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Siblings: fratelli e sorelle superspeciali di bambini speciali

Questo filone di ricerca si è dedicato allo studio dei siblings, termine che nel mondo anglosassone indica semplicemente un legame di fraternità, mentre nel panorama italiano, fa riferimento nello specifico a fratelli e sorelle di bambini con disabilità.

Federica Rossi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Carico pesante avere un fratello speciale come Giovanni.
Tu sei un fratello super speciale.
Ammiro la tua infinita pazienza.
Bisogno di visi sorridenti hai.
Di momenti senza di lui.
Giovanni è agitato.
Non riesce a controllare troppi stimoli.
Accettalo. Sei grande.”
(lettera da Andrea Ervas, ragazzo affetto da autismo, al fratello di un suo amico)

 

Siblings: i fratelli di bambini con disabilità

I bambini con Bisogni Speciali, così come vengono chiamati nel contesto americano e anglosassone, sono affetti da malattie croniche o acute, problemi mentali, disabilità fisiche o intellettive (Meyer e Vadasy, 2008). Esempi di condizioni patologiche sono il diabete, la spina bifida, il cancro, così come condizioni mentali come depressione o problemi comportamentali, disturbi del neurosviluppo, come sindromi genetiche, ritardo mentale e disturbi dello spettro autistico. Qualunque sia il bisogno speciale, avere un bambino con una qualsiasi di queste condizioni quasi sempre cambia le dinamiche nella famiglia.

Per diversi decenni lo studio degli effetti all’interno delle famiglie della presenza di bambini con queste difficoltà si è concentrato sui genitori, in particolare sulla madre, principale caregiver del bambino con bisogni speciali. Dagli anni Ottanta tuttavia la ricerca scientifica ha concentrato l’attenzione anche sui fratelli e le sorelle, esplorando le conseguenze della presenza del bambino fragile sullo sviluppo del fratello con sviluppo tipico (Seligman, 1983, Rodger, 1985).

Questo filone di ricerca si è dedicato quindi allo studio dei “siblings”, termine che nel mondo anglosassone indica semplicemente un legame di fraternità, mentre nel panorama italiano, fa riferimento nello specifico a fratelli e sorelle di bambini con disabilità.

Le prime ricerche avviate in questo campo hanno utilizzato un approccio quantitativo, avvalendosi di strumenti standardizzati per individuare dimensioni che rappresentano l’esperienza dell’essere sibling. Tali studi sono nati per colmare le lacune conoscitive in un campo inesplorato, con il presupposto che ci siano caratteristiche comuni e generalizzabili. Queste ricerche hanno portato tuttavia a risultati contraddittori e inconcludenti rispetto agli effetti dell’essere un sibling.

Si è dunque ipotizzato che i siblings “medi” siano solo una creazione statistica, poiché le esperienze di ogni fratello sono uniche e differenti in base a diverse variabili. L’impatto dell’avere un fratello con fragilità dipende infatti da aspetti legati alla condizione patologica, come la presenza di un handicap congenito o acquisito, cronico o transitorio, psichico o fisico, lieve o grave. Importanti si sono rivelati anche il genere del sibling, l’ ordine di genitura e il contesto socioeconomico della famiglia, dipingendo quindi un quadro di estrema complessità. Da queste considerazioni è stato possibile il passaggio a un approccio più qualitativo, basato più sull’esplorazione che sull’indagine, aperto a nuove scoperte piuttosto che a conferme di ipotesi fatte a priori. Sono dunque cambiati gli strumenti, con colloqui ed interviste libere effettuate in setting domestici, utilizzando una visione più sistemica e meno individuale. La raccolta delle esperienze individuali dei sibling ha così cambiato il costrutto indagato, concentrandosi più sulla dimensione di fraternità che di patologia; molti dei racconti erano infatti contraddistinti da questa considerazione: “Io non vedo mio fratello come disabile, ma semplicemente come mio fratello”.

 

Come si modifica nel tempo la relazione fraterna tra il sibling e il fratello con bisogni speciali

La relazione fraterna, come ogni altro legame, subisce cambiamenti nell’arco della vita di una persona e così accade anche al rapporto tra il sibling e il fratello/sorella con bisogni speciali. Nella prima infanzia e nell’età scolare i bambini sono naturalmente portati a offrire aiuto e protezione ai loro fratelli vulnerabili, sebbene l’accudimento sia effettuato per lo più dai genitori (Seligman, 2007; Gardou, 2012); in questa fascia d’età spesso non si rendono conto delle difficoltà del fratello, oppure ne hanno solo una comprensione limitata.

A un certo punto della vita del sibling, soprattutto nel caso in cui il fratello con bisogni speciali sia affetto da disabilità intellettiva, l’ordine di nascita sembra perdere la sua importanza e la categoria maggiore/minore è sostituita da capace/non capace; è l’inizio del processo del role cross- over, ossia lo scambio di ruoli che avviene tra fratelli quando il minore con sviluppo tipico uguaglia e sorpassa le competenze cognitive del fratello con bisogni speciali. E’ questo il momento della consapevolezza delle difficoltà del fratello /sorella con bisogni speciali e di solito avviene tra i 6 e 10 anni, anche a seguito del confronto con amici e compagni di scuola.

Nell’adolescenza diventa invece maggiore il bisogno di conoscere il significato e le implicazioni per la propria vita della diagnosi del fratello; il legame fraterno si affievolisce e se lo sviluppo è sano, i siblings si sottraggono dagli impegni familiari di accudimento, per il processo naturale di emancipazione dalla famiglia e aggregazione con i pari. Tuttavia se i coetanei scherniscono il ragazzo oppure non mostrano di comprendere le sue difficoltà, il sibling può sperimentare un sentimento di isolamento ed estraneità dal gruppo dei pari; in questa situazione avere altri fratelli con cui parlare delle proprie emozioni è protettivo (Coppola, 2007). Alcuni adolescenti arrivano persino a nascondere agli amici l’esistenza del proprio fratello con bisogni speciali, come accade nella storia “Mio fratello rincorre i dinosauri” (Mazzaiarol, 2016). Altri invece, che hanno trovato un tessuto sociale positivo possono invece affrontare le difficoltà del fratello con serenità e ottimismo.

 

I vissuti emotivi dei siblings

Sebbene, come detto in precedenza, non si possa generalizzare, in quanto l’esperienza di ogni fratello è unica, sulla base delle esperienze individuali dei siblings si sono individuati alcuni vissuti che possono essere provati nel corso dell’esistenza nei confronti del fratello con bisogni speciali:
– La paura dovuta all’identificazione con il fratello e al timore di condividere con lui nel futuro la stessa disabilità, che di solito diminuisce quando ricevono informazioni chiare sulla fragilità dell’altro;
– La sensazione di perdita nei confronti delle attenzioni dei genitori;
– La solitudine e l’esclusione, sia come effetto dell’isolamento della famiglia o dalla comunità, sia come conseguenza del senso di esclusione dal gruppo dei pari, con cui non possono condividere le preoccupazioni legate al fratello con disabilità;
– La vergogna, in quanto ritengono che la propria famiglia sia marchiata per sempre;
– L’imbarazzo, in quanto i comportamenti inadeguati attirano lo sguardo delle altre persone oppure devono rispondere a domande di amici e conoscenti che possono mettere in difficoltà;
– Sensazione di essere invisibili o non visti, perché danno poco “fastidio” rispetto al fratello con disabilità;
– Il senso di colpa, in quanto soprattutto da piccoli, pensano che la disabilità sia una punizione o conseguenza di qualcosa che hanno fatto o detto. Questa emozione può anche ritrovarsi sottoforma di sindrome del sopravvissuto (perché io si e lui no) o dal conflitto tra il sentimento di vergogna e l’amore che provano per il proprio congiunto;
– L’eccessiva responsabilizzazione, soprattutto se i siblings sono primogeniti, sono sorelle o fanno parte di una famiglia poco numerosa; questo, unito al senso di colpa, li porta a diventare bambini iperadattati, che sentono di avere il dovere di non dare ulteriori problemi ai genitori, già così preoccupati per la situazione del fratello;
– La rabbia, quando i genitori tendono a difendere o proteggere troppo il fratello con disabilità o dedicargli troppe risorse emotive e finanziarie; spesso questa emozione è seguita dal senso di colpa, perché non ci si sente legittimati a provare queste emozioni verso un bambino con disabilità;
– L’ansia legata all’eccessiva richiesta di prestazione, o come richiesta implicita per compensare il fallimento sperimentato con il figlio con disabilità o perché i siblings spontaneamente sentono di dover essere molto esigenti con loro stessi;
– La preoccupazione per il futuro, il “dopo i genitori”; questi bambini vengono spesso implicitamente caricati dall’aspettativa che dopo la perdita dei genitori loro diventeranno i caregiver dei fratelli, a livello fisico, affettivo, economico.

Tutti questi vissuti, di per sé sani e comprensibili in un qualunque fratello di un bambino con bisogni speciali, se non adeguatamente riconosciuti, compresi, espressi, legittimati, e accolti dai genitori e dalla rete sociale, possono diventare problematici nel tempo.

Le evidenze riguardo il funzionamento psicosociale dei siblings di bambini con disturbi dello sviluppo è variegato (Stoneman, 2005); tuttavia è comunque emerso che almeno alcuni siblings sono a rischio per difficoltà comportamentali (Verte et al., 2003) o problemi internalizzanti ( Gold, 1993) o sociali (Constantino et al., 2006). Dagli studi in letteratura sembrerebbe che soprattutto le sorelle maggiori (Olsen et al., 1999) siano più coinvolte nell’accudimento che i fratelli (Dyson, 2010) e che questa responsabilità sia pressochè permanente (Lobato, 1990). Le sorelle a causa di questo coinvolgimento esprimono maggiormente preoccupazioni sul benessere del fratello/sorella con bisogni speciali (Guse et al., 2010) e alcuni studi hanno ipotizzato che occuparsi del fratello/sorella sia uno stressor significativo (Olsen et., 1999). Questo potrebbe portare a problemi di adattamento e psicosociali sia a breve termine che a lungo termine (Thompson, Curtner et al., 1994) . Va sottolineato però che più numerosa è la fratria, più facile sembra essere il raggiungimento di un buon livello di adattamento, tranne nel caso in cui la famiglia debba affrontare difficoltà economiche. Alcuni studi sembrano sostenere che la condizione di siblings non costituisca di per sé una condizione patologica, ma potrebbe esacerbare problemi emotivi e comportamentali in presenza di altri fattori di rischio demografici o familiari.

Alcuni studi hanno riscontrato per esempio che più alti livelli di stress genitoriale (Giallo et al., 2006) e status socio economico basso (Macks et al., 2007) predicono una maggiore probabilità di problemi di adattamento nei siblings. Un’altra ricerca recente ha trovato inoltre che la depressione materna media l’associazione tra la gravità dei sintomi del fratello con bisogni speciali e i problemi di adattamento del sibling (Meyer et al, 2011).

 

Come vengono gestiti i vissuti emotivi dei siblings dalla famiglia?

Quando si indagano le difficoltà di adattamento di un sibling bisogna sempre considerare l’importanza che assumono le dinamiche messe in atto dai genitori nel gestire il rapporto tra il fratello con sviluppo tipico e il fratello con bisogni speciali. I problemi emotivi e comportamentali di un sibling possono essere spiegati infatti da una mancanza di conoscenza o da una comunicazione inefficiente tra genitori e figlio sui disturbi del bambino disabile, da sentimenti di isolamento fisico o emotivo dai genitori e da limitate abilità genitoriali di offrire supporto sociale ed emotivo al sibling.

Inoltre si è osservato che le strategie di coping da parte del sibling sono collegate con il grado in cui le madri esprimono le emozioni verso di loro, considerano la loro prospettiva e comunicano e riconoscono al sibling l’importanza delle cure e delle attenzioni che ha per il fratello con bisogni speciali, valorizzandolo nella sua esperienza (O’Kane, Grissom & Borkowski, 2002). E’ fondamentale che i siblings si sentano autorizzati dai genitori ad esprimere i dubbi, la sofferenza e le difficoltà che provano nella relazione con il fratello vulnerabile. Spesso infatti i genitori temono che il figlio con disabilità non venga amato dal fratello e valorizzano solo le dinamiche affettuose, condannando quelle rifiutanti o di gelosia. Questo contesto obbliga il sibling ad amare l’altro non per ciò che è, ma in virtù della sua fragilità. Quando i fratelli sono invece lasciati liberi di scegliere i legami che possono e vogliono intrattenere reciprocamente, la fratria può svilupparsi in modo sano, determinando la costruzione della personalità dei soggetti e del loro ruolo nella vita familiare (Farinella, 2015).

 

La resilienza dei siblings

Negli anni Novanta si è giunti quindi alla conclusione che la relazione fraterna con un ragazzo con bisogni speciali non è per sua stessa natura negativa e patogena (Valtolina et al., 2007), in quanto, nonostante ci possano essere difficoltà d’adattamento, quest’ultimo è possibile e può avere anche esito positivo. I membri della fratria non sono necessariamente vittime della patologia che tocca uno di loro (Scelles, 2010; Valtolina, 2007): attraverso l’attivazione di processi di difesa e disimpegno, di identificazione separazione, possono sviluppare determinate competenze di resilienza (Gardou, 2012). Un recente studio di Schuntermann del 2007 ha individuato alcuni fattori che contribuiscono a potenziare la resilienza di un sibling: fattori individuali (la competenza sociale, buone capacità di giudizio ed intelligenza, abilità di autocontrollo), punti di forza familiari (comunicazioni efficaci, legami di vicinanza, regole coerenti) e supporto della comunità (amici, scuola, famiglia estesa).

In presenza di questi fattori si forma un terreno favorevole affinchè l’ esperienza dell’avere un fratello/sorella con bisogni speciali sia utilizzata per sviluppare potenzialità e risorse: tolleranza, compassione, empatia, affidabilità, lealtà, pazienza, orgoglio nei confronti dei successi dei fratelli, maggior sensibilizzazione verso i diritti dei disabili, competenza sociale e altre abilità utili nel corso di tutta la vita del sibling.

L’acquisizione di queste abilità e la maturità dovuta al contatto quotidiano con una realtà complessa rappresentata dai bisogni speciali del fratello porta i siblings ad essere un passo più avanti dei loro coetanei in termini di interessi e di responsabilità. Questo spiccato senso di responsabilità, ma allo stesso tempo anche di sensibilità alla sofferenza dell’altro, permane nell’età adulta, andando a costituire uno dei fulcri dell’immagine di sé; questo aspetto è testimoniato anche dalla nota casistica di siblings che sceglie di dedicarsi alle professioni di aiuto in vari campi, dimostrando una propensione all’utilizzo della relazione come strumento di benessere” (Valtolina, 2004). Il compito sociale, infatti, conferisce un senso di utilità che permette di sentirsi valorizzati e di riscattarsi dal vissuto di impotenza o dal senso di colpa provato in passato.

Si può affermare che nell’esperienza di essere siblings ci siano fattori immodificabili come l’ordine di nascita, il sesso, il temperamento individuale e quello del fratello, il tipo e il grado di disabilità. Non meno importanti però sono anche gli aspetti modificabili tramite interventi psicologici, come le interazioni tra il sibling e i suoi genitori o con suo fratello, il supporto ricevuto dai nonni e altre figure parentali, i legami con i pari e la prospettiva individuale con cui il bambino guarda la sua situazione familiare. Gli studi hanno notato che ci sono diversi modi attraverso cui è possibile favorire l’adattamento dei fratelli di bambini con bisogni speciali (Naylor et al., 2004, Sloper, 2000). Nello studio di Sloper è stato chiesto ai siblings di pazienti con cancro quali risorse e strategie sono state utili per il loro adattamento. Sono state riportate dai siblings tre aree: relazioni, informazione e avere proprie attività ed interessi. Otto siblings su dieci hanno riferito che le relazioni li hanno aiutati a parlare della loro situazione, a dar loro sostegno e supporto, oltre che dar loro un focus fuori dalla malattia del fratello. Avere informazioni sulla diagnosi, sull’eziopatogenesi e sul decorso della malattia è stato utile per dare un senso alla situazione, comprendendo meglio perché le loro vite sono così diverse da quelle degli altri, e li ha fatti sentire parte della famiglia. Inoltre avere propri interessi e attività è stato utile per permetter loro di distrarsi dalle preoccupazioni, aiutarli a mantenere una normalità nelle loro vite e dar loro un ruolo al di là di quello familiare.

 

Gli interventi per i siblings

Alla luce di queste considerazioni sono nati negli ultimi decenni nel mondo anglosassone alcuni interventi specifici incentrati sulle strategie di aiuto riportate dai siblings. Il programma più diffuso nel mondo, conosciuto in molti paesi, è quello dei Sibshops (Meyer, Vadasy, 1994), ossia dei workshops per i siblings, cioè incontri per fratelli e sorelle di bambini con bisogni speciali che hanno il fine di ottenere supporto e favorire la socializzazione in un contesto ricreativo (Meyer e Vadasy, 2008).

Sarebbe interessante nelle prospettive future esplorare l’impatto di avere un fratello neurotipico per un bambino con bisogni speciali e comprendere come quest’ultimo si adatti alla vita del fratello con sviluppo tipico, se ne sia geloso, oppure se sia aggressivo nei suoi confronti, in quanto la relazione fraterna è per sua definizione bidirezionale. Inoltre avere un fratello con sviluppo tipico permette al bambino con bisogni speciali di allenare le sue abilità sociali in un laboratorio protetto e familiare. In particolare questa considerazione è molto importante per i bambini con disturbi dello spettro autistico. Uno studio ha rilevato che le interazioni di gioco con i siblings sono migliori per quantità e qualità rispetto a quelle con i pari (Knott, Lewis, & Williams, 1995). I siblings sono infatti maggiormente familiari e condividono background ed esperienze con il fratello con bisogni speciali; il gioco con i pari è per lo più ugualitario, quello con i siblings è asimmetrico e permette al bambino con autismo di ingaggiarsi nel gioco senza essere responsabile dell’iniziativa nell’interazione. I siblings inoltre sono più motivati a giocare con il fratello rispetto ai pari, incoraggiati ed educati anche dai genitori.

