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Dissociazione

Con la dissociazione si crea un'assenza di connessione nel pensiero, nella memoria e nel senso di identità di una persona

Sezione a cura di Marina Morgese

Aggiornato il 20 set. 2023

Introduzione

La dissociazione in psicopatologia è un termine che indica sia la categoria diagnostica dei disturbi dissociativi sia i sintomi dissociativi della coscienza sia alcuni processi psicopatogenetici causati da esperienze traumatiche che interferiscono con l’integrazione delle funzioni psichiche.

Cosa si intende con Dissociazione

La dissociazione è un termine utilizzato per descrivere la disconnessione tra alcuni processi psichici rispetto al restante sistema psicologico dell’individuo. Con la dissociazione si crea un’assenza di connessione nel pensiero, nella memoria e nel senso di identità di una persona.

E’ facile nella vita quotidiana vivere momenti di dissociazione: l’esempio più classico è il dimenticarsi di essere alla guida poiché assorti in altri pensieri o anche leggere un brano senza però prestare effettivamente attenzione a quanto scritto.

Queste esperienze dimostrano la capacità dell’individuo di lasciarsi coinvolgere dalle proprie fantasie e di poter poi riprendere il controllo delle proprie funzioni mentali. In questi casi, la realtà dalla quale ci allontaniamo non è percepita da noi come minacciosa e gli episodi in cui ci dissociamo restano transitori.

La dissociazione è dunque un processo di dis-integrazione, la mente viene a perdere la sua capacità di integrare alcune funzioni superiori, e svariate osservazioni cliniche stabiliscono un legame causa-effetto tra trauma e dissociazione (Dutra et al., 2009). Tale rapporto sembrerebbe essere non lineare: la dissociazione non è una difesa dal dolore del trauma, essa si configura piuttosto come una disintegrazione di coscienza e intersoggettività. La dissociazione compromette le relazioni interpersonali e causa una deficitaria capacità di regolare le emozioni in caso di stress, uno sviluppo difettoso e una carente mentalizzazione (Liotti & Farina, 2011)

La dissociazione in psicopatologia è un termine che indica sia la categoria diagnostica dei disturbi dissociativi sia i sintomi dissociativi della coscienza sia alcuni processi psicopatogenetici causati da esperienze traumatiche che interferiscono con l’integrazione delle funzioni psichiche. I processi patogenetici dissociativi generano sintomi dissociativi che a loro volta possono dominare alcuni quadri clinici come i Disturbi Dissociativi oppure possono presentarsi in maniera variabile in pressoché tutte le categorie diagnostiche del DSM rappresentando un indice di gravità del quadro clinico.

Due tipi di sintomi nella dissociazione

Recentemente un gruppo di studiosi (Brown, 2006; Holmes et al., 2005) ha proposto una classificazione dei fenomeni dissociativi: i fenomeni da detachment (distacco) e i fenomeni da compartmentalization (compartimentazione):

  • I primi corrispondono alle esperienze di distacco da Sé e dalla realtà, qui troviamo sintomi come depersonalizzazione, derealizzazione, anestesia emotiva, dejavu, esperienze di autoscopia (out of body experiences). Queste esperienze sono tipicamente attivate da emozioni dirompenti provocate da esperienze minacciose ed estreme.
  • I secondi emergono invece dalla compartimentazione di funzioni normalmente integrate come la memoria, l’ identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari e corrispondono a sintomi come le amnesie dissociative, l’emersione delle memorie traumatiche, la dissociazione somatoforme (sintomi da conversione, sintomi pseudoneurologici, dolori psicogeni acuti, dismorfofobie), alterazione del controllo delle emozioni e dell’unità dell’identità (personalità multipla).

I sintomi di compartimentazione, diversamente da quelli di distacco che possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, sono tipicamente conseguenze dello sviluppo traumatico e sembrano alterare la struttura stessa della personalità dell’individuo. Per questo alcuni autori hanno proposto di riunire i fenomeni da compartimentazione con l’espressione ‘dissociazione strutturale della personalità‘.

Dissociazione: una questione di punti di vista?

