente la perdita di denaro possa essere percepita come relativamente indolore e spesso rapida (Silver, 2015).

Quello delle slot machine, essendo comunque un gioco (anche se a pagamento), fornisce la possibilità di immergersi in un “altro mondo”, dando modo di distrarsi da problemi quotidiani. A questo contribuisce anche la conformazione dei luoghi deputati al gioco d’azzardo, che spesso sono ambienti chiusi, poco illuminati, privi di finestre e di orologi alle pareti, così da favorire la perdita del senso del tempo e spingere i soggetti a giocare più a lungo di quanto essi stessi avessero previsto. Così, completamente assorbiti dal gioco e, in alcuni casi, letteralmente dissociati dalla realtà, i giocatori finiscono per non rendersi conto di quanto tempo passano effettivamente a giocare e le condizioni ambientali sopra descritte rafforzano questa perdita di contatto con la realtà che li circonda (Tani e Ilari, 2016). Inoltre, come già sottolineato, entrare in una sala slot o recarsi al casinò, porta con sé l’idea di poter vincere soldi e di poter evadere dai problemi quotidiani, rifugiandosi in un luogo ‘altro’ rispetto alla vita reale.

Il rinforzo positivo nell’utilizzo patologico delle slot machine

Come abbiamo già visto, le specifiche caratteristiche delle slot-machine sono state indicate come potenziali fattori in grado di creare dipendenza, dato che possono influenzare o interagire con le cognizioni relative al gioco d’azzardo e contribuire all’apprendimento per rinforzo e al gioco d’azzardo persistente. Anche per questo, alcuni autori considerano le slot-machine come una delle forme di gioco d’azzardo più pericolose (Schüll, 2012).

Una delle caratteristiche delle slot-machine è il fenomeno della “quasi-perdita”, un’esperienza tipicamente rilevabile nel gioco d’azzardo con le slot. I risultati di quasi-perdita si verificano quando, dopo aver fatto girare i rulli, in una linea del display vengono riportati tutti simboli corrispondenti, tranne uno (per es., AAAB). Le “quasi-perdite” sono definibili come risultati di perdita, percepiti però come “vicini” al successo, alla vincita (Reid RL, 1986). Questi risultati lasciano nel giocatore un senso di “rinforzo anticipatorio”, con il pensiero che una vincita debba essere imminente. Le ricerche indicano che i risultati di quasi-perdita, rispetto alle perdite totali, sono associate ad un aumento di attività nei circuiti di rinforzo/ricompensa e apprendimento (Van Holst et al., 2014), e che segnali di rinforzo positivo suscitati dalle quasi-perdite possono essere osservati anche in giochi di slot-machine semplificati e con un ridotto coinvolgimento del giocatore (Shao et al., 2013). Anche se il valore monetario delle quasi-perdite è equivalente ad altre perdite, questi risultati sono associati ad un incremento fisiologico dell’arousal.

Da studi di neuroimmagine, le quasi-perdite hanno mostrato l’attivazione parti del sistema di ricompensa del cervello che coincidevano con le risposte a vincite attuali, nello striato ventrale e nell’insula anteriore (Clark et al., 2009). I risultati delle ricerche che indicano che i giocatori di slot-machine patologici siano esposti ad una maggiore attività nelle regioni legate alla ricompensa dopo il verificarsi di una quasi-perdita (Habib e Dixon, 2010), suggeriscono che i risultati delle quasi-perdite possano favorire il gioco d’azzardo continuo attraverso un rinforzo positivo (pur essendo perdite monetarie). Le quasi-perdite aumentano la motivazione a giocare, e manipolarne la frequenza influenza la persistenza nel gioco d’azzardo (Clark et al., 2009). Questi risultati supportano l’ipotesi della natura “non categorica” del processo di ricompensa nel gioco d’azzardo: le quasi perdite e le perdite totali sono risultati oggettivamente identici che vengono processati differentemente (Van Holst, 2014).

Tutti i giochi d’azzardo sono strutturati intorno ad un programma di rinforzo variabile, con una media di vincite inferiore rispetto alle perdite. Il gioco d’azzardo deve essere visto come un comportamento acquisito tramite un programma variabile di rinforzo tipico delle slot-machine, in cui sia il verificarsi di una vincita, sia l’entità di essa, sono imprevedibili (MacLaren et al., 2012).

Un ulteriore risultato caratteristico delle EGMs è rappresentato dalle cosiddette “perdite mascherate da vincite” (“Losses Disguised as Wins”, LDWs), così rinominate da Dixon e colleghi (2010). Queste “perdite mascherate” consistono in quei risultati in cui viene segnalata una combinazione vincente su una o più linee di pagamento, la quale comporta la restituzione al giocatore di una somma di denaro, inferiore però rispetto a quella scommessa: nonostante questo risultato sia effettivamente una perdita monetaria, la slot-machine lo celebra come fosse una vincita. Se i giocatori dopo lo spin perdono interamente la somma scommessa, la slot-machine resta silente, sia nella sfera uditiva che visiva. Quando i giocatori effettuano lo spin e vincono di più rispetto alla loro scommessa, i giocatori ricevono feedback visivi e uditivi, che fungono da rinforzo positivo.

Vi è un netto contrasto tra i risultati vincenti colmi di feedback celebrativi ed i risultati perdenti, caratterizzati da uno stato di silenzio. In una quota considerevole di giri, le vittorie restituiranno un pagamento inferiore rispetto alla puntata dello spin, ma la slot sottolineerà comunque la vincita con simboli animati e canzoni celebrative: queste sono le cosiddette “perdite mascherate da vincite”.

Jensen (2012) ha dimostrato che i partecipanti esposti a questi risultati li categorizzavano erroneamente come vittorie. Inoltre i partecipanti, nel valutare il numero di giri in cui avevano vinto di più rispetto alla scommessa in una sessione di gioco, tendevano ad una sovrastima notevole del numero di vincite, probabilmente interpretando le LDWs come vincite, o confondendole con esse in memoria. Il suono è un importante fattore nella categorizzazione delle vincite, delle perdite e delle LDWs. Se l’informazione uditiva fornita ai partecipanti è che le LDWs siano vincite, piuttosto che perdite, ed i partecipanti dunque le categorizzano erroneamente come vincite, Dixon e collaboratori nel loro studio “Using sound to unmask Lossed Disguised as Wins in multiline slot machines” (2015) hanno ipotizzato che questo effetto potesse essere contrastato con suoni negativi di accompagnamento sia per le LDWs, che per le perdite regolari (condizione di “suono negativo”). Secondo gli autori tali accoppiamenti avrebbero potuto aumentare la somiglianza tra le perdite e le LDWs, e diminuire la somiglianza tra le vincite e le LDWs.

Effettivamente, aggiungendo suoni negativi sia alle LDWs che alle perdite, i giocatori erano stati più in grado di categorizzare le LDWs come risultati perdenti ed erano anche abili a fornire stime altamente fedeli della vittoria quando tornavano a riflettere sulla sessione di gioco. Il suono è un mezzo molto efficace per aiutare i partecipanti a rendere meno ambiguo il fatto che le LDWs siano risultati vincenti o perdenti. Quando i suoni negativi erano appaiati sia con le LDWs che con le perdite, solo una minoranza dei partecipanti era ancora ingannata dal mascheramento, mentre la maggioranza ha realizzato che le LDWs fossero di fatto delle perdite.

La drastica riduzione nella percentuale di persone ingannate dalle immagini e dai suoni rinforzanti delle LDWs nella condizione di “suono negativo” suggerisce che i partecipanti che giocano a giochi “standard” credano realmente di aver vinto, mentre in realtà hanno perso. Chiedendo ai partecipanti di stimare di ricordare il numero di volte in cui hanno vinto di più rispetto alla scommessa, nella condizione di “suono negativo” i partecipanti erano in grado di stimare accuratamente il numero di vincite reali in cui si sono imbattuti durante la sessione alle slot (mentre nella condizione “standard” si verificava una sovrastima notevole).

Avere suoni negativi che accompagnano sia le perdite normali che le LDWs è un modo pratico per portare i partecipanti a riconoscere che le LDWs sono risultati in cui perdono denaro. Questi suoni vincenti possono condizionare non solo il giocatore impegnato ad una slot-machine, ma anche gli altri partecipanti presenti nella sala, in quanto la ripetizione dei suoni vincenti delle LDWs e delle vittorie normali può dare l’impressione che le vincite si verifichino molto più spesso di quanto accade realmente. A proposito, Rockloff e colleghi (2011) hanno dimostrato che i giocatori aumentavano la velocità delle loro puntate, continuavano più a lungo e perdevano più denaro quando sentivano i suoni vincenti di altre slot-machine, rispetto a quando giocavano da soli.

Distorsioni cognitive e credenze erronee

Le cognizioni distorte risultano essere comuni tra i giocatori d’azzardo patologici (Joukhador et al, 2003) ed alcuni modelli cognitivi le considerano un elemento centrale del disturbo (come nel caso del Pathways Model of Problem and Pathological Gambling di Blaszczynski e Nower, 2002, uno dei resoconti di matrice cognitivo-comportamentale più influenti relativamente al gambling patologico). I giocatori d’azzardo patologici possono facilmente ricordare le vittorie per via di una disponibilità euristica (Tversky e Kahneman,1974), possono non riuscire a considerare ponderatamente le probabilità di vincita rispetto al rischio di perdita (Fletcher et al., 2011) e possono erroneamente attribuire le vincite ad abilità personali per via di un’illusione di controllo (Langer, 1975).

I giocatori d’azzardo patologici spesso danno spiegazioni bizzarre del gioco a cui si dedicano e del perché essi giochino. Spesso le loro cognizioni sono situazionali e singoli giocatori possono sostenere contemporaneamente credenze non logicamente coerenti (MacLaren et al., 2011). Ad esempio, un giocatore d’azzardo potrebbe continuare a scommettere dopo una serie di risultati perdenti ed accettare la “gambler’s fallacy”, cioè la credenza per cui un risultato vincente debba essere imminente, ritenendo improbabile che le precedenti serie di perdite possano continuare, anche se i risultati sono tra loro indipendenti (Tversky e Kahneman, 1974). Quanto all’illusione di controllo, le EGMs possono risultare attraenti in quanto in grado di trasmettere al giocatore la sensazione di avere un certo controllo sui risultati e che il rischio di perdita possa essere minimizzato (Haw, 2009). Questo avviene perché i giocatori possono regolare la grandezza ed il numero delle puntate simultanee per giro e questo in maniera indiretta cambia l’ampiezza media e la frequenza delle vincite.

I giocatori pratici di EGM sanno come manipolare questi risultati e questo può promuovere un’illusione di controllo sulle loro possibilità di ottenere un profitto, aumentando la frequenza e l’entità delle possibilità di vincita (MacLaren, 2015). Comunque, esercitare questo controllo implica scommettere più soldi, e la percentuale di rimborso programmata in una EGM (cioè la percentuale media di puntate che vengono restituite al giocatore come premi) è sempre inferiore al 100% ed è matematicamente indipendente dalla frequenza e dall’entità delle vincite (Harrigan et al, 2011).

Il controllo sul tasso di rinforzo permette inoltre ai giocatori di evitare lunghe strisce perdenti, il che può incoraggiare ulteriormente delle prese di decisione tramite euristiche (Harrigan et al., 2014). Bisogna aggiungere che in alcune EGMs il giocatore può esercitare una quota minima di controllo sui risultati anche premendo un pulsante per fermare il giro delle bobine al momento desiderato, influenzando così l’ottenimento di vincite o perdite. Questa infima quantità di controllo può talvolta contribuire ad un processo cognitivo irrazionale (Silver, 2015).

La progettazione delle moderne EGMs multilinea sembra appropriatamente idonea a capitalizzare sui giocatori d’azzardo problematici suscettibili alle illusioni di controllo e alla gambler’s fallacy (Goodie e Fortune, 2013). In un ampio campione di giocatori di EGM abituali, è stato mostrato come i giocatori d’azzardo problematici fossero più motivati al gioco d’azzardo come un modo per fuggire a stati emotivi negativi rispetto ai giocatori non problematici, e che avessero più distorsioni cognitive riguardo al gioco d’azzardo (Dixon et al., 2012). Le varie distorsioni cognitive possono essere il risultato di un disperato tentativo da parte dei giocatori di attribuire dei tristi risultati perdenti ed il loro comportamento incongruente a forze che possono essere comprese e, forse, controllate (MacLaren et al., 2015).

Fino ad oggi, non sembrano esistere sufficienti prove per affermare che cognizioni erronee sul gioco d’azzardo precedano e causino il gambling patologico, quanto piuttosto che contribuiscano al mantenimento del disturbo e che siano influenzate dai tratti di personalità sottostanti. In particolare, uno studio (MacLaren et al., 2012) ha dimostrato che i giocatori d’azzardo patologici non tendono intrinsecamente ad uno stile di pensiero difettoso. Fortunatamente, la mancanza di un deficit nello stile cognitivo tra i giocatori d’azzardo patologici suggerisce che gli interventi cognitivo-comportamentali non dovrebbero essere meno efficaci per i giocatori d’azzardo patologici rispetto ad altre forme di psicopatologie (ibidem).

Perdere un’illusione rende più saggi che trovare una verità (Ludwig Börne)

Il ruolo dei tratti di personalità nei giocatori d’azzardo

Una meta-analisi ha rilevato che i giocatori problematici rispetto a quelli non problematici presentano punteggi più elevati nei tratti che riflettono l’Affettività Negativa, la Disinibizione e l’Antagonismo (MacLaren et al., 2011). Un recente studio (MacLaren et al., 2015) si è occupato di identificare i meccanismi motivazionali e cognitivi attraverso cui le dimensioni basiche della personalità possano avere degli effetti indiretti sulla probabilità di problematiche nel gioco d’azzardo tra i giocatori abituali di EGMs ed ha riportato che i giocatori di slot-machine problematici tipicamente presentano tratti connessi al nevroticismo (quindi al timore, all’ansia, alla vulnerabilità emotiva) e all’impulsività (dunque ad una scarsa autoregolazione) che incrementano le problematiche del gioco d’azzardo, alimentando la “fuga” nel mondo del gioco d’azzardo e potenziando le distorsioni cognitive.

Essendo il nevroticismo un tratto associato, tra le altre cose, alla sensibilità alle punizioni, ci si potrebbe intuitivamente aspettare che la sua presenza scoraggi la persistenza nel gioco d’azzardo. Si deve però pensare che il gioco d’azzardo problematico risulta correlare positivamente con una motivazione finanziaria: i giocatori possono immaginare la vincita in denaro come una soluzione ai loro problemi finanziari, ma sono molto sensibili ai fallimenti e soffrono un turbamento emotivo di fronte a perdite ricorrenti. Come affermato precedentemente, le distorsioni cognitive possono riflettere il tentativo di attribuire risultati negativi a forze comprensibili. Alquanto paradossalmente, questi giocatori sensibili alla punizione possono impulsivamente “rincorrere” le perdite (Breen and Zuckerman, 2007), attraverso un rinnovato sforzo per fuggire alla realtà di aver perso larghe somme di denaro, vincendo di nuovo.

Questa ipotesi spiega come l’aspetto di sensibilità alla punizione del Nevroticismo, combinata con l’esperienza di risultati imprevedibili e spesso negativi, possa portare a distorsioni cognitive che mantengono ulteriormente il gioco d’azzardo. Inoltre, bisogna considerare che i giocatori possono scommettere piccole somme in un lasso di tempo esteso e regolare il numero e l’entità delle scommesse, così da controllare il rischio e la potenziale ricompensa per soddisfare la loro tolleranza immediata, anche se ciò non ha effetti sulla percentuale di pagamento. L’esperienza soggettiva di assunzione del rischio è dunque fatta percepire come meno instabile e forse anche un po’ sicura e prevedibile una volta che i giocatori imparano ad esercitare il controllo sulla frequenza e l’entità delle vincite (MacLaren, 2015).

Altri studi che hanno indagato il ruolo dei tratti di personalità coinvolti nel gambling problematico da slot machine, oltre a confermare la presenza di punteggi significativamente maggiori per il fattore Nevroticismo nei giocatori patologici, hanno indicato che riguardo agli esiti del trattamento alti punteggi nell’Impulsività emergano come predittori significativi delle ricadute e degli abbandoni. Due diversi studi, utilizzando due diversi modelli di personalità (NEO-PI R ed Alternative Five Factor Model), sono arrivati a concludere che l’impulsività sia un tratto preminente nel predire il rischio di ricadute e drop-out nei giocatori d’azzardo patologici di slot-machine. In relazione a questo, va considerato che per molti giocatori un’elevata impulsività può rendere difficoltoso beneficiare del trattamento, dato che l’eccitamento derivato dal gioco d’azzardo è immediato, mentre la ricompensa del trattamento avviene solo a lungo termine.

Fattori “macroscopici” del gioco d’azzardo legato alle slot-machine

Nel presente articolo si è cercato di riportare le principali caratteristiche del disturbo da gioco d’azzardo legato alle slot-machine, da un punto di vista prettamente psicologico, tramite l’utilizzo di ricerche svolte prevalentemente nell’ultimo decennio. La questione del gioco d’azzardo va inserita però in un contesto più ampio e necessita lo studio di altri fattori squisitamente sociali, economici e politici.

