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Conversazioni con Giovanni Liotti su Trauma e Dissociazione (2022) – Recensione

Ardovini, La Rosa e Onofri raccolgono le preziose riflessioni degli ultimi due decenni di Giovanni Liotti sul trauma e la sua relazione con la dissociazione

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 07 Apr. 2023

Condividendo e ampliando l’idea originaria di Pierre Janet (Janet, 1898), secondo cui la dissociazione è la “madre” di tutta la psicopatologia, Giovanni Liotti individua nella disorganizzazione dell’attaccamento e nel suo essere trauma precoce la radice della dissociazione.

 

 La prematura scomparsa di Giovanni Liotti ha lasciato un grande vuoto e un profondo senso di perdita in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di ascoltarlo, e un senso di mancata occasione in molti che questo privilegio non l’hanno avuto. Per questa ragione è con immensa emozione che ho accolto questo bellissimo volume, frutto della fatica di Cristiano Ardovini, Cecilia La Rosa e Antonio Onofri.

Non saremo mai abbastanza grati ai curatori, infatti, per averci concesso l’opportunità di immergerci ancora nelle parole del nostro maestro, di ascoltare (sì, ascoltare, perché leggendo quelle pagine, pare ancora di sentire la sua voce in tutta la potenza della sua oratoria) le intuizioni e la complessità del suo pensiero teorico trasmessa con rara chiarezza espositiva, arricchita di illuminanti esempi clinici e imbevuta di cultura che spazia dall’arte alla poesia alla letteratura.

In un susseguirsi di domande e risposte, il volume raccoglie e riorganizza in un unico e fluido discorso decenni di registrazioni, appunti, lezioni accademiche e conversazioni informali con Gianni Liotti sui temi che sono stati al centro delle sue riflessioni negli ultimi due decenni: il trauma e la sua relazione con la dissociazione.

Molti anni prima che le conoscenze e le considerazioni su trauma e dissociazione si diffondessero e diventassero di dominio comune, infatti, Liotti ha esplorato questo territorio in un continuo e proficuo scambio fra ricerca, riflessione teorica e psicoterapia, arrivando a definire una teoria della psicopatologia raffinata e basata su solidi dati, che guida, orienta e allo stesso tempo è stimolata dal lavoro clinico con i pazienti.

La prima parte del volume esplora proprio il rapporto tra psicopatologia e dissociazione.

Condividendo e ampliando l’idea originaria di Pierre Janet (Janet, 1898), secondo cui la dissociazione è la “madre” di tutta la psicopatologia, Liotti individua nella disorganizzazione precoce dell’attaccamento e nel suo essere trauma precoce la radice della dissociazione.

Nell’attaccamento disorganizzato, infatti, il genitore è allo stesso tempo fonte di paura e figura di conforto, attivando contemporaneamente il sistema di difesa e il sistema di attaccamento del bambino, che si ritrova immerso in quella “paura senza sbocco” che è il precursore del senso di impotenza che caratterizza l’esperienza traumatica.

Il nucleo della disorganizzazione è avere bisogno di cura ed essere spaventati allo stesso momento dalla stessa persona che dovrebbe fornire quella cura: in questa condizione le rappresentazioni di sé-con-l’altro, che costituiscono il Modello Operativo Interno (Bowlby, 1969), sono talmente in contrapposizione da non poter essere integrate in una sintesi coerente. Dissociazione, dunque, non come sintomo, ma come mancata integrazione.

E perché non vediamo quasi mai la dissociazione come sintomo nei bambini?

Perché la dissociazione compare solo quando è attivo il sistema dell’attaccamento e questi bambini ricorrono a delle strategie per impedirlo, cooptando altri sistemi motivazionali: possiamo infatti osservare bambini (e poi adulti) che, quando sentono attivarsi l’attaccamento, subito attivano il sistema agonistico per entrare in relazione con genitore, diventando dei piccoli tiranni (si parla allora di “strategia controllante punitiva”); altri che attivano il sistema dell’accudimento e si prendono cura di mamma o papà come efficientissimi infermieri (“strategia controllante accudente”); altri ancora utilizzano altri sistemi motivazionali per tenere a bada l’attaccamento e i mostri che sono da esso evocati.

