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Autismi: quale futuro – Una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo di noi”

Il 5 dicembre si è svolta nell’Auditorium La Filanda di Cornaredo, una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo Di Noi”. Hanno partecipato il Prof. Lucio Moderato, Direttore dei Servizi per l’Autismo della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, Corrado Bassi, Presidente della Onlus “Dopo di Noi”, Mirko Gelsomini, ricercatore del Politecnico di Milano e Elisa Fusaro, mamma di Giacomo.

 

Come migliorare la qualità di vita e il futuro delle persone autistiche

Durante la serata si sono presentati i progetti in atto volti a migliorare la qualità della vita delle persone autistiche in un’ottica di ampliamento delle autonomie e quindi dello sviluppo delle risorse delle persone con autismo. La parola d’ordine è “oggi è già domani”: è necessario agire oggi per preparare il futuro. Negli anni ’70 l’incidenza delle persone con autismo era 1: 700000, oggi 1 ogni 68: questo dato ci dice che, con un’incidenza così elevata, l’autismo è una condizione da accettare e abilitare. Lucio Moderato, infatti, parla di abilitazione al posto di cura, di qualità della vita, di case, di posti di lavoro, al posto di guarigione.

Aumentare l’ inclusione sociale significa ampliare la conoscenza della condizione autistica, implementare l’uso di nuovi strumenti tecnologici ad hoc nella vita quotidiana e avvicinarsi alle esperienza di vita delle famiglie di persone autistiche in modo empatico. Le conoscenze in merito all’autismo si sono modificate notevolmente negli ultimi vent’anni, portando a radicali mutamenti nel paradigma di comprensione della condizione autistica di neurodiversità grazie soprattutto alle famiglie che agiscono e si battono per i propri figli. È proprio avvicinandosi alla realtà quotidiana che è possibile comprendere quali sono le necessità inderogabili delle persone autistiche: in Italia un ragazzo autistico che compie 18 anni, risulta paradossalmente “guarito” per lo Stato Italiano, non sono previsti aiuti né progetti statali e rodati per accompagnarlo nella transizione alla vita adulta.

Quale sarà quindi il futuro di un adulto autistico? Come si può preparare un futuro caratterizzato da una migliore qualità di vita, dall’inclusione sociale e lavorativa?

Il Prof. Moderato e Corrado Bassi rispondono a questa importante domanda mostrando come si può, e si dovrebbe, lavorare “in sistema” per favorire un Clinical Management Territoriale che possa essere non solo socialmente sostenibile, ma anche una risorsa per l’intera società sul lungo periodo. L’ottica non è assistenziale, ma inclusiva, tale da permettere alle persone autistiche di trovare il proprio posto nel mondo adulto e produrre valore per sé e per la società.

Il Prof. Moderato ci illustra il suo progetto di intervento su bambini e famiglie che ha come obiettivo la presa in carico totale e l’accompagnamento attraverso le tappe di abilitazione che porteranno il bambino con autismo a sviluppare le proprie risorse. Un grande progetto di questo tipo parte proprio dalle piccole necessità di ogni giorno: “è più importante intervenire nel quotidiano subito, in modo tempestivo per costruire le piccole autonomie giornaliere, per esempio partendo dal mettersi le mutande da soli!

L’importanza del lavoro di rete con le persone autistiche

Il progetto non riguarda solo bambini e famiglie ma anche altri attori significativi del sistema (medici pediatri, medici di medicina generale, servizi per famiglie straniere, servizi socio sanitari, scuola, servizi domiciliari, educatori, aziende) in modo che, attraverso la conoscenza della condizione autistica e della formazione ad hoc, l’autismo possa avere un impatto sociale meno pesante di quello di oggi.

Corrado Bassi ha fondato la Onlus “Dopo di Noi”: è una onlus giovane che ha come obiettivo la creazione di condizioni di sicurezza per costruire il DOPO. Le domande che preoccupano i genitori sono “Quando non ci saremo più, che fine farà nostro figlio? Chi si prenderà cura di lui? Come farà a gestirsi?”. La Fondazione prevede un patrimonio gestito rigidamente solo ed esclusivamente ad uso dei progetti previsti per l’autonomia dei giovani adulti autistici. È necessario contribuire e creare reti sociali sempre più forti e funzionanti in modo che il futuro diventi sempre meno incerto.