Ad un livello sociale, andrebbe approfondito il ruolo delle reti sociali in cui l’individuo è inserito e, in particolare, dalle reti di sostegno familiari e amicali. La carenza di reti sociali di sostegno, infatti, è un fenomeno strettamente legato al nostro tipo di società, nella quale anche l’istituzione della famiglia è divenuta più fragile rispetto al passato e non rappresenta più un nucleo stabile nella rete dei legami di riferimento. Le persone più vulnerabili – per età, per situazione socio-economica o perché presentano disturbi psicopatologici – sono quelle che, maggiormente, risentono di questa nuova situazione.

Ad un livello economico, va considerato che periodi di crisi economica, i quali possono comportare la perdita di un lavoro fino a poco tempo prima considerato stabile, l’incertezza del proprio futuro e di quello dei propri figli, possono avere un ruolo nel favorire l’insorgere della dipendenza da gioco d’azzardo. Per quanto concerne la politica, in Italia la gestione del gioco d’azzardo risulta essere carente su molti fronti. Uno di questi è la gestione della pubblicità, in grado di favorire l’instaurarsi della dipendenza da gioco d’azzardo. La pubblicità può avere un ruolo particolarmente rilevante e dannoso nei confronti degli adolescenti che vedono nell’immagine vincente del giocatore offerta da questi spot un tipo di identità ‘ideale’, una sorta di salvacondotto per ottenere con facilità popolarità sociale e successo economico.

Un altro fattore di notevole importanza riguarda l’estrema facilità con la quale è oggi possibile iniziare a giocare. È inevitabile che la diffusa disponibilità degli apparecchi e degli spazi di gioco attiri anche coloro che non oserebbero mai entrare in un casinò o in una bisca. Inoltre, nella maggior parte dei casi, per accedere al gioco, non è richiesta l’esibizione di alcun documento d’identità, a differenza di quanto avveniva in passato, quando la possibilità di accesso ai luoghi deputati al gioco era fortemente regolamentata (Croce, 2005). Questa deregolamentazione nell’accesso al gioco fa sì che non si percepisca che, anche se si tratta di un’attività legale e aperta a tutti, il gioco d’azzardo mantiene comunque un rischio intrinseco di sviluppare forme di dipendenza: il fatto che sia legale, infatti, non protegge dalle conseguenze che esso comporta (Tani e Ilari, 2016).

Inoltre, fatto non meno importante, lo Stato italiano ha delegato il delicato compito di condurre campagne di prevenzione per un Gioco Legale e Responsabile agli stessi concessionari dei giochi d’azzardo. In altri termini, i soggetti che devono divulgare messaggi di tipo educativo per la promozione di un gioco controllato e non eccessivo, sono gli stessi che pubblicizzano i servizi di gioco da loro erogati, in un palese conflitto di interessi.

Guardando invece alle spese dello Stato riservate al disturbo da gioco d’azzardo, con il Decreto del Ministro della salute del 6 ottobre 2016, “al fine di garantire le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione, rivolte alle persone affette da disturbo da gioco d’azzardo”, viene ripartita tra tutte le regioni la somma di cinquanta milioni di euro annui. Vale la pena in questo contesto segnalare che durante il 2016 gli italiani hanno speso almeno diciotto miliardi e mezzo di euro in giochi ricompresi sotto la dizione usuale di “gioco d’azzardo”, a fronte di una raccolta complessiva dell’industria del gioco pari a 95 miliardi di euro (questo dato risente del meccanismo del rigioco, per cui il giocatore reimpiega le vincite ed aumenta la raccolta lorda; Agripronews, 2016).

Come brillantemente suggerito nel libro di Franca Tani e Annalisa Ilari (2016), risulta oggi essere necessaria un’azione volta ad incidere sulla ‘cultura’ del gioco, in modo da evitare atteggiamenti demonizzanti e ricondurre questa attività alle sue dimensioni più spiccatamente ludiche, di intrattenimento e di divertimento: un gioco cioè consapevole e controllato che non comporti rischi per la salute.

Nello specifico, i principali obiettivi di questo livello di prevenzione sono:

  1. Informare la popolazione sui rischi che il gioco d’azzardo può comportare per la salute psico-fisica degli individui;
  2. Fornire indicazioni utili per individuare precocemente – in se stessi, in un familiare o in un amico – segni e sintomi che possono costituire dei campanelli di allarme per lo sviluppo di una dipendenza da gioco d’azzardo;
  3. Far conoscere i punti informativi e i servizi socio-sanitari presenti sul territorio a cui potersi rivolgere in caso di necessità
  4. In ultimo ma non per ultimo, informare la popolazione rispetto alle reali probabilità di vincita dei diversi tipi di giochi d’azzardo.

Tutto ciò comporta che vi sia da parte di tutti i soggetti coinvolti un’accurata analisi degli effetti e delle conseguenze cui si può andare incontro se si modifica l’assetto del mercato legale dei giochi, con la consapevolezza che questo tipo di obiettivo non può essere realizzato in tempi brevi, né può essere attuato con provvedimenti drastici. La diffusione del gioco d’azzardo legale è infatti un processo che va avanti da più di venti anni e che coinvolge interessi di ordine economico e finanziario, numerosi operatori di settore, oltre a quelli dell’indotto che questo crea, e moltissimi lavoratori.

Inoltre, se è vero che l’accresciuta disponibilità di giochi d’azzardo e la loro facile accessibilità costituiscono dei fattori strettamente legati alla crescita del comportamento di gioco d’azzardo problematico e patologico (Potenza e Charney, 2001; Shaffer e Hall, 2001), è pur vero che il proibizionismo non costituisce un valido strumento di prevenzione. Ne è un esempio, su tutti, il fallimento della politica proibizionista sul consumo di alcool messa in atto negli anni Venti del secolo scorso dal governo degli Stati Uniti d’America.

Infine, non va trascurato il fatto che il gioco d’azzardo è fortemente radicato nella nostra cultura e che c’è, quindi, un’elevata richiesta di questo tipo di attività, per cui, eliminare qualsiasi forma di gioco d’azzardo legale equivarrebbe a riconsegnare nelle mani della criminalità organizzata tutta la gestione di questo ricco giro d’affari. F. Tani e A. Ilari (2016) sottolineano inoltre che per far fronte in modo efficace a problematiche così poliedriche come il gioco d’azzardo patologico è necessaria una riflessione collettiva, che coinvolga tutte le istituzioni che si occupano di politiche socio-sanitarie e dell’istruzione, nonché dell’assetto economico del nostro Paese. Una riflessione che consenta di procedere ad un’azione concertata che miri non solo alla prevenzione della patologia ma alla promozione di una società ‘sana’, di un ambiente ricco di stimoli positivi, di un’educazione che si ponga come obiettivo la formazione di cittadini consapevoli e in grado di impiegare tutte le proprie risorse per tutelare la salute psico-fisica non solo personale ma anche sociale.

Il processo decisionale in Tribunale: cosa guida il ragionamento del giudice?

Al di là di quello che immaginiamo debba essere il giudice e come debba mettere in atto il suo processo decisionale in Tribunale, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Giada Fratantonio

 

Essere giudice: tra il ruolo e la persona

L’etimologia della parola “giudice” è da ricercarsi nella lingua latina: iudex, iudicis, orig. ‘colui che pronuncia (da dicere) la formula religiosa di giustizia (ius, iuris)’.

Partendo da qui e pensando a quello che a tanti evoca il termine stesso, non si sbaglia se si dice che il giudice, dall’alto del suo seggio, è sempre stato percepito come portatore sano di razionalità ed imparzialità, caratteristiche che istintivamente si possono attribuire a quella giustizia, che come una formula, il giudice dovrebbe possedere ed essere in grado di restituire.

Al di là di quello che sappiamo o che immaginiamo debba essere il giudice, riflettendo sulle sue caratteristiche, ci rendiamo conto di come, prima di tutto, egli sia una persona, che fa il suo ingresso nelle aule del Tribunale con tutti i condizionamenti e le variabili legate al suo livello di esperienza e di cultura, alla sua morale, alla sua personalità, all’educazione ricevuta.

Si tratta di fattori che solitamente non si palesano, ma guidano, stando un po’ in sordina, le trame del ragionamento che sfocerà nella decisione finale.

Quando la distanza tra la verità storica e la verità processuale diventa significativa, il giudice tenderà ad affidarsi, in maniera automatica, ai propri pregiudizi, alle proprie inclinazioni personali, al proprio sistema di credenze.

È nell’esperienza di tutti noi che il prendere decisioni non è cosa semplice, dalla banalità di scegliere un capo da indossare la mattina al decidere se sposare o meno una persona, etc etc, e ci viene incontro anche la scienza, dimostrando come molto spesso dietro giudizi apparentemente razionali e ponderati, si nascondano in realtà errori cognitivi e fallacie di non facile individuazione.

Alla difficoltà propria dell’essere umano, quale appunto è il giudice, si aggiunge, all’interno del contesto giudiziario, la difficoltà connessa alla variabilità dei dati e all’estrema eterogeneità dell’ambiente in cui le decisioni devono essere prese.

Come funziona il processo decisionale del giudice

Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1978, disse che il processo decisionale è un’attività cognitiva in cui vengono attivati meccanismi volti alla selezione di un corso d’azione tra quelli possibili, che consenta di ottenere un risultato soddisfacente (Simon 1956). I meccanismi coinvolti nella presa di decisione sono del tutto analoghi a quelli implicati nella soluzione dei problemi, ma in quest’ultimo caso non viene selezionata un’alternativa bensì viene generata una strategia idonea al raggiungimento dello scopo indicato dal solutore.

Secondo Simon (1976) tale processo decisionale consta di tre fasi principali. La prima è quella in cui avviene la raccolta di informazioni sul contesto del problema; la seconda fase riguarda l’esplorazione e l’analisi delle formulazioni alternative del problema; la terza consiste nella selezione della situazione problematica che dovrà essere risolta.

Più recentemente (Bonini-Rumiati 1992) sono state meglio articolate le fasi del processo decisionale. La decisione prevede una fase di diagnosi, corrispondente ad una sorta di categorizzazione del problema, una fase di strutturazione o di editing del problema decisionale, in cui il decisore si fa un’idea più precisa riguardo alle possibili azioni da intraprendere, una fase di elaborazione in cui vengono messi in atto quei processi che permettono di adottare le modalità di soluzione del problema decisionale, infine, la scelta e il controllo delle conseguenze della scelta medesima. Analisi, quindi, che ben si adatta all’esame di una situazione cognitivamente complessa come il processo penale.

Le distorsioni nel processo decisionale in tribunale: il ruolo delle euristiche

Nel volume curato da Kahneman, Slovic e Tversky (1982) “Judgment under uncertainly. Heurustics and biases”, viene posto in rilievo il fatto che le prestazioni dei decisori, siano essi ingenui o esperti, non corrispondono alle procedure formali prescritte che dovrebbero garantire un giudizio o una scelta razionali. In termini molto generali, ciò si verifica proprio per il fatto che il sistema cognitivo non consente di trattare tutte le informazioni necessarie e di aggregarle in maniera corretta.

In tal modo si osservano degli errori sistematici (biases) o “illusioni cognitive”. Gli elementi di ogni illusione cognitiva sono:

  • Una regola formale che specifica come determinare una risposta corretta ad una domanda intellettiva;
  • Un giudizio, eseguito senza l’aiuto di strumenti fisici, che risponde all’interrogativo;
  • Uno scarto sistematico tra risposta corretta e giudizio espresso.

Un esempio di trappola cognitiva è dato dall’insensibilità alla “frequenza di base”, da cui discende l’euristica della rappresentatività.

Gli individui, quando devono fare delle previsioni, possono agire in due modi: o fondano i propri giudizi a partire dalla frequenza con la quale è stato osservato l’esito critico (analisi delle serie storiche), oppure facendo ricorso ad un qualche dato specifico relativo al caso in esame (Tversky-Kahneman 1982).

Ad un’attenta analisi si può vedere come gli individui tendano ad incappare nell’euristica della rappresentatività per cui le stime di un certo evento dipendono dal grado con cui esso è simile nelle sue caratteristiche essenziali alla categoria di appartenenza oppure riflette le caratteristiche salienti da catturare l’attenzione dei soggetti da indurre questi ultimi a pensare che la testimonianza nel processo venga resa in un modo simile a quello in cui i risultati della prova del testimone sono stati generati.

Negli anni settanta del secolo scorso gli studi degli psicologi cognitivi Amos Tversky e Daniel Kahneman dimostrarono che, nell’adozione di decisioni complesse, ogni individuo fa ricorso a precise strategie, definite “euristiche”.

Un esempio di euristica, applicabile al mondo della giustizia, è stato documentato da uno studio di ricercatori dell’Università di Trento che hanno dimostrato l’esistenza di una tendenza dei giudici donna a liquidare in favore delle mogli somme maggiori, a titolo di mantenimento, rispetto a quelle liquidate ai mariti (C. Bona, B. Bazzanella, 2008).

Si è parlato della cosiddetta euristica della disponibilità che condiziona le decisioni sulla base della salienza degli eventi cioè del loro grado di rilevanza nel ricordo del soggetto. Sarebbe dunque la disponibilità di esempi nella mente del decisore a condizionare le decisioni medesime; è quindi più facile per un giudice di sesso femminile crearsi o recuperare nella memoria l’immagine di una donna in difficoltà piuttosto che non quella di un uomo.

Sistemi e stereotipi nel processo decisionale in ambito giuridico

Due diversi sistemi presiederebbero il processo decisionale degli individui: un Sistema 1 o Sistema Euristico ed un Sistema 2 o Sistema Analitico (M. Mortellini, F. Guala, 2011).

Il primo dei due opererebbe con modalità rapide, intuitive, impulsive, associative ed automatiche, difficili da controllare o modificare, non particolarmente impegnative in termini di sforzo razionale. Il secondo implicherebbe processi consapevoli più ponderati, più lenti e quindi più faticosi. Si ricorre sempre a quest’ultimo quando si affronta un calcolo matematico, quando si deve risolvere un problema che implica una serie di passaggi procedurali. Si ricorre, invece, al primo di tutti gli altri casi e ciò è particolarmente evidente nel cosiddetto ragionamento esplorativo dove si salta velocemente alle conclusioni.

Nel processo decisionale, la tendenza in tutti noi, infatti, è quella di avvalerci del Sistema Euristico, come primo approccio e questo comporta inevitabilmente più errori ed imprecisioni. Tale modalità nel decidere è pervasa dall’enorme influenza delle impressioni di natura intuitiva, inconscia ed automatica. Se lo riteniamo necessario, in un secondo momento dello stesso processo decisionale, utilizziamo il Sistema Analitico, fondato sui criteri della logica formale e destinato ad introdurre elementi più affidabili di giudizio. La maggior parte dei nostri errori decisionali infatti il prodotto dei giudizi intuitivi del Sistema 1 che non sono passati al vaglio del Sistema 2.

Nonostante il Sistema 2 cerchi di giustificare ex post la “razionalità” dei nostri comportamenti, la maggior parte di questi è determinata dal Sistema 1.

E poi ci sono gli stereotipi. Questi possono entrare facilmente in campo anche quando, in sede giudiziaria, si devono prendere delle decisioni e diventano addirittura fattori condizionanti nella valutazione delle prove e nella ricostruzione del fatto oggetto del giudizio. In particolare è stato studiato il ricordo dei dati probatori a favore o a sfavore della colpevolezza di un imputato, a seconda della sua appartenenza etnica, e l’influenza che tale ultimo fattore può avere sul modo in cui i giurati emettono il verdetto finale. Ne è dunque emerso che tutti, in modo inconsapevole, ed a prescindere da fattori di carattere ideologico, venivano condizionati dallo stereotipo come modalità di semplificazione del giudizio. Usavano lo stereotipo come fattore aggregante attorno al quale venivano verificate le prove che fossero coerenti con esso ed erano trascurate sistematicamente le evidenze processuali che lo disconfermavano (G.V. Bodenhasen, M. Lichtesnstein, 1987). Insomma una sorta di “cecità attentiva” nei confronti dei riscontri probatori che potevano falsificare il fondamento del loro pregiudizio etnico che, nello specifico, era rivolto a soggetti di origine ispanico-americana.

Il processo decisionale nel giudice

Quanto precedentemente detto per far capire come anche nel mondo della giustizia come nella realtà quotidiana, scorciatoie di pensiero piuttosto che pregiudizi o background del giudice possono influenzare prepotentemente i suoi processi di ragionamento, ma questo avviene anche per sentimenti ed emozioni.