Quello della dissociazione resta comunque un costrutto ben complicato da definire e il principale problema di base, come dichiarato dalla Dott.ssa Boon, è costituito dalla presenza di diversi orientamenti teorici nella comprensione della dissociazione e dei disturbi dissociativi, poiché da qui vengono diversi modi di osservare gli stessi sintomi: da un lato ci sono i teorici del continuum, secondo i quali l’esperienza dissociativa va da una sensazione normale di straniamento, per poi passare da sintomi di assorbimento emotivo, derealizzazione e depersonalizzazione, fino ad arrivare ad una sintomatologia più grave e invalidante come il disturbo dissociativo dell’identità (Bernstein, Putnam 1986).

Dall’altro lato ci sono i teorici della dissociazione strutturale, che sottolineano invece la presenza di differenze qualitative tra i diversi tipi di esperienze dissociative e di caratteristiche tra loro non sovrapponibili.  I teorici della dissociazione strutturale (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) segnalano che queste esperienze non sono sempre il segno di un fallimento integrativo delle funzioni mentali, mentre nei disturbi dissociativi veri e propri c’è sempre invece una divisione del sé, con diversi modi di vedere se stessi e il mondo, diversi sentimenti e comportamenti.

I tre livelli di dissociazione strutturale secondo Van der Hart e colleghi (2000) sono:

  1. dissociazione primaria, caratterizzata dalla presenza di una personalità prevalente capace di portare avanti la vita quotidiana (ANP), mantenendo insieme i ruoli principali per la persona (es: madre, moglie, lavoratrice, figlia, amica…), e una sola parte emotiva (EP), che conserva nella forma primordiale la reazione emotiva legate al trauma, rimettendola in atto solo quando una situazione trigger lo rende necessario.
  2. Il secondo livello è la dissociazione secondaria, in cui è presente una sola personalità principale (ANP), ma diverse parti emotive (EP) ognuna delle quali conserva una diversa modalità difensiva (attacco, fuga, freezing, morte apparente) legata al trauma, e comporta invece il verificarsi di reazioni emotive e comportamentali diverse e talora contrastanti di fronte a situazioni percepite come pericolose.
  3. Infine la dissociazione strutturale terziaria è caratterizzata dalla presenza di due o più personalità che agiscono e si muovono nella vita quotidiana (ANP), non consapevoli l’una dell’altra, e più EP che reagiscono istintivamente alle situazioni trigger, interne o esterne, ognuna mettendo in atto una modalità difensiva diversa. Questo livello corrisponde alla forma più grave, il Disturbo dissociativo dell’identità (DDI).

In tutti e tre i livelli tra le ANP e le EP c’è una barriera di amnesia, un’impossibilità cioè per la ANP di riconoscere le diverse parti emotive come proprie e una impossibilità delle parti emotive di accedere alla vita quotidiana.

I disturbi dissociativi

Secondo il DSM V, i disturbi dissociativi sono caratterizzati da una discontinuità nella normale integrazione della coscienza, della memoria, dell’identità, della percezione, della rappresentazione del corpo e del comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico.

I disturbi dissociativi comprendono:

  • Il disturbo dissociativo dell’identità
  • L’amnesia dissociativa
  • Il disturbo da depersonalizzazione/ derealizzazione
  • Il disturbo dissociativo non specificato

I disturbi dissociativi si manifestano frequentemente a seguito di traumi, e molti dei sintomi, compreso l’imbarazzo, la confusione circa i sintomi o il desiderio di nasconderli, sono influenzati dalla stessa esperienza del trauma.

Il disturbo dissociativo dell’identità

Secondo i criteri del DSM V, il disturbo dissociativo dell’identità è caratterizzato da:

  • Presenza di due o più identità distinte, descritta in molte culture come un’ esperienza di possessione spiritica. Questo comporta una forte compromissione della continuità del senso di Sé, accompagnata da alterazioni negli affetti, nei comportamenti, nella coscienza, nella memoria, nella percezione, nella cognizione e nelle funzioni senso-motorie. Queste alterazioni possono essere auto-riferite o riportate da terzi.
  • Lacune ricorrenti nel richiamo di eventi quotidiani, di informazioni personali importanti e/o eventi traumatici (in contrasto con l’ordinario oblio)
  • I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione sociale, lavorativa o di altre importanti aree di funzionamento.
  • Il disturbo non fa parte di una pratica culturale o religiosa largamente accettata.
  • I sintomi non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica

Tra i casi clinici più famosi ricordiamo Billy Milligan, un ragazzo di soli 26 anni condannato a pena carceraria dopo esser stato arrestato per rapimento, stupro e rapina di tre studentesse universitarie nel 1977. Interrogato dopo l’arresto, Billy non nega le accuse che gli vengono mosse, semplicemente afferma di non ricordare e si dimostra sinceramente confuso a riguardo. Tramite numerose perizie psichiatriche, verrà appurato che il giovane Milligan è affetto da un disturbo relativamente misconosciuto nel panorama scientifico del tempo, ma che dal 1980 era stato introdotto con riserve anche all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM III) con l’etichetta di Disturbo della Personalità Multipla (attualmente Disturbo Dissociativo dell’Identità, dalla IV edizione del DSM – 1994).

In attesa del processo, Milligan viene trasferito all’ospedale psichiatrico Harding Hospital, dove viene messo di fronte a tutte le sue personalità, permettendone così una seppur fragile fusione (integrazione). Questo gli consente di affrontare il processo, il cui verdetto finale porta alla dichiarazione di non colpevolezza per infermità mentale (viene difatti riconosciuto come responsabile dei fatti, ma non mentalmente presente al momento della loro commissione).

Tutte le EP (Emotional Parts) di Billy si dimostrano collaborative, tanto da permettere l’emergere di un’ultima personalità: quella del Maestro, la somma di tutte le identità, la loro fusione, il vero Billy. Il Maestro, unico possessore di tutti i ricordi di ciascuna personalità, racconta la vera storia di Billy Milligan (dalla primissima infanzia, alle sevizie ed abusi subìti, fino agli ultimi eventi), rendendo così possibile la stesura di questo libro, redatto proprio grazie alla collaborazione tra tutte le EP in cui il protagonista si è scisso.

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità sarebbe il risultato delle forme più estreme di violenza cronica e perpetrata che il soggetto può subire a partire dalla primissima infanzia, al punto che tale evidenza viene oggi inclusa nella nosografia del disturbo stesso da Manuale Diagnostico.

Il Disturbo da Depersonalizzazione/ Derealizzazione

Con il termine depersonalizzazione, nel DSM V, si descrivono quelle esperienze di irrealtà, distacco, o sensazione di essere un osservatore esterno rispetto al proprio corpo o ai propri pensieri, sentimenti, sensazioni, azioni (ad esempio: alterazioni percettive, senso distorto del tempo, sensazione di un Sé irreale o assente, intorpidimento emotivo e/o fisico).

Per derealizzazione invece, si intendono quelle esperienze di irrealtà o di distacco rispetto a un ambiente (ad esempio, persone o oggetti sono vissuti come irreali, onirici, senza vita o visivamente distorti).

Il quadro sintomatologico è dunque caratterizzato dalla presenza di frequenti disgregazioni e interruzioni del senso di sé e del mondo circostante. Spesso ciò è fonte di spavento e preoccupazione per gli individui che, a lungo andare, si rendono conto di perdere sempre più il controllo della loro vita e iniziano a presentare alti livelli di ansia (sviluppando anche attacchi di panico), depressione, problemi nell’ambito sociale e comportamenti disfunzionali come l’abuso di sostanze.

Nel recente libro ‘Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione‘ (Donnelly e  Fugen, 2016), vengono delineate delle proposte terapeutiche secondo i principi dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e della DBT (Dialectical Behaviour Therapy), e suggerendo in ultima analisi altri possibili strategie di intervento, compresa quella farmacologica.

Dissociazione e Trauma

Nel DSM-5, i disturbi dissociativi sono riportati in prossimità dei disturbi legati a traumi o a stress intensi, pur non facendone parte. Questo tuttavia sottolinea lo stretto rapporto tra queste classi diagnostiche. Sia il disturbo acuto da stress che il disturbo da stress post-traumatico presentano sintomi dissociativi, tra cui amnesia, flashback e depersonalizzazione/derealizzazione.

L’essere esposti ad un’esperienza traumatica, ovvero che comporti un pericolo di vita (da definizione del DSM), attiva in noi il sistema di difesa, un sistema molto arcaico incaricato di proteggerci dalle minacce ambientali che agisce con estrema rapidità ed al di fuori della consapevolezza.