Il lavoro psicologico con i siblings è un ambito di ricerca in costante espansione, con progetti attivi in diverse regioni di Italia. Tali realtà hanno riconosciuto l’importanza del coinvolgimento di questi fratelli e sorelle in programmi specializzati che favoriscano l’adattamento a un evento stressante che perdura nel tempo, come quello di avere un fratello con bisogni speciali. Possiamo ipotizzare che vissuti così complessi come quelli che si ritrova ad affrontare un sibling, se non hanno trovato uno spazio di ascolto e di elaborazione in precedenza, possano determinare in età adulta problematiche sia sul versante individuale sia interpersonale. E’ da sottolineare quindi che gli interventi psicologici rivolti ai siblings agiscono sia in un’ottica di promozione del benessere infantile sia di prevenzione di possibili problematiche psicopatologiche in età adulta. Perché come sosteneva lo scrittore Frederick Douglass, “è’ più facile creare bambini forti che riparare uomini rotti”.

Piromania: quale spiegazione si nasconde dietro la provocazione intenzionale di un incendio?

Spesso un incendio può venir provocato in maniera del tutto intenzionale, colui che appicca il fuoco in modo doloso viene da sempre definito un piromane: piromania è un termine che viene dal greco e sta ad indicare un’ossessione verso il fuoco, le fiamme e i loro effetti.

 

Si sente una sirena; una camionetta dei vigili del fuoco corre. Corre verso un bosco o un vigneto dove si stanno propagando le fiamme di un incendio.

Uno scenario comune quello di un incendio, il quale potrebbe verificarsi per svariate ragioni: ad esempio potrebbe aver luogo per cause naturali, come ad esempio un fulmine; altre volte un incendio si verifica accidentalmente, per via di un incidente.

Non bisogna però dimenticare che spesso un incendio viene provocato in maniera del tutto intenzionale. E colui che appicca il fuoco in modo doloso viene da sempre definito un piromane.

Piromania è un termine che viene dal greco (fuoco – mania), e sta ad indicare un’ossessione verso il fuoco, le fiamme e  i loro effetti.

Il DSM V annovera la piromania tra i disturbi del controllo degli impulsi e della condotta, e sembrerebbe che alla base vi sia un’intensa ossessione per il fuoco, le fiamme e i loro effetti.

Pare che chi soffre di piromania senta il ricorrente bisogno di appiccare un incendio in quanto l’atto stesso induce in lui euforia, piacere, sollievo.

Il DSM si limita a questo, sostenendo che dietro il comportamento antisociale non vi sia altro che attrazione, ossessione ed eccitazione provocate dalle fiamme di un incendio.

 

Uno sguardo più approfondito alla piromania

Però i frequenti incendi provocati in maniera dolosa che si sono osservati negli ultimi anni hanno indotto ricercatori ed autorità ad indagare meglio il fenomeno della piromania.

Finora gli studi più approfonditi e completi nel campo del crimine collegato al fuoco sono stati svolti negli Stati Uniti, dalle unità dell’FBI appositamente allestite per investigare su questi crimini. Essi hanno definito “incendiario” chiunque appicca un fuoco intenzionalmente.

Sono stati delineati una serie di possibili profili psicologici – comportamentali nascosti dietro la piromania e la provocazione intenzionale di incendi (Cannavicci, 2005):

  • Incendiario per vandalismo. Si tratta di soggetti che (solitamente in gruppo) appiccano incendi per noia o per divertimento.
  • Incendiario per profitto. Agisce con l’intenzione di ricavarne un guadagno personale. Ad esempio potrebbe provocare l’incendio al fine di rendere inutilizzabile un terreno utilizzato per coltivarci, affinché venga poi venduto per esser poi utilizzato in altri modi.
  • Incendiario per vendetta. Mira alla distruzione di beni altrui come risarcimento personale.
  • Incendiario per terrorismo politico. Agisce con lo scopo di esercitare una pressione sull’autorità pubblica. Il tentativo è quello di realizzare un grave danno per lo Stato al fine di condizionarne le decisioni.
  • Incendiario per altro crimine. In questo caso il fuoco viene utilizzato per cancellare le prove lasciate per un crimine differente, e quindi sviare le indagini.

Tutti le ricerche sulla piromania, effettuate sia in ambito psicopatologico che in ambito criminologico, concordano nell’asserire che alla base di questa condotta via sia un’attrazione forte per il fuoco (Bisi, 2008).

Si pensa che sia il piromane a far nascere l’incendio, ma non è esattamente così. È l’incendio a creare il piromane, questo a causa delle forti e piacevoli emozioni che la vista del fuoco che brucia è in grado di suscitare nel soggetto.

Si tratta di emozioni intense e piacevoli, le quali appagano e il soggetto desidera viverle; di conseguenza passa in secondo piano la gravità del reato commesso.

È proprio questa eccitazione e gratificazione emotiva, difficilmente controllabile, a rendere la piromania una categoria psichiatrica, quasi una sorta di “dipendenza” dal  fuoco.

È da tener presente che, come evidenziato da Ermentini in un suo lavoro, la smisurata attrazione per il fuoco e tutto ciò ad esso collegato non si esprime solo nell’accendere il fuoco, ma è seguita dall’appagamento di assistere a tutte le fasi successive allo spegnimento dell’incendio, compreso ascoltare a posteriori i notiziari che narrano dell’evento e delle sue conseguenze (Ermentini, Gulotta, 1971).

Non sono indifferenti le conseguenze che un incendio porta con sé: distruzione, annientamento, paura, morte. Tutti effetti che il piromane non considera adeguatamente, vedendo nell’incendio solo conseguenze a lui positive: eccitazione, euforia, appagamento dato dal fascino per il fuoco e per le fiamme, con conseguenti emozioni piacevoli. Senza dimenticare che l’aver provocato in prima persona l’incendio, ed essendo quindi stato l’artefice del tutto, gratifica ancor di più il piromane, il quale si sente protagonista attivo dello “spettacolo”.

A quanto pare gli studi mettono in luce che dietro la condotta della piromania vi è un movente, che sia profitto, vendetta, vandalismo, eccitazione o mancato controllo degli impulsi.

Provocare un incendio intenzionalmente è un reato, ma bisogna tener presente che dietro questa condotta potrebbe esservi un problema psicologico – comportamentale.

Sia le autorità giudiziali che la figure psicologiche o psichiatriche hanno finora cercato di delineare le condotte, gli stimoli, i modus operandi dei soggetti coinvolti in questo crimine. Tutto ciò al fine di anticipare le azioni di piromania e fermarle, intervenendo efficacemente e tentando così di porre i giusti rimedi a tutti gli scenari catastrofici generati da un incendio.

Rinfacciarsi tutto, come vecchi amanti: baruffe tra giornalisti

Nelle relazioni speculari e rancorose, segnate dall’eterno rinfacciarsi delle scambievoli mancanze e goffaggini, ci si specchia nell’altro e proprio per questo non ci si capisce, pur parlandosi molto. Come tra vecchi amanti che si sono troppe volte delusi a vicenda, a volte ci si comincia a capirsi tacendo.

 

Una baruffa di questi giorni tra giornalisti

Breve cronaca di psicologia delle relazioni umane: una baruffa tra giornalisti che forse potrebbe interessare tutti noi. Vediamo i fatti. Domenica 14 maggio in uno dei suoi lunghi articoli su Repubblica Eugenio Scalfari lascia cadere un breve commento sprezzante verso altri giornali di opposto orientamento politico e ideale, tacciandoli di scarso spessore culturale.

Risponde due giorni dopo il direttore di uno dei quotidiani sprezzati da Scalfari, Claudio Cerasa del Foglio. La risposta è lunga e articolata ma apparentemente poco centrata sul contenuto sdegnoso del commento di Scalfari. Cerasa non perde tempo nel rivendicare a sè e al suo giornale spessore culturale. Semmai rinfaccia qualcosa d’altro a Scalfari, qualcosa che somiglia a un: “certo che anche voi quanto a profondità culturale lasciate a desiderare”. E cosa rinfaccia Cerasa a Scalfari? Di avere nutrito un certo tipo di populismo che oggi ci tormenta, la sfiducia crescente verso la classe politica ritenuta incurabilmente corrotta e inetta, in nome di una moralità rigida che rischia sempre più di sfociare in un facile moralismo e qualunquismo che deresponsabilizza i cittadini, rendendoli proni a derive autoritarie.

Sarà vero? Sarà falso? Non importa, seguiamo invece i rimpalli, che possono essere rivelatori. Come nel coro del Conte di Carmagnola, dopo che si è sentito a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo emesso da Michele Serra il 18 maggio, adagiato nella sua amaca. Adagiato ma nervoso, Serra rinfaccia a sua volta a Cerasa, o meglio a Giuliano Ferrara, una sorta di immoralismo compiaciuto, un cattivismo altrettanto poseur e fastidioso del buonismo attribuito alla sinistra.

Chiude infine per ora la diatriba Luca Sofri che nota malinconicamente come sia difficile trovare un luogo di incontro tra queste diverse anime politiche, tutte chiuse in un reciproco rinfacciarsi su chi ha cominciato per primo a provocare l’altro.

Il meccanismo è psicologicamente abbastanza tipico e ricorrente, e va incontro a vari nomi nelle varie branche della psicologia. Gli psicoanalisti parlerebbero di transfert e identificazione proiettiva, i cognitivisti di cicli interpersonali e i sistemici di doppio legame. Parole che tutte esprimono questo reciproco legarsi degli individui in ruoli irrigiditi che si incancreniscono proprio quando entrano in vicendevole contatto.

È una melanconica osservazione che non sempre il dialogo crei comprensione, anzi. E nemmeno la ricerca di ciò che si ha in comune. Anzi, a volte sono le somiglianze che creano incomprensioni e dissapori. A ben vedere, Repubblica e il Foglio, buonismo e cattivismo, Scalfari e Cerasa e soprattutto Serra e Ferrara sono separati più dalle radici comuni che dalle differenze. Sbaglierebbe in parte chi porrebbe Il Foglio e Ferrara a destra.

Non si tratta solo delle origini comuniste di Ferrara, è proprio il profumo che si sente a volte nel Foglio. Quella molto leninista e togliattiana e perfino un po’ gramsciana familiarità con il potere. Quell’idealismo estremo che si converte nel disperato machiavellismo così tipico dei comunisti disillusi, rivoluzionari di professione troppo induriti dalle rudezze della conquista del potere. Quella convergenza così russa e dostoevskiana tra il santo e il criminale che Ferrara avrà assorbito nella sua infanzia sovietica.

Però poi ci sono le differenze. Michele Serra è di una generazione successiva rispetto a Ferrara. La generazione di Berlinguer, per troppo tempo reclusa all’opposizione, mai davvero arrivata ad alcun potere a differenza dei togliattiani. E quindi mai capace di superare la propria linea d’ombra, sempre rinchiusa in un moralismo puro quanto purtroppo sterile. Non ha del tutto torto il Direttore del Foglio quando nota come un moralismo così puro possa generare un qualunquismo già pentastellato. In fondo Grillo faceva parte dell’ambiente satirico cresciuto intorno a Serra.

Nelle relazioni speculari e rancorose, segnate dall’eterno rinfacciarsi delle scambievoli mancanze e goffaggini, ci si specchia nell’altro e proprio per questo non ci si capisce, pur parlandosi molto. Come tra vecchi amanti che si sono troppe volte delusi a vicenda, a volte ci si comincia a capirsi tacendo.

Hikikomori e disturbo narcisistico di personalità: un caso trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale

Michela ha 20 anni ed è in reclusione volontaria da 3. A sedici anni abbandona la scuola e decide di rinchiudersi nella sua stanza, dedicandosi interamente a giochi online, chat e visione di cartoni animati in completa inversione del ritmo sonno veglia. La madre nel corso degli anni ha tentato invano svariati approcci per contrastare la reclusione della figlia.

Sonia Agata Sofia, Giancarlo Dimaggio

 

Il termine Hikikomori è stato formulato dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, per riferirsi al fenomeno di persone che hanno scelto una condizione di autoreclusione permanente al fine di ritirarsi dalla vita sociale.

Il ministero giapponese della salute definisce Hikikomori gli individui che rifiutano di uscire dalla casa dei genitori, isolandosi nella propria stanza per periodi superiori ai 6 mesi, con la possibilità che la permanenza in autoreclusione si prolunghi per anni, in una condizione di stabile dipendenza economica dalla famiglia. Essi sono soliti pranzare e cenare nella propria stanza con un vassoio passato dal genitore attraverso la porta socchiusa e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, restano poco frequentati. Si interrompe ogni rapporto con il mondo della scuola o del lavoro.

Gli unici contatti con “il di fuori”, se avvengono, sono via internet, nei blog, nelle chat.

Gli Hikikomori sono, di solito, giovani maschi, ma la presenza femminile pare in aumento. Tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line.

Da un punto di vista sociologico, si sono indagati i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo ed un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali basate sull’estremo perfezionismo. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza di disturbi psicopatologici associati come il Disturbo Depressivo Maggiore ed alcuni disturbi di personalità come profili schizotipico, evitante e narcisistico (il cosiddetto Narcisismo del Sol Levante).

Si punta, come fa Ogino Tatsushi, a sottolineare forti complessi d’inferiorità, i sofferenti non possono stabilire relazioni, non possono avere esperienze socializzanti, in quanto avvertono la gente attorno come nemica e hanno la certezza che nessuno li possa capire.

Hikikomori è una svolta inaspettata in un sentiero diventato insidioso ma qui non si cerca la morte bensì un luogo di difesa dove tenere nascosto il proprio sé stanco ed inadeguato […].

Ciò che si portano addosso questi giovani Hikikomori è paura, rabbia e vergogna. Attraverso un apparente rifiuto della vita essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori. Per il giovane la stanza è il suo mondo e non vuole che nessuno lo invada, è l’unico riparo e intende difenderlo a tutti i costi.

Ci sono alcuni stati d’animo e atteggiamenti che il giovane Hikikomori percepisce nei confronti della propria vita, che durante l’assessment emergono in maniera prorompente: ansia, rabbia e senso di colpa.

Molti adolescenti si trovano a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione. La tendenza all’autoreclusione dei giovani maschi sta varcando i limiti geografici che l’hanno fino ad ora contenuta. Si diffonde in Corea e Cina ed è arrivata negli Stati Uniti [Block, 2008].

Anche in Italia, si riferiscono casi che per molti aspetti rispondono alle caratteristiche richieste: ritiro sociale da almeno 6 mesi, fobia scolare precedente, talvolta internet addiction con inversione del ritmo circadiano.

Un elemento accomuna la cultura giapponese a quella de giovani occidentali contemporanei: il sentimento profondo e straziante della vergogna narcisistica [Pietropoli Charmet, 2003].

Non sembra proprio che l’esistenza di internet e lo sviluppo tecnologico siano la causa di questa sindrome, sembra piuttosto che questi costituiscano un ritrovato tecnologico perfettamente funzionale rispetto all’esperienza della segregazione.

Da questo punto di vista l’accesso alla rete sembra funzionare almeno in 3 modi: da un lato consente la messa in atto di pratiche ludiche che hanno lo scopo di permettere una occupazione del tempo senza che il senso di vuoto sia troppo incombente. Da un altro lato, internet consente l’assunzione di personalità fasulle senza che esse corrano il rischio di essere sottoposte a svergognamento da parte di nessuno.

Infine, in terzo luogo la rete consente di conservare una parvenza di parola là dove essa rischia di essere esclusa e perciò di mantenere l’esperienza Hikikomori ancora all’interno di una dimensione immaginaria narcisistica. La rete non è perciò né il sintomo né la malattia, piuttosto è la membrana immaginaria nella quale il soggetto si colloca in bilico tra un sé non accettato e la sua perdita.

Accettando il concetto di timidezza, potremmo dedurne che coloro che sono particolarmente timidi ed introversi sono più esposti al rischio di Hikikomori, manca però una chiave di accesso che sembra rappresentata da una sorta di narcisismo che porta gli uomini a sentirsi feriti nell’orgoglio anche rispetto a situazioni che in uno stato emotivo normale risulterebbero sopportabili; la timidezza si amplifica in vergogna da cui prende corpo la paura verso gli altri (Saito Satoru, 2001).

C’è chi si fissa di avere un brutto volto e vuole ricorrere alla chirurgia plastica obbligando i genitori ad occuparsi di tutto, l’esito non è mai quello sperato e la clausura continua, alimentata da un ulteriore senso di fallimento.

Comune a tutti è l’inversione del ritmo giorno-notte, lo fanno l’81% di cui il 61% fa ricorso anche ai sonniferi. Questo fatto implica diversi elementi sia di carattere biologico che psicologico: l’aspetto biologico deriva dal fatto che l’equilibrio interno dell’organismo è sostenuto anche dalla luce solare ed una vita in condizione di Hikikomori ne riduce notevolmente l’esposizione determinando uno squilibrio che, anche se non crea un vero deficit, non è immune da effetti collaterali.

Circa il 46% dei casi presenta un desiderio di morte e pianifica il suicidio; in realtà anche se esiste il progetto, il suicidio non viene quasi mai realizzato: il ragazzo in Hikikomori vuole vivere.

Dimaggio (2016) nel suo ultimo volume “L’illusione del narcisista” associa la condizione di ritiro sociale al disturbo narcisistico di personalità:

Nelle mie memorie si affacciano piloti, manager, architetti, una sfilza di studenti universitari e una sequenza marciante di ragazzi pieni di fantasie che realizzavano solo dietro l’anonimato di un fake su Facebook, o che conquistano il titolo di campioni di World of Warcraft, ma incapaci di parlare seduti al tavolo di una pizzeria in mezzo ad un gruppo che ride.

Dimaggio offre una nota di speranza: la terapia è possibile.