Troviamo il magistrato analitico, il quale, relatore di un processo, mette in evidenza particolari così minuti da stupire l’avvocato più attento, ma, quando va a formulare il suo giudizio, è deviato da queste dispersioni di attenzione sui punti fulcrali. In questo caso la capacità di comprendere non può confondersi con la capacità a giudicare, proprio perché alcuni soggetti, inclini all’indagine analitica, pur arrivando all’esatta individuazione degli elementi compositori di un avvenimento, non sanno poi graduare gli stessi nella loro importanza così da comporli in un quadro armonico. L’analisi, in questi soggetti, rappresenta un fattore meccanico e superficiale di selezione degli elementi, priva di una loro valorizzazione intelligente che consenta la ricomposizione in una sintesi comprensiva delle circostanze salienti.

Vi è poi il magistrato sintetico che ha la tendenza alla generalizzazione e che è spesso portato a confondere le analogie con le identità.

Giudicare significa pervenire al convincimento attraverso due processi principali: l’analisi, con la scomposizione di tutti gli elementi che vengono assunti, e la sintesi, con l’assimilazione di questi elementi. Dalle percezioni dei fatti, degli avvenimenti, da una loro analisi, da un loro coordinamento, il giudice, attraverso un lavoro di sintesi, perviene alla sentenza.

Nel nostro sistema giuridico (sistema accusatorio) la prova si forma durante il processo. Non si tiene però conto del fatto che il Giudice d’appello comincia molto prima, fuori addirittura dalle regole del gioco processuale, a formarsi una sorta di convincimento. Nel processo d’assise poi il Giudice togato è un giudice che ha una velocità di accesso ai documenti e una possibilità di ispezione dai documenti stessi che non è in concreto, né lo può essere, uguale a quella degli altri sei giudici popolari. Quindi, non solo vi è una pre-cognizione del processo, ma vi sono tra gli stessi giudici (popolari e laici) corsie differenziate di accesso all’informazione che diventano spazi di divaricazione a forbice nella conoscenza, anche in relazione alla dimensione del processo stesso e alla lontananza del Giudice popolare d’assise d’appello dalla sede di giudizio.

C’è poi un ulteriore punto da prendere in considerazione e cioè i rapporti tra opinione pubblica e sentenza: allorquando le sentenze sono in buona consonanza con le opinioni del pubblico, la reputazione dell’amministrazione della giustizia cresce e sulle persone giudicate pesa, oltre che la stigmatizzazione del sistema, la squalifica sociale (Lanza 1988).

Al contrario, però quando il giudice perde il contatto con il popolo e non c’è più questa armonizzazione tra cultura del buon senso e decisione giudiziaria, il sistema repressivo si svilisce e i perseguiti diventano perseguitati e vittime.

Gli individui, nessuno escluso, decidono prima maturando la decisione, poi argomentandola. E così farebbe anche il magistrato del Pubblico Ministero, il quale intuitivamente decide, e poi, a posteriori, cerca di validare la fondatezza del giudizio con argomenti che spesso forzano le evidenze processuali. Il meccanismo è quasi automatico e comunque involontario.

Il magistrato del Pubblico Ministero si fa quindi già un’idea, prende dentro di se, in maniera inconscia una decisione, sentendo le dichiarazioni rilasciate dai vari individui chiamati a testimoniare e poi, va alla ricerca di elementi che possano corroborare la sua ipotesi di partenza, in maniera da poter argomentare la sua decisione.

Arriviamo al cosiddetto “bias egocentrico”, che è  determinato dalla tendenza della gente a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze durante un processo decisionale.

Così anche i giudici spesso pensano di essere in grado di prendere decisioni meglio di quanto siano veramente in grado di farlo.

Interessante è lo studio di Guthrie, Rachlinski, Wistrich (2001) che chiedevano a dei giudici quanto ritenevano probabile il rovesciamento in appello della sentenza dagli stessi emessa.

I partecipanti nel 56% dei casi fornivano una stima che si collocava nel quartile più basso e il 31% dei casi si collocava nel secondo quartile più basso. Appena il 7,7% dei partecipanti si collocava nel secondo quartile più alto e il 4,5% al quartile più alto. Quindi circa l’87% dei giudici partecipanti manifestava il bias egocentrico.

Si capisce quindi quanto possa essere difficile scardinare un’idea iniziale per il magistrato del Pubblico Ministero, una volta che questo si è creato tale idea, magari utilizzando delle euristiche e partendo dalle prime dichiarazioni rilasciate dai teste coinvolti in un processo. Dopotutto questo è perfettamente in linea con il concetto di “risparmio cognitivo”, quel risparmio che il nostro sistema cerca sempre di mettere in atto, per il quale è più semplice cedere alle lusinghe della certezza che non arrovellarsi alla ricerca di qualcosa che mini le nostre convinzioni di partenza.

Sutherland, studioso inglese, dice che la razionalità di una decisione dipende dalla completezza del quadro conoscitivo di chi la prende (Sutherland S., 2010).

Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti durante un processo decisionale, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni.

Si apprezza, allora ed ancor di più, il valore fondamentale dell’obbligo di motivazione della decisione giudiziaria (Sutherland S., 2010).

E’ in forza della motivazione che la decisione del magistrato del Pubblico Ministero risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. E’ sempre in forza della motivazione che il giudice dà conto del suo sapere, anche solo opinabile e probabile, ma proprio per questo confutabile e controllabile non solo dall’imputato, ma anche dalla società (Forza A., 2011).

La rabbia, un’emozione intensa: l’intervento in ottica cognitivo-comportamentale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Elena Santoro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’emozione di rabbia: conseguenze negative e aggressività

La rabbia è una delle sette emozioni di base, un’emozione universale che appartiene all’esperienza umana comune e condivisa a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La ricerca condotta negli ultimi tre decenni ha mostrato che essa però può essere problematica e divenire disfunzionale (Averill, 1983; Plutchik, 1980).

DiGiuseppe e Tafrate (2007) hanno definito la rabbia:

Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo (p. 21).

In letteratura il termine rabbia e quello di aggressività sono stati spesso utilizzati in modo interscambiabile, anche se essi non coincidono sempre.

La rabbia, come descritto sopra, è uno stato emotivo mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. L’aggressività coincide con l’attacco fisico e verbale mentre la rabbia con il forte sentimento di malessere rappresentando la faccia soggettiva dell’aggressività. La rabbia può esitare in comportamenti aggressivi (ad es. urlare, lanciare oggetti) e di certo aumenta la probabilità di metterli in atto (Anderson & Bushman, 2002). Questi comportamenti a loro volta possono portare a esiti negativi, come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche. Dunque, le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno una probabilità maggiore di incorrere in esiti negativi (Deffenbacher, Oetting, Lynch, & Morris., 1996).

La violenza rappresenta l’esempio più drammatico delle conseguenze negative della rabbia, la forma di gestione più distruttiva (Korn & Mùcke, 2001). Detto ciò, però, l’emozione di rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi in assenza di rabbia (ad es. nel caso di una rapina in cui l’aggressione è puramente strumentale). Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive: una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Averill (1983) in uno studio sulle cause e sulle conseguenze della rabbia con studenti universitari scoprì che solo il 10% delle 160 esperienze di rabbia sfociava in aggressioni o punizioni fisiche, il 49% in aggressioni verbali mentre nel 60% dei casi in risposte non aggressive (es. parlare dell’accaduto).

L’emozione di rabbia sia che sfoci in azioni aggressive e violente sia che permanga a livello soggettivo come esperienza emotiva duratura e persistente,  si associa spesso a una serie di avverse conseguenze a livello psicologico e sulla salute fisica. L’esperienza personale di rabbia è di solito descritta come sgradevole (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002) e problematica (Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005). Infatti, le persone irritate sono più propense a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002), ad esercitare una scarsa capacità di giudizio (Kassinove, Roth, Owens, & Fuller 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile (Deffenbacher, 2000).

McDermut e colleghi (2009) hanno indagato in uno studio con 1.687 pazienti l’associazione tra il tratto elevato di rabbia (HTA) e i disturbi di Asse I (SCID). Il 35,2% dei partecipanti con HTA non aveva però ricevuto alcuna diagnosi di disturbo in Asse I associato con rabbia/aggressività (PTSD, BDI, BPII- Bipolarismo II, GAD- Disturbo di ansia generalizzato) né Disturbo Borderline di Personalità (BDP) o Disturbo Antisociale di Personalità (ASPD). Nonostante ciò, la rabbia rappresentava uno degli indicatori principali della compromissione psichiatrica e del funzionamento psicopatologico dei pazienti, spiegandone una percentuale significativa di varianza.

Infine, la letteratura documenta una forte associazione tra alti livelli di rabbia e problemi di salute, in particolare ipertensione e malattia coronarica (Suls & Bunde, 2005).

La rabbia: un costrutto multi-dimensionale

La rabbia è uno stato affettivo intenso che si attiva nell’individuo in risposta a stimoli sia interni sia esterni e alla loro interpretazione cognitiva. E’ un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione) cui si accompagnano modificazioni fisiologiche e comportamentali che hanno spesso una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente.

Novaco (1978, 1997) e Howels (1998) descrivono la rabbia come un costrutto multi-dimensionale costituito da diversi domini: fisiologico (attivazione generale), cognitivo (pensieri automatici, credenze, immagini), fenomenologico (consapevolezza soggettiva, etichettamento) e comportamentale (il linguaggio del corpo, le espressioni facciali). Queste dimensioni interagiscono tra loro influenzando l’esperienza individuale di rabbia (o la sua assenza).

Le modificazioni fisiologiche consistono in un’accelerazione del battito cardiaco, nell’aumento della tensione muscolare, nella sensazione soggettiva di calore e irrequietezza; tali modificazioni sono dovute all’attivazione del sistema nervoso autonomo e predispongono l’individuo all’azione.

Per quanto riguarda invece la manifestazione comportamentale della rabbia a livello mimico e corporeo è simile a quella osservata negli animali. Gli studi di Ekman e Oster (1979) hanno dimostrato che l’espressione facciale della rabbia è simile e facilmente riconoscibile in persone di culture molto diverse. I cambiamenti del volto comprendono: l’aggrottare violento delle sopracciglia, lo scoprire e digrignare i denti, lo stringere le labbra mentre gli occhi appaiono lucidi.

La dimensione cognitiva gioca un ruolo prioritario nell’esperienza di rabbia, infatti i pensieri negativi che si attivano automaticamente nell’individuo in risposta a un evento/stimolo rinforzano le emozioni negative sfociando talvolta in azioni distruttive (Beck, 1999). Già Izard nel 1977 aveva identificato come possibili cause della rabbia alcuni sentimenti, pensieri ed eventi: essere trattati male, costretti a fare qualcosa contro la propria volontà, essere abbandonati, venire delusi, essere traditi, sapere di essere odiati, essere oggetto di attacchi fisici o verbali, essere criticati, sentire di aver fallito, vedere andare male i propri progetti, assistere ad azioni stupide o violente e fare qualcosa che non viene apprezzato. La variabile cognitiva è determinante nell’esperienza e nell’espressione della rabbia in quanto è una risposta emotiva ad uno stimolo che viene percepito e dunque interpretato dall’individuo come provocatorio (Novaco, 1975).

La rabbia si attiva quando l’individuo interpreta un evento come ostacolo al perseguimento di un proprio obiettivo o quando ritiene di aver subito immeritatamente un torto, un danno (D’Urso & Trentin, 2001). La rabbia rappresenta un segnale di allarme, indica la presenza di un ostacolo al raggiungimento degli scopi che l’individuo si prefigge o la violazione dei suoi diritti. In altri casi, la rabbia ha la funzione di avvisare della presenza di una minaccia all’autostima, all’immagine sociale e alla possibilità di essere vittima di un’ingiustizia, in modo tale da poterla affrontare ed eliminare alla fonte. Averill (1982) ritiene che le valutazioni del soggetto circa la responsabilità, intenzionalità e consapevolezza attribuite alla persona che compie l’azione ingiusta vadano ad incrementare il senso di ingiustizia e con esso l’emozione di rabbia.

La rabbia si attiva tutte le volte che si pensa di aver subito un torto ed esso è ritenuto: intenzionale, malevolo, immotivato e compiuto da una persona indesiderabile. Ci si arrabbia raramente nei confronti di oggetti e più di frequente verso le persone proprio perché attribuiamo loro la consapevolezza e la volontà di arrecare un danno (Averill, 1982). Inoltre, in linea con la teoria dell’inferenza corrispondente (Jones & Davis, 1965; Jones & Harris, 1967) e l’errore fondamentale di attribuzione (Ross, 1977) le persone tendono a rintracciare le cause del comportamento altrui (ingiusto o dannoso) nelle loro disposizioni e nelle caratteristiche di personalità, sottovalutando invece i fattori situazionali. Ciò porta le persone a compiere attribuzioni interne di colpa e responsabilità più spesso che esterne, anche quando sono evidenti le potenziali cause situazionali e contingenti.

Diversi studi empirici confermano che le persone che sperimentano elevati livelli di rabbia e aggressività in effetti, tendono a fare attribuzioni più negative e ostili rispetto alle persone non violente o non aggressive (James & Seager , 2006; Moore, Eisler & Franchina, 2000; Witte, Schroeder & Lohr, 2006).

Il trattamento della rabbia in ottica cognitivo-comportamentale

L’assunto fondamentale della psicoterapia cognitiva, postulato per la prima volta negli anni 60’ da Beck (1967) e Ellis (1962), sostiene che le rappresentazioni mentali del paziente (pensieri automatici, credenze e schemi cognitivi) spiegano il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. I disturbi emotivi vengono spiegati tramite l’analisi delle relazioni fra pensieri, emozioni e comportamenti. Le distorsioni di tipo cognitivo influenzano le reazioni emotive che causano sofferenza alla persona e ne perpetuano il disagio. La patologia è frutto di pensieri, schemi e processi disfunzionali (Mancini & Perdighe, 2008).

Le emozioni di base, fra cui la rabbia, sono filogeneticamente determinate, hanno una base innata e una funzione adattiva, tuttavia possono diventare causa di sofferenza quando la loro intensità è molto elevata e si protrae nel tempo. La rabbia diviene disfunzionale per la persona se la sua manifestazione ne compromette le relazioni sociali o la spinge a compiere azioni dannose verso sé, gli altri, oppure verso cose. Lo stato emotivo e la relativa sofferenza sono determinati dal significato che la persona attribuisce agli eventi, infatti, come già anticipato, la persona prova rabbia nel momento in cui percepisce e dunque interpreta un determinato evento come un torto subito o una violazione dei suoi diritti.

Alla luce di quanto detto, la psicoterapia cognitiva utilizza come strumento principale di cambiamento l’intervento sulla variabile cognitiva. Lo scopo della terapia è aiutare il paziente in primis, a riconoscere i pensieri automatici negativi e i processi cognitivi disfunzionali che si attivano in lui (maggiore consapevolezza) e poi, a modularli e modificarli. L’intervento cognitivo ha l’obiettivo di insegnare al paziente sia a riconoscere sia a disputare i pensieri, le credenze e le interpretazioni da cui hanno origine i comportamenti problematici e la sua sofferenza psicologica.

Diversi studi sul trattamento di problemi connessi alla rabbia e all’aggressività hanno confermato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Lipsey, 2009; Litschge, Vaughn, & McCrea, 2010; Özabaci, 2011). La CBT utilizza diverse tecniche per intervenire e modificare i processi cognitivi e i comportamenti del paziente (Beck, 2011). Queste tecniche si focalizzano sul riconoscimento delle distorsioni e dei bias cognitivi da parte del paziente, in combinazione con l’apprendimento di cognizioni adeguate (Landenberger & Lipsey, 2005). Infatti, il lavoro in terapia rinforzato dagli homework a casa sollecita il paziente a riconoscere la catena di pensieri (B) e reazioni emotive e comportamentali (C) che si attivano in situazioni diverse (A), in relazione a stimoli esterni o interni (modello A-B-C di Ellis). Il paziente è poi incoraggiato dal terapeuta a disputare i pensieri automatici negativi e disfunzionali, le credenze rigide e generalizzate con cui interpreta le situazioni e gli eventi verificandone la veridicità, la giustificabilità (confronto con i dati di realtà) e la loro utilità. La parte finale della terapia in genere comporta la generazione di credenze alternative a quelle ormai riconosciute dal paziente come disfunzionali e la loro messa in pratica nelle situazioni in cui vengono percepite delle provocazioni.

Gli interventi per la gestione della rabbia si focalizzano sul modo in cui i pazienti percepiscono le provocazioni interpersonali e spesso promuovono la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro in modo tale che non venga percepito come ostile o colpevole (Day, Howells, Mohr, Schall & Gerace, 2008). Il perspective taking è uno dei processi cognitivi centrali coinvolti nell’empatia e i deficit di perspective taking rappresentano target importanti per il trattamento di coloro che commettono atti violenti (Jolliffe & Farrington, 2004; Zechmeister & Romero, 2002).

Nello studio di Mohr et al. (2007) il perspective taking è stato identificato come predittore sia della rabbia di tratto sia della modalità di espressione e di controllo della rabbia. Coloro con maggiori capacità di perspective taking manifestavano meno la rabbia all’esterno, minori strategie di sopressione mentre facevano un maggiore uso di strategie adattative di controllo. Dunque, la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro sembra essere associata non solo ad una minore espressione delle emozioni di rabbia a livello comportamentale e ad una minore tendenza a reprimere negativamente la rabbia, ma anche a risposte più adattative per la sua risoluzione.