Di fronte a un pericolo si attivano in noi 4 risposte del sistema di difesa: freezing (congelamento), fight (attacco), flight (fuga), faint (svenimento/distacco).

Il freezing è un’immobilità tonica che permette di non farsi vedere dal predatore mentre si valuta quale strategia (attacco o fuga) sia la più adatta per la situazione specifica. Quando nessuna di queste strategie sembra avere qualche possibilità di riuscita l’unica ed estrema risposta possibile è il faint, la brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte, ovviamente automatica e non consapevole, perché in genere i predatori preferiscono prede vive. In questa situazione, per mezzo di attivazione del sistema dorso-vagale, vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.

Se, come accade negli individui con sviluppo traumatico, l’attivazione del sistema di difesa perdura a lungo, questa attivazione si trasforma da risposta evolutivamente adattativa a risposta disadattativa, perché impedisce un normale esercizio della metacognizione ed in generale delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo l’integrazione di quella memoria traumatica che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo (Tagliavini, 2011).

Le esperienze traumatiche disgregano le funzioni integratrici superiori. La disgregazione porta dunque al manifestarsi di fenomeni dissociativi e i sintomi dissociativi (di distacco/ di compartimentazione) ne sono il risultato.

Negli ultimi anni si è a lungo discusso sul ruolo adattivo della dissociazione nel trauma. L’ipotesi più diffusa sembra essere quella che vede i sintomi dissociativi come protettivi rispetto al trauma, altri autori sostengono che la dissociazione sia disgregazione di coscienza e intersoggettività a cui segue, come fenomeno secondario e spesso fallace, la protezione dal dolore (Liotti e Farina, 2011). Inoltre la dissociazione non solo non sarebbe una protezione dal dolore, ma un’esperienza al limite dell’annichilimento, dalla quale la mente deve difendersi per non sprofondare nell’abisso.

Trauma e dissociazione: quali interventi terapeutici

Focalizzare l’attenzione sugli aspetti cognitivi ed emotivi legati al trauma è certamente importante, ma l’esperienza di molti terapeuti che si occupano di questo tipo di pazienti rivela che non è sufficiente. L’evidenza clinica e la sempre più solida ricerca in psicotraumatologia pongono l’accento sulla necessità di occuparsi più direttamente del corpo e di trattare le conseguenze somatiche di traumi.

La terapia sensomotoria proposta da Pat Odgen e dal suo gruppo rappresenta un’interessante eccezione a questo stato di cose e negli ultimi anni si sta diffondendo anche nel nostro Paese. La teoria polivagale di Porges è utile nel trattamento terapeutico in quanto spiega come la disregolazione neurovegetativa sia una conseguenza diretta della cronica attivazione del sistema di difesa in risposta ai traumi cumulativi.

Il sistema neurovegetativo è formato da sottosistemi che si attivano in maniera gerarchica di fronte alle sfide ambientali. Il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago, quello evolutivamente più recente e sofisticato, regola l’impegno sociale e favorisce un arousal ottimale, entro la finestra di tolleranza. Il sistema simpatico, evolutivamente più primitivo e meno flessibile, regola le riposte difensive di mobilizzazione, permettendo l’attivarsi delle reazioni di attacco e fuga, innalzando il livello di arousal globale per massimizzare le possibilità di sopravvivenza di fronte ad un pericolo. Il ramo parasimpatico dorsale del nervo vago si attiva come ultima linea difensiva di riserva se le due precedenti falliscono: riduce drasticamente l’arousal sino allo svenimento o alla finta morte e consente l’immobilizzazione ai fini della sopravvivenza.

Quando uno stimolo interno (una sensazione o un’emozione) o esterno (qualche elemento del contesto o il comportamento di un’altra persona) ricorda la situazione traumatica il sistema di difesa si attiva prepotentemente e interrompe ogni altra attività in corso. La persona in quel momento non è più in grado di continuare le attività quotidiane e si ritrova in balia di un’attivazione neurovegetativa estrema e non regolata. Il corpo si blocca, si tende per fuggire, attaccare o si accascia su se stesso. In queste condizioni non c’è alcuna possibilità di avere accesso a una qualche riflessione.