Siamo convinti che il segreto per la cura dei narcisisti sia quello di ridargli il diritto di vivere. La strada della terapia è la ricerca del contatto con la propria natura, lo scavo per trovare le proprie inclinazioni, preferenze e passioni. Si può dire che sia una rieducazione alla ricerca di sé.

Il modello è la Terapia Metacognitiva Interpersonale, caratterizzata da procedure passo- dopo- passo manualizzate e strutturate in due macrofasi, definite da marcatori chiari di avanzamento.

Il primo passo consiste nell’elicitare ricordi autobiografici dettagliati promuovendo la capacità del paziente di riconoscere i propri stati mentali sottostanti gli episodi narrativi. Lo scopo è di ricostruire il mondo interiore del paziente proprio a partire dagli episodi raccontati. E’ possibile lavorare con gli stimoli emotivi ed i sentimenti che i pazienti provano già nelle relazioni online.

E’ necessario raccogliere una serie di ricordi autobiografici associati per poter riconoscere l’esistenza di schemi rigidi per le relazioni interpersonali.

A questo punto è possibile promuovere progressivamente una consapevolezza condivisa dei modelli di interpretazione delle relazioni interpersonali. E’ chiaro che il lavoro di promozione delle abilità metacognitive superiori quali comprendere il punto di vista dell’altro (che può essere visto come ostile e dannoso), va realizzata solo dopo che il paziente è giunto a comprendere di essere guidato da schemi rigidi.

Hikikomori e disturbo narcisistico di personalita un caso clinico trattato con la TMILa seconda parte, denominata promozione del cambiamento comprende l’accesso alle parti sane di sé e promuove nuovi comportamenti sperimentali ed esplorativi che siano in sintonia con i desideri più intimi dei pazienti. In questa fase i pazienti sono aiutati a prendere distanza critica dai loro schemi, a costruire un repertorio più ampio di rappresentazioni di sé con gli altri ed acquisire proprietà di problem solving più sofisticate. E’ in fase avanzata che il paziente può infine riconoscere la propria responsabilità nelle interazioni problematiche ed il proprio coinvolgimento nei cicli interpersonali.

Durante tutto il corso della terapia, il terapeuta adotta un atteggiamento di costante validazione, regola la relazione terapeutica allo scopo di prevenire o riparare le rotture e la usa come luogo dove sperimentare nuove modalità di relazione.

 

Michela: un caso complesso

Michela ha 20 anni ed è in reclusione volontaria da 3. A sedici anni abbandona la scuola e decide di rinchiudersi nella sua stanza, dedicandosi interamente a giochi online, chat e visione di cartoni animati in completa inversione del ritmo sonno veglia. La madre nel corso degli anni ha tentato invano svariati approcci per contrastare la reclusione della figlia.

La sua è una famiglia del Sud con problemi economici ed in passato anche con la giustizia. Il padre, tirannico e violento, è una “presenza-assente” incapace di comunicare.

Al primo appuntamento Michela non è puntuale. Ricevo una telefonata della madre in forte agitazione. Si scusa perché la figlia ha deciso di saltare la seduta. Le chiedo di parlare telefonicamente con Michela. La ragazza mi spiega che vorrebbe venire ma che si è accorta solo adesso che i suoi trucchi, che non usava da tempo, sono inutilizzabili e che impiegherebbe troppo tempo per acquistarne altri e truccarsi. Le spiego che sono disposta ad aspettarla e che anch’io sono struccata. Lei mi risponde: –Allora arrivo subito. Il tempo della strada!

All’arrivo è tesa e tremante: le sue parole sono forti e decise ma il tono di voce rivela agitazione. Usa la borsa quasi fosse uno scudo per il suo corpo, frapponendola tra lei e me e allontana il suo sguardo dal mio. Si scusa per il ritardo dicendomi che lo è sempre precisandomi anzi che è la norma per lei. Quasi si autocompiace raccontandomi che la gente non la sopporta e si annoia ad aspettarla.

–  Insomma, sono grassa, senza titolo di studio, senza amici, senza ricordi, perché dovrebbero amarmi?

La guardo, Michela non è grassa come dice di essere, e sarebbe pure carina se si prendesse cura di lei.

So di avere davanti un caso complesso: da tre anni Michela ha interrotto ogni rapporto con il mondo della scuola e del lavoro, vive praticamente reclusa nella sua stanza, dormendo di giorno anziché la notte, e gli unici contatti con “il di fuori” li coltiva via internet, nei blog, nelle chat.

– Internet, ti dà un legame senza tristezza e profondità – mi spiega- posso scegliermi le compagnie ed i contatti, posso scegliermi anche l’identità.

Internet mi dà motivazioni, scopi. So che devo arrivare al livello successivo del gioco: questo mi dà lo stimolo per alzarmi dal letto. La mia vita è lì, ferma, immobile a guardarmi, e invece il videogioco è un mare che mi trascina e io non mi fermo. Mi dà impatto, senza prendere i rischi della vita, senza quella paura legata al corpo. La paura di una vita di insuccessi.

Le chiedo in che modo posso aiutarla. Lei mi risponde che è cosciente di avere dei problemi ma che le persone non possono aiutarla. – Nessuno deve toccarmi il computer e poi quando ti chiedo di allontanare lo sguardo per me è importante che mi ascolti. Non sono più abituata a due occhi che mi guardano.-  dice sfidandomi.

Vengo da te perché ho problemi con la rabbia. Divento una cattiva persona. Perdo il controllo.

Le chiedo di narrarmi degli episodi in cui si presenta la rabbia all’interno delle sue relazioni virtuali e lei ne sciorina una lunga serie durante i quali si è lasciata andare a insultare i compagni di gioco, se non seguono le regole da lei dettate.

Sono una brutta persona– conclude con amarezza- ieri l’ho fatto anche con Aldo, il mio fedele compagno di giochi. È il mio socio su League of Legends, lui mi ha detto che doveva occuparsi di sua madre perché stava male e io l’ho accusato di essere un coglione.  Esco dalla stanza solo la notte per mangiare un budino e mi tengo attiva con la coca cola. Per dormire uso lo Xanax di mia madre. Capita che quando sei troppo eccitata non ti addormenti più. Io sono al Diamond e devo raggiungere il Master che è semplicemente la sala d’attesa del Challenger, praticamente sei già un campione. Ho bisogno di raggiungere quel livello, sarà una rivincita verso tutti, verso mio padre, la scuola, le mie cugine… nessuno mi guarderà più come una comparsa, un fantoccio, un fantasma. Perché è questo quello che sono adesso. A casa hanno finalmente capito che non devono cercarmi, prima mi stressavano perché pranzassi con loro ma io non vado e non li faccio neanche più entrare nella mia stanza. Permetto un unico accesso, quello della mia sorellina di 6 anni, la riconosco dal suo bussare gentile. Apro un spiraglio e mostro la mia testa, senza parlare. Lei non mi chiede nulla e non mi giudica. Solo mi accarezza i capelli. Vedi questo è l’amore Assoluto.

Il primo mese della terapia cerco di iniziare un “Hikikomori time a due”, entrando nel mondo di Michela. Mi sorprendono le sue capacità relazionali online, il numero di contatti e la sua abilità nel dare consigli. Michela scrive in tutte le lingue, anche in giapponese, lo ha appreso studiando da Internet. Ha contatti in tutti i paesi del mondo e ottime capacità di gestione dei gruppi. In effetti, è lei che tiene la squadra di uomini di League of Legends.

In seduta porterà Manga e Anime su mia richiesta (le spiego che da tempo leggo solo Dylan Dog e sono curiosa delle sue letture e dei suoi cartoni) e porta anche i suoi ritratti e fumetti rivelando spiccate qualità artistiche.

Quando mio padre mi vedeva i fumetti manga diceva a mia madre che era il caso di cominciare a sbrigare tutta la documentazione per farmi dichiarare scema e prendersi la pensione, così con me poteva almeno guadagnare in soldi, dato che non servo a niente. Invece tu sei interessata a miei stessi fumetti e non mi dici che sono pazza. Addirittura mi stimi per le mie capacità su Internet. Io comincio a sentire una sensazione positiva nel corpo e non voglio che se ne vada. A volte vorrei che questa seduta non finisse mai, penso che vorrei tornare a casa a piedi per prolungare questa sensazione positiva, invece con la macchina arrivo subito a casa e tutto è di nuovo come prima. Ma io non vedo l’ora di tornare qui.- dichiara al termine del primo mese di terapia.

A questo punto la relazione terapeutica è salda, ed è possibile stabilire l’alleanza di lavoro.

Durante le sedute con Michela il tema dell’essere scartata e umiliata ritorna sempre. Lo stesso accade nelle sue relazioni online. Gliene chiedo il motivo e lei mi risponde che risale all’infanzia, a quando per essere accettata alle feste, occorreva l’intervento della madre. Questo, mi spiega, non può avvenire nel Team Speak (una chat che permette ai videogiocatori online di comunicare tra loro durante il gioco). Lì ha il controllo.

Mi confessa pure di non avere il ciclo da 3 anni.

Mi sto trasformando anche fisicamente – dice – ho un nickname maschile e gestisco squadre di uomini, ma io non sono un uomo e a me piacciono gli uomini. Mi chiedo se sarò mai presentabile, adesso faccio proprio schifo!

Il desiderio di riprendere possesso delle sua vita e dei suoi sogni è frenato dalla paura dello sguardo giudicante del mondo esterno. Le spiego che lo stile di vita alterato dal ritmo sonno/veglia, i digiuni e le notti insonni davanti ad uno schermo comportano ripercussioni fisiche ed ormonali oltre che psicologiche.

Le chiedo di capire insieme cosa possiamo fare per “smettere di fare schifo.”

Michela inizia a condividere alcuni pasti con i familiari, si mostra ai parenti e va al cinema per la prima volta dopo tre anni. L’aspetto fisico la ossessiona, vorrebbe sottoporsi alla chirurgia bariatrica per ridurre il peso.

Comincia ad esserci qualche progresso, mi confessa che le piacerebbe andare alla mostra dei fumetti a Lucca ad ottobre, conoscere gli amici del web: “Ma io ho sempre avuto delle regole online ed ho sempre fatto di tutto per rispettarle. Non posso permettermi d’innamorarmi né di mischiare la vita reale con quella virtuale. Io sono solo un fantoccio”.

Le chiedo come pensi di riappropriarsi della sua identità, ma lei non risponde e la settimana dopo, al nostro incontro, è aggressiva. Mi accusa di avere avuto una vita facile, piena di amore, mentre lei si è dovuta confrontare con un padre violento che la riempiva di botte. Per questo si è rifugiata in internet; per riprendersi la spensieratezza ed evitare i pericoli.

Ma adesso tu mi vedi, tu mi credi… non sono più una maschera. Ma è così difficile farlo anche fuori ed io ho tanta paura… ti prego, stammi vicino.

Nel corso delle sedute costruiamo insieme la descrizione degli schemi attraverso altri numerosi episodi autobiografici e pianifichiamo il cambiamento ma la preoccupazione per la sua salute mi induce a indirizzarla dapprima dall’ endocrinologo per i problemi legati al ciclo mestruale. Questo si rivela un episodio che permette a Michela delle riflessioni.

Questo professore mi guardava come se fossi un aliena, mi chiedeva  “Come ti sei ridotta così? Da quanto tempo non esci da casa? La tua psicologa lo sa che sei grave?” … Gli specializzandi guardavano me e mia madre sghignazzando. Volevo scappare, tornare a casa davanti al computer… In macchina mia madre piangeva e io ero arrabbiata con te. Non avresti dovuto espormi così presto.

Durante la seduta mi scuso, lei si calma e inaspettatamente dice che le è stato utile.

Tu hai sbagliato per eccessivo amore, il professore per presunzione. Le persone non sono tutte uguali e dannose. L’endocrinologo può aiutarmi a sbloccarmi, mentre a te posso aprire il mio cuore.

La domenica Michela comincia a partecipare alle scampagnate di famiglia, si sveglia un po’ prima, mostra di trovare i parenti simpatici.

Anche sul web la rabbia è ridotta, riesce a rispettare le persone senza insultarle. Inizia ad apprezzare la luce del giorno, ad essere attiva.

Quegli orari mi stavano uccidendo, – dice- avevo la testa ovattata. Adesso dormo, niente più Xanax, mi addormento con le poesie di Bukowski e la “Desiderata” di Ehrmann.

Un altro tema a lei molto caro è la ricerca di perfezione negli altri.

Io merito di essere amata dalla persona perfetta… Intorno ai 16 anni avevo un fidanzato. Mi aspettavo che mi difendesse da mio padre, che mi consolasse, insomma mi amasse. Ma lui pretendeva troppo da me. Un giorno gli dissi che non ero disposta ad ascoltarlo e lui rispose che mio padre faceva bene a picchiarmi. Ci rimasi malissimo.

Ho capito che i rapporti online sono troppo fugaci, voglio staccare la connessione ADSL anche se sono molto spaventata, soprattutto per League of Legend ma la mia famiglia mi sta accanto, mio padre è contento di questa mia scelta, mi ha fatto i primi complimenti della mia vita!

Michela inizia un lavoro estivo in un panificio, vuole mettere da parte una somma per raggiungere gli amici a Lucca. A settembre inizia la scuola, desidera diplomarsi e iscriversi all’università.

Vorrei aiutare tutti quei ragazzi prigionieri della rete, fargli capire che si stanno distruggendo… Sono numerosissimi e conosco i loro cuori. Vorrei un lavoro che mi permettesse di restituire loro la speranza e la voglia di vivere. Insomma… C’ho la testa piena di sogni.

Il lavoro la soddisfa: il giorno in cui entra una cliente inglese e lei è l’unica a poter comunicare con la donna, riceve i complimenti della titolare.

Non è vero che gli altri ti giudicano e non è detto che se ti giudicano ti condannano per sempre! Stare chiusa in una stanza stava trasformando ogni granello di sabbia in un deserto del Sahara! Ricordi l’immagine che ti mandai allora? Il fuoco era il computer, intorno il BUIO.  Poi ho sentito la tua voce calda  dietro il muro, e ho capito che potevo farcela. E’ difficile, c’ho una paura fottuta, posso anche cadere… ma tu mi chiami e il buio è scomparso. Non è sempre facile, l’altra sera, per esempio ricevo un messaggio su FB, una vecchia conoscenza di League of Legends che mi dice di aver  raggiunto il livello Master. Ecco, ho pensato, un’altra persona mi ha superato mentre io sono rimasta la solita nullità. Per fortuna lo sconforto è durato poco, poi  il piacere d’impastare, sporcarmi le mani, infornare torte e biscotti mi ha invasa insieme al profumo che si diffonde in tutto il negozio. Sono cambiata. Penso che il mio valore personale non dipende più dal livello raggiunto sul gioco, che le persone non mi amano perché sono una campionessa ma semplicemente perché sono Michela, quella senza trucco.

C’è un’altra cosa che vorrei analizzare con te: la velocità.

A volte anche al lavoro vorrei essere la prima, ma sento che mi allontana dai miei desideri. Vorrei innamorarmi, non m’importa più se l’altro non corrisponde o se l’amore finisce. Vorrei poter pensare che non sarà tempo sprecato. Vorrei innamorarmi per poter dedicare all’altro il mio Tempo e la mia Lentezza.

Dopo un anno e mezzo di terapia, Michela si è fidanzata. Frequenta con costanza e successo le lezioni scolastiche e si diplomerà l’anno prossimo. Ora sogna di fare l’architetto e viaggiare. Con entusiasmo mi racconta del suo primo giro in motorino quando per proteggersi dal gelo di un pomeriggio invernale affonda le sue mani infreddolite nelle tasche del giubbotto del suo fidanzato che guida: “… mi accorgo che posso trovare calore nelle tasche di un altro senza avere paura e capisco che è straordinario stare bene ed avere vent’anni!”.

L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e sull’intenzione al bere – Riccione, 2017

L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e

sull’intenzione al bere

Beltrami, D., Ferrari, C., Gemelli, A., Caselli, G. – Studi Cognitivi Modena

 

Recenti studi sulla dipendenza da uso di alcol si sono focalizzati su alcuni costrutti specifici come craving, urge e pensiero desiderante (PD). Il craving è definito come una potente esperienza soggettiva che spinge il soggetto a cercare l’oggetto del proprio desiderio e si differenzia dall’urge, che è l’intenzione di consumare la sostanza; infine, il PD è uno stile di pensiero che riguarda attività, oggetti e stati specifici, orienta l’individuo a prefigurarsi immagini, informazioni o ricordi relativi ad esperienze positive collegate al target in questione, ed è uno dei maggiori elementi di mantenimento del craving.

Due sono gli scopi della ricerca: standardizzare un questionario di valutazione dei segnali corporei o contestuali che spingono l’individuo ad assumere effettivamente la sostanza (Start Signal Questionnaire – SSQ) e capire se la tendenza al PD, in individui con Disturbo da Uso di Alcol (DEPENDENT) e altri che consumano la sostanza ma non soddisfano i requisiti per tal diagnosi (SOCIAL), oltre che mantenere i soggetti in stato di craving, produce questo tipo di segnale e di urge.

I due campioni sono stati sottoposti ad una batteria di test sul consumo di alcol e ad una registrazione audio composta da item neutri (DS) o correlati al consumo d’alcol (PD). A causa della scarsa numerosità del campione non è stato possibile procedere alla standardizzazione dell’SSQ e i dati sono stati analizzati preliminarmente. I risultati indicano che l’induzione al PD non porta ad un aumento del craving né dell’urge. L’induzione DS, invece, è associata ad una diminuzione significativa dell’urge.

 

La depressione che spegne la passione: uso di antidepressivi e disfunzioni sessuali

I sintomi della depressione in molti casi possono ostacolare la relazione di coppia: il paziente tende all’isolamento relazionale e il partner può provare frustrazione; non c’è da stupirsi quindi che la depressione abbia un impatto negativo anche sulla sessualità, fino alla manifestazione, a volte, di disfunzioni sessuali dovute all’assunzione di antidepressivi.

Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

In Italia la depressione colpisce più del 10% della popolazione ed è considerata la seconda patologia invalidante dopo i disturbi cardiovascolari.