Spesso, a supporto del lavoro sulla dimensione cognitiva, vengono insegnate al paziente tecniche di rilassamento per controllare l’eccitazione fisiologica (DiGiuseppe & Tafrate, 2003). Le tecniche di rilassamento e/o la mindfulness associati al protocollo CBT sembrano rendere ancora più efficaci gli interventi per problemi connessi alla rabbia e all’aggressività (Deffenbacher, 2011; Pellegrino, 2012).

Inoltre, si propongono ai paziente training sulle abilità di problem solving e l’identificazione di comportamenti alternativi, ad esempio attraverso il role playing (Blake & Hamrin, 2007; Landenberger & Lipsey, 2005; Sukhodolsky, Kassinove, & Gorman, 2004).

Per concludere, la letteratura scientifica ha verificato che la terapia cognitivo-comportamentale rappresenta l’approccio di elezione per la gestione e il trattamento dei problemi connessi alla rabbia; infatti, diverse meta-analisi hanno identificato un effect size moderato (Beck & Fernandez, 1998; Del Vecchio & O’Leary, 2004; DiGiuseppe & Tafrate, 2003; Sukhodolsky, Kassinove & Gorman, 2004). Ad esempio, la meta-analisi di Beck e Fernandez (1998) sull’efficacia degli interventi di terapia cognitivo-comportamentale sulla rabbia, ha indagato 50 studi che includevano 1640 partecipanti tra detenuti, partner o mariti violenti, delinquenti giovani, persone con disabilità intellettive, ma anche studenti universitari con problemi di rabbia. La maggior parte degli studi prevedeva l’uso combinato della ristrutturazione cognitiva e di alcune tecniche finalizzate al rilassamento fisico. Gli autori hanno identificato un effect size moderato (d=0.70) ovvero, un cambiamento positivo e un miglioramento nella gestione della rabbia post-trattamento cognitivo-comportamentale.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva – Report dal seminario di Genova

Sabato 13 Maggio 2017 si è svolto a Genova presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato la psicoterapia a Genova”dove il dott. Sapuppo ha parlato di “la relazione terapeutica nella terapia cognitiva”.

 

Il concetto di alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica è l’insieme dei processi interpersonali in azione all’interno di una psicoterapia che agiscono in parallelo con le specifiche tecniche di quel particolare tipo di trattamento (Lingiardi, 2002).

Molteplici studi hanno rilevato che la “qualità” dell’alleanza terapeutica risulta essere strettamente correlata all’outcome del trattamento (Priebe & McCabe, 2006). In particolare, una buona alleanza terapeutica è associata all’esito positivo della terapia, indipendentemente dal tipo di trattamento.

Ripercorrendo storicamente il concetto di alleanza terapeutica le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate negli stessi aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912). Rogers (1965) sottolinea in seguito come la percezione dell’empatia dell’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale alla terapia. Si deve però a Orlinsky e Howard (1975) la visione tridimensionale dell’alleanza: si parla di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione mentre qualche anno dopo Bordin (1979) ha definito una tripartizione dell’alleanza terapeutica in obiettivo, processo e legame.

Oltre a quelle precedentemente descritte esistono numerose altre concettualizzazioni dell’alleanza terapeutica e ognuna differisce dall’altra o presenta punti in comune, in base alla teoria dell’autore di riferimento.

Le terapie di matrice psicoanalitica più tradizionali e ortodosse considerano l’interpretazione e il relativo insight come i fattori curativi più importanti o addirittura unici nel trattamento dei pazienti, specialmente di quelli con disturbi nevrotici. Tuttavia, in alcuni modelli terapeutici psicodinamici l’aspetto relazionale è stato affiancato a quello dell’insight; in particolare, i trattamenti che si basano sulle teorie della relazione oggettuale e sulla psicologia del sé hanno rivalutato la funzione della relazione terapeutica in maniera positiva. Attualmente la psicoanalisi si pone la questione circa il valore da attribuire alla relazione terapeutica: essa va considerata come presupposto affinché possa essere efficace l’interpretazione o come fattore terapeutico di per sé? (Lingiardi, 2002). Per la maggior parte degli psicoanalisti contemporanei l’alleanza è considerata importante per entrambe le motivazioni:
1) il paziente sarà maggiormente ricettivo verso le interpretazioni e con più probabilità otterrà l’insight;
2) l’esperienza di una nuova relazione oggettuale positiva può essere di per sé terapeutica.

La relazione terapeutica nella terapia cognitiva

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha attribuito un’importanza crescente al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali (Liotti 1987; Safran e Segal 1990; Safran 1998; Safran e Muran 2000; Gilbert 2000; Leahy 2001; Young et al. 2003; Gilbert e Leahy 2009; Cotugno e Sapuppo, 2012).

In generale, I fattori che in maggior misura determinano la qualità e la solidità della relazione terapeutica sono:
1) il legame affettivo e la collaborazione;
2) la condivisione di obiettivi e compiti;
3) la storia relazionale dei partecipanti.

Come si sviluppa la relazione terapeutica? Gilbert e Leahy (2007) identificano tre fasi principali attraverso le quali si sviluppa la relazione terapeutica:
1) Stabilire la relazione;
2) Sviluppare la relazione;
3) Mantenere la relazione.

Queste fasi devono essere considerate in modo ciclico, in quanto, per esempio, a causa della rottura della relazione potrebbe essere necessario tornare alla prima fase (stabilire la relazione).

Se si assume il fatto che la relazione terapeutica è un fattore trasversale ai vari orientamenti terapeutici, è necessario stabilire in che modo tale fattore è in relazione alle tecniche specifiche di un determinato trattamento, in quanto è proprio il tipo di attività prevista da uno specifico tipo di terapia che necessiterà di una qualità altrettanto specifica di alleanza tra paziente e terapeuta.

Gli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali devono utilizzare le proprie abilità relazionali soprattutto per introdurre, educare e guidare i propri pazienti verso il difficile ma necessario apprendimento delle tecniche cognitivo-comportamentali.
In psicoterapia psicodinamica la buona qualità della relazione terapeutica è fondamentale in particolar modo per favorire l’efficacia delle interpretazioni e, in generale, per sensibilizzare il paziente all’uso della regola fondamentale delle libere associazioni.

In base al modello di alleanza proposto sono state costruite varie scale di misurazione. Ogni scala, dunque, differisce dall’altra proprio perchè misura aspetti e dimensioni propri di quel particolare modello di alleanza.

I principali strumenti utilizzati per “misurare” l’alleanza terapeutica sono: il Penn Helping Alliance (Luborsky e coll.) utilizzato per misurare l’alleanza di tipo 1 e l’alleanza di tipo 2 o il California Psychotherapy Alliance Scales (Marmar, Marziali, Gaston, Weiss) utilizzato per misurare la capacità di lavoro e l’impegno del paziente, il consenso sulla strategia di lavoro, la comprensione e il coinvolgimento del terapeuta. Altri strumenti sono il Working Alliance Inventory (Horwath, Greenberg) che valuta il Legame (Bond), i Compiti (Task) e gli Obiettivi (Goal), il Therapeutic Bond Scales (Orlinsky, Howard, Saunder) che misura invece l’Alleanza di lavoro, la Risonanza empatica e l’Affermazione reciproca e la Vanderbilt Therapeutic Alliance Scale (Hartley, Strupp e coll.) che valuta il Contributo del terapeuta, il Contributo del paziente e l’Interazione terapeuta/paziente.

L’impatto della differenza di genere sulla relazione padre-figlio

La corteccia cerebrale dei padri si attiva in modo differente per le figlie rispetto ai figli di sesso maschile. Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista Behavioral Neuroscience, mostra che il genere di un figlio può influenzare la relazione quotidiana con il padre.

 

Come cambia l’interazione dei papà con i figli maschi e femmine

La maggior parte degli studi precedenti ha esaminato le differenze di genere dei figli in relazione al rapporto madre-figlio. Questo nuovo studio esamina il comportamento del caregiver, comparando i padri di figli e i padri di figlie in situazioni di vita quotidiana e l’attivazione neuronale in risposta alla visione di stimoli raffiguranti i propri bambini.

Jennifer Mascaro, ricercatore post-doc, professore associato di medicina familiare e preventiva presso la scuola di medicina Emory di Atlanta, GA, ha condotto questa ricerca con i collaboratori dell’Università di Emory e dell’Università dell’Arizona a Tucson. Hanno preso parte allo studio 52 padri di bambini, di cui 30 femmine e 22 maschi insieme alle loro madri. Anche se alcuni dei partecipanti avevano più di un figlio, i dati presi in esame si sono concentrati sulle loro interazioni con un figlio o una figlia.

Nella prima fase dello studio è stato richiesto alle madri di rispondere ad alcune domande mediante un questionario self-report, mentre gli sperimentatori scattavano foto ai bambini impegnati in una fase di gioco in ambiente naturale. In una sessione separata ai papà è stato consegnato un dispositivo di registrazione audio mobile, l’Electronically Activated Recorder (EAR), con l’indicazione di indossarlo, agganciandolo sulle proprie cinture, una volta nel fine settimana (domenica) e un’altra il primo giorno della settimana (lunedì). Il dispositivo registrava i suoni per 50 secondi ogni 9 minuti. È stato chiesto anche di caricare il dispositivo nella stanza del bambino in modo tale da registrare eventuali interazioni padre-figlio durante la notte. In una terza sessione è stato chiesto ai papà di compilare un questionario self-report; successivamente, all’interno dello scanner MRI, venivano mostrate loro delle sequenze di immagini: un bambino sconosciuto, un adulto sconosciuto e il proprio figlio con le varie espressioni facciali (triste, felice e neutro) al fine di rilevare la loro risposta neurale.

I risultati mostrano che rispetto ai padri con figli maschi, i padri di figlie sono stati più responsivi e attenti verso i loro bisogni mostrandosi più sensibili, in particolare, di fronte a manifestazioni emotive di tristezza, riuscendo ad utilizzare un linguaggio più aperto alle emozioni. I ricercatori affermano che questo potrebbe essere dovuto al fatto che i padri riescono ad accettare maggiormente i sentimenti delle ragazze rispetto a quelli dei ragazzi. Le immagini funzionali della corteccia evidenziano che quando i padri osservano un’espressione felice sui volti delle loro figlie, avviene una maggior attivazione cerebrale in quelle aree coinvolte nella regolazione emotiva e nella ricerca delle ricompense (corteccia orbito-frontale mediale e laterale).

Al contrario i padri dei bambini maschi impegnati in giochi di movimento, utilizzavano un linguaggio legato alla “realizzazione” per incitarli al successo e alla vittoria; inoltre, la loro risposta neuronale era più forte nella corteccia orbito-frontale mediale, di fronte alla visione di espressioni facciali neutre. Questo dato correla in maniera positiva con i giochi di movimento in cui sono impegnati i propri figli. Il risultato può essere interpretato come la possibilità che i papà vengano maggiormente influenzati, in maniera positiva o negativa, dalle espressioni facciali neutre dei loro figli maschi.

Questi risultati migliorano la comprensione delle basi neurali in relazione alla cura paterna evidenziando come i sistemi neurali rispondano in maniera differente a seconda che si tratti delle figlie o dei figli. Inoltre, l’uso dell’EAR ha rivelato differenze nel comportamento paterno e nell’uso del linguaggio che possono influenzare i risultati sociali, emozionali e cognitivi dei propri figli. La ricerca futura potrebbe impiegare questa metodologia per un’esplorazione più approfondita sull’impatto delle differenze di genere nelle risposte neurali paterne in relazione al benessere dei bambini.

La mindfulness nell’età evolutiva: l’efficacia della meditazione nei bambini

La ricerca sugli interventi mindfulness nei bambini e adolescenti è ancora agli albori. Ciononostante esistono evidenze che testimoniano l’adattabilità e l’efficacia di questo tipo d’interventi, sia in campioni clinici che non, di bambini e adolescenti (Black e collaboratori, 2009).

Elena Cristina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

I contributi della letteratura sulla mindfulness nei bambini

I più giovani hanno naturalmente motivazioni e bisogni differenti rispetto agli adulti, pertanto si rendono necessari opportuni adattamenti del protocollo MBSR (di John kabat-Zinn), specialmente nelle modalità e nei tempi. Fabbro e Muratori (2012) propongono di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo, gli esercizi devono essere semplici, adeguati alle capacità dei destinatari, alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze e delle eventuali difficoltà. La competenza trasversale ai vari programmi di mindfulness nei bambini è il diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012). Esistono inoltre tecniche e procedure di meditazione specifiche a seconda delle varie fasce d’età (5-8 anni, 9-12 anni, 13-18 anni) (Hooker, 2008).

Un recente contributo in letteratura è quello di Eline Snel (2015), terapeuta olandese e fondatrice dell’Academy for Mindful Teaching (AMT) con sede a Leusden (Paesi Bassi), autrice del libro “Calmo e attento come una ranocchia”(2015). La Prefazione del volume è curata dallo stesso John Kabat-Zinn che ne dichiara “un simile allenamento mentale ed emotivo non era mai stato accessibile ai bambini prima d’ora”. Il libro è una guida molto pratica per imparare cos’è la mindfulness e applicarla nella vita di tutti i giorni dei più piccoli in maniera molto giocosa; include un CD-ROM con 11 meditazioni guidate che genitori e bambini possono ascoltare ed esplorare insieme o da soli, in base alle proprie preferenze: 3 pratiche audio sono per bambini dai 5 ai 12 anni di età, 6 tracce audio vanno dai 7 ai 12 anni, 2 tracce vanno bene per bambini di qualsiasi età. La durata varia dai 4 ai 10 minuti. Le meditazioni guidate rappresentano il fulcro del programma ed insegnano ad essere più consapevoli in qualunque momento della giornata.

Le prime due tracce, n.1 Calmo e attento come una ranocchia e la n. 2, La piccola ranocchia, costituiscono la meditazione di base.
La traccia n.3, Attenzione al respiro, insegna come dirigere e spostare l’attenzione; la traccia n.4, Gli spaghetti, è un esercizio di rilassamento corporeo; la n.5, Premi il tasto Pausa, ha come obiettivo quello di imparare a non reagire impulsivamente; la n.6, Pronto Soccorso per sensazioni sgradevoli, per non lasciarsi sopraffare dalle emozioni; la traccia n.7, Un posto sicuro, è un esercizio di visualizzazione; la n.8, La fabbrica dei pensieri, per calmare il turbinio mentale; la n.9, Un piccolo incoraggiamento, per quando le cose sembrano non andare bene; la n.10, Il segreto della stanza del cuore, esercizio sulla gentilezza ed infine la n.11, Dormi bene, un piccolo esercizio di accompagnamento al sonno.

Non casuale è la scelta del simbolo della rana per rappresentare l’essenza della mindfulness.

“La rana è un animale davvero straordinario. E capace di fare salti enormi, ma sa anche stare ferma, calma e immobile. Si accorge di tutto ciò che succede intorno a lei, ma non reagisce subito ogni volta. La rana rimane ferma e respira. Risparmia le energie e non si lascia trascinare da tutte le idee che le passano per la testa. Resta calma e ferma, e intanto respira. La sua pancia si solleva e si abbassa, si gonfia un po’ e poi si sgonfia. Se può farlo una rana, puoi farlo anche tu. Tutto quello che ti serve è un po’ di attenzione, attenzione al respiro, attenzione e calma”. (p. 38)

Lo stesso Suzuki Roshi, grande maestro zen giapponese, in una delle sue principali opere, “Mente Zen” (1976), scrive:

“Dovete essere come una rana. Ecco il vero zazen1. […] Se siamo come una rana, siamo sempre noi stessi. Ma persino una rana a volte perde se stessa, e allora fa una brutta smorfia. E se qualcosa le passa accanto, lo afferra e mangia. Perciò credo che una rana stia sempre a chiamarsi. E penso che anche voi dovreste farlo. Persino nello zazen può capitare che perdiate voi stessi […] Siccome perdete voi stessi, il vostro problema diverrà un vero problema per voi. Se non perdete voi stessi, anche se avete delle difficoltà, in effetti non c’è alcun problema di sorta […].
Quando voi siete voi stessi, vedete le cose così come sono, e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda. Lì si trova il vostro vero sé. Lì possedete la vera pratica; possedete la pratica di una rana […] E’ per questo che dobbiamo sempre richiamarci a noi stessi come un medico che si ausculta”(p.66-67).