Queste strategie hanno una preziosa funzione adattiva, salvaguardando le capacità metacognitive che sono pesantemente compromesse nel momento in cui è attivo l’attaccamento. Quando altri sistemi motivazionali sono al comando, la metacognizione funziona benissimo, come illustra efficacemente Liotti portando ad esempio la storia del famoso scacchista Bobby Fisher.

La dissociazione come sintomo compare quando, in seguito ad altre esperienze traumatiche, perdite, separazioni o eventi che in qualche modo invalidano le strategie controllanti, queste crollano, lasciando emergere l’attaccamento con i suoi modelli operativi disorganizzati.

Sebbene la frequenza di traumi infantili, soprattutto cumulativi, sia enormemente sottovalutata, diversi studi dimostrano quanto siano in realtà molto diffusi nella popolazione e quanto gravi siano le loro conseguenze sulla salute fisica e psicologica. Per questa ragione è di fondamentale importanza imparare a riconoscere le diverse manifestazioni, spesso elusive, della dissociazione che ne consegue, allenarsi a “farci orecchio”, esplorando insieme al paziente il suo mondo interno e la sua storia con accuratezza, delicatezza e rispetto.

In questo quadro, la dissociazione non è concettualizzata come una difesa dell’Io, come ipotizzato da Freud, ma come un effetto del trauma che frammenta il mondo interno e impedisce la costruzione di un senso di sé unitario.

La patologia ha dunque a che fare con l’assenza di connessione, la perdita di integrazione e i deficit metacognitivi.

Coerente al modello cognitivo-evoluzionista secondo cui non esiste una sola terapia per tutti i disturbi, ma ogni disturbo richiede un intervento specifico guidato da una cornice teorica che ne definisca i meccanismi psicopatologici, Liotti illustra con profusione di esempi clinici quali siano le ricadute di una simile concettualizzazione sul piano terapeutico.

Nella seconda parte del volume, infatti, sono raccolte le sue idee e intuizioni riguardo al lavoro clinico con i pazienti che provengono da storie di attaccamento traumatico.

Fedele al modello a tre fasi, concepito da Janet e confermato dalla ricerca più recente come più efficace e sicuro per questo tipo di pazienti, Liotti evidenzia la particolare importanza della prima fase, quella di stabilizzazione.

 Obiettivo prioritario dell’intervento è creare un clima di alleanza e collaborazione fra paziente e terapeuta, che sono pari ma non uguali in questo lavoro. Entrambi hanno pari dignità e valore pur nella specificità di ruoli: il terapeuta è esperto del metodo, il paziente del proprio mondo interno ed entrambi collaborano per un obiettivo comune, il benessere del paziente. È proprio l’assetto cooperativo che secondo Liotti, rappresenta non solo la premessa perché la terapia sia efficace, ma un vero e proprio strumento terapeutico, in quanto antidoto all’attivazione del sistema di attaccamento così profondamente compromesso dalle esperienze traumatiche precoci. Il sistema cooperativo fa da sostegno alle capacità metacognitive deficitarie del paziente e gli permette di incrementarle.

L’alleanza è sempre, per tutta la durata del percorso, obiettivo terapeutico sovraordinato: questo significa che, in qualsiasi fase del lavoro ci si trovi, nel caso in cui si andasse incontro ad una crisi o una rottura dell’alleanza, la sua riparazione deve tornare immediatamente a essere una priorità.

Stabilizzare i sintomi più perturbanti, che sono manifestazione di un sistema neurovegetativo in ipo o iperarousal, cioè fuori dalla finestra di tolleranza, è il focus di questa prima fase di lavoro, che può durare anche mesi o anni.