Il disturbo Depressivo Maggiore è caratterizzato, oltre che da abbassamento del tono dell’umore e mancanza di energia, da perdita di interesse per la maggior parte delle attività, alterazioni del sonno, alterazioni dell’appetito, sentimenti di colpa e autosvalutazione.

Questi sintomi in molti casi possono ostacolare la relazione di coppia: il paziente affetto da depressione tende all’isolamento relazionale e il progredire dei sintomi può provocare nel partner sano sentimenti di impotenza e rassegnazione fino ad arrivare alla frustrazione e, in certi casi, alla rabbia.

Non c’è da stupirsi quindi che la depressione abbia un impatto negativo anche sulla sessualità. In particolare, sembra ormai chiara la natura bidirezionale di tale influenza.

Una meta-analisi del 2012 condotta su 12 studi, conferma l’associazione bidirezionale tra depressione e disfunzioni sessuali: i pazienti affetti da depressione mostrano un rischio di sviluppare una disfunzione sessuale del 50-70% in più rispetto alla popolazione sana, viceversa i pazienti affetti da una disfunzione sessuale hanno un rischio di sviluppare depressione del 130-210% in più rispetto alla popolazione sana. I meccanismi di tale legame non sono ancora del tutto chiari data la natura eterogenea di entrambe le tipologie di Disturbo.

 

Depressione e sessualità: l’impatto del trattamento con antidepressivi

La situazione si complica quando a tale quadro si aggiunge la presenza degli antidepressivi, i quali possono causare problematiche aggiuntive al ciclo della risposta sessuale.

Gli antidepressivi sono considerati il trattamento d’elezione per la Depressione Maggiore ma in ambito psichiatrico vengono prescritti anche per i Disturbi d’ansia e per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Negli ultimi anni si è assistito all’estensione del loro utilizzo anche in altre situazioni patologiche, come nella terapia del dolore, nei disturbi del sonno e in alcune forme di cefalea.

Una recente analisi italiana mostra come dal 2003 al 2009 l’uso degli antidepressivi sia aumentato dal 7,4% al 13%, primi tra tutti gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI).

Le ragioni di tale incremento nell’uso di antidepressivi possono essere correlate all’aumento dell’incidenza delle patologie psichiatriche sopracitate, alla riduzione della soglia prescrittiva, alla maggiore aderenza alle linee guida di trattamento o ancora, alla maggiore compliance dei pazienti.

La percentuale stimata di individui che affermano di avere delle disfunzioni sessuali correlate al trattamento con SSRI va dal 25% al 40%; tale variabilità è dovuta all’eterogeneità del metodo usato per la raccolta dei dati e dal fatto che difficilmente i pazienti che assumono antidepressivi riportano spontaneamente al medico curante di avere problemi sessuali, è necessario che sia chiesto loro in modo esplicito.

Le disfunzioni sessuali che emergono durante il trattamento con antidepressivi sono spesso causa della scarsa adesione alla farmacoterapia.

I meccanismi attraverso cui gli antidepressivi determinano disfunzioni sessuali non sono completamente chiariti, anche se sembra che sia proprio il loro meccanismo di azione la chiave che li spiega. In generale nell’effetto farmacologico degli antidepressivi sono coinvolti meccanismi che bloccano la ricaptazione a livello presinaptico di alcuni neurotrasmettitori come la serotonina e la noradrenalina, implicati nella regolazione dello stato d’animo, dell’irritabilità e della motivazione. In questo modo si genera una maggior disponibilità di tali neurotrasmettitori a livello sinaptico. Si pensa che l’aumento dei livelli di serotonina interferisca negativamente con alcuni aspetti della sessualità; in particolare determinando una riduzione dei livelli di dopamina, la quale svolge un ruolo primario nei meccanismi di attivazione dell’interesse sessuale e questo determinerebbe un calo della libido.

 

Disfunzioni sessuali correlate all’uso di antidepressivi

Il desiderio sessuale ipoattivo sembra essere il disturbo più frequente durante il trattamento con antidepressivi, ma i pazienti possono presentare anche disturbi dell’eccitazione e dell’orgasmo.

Può verificarsi una diminuzione dell’eccitazione sia a livello centrale che periferico: a livello centrale il diminuito tono dopaminergico agisce sui meccanismi di ricompensa e piacere, determinando un calo nella sensazione soggettiva di piacere; a livello periferico sia l’erezione che la vasocongestione clitoridea sono riflessi mediati dall’azione simpatica e parasimpatica e possono essere inibiti dal surplus serotoninergico. In particolare la paroxetina inibisce l’ossido nitrico-sintetasi, importante nei meccanismi vascolari che determinano l’erezione e la vasocongestione.

Calo della libido e disturbi dell’erezione fanno parte del corteo sintomatologico della depressione, pertanto risulta difficile stabilire l’esatta natura di tali sintomi. In molti casi può essere utile osservare cosa accade con la riduzione o la sospensione del farmaco.

Orgasmo ed eiaculazione richiedono anch’essi attività noradrenergica e dopaminergica, sistemi la cui attività viene ridotta per l’aumento dei livelli di serotonina. Questo può provocare orgasmo ed eiaculazione ritardata o anche anorgasmia.

Questi disturbi sessuali non appartengono al bagaglio sintomatologico della depressione, quindi difficilmente pongono problemi di diagnosi differenziale. Insorgono a seguito dell’assunzione degli antidepressivi e si manifestano sia durante il coito che durante la masturbazione.

Paradossalmente l’aumento della latenza di risposta agli stimoli eccitatori può essere usato a vantaggio da chi soffre di eiaculazione precoce: la Dapoxetina (SSRI) è un farmaco oggi indicato per il trattamento dell’eiaculazione precoce da assumere 1-3 ore prima dell’attività sessuale.

Vari fattori possono determinare disfunzioni sessuali e non sempre sono attribuibili agli effetti della farmacoterapia con antidepressivi. Potrebbero essere una componente della sintomatologia depressiva, potrebbero essere causate da una patologia medica concomitante (il diabete mellito ad esempio influenza la funzionalità erettile) o potrebbero rappresentare un disturbo sessuale primario.

Nel determinare l’eziologia di questi disturbi è necessaria prudenza e un’esperta valutazione della storia psicosessuale dell’individuo.

Identificare una disfunzione sessuale indotta da antidepressivi può rivelarsi molto difficoltoso: che tipo di disturbo è presente? È un disturbo solo o una combinazione di più disturbi? È generalizzato o situazionale? È il risultato dell’assunzione di farmaci o è primario? Quali sono le reazioni del paziente?

Informare preventivamente il paziente circa gli effetti collaterali dell’antidepressivo sulla sessualità sembrerebbe risultare problematico.

Alcuni clinici preferiscono non discutere delle possibili problematiche sessuali o accennarle solo genericamente per non scoraggiare i pazienti. Inoltre per alcuni medici l’eventualità di un disturbo sessuale indotto dalla farmacoterapia è irrilevante di fronte alla priorità di trattare la psicopatologia primaria; in altre parole, secondo chi pone le disfunzioni sessuali ad un grado inferiore della “gerarchia dei disturbi”, desiderio sessuale ipoattivo, anorgasmia e disfunzione erettile sono rischi tollerabili in virtù del curare la depressione.

Trattamento delle disfunzioni sessuali indotte da antidepressivi

Una volta che è stata posta la diagnosi di disfunzione sessuale indotta da antidepressivi, i clinici dovrebbero considerare attentamente le opzioni di trattamento e discuterne con i loro pazienti.

Tuttavia spesso queste disfunzioni secondarie sono poco trattate. Lo studio ELIXIR ha esaminato le strategie di trattamento delle disfunzioni sessuali indotte da SSRI in 4557 pazienti e ha trovato che circa il 42% attendeva passivamente la remissione spontanea dei sintomi e al 39% era stato sostituito l’antidepressivo.

Trattamenti aggiuntivi o le cosiddette “drug holidays” raramente venivano prescritti.

Attendere la remissione spontanea è una strategia altamente discutibile, se è vero che come accade per altri effetti collaterali dei farmaci la remissione è possibile, è altrettanto vero che potrebbero volerci molte settimane o mesi e questo potrebbe essere un periodo troppo lungo per i pazienti.

 

Riduzione del dosaggio

Questo approccio può essere utile ma è rischioso in quanto la dose in cui compaiono i sintomi sessuali è considerata la dose minima da prescrivere per alleviare i sintomi depressivi.

Alcuni autori hanno suggerito che la fluoxetina si presta efficacemente a questa strategia perché hanno trovato un dosaggio minimo che migliora la funzionalità sessuale senza incrementare i sintomi depressivi.

In ogni caso questo metodo è preferibile quando il paziente sta rispondendo bene alla farmacoterapia e quando medico e paziente prestano attenzione continuativamente ad eventuali segnali di ricaduta.

 

“Drug Holidays” o sospensione del farmaco

Si parla di “drug holidays” per riferirsi ad una temporanea sospensione del farmaco 2-3 giorni prima dell’attività sessuale. Il successo di questa strategia dipende da un accurato piano terapeutico e da una buona alleanza medico-paziente.

Probabilmente questa soluzione risulta maggiormente efficace con antidepressivi che hanno una breve emivita, come paroxetina e sertralina, poco con la fluoxetina che ha una lunga emivita.

Inoltre il peggioramento della sintomatologia depressiva potrebbe ostacolare il trattamento alternativo delle disfunzioni sessuali.

 

Sostituzione dell’antidepressivo

In letteratura troviamo vari studi che descrivono sostituzioni di un antidepressivo con un altro che hanno avuto successo sul miglioramento delle disfunzioni sessuali.

In particolare quando si sostituisce un SSRI con un farmaco a diverso meccanismo di azione come il bupropione, il nefazodone e la mirtazapina.

Uno studio del 2015 ha comparato l’effetto dell’escitalopram con quello della vortioxetina dimostrando come la sostituzione della farmacoterapia antidepressiva con vortioxetina possa essere una valida alternativa per quei pazienti che riportano difficoltà sessuali con la terapia tradizionale con SSRI.

 

Farmaci aggiuntivi

Un’ulteriore opzione nel trattamento dei disturbi sessuali conseguenti all’uso di antidepressivi è l’aggiunto di una terapia farmacologica specifica per il disturbo accusato.

Gli studi disponibili riguardano soprattutto l’uso del sildenafil per trattare la disfunzionalità erettile e del testosterone per trattare il disturbo da desiderio sessuale ipoattivo nella donna.

Vi sono però poche evidenze sperimentali che supportino tali dati.

In conclusione è importante sottolineare l’importanza dell’informazione preventiva circa i possibili effetti degli antidepressivi sulla sessualità, sia ai fini della compliance terapeutica sia per salvaguardare il benessere della persona. Altrettanto importante risultano essere una corretta diagnosi di eventuali disturbi sessuali secondari e un efficace intervento su questi ultimi.

Psicoterapia per l’ insonnia? Efficace quanto i farmaci

La psicoterapia per l’ insonnia è efficace quanto il trattamento farmacologico e a differenza di quest’ultimo ha effetti benefici anche a lungo termine.

 

A sostenerlo è la British Association for Psychopharmacology (2010), una delle più importanti associazioni scientifiche sul tema, che sottolinea l’importanza di trattare l’ insonnia perché si tratta di una condizione che diminuisce la qualità della vita ed è associata ad un maggiore rischio di depressione, di ansia e probabilmente di malattia cardiovascolari.

 

Insonnia: manifestazioni e conseguenze

L’insonnia è un disturbo del sonno molto diffuso, che colpisce le donne più degli uomini e per entrambi aumenta con l’età.

Molte possono essere le manifestazioni: difficoltà ad addormentarsi, risvegli continui, scarsa qualità del sonno. Tale condizione rende difficili le normali attività della vita quotidiana tanto da spingere gli esperti a considerare la gravità dei sintomi diurni (sonnolenza, affaticamento, mal di testa) parte integrante del quadro clinico. Gli studi di Edinger et al. (2008) e Altena et al. (2008) dimostrano difficoltà in compiti psicomotori e cognitivi complessi in chi soffre di insonnia, soprattutto quando essi coinvolgono la capacità attentive.

I costi dell’ insonnia possono essere alti anche dal punto di vista economico in termini di assenza dal lavoro o scarso rendimento.

Inoltre, l’ insonnia è correlata con emozioni negative e può innescare o aggravare sintoni ansiosi e depressivi.

 

La psicoterapia per l’ insonnia: perché è consigliabile?

Escludendo le cause fisiche (dolore, malattie polmonari, ecc), l’ insonnia di solito inizia con uno specifico problema, per esempio un evento stressante come la perdita del lavoro, un lutto, un cambiamento importante. In altri casi è ricollegabile ad un evento o ad una situazione che cambia i ritmi del sonno: la nascita di un bambino o un lavoro che richiede turni. In molti casi, le persone attraversano un periodo di adattamento e risolvono in tempi relativamente brevi il disturbo.

Per alcuni, invece il problema si cronicizza. I fattori coinvolti nella cronicizzazione sono molti: abitudini che poco favoriscono l’igiene del sonno, la persistenza della causa di stress, la presenza di sindromi ansiose o depressive preesistenti o concomitanti.

La psicoterapia è stata riconosciuta dalle linee guida del BAP (2010) come trattamento efficace e raccomandato.

L’ipnosi può essere efficacemente integrata nei percorsi di psicoterapia per l’ insonnia, potenziandone gli e velocizzandone gli effetti. Con l’ipnosi si raggiunge uno stato di coscienza diverso dalla veglia comune detto trance ipnotica. In questo stato l’attenzione del soggetto diventa estremamente focalizzata e rivolta verso l’interno. Si tratta di uno stato naturale che emerge spontaneamente più volte al giorno, ma che può essere consapevolmente sfruttato, durante percorsi di psicoterapia per l’ insonnia e non solo, per recuperare energie, rielaborare le esperienze vissute, gestire ansia e stress. Gli studi dimostrano che l’ipnosi migliora la qualità e la quantità del sonno (Becker, 2015), risultando efficace anche nei casi di insonnia grave e cronica. Nei percorsi di psicoterapia per l’ insonnia, con l’ipnosi e l’autoipnosi infatti è possibile intervenire su tutte le problematiche legate al sonno: fatica ad addormentarsi, risvegli continui, incubi ricorrenti.

Va inoltre aggiunto che gli interventi ipnotici con bambini o adolescenti sono generalmente più rapidi che quelli rivolti agli adulti e sono totalmente privi di effetti collaterali.

Dopo l’amore (2016) – Riflessioni psicologiche sul film

Marie e Boris, arroccati sulle rispettive posizioni, sembrano aver dimenticato il loro amore, il sentimento che li aveva visti profondamente uniti.
Il com’eravamo ha lasciato spazio a un come siamo permeato di amarezza, tristezza, rabbia.
E’ una storia tremendamente realistica quella raccontata in Dopo l’amore, che sviluppa una tensione crescente all’interno di una routine brutalmente credibile.

 

Info:

Titolo originale: “L’économie du couple”.
Un film di Joachim Lafosse.
Con: Bérénice Bejo, Cédric Kahn, Marthe Keller, Jade Soentjens, Margaux Soentiens, Catherine Salée, Tibo Vandenborre, Philippe Jeusette, Annick Johnson, Pascal Rogard, Arian Rousseau.
Drammatico – Francia, Belgio 2016

Trama del film Dopo l’amore

Dopo quindici anni di matrimonio e due figlie gemelle, Marie e Boris decidono di porre fine a una relazione ormai logorata da incomprensioni e recriminazioni.
In attesa del divorzio i due sono costretti alla coabitazione, sia per ragioni economiche (Boris è attualmente disoccupato), sia perché incapaci di trovare un accordo sulla casa, acquistata dalla moglie ma ristrutturata dal marito.
Marie appare quella insofferente che detta le regole, Boris quello che non si vuole rassegnare e che continuamente deve contestare e contraddire le direttive date dalla donna. Rancori, dispetti e ripicche: la tensione è palpabile e si attacca allo spettatore fin dal primo momento.
In un’escalation di liti, discorsi ripetuti a oltranza, incomprensioni e sfiducia reciproca, i due finiranno per perdere di vista il loro bene più prezioso: le figlie.
Ed è a questo punto, fuori dalla loro casa, che riusciranno finalmente a raggiungere un compromesso.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Motivi di interesse:

Marie e Boris, arroccati sulle rispettive posizioni, sembrano aver dimenticato il loro amore, il sentimento che li aveva visti profondamente uniti.
Il com’eravamo ha lasciato spazio a un come siamo permeato di amarezza, tristezza, rabbia.
E’ una storia tremendamente realistica quella raccontata in “Dopo l’amore”, che sviluppa una tensione crescente all’interno di una routine brutalmente credibile.

I sentimenti, i dubbi, le paure, le ambivalenze – caratterizzate da saltuarie tenerezze e rancori persistenti – sono descritti dal regista senza ricorrere all’ utilizzo di stereotipi o retorica.
Il ritratto dei due protagonisti è spietato, ne rileva i limiti senza mai schierarsi.

Marie non sopporta più l’uomo che le è stato accanto e dice, confidandosi agli amici: “Dopo 15 anni è come se lo vedessi per la prima volta”. Boris non accetta che lei voglia lasciarlo e mette continuamente in atto comportamenti infantili.
Anche durante un tentativo di rassicurare le figlie – spaventate e rattristate dai continui litigi dei genitori – non potranno fare a meno di evidenziare il loro totale disallineamento.

Il denaro ha un ruolo fondamentale (il titolo originale del film è in effetti “l’economie du couple – l’economia della coppia”): rappresenta lo strumento per esercitare il proprio potere e per fare pagare letteralmente all’altro il fallimento della relazione di cui nessuno dei due si vuole fare carico.

Lafosse è molto abile nel mostrare quella dimora coniugale, come l’elemento su cui litigare, ma non la vera ragione del conflitto che risiede altrove, in qualcosa di estremamente più profondo.