Il libro “Calmo e attento come una ranocchia” funge da filo conduttore e da approfondimento rispetto alla pratica; si articola in 10 brevi capitoli: introduzione alla mindfulness; come essere genitori più consapevoli; l’attenzione comincia dal respiro; allenare l’attenzione; dalla testa al corpo; superare la tempesta interiore; gestire le emozioni difficili; la fabbrica dei pensieri; è bello essere gentili; pazienza, fiducia e capacità di mollare la presa. Per ogni sezione vengono indicate le tracce audio con cui fare pratica formale e altri consigli pratici con cui allenare le capacità di mindfulness e compassione, quotidianamente, in maniera informale, attraverso degli espedienti ludici, da attuare in qualunque circostanza (mentre si lavano i denti, si fa la spesa, si mangia, osservando il respiro in diverse situazioni, etc.). Un esempio è la pratica dell’accorgersi della propria scortesia” in cui si utilizza un braccialetto da mettere al polso destro come promemoria, per ricordarsi di essere gentili con se stessi e con gli altri. Ogni volta che ci si comporta in maniera sgarbata, l’invito è quello di spostare il braccialetto sull’altro polso, con un sorriso. Un’altra pratica è quella del “guardare più in là” in cui ci si prende del tempo per pensare e trovare una caratteristica positiva in una persona che ci è antipatica o ci infastidisce.
“Calmo e attento come una ranocchia” è dunque un modo semplice, fantasioso e divertente per avvicinare i più piccoli alla coltivazione della presenza mentale, fisica ed emotiva e la connessione con se stessi, gli altri e il mondo.
Il contributo di Eline Snel è pensato per l’educazione e la crescita dei propri figli da parte di genitori che vogliono anch’essi diventare sempre più consapevoli.

I programmi di mindfulness nei bambini

E. Snel ha messo a punto un corso di formazione sulla mindfulness nei bambini nelle scuole, intitolato Mindfulness Matters (La consapevolezza conta), basato sul programma per adulti di JKZ. A tale programma, anch’esso di otto settimane, avevano partecipato 300 bambini e 12 insegnanti. Il corso prevedeva mezz’ora di lezione didattica (frontale) a settimana e dieci minuti di esercizi giornalieri, nei quali i bambini venivano invitati a mettere in pratica i concetti appresi in aula. Sia i bambini che gli insegnanti hanno riscontrato cambiamenti positivi: un’atmosfera più serena in classe, una maggiore concentrazione, fiducia e una maggior apertura, gentilezza ed indulgenza con se stessi e con i compagni.

Sebbene al di fuori di un setting scolastico, Lo e collaboratori (2016) hanno recentemente messo a punto un modello di disegno sperimentale che prevede l’implementazione del programma Mindfulness Matters di Eline Snel per bambini affetti da ADHD e i loro genitori, che parallelamente ricevono un training di Mindful Parenting. L’innovatività del protocollo sperimentale di Lo e colleghi consiste nel rivolgersi a bambini molto piccoli, dai 5 ai 7 anni di età, diversamente dagli studi presenti in letteratura che coinvolgono bambini sopra gli 8 anni. Secondo il loro disegno di ricerca, i bambini vengono suddivisi in piccoli gruppi di 4-6 partecipanti; le sessioni hanno durata di un’ora e durante la quarta e sesta classe sono previsti 30 minuti di attività condivisa in cui è data la possibilità ai genitori di praticare in vivo le abilità di mindfulness con i bambini, valutate da appositi ricercatori tramite apposite griglie di registrazione.

I principali obiettivi dei trattamenti mindfulness sono il miglioramento di tre aspetti fondamentali dell’attenzione nei bambini, ovvero la capacità di orientamento attentivo, l’attenzione sostenuta e le funzioni esecutive, mentre nei genitori una maggior autoregolazione, la riduzione del comportamento di “harsh parenting”, caratterizzato da ostilità e sentimenti negativi in risposta ai comportamenti di sfida dei bambini con ADHD, spesso responsabile dell’insorgenza di pattern disfunzionali di interazione alla base di disturbi oppositivi-provocatori e disturbi della condotta.

L’efficacia della mindfulness nei bambini e gli esiti positivi

La maggior parte degli interventi mindfulness-based implementati in età evolutiva sono difatti applicati al contesto scolastico, dal momento che bambini e ragazzi vi trascorrono la maggior parte del loro tempo.

Zenner e colleghi (2014) hanno condotto una meta-analisi che ha messo in luce un effetto positivo della mindfulness sia su variabili cognitive sia su variabili più prettamente psicologiche, come lo stress, le capacità di coping, la resilienza e l’accettazione. Tuttavia gli autori hanno evidenziato una serie di aspetti metodologici che impediscono di dichiararne una vera e propria efficacia: primo fra tutti, un’estrema eterogeneità dei diversi programmi analizzati, la variabilità degli strumenti di misura, l’instabilità delle misure di outcome (che in età evolutiva cambiano rapidamente), la sostanziale qualità degli studi pilota (non RCT), l’assenza di un gruppo di controllo, la bassa numerosità campionaria. A complicare ulteriormente il quadro sembrerebbero intervenire altre variabili, scarsamente controllabili, come il background socioculturale dello specifico contesto scolastico, la preparazione degli insegnanti e/o l’inserimento di eventuali esperti esterni nel corpo docenti, la possibilità di usufruire di tempi e spazi al di fuori della scuola. Pertanto sono difficilmente individuati quegli elementi (“ingredienti”) degli interventi mindfulness in grado di produrre degli effetti positivi; sembrerebbero maggiormente intervenire fattori non specifici come il supporto percepito dei pari, la novità del programma ed un generale rilassamento.

Nonostante la mancanza di omogeneità di dati, la pratica di mindfulness nei bambini produce effetti sulle funzioni cognitive ed emotive. Nello specifico, la letteratura evidenzia un effetto positivo della pratica di presenza consapevole sui bambini che mostrano difficoltà nelle funzioni esecutive, coinvolte nella regolazione delle emozioni e del comportamento.

Un trattamento che si è dimostrato efficace nel miglioramento delle funzioni esecutive è il programma Inner kids di Flook et al. (2010). Anche il programma ideato da Susan Kaiser Greenland (2010), ispirato al programma MBSR di JKZ, che si propone di incrementare sia gli aspetti di attenzione che di consapevolezza e compassione, attraverso attività di gioco e movimento, specificamente pensate per i bambini in età evolutiva oltre che per il contesto scolastico, produce effetti positivi sulle variabili di metacognizione e regolazione del comportamento, misurate con il questionario Behavior Rating Inventory of Executive Function o BRIEF (Gioia et al., 2000), somministrato a genitori ed insegnanti. L’autrice ha riscontrato un miglioramento significativo in entrambe le scale, specialmente per coloro che in baseline mostravano valori più bassi, su un campione di bambini tra i 7 e i 9 anni prima e dopo la partecipazione al training di Mindfulness in età evolutiva.

Anche Saltzman e Goldin (2008), applicando il programma MBSR for children (della durata di 8 settimane) su un campione di 30 bambini, hanno ottenuto risultati incoraggianti per diverse problematiche di natura emotiva, riscontrando una minor reattività emotiva, una minore tendenza all’autocritica ed anche una maggiore compassione verso di sé e verso gli altri dopo il training di Mindfulness.

I programmi di mindfulness per adolescenti

Anche per quanto concerne la popolazione adolescente, sono stati ideati eterogenei programmi mindfulness-based applicati al contesto scolastico.

Come già illustrato da Andrea Bassanini in un articolo del 2013, “Mindulness: effetti del programma di pratica per la scuola”, praticare la mindfulness a scuola riduce i sintomi depressivi, lo stress e migliora il benessere percepito degli adolescenti. Citando lo studio di Kuyken, W., Weare et al. (2013), frutto della collaborazione tra l’università di Exeter, Oxford e Cambridge, condotto su un campione di 522 ragazzi inglesi, dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria, i ragazzi a cui è stato inserito il Mindfulness in Schools Programme nel proprio curriculum formativo, contrariamente a chi ha mantenuto il curriculum standard, hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala CES-D (Center for Epidemiologic Studies Depression Scale) della depressione e al follow-up (a due e a tre mesi), livelli bassi di stress nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, hanno ottenuto punteggi più alti di benessere, misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-Being Scale (WEMWBS).

Il Mindfulness in Schools Programme, rientrando a pieno titolo nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP), prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza settimanale. Tuttavia è anche stato strutturato nel rispetto dei principi guida del lavoro con gli adolescenti: una maggior esplicitazione dei concetti, il riadattamento degli interventi in forme più brevi e quindi più fruibili dai destinatari, un forte uso dell’interazione e della componente esperienziale, il ricorso a strumenti informatici che consentissero di esportare i temi appresi durante il corso nella vita quotidiana: un libretto informatico con i temi principali, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.

Dal presente studio, emerge significativa la variabile relativa al grado di pratica personale svolta dai partecipanti tra una sessione e la successiva ed una correlazione positiva tra questa e il miglioramento del benessere personale, l’abbassamento dei livelli di stress e l’abbassamento dei livelli di depressione al follow-up di tre mesi.

In un ulteriore articolo, scritto da Linda Confalonieri “Mindfulness a scuola & minor rischio depressivo negli adolescenti”, si presentava una ricerca belga di Raes e collaboratori (2013), pubblicata sulla rivista Mindfulness, su un ampio campione di studenti adolescenti (N=400) che hanno seguito un training di mindfulness a scuola (ben diverso dal classico setting clinico) e che presentavano, a termine del programma, minori probabilità di sviluppare sintomi depressivi e ansiosi nei mesi successivi, rispetto al gruppo di controllo. Tutti i partecipanti allo studio sono stati sottoposti a dei test prima dell’intervento, dopo la conclusione e a sei mesi di distanza (follow-up). Al pre-test entrambi i gruppi (sperimentale e di controllo) hanno presentato percentuali simili di sintomi depressivi (21 e 24%); al termine del programma tale percentuale si è significativamente ridotta nel gruppo sperimentale: 15% contro il 27% di soggetti con sintomi depressivi nel gruppo di controllo. Tale differenza si è mantenuta anche nel follow-up a sei mesi: 16% contro il 31% del gruppo di controllo. Il più grande limite dello studio di Raes et al., (2013) è che i ragazzi adolescenti facenti parte del gruppo di controllo non hanno ricevuto alcun tipo di trattamento; oltre alle ricadute in termini di correttezza metodologica dell’impianto di ricerca emerge anche una questione etica nel non offrire i potenziali benefici derivanti dalla partecipazione ad un programma di mindfulness.

Una soluzione a questo aspetto è stata trovata dal gruppo di ricerca di Karen Bluth e collaboratori (2015), i quali hanno formato un gruppo di controllo con i soggetti in lista d’attesa, beneficiari anch’essi dell’intervento di mindfulness ma in un tempo successivo ai soggetti sperimentali.
Lo scopo delle autrici del Nord Carolina è stato testare la praticabilità, l’accettabilità e gli outcome psicosociali preliminari dell’adattamento del programma per adulti Mindful Self-Compassion alla popolazione adolescente, ribattezzato col nome Making Friends with Yourself (MFY, acronimo)

Nella ricerca sono stati reclutati 34 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni. La maggior parte erano ragazze (26). Tutti i ragazzi provenivano da famiglie con un alto livello di scolarizzazione (laurea, master, titoli post-laurea, dottorato). Come criterio d’inclusione nello studio è stato scelto un punteggio inferiore a 13 ad una versione modificata della scala KADS (Kutcher Adolescent Depression Scale; LeBlanc et al. 2002) , con una suddivisione interna degli item riguardanti comportamenti autolesivi e comportamenti suicidari, e la risposta negativa all’item “nell’ultima settimana, solitamente hai mai avuto pensieri o compiuto azioni suicidarie?”. I partecipanti sono stati assegnati tramite randomizzazione ad un gruppo sperimentale e ad un gruppo di controllo (lista d’attesa). L’assessment è stato effettuato tramite una somministrazione online di una batteria di test prima e dopo la conclusione del programma (prima del gruppo sperimentale e poi del gruppo di controllo). La frequenza al programma e la sopravvivenza del campione sono state usate come misure della praticabilità dell’intervento; mentre le audio-registrazioni della classe, della durata di 6 settimane, sono state analizzate per determinare il grado di accettabilità per la popolazione adolescente.

I risultati mostrano come, a confronto con la lista d’attesa dei partecipanti (soggetti di controllo), il gruppo di soggetti che ha ricevuto l’intervento ha ottenuto punteggi statisticamente significativi alle misure dell’autocompassione, della soddisfazione di vita, un più basso punteggio ai test di depressione rispetto ai soggetti di controllo (lista d’attesa), in concomitanza ad una maggior capacità di mindfulness e connessione sociale, più bassi livelli di ansia.

Attraverso un’analisi congiunta dei dati ottenuti dal gruppo dei soggetti di controllo con i dati del primo gruppo di soggetti sperimentali, si evince un incremento significativo nelle capacità di mindfuness, di autocompassione e un decremento altrettanto significativo dei livelli di depressione, ansia, stress percepito e stati affettivi negativi dopo la partecipazione al programma.
Inoltre, i risultati della regressione dimostrano che l’autocompassione e la mindfulness predicono un decremento nei livelli di ansietà e di depressione, nello stress percepito, e un aumento nella soddisfazione di vita a seguito della partecipazione al programma MFY.

Il “Making Firends with Yourself” è un programma della durata di 6 settimane, con frequenza settimanale, ogni incontro della durata di 90 minuti. Similmente al programma per adulti (Neff and Germer, 2013), ogni sessione settimanale è incentrata su un tema specifico. Il 1° incontro consiste in una presentazione generale del programma, l’introduzione alla mindfulness e all’autocompassione tramite una serie di pratiche e attività che incoraggiano l’autoscoperta dei partecipanti di queste abilità. L’incontro n.2 si focalizza principalmente sulla mindfulness e introduce una serie di pratiche tradizionali come il respiro consapevole e la consapevolezza alle sensazioni fisiche del corpo. Il 3° incontro s’incentra sul cervello dei teenagers e include una presentazione didattica di come i due sistemi cerebrali (il sistema di controllo cognitivo e il sistema motivazionale) si sviluppano in stadi differenti dello sviluppo cerebrale nel corso dell’adolescenza. Il sistema di controllo cognitivo include lo sviluppo della corteccia prefrontale (pensiero logico, decision-making) mentre il sistema motivazionale implica lo sviluppo del sistema limbico e dell’amigdala (ad esempio nella regolazione delle risposte di attacco o fuga). Viene dunque incoraggiata la discussione in merito alle conseguenze di questi cambiamenti sul temperamento del ragazzo, sul suo comportamento e sui rapporti familiari. La sessione n.4 si focalizza sull’autocompassione intesa come qualcosa di diverso dall’autostima e come la prima sia un modo migliore e più efficace di rapportarsi a se stessi. A tal proposito vengono utilizzati anche strumenti video per metterne in luce le differenze tra i due costrutti. Nella 5° sessione, ci si focalizza sul sentimento di gratitudine presentato come valore nucleare dell’adolescenza e dell’intero spirito del programma.

Le differenze del programma per adolescenti, rispetto alla versione per adulti, sono la maggior brevità del trattamento, gli accorgimenti legati all’età dello sviluppo (un maggior utilizzo di attività, anche manuali, e dall’uso di meditazioni guidate più brevi) ed un affondo specifico sulla natura del cervello dell’adolescente.

Gli adolescenti sono stati gradualmente introdotti alla pratica della mindfulness, attraverso una serie di pratiche di natura sia formale sia più informale. Nel primo caso, per esempio, è stata consegnata una traccia audio per la pratica di autocompassione tramite un body-scan, invitandoli a portare calore e affetto ad ogni parte del loro corpo, semplicemente notando le sensazioni emergenti in quella zona del loro corpo. Un esempio di pratica informale è rappresentato dalla pratica “A Moment for Me”; ai ragazzi è stato insegnato come fare un gesto amorevole, ad esempio sgranchirsi le braccia o le gambe, mentre ricordano a se stessi di fare tre cose: il riconoscere la loro sofferenza nel momento in cui sta accadendo, il riconoscere che la sofferenza emotiva è universale e parte dell’essere umano, il confortare attivamente se stessi specialmente nei momenti più critici, ripetendosi fra sé e sé frasi di gentilezza amorevole. Infine, in occasione dell’ultimo incontro (6°), viene chiesto ai partecipanti un feedback rispetto al programma, alle pratiche preferite e quelle meno, alla meditazione in generale e alle loro opinioni su come rendere migliorabile il programma stesso.

Per incoraggiare la pratica durante la settimana, i ragazzi sono stati incoraggiati ad accedere ad un sito dal quale potevano scaricare materiale sia audio che video, sebbene con tracce pensate per adulti. Un sito con materiale di supporto per adolescenti non era disponibile. Prima dell’inizio di ciascuna classe, i ragazzi sono stati invitati a compilare una scheda in cui riportare il numero di giorni durante la settimana in cui hanno praticato la mindfulness e l’autocompassione sia formalmente sia informalmente.

Tutte le classi sono state audioregistrate e trascritte verbatim (poi sottoposto ad analisi tramite Atlas-ti 7.5) allo scopo di informare la comprensione degli autori circa le modalità di meditazione e di pratica della self-compassion così come di altre attività che sono efficaci e ben accettate dagli adolescenti.