La normalizzazione dei sintomi e la psicoeducazione sono interventi terapeutici importanti ai fini di questo obiettivo, perché contrastano il senso di impotenza e sfiducia in sé e negli altri, che rappresenta il nucleo dell’esperienza traumatica e aumentano la sicurezza percepita del paziente.

Liotti enfatizza la necessità di mantenere una comunicazione emozionale “da emisfero destro a emisfero destro” (p.132), come nel dialogo conversazionale di Russell Meares (Meares, 2014), una comunicazione empatica, che si modella sul linguaggio del paziente e ricalca una normale conversazione fra esseri umani, ma guidata e orientata da una complessa teoria psicopatologica.

In questo dialogo, anche la metafora è uno strumento potente e importante, non solo perché rappresenta un linguaggio più idoneo a descrivere e raccontare sensazioni sfuggenti come la depersonalizzazione e la derealizzazione, ma perché aumenta l’attività corticale così deficitaria in questi pazienti.

Sempre attento alla dimensione relazionale cooperativa, per evitare di attivare l’attaccamento, il terapeuta deve spostare l’attenzione dai deficit alle risorse del paziente, valorizzando i suoi tentativi autonomi di gestire l’impotenza e i sintomi dissociativi, attento a gestire le proprie reazioni di paura di fronte alle varie forme che questi sintomi possono assumere.

Gli interventi bottom-up, cioè quelli che agiscono sul tronco dell’encefalo nel modo più diretto possibile, come le tecniche sensomotorie, sono preziosi in questa fase, così come la mindfulness, e in generale tutto ciò che permette di contrastare il senso di impotenza e sfiducia che rappresenta il sintomo centrale del Disturbo da Stress Post Traumatico e di aumentare la mastery.

Solo dopo aver raggiunto una sufficiente stabilizzazione, è possibile affrontare le fasi successive del lavoro terapeutico, ossia l’elaborazione delle memorie traumatiche (fase II) e l’integrazione (fase III).

In riferimento alle memorie traumatiche, emerge la figura del terapeuta come “testimone cartesiano” di ciò che è accaduto, testimone e conferma non della realtà del trauma, bensì del dolore del paziente, provato durante e dopo l’esperienza traumatica. Mettendo in guardia verso la possibilità di false memorie, Liotti ci ricorda che compito del terapeuta non è fare il poliziotto o il magistrato e stabilire se e come si sono verificati gli eventi, ma validare l’esperienza emotiva del paziente: “Provo, dunque è vero”.

In quest’opera ambiziosa e bellissima, sono tanti gli spunti e gli approfondimenti che emergono e le riflessioni suscitate nel lettore. Ogni pagina racchiude qualche perla, distillato di cultura, passione, sensibilità clinica e voglia di condivisione che è stata ogni conversazione, più o meno formale, con Gianni Liotti.

Rileggere le sue parole è stato emozionante e, ancora una volta, profondamente stimolante.

Aspettiamo con impazienza il secondo volume su cui Ardovini, La Rosa e Onofri sono già al lavoro e che verterà sull’alleanza terapeutica e la co-terapia, temi assolutamente centrali nel pensiero e nel lavoro di Liotti, che diventano di rilevanza cardinale quando si affrontano le sfide della terapia con pazienti che provengono da storie traumatiche e presentano sintomi dissociativi.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ardovini, C., La Rosa, C. e Onofri, A., a cura di (2022). Conversazioni con Giovanni Liotti. Volume I. Roma, Edizioni ApertaMente Web.
  • Bowlby, J. (1969), Attachment and loss. I: Attachment, Hogart Press, London (tr.it. Attaccamento e perdita. Vol. I: Attaccamento alla madre. Torino, Boringhieri,1975).
  • Janet, P. (1898) Névroses et Idées Fixes. Alcan, Paris, 1898. Reprint: Société Pierre Janet, 1990.
  • Russell Meares, (2014). Un modello dissociativo del disturbo borderline di personalità. Milano, Raffaello Cortina Editore.
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