Boris e Marie sono stati felici e si sono amati ed è proprio la passione di allora che alimenta il rancore di oggi. Da quello spazio che si dividono e di cui si contendono ogni millimetro, oggi non riescono a uscire a causa per la paura di ammettere e affrontare la propria parte di responsabilità nel fallimento della relazione.
Troveranno la soluzione al di fuori di quella casa, perché riusciranno finalmente a decentrarsi e guardarsi dall’esterno.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il regista mantiene per tutto il film uno sguardo neutrale e imparziale sulle dinamiche individuali e di coppia. Esattamente come un “terzo occhio”osserva i protagonisti attraverso uno sguardo super partes. Può essere utile per aiutare l’individuo (o la coppia) a diventare più consapevoli e a guardarsi dall’esterno.

Il ruolo dell’Omega-3 nella prevenzione della malattia di Alzheimer: uno studio con la SPECT

Un recente studio dimostra che vi sarebbe un aumento del flusso sanguigno nelle regioni del cervello associate con la memoria e l’apprendimento in persone con alti livelli di omega-3.

 

L’incidenza della malattia di Alzheimer è in continuo aumento e, ad oggi, non è stata trovata alcuna cura. Recentemente l’interesse dei ricercatori si è rivolto verso l’approccio dietetico come fattore di prevenzione nel decadimento cognitivo. In particolare, gli acidi grassi dell’omega-3 hanno mostrato un’azione anti-amiloide, anti-tau e anti-infiammatoria nel cervello animale.

In un articolo pubblicato su Journal of Alzheimer’s Disease, i ricercatori hanno trovato che in pazienti con alti livelli di omega-3, avviene un aumento del flusso sanguigno in specifiche aree del cervello.

Il professore di biologia George Perry dell’University of Texas-San Antonio e redattore capo del Journal of Alzheimer’s Disease afferma:

Questo studio è un importante passo avanti nel dimostrare come i valori nutrizionali siano importanti per la salute del nostro cervello, come dimostrato anche dalle recenti immagini cerebrali mediante Tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT).

La SPECT può misurare la perfusione sanguigna nel cervello. Le immagini acquisite dai soggetti durante l’esecuzione di vari compiti cognitivi hanno mostrato un aumento del flusso di sangue in specifiche regioni cerebrali. Quando queste immagini sono state comparate con la misura della concentrazione nel sangue di due acidi grassi dell’omega-3, acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico (DHA), i ricercatori hanno trovato una correlazione statisticamente significativa tra alti livelli di flusso sanguigno in tali aree e alti livelli di omega-3. In aggiunta, in questi soggetti, sono state valutate le funzioni neuropsicologiche ed è stato trovato, utilizzando una batteria di test standardizzata, che i livelli di omega-3 correlano anche con diversi aspetti psicologici.

Per questo studio è stato reclutato, presso una clinica psichiatrica, un campione casuale di 166 soggetti di cui erano disponibili gli indici omega-3. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno con alti livelli di concentrazione EPA+DHA (>50° percentile), l’altro con livelli bassi (<50° percentile). L’analisi quantitativa delle immagini SPECT è stata effettuata su 128 regioni e ogni partecipante ha completato il test computerizzato inerente il proprio stato neurocognitivo.

I risultati hanno evidenziato relazioni statisticamente significative tra gli indici Omega-3, i test neurocognitivi e la perfusione regionale, tramite SPECT, in aree coinvolte nella memoria. In generale, lo studio mostra relazioni positive tra la condizione di Omega-3 e EPA+DHA, la perfusione cerebrale e la cognizione. L’autore principale Daniel G. Amen, medico dell’Amen Clinics Inc., aggiunge:

Questa ricerca è molto importante perché mostra una correlazione tra bassi livelli di acidi grassi omega-3 e riduzione di flusso sanguigno nelle regioni coinvolte nell’apprendimento, nella memoria, nella depressione e nella demenza.

Il coautore Williams S. Harris, Dottore di ricerca dell’University of South Dakota School di Medicina, afferma:

Anche se abbiamo prove evidenti che alti livelli di omega-3 sono associati con una miglior salute cardiovascolare, sta prendendo piede l’esplorazione anche del ruolo di questi acidi grassi nella salute mentale e nella fisiologia della circolazione cerebrale.

Questo studio dimostra come cambiamenti dietetici relativamente semplici possano influire favorevolmente sulla funzionamento cognitivo.

Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione: quali trattamenti psicologici sono raccomandati?

Il National Institute for Clinical Excellence (NICE) ha pubblicato il 23 maggio 2017 un aggiornamento completo linee guida NICE CG9 del gennaio 2004; le linee guida NICE [NG69] forniscono raccomandazioni per identificare, valutare, monitorare, trattare i bambini (0-12 anni), i giovani adulti (13-17 anni) e gli adulti (più di 18 anni) con disturbi dell’alimentazione.  

 

In questo articolo è riportata una sintesi dei trattamenti psicologici raccomandati dalle nuove linee guida NICE per i disturbi dell’alimentazione. Le linee guida complete si possono scaricare dal sito https://www.nice.org.uk/guidance/ng69

 

Linee guida NICE per l’ anoressia nervosa

Per l’ anoressia nervosa negli adulti le linee guida NICE raccomandano di considerate la terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED), il Maudsley Anorexia Nervosa Treatment for Adults (MANTRA) e lo 
specialist supportive clinical management (SSCM). Se questi tre trattamenti non sono accettati, sono controindicati o inefficaci, può essere considerata la terapia psicodinamica focale (FPT).

Per l’ anoressia nervosa nei bambini e giovani adulti è raccomandato come intervento di prima scelta il trattamento basato sulla famiglia per l’ anoressia nervosa (FT-AN). Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED o la psicoterapia focalizzata per gli adolescenti (AFP-AN).

La consulenza dietetica dovrebbe essere offerta solo come parte di un approccio multidisciplinare. Le persone con anoressia nervosa dovrebbero prendere un supplemento multivitaminico e multiminerale appropriato per la loro età fino a che la loro dieta soddisferà i valori dietetici di riferimento. I familiari dovrebbero essere inclusi nell’educazione dietetica o nella pianificazione dei pasti dei bambini e giovani adulti che ricevono un trattamento individuale. Vanno anche forniti consigli dietetici aggiuntivi per affrontare le necessità di crescita e sviluppo, in particolare durante la pubertà.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per l’ anoressia nervosa.

 

Le linee guida NICE per il trattamento della bulimia nervosa

Per gli adulti con bulimia nervosa va considerato come intervento di prima scelta l’auto-aiuto guidato (GSH) basato sulla CBT. Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED.

Per la bulimia nervosa nei bambini e giovani adulti è raccomandato come intervento di prima scelta il trattamento basato sulla famiglia per la bulimia nervosa (FT-BN). Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per la bulimia nervosa.

 

Disturbo da binge-eating

Per gli adulti con disturbo da binge-eating va considerato come intervento di prima scelta l’auto-aiuto guidato (GSH) basato sulla CBT. Se questo trattamento non è accettato, è controindicato o inefficace, può essere considerata la CBT-ED di gruppo. Se la CBT-ED di gruppo non è disponibile o la persona la rifiuta, va considerata la CBT-ED individuale.

Per il disturbo da binge-eating nei bambini e giovani adulti sono fornite le stesse indicazioni degli adulti.

Non dovrebbero mai essere offerti i farmaci come unico trattamento per la bulimia nervosa.

 

Altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione con specificazione (OSFED)

Si raccomanda di usare i trattamenti per il disturbo dell’alimentazione che più assomiglia all’OSFED.

 

Le indicazioni delle nuove linee guida NICE: il commento dell’autore

Dalle nuove linee guida NICE emerge che la CBT-ED è il solo trattamento raccomandato per tutti i disturbi dell’alimentazione e per tutte le età (vedi tabella). La FB-AN e BN è invece raccomanda solo per gli adolescenti con anoressia nervosa, mentre altri interventi psicologici, come il MANTRA, il SSCN per gli adulti con anoressia nervosa. È anche da sottolineare che la CBT-ED per i bambini e i giovani adulti, sviluppata Villa Garda e valutata da due studi di coorte eseguiti in Italia, è stata inclusa dalle NG69 come intervento alternativo alla FT-AN e alla FT-BN.

È auspicabile che queste nuove raccomandazioni stimolino gli stakeholder della salute a predisporre delle azioni per implementare nei centri clinici italiani dei disturbi dell’alimentazione i trattamenti psicologici raccomandati dalle nuove linee guida NICE, per permettere ai pazienti di tutte le età di avere accesso a questi interventi la cui efficacia è stata dimostrata da rigorosi studi clinici. È anche augurabile che le scuole di psicoterapia recepiscano l’importanza di includere dei corsi di formazione sui trattamenti psicologici raccomandati dalle linee guida NICE per riuscire a formare un numero adeguato di psicoterapeuti che sia in grado di trattare con i migliori interventi disponibili le persone affette da disturbi dell’alimentazione.

 

Linee guida NICE 2017 per i disturbi dell’alimentazione quali trattamenti psicologici sono raccomandati

Tabella. Sintesi di trattamenti psicologici per i disturbi dell’alimentazione raccomandati dalle NG69 del maggio 2017 (AFP-AN = Adolescent- Focused Psychotherapy for Anorexia Nervosa; CBT-ED = Cognitive Behaviour Therapy for Eating Disorders; GSH = Guided Self-Help; FPT= Focal psychodynamic therapy: MANTRA = Maudsley Anorexia Nervosa Treatment for Adults; OSFED = other specied feeding and eating disorders; SSCN = Specialist Supportive Clinical Management)

 

 

Il Re è nudo: studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia – Riccione, 2017

Il Re è nudo: studio pilota su vergogna e umiliazione in psicopatologia

S. Marinari, G. A. Aldi, I. Puppi, C. Gugliermetti, M. Lustrati, M. E. Maisano – Scuola Cognitiva di Firenze (SCF)

 

La vergogna è un’emozione sociale associata al timore di evocare o suscitare valutazioni negative negli altri, solitamente ritenuti superiori (Del Rosso et al., 2014). Ha origine nel confronto interpersonale e si attiva nel momento in cui gli individui giudicano se stessi come imperfetti, brutti o inferiori favorendo una bassa autostima e un senso di inferiorità e impotenza (Doran e Lewis, 2011).

Nonostante numerosi studi ne abbiano evidenziato il ruolo sia in relazione allo sviluppo e al mantenimento di vari disturbi psicopatologici, sia in relazione alle esperienze precoci e alle credenze patogene, tuttavia in letteratura la vergogna è spesso confusa e sovrapposta ad emozioni simili, tra cui l’umiliazione. Questa difficoltà di discernimento deriva dalla mancanza di una definizione empirica dell’umiliazione che porta erroneamente ad assimilare i vissuti delle due emozioni. Ma qual è la linea sottile che distingue la vergogna dall’umiliazione? Quale vissuto esperisce il protagonista della fiaba di Hans Christian Andersen quando, camminando tra la folla, viene smascherato dal bambino che grida “Il Re è nudo?”

Una prima differenza che possiamo cogliere è che se nella vergogna l’attenzione dell’individuo è rivolta su di sé, nell’umiliazione il focus attentivo si sposta sul danno recato al sé dagli altri dei quali si temono le possibili reazioni di rabbia o i comportamenti di vendetta. Nell’umiliazione si verifica una violazione all’interno della relazione che porterebbe l’individuo a sperimentare la sensazione di essere svalutato, ridicolizzato e degradato, con conseguenze potenzialmente diverse rispetto a quelle comunemente associate alla vergogna. Un’altra differenza consisterebbe nel fatto che la vergogna, a differenza dell’esperienza di umiliazione, può avere anche aspetti adattivi (Hartling et al., 2000).

Alla luce di queste premesse e in seguito alla scarsità di studi che mettono in relazione le due emozioni, l’obiettivo della nostra ricerca è quello di indagare i vissuti di vergogna e umiliazione e la loro interazione in soggetti con differenti livelli di tratti psicopatologici, in particolare Fobia Sociale, Disturbo Evitante di Personalità e Narcisismo Overt e Covert. Trattandosi di una fase esplorativa abbiamo utilizzato un campione non clinico con l’obiettivo di ampliarlo e coinvolgere una popolazione clinica nelle fasi successive dello studio.

 

Ansia Scolastica: sintomatologia, manifestazioni e trattamento

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

 

 

Agire sull’ Ansia Scolastica è possibile. Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova propone un percorso di intervento psicoterapeutico per i disturbi d’ansia in età evolutiva ed adolescenza partendo dal modello cognitivo dell’ansia, in cui il disagio emotivo che accompagna l’ansia, dipende dal contenuto dei pensieri negativi e catastrofici sulle sensazioni fisiche, a cui i bambini reagiscono con strategie e condotte disfunzionali, più avanti verranno descritte le principali tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate per il trattamento dei disturbi d’ansia presso il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova.

 

Che cos’è l’ ansia scolastica: una breve introduzione

Molti bambini e adolescenti giungono in terapia perché hanno la paura o l’ansia di andare a scuola, questo fenomeno riguarda un numero sempre maggiore di bambini e ragazzi in età scolare e raggiunge dei picchi in alcuni momenti cruciali del percorso scolastico:
– Tra i 5 e i 7 anni, all’inizio della scuola primaria.
– Tra i 10 e gli 11 anni con l’inizio della scuola secondaria di I°grado.
– Tra i 13 e i 14 anni con l’inizio della scuola secondaria di II° grado.

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

Parlando di disturbi d’ansia in età evolutiva, è necessario fare una premessa, i bambini hanno molte paure fisiologiche che sono “normali”, ne cito alcuni:
– L’ansia da separazione;
– La paura del buio;
– La paura degli animali;
– L’ansia da prestazione.

La paura si differenzia dall’ansia e dalle fobie sulla base dell’obiettività: se c’è un motivo condiviso per avere timore (esempio una macchina che sta sbandando o un animale pericoloso che attacca) siamo nel dominio della paura, invece se la condivisione non c’è, stiamo parlando di ansia o di fobia.
Nei bambini però questa distinzione diventa problematica in quanto il loro livello di sviluppo cognitivo non permette di differenziare facilmente il reale dall’immaginario.

La distinzione tra ansia patologica e paura “normale” dell’infanzia si deve basare sui criteri di intensità, frequenza e durata (Lambruschi 2004): quando la reazione d’ansia del bambino è molto intensa, appare frequentemente e dura a lungo, possiamo parlare di ansia patologica.

Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita: le medesime categorie sono riferite all’infanzia, all’adolescenza, e all’età adulta. I disturbi d’ansia rappresentano la patologia psichiatrica più comune in età evolutiva (Merikangas et al., 2010; Kessler, Avenevoli, Costello 2012) e si stima che un terzo degli adolescenti soddisferà i criteri per un disturbo d’ansia all’età di 18 anni (Merikangas et al. 2010). Molte ricerche dimostrano che i disturbi d’ansia nell’infanzia sono associati a disturbi d’ansia nell’età adulta, disturbi depressivi e uso di sostanze psicoattive (Langley, BerGman, McCracken & Piacentini 2004).

 

Come si manifesta l’ ansia scolastica?

Come nell’adulto l’ansia è associata a manifestazioni somatiche, i segnali più diffusi sono:
– Mal di testa;
– Pianti, tremori, mente offuscata;
– Male allo stomaco o tensione muscolare, che spesso portano i bambini a chiedere di non andare a scuola o di uscire prima;
– Difficoltà ad addormentarsi, in questo caso a volte il lettone di mamma e papà è spesso la soluzione a cui si ricorre per trovare la serenità e potersi addormentare tranquilli;
– Talvolta vomito e febbre;
– Crisi di panico prima di varcare l’ingresso della classe, ma a volte si manifesta già a casa prima di partire per andare a scuola.

Spesso vengono considerati capricci, una sorta di ribellione, ma in realtà possono nascondere un disagio più profondo che colpisce bambini e ragazzi, dalle prime classi fino al liceo.
Le cause principali dell’ ansia scolastica sono:
– L’ansia da separazione nei più piccoli
– Paura di episodi di bullismo
– Timore del’insegnante
– Timore di avere brutti voti
– Timore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori.

L’ ansia scolastica, a volte una vera e propria angoscia caratterizzata da un forte senso di preoccupazione, aspettativa del peggio, apprensione, si manifesta anche in situazioni di per sé aspecifiche e neutrali.
Il bambino ha come la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, sia essa una disgrazia o una malattia, che possa colpire lui o le persone a lui più care (quasi sempre i genitori). Il bambino ha difficoltà a descrivere ciò che realmente pensa o prova e per questo avverte sempre più angoscia andando così a creare un circolo vizioso dell’ansia (Fig.1) che in alcuni casi può portare anche ad una sofferenza intensa.

Il circolo vizioso dell’ansia

ciclo-ansia

Fig. 1 “Il Circolo vizioso dell’ansia”.

Il bambino si sente perciò irritabile, insicuro, sempre alla ricerca di rassicurazioni, di gratificazioni oppure proverà a gestire questa sua angoscia tendendo alla perfezione in ogni cosa che fa o ad evitare situazioni o luoghi. L’elemento attivante è la paura dell’evento che porta con sé pensieri negativi quali la paura del Giudizio, la paura di deludere gli altri, il timore di essere ridicolizzato in classe ecc…

Agendo su questi pensieri negativi e riducendoli, si interrompe il circolo dell’ansia.
Ad esempio,una prestazione imperfetta non solo allontana dall’obiettivo che si voleva raggiungere ma espone alla critica, alla svalutazione e alla eccessiva preoccupazione per le conseguenze di quell’evento e quindi aumento dell’ansia.

Le preoccupazioni non sono altro che pensieri riguardanti il possibile verificarsi di eventi futuri negativi. Solitamente si manifestano sotto forma di domande che iniziano con la formula “E se…”.

Ecco di seguito alcuni esempi:
– E se il compito di Italiano andasse male? Potrei non riuscire mai a imparare queste cose. Tutti i miei amici si prenderanno gioco di me. Potrei non voler più andare a scuola. Se non andrò più a scuola sarò bocciato. Dovrò ripetere l’anno. Non avrò più i miei compagni di classe, dovrei trovare nuovi amici. E se nella nuova classe non mi accettassero? Sarò un fallimento!
– E se sbagliassi un esercizio? Il professore potrebbe dirmi che ho fatto un cattivo lavoro. E se lo dicesse davanti a tutta a classe? Gli altri riderebbero di me

Come si manifesta l’ ansia scolastica a scuola?