Sono stati utilizzati i seguenti strumenti di misura
The Children and Adolescent Mindfulness Measure (CAMM; Greco et al. 2011) che valuta l’attenzione momento per momento e l’accettazione delle esperienze interne. I partecipanti devono indicare le loro risposte agli item su una scala Likert a 5 punti (0, “mai vero” 4, “assolutamente vero”). Punteggi più alti indicano maggiori capacità di mindfulness. Un esempio di item è il seguente “Divento sconvolto quando ho certi pensieri e cerco di scacciare via i pensieri che non mi piacciono”.
-Positive and Negative Affect per misurare con quale frequenza sperimentano affetti negativi (ostilità, senso di colpa, distress) e positivi (interesse, soddisfazione, iniziativa, etc.) (PANAS; Watson et al.1988).
-la versione breve della Self-compassion scale, short form (SCS-SF; Raes et al.2011), ad esempio: “cerco di guardare ai miei errori, fallimenti come parte della condizione umana e quando sto attraversando un periodo veramente difficile, dò a me stesso la cura e la tenerezza di cui ho bisogno”
-State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger et al. 1983)
-the Student’s Life Satisfaction Scale (Huebner, 1991) “la mia vita sta andando bene”, “la mia vita è migliore di quella della maggior parte degli altri bambini”.
-The Short Mood and Feelings Questionnaire (SMFQ; Angold et al. 1995) “mi sono sentito miserabile o infelice e ho sentito come se fosse impossibile pensare correttamente o concentrarmi”
-The Social Connectedness scale, una scala di 8 item che valuta il senso di appartenenza interpersonale e la consapevolezza soggettiva di essere in una relazione intima col mondo sociale (Lee and Robbins 1998, p. 338). Esempi di item includono “Mi sono sentito disconnesso dal resto del mondo che mi circondava e anche verso le persone attorno che conosco, mi sono sentito come se in realtà non appartenessi.”

Gli elementi preferiti del programma in generale sono le pratiche più concrete, ossia l’osservazione diretta delle sensazioni fisiche (ad esempio, il self compassion body scan, trovato dai partecipanti “molto rilassante”):

“mi sono sentito come avessi fatto un sonnellino rigenerante…quanto è durato ? 15 minuti….è sembrato durasse ore!”; “mi sentivo veramente stanco oggi, perché non ho chiuso occhio la notte scorsa ma ora mi sento decisamente meglio!”.

Lo strumento più utile è stato quello del “sassolino del qui ed ora”, come modo per lasciar andare le preoccupazioni sul futuro e sul passato portando la consapevolezza al presente, al pari della pratica di gentilezza amorevole, in combinazione con un dialogo interno gentile verso di sé o verso gli altri.
Non solo, un certo numero di partecipanti ha anche espresso la preziosa utilità dell’apprendimento della componente dell’autocompassione come parte dell’esperienza dell’umano.

“In qualunque modo tu ti possa sentire, non sei solo in questo. Qualcun altro sente quello che stai provando tu, sa da dove vieni, sebbene tu creda che nessuno possa capirti, ci sarà qualcuno che lo comprende appieno”.

Un altro partecipante ha riportato che la mindfulness lo ha aiutato a focalizzarsi e concentrarsi sui lavori scolastici.
I partecipanti hanno anche riportato alcuni suggerimenti per eventuali variazioni e adattamenti di alcuni aspetti del programma che non hanno funzionato molto bene a loro avviso. In particolare, la maggior parte di loro ha riportato aspetti legati alla pratica formale a casa; ad esempio che fosse disagevole e dispendioso accedere al sito per ascoltare le tracce guida, troppo lunghe. Al contrario la pratica dell’essere nel momento presente, applicabile in qualsiasi momento di stress (come il sassolino del qui ed ora) è stata molto apprezzata. E’ stato anche suggerito l’invio di e-mail infrasettimanali come promemoria per la pratica.

Nel corso del programma delle 6 settimane, i partecipanti hanno sviluppato una maggior comprensione del costrutto dell’auto-compassione. Diversi partecipanti hanno dichiarato di iniziare a basare la propria valutazione di sé in base a questa capacità più che al considerarsi come buoni in funzione della loro performance, ottenendo un beneficio nel ridurre la quota di ansia scolastica, maggiori risultati positivi nello stesso rendimento, la riduzione di rimuginio, maggior tolleranza verso i propri errori, una maggiore facilità ad addormentarsi, una maggior capacità nello stabilire le priorità (discernere ciò che è importante e necessario fare nell’immediato rispetto a ciò che può aspettare) e nel prendere decisioni.
Un dato interessante di questo studio, contrastante rispetto alla letteratura generale, è che il grado di pratica al di fuori del setting scolastico non sembra correlare con il miglioramento significativo delle capacità di mindfulness e autocompassione, che sembrerebbe ascrivibile alla mera frequenza della classe e ad una più generale operazione meta-riflessiva.
Il MFY risulta dunque promettente come programma per incrementare il benessere psicosociale negli adolescenti. Tuttavia, trattandosi di uno studio pilota, sono necessari ulteriori studi per sostanziare l’evidenza scientifica. Nello specifico sarebbe utile ottenere misure più a lungo termine e analizzare più in profondità i meccanismi sottesi all’efficacia clinica.

Karen Bluth e la sua équipe hanno condotto un ulteriore studio che ha coinvolto ragazzi di età compresa tra i 13 i 18 anni, fornendo maggiore sostanza empirica al costrutto dell’auto-compassione. I partecipanti sono infatti stati testati in laboratorio tramite il protocollo sperimentale Trier Social Stress Test (Kirschbaum et al., 1993) per ottenere una valutazione di baseline della risposta fisiologica di stress. Il Trier Social Stress Test ha previsto 5 minuti per la preparazione di un discorso, 5 minuti per il discorso e 5 minuti per un compito matematico (sottrarre 7 a partire da 2023) di fronte a due membri di una commissione valutativa, mentre venivano audio videoregistrati di fronte ad una telecamera.

Il protocollo sperimentale è stato opportunatamente adattato alla popolazione adolescente: il tema del discorso era incentrato sul tipo di lavoro estivo ideale e veniva data la consegna ai valutatori di non assumere un’espressione facciale totalmente neutra e fredda, dal momento che è stato riscontrato in letteratura che può indurre una maggiore vulnerabilità al pianto, specialmente nelle ragazze adolescenti. Nelle diverse fasi sperimentali sono stati misurati, ad intervalli di tempo regolari (es: ogni tre minuti), la pressione sanguigna (BP- blood pressure), la frequenza del battito cardiaco (HRV- heart rate variability) e il tasso di cortisolo tramite un campione salivare. Le stesse misure sono state raccolte in una successiva fase di riposo (recovery), della durata di 20 minuti.

Successivamente il campione di soggetti è stato suddiviso in due gruppi: il gruppo ad alta autocompassione (HSC, High Self Compassion) e il gruppo a bassa autocompassione (LSC, Low Self Compassion). Nel primo gruppo è stato riscontrato un maggior numero di soggetti maschi; questo dato è in linea con altri studi precedenti (Bluth e Blanton, 2014) secondo cui i maschi risulterebbero maggiormente autocompassionevoli rispetto alle femmine.
Tuttavia tra i due gruppi, HSC e LSC, non sono emerse differenze statisticamente significative rispetto al parametro della frequenza del battito cardiaco, sebbene si sono osservati incrementi di minor intensità nella HRV durante il test di stress (discorso e compito aritmetico) nel gruppo alta autocompassione rispetto al gruppo bassa autocompassione.

Il gruppo alta autocompassione mostra altresì un tasso globale di cortisolo più basso, indicativo di una minor intensità di risposta fisiologica di stress.
Una possibile spiegazione dell’assenza di una differenza significativa tra i due gruppi nella HRV è presumibilmente amputabile alle differenze di genere nella reattività cardiovascolare e dell’asse ipotalamo- ipofisi-surrene (più marcata nei maschi) e nella differente strategia di coping utilizzata: coloro che risultano avere una più bassa misura nell’autocompassione sembrerebbero ricorrere ad un maggior irrigidimento come modalità di autoregolazione, che quindi provoca un incremento della frequenza cardiaca, contrariamente al gruppo di soggetti con più alta autocompassione che ricorrono all’auto-rassicurazione e consolazione.

Gli autori dunque hanno fornito una prima evidenza empirica sul ruolo dell’autocompassione quale fattore protettivo in risposta ad eventi sociali stressanti. Gli adolescenti con maggior autocompassione sono più capaci di fornire supporto a se stessi, di consolarsi in momenti critici, proteggendosi dal potenziale effetto negativo di eventi stressanti quotidiani (ad esempio il non ricevere un invito ad una festa). Bluth e collaboratori suggeriscono di intendere l’autocompassione come una forma di supporto sociale interiorizzata.

Sebbene vi siano diversi limiti nello studio (bassa numerosità campionaria, sbilanciamento di genere con prevalenza di soggetti di sesso femminile, mancata considerazione di fattori quali razza, etnia, status socioeconomico, fattori culturali e tipo di educazione ricevuta), esso suggerisce l’opportunità di coltivare l’autocompassione come risorsa personale aggiuntiva in grado di promuovere un maggior benessere emotivo e ponendo le fondamenta per una sana traiettoria di sviluppo.

Nuove dipendenze: il sottile limite tra dipendenza da gioco d’azzardo e dipendenza da giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno della dipendenza. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

Zamara L.*, Chiapasco E.**
*Dottore in Psicologia Clinica e di Comunità; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino ** Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo; Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino

 

 

Le nuove dipendenze: quali sono?

Con il termine “nuove dipendenze” viene definito “un gruppo di disturbi eterogenei che implicano un coinvolgimento in un’abitudine persistente e ripetitiva, volta a modificare lo stato di coscienza dell’individuo, e che a lungo termine comportano una compromissione della sfera sociale, affettivo-relazionale e lavorativa del soggetto” (Mulè, 2008).

Tra le più studiate vi sono la dipendenza da Internet (internet addiction), la dipendenza da sesso (sex addiction), la dipendenza da lavoro (workaholism), la dipendenza da cellulare, la dipendenza da videogame (Internet gaming disorder) ed il gioco d’azzardo patologico (gambling disorder); tuttavia soltanto quest’ultimo è stato riconosciuto ufficialmente dall’APA (American Psychological Association) che, nel 2013 l’ha inserito nel DSM-5, all’interno della sezione dedicata ai “disturbi correlati alle sostanze e alle dipendenze”. La dipendenza da videogame “Internet Gaming Disorder” è invece stata inscritta nella sezione III del DSM-5 come una condizione richiedente maggiore ricerca clinica ed esperienza prima di essere considerata per l’inclusione nel manuale, come disturbo formale.

La dipendenza dai giochi per smartphone

Considerata la facile accessibilità dei giochi per smartphone e il crescente numero di ore dedicate a queste attività da parte, soprattutto, dei ragazzi, riteniamo che sia molto importante approfondire il tema e analizzare le caratteristiche del fenomeno. In questo articolo, in particolare, approfondiremo un aspetto spesso trascurato ma a nostro avviso molto insidioso: come molti dei giochi per smartphone abbiano caratteristiche assimilabili ai giochi d’azzardo.

All’interno del panorama di videogiochi per differenti tipi di console, disponibili sul mercato, vi è una categoria di questi che negli ultimi anni ha visto un enorme aumento di consumatori, i giochi per smartphone. La maggior parte di questi videogame vengono distribuiti sul mercato seguendo il modello economico freemium, per cui possono essere scaricati e installati gratuitamente sui telefoni smartphone, salvo poi non poter usufruire dei contenuti extra, a meno che non venga speso del denaro (Kingsley, 2015).

Il fatto che, tra le opzioni proposte da alcuni giochi per smartphone, vi sia la possibilità di utilizzare del denaro per incrementare le potenzialità del videogame, oppure per poter continuare a giocare senza interruzioni, è di per sé la prima grande caratteristica in comune con il gioco d’azzardo. Di seguito andremo ad esporre altri aspetti di alcuni dei giochi per smarphone più in voga del momento, che presentano grandi similitudini con uno dei giochi d’azzardo più diffusi e additivi, le slot machines.

-Il feedback: un videogioco senza un sistema di feedback non potrebbe funzionare, infatti è proprio quest’ultimo ad informare il giocatore circa i propri risultati, mettendolo a conoscenza di quanto si stia avvicinando all’obiettivo. All’interno del sistema di feedback rientrano gli aspetti grafici del gioco, i suoni, e l’eventuale presenza di voci che comunicano o guidano il giocatore. Se osserviamo l’aspetto grafico di molti dei moderni videogiochi per smartphone (per esempio Candy Crush Saga, Diamond Digger Saga, Jewel Pop Mania) notiamo che gli elementi che caratterizzano il gioco sono spesso dolcetti, caramelle, pietre preziose (gemme o diamanti), proprio come in molte slot machine. Le immagini stilizzate di frutta e caramelle inducono, secondo Sheldon (2013) ricordi d’infanzia piacevoli e, di conseguenza, una parziale dissociazione dalla realtà; il che favorirebbe l’allungarsi dei tempi di gioco.

Un’altra caratteristica in comune a slot machine e giochi per smartphone è la tendenza a complimentarsi con il giocatore. In alcuni giochi per smartphone è una voce bassa e calorosa a lodare il giocatore, mentre applausi e complimenti sono uno degli elementi di feedback tipici delle slot machine.

-Semplicità delle regole: un altro elemento comune ai due tipi di gioco è la semplicità delle regole. In molti giochi per cellulare l’unica mossa consentita è spostare gli elementi del gioco di una casella cercando di accostarne 3 dello stesso tipo, creando così una combinazione che consente di fare dei punti. Similmente il giocatore delle slot machine clicca un tasto che fa muovere i simboli sullo schermo, sperando che ne esca una combinazione fortunata, spesso composta da tre elementi. Come sostengono Croce & Rascazzo (2013), i giochi d’azzardo moderni hanno scelto la semplicità, perché questo attira un bacino di utenti molto più ampio e non richiede impegno. Molti giochi per cellulare sono facilissimi e possono giocarci anche bambini di 3 anni.

-Fortuna: a proposito di tale argomento vale la pena chiarire il significato di “variable ratio reinforcement schedule” (programma di rinforzo a rapporto variabile). Un programma di rinforzo è fondamentalmente una regola che stabilisce che un comportamento sia rinforzato, premiato. Il rapporto può essere fisso se, un determinato comportamento, viene premiato ogni qualvolta esso venga messo in atto. Un rapporto è variabile quando, al contrario, uno stesso comportamento viene rinforzato dopo un imprevedibile numero di tentativi (Fester & Skinner, 1957). Le slot machine sono un classico esempio di applicazione di tale programma. Il giocatore non sa quando vincerà (perché il rapporto è variabile), ma il numero di volte in cui trionferà è sufficiente a far sì che il comportamento venga mantenuto. Per l’andamento aleatorio dei successi questi giochi vengono definiti “d’azzardo”, ovvero basati sulla fortuna. Il giocatore non sa quando vincerà, perché il rapporto è variabile, ma vincerà abbastanza spesso da far sì che diventi difficile abbandonare il gioco. Diversi autori (Smith, 2014 e Miltenberger, 2008, sono due di loro) hanno avanzato l’ipotesi che anche molti giochi per cellulare siano stati progettati utilizzando il programma di rinforzo a rapporto variabile. Le vittorie, in questo caso, non sarebbero frutto dell’abilità dei giocatori, ma di un programma progettato per ricompensare saltuariamente i giocatori, come avviene nelle slot-machines.
La maggior parte dei giochi per smartphone, tuttavia, vengono promossi come giochi di abilità, creando nel giocatore l’illusione di poter controllare i risultati. È da notare che, proprio l’illusione di controllo, è uno dei maggiori responsabili di condotte di mantenimento del gioco d’azzardo, che possono portare alla dipendenza (Lavanco, 2001).

-Limiti: Un’altra caratteristica comune a slot machines e molti giochi per smartphone è la presenza di alcuni limiti. Nel caso delle slot machine il limite è dato dalla quantità finita di denaro che ogni giocatore può, o vuole, spendere per giocare. Nel caso di molti giochi per smartphone il limite è dato dal numero di vite a disposizione del giocatore. Nel famoso Candy Crush Saga, per esempio, quando un giocatore finisce le vite ha tre opzioni: aspettare almeno mezzora per ricevere una nuova vita, chiedere ai propri amici di facebook, anch’essi giocatori di Candy Crush Saga di donargli una vita, oppure pagare. Al giocatore, in pratica, non è data la possibilità di raggiungere quello che viene definito “adattamento edonico”, ovvero “l’abituazione ad una condizione positiva o negativa, il cui risultato è l’attenuazione degli effetti emozionali di uno stimolo” (Frederick, Loewenstein, Kahneman, Diener, & Schwarz, 1999). Non potendo giocare quanto desidera, il giocatore non satura la propria voglia, di conseguenza ci vorrà molto tempo prima che abbandoni quel videogame.
Nel caso il giocatore di mobile game decida di pagare osserviamo che il comportamento messo in atto è estremamente simile a quello del giocatore di slot machines che paga per giocare ancora, sperando di vincere ad un gioco basato sulla fortuna.