Includere il corpo nel lavoro di elaborazione con i traumi permette un accesso privilegiato a dimensioni che, per effetto del trauma stesso, non sono collegate e integrate con il resto dell’esperienza. Lavorare direttamente con le sensazioni e i movimenti permette di agire direttamente sui sintomi e promuovere in seconda battuta un cambiamento anche nelle emozioni, nei pensieri, nelle credenze e nelle capacità relazionali.

Il terapeuta sensomotorio osserva con un atteggiamento mindful, curioso e non giudicante tutto quello che accade nel qui ed ora delle seduta al corpo del paziente. I punti centrali dell’esplorazione in terapia sono le sensazioni corporee e i movimenti che emergono in seduta, le reazioni emotive attuali, i pensieri e le immagini legate al trauma, per affrontare in maniera diretta gli effetti dell’esperienza traumatica sul corpo e sull’apprendimento procedurale. Tutto ciò richiede l’utilizzo integrato di interventi top-down e bottom-up, avendo come punto di accesso privilegiato il corpo. L’attenzione non è focalizzata sulla storia narrata, ma sull’esperienza interna del paziente mentre ne parla e per il modo in cui ne parla.

La particolarità della terapia sensomotoria è che gli interventi fisici forniscono ai pazienti risorse somatiche e abilità per affrontare le reazioni neurovegetative disturbanti così tipiche del trauma. Da questa riorganizzazione somatica emergono poi l’espressione emotiva e l’attribuzione di significato.

Dolores Mosquera propone un altro tipo di lavoro, pur partendo dai principi della psicoterapia sensomotoria: un lavoro indiretto con le parti attraverso il coinvolgimento attivo di parti adulte o parti sane che possano svolgere il ruolo di guida, di aiuto o di accudimento; il terapeuta non parla mai alle parti, ma conoscendo bene l’intero sistema tiene monitorati i conflitti interni, promuovendo una migliore e più efficace comunicazione tra quelle in conflitto.

In terapia si devono affrontare però anche le parti aggressive/perpetratrici, che generalmente, per difesa, imitano l’aggressore, ostacolando così il trattamento e il benessere del paziente, ricordandogli di non abbassare mai la guardia! L’unico modo che ha il terapeuta per aiutare il paziente a stare meglio è chiedere loro di collaborare, di farci capire il loro ruolo e la loro importanza nel sistema, anziché cercare di eliminarle o peggio esserne spaventati.

Il lavoro con le parti è spesso lento, basato sulla necessità di consolidare piccole strategie di autoregolazione attraverso esperimenti svolti in seduta e raramente diretto alla rielaborazione del trauma.

La base imprescindibile del lavoro con pazienti traumatizzati resta la costruzione condivisa di un ambiente che venga percepito come sicuro dal paziente, attraverso la scelta del luogo, della posizione in cui stare e attraverso il continuo orientamento nello spazio e nel tempo presenti.

Lavorare in sicurezza e dentro la soglia di tolleranza, immaginando il ruolo del terapeuta come di una figura che cerca di stare in equilibrio tenendo un piede nel presente e uno nel passato, mentre cerca di costruire un ponte più solido, senza terrore, ma con la consapevolezza di essere salvi nel presente, di poter guardare indietro e di conoscere come si è riusciti ad arrivare fin là.

L’EMDR, a tal fine, resta un metodo centrale nel lavoro di Dolores, abilmente integrato alle tecniche della terapia sensomotoria; il lavoro EMDR è però qui declinato in modo diverso dal protocollo standard e orientato al lavoro su frammenti piccolissimi del ricordo, che corrispondono a quello che di volta in volta il paziente riesce a tollerare, con una estrema attenzione alla finestra di tolleranza e ai segnali di conflitto che potrebbero aumentare, anche se temporaneamente, la divisione interna.

Bibliografia

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  • Farina, B., Liotti, G. (2011). Dimensione dissociativa e trauma dello sviluppo. Cognitivismo Clinico, 8, 1, 3-17
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  • Tagliavini, G. (2011). Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma: il contributo clinico del modello polivagale e della psicoterapia sensomotoria. Cognitivismo Clinico, 8 (1), 60-72.
  • Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steel, K. (2006). Fantasmi nel sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Cortina, 2011
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