  • Eccessiva preoccupazione e ansia per le verifiche.
  • Abbassamento del rendimento scolastico.
  • Perdita di interesse verso materie che prima piacevano.
  • Ripetuta ricerca di approvazione dell’insegnante.
  • Difficoltà a parlare di fronte alla classe.
  • Difficoltà a entrare in classe la mattina.
  • Ritardi nell’ingresso a scuola.
  • Bassa autostima.
  • Difficoltà di concentrazione a causa di preoccupazioni persistenti.
  • Irritabilità.
  • A volte aggressivo verso i suoi compagni di classe.
  • Intolleranza alla frustrazione.
  • Tendenza a evitare le difficoltà.
  • Difficoltà a terminare i compiti assegnati.

Come si manifesta l’ ansia scolastica a casa?

  • Preoccupazioni riguardanti le prestazioni scolastiche.
  • Preoccupazioni riguardo la puntualità.
  • Perfezionismo e paura di sbagliare.
  • Impiegare troppo tempo nel fare i compiti.
  • Mancanza di fiducia in se stessi.
  • Continue richieste di approvazione.
  • Richieste di rassicurazione.
  • Presenza di sintomi fisici come mal di testa, mal di stomaco, stanchezza e dolori muscolari.
  • Disturbi del sonno.
  • Riferita sensazione d’ irrequietezza.
  • Irritabilità
  • Paura delle critiche e dei giudizi negativi riguardo le loro capacità.

 

Il trattamento dell’ansia

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova propone la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia in età evolutiva.

Durante la terapia è di fondamentale importanza il supporto e la collaborazione attiva dei genitori, ovviamente il grado di coinvolgimento dei genitori varia in base all’età del bambino o dei ragazzi.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova utilizza con i bambini, strumenti terapeutici che una volta appresi e utilizzati con regolarità, favoriscono il superamento del disturbo/disagio ed evitano che si ripresenti in futuro.

L’idea di base sulla quale il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si avvale è che il lavoro con i bambini o ragazzi, non consiste unicamente nell’eliminare i loro pensieri irrazionali, ma anche nel rafforzare le credenze razionali, che difficilmente nascono in maniera spontanea specialmente nel caso di bambini, che sono inseriti in un sistema in cui altri adulti significativi, con i loro pensieri disfunzionali, hanno molta influenza.

Le principali tecniche utilizzate dai professionisti che operano nel centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, sono:

La Psicoeducazione, con l’obiettivo di aumentare il vocabolario emotivo del bambino, condividendo con il paziente un numero più ampio di termini per definire le emozioni e introducendo il concetto di intensità e durata di un’ emozione. Prerogativa fondamentale della terapia è imparare a saper riconoscere le emozioni e poi riprodurle. L’intensità dell’emozione può essere misurata attraverso uno strumento chiamato “Il Termometro delle Emozioni” (Lambruschi 2004; Di Pietro, Dacomo 2007, Fig.1), in cui viene chiesto al bambini di raccontare qualche episodio in cui ha sperimentato emozioni con diversa intensità e insieme decidono dove posizionarle nel termometro.

il termometro delle emozioni

Altro strumento utilizzato è il “Fiore delle Emozioni di Plutchik” (Fig.2) in cui è ben visibile come emozioni diverse facciano parte della stessa categoria, al bambino viene così mostrato come le emozioni che prova si possono collocare lungo un continuum coerente in cui ad esempio , il fastidio fa parte della stessa famiglia della rabbia e la preoccupazione di quella della paura. Il fiore di Plutchik, utilizzato assieme al termometro delle emozioni, permette al terapeuta di rendere evidente al bambino come un’emozione che vive come intensa molte volte non compare dal nulla, ma sia preceduta da altri stati emotivi “consoni”. Questo passaggio è cruciale per la terapia in quanto, spesso il bambino, o la famiglia, fa riferimento a una grande rabbia o a una forte ansia, come se questa fosse comparsa dal nulla.

il fiore di pluthcik

Fig.1 “Il Termometro delle Emozioni” Fig.2 “Il Fiore delle Emozioni di Plutchik”

L’individuazione e la modificazione dei pensieri disfunzionali attraverso il modello ABC (Fig.3).
Ai bambini o ai ragazzi viene insegnato a individuare i pensieri disfunzionali legati agli eventi temuti. Successivamente si insegnerà a valutare le situazioni con maggiore oggettività, in modo da poterle affrontare con pensieri più funzionali e realistici. Al paziente viene spiegato che, così come per le malattie fisiche ci sono i virus che causano i vari sintomi, si può pensare che ci siano alcuni “virus mentali” che causano emozioni o comportamenti inadeguati. Non sono le emozioni negative il problema, ma l’intensità delle stesse, e che queste estremizzazioni sono causate dai pensieri disfunzionali. (Di Pietro, Dacomo, 2007).

Modello-ABC

Fig. 3 “Il modello ABC”

L’esposizione. Questa tecnica consiste nel provare gradualmente ad affrontare le situazioni temute. L’esposizione alle situazioni temute permetterà al bambino o all’adolescente di verificare che queste non comportano un reale pericolo, imparando inoltre che è possibile gestire l’ansia.

Il rinforzo. Ogni comportamento avuto dal bambino, a casa, a scuola o in terapia e che si avvicina all’obiettivo prefissato, verrà premiato al fine di renderne più probabile la ricompensa.

Il modellamento. Si basa sull’utilizzo dell’adulto come modello funzionale di comportamento nell’affrontare le situazioni temute.

Le tecniche di rilassamento e di Mindfulness. Queste tecniche vengono utilizzate per ridurre lo stress del bambino e di conseguenza per abbassare i suoi livelli di ansia. Secondo le preferenze e le caratteristiche dei singoli bambini o adolescenti, possono essere utilizzate diverse tecniche di rilassamento tra cui il rilassamento progressivo muscolare, la respirazione diaframmatica, la tecnica del respiro lento, e il rilassamento per immagini.

La costruzione della resilienza. Viene insegnato ai bambini e ai ragazzi che, pur non potendo controllare gli eventi, è possibile modificare l’impatto che essi hanno su di loro. L’utilizzo delle tecniche apprese durante la terapia permetterà di affrontare i momenti di difficoltà, superarli e di trarre degli insegnamenti utili per il futuro.

Il parent training. Il coinvolgimento dei genitori durante la terapia è di fondamentale importanza. Il terapeuta insegnerà loro come rispondere alle richieste e ai comportamenti dei bambini o dei ragazzi, in modo da non rinforzare le loro paure e di conseguenza il loro disturbo.

Empowerment nello sport e disabilità: come favorire lo sviluppo e la crescita personale

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo.

Federica Liso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il concetto di empowerment

Chiamano disabili, atleti che fanno i 50 all’ora in bici, i 100 metri in 11”, saltano in alto 2 metri, corrono la maratona da non vedenti in 2h35’, lascio a voi valutare chi è il disabile nella vita comune.” Fabrizio Tacchino (Allenatore)

Tra le parole straniere ormai di uso corrente, “empowerment” è una delle poche a non avere ancora un preciso corrispettivo nella lingua italiana. Il termine deriva dal verbo inglese “to empower” che in italiano viene comunemente tradotto con “conferire poteri”, “mettere in grado di”. Letteralmente questo termine significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumentare il proprio potere interno”, anche se empowerment è un concetto talmente complesso di cui è difficile dare una definizione unica ed esaustiva, perché, più che una categoria chiusa, esso è una costellazione di elementi collegati tra loro. Anche se la definizione è ancora un po’ troppo vaga, il termine trova una sua specificazione se applicato in alcuni degli ambiti in cui, sin dagli anni Sessanta, il concetto di empowerment è presente, come la politica, la psicologia, la medicina, l’organizzazione aziendale, la formazione.

Per l’essere umano, avere potere su se stesso, sentirsi ed essere efficace, avere la consapevolezza di poter incidere sugli eventi, godere di una buona autostima, considerare gli insuccessi come momento di apprendimento, sono parte di una condizione psicologica ben specifica. Tale condizione, però, non è data una volta per tutte, ma rappresenta un cammino che favorisce la speranza nel futuro e che permette di percepirsi come persone capaci di cimentarsi e riuscirci. E’ una persona capace di affrontare la vita e le sue sfide, capace di attraversare successi e insuccessi mantenendo saldo il potere su se stesso e arricchendo quotidianamente il suo “potere con l’altro”.

Un’ottica basata sull’empowerment prevede interventi di sostegno e di proposta di nuove opportunità sociali, secondo tre direzioni:
– generare alternative in modo immediato;
– far conoscere come e dove avere accesso alle risorse;
– incrementare l’autostima e la motivazione.

Un filone importante di studi è stato sviluppato nell’area della psicologia della comunità, ben rappresentata dalle ricerche di Zimmermann, che definisce il concetto di empowerment come il passaggio, per un individuo, dalla condizione di “learned helplessness” (impotenza appresa) a quella di “learned hopefulness” (percezione appresa di essere capaci), acquisito mediante la partecipazione attiva all’interno della comunità in cui è inserito.

Si evidenziano due principali differenti prospettive: una psico – sociologica ed una socio – organizzativa. Nel primo approccio, il principio guida è che, per produrre empowerment organizzativo, è necessario operare contestualmente sulle dimensioni individuali ed organizzative, dove le persone dipendenti e senza “potere” nell’organizzazione, possano sviluppare contemporaneamente un sentimento del proprio valore ed un maggior controllo sulla situazione lavorativa. Il secondo approccio (socio – organizzativo), considera due livelli, uno micro – organizzativo e uno macro – organizzativo, rilevando la determinante funzione ed interazione tra valori ed etica che concorrono a formare e rendere visibile la cultura di un’organizzazione.

L’empowerment nello sport e la disabilità

L’empowerment è visto, dunque, come un processo progressivo di adattamento, che non implica necessariamente una situazione iniziale di disagio o svantaggio. In altri termini, l’empowerment aumenta la qualità organizzativa nella misura in cui aumenta l’interazione sociale, intesa come il processo di apprendimento e di negoziazione di significati che intercorre tra gli attori sociali, tramite le loro reciproche azioni.

In particolare, il Comitato Paralimpico Internazionale dello Sport, ha definito l’empowerment come un tema di ricerca prioritario all’interno del settore della disabilità sportiva: “il processo attraverso il quale gli individui sviluppano le competenze e le capacità di ottenere il controllo sulla propria vita e di intervenire per migliorare la loro situazione di vita”.

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo. D’altra parte, lo sport è stato, anche, criticato per essere troppo concentrato sul miglioramento delle prestazioni e di essere indifferente, sia al ruolo dello sport come cultura pratica, fisica e psicosociale, sia alle conseguenze degli atleti con disabilità. La questione è definire quali aspetti siano positivi o negativi e quali siano in grado di influenzare l’esperienza sportiva per le persone con disabilità fisica o psicologica.

Il disabile convive con pesanti modificazioni della propriocezione, della esterocezione, delle sensazioni relative al dolore/piacere; alcuni piaceri gli sono preclusi, alcuni dolori diventano abituali o comunque più frequenti della norma e alcune sensazioni muscolari sono assenti dalla nascita o sono improvvisamente sparite. Il quadro affettivo legato alla propria immagine psichica risente sia dei connotati negativi risultanti dalla propria figura riflessa nello specchio, che del giudizio degli altri. Nell’affrontare un contesto sociale c’è dunque una inibizione determinata dalla coscienza di disporre di un corpo imperfetto. Queste sono le premesse fondamentali dinnanzi alle quali si trovano sia il disabile che vuole intraprendere l’attività sportiva, sia il tecnico che insieme a lui deve affrontare un percorso complesso e a volte difficile.

Si fonda tutto sull’integrazione di questi atleti e come ciò potrebbe modificare il proprio livello di empowerment. Si tratta, dunque, di capire se gli atleti con disabilità perdono il loro “potere” oppure riescono, attraverso l’integrazione, a diventare atleti qualificati. Un aspetto importante consiste nel saper fronteggiare sia gli aspetti tecnici della disciplina, sia le dinamiche che si sviluppano nella relazione.

In base a quanto espresso finora si può comprendere come il disabile rappresenti una sfida ancor più ardua per il tecnico che si trova a lavorare con lui. Infatti, nel caso della disabilità fisica si assiste ad una compromissione del piano corporeo/motorio e, conseguentemente, di quello emotivo, invece nel caso della disabilità mentale la compromissione investe anche il piano cognitivo. Ciò comporta una grande difficoltà, a seconda del grado di disabilità, rispetto alla capacità di percepire e pensare di se stessi e degli altri; elaborare i propri ed altrui stati emotivi; saper contenere i propri stati emotivi; comunicare con il mondo esterno; essere attenti; saper apprendere e memorizzare; essere motivati.

Per un disabile la pratica regolare dell’attività sportiva riveste i seguenti vantaggi:
– rispetto ad un piano cognitivo migliora la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità;
– rispetto ad un piano fisico, incrementa la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la cinestesia e la coordinazione motoria, grazie alle ripetizioni consapevoli e finalizzate degli atti motori;
– rispetto ad un piano sportivo, acquisisce le conoscenze tecniche delle varie discipline sportive.

La pratica sportiva produce uno stato di soddisfazione generale, favorisce la disciplina e l’allenamento che, di conseguenza, portano al contenimento degli stati emotivi incrementando la capacità di autocontrollo, in modo da avere la possibilità di aumentare la propria autonomia.

Nella metodologia d’insegnamento proposta, il tecnico deve tener conto delle tappe dello sviluppo psicofisico dell’allievo, in quanto la sua capacità di ricezione ed assimilazione di contenuti e proposte pratiche è strettamente correlata alla sua maturazione psicofisica. Secondo il principio dell’individualizzazione, si considerano le differenze individuali nei ritmi cinetici, nell’efficienza e nell’efficacia causate dal deficit motorio. Il tecnico deve saper apprendere e riconoscere questi diversi aspetti, poiché in base a questi sarà possibile una buona programmazione didattica. La funzione socio – educativa dell’attività motoria aiuta l’individuo a sviluppare al massimo le sue potenzialità, evidenziando ciò che egli è già in grado di fare.

L’individuo disabile, dunque, prima conoscerà se stesso, il suo corpo, in seguito sperimenterà la motricità altrui, imparando ad osservarla, interpretarla e riconoscendone il suo valore espressivo.

Lo sport capovolge la situazione in cui si trova il disabile, egli infatti si trova ad aumentare le proprie attività, ampliando il proprio volume di azione e allargando gli orizzonti fisici. L’allenamento rappresenta la chiave del successo e per la sua programmazione, la relazione tra l’allenatore e l’atleta gioca un ruolo decisivo.

Concludendo, si può constatare come il disabile, spesso per i suoi deficit cognitivi, presenti una difficoltà nell’elaborazione mentale dell’azione da compiere che a volte risulta rigida e poco adattiva. Sarà premura del tecnico fare in modo di riuscire ad evidenziare le potenzialità dell’atleta, mettendolo nelle condizioni più favorevoli per “vincere”.

La Competenza a Curare di Emilio Fava e del Gruppo Zoe (2016) – Recensione

Emilio Fava e il gruppo Zoe nel libro “La Competenza a Curare” riesaminano il campo della ricerca empirica in psicoterapia e poi mettono a disposizione un loro modello di psicoterapia empiricamente fondata.

Il contributo della ricerca secondo l’orientamento psicodinamico

L’orientamento di Fava è psicodinamico e fondato sulla  ricerca empirica, quella ricerca che ha dimostrato l’importanza soprattutto dei fattori comuni di tipo relazionale e che Fava e il suo gruppo declinano in termini psicodinamici, ovvero di transfert e controtransfert. Nel modello di Fava sono importanti poi le resistenze e al cosiddetta diagnosi psicodinamica dimensionale.

I capitoli iniziali del libro sono una rassegna completa dello stato della ricerca sui fattori terapeutici. Seguono i capitoli dedicati agli elementi del modello di Fava e del gruppo Zoe: resistenze, relazione, diagnosi psicodinamica.

Una parte molto ricca del libro è quella dedicata agli strumenti di ricerca messi a punto da Fava e coerenti con il suo modello: il metodo per la diagnosi psicodinamica operazionalizzata, detto OPD, e uno strumento di valutazione dell’indicazione alla psicoterapia, strumento chiamato APP.

L’esposizione del metodo di somministrazione e dei dati psicometrici di validità degli strumenti proposti è chiara ed esaustiva e questa è sicuramente la parte più interessante per chi volesse incrementare il proprio repertorio tecnico e strumentale. I capitoli finali sono dedicati alla formazione, alla supervisione e al rapporto tra psichiatria e psicoterapia.

Una buona lettura.

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione – Riccione, 2017

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione

Martina Torresi, Valentina Carloni, Federica Di Francesco, Marika Di Egidio, Fiammetta Monte, Michela Grandori, Tiziana Ciccioli, Chiara Caruso, Clarice Mezzaluna

Studi Cognitivi, Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, Milano, sede di San Benedetto del Tronto (AP)

Introduzione

Il trauma psicologico può produrre reazioni emotive e corporee importanti che non sempre il cervello riesce a elaborare.

La letteratura evidenzia un ruolo centrale della regolazione emotiva nello sviluppo del trauma: deficit in tal senso determinano maggior monitoraggio della minaccia, ridotte capacità di coping e risposte emotive più intense agli stressor traumatici (Bardeen et al., 2013).

Nel modello metacognitivo di Wells (Wells, 2012) la regolazione emotiva è una delle componenti principali del CAS, una serie di processi cognitivi disfunzionali che interferiscono con la reazione di adattamento e con il ripristino dei normali processi di elaborazione cognitiva (Mazloom et al., 2015).

L’obiettivo dello studio è quello di analizzare la relazione tra esposizione a eventi traumatici, disregolazione emotiva e funzionamento metacognitivo.