-Near-miss: Un’altra caratteristica tipica delle slot machines e della maggior parte dei videogames è l’alta frequenza di situazioni nominate “near-miss”, ovvero quelle condizioni in cui il giocatore arriva ad un passo dalla vittoria. Arrivare vicino alla vittoria in un gioco d’azzardo, tuttavia, non corrisponde matematicamente ad avercela quasi fatta; è solo un’illusione. Secondo uno dei maggiori ricercatori delle nuove dipendenze e del gioco d’azzardo, Mark Griffiths (2012), la presenza di near-miss è uno degli elementi fondamentali della maggior parte dei videogame e giochi d’azzardo presenti sul mercato. Uno studio Canadese, inoltre, ha dimostrato che, se durante l’esperienza di gioco il giocatore sperimenta una situazione di near-miss, una volta ogni tre giocate, sarà maggiormente incentivato a giocare, rispetto ad una situazione di assenza di near-miss (Cotè, Caron, Aubert, Desrochers, & Ladoucer, 2003).
Come evidenziato, giochi da’azzardo come le slot machines, e alcuni videogiochi per smartphone possiedono diverse caratteristiche in comune. Ci siamo, dunque, chiesti quali possono essere le implicazioni di tale similitudine.
a) È possibile che l’uso di videogiochi “play for free”, cioè scaricabili gratis con possibilità di fare acquisti in seguito, sia un fattore di sviluppo della dipendenza da gioco d’azzardo (Griffiths, 2013), tuttavia gli studi al riguardo non hanno ancora raggiunto un risultato univoco (Griffiths, 2015).
b) L’osservazione dei dati economici forniti dalle aziende produttrici di smartphone games (nel novembre 2015 la King.com, azienda produttrice del famoso gioco Candy Crush Saga è stata acquistata dalla Activision Blizzard per 5,9 miliardi di dollari) porta anche ad un’altra riflessione: alcuni dei moderni giochi per smartphones potrebbero funzionare esattamente come delle slot machines, salvo il fatto che vengono promossi come “giochi di abilità” e non “giochi basati sulla fortuna”. E se i giochi per smartphone sfruttassero le conoscenze del gioco d’azzardo per sviluppare giochi maggiormente additivi?

Non è nostra intenzione demonizzare i videogiochi ma ci sembra davvero importante sottolineare come di fronte a un mercato che cerca di trarre profitto dalla creazione di giochi sempre più accattivanti e coinvolgenti sia fondamentale aumentare la consapevolezza degli utilizzatori sui possibili rischi.

Genitori, insegnanti e tutto il mondo degli adulti deve attivamente vigilare affinchè l’utilizzo di questi passatempi rimanga un momento ludico e non diventi invece una compulsione che condiziona la vita reale.

Forti reazioni emotive connesse al gioco, la riduzione delle attività sociali nella vita reale, un calo del rendimento scolastico o lavorativo, la presenza del gioco anche in momenti come i pasti o la notte sono elementi da tenere in considerazione per valutare la gravità della situazione. In questi casi è meglio non aspettare a richiedere un aiuto a un esperto o a rivolgersi a un centro specializzato. Il meccanismo subdolo della dipendenza con il passare del tempo rende sempre più complicata la vita della persona coinvolta e delle persone vicine. Intervenire in tempo può evitare seri problemi futuri.

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L’ansia e l’intolleranza dell’incertezza sono visibili a livello cerebrale?

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

 

La relazione tra intolleranza all’incertezza e ansia

L’intolleranza dell’incertezza, come affermato nel modello cognitivo teorico dell’ansia (Sassaroli & Ruggiero, 2002), è tra le credenze centrali dell’assetto di soggetti ansiosi. Essa è caratterizzata da un’eccessiva preoccupazione per ciò che è imprevedibile, incontrollabile e senza possibilità univoche d’interpretazione. Si tratta di una distorsione cognitiva legata all’idea di pericolo, che comporta il rimuginio a scopo previsionale. In particolare, le relazioni di causa-effetto avvengono rispettivamente in quest’ordine: intolleranza dell’incertezza, rimuginio e stato ansioso.

Tale credenza, inoltre, implica come conseguenza logica la catastrofizzazione, incidendo negativamente e pervasivamente nella vita quotidiana. Dunque, essa necessita di una ristrutturazione cognitiva della credenza “se il mondo è incerto, allora esso è pericoloso”, attraverso la constatazione che l’incerto non significhi necessariamente esito negativo (Ruggiero, 2012).

L’intolleranza all’incertezza e i correlati cerebrali

Alla luce di ciò, si rivela interessante uno studio che consentirebbe di individuare soggetti caratterizzati da intolleranza dell’incertezza attraverso la valutazione del volume dello striato, area cerebrale già associata da tempo al disturbo d’ansia generalizzato (DAG), consentendo di delineare nuovi trattamenti preventivi di tale disturbo.

La ricerca di riferimento è stata pubblicata dall’American Psychological Association (APA) e ha rivelato proprio che le persone particolarmente preoccupate per l’incertezza del futuro e le sue potenziali minacce potrebbero presentare uno striato più grande rispetto alla norma.

Lo studio, condotto da Justin Kim, coinvolgeva 61 studenti che avevano scansionato con MRI il loro cervello dopo aver compilato un questionario per misurare la loro abilità di tollerare l’incertezza di potenziali eventi futuri negativi. Confrontando le scansioni MRI con i punteggi di tolleranza dell’incertezza, è emersa una correlazione positiva tra quest’ultima e il volume di materia grigia dello striato, cosa che non si manifestava per altre aree cerebrali.

Nonostante lo striato fosse stato già associato al disturbo d’ansia generalizzato o a quello ossessivo compulsivo (DOC), nessuna ricerca precedente aveva rintracciato un’associazione tra quest’area e l’intolleranza dell’incertezza in soggetti sani. A partire da questi risultati, tale regione potrebbe considerarsi un marker biologico del bisogno di predicibilità di un evento; infatti, oltre a un ruolo nelle funzioni motorie, essa codifica l’attesa di una ricompensa per un determinato comportamento mentre si apprende un compito nuovo. Dunque, in quest’ottica, l’intolleranza dell’incertezza si configurerebbe come il desiderio di maggiore predicibilità.

I punti forti di questa ricerca sono principalmente due: offrire una nuova tipologia di trattamento per i sintomi di DAG o OCD monitorando l’attività e il volume dello striato nel corso della terapia; e identificare, in fase preventiva, i soggetti sani a rischio di sviluppare le psicopatologie appena citate.

6° Corso internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma, Venezia, 2017 – Intervista a Dolores Mosquera

L’istituto Canossiano di Venezia ha ospitato dal 19 al 21 Maggio 2017 la VI edizione del corso “Nuove Frontiere nella cura del trauma” organizzato da associazione AreaTrauma e ha visto la partecipazione di Dolores Mosquera, Natalia Seijo e Giovanni Tagliavini.

 

Come intervenire sulle memorie traumatiche

Questo corso di alta formazione si colloca senza soluzione di continuità con quanto emerso nei cinque corsi precedenti e per la prima volta quest’anno viene trattata la fase II del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche nel PTSD complesso e nei disturbi dissociativi.

Giovanni Tagliavini presenta il seminario e le docenti provenienti dal centro specialistico INTRA TP, operante in Spagna.

Si percepisce la presenza di una rete internazionale in costante scambio e aggiornamento, ma nello stesso tempo si respira un’atmosfera familiare. Sin dai primi interventi il gruppo si presenta composto da persone con orientamenti, aree di lavoro e background diversi, pronte a sviluppare ed integrare le loro conoscenze nell’ambito del trauma complesso.

Dolores Mosquera, molto apprezzata nelle edizioni precedenti per la sua capacità di condividere attraverso la sua esperienza clinica concetti complessi e sempre in evoluzione, presenterà quest’anno la parte principale del corso. Esordisce collocando l’elaborazione dei ricordi traumatici al centro del suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, ma ribadendo come questo modello possa risultare artificioso se accettato rigidamente. Sostiene infatti come nella pratica questi processi debbano essere sempre contemporaneamente in divenire e simultanei. Già dall’inizio (fase I di riduzione dei sintomi e di stabilizzazione) alcune domande del terapeuta, infatti, insegnano al paziente a guardarsi dentro affrontando e regolando la tipica reazione fobica (fase III di integrazione e riabilitazione della personalità). Nella fase finale del trattamento sarà da potenziare ulteriormente l’integrazione, nonostante molti tendano in questo momento a lasciare la terapia perché stanno meglio e riescono a regolarsi.

Basandosi sull’idea oramai condivisa di Dissociazione Strutturale, ci propone il modello dell’elaborazione adattiva (AIP) come cornice teorica per comprendere quali elementi siano adattivi e quali no: Il comportamento dissociativo, risorsa che permette di sopravvivere mantenendo distante il dolore, diventa un problema perché il conflitto interno tra le parti dissociate nel tempo cresce sempre più di complessità.

Vengono proposte alcune specifiche tecniche da lei ideate che, seguendo questa base teorica, possono venire integrate in diversi approcci e strumenti utilizzati nell’elaborazione delle informazioni immagazzinate in maniera disfunzionale. Esse possono essere sia generate dall’esterno, che dall’interno: è proprio questo conflitto che si crea tra le diverse parti dell’individuo, con tutte le emozioni che ne conseguono e che non comunicano tra loro in maniera adeguata rispetto ai propri bisogni e scopi, che manda l’intero sistema in “cortocircuito”, creando confusione e blocco.

Quando il paziente riesce ad autoregolarsi ed a tollerare le proprie sensazioni fisiche, per lo meno in seduta grazie all’attenzione condivisa sul qui e ora con il terapeuta, sarà quest’ultimo a dover superare le proprie di paure “è troppo presto, è ancora fragile, lo sovraccarico e potrei farlo stare ancora peggio..” agendo sulle esperienze disturbanti e tenendo sempre in considerazione come si è organizzato il sistema di conseguenza. Dietro ad ogni suo intervento c’è la costante convinzione che non si debba interpretare, bensì comprendere insieme alla persona cosa le stia accadendo, quale funzione possa avere qualunque sua reazione apparentemente insensata e nociva e soprattutto se sia positivo per lei continuare in quella sessione o sia preferibile fermarsi. Sarà proprio la possibilità di poter condividere con qualcuno che rimane calmo di fronte a qualunque evento, che si impegna ad affrontarlo insieme rispettando il fatto che non ne voglia parlare in quel momento, l’esperienza correttiva principale. Per fare ciò il terapeuta deve sempre comunicare con l’intero sistema, deve costruire un’alleanza con tutte le parti, con quelle più problematiche, deve essere sufficientemente buona così che “ascoltino” e permettano di lavorare su tematiche più dolorose. Deve anche insegnare al paziente a dialogare con tutte le parti, in modo da potenziare l’integrazione dell’intero sistema.

Nell’ affrontare le memorie traumatiche, il compito del terapeuta sarà quindi quello di comunicare con l’intero sistema e di incoraggiare il paziente a fare lo stesso. Insegnandogli ad ascoltarsi interamente e a verificare che ogni sua parte sia d’accordo con quello che sta accadendo in seduta.

Il trauma e i disturbi alimentari

Natalia Seijo arricchisce ulteriormente il quadro ponendo l’attenzione sulla caoticità dell’esperienza interna spesso presente in persone affette da disturbi alimentari. Il legame tra queste problematiche, traumi, attaccamento e dissociazione è reso chiaro attraverso coinvolgenti esempi di sedute, dove si comprende come diverse esperienze traumatiche infantili avvengano spesso in ambienti che tendono a non proteggere e trascurare i bambini. E’ proprio questa mancanza di figure di riferimento in grado di dare sicurezza che spinge il bambino a cercare una qualche forma di “base emotiva” alternativa. Ecco che il cibo si trasforma in un elemento dissociativo, nel senso che diventa una scappatoia da una realtà dolorosa.

Le persone che soffrono di disturbi alimentari risultano così difficili da trattare perché sin da piccole hanno imparato ad innalzare molte difese (ad esempio autocriticandosi in maniera patologica così da imparare a non farsi scalfire dalle critiche esterne) che proteggono le proprie parti emotive più dolorose e temute (ad esempio “il/la bambino/a che non hai mai potuto essere a causa delle eccessive responsabilità richieste dall’ambiente circostante). Proprio per questo è importantissimo con questi pazienti validare la loro esperienza quando le difese si abbassano un po’ lasciandoci avvicinare a queste parti così fragili e nascoste, è importante infatti che quando ciò avviene loro si sentano finalmente capiti. Si propone in seduta l’occasione per integrare questa nuova esperienza emotiva condivisa: la regolazione emotiva che avviene tramite la relazione terapeutica permette al paziente di percepire, accettare e verbalizzare le proprie sensazioni somatiche e integrarle in una visione di sé più funzionale.

Le tre giornate, seppur impegnative e ricche di nozioni, esercitazioni e riflessioni, scorrono piacevolmente. Aumentano le conoscenze e la rete di persone che si interessa e si applica in quest’ambito così intuitivo da una parte, ma anche complesso e sorprendente dall’altra.
I lavori in piccoli gruppi, da citare un confronto molto interessante coordinato da Giovanni Tagliavini sulle sovrapposizioni e distinzioni tra disturbi dissociativi e psicotici, permettono un atteggiamento propositivo e curioso nei partecipanti, base per potenziali ulteriori sviluppi nel lavoro clinico e nelle prossime edizioni di questo incontro primaverile a Venezia.

L’intervista a Dolores Mosquera

Di seguito l’intervista a Dolores Mosquera, esperta di trauma complesso, disturbi dissociativi, disturbi borderline e antisociali di personalità, che racconta la sua esperienza clinica. Dagli inizi ad un approccio sempre più integrato, la formazione del centro clinico INTRA – TP a la Coruña (Spagna) e il confronto continuo con la ricerca e la clinica internazionale.

  • Quali pensi siano le caratteristiche necessarie di uno psicoterapeuta che lavora con pazienti così complessi?

DM: L’interesse innanzitutto. E’ necessario essere sempre curiosi e avere voglia continua voglia di imparare. Penso poi che la capacità di lavoro di squadra sia cruciale, se un clinico non ne è in grado tutto diventa molto complicato. Bisogna poi saper tollerare la frustrazione, riuscire ad accettare di poter commettere errori ed essere pronti ad imparare da essi. Per me è importantissimo essere in grado di non rimanere attaccato alla tua idea se questa non è più adeguata.
Il terapeuta deve cercare di mantenere l’attenzione duale verso la propria capacità di autoregolazione e contemporaneamente verso ciò che sta accadendo nel paziente. Bisogna seguire i suoi bisogni e non i propri, per fare ciò non bisogna ritrovarsi “contagiati emotivamente”, lo stesso si fa separando bene la nostra storia personale da ciò che sta accadendo in loro. Quindi possono esserci problematiche personali che si possono mettere in mezzo, a quel punto penso sia anche importante permettersi di affrontarle.

  • Qual è la tua idea di un centro clinico integrato? Pensando alle tue idee iniziali e da quello che hai imparato, che consigli daresti dalla tua esperienza?

DM: Quando ho iniziato a lavorare non avevo molto supporto dai miei colleghi che lavoravano nell’area dei disturbi di personalità, ma penso che negli ultimi anni ci sia stata una grande evoluzione in questo ambito. All’inizio cercavo semplicemente qualcuno interessato a lavorare con quei pazienti che nessuno voleva trattare. Abbiamo iniziato in tre, ma gli altri hanno presto iniziato a pensare che fossi matta! Dicevano che era troppo complesso e non se la sentivano di lavorare con i miei casi. A me piacevano tanto, a loro no. Quindi ho iniziato a cercare qualcuno con i miei stessi interessi. Volevo persone curiose, disposte a lavorare insieme senza il bisogno di competere e capaci di supportarsi a vicenda.
Poi nel tempo mi sono resa conto che lavorando da sola mi ritrovavo spesso a gestire pazienti che, seppur non giovanissimi, vivevano ancora in famiglia e dalla quale dipendevano. Non so se sia lo stesso in Italia. Comunque per me era difficile gestire tutto; accadeva spesso che passassi la maggior parte della seduta a parlare con i familiari, spesso disperati nei casi di gravi disturbi di personalità, e mi rendevo conto che era una parte del lavoro molto importante. Ho cercato quindi un terapeuta familiare, così da potermi focalizzare sui bisogni dei pazienti, ma allo stesso tempo dando alla famiglia una possibilità di essere supportata. A volte i familiari interferiscono nel nostro lavoro più che aiutare, ma loro stanno cercando di essere utili. Quando capiscono come fare sono sorprendenti, la famiglia è una risorsa enorme. Poi prima di terminare la seduta noi terapeuti facevamo una piccola pausa e ci confrontavamo, cercando i punti positivi comuni da rinforzare e quelli dove chiedere da entrambe le parti un piccolo cambiamento. Questa idea si è sviluppata negli anni, ora è così che lavoriamo quando abbiamo la fortuna di poter coinvolgere anche i genitori.
Per me ora un team che funziona è composto da persone che si sostengano tra loro. Noi lavoriamo in questa maniera: se qualcuno ha bisogno può chiedere aiuto, ma quello che a noi capita frequentemente è che prima ancora che qualcuno chieda l’altro già l’abbia colto e chieda “che succede? Ti serve qualcosa?” e questo è ciò che ci protegge dal burnout. E il senso dell’umorismo ovviamente, a volte anche un po’ “nero”.