Ipotesi:

1) L’esposizione a eventi traumatici determina minori capacità di regolazione emotiva.

2) L’esposizione a eventi traumatici determina un peggior funzionamento delle funzioni metacognitive.

3) La disregolazione emotiva media la relazione tra esposizione a eventi traumatici e funzionamento metacognitivo.

Il dilemma del trolley: il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Daniela Pulsinelli e Francesco Mancini (1)
Università Marconi, Roma.

 

Il dilemma del trolley: Not play God o scelta umanitaria?

Il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato il Dilemma del Trolley (Edmond, 2014).

Il Dilemma del Trolley è un paradigma sperimentale utile per studiare come le differenze tra individui e tra condizioni influenzino le scelte morali. Ne esistono diverse versioni. In quella basica si chiede ai soggetti di immaginare un vagone che procede completamente fuori controllo lungo un binario sul quale sono bloccate cinque persone che, inevitabilmente, saranno travolte e uccise. Ai soggetti, poi, è chiesto se muoverebbero la leva di uno scambio, deviando così il treno su un binario dove, però, si trova una persona che sicuramente non avrà scampo.

Questo dilemma è particolarmente interessante ai nostri fini perché contrappone un principio umanitario/altruistico al principio deontologico basico che è il Not Play God, o per i laici Not Tamper with Nature. Per il primo una scelta è moralmente buona se implica conseguenze buone per la maggior parte delle altre persone. Il Not Play God è una norma intuitiva secondo la quale, invece, nessuno ha il diritto di mettersi nei panni di Dio e nessuno, dunque, ha l’autorevolezza per modificare quello che appare il corso naturale degli eventi, vale a dire ciò che Dio, la Natura o il Destino hanno deciso.

La decisione di muovere lo scambio, e dunque di salvare cinque vite al costo della perdita di una sola persona, è dettata dal rispetto del principio umanitario mentre la scelta opposta è dettata dal principio Not Play God. Questa scelta, contrariamente alla prima, comporta non prendersi la responsabilità di un’azione che interferisca con l’ordine naturale, lasciando dunque al destino la decisione di lasciar morire cinque persone piuttosto che una sola.

 

Appartenenza al rango elevato: rende liberi dal Not play God?

Il peso morale del Not Play God influenza l’omission bias, vale a dire la tendenza a giudicare le omissioni moralmente meno gravi delle azioni, a condizione, ovviamente, che azioni e omissioni siano equivalenti per valore dell’esito, per la consapevolezza delle conseguenze e per l’intenzionalità dell’agente. Le omissioni, al contrario delle azioni, non interferiscono con l’ordine naturale e dunque non violano il principio Not Play God e di conseguenza sono moralmente meno reprensibili.

Tuttavia da alcune ricerche (Haidt & Baron, 1996) risulta che il peso morale del Not Play God diminuisce, se si giudica un individuo al quale si riconosce autorità e autorevolezza. Il comandante di una nave risponde tanto delle omissioni quanto delle azioni. Essendo “secondo solo a Dio”, gli si riconosce il diritto-dovere di utilizzare margini decisionali più ampi di quelli riservati alle persone comuni e dunque le sue omissioni sono meno scusate. Ma chi ricopre il ruolo di comandante è influenzato anche nelle proprie scelte e nei giudizi su di sè? Cioè si sente lui stesso meno legato dal rispetto del Not Play God? Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato la versione basica del dilemma del trolley. L’ipotesi era che chi si identificava in un ruolo di autorità sarebbe stato meno condizionato dal rispetto del Not Play God e dunque avrebbe mosso lo scambio, più di quanto avrebbe fatto chi si identificava in un ruolo non di autorità ma di persona qualunque. Con l’aumentare del rango, e dunque del grado di autorità auto-attribuita, l’individuo si sente meno vincolato dal principio Not Play God, e pertanto, meno propenso alle omissioni.

Per mettere alla prova la nostra ipotesi abbiamo realizzato tre varianti del dilemma del trolley, in cui i soggetti si immaginavano in una emergenza, dove dovevano decidere se lasciare tre persone al loro tragico destino o se, invece, cambiare gli eventi in corso, direzionando il pericolo mortale verso altre due persone. La questione, in sintesi, era: è giusto prendersi la responsabilità di interferire con il destino per salvare tre persone e farne morire due (2)? Al campione di controllo era chiesto di immaginarsi come dei passanti che si trovavano casualmente nella situazione di emergenza. Al campione sperimentale era chiesto di immaginarsi in un ruolo di autorità rilevante nel contesto in cui si stava svolgendo la tragedia. Il capostazione nel contesto ferroviario in cui occorreva scegliere se deviare o meno un treno da tre verso due persone, il comandante dei vigili del fuoco nella condizione in cui era divampato un incendio, o ancora il direttore di un ospedale nel caso di una fuga di gas in una struttura sanitaria. Al campione sperimentale era sottolineato che erano gli unici responsabili in grado di poter decidere come agire in tale condizione.

In sostanziale accordo con l’ipotesi, il gruppo sperimentale (ruolo di autorità) sceglieva le omissioni meno del gruppo di controllo (passanti). Nel gruppo autorità si riscontravano inoltre meno omissioni nel dilemma 2 rispetto ai dilemmi 1 e 3. Tale risultato è spiegabile dal diverso ruolo di autorità percepita nei tre dilemmi. In altre parole, al comandante dei vigili del fuoco potrebbe essere riconosciuta una autorità maggiore del capostazione e del dirigente di un ospedale, per lo meno rispetto alla gestione della emergenza descritta nelle vignette sperimentali.

Per questo motivo, probabilmente, si osservano maggiori scelte d’azione nelle vesti del comandante dei vigili del fuoco. In conclusione, sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Note:

  1. La ricerca alla quale si fa riferimento è nella tesi triennale in Scienza della Formazione e Tecniche Psicologiche che Daniela Pulsinelli ha svolto presso la Università Marconi, relatore prof. Francesco Mancini: “La responsabilità di ruolo nei dilemmi morali”.
  2. Abbiamo utilizzato la proporzione tre verso due e non quella tradizionale, cinque verso uno, per evitare un effetto soglia.

I sogni e la psicoterapia cognitivo comportamentale

Inizialmente la psicoterapia cognitivo-comportamentale prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello. Oggi invece la ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico.

Cristina Ferrari – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Nella storia della psicologia si è molto parlato di sogni e del loro significato, e questo non solo nell’ambito psicoanalitico. Ovviamente colui che diede particolare interesse al tema fu chiaramente Freud: chi non ha mai sentito parlare dell’Interpretazione dei sogni?!

Infatti è noto come per la psicoanalisi il sogno fosse la via che portava alla lettura dell’inconscio dei pazienti, oltre alla convinzione che i sogni son desideri (come cantava anche Cenerentola… ma questa è un’altra storia).

Freud infatti parla di una doppia funzione dei sogni (Freud, 1953): da una parte è espressione di desideri inconsci del paziente, che vengono repressi perché spesso dal contenuto sessuale e amorale, dall’altra il sogno ha una funzione protettiva per il sognatore. Infatti, visto il contenuto poco morale dei desideri inconsci, il sogno rende accettabile il significato, mostrando solo parzialmente la sua espressione.

Ma non solo la psicoanalisi si è occupata dello studio e dell’analisi dei contenuti onirici: infatti, dall’altra parte, troviamo studi della neuropsicologia che cercano di dare una risposta scientifica al fenomeno onirico. Infatti le prime teorie neuropsicologiche parlano dei sogni come prodotti fisiologici, senza significati intrinsechi: si parla di scariche casuali di alcune aree del tronco encefalico che attivano a loro volta aree della corteccia producendo così immagini o emozioni (Bear et al., 2007).

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale e i sogni: seguire la psicoanalisi o la tesi neuropsicologica?

Ovviamente qui ho esposto brevemente quelle che sono le due teorie psicologiche più estreme che troviamo su un continuum di teorie e studi che sono stati elaborati sul tema. Proprio grazie a questi studi l’utilizzo dei sogni in psicoterapia è cambiato nel corso degli anni: sopratutto per quanto riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Infatti inizialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale era molto condizionata dalla poca scientificità dell’utilizzo dei sogni come ne parlava Freud, una grossa parte dei terapeuti cognitivo-comportamentali prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello, dovuto alla sua costante attività (Hill, 1996).

Con il tempo parte del mondo cognitivo sentiva però la necessità di studiare maggiormente il fenomeno, nonostante la difficoltà di dover studiare un oggetto che non potesse essere replicato nel tempo: infatti il significato che si attribuisce al sogno ha proprio la caratteristica di essere strettamente personale. Negli anni però, l’importanza che le persone danno ai propri sogni e all’impatto emotivo che spesso hanno sulla veglia, ha portato i cognitivisti a buttarsi nello studio più specifico di questo fenomeno. Già Beck propose diversi studi per poter valutare il legame tra lo stato depressivo dei pazienti e il contenuto dei loro sogni (Beck, 1971): difatti Beck ipotizzò come il sogno potesse essere un indicatore del cambiamento emotivo del paziente durante un episodio depressivo (Beck e Hurvich, 1959; Beck e Ward, 1961), ricollegandosi così a come i sogni potessero riflettere l’idea che il paziente ha di sé, del mondo e del suo futuro. Nonostante le teorie elaborate da Beck tra gli anni ’60/’70, la psicoterapia cognitivo-comportamentale non fa grande uso del materiale onirico nei trattamenti fino agli anni 2000.

 

I sogni nella psicoterapia costruttivista

I primi, negli anni 2000, a interessarsi al campo onirico sono stati i costruttivisti, infatti molto importante è nel mondo costruttivista la narrativa del paziente, quindi la capacità di narrarsi per poter trovare la costruzione di significato: per questo uno strumento come il sogno potrebbe essere utilizzabile come materiale narrativo di tipo emozionale (Rezzonico & Liccione, 2004).

Come esposto dal dottor Bara durante il congresso SITCC 2014 il mondo costruttivista propone una modalità di lavoro sul materiale onirico basandosi sull’ipotesi che i sogni siano determinati da emozioni attive. Infatti lo scopo delle nuove tecniche costruttiviste in questo campo sarebbero rivolte non alla narrazione della trama del sogno, ma al recupero consapevole dello stato onirico, cioè alla conoscenza del vissuto emozionale nel presente.

L’approccio costruttivista al lavoro onirico segue alcune linee guida introdotte da Rezzonico, con l’obiettivo generale di utilizzare i sogni per poter far emergere alcuni significati personali al fine di raggiungere una maggiore consapevolezza da parte del paziente. Per poter giungere a questo obiettivo il sogno può essere utilizzato in qualsiasi momento della terapia, senza uno schema o un input preciso: i sogni potranno essere introdotti dal paziente come dal terapeuta. Nella prospettiva costruttivista il significato del sogno consiste in un lavoro di co-costruzione tra paziente e terapeuta: sarà il paziente a scegliere il livello di analisi del sogno, il terapeuta cercherà di porre attenzione alle emozioni riportate e alle possibili discrepanze emotive tra ciò che il paziente ha sognato e l’emozione provata durante l’attività onirica. Infine sarà il paziente a riconoscere la validità del significato di quel sogno.

 

I sogni in psicoterapia secondo la prospettiva razionalista

Nel mondo cognitivista troviamo però anche un altro approccio all’utilizzo dei sogni in terapia che si distingue dall’approccio costruttivista: la prospettiva razionalista.

Nonostante alcune caratteristiche comuni dei due approcci, come l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali alla base della scoperta del sogno, ci sono molti punti di lavoro differenti tra loro.

L’obiettivo del lavoro onirico nella prospettiva razionalista è quello di trovare distorsioni cognitive che ci possono essere in comune tra il sogno e la veglia, al fine di poter agevolare una ristrutturazione cognitiva. In questo caso però i sogni vengono utilizzati solo se portati dal paziente, quindi non viene proposto direttamente dal terapeuta a meno che la terapia si trovi in un momento di stallo. Nel momento in cui si fa riferimento a contenuti onirici durante il lavoro terapeutico sarà il terapeuta a guidare il paziente per poter costruire il significato del sogno.

É importante quindi notare come le due prospettive, nonostante una base comune, abbiano obiettivi e strategie molto diverse nell’utilizzo del materiale onirico in terapia.

 

Psicoterapia cognitivo-comportamentale e analisi dei sogni: il modello DMR

Oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico, tra i più noti citiamo il modello di Freeman e White, il modello di Clara Hill e infine il modello DMR di Jacques Montangero.

In particolare illustreremo quest’ultimo modello, che è anche il più recente. Il modello DMR (Description, Memory sources and Reformulation), secondo l’autore, è particolarmente sistematico al fine di produrre diverso materiale onirico per portare il paziente alla sua interpretazione del sogno. Il processo è diviso in tre differenti fasi (Montangero, 2009):

  • Description

Durante la prima fase viene chiesto al paziente di immergersi nel racconto del sogno, al fine di ritrovare fonti e significati. Questo è possibile farlo anche attraverso tecniche della psicoterapia cognitivo-comportamentale come l’ABC. Il racconto del sogno permette al paziente la condivisione con il terapeuta dell’esperienza. Quest’ultimo prende nota della descrizione assegnando un numero ad ogni evento o cambiamento presente nel sogno. È importante che il paziente riesca a descrivere ciò che è stato visto, sentito o provato in ogni evento numerato.

  • Memory Sources

Nella seconda fase il terapeuta accompagna il paziente alla ricerca di memorie autobiografiche che possono essere collegate agli eventi avvenuti nel sogno. Quindi il terapeuta chiederà: quali memorie può associare a questo elemento del sogno? Cercando di seguire sempre lo schema numerato degli eventi fatto in fase uno. È importante inoltre chiedere al paziente che valore attribuisce al ricordo e il grado di piacevolezza legato ad esso.

  • Reformulation

L’obiettivo dell’ultima fase sarà quello di far ridescrivere il contenuto del sogno al paziente, non come un evento specifico e concreto, ma ricollegando i significati più ampi e generali, trovati in fase II. Questo passaggio permette di far emergere le preoccupazioni e gli obiettivi del paziente.

I terapisti che vogliono usare questo metodo possono già riferire al paziente a inizio terapia che potrebbe essere utile riportare in terapia contenuti dei sogni così come episodi di vita come materiale per le sedute. Infatti la ricostruzione dei significati dei sogni non deve essere l’obiettivo terapeutico, ma può essere uno strumento per poter aiutare il paziente a ricostruire i propri schemi, non solo attraverso eventi reali.

Quindi in psicoterapia cognitivo-comportamentale l’utilizzo dei sogni è possibile all’interno di alcune modalità guidate, al fine di far riconoscere al paziente la propria modalità di funzionamento, utilizzando diversi materiali, e infine può aiutare il terapeuta nel processo di riconoscimento delle distorsioni cognitive e quindi per la loro ristrutturazione cognitiva.

Gli aspetti psicologici connessi all’attività sportiva

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo. Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio. Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Elena Fiabane, Gloria Tosi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Lo stress e l’approccio cognitivo

Nella quotidianità e nella società attuale si parla molto di stress, generalmente con un’accezione negativa, in termini di senso di tensione, ansia, preoccupazione, senso di malessere diffuso, associati a conseguenze negative per l’organismo e per lo stato emotivo e mentale dell’individuo. Lo stress, quindi, sarebbe visto come qualcosa di negativo da eliminare totalmente. In realtà, già negli anni ’40, uno dei massimi studiosi del fenomeno, Hans Selye, diceva che senza stress c’è la morte. Cosa intendeva dire l’esperto con quella frase?

Lo stress è una sollecitazione che ci proviene dall’ambiente esterno, una richiesta da parte dell’ambiente volta all’attivazione delle risorse del nostro organismo. Non tutte le sollecitazioni esterne sono nocive e vanno eliminate. Pensiamo ad un esame universitario da affrontare: si tratta di una richiesta da parte dell’ambiente che implica una percezione di stress e di attivazione dell’organismo; tale sollecitazione risulta però molto utile perché permette all’individuo di mobilitare le risorse e le capacità individuali, di impegnarsi al fine di raggiungere un obiettivo importante per la crescita individuale e di aumentare il senso di autoefficacia.

Probabilmente, se non si percepisse alcun tipo di stress, non ci si impegnerebbe allo stesso modo e anche la sensazione di benessere correlata al raggiungimento dei propri obiettivi non sarebbe significativa e gratificante. Dunque, lo stress “buono”, definito “eustress”, è importante per la vita di ciascun individuo e non deve essere eliminato in quanto favorisce lo sviluppo e la crescita personali. I risultati delle ricerche mostrano, infatti, che le persone che hanno sperimentato precocemente situazioni di stress, da adulti si adattano meglio e più facilmente a contesti e situazioni nuove e stressanti. Affrontare situazioni di stress sembra favorire la costruzione di maggiori risorse psicologiche, permettendo di affrontare lo stress in maniera più efficace.

Quindi, quando lo stress non è più utile ma diventa nocivo per la salute, l’individuo ritiene di non possedere le risorse e/o capacità sufficienti per fronteggiare l’evento stressante; in altri termini, la persona percepisce una discrepanza tra le richieste dell’ambiente e le risorse individuali.

I primi approcci teorici consideravano lo stress come la risposta biologica aspecifica del corpo a qualsiasi richiesta ambientale e gli stressor erano i vari tipi di stimoli agenti che suscitavano tale reazione. La risposta biologica del corpo, aspecifica, detta anche sindrome generale di adattamento, si compone di tre fasi distinte: fase di allarme (attivazione del sistema nervoso simpatico con mobilitazione delle energie difensive, innalzamento della frequenza, della pressione cardiaca, della tensione muscolare, diminuzione della secrezione salivare, aumento liberazione di cortisolo); fase di resistenza (l’organismo tenta di adattarsi alla situazione e gli indici fisiologici tendono a normalizzarsi, anche se lo sforzo per raggiungere l’equilibrio è intenso); fase di esaurimento (se la condizione stressante si prolunga, oppure risulta troppo intensa, si entra in una fase di esaurimento in cui l’organismo non riesce più a difendersi e la naturale capacità di adattarsi viene a mancare).

Gli studi più recenti hanno invece riconosciuto il ruolo chiave dell’interpretazione cognitiva e della percezione soggettiva quali fattori in grado di influenzare l’esperienza e la conseguente gestione dello stress.

Nell’approccio cognitivo, Lazarus e Folkman (1987) descrivono invece lo stress come frutto degli stimoli dell’ambiente sulla persona, in cui la percezione che il soggetto ha della richiesta ambientale e delle proprie risorse per farvi fronte è la variabile di mediazione critica.
In effetti, ciò è quanto solitamente accade a tutte le persone nella vita di tutti i giorni, e la risposta di ogni individuo è singolare e specifica, in base alle caratteristiche dello stressor e, soprattutto, del soggetto stesso.

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo.
Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio.
Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Le fonti di stress nello sport

Janke (1976) individua 5 categorie di stressor relativi all’ambito sportivo:
1. Stressor esterni: legati all’ambiente (es. sport acquatici; sport in ambienti estremi); alla deprivazione sensoriale (es. cuffie nel tiro a volo); al rischio di infortuni (nella ginnastica artistica ad esempio, nell’esecuzione corretta degli esercizi);
2. Stressor dovuti alla deprivazione dei bisogni primari (es. fuso orario può disturbare il sonno; condizioni climatiche non ottimali);
3. Stressor da prestazione: eccessiva pressione fisica e psichica; eccessiva monotonia e ripetitività degli allenamenti; gli insuccessi;
4. Stressor sociali: i conflitti (es con gli allenatori, i compagni, i genitori, altre figure di riferimento o con la scuola); l’isolamento sociale (es. continui viaggi, molti impegni possono portare a trascurare gli affetti);
5. Altri stressor: processi decisionali difficili; incertezze sul proprio futuro agonistico, etc.

Una delle risposte psicologiche suscitata dalla maggior parte degli stressor è l’ansia.
Molte delle modalità di fronteggiamento dello stress sono mirate proprio a ridurre l’ansia che può essere tanto intensa da divenire a sua volta una fonte di stress.
L’ansia non è altro che la reazione psicologica di paura verso eventi percepiti come stressanti e minacciosi. Tale meccanismo fa parte di una particolare risposta automatica ai pericoli fisici, la cosiddetta risposta di “attacco o fuga”, presente in tutti gli animali.
Questa risposta determina modificazioni fisiologiche in modo da preparare l’animale a poter fuggire dal pericolo o a lottare contro di esso.

Ecco le principali modificazioni fisiologiche scatenate dalla risposta di attacco o fuga:
– La mente diventa vigile
– La frequenta cardiaca aumenta
– Il ritmo del respiro aumenta per fornire più ossigeno al sangue
– Aumenta la sudorazione per evitare il surriscaldamento del corpo
– I muscoli si tendono, pronti all’azione
– La digestione si “ferma” e può dar luogo ad una sensazione di nausea o di “nodo allo stomaco”
– La salivazione diminuisce e la bocca si secca
– Il fegato libera lo zucchero per fornire velocemente più energia.

Queste modificazioni sono causate dal rilascio nel sangue di diversi ormoni, il più importante dei quali è l’adrenalina.
Di per sé, la risposta di attacco o fuga si sviluppa immediatamente dopo che si è recepito un pericolo ed è di breve durata, perché non appena il pericolo cessa gli ormoni rilasciati sono rapidamente metabolizzati (distrutti).
Pensiamo, ad esempio, a che cosa succede quando ci si salva in una situazione di grave pericolo, ad esempio in un incidente di macchina. Che cosa è successo quando si realizza che si è salvi? Probabilmente si continua a tremare per qualche minuto, ma poi tutto torna normale.

La risposta di attacco fuga può essere istintiva, ad esempio negli esseri umani sono istintive le paure per i serpenti e per i luoghi alti. Ma gli animali, compreso ovviamente l’uomo, possono anche imparare ad avere paura di altre situazioni che vengono collegate alla percezione di una minaccia e al sentirsi ansiosi. Per gli uomini non tutti i pericoli sono di tipo fisico.
Possiamo sentirci in ansia anche se temiamo di subire una perdita grave, o meglio grave per noi.

Non ha importanza quanto il pericolo sia obiettivamente reale e grave, conta la percezione soggettiva della probabilità dell’evento temuto e della gravità delle sue conseguenze.
Si parla di disturbo d’ansia quando la risposta di attacco o fuga viene scatenata regolarmente da stimoli o situazioni poco pericolose e che non rappresentano certo una minaccia per la sopravvivenza. La risposta di attacco o fuga è una risposta automatica alla percezione di una grave minaccia e non può essere modificata. Si può invece modificare il modo di interpretare situazioni ed eventi.

L’allenamento della mente

L’Aspetto psicologico è determinante per un atleta, perché chi si mette in gioco è prima di tutto la persona. Giocano un ruolo fondamentale diversi elementi, quali motivazione, autostima, emozioni come ansia da prestazione, stress e tecniche di gestione (mental training, controllo arousal, self talk, goal setting, imagery…).

Gli obiettivi principali del mental training possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
– il potenziamento delle proprie competenze
– la conoscenza ed il superamento dei propri limiti
– un’ottimale gestione dell’ansia e dello stress legati alla gara
– un approccio positivo agli allenamenti
– una efficace comunicazione con l’allenatore, con se stessi e con il proprio corpo.

Nelle attività sportive e motorie l’allenamento è il fulcro per il raggiungimento di ogni target che ci si prefigga, e spesso all’allenamento si associa solo l’attività fisica ripetuta con regolarità, costanza e metodo. Ma lo sport non è solo il rendimento del corpo, anzi, si raggiunge la prestazione massimale solo quando mente e corpo sono coordinati, sono tutt’uno. È necessario che essi vadano di pari passo in un percorso di miglioramento della performance. Se, infatti, è vero che ogni sport ed attività fisica richiedono un corpo che funzioni al meglio e che sia abituato (allenato) a rispondere in maniera adeguata agli stimoli, è anche vero che ogni sport e ogni attività motoria richiedono spiccate capacità di concentrarsi, di gestire le proprie emozioni, di evitare le distrazioni, di tollerare la frustrazione e l’ansia, di riprendersi da una sconfitta e di saper gestire il momento decisivo.

Attraverso lo sport, lo sportivo riesce a potenziare alcune aree fondamentali che hanno un impatto positivo e migliorativo sulla performance. Alcune di esse riguardano:
– Fattori cognitivi:
Capacità di concentrazione e attenzione;
Autoconsapevolezza del proprio corpo e dei pensieri.
– Fattori fisiologici:
Livello di attivazione fisiologica;
Coping;
Gestione dell’ansia e dello stress attraverso tecniche di rilassamento;
Recupero dell’infortunio;
– Fattori personali interni:
Autostima;
Autoefficacia;
Motivazione.

Tecniche di gestione dello stress e dell’ansia

Gli strumenti principali utilizzati per gestire lo stress e le emozioni in maniera più funzionale sono riconducibili principalmente alle strategie cognitivo-comportamentali, tra le quali le più usate sono il goal setting, le tecniche di imagery e self-talk, le metodiche di autoregolazione dell’arousal, l’allenamento della concentrazione e gestione dello stress.

Queste tecniche impostano un vero e proprio programma di allenamento della mente dell’atleta, che impara progressivamente a conoscere se stesso, a gestire ed ottimizzare le proprie abilità e caratteristiche. In questo senso si definiscono il mental training e lo sport coaching, che rappresentano un vero e proprio allenamento mentale che aiuta l’atleta a potenziare le proprie capacità, nell’assoluto rispetto dell’integrità fisica. È importante tuttavia lavorare non solo per sfruttare al meglio i punti di forza, ma soprattutto per individuare i propri limiti.

Le strategie cognitivo comportamentali sviluppate negli anni ’70 e tuttora pienamente utilizzate, mirano a far acquisire all’atleta le abilità di controllare e comprendere i propri processi mentali ed emotivi, partendo dal presupposto che la gestione o modifica dei processi cognitivi e degli stati emotivi negativi può contribuire al miglioramento della performance. Per realizzare i suoi obiettivi il Mental Training interviene sulle funzioni psicologiche determinanti la pratica motoria basandosi sull’elenco delle abilità mentali di base individuate da Martens, nel 1988:

  • Goal setting (formulazione degli obiettivi): molte volte gli insuccessi degli atleti sono dovuti ad una inadeguata scala degli obiettivi da perseguire durante il periodo di allenamento, e questa scarsa capacità di pianificare specifici standard di abilità da raggiungere in un compito può compromettere l’esito della stagione agonistica. Il Mental training aiuta lo sportivo a scomporre i grandi obiettivi in sub-obiettivi a breve, medio e lungo termine, sufficientemente difficili (e quindi allenanti) ma raggiungibili, mirati al miglioramento graduale della prestazione più che al risultato (spesso imprevedibile).
  • Imagery (capacità di creare e controllare immagini mentali): gli atleti vengono progressivamente allenati alla rappresentazione mentale della propria performance, aiutandosi con stimoli immaginativi che coinvolgono tutti i sensi e favorendo in questo modo un coinvolgimento emotivo e cognitivo. La tecnica dell’imagery preceduta sempre da una breve seduta di rilassamento viene anche utilizzata prima della gara come momento di concentrazione e di visualizzazione del percorso.
  • Self-talk (monologo interiore): formulare obiettivi e inserirli in un dialogo con se stessi che escluda l’intervento di pensieri intrusivi e distraenti.
  • Controllo dell’Arousal (controllo dell’attivazione): con il termine arousal in psicofisiologia è indicata l‘intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale dell’organismo. Quando il nostro corpo deve effettuare una prestazione deve attivarsi, cioè mettere in moto una serie di processi caratteristici dello stato di arousal quali l’aumento della vigilanza e dell’attenzione, l’attività dei muscoli che si preparano allo sforzo ed il cuore e i polmoni che si preparano al dispendio di energia. È di fondamentale importanza per un atleta saper raggiungere e mantenere il livello ottimale di attivazione psicofisiologica richiesto dalla performance, allenandosi con delle semplici tecniche di attivazione o disattivazione secondo le esigenze.
  • Abilità attentive (anticipazione e concentrazione): con il termine attenzione si fa riferimento a diverse componenti del funzionamento cognitivo. Tra queste alcune maggiormente coinvolte e determinanti per la performance dell’atleta sono: capacità di anticipazione, capacità di elaborazione dei dati da parte del sistema nervoso, capacità di filtrare le informazioni per trattenere solo quelle rilevanti, capacità di gestire le emozioni, capacità di dirigere l’attenzione all’interno ed all’esterno di sé. In sintesi la concentrazione è la capacità di focalizzare l’attenzione su un compito per un determinato periodo di tempo, senza che essa venga distolta da fattori distraenti interni (ad esempio pensieri negativi) o esterni (il rumore della folla). In questo caso si parla di Focusing. Parlando di attenzione non può essere tralasciato il concetto di “preparazione all’azione” (Holender, 1980) ben distinto dalla concentrazione. Il concetto di anticipazione e gli studi che lo hanno riguardato sostengono che lo scopo di un’azione determina la struttura dell’atto motorio. Qualunque azione motoria è anticipata dalla preparazione cognitiva. Questa competenza anticipatoria è una delle tante capacità che fanno parte dello stile attentivo di una persona.
  • Gestione dello stress (gestione delle emozioni sotto stress): lo stato di stress si verifica quando l’atleta percepisce una discrepanza tra la richiesta ambientale (sfida) e le risorse che egli percepisce di avere a disposizione per affrontare la sfida (livello di abilità) ovvero, quanto la persona si ritiene capace di…; quando le risorse non sembrano bastare l’atleta metterà in gioco strategie di coping non adeguate che non gli permetteranno di superare la sfida. Anche l’allenatore può essere sottoposto a stress ed essere ipo o iper attivato come i suoi atleti; si renderà quindi necessario adottare strategie per abbassare o incrementare il livello di attivazione (o arousal) per permettere un’analisi coerente e veritiera delle richieste stressanti e delle competenze in possesso degli sportivi.
  • Fra le tecniche di gestione dello stress annoveriamo lo Stress Inoculation Training, la desensibilizzazione sistematica e la ristrutturazione cognitiva che si occupa di individuare e correggere le distorsioni del pensiero che sono la causa di emozioni disfunzionali.
  • Rilassamento: le tecniche di rilassamento come il Training Autogeno o il Rilassamento Progressivo di Jacobson, vengono utilizzate per prendere consapevolezza della tensione muscolare a riposo e in attività, per gestire situazioni ansiogene o stressanti, sono preparatorie a qualsiasi attività immaginativa e rappresentano già esse stesse un primo passaggio di allenamento delle competenze attentive. Inoltre nello specifico la tecnica del training autogeno ha il potenziale di funzionare come metafora che permette di sperimentare quanto una giusta focalizzazione sulla performance aiuti ad ottenere il risultato che ci si prefigge.

Quando usare il mental training?

L’allenamento mentale di un atleta è quindi una componente essenziale dell’allenamento sportivo. Senza dubbio si può affermare che un atleta che alleni solo la parte fisica delle sue competenze di performance raggiungerà risultati parziali.
Questo il presupposto che fa del mental training un pilastro irrinunciabile dell’allenamento motorio dell’atleta che vuole realmente migliorare la sua performance.
Esiste una casistica che evidenzia come al mental training si rivolgano di solito allenatori di un club o di una squadra, lo staff dirigenziale o il singolo atleta.

Le motivazioni più frequenti per cui è richiesto sono relative ad una posizione in classifica non soddisfacente, difficoltà di attenzione e concentrazione, alla riabilitazione psicofisica del disabile, a rilevanti e controproducenti sintomi riconducibili ad ansia e stress, a problemi di relazione con l’allenatore, o di burn out, di depressione o sintomi psicosomatici dell’atleta, alla vigilia di un importante avvenimento sportivo o ad un semplice desiderio di completare l’allenamento fisico con l’allenamento mentale.

Il compito del mental training in tutti questi casi è sostenere l’individuo e il gruppo nella gestione delle richieste situazionali dello sport, aiutandolo a fronteggiare i problemi sfruttando il proprio bagaglio di conoscenze che possono contribuire al miglioramento della performance e della promozione del benessere della persona, in una visione integrata di essa.

La gestione dell’ansia pre-agonistica

La prevenzione ed il trattamento dell’ansia costituiscono uno dei principali problemi e dei maggiori obiettivi della psicologia dello sport. L’ansia preagonistica è legata all’imminenza di una competizione particolarmente impegnativa e temuta.

Un pensiero negativo e quindi disfunzionale alla prestazione è dato dal seguente rapporto:

Probabilità percepita della minaccia x Gravità e costi percepiti della minaccia
___________________________________________________________
Capacità percepita di fronteggiare il pericolo x Capacità percepita di tollerare

(Equazione dell’ansia, Beck Emery & Greenberg, 1985).

Le tecniche di gestione dell’ansia pre-agonistica maggiormente usate sono, ad esempio, il rilassamento e la desensibilizzazione sistematica, da apprendere sotto la guida dello psicologo e poi da esercitare autonomamente e regolarmente.

Il senso di autoefficacia e lo sport

Per senso di autoefficacia si intende “la percezione e l’insieme delle convinzioni e aspettative riferite alle proprie capacità di organizzare e realizzare azioni necessarie alla gestione delle situazioni in un particolare contesto” (Bandura, 1977).

Le aspettative di auto-efficacia determinano in quale misura e per quanto tempo gli sforzi saranno mantenuti indipendentemente dagli ostacoli e dalle esperienze negative.

In generale un individuo mantiene il suo impegno in una attività nuova (e difficile) se ha fiducia nella sua capacità di condurla a termine in modo positivo e se è motivato a raggiungere un determinato obiettivo. Quindi in termini operativi essa è la fiducia che una persona ripone nelle proprie capacità di affrontare un compito specifico (Bandura, 1986). È il giudizio che ogni persona possiede circa le proprie capacità personali di agire.

Essa rappresenta una dimensione della personalità davvero fondamentale. Tant’è vero che vengono utilizzate scale cliniche, questionari e interviste qualitative che mirano ad indagare questo item, per poi mettere in atto training di potenziamento veri e propri tarati sulla persona, ad hoc, tenendo conto dei limiti e delle potenzialità.

Lo studio dell’auto-efficacia nello sport è centrale poiché consente di:
– Comprendere alcuni processi cognitivi legati allo sviluppo di attività sportive e atletiche
– Conoscere e migliorare metodi di apprendimento motorio
– Comprendere il contributo del senso di auto-efficacia sull’acquisizione di abilità motorie
– Analizzare alcuni processi cognitivi che regolano la prestazione atletica
– Importanza dell’auto efficacia nella scelta degli obiettivi (goal setting)
– Ruolo nella gestione dello stress e dell’ansia connessi alle competizioni.

Conclusioni

Il mental training viene utilizzato come percorso che favorisce, a tutte quelle persone che ne sentano il bisogno, il raggiungimento di benessere fisico, psichico ed emotivo riscoprendo un contatto nuovo con se stessi. La figura dello psicologo interviene con le proprie metodologie, i propri strumenti, aiutando l’atleta ad allenare le diverse funzioni, i processi, ed opera sulle conseguenze mentali dello sport svolto in contesti competitivi, educativi, ricreativi, preventivi o riabilitativi. Con l’obiettivo di migliorare la strada verso il conseguimento del benessere e della salute, e favorire così l’incremento della prestazione sportiva.

“..prendere coscienza dei meccanismi mentali che ci tengono prigionieri facendoci ostinare a seguire chimere impossibili – essenzialmente, avere sempre pensieri ed emozioni positive e mai negativi – e a recuperare la nostra libertà di scegliere e di agire come riteniamo meglio per noi! Sviluppando cosi la flessibilità psicologica che consente di superare i momenti critici e di vivere pienamente il presente muovendosi nella direzione tracciata dai propri valori” (tratto da Trappola della felicità, di Russ Harris).

 

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