  • Quando utilizzi la parola integrazione, cosa intendi esattamente?

DM: Cosa intendo con la parola integrazione? Credo che dovrei pensarci! Ma la prima cosa che mi viene in mente è un funzionamento sufficiente in ogni senso. Quando il sistema è in grado di adattarsi a ciò che succede con sufficiente stabilità senza crollare. Si, è un processo ininterrotto: un percorso, non un risultato. Quando io e Kathy Steele utilizziamo questo termine in senso generale, intendiamo un’integrazione “sufficientemente buona” per funzionare al meglio nel presente, incorporando il nostro passato, presente e potenziale futuro in ciò che siamo e in ciò che facciamo.

  • E dal punto di vista dell’approccio clinico? Cosa significa per te lavorare in modo integrato?

DM: Sai, io mi sono formata in diversi approcci. Ho iniziato come psicoterapeuta cognitivo comportamentale, prendendo alcuni spunti dalla Dialectical Behaviour therapy (D.B.T.), dalla terapia basata sulla Mentalizzazione e studiando diversi autori psicodinamici sui gravi disturbi di personalità come Kernberg, Gunderson e altri. Poi mi sono formata in EMDR e in Terapia Senzomotoria, ma devo dire che per me il modello AIP dell’EMDR è molto utile per integrare tutto quello che imparo. A mio parere questa prospettiva può spiegare la complessità in maniera molto semplice. Poi il training sull’attaccamento, le teorie di Giovanni Liotti e la formazione sulla dissociazione sono stati cruciali, senza di questi non sarei riuscita a mettere tutto insieme. Per avere un approccio integrato per me è basilare confrontarsi continuamente con altri colleghi, poter avere come ho detto una squadra con cui condividere idee e poter comunicare ed aggiornarsi costantemente creando anche una rete internazionale.

  • Quale pensi sia qualche interessante direzione futura della ricerca?

DM: Credo veramente che sia necessaria più ricerca nell’ambito dei disturbi dissociativi e del trauma complesso. Per molti miei colleghi il trauma complesso è qualcosa che ancora non viene riconosciuto, rischia di essere confuso per altro e di conseguenza il trattamento non va al punto. Credo che sia una chiave di lettura in grado di aprire la visuale del terapeuta, perciò più evidenza scientifica porterebbe sicuramente ad un maggiore interesse e approfondimento da parte di più persone.

I fidget spinner sono solo un capriccio o combattono davvero ansia e stress?

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba. A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza.

 

Il successo del fidget spinner

Il fidget spinner è uno dei dieci giochi più venduti su Amazon. Si tratta di un piccolo oggetto che le persone si divertono a maneggiare e far roteare. Il suo uso è diventato una vera e propria mania, soprattutto tra bambini e adolescenti.

Lo stesso successo era stato raggiunto con il fidget cube, un altro gioco anti-stress predecessore del fidget spinner, la cui campagna di raccolta fondi on-line “Kickstarter” aveva totalizzato 6,4 milioni di dollari con la sua vendita. Nonostante l’indiscusso successo raggiunto da entrambi, gli insegnanti stanno vietando il loro utilizzo nelle classi e gli esperti stanno combattendo contro l’idea che siano la soluzione per chi soffre d’ansia o di ADHD.

Il fenomeno del “fidgeting”, ovvero l’atto di compiere piccoli movimenti involontari quando si è agitati, non nasce con la moda del fidget spinner ma è rintracciabile già in movimenti come cliccare continuamente la sfera di una penna o muovere ripetutamente una gamba.

 

Come il fidget spinner riduce lo stress

A fronte di ciò, una ricerca ha indagato quali siano le caratteristiche del fidget spinner che inducono una sensazione di relax in chi lo utilizza. In tal senso nell’ambito della ricerca e’ stato somministrato ai partecipanti un questionario sul quale indicare quali fossero le caratteristiche che apprezzavano del fidgeting e in quale particolare momento queste fossero utili a tranquillizzarli. La maggior parte dei partecipanti sosteneva che avere un oggetto tra le mani aiutasse a restare focalizzati su un compito lungo o a mantenere l’attenzione quando si era seduti per lungo tempo durante un meeting. Tra gli esempi più comuni, l’utilizzo di oggetti facilmente reperibili in ogni momento come penne, chiavette USB, cuffie, nastri adesivi o altri oggetti personali che aiutano ad ottenere uno stato di relax aumentando la concentrazione.

Alcuni psicologi riferendosi al fenomeno del “sensation seeking”, affermano che ogni persona cerca di modificare le proprie esperienze o l’ambiente circostante per avere un livello di stimolazione ottimale. Ogni persona funziona bene in condizioni diverse: alcuni si concentrano in un ambiente silenzioso, altri in uno rumoroso e stimolante. La stimolazione esterna, però, varia non solo tra le persone ma anche per la stessa persona a seconda dell’attività che si trova a svolgere.

 

Gli effetti di fidgeting sui bambini

Per quanto riguarda l’effetto del fidgeting sui bambini, le ricerche mostrano che tale attività influisce positivamente su ansia e attenzione, migliorando la concentrazione e quindi l’apprendimento.

Lo studio più rilevante è quello della professoressa Julie Schweitzer sull’effetto del fidget in bambini con ADHD durante l’esecuzione di un compito (flanker task). Effettivamente, compiere piccoli movimenti aiutava i bambini ad avere performance migliori.

Ciò che non va sottovalutato riguarda le caratteristiche che i diversi oggetti devono avere per considerarsi efficaci nella regolazione dell’attenzione. I terapeuti sostengono che la stimolazione primaria debba essere tattile, cosa che il fidget spinner integra con una coordinazione visiva. Per usarlo, infatti, è necessario tenere il centro del gioco con pollice e indice e utilizzare le altre dita per farlo roteare. La coordinazione vista-tatto è forse ciò che spinge gli insegnanti a bandire questi giochi dalle classi, perché inevitabilmente gli allievi non prestano visivamente attenzione all’insegnante a differenza di quanto accade con semplici palline anti-stress o con il fidget cube.

In conclusione, è necessario effettuare ulteriori ricerche per stabilire i presupposti teorici del fidgeting e per identificare ulteriori caratteristiche utili alla creazione di oggetti fidget potenzialmente utili per la regolazione dell’attenzione.

Per chi fosse curioso sui vari modi di usare un fidget spinner, ecco le istruzioni per l’uso!

Telefilm addicted e binge watching: vera e propria dipendenza o un fenomeno sociale?

Il Binge watching potrebbe configurarsi come una dipendenza, che non comprende unicamente comportamenti potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, ma comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

Emma Tidei – OPEN SCHOOL, II anno Studi Cognitivi 

 

Il fenomeno del binge watching

Italiansubaddicted, Maniaci seriali, Telefilm addicted, sono solo alcuni dei nomi più conosciuti e cercati in rete da chi vuole scaricare sottotitoli di serie tv o trovare link per poter vedere la puntata della propria serie preferita direttamente on line, attraverso il canale streaming.

Questo è un fenomeno sempre più frequente in Italia, dato che le maggiori serie televisive sono statunitensi o comunque anglofone e l’utenza ricerca un modo per seguire in real time gli episodi, senza aspettare la programmazione italiana, da sempre fanalino di coda in questo settore, per questione di diritti televisivi.

Lo streaming ovvia a questa problematica, così anche la creazione di piattaforme come Skybox o Netflix, dove intere stagioni vengono caricate e sono a disposizione degli spettatori. Tutto ciò porta i consumatori ad una fruizione del prodotto televisivo differente dall’”appointment viewing”, letteralmente appuntamento televisivo, e porta alla nascita, sia nel nostro paese che oltre oceano e oltre Manica, di un fenomeno noto come binge watching.

Il termine “binge watching” è stato definito anche dall’Oxford Dictionarie, come ”guardare più episodi di un programma televisivo in rapida successione, di solito attraverso DVD o usando lo streaming” (Oxford Dictionarie, 2013) e, è giusto aggiungere, tutti nello stesso luogo. Una definizione di binge watching più nostrana viene data dal dizionario Treccani e recita: “visione ininterrotta di una grande quantità di episodi appartenenti a una serie televisiva, che è interamente disponibile in rete o in cofanetti di dvd”, si può arrivare fino a 10-15 episodi di 40-50 minuti ciascuno.

 

Binge watching: uno sguardo ai numeri

Alcuni numeri possono dare il polso della situazione: da un sondaggio commissionato da Netflix su 1500 streamers, si evidenzia che circa il 61% ha praticato binge watching almeno una volta alla settimana; altri dati pubblicati da MarketCast rivelano come il 67% degli Americani tra i 13 e i 49 praticano maratone televisive. Il binge televisivo è personale e del tutto accidentale, praticato in casa e in solitudine dal 98% dei bingers. Come suggerivano i nomi sopracitati, con termini come “addicted”, anche la parola “binge” lascia sottintendere una dipendenza.

Una dipendenza non comprende unicamente comportamenti che includono eccesso e che sono potenzialmente dannosi per la vita del soggetto, come quella da alcool o sostanze, ma anche comportamenti caratterizzati comunque da perdita di controllo, che però si configurano come soddisfacenti per chi li attua.

La dipendenza da televisione, insieme a quella da internet, si inserisce in quest’ultimo tipo di comportamenti in quanto la persona percepisce il desiderio soggettivo di guardare la tv come un modo per raggiungere una soddisfazione, ma può poi diventare senza controllo: si inizia con una puntata, poi due, poi tre…fino a passare il fine settimana difronte allo schermo del pc o della televisione.

 

Caratteristiche del comportamento binge

Secondo uno studio recente condotto da Pattison, Dombrowski e Presseau nel gennaio 2016, il binge watching appare collegato sia all’impulsività che alla riflessività in un campione di 86 partecipanti che hanno compilato dei questionari su auto-efficacia, aspettative di risultato e automaticità. Inizialmente, quando ci si appresta a vedere la televisione, gioca il fattore riflessivo, si segue uno scopo, poi, durante la visione, subentra un’impulsività, all’interno di un meccanismo di rinforzo contingente.

Un comportamento che si caratterizza come “binge” ha comunque anche una connotazione negativa: lo ritroviamo nelle condotte alimentari compulsive come il binge eating, con il quale la visione di programmi televisivi, al pari dei conflitti familiari, pare avere una correlazione secondo uno studio condotto da Harris e Bargh della Yale University. Nel binge watching rientra comunque anche la pericolosità dei comportamenti di dipendenza, poiché può portare a isolamento, disordini alimentari e problemi nel sonno. (Harris & Bargh, 2010; Wheeler, 2015) I comportamentibinge” sono generalmente accompagnati da sensi di colpa, mentre il binge watcher lo vive maggiormente come una sorta di piacere colpevole.

Uno studio dell’University of Siracuse condotto da Lena ha investigato l’effetto del binge watching sulla fruizione dello spettacolo da parte degli spettatori. Questo appare essere consistente dipendentemente dal tipo di show (ad esempio se è ben recitato e ha una buona storyline) e non vale per qualsiasi serie tv in maniera generalizzata. Lo studio di Lena mostra anche una significatività del binge watching legata alla gratificazione che lo spettatore ottiene dalla visione di più puntate dello show preferito. I dati che emergono mettono in luce il fatto che chi pratica il binge watching, piuttosto che l’appuntamento settimanale con un programma, ricerca una fuga ed è invece meno orientato ad ottenere una vera e propria gratificazione materiale.

 

Quando la serie finisce: i vissuti dei binge watchers

«Iniziare a guardare una serie TV che potrebbe durare anni non è una decisione da prendere alla leggera» dice saggiamente Sheldon Cooper, personaggio della sit-com “The Big Bang Theory”. Ed è un’osservazione che molti appassionati di serie tv certamente sottoscriverebbero. Significa sapere di dover scendere prima o poi a patti col fatto che la serie finirà e ci sarà un season finale, un episodio a cui non ne seguiranno altri. Quando una serie finisce per molti di essi la sensazione è quella traumatica di un vero e proprio lutto, accompagnato dalla sensazione che qualcuno li abbia abbandonati.

Secondo la psicologa Emily Moyer-Guse della Ohio State University, la fine di una serie tv può portare sintomi depressivi e un senso di angoscia e smarrimento, manifestazioni che possono ricorrere anche tra la fine di una stagione e l’altra, del tutto simili a quelle derivanti dalla fine di una storia d’amore. Sì, perché i personaggi ai quali ci si affeziona diventano come amici; una relazione, quella di teleamicizia (Joshua Meyrowitz), che rende un personaggio carnale, fa seguire le sue vicende con passione sempre maggiore. La precedente generazione vedeva nei protagonisti di film passati alla storia o nei personaggi di romanzi classici dei modelli; oggi le nuove generazioni vedono nei personaggi delle serie tv dei compagni, individui che crescono, sbagliano, rimediano, cambiano, proprio come può succedere a loro. In 3-4 stagioni di 20-23 episodi ciascuna c’è tempo per cadere e rialzarsi, per sbagliare e rimediare, il tempo scorre similmente alla vita e non è legato alla pellicola di 90 minuti.

Fondamentale in tutto ciò è, quindi, la ricerca di emozioni. Lo studio statunitense ha esaminato come gli spettatori – tutti universitari – reagiscono davanti alla fine del proprio programma preferito, chiedendo loro quanto spesso guardavano la televisione e i motivi che li spingevano a farlo, e quanto fosse importante per loro. Dai risultati è emerso che i ragazzi che affermavano di sentirsi in “forte relazione” con i personaggi erano coloro che si sentivano più a disagio quando i telefilm interrompevano le programmazioni: i rapporti con i personaggi televisivi possono essere paragonati ai rapporti reali, ma con un’intensità minore. “Il disagio percepito è reale”, ma l’intensità dell’angoscia che si prova, spiega la ricercatrice, “non è paragonabile a quella che si prova nella realtà” (Moyer-Guse).

 

Binge watching: la causa nella paura dei rapporti sociali?

La creazione di questi rapporti parasociali può avere origini nella storia di vita degli individui che arrivano poi a praticare il binge watching. A questo proposito uno studio descrittivo della Georgia Southern University, condotto da Katherine Wheeler, ha evidenziato come i partecipanti, studenti del college, che ottenevano alti punteggi nella scala di attaccamento ansioso della scala Experiences in Close Relationships Revised (ECR-R; Fraley, Waller, & Brennan, 2000), erano quelli che più frequentemente ricorrevano al binge watching come comportamento.

Questo dato potrebbe spiegarsi pensando al fatto che questi soggetti hanno spesso preoccupazioni eccessive riguardo alla pericolosità della vicinanza nelle relazioni e paura dell’abbandono e di conseguenza ricercano nella serie tv dei rapporti parasociali, surrogati di quelli che non riescono a gestire, e vengono gratificati dalla fuga da questi ultimi. Magari di fondo ci può essere una struttura di personalità di tipo evitante o schizoide che favorisce quel ritiro, in quanto vivendo con difficoltà l’interazione sociale, trovano un rifugio ideale e una modalità di esperire determinate emozioni.

In conclusione, molta ricerca si è concentrata negli Stati Uniti, ma anche qui nel nostro paese il fenomeno del binge watching è ormai diventato presente e per tale preoccupante. È auspicabile uno studio di settore che dia il polso della situazione anche in Italia, dove la nascita dei gruppi di ragazzi che si ritrovano in piattaforme on line, come quelle citate all’inizio dell’articolo, per caricare i sottotitoli delle più amate serie tv ci mostra il grado di partecipazione e coinvolgimento per questo fenomeno che porta ragazzi, spesso universitari o studenti liceali a spendere svariate ore e parte importante del proprio tempo libero a tradurre, sincronizzare e commentare intere puntate, per poi metterle a servizio di un utenza sempre più ampia.

Si può effettivamente parlare di dipendenza? O siamo di fronte ad un fenomeno sociale di massa? È quello che si chiedono anche nei forum nati per la condivisione della passione per i telefilm tra i giovani, anche nel nostro paese. A mio avviso è un fenomeno che va controllato, poiché da quanto emerge dai vari studi, il rischio di un comportamento come il binge watching sul well-being è reale e se non è il fenomeno sociale a portare la dipendenza, potrebbe essere la dipendenza a portare il fenomeno sociale, crescendo individui sempre meno capaci socialmente.

Nel suo saggio “Cattiva maestra televisione” il filosofo Karl Popper mette in guardia dal prodotto scadente dell’industria televisiva; direi che ora dobbiamo essere messi in guardia da quello ottimo, che oscura la vita reale, che non termina dopo 40 minuti e può non darci tutto quel concentrato emotivo, ma è naturale, spontanea. Il binge watcher ha paura di fronte ai rapporti sociali, proprio per le emozioni spiacevoli che possono comportare, così lascia che siano altri a decidere quali emozioni proverà; facendo così, paradossalmente, rinuncia a quello che lo attira verso la serie tv: il proprio vissuto emotivo.

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