L’intervento di Mirko Gelsomini, ci ha invece aperto il mondo delle nuove tecnologie e della ricerca (Politecnico di Milano) volte alla creazione di percorsi educativi personalizzati con l’impiego di tecnologie innovative ed interattive per il gioco, l’apprendimento e l’inclusione. Sono stati sviluppati progetti e strumenti tecnologici che si avvalgono della robotica e della realtà virtuale per fornire ai bambini e ragazzi autistici la possibilità di fare esperienze relazionali giocando e apprendendo in un contesto sicuro e privilegiato nuove competenze sociali da generalizzare nella vita quotidiana.

L’intera serata ha dato quindi spazio a più contributi specifici che condividono la consapevolezza dell’autismo non come malattia, ma come condizione di vita da accettare e integrare e perché questo avvenga, è necessario che ogni attore sociale faccia un passo avanti, all’interno della rete da costruire e rinforzare.

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

 

«Nello specifico i comportamenti del robot sono le predizioni derivate dalla teoria usata per costruire il robot e, se il robot si comporta come un essere umano, la teoria è confermata
Parisi (2013)

Parole chiave: robotica, robot, automa, intelligenza artificiale, psicologia del senso comune, biomimetismo, mentalizzazione.

La differenza tra biologico e artificiale è spesso percepita dal senso comune come una battaglia in cui l’ordine sociale si decompone insieme ai cadaveri: incendi, fame, carestie, sofferenza, terrore e morte. Scenari che legano inconsci presagi di un “mondo messo a fuoco” da una sorta di “razzismo” artificiale: il robot contro la specie umana.

Le nostre paure provengono soprattutto da una non definita descrizione di cosa sia (e, quindi, cosa può fare) un robot.
In realtà, dagli stupendi automi meccanici del Settecento, fatti di legno e cuoio, ai cagnolini-robot per l’intrattenimento della Sony, ogni epoca ha avuto i robot che sono l’espressione più elevata del particolare momento tecnologico in cui sono stati costruiti (Metta, Sandini, Tagliasco, 2012).

In cosa consiste la robotica

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

La robotica spesso si è ispirata, più o meno consciamente, alla biologia [Biomimetismo]. A volte ha cercato di emulare le prestazioni più sofisticate dell’essere umano (sfruttando la mediazione dell’intelligenza artificiale); altre volte ha tratto ispirazione da organismi relativamente semplici (richiamandosi alla prima cibernetica e alle reti neurali).

La robotica autonoma è la scienza che studia i metodi per progettare e realizzare robot intelligenti in grado di svolgere dei compiti utili, di un certo livello di difficoltà, interagendo in un ambiente fisico senza richiedere l’intervento umano. Trae fortemente ispirazione dai sistemi autonomi naturali dato che sono i sistemi autonomi per antonomasia e sono in grado di svolgere in modo efficace una grande varietà di compiti in ambienti complessi e ostili. In alcuni casi, infatti, lo sviluppo di robot autonomi ha l’obiettivo di costruire delle macchine artificiali con caratteristiche fisiche e comportamentali analoghe agli organismi naturali, accrescendo così lo studio e la comprensione dei principi alla base dell’intelligenza biologica naturale e dei processi cognitivi e comportamentali degli organismi, tra cui animali e l’uomo (Carboni, 2002).

Possibili definizioni di robot

In realtà, la definizione di robot, è talmente ampia che anche un forno a micro-onde può essere considerato un robot. Altri studiosi, come Mackworth (1977), presidente della American Association for Artificial Intelligence, ritengono che i robot debbano avere uno scopo, ed agire in accordo ad esso.

Brooks (1986) ritiene:

«Per me un robot è qualcosa che ha qualche effetto fisico sul mondo, ma lo fa in base a come si percepisce il mondo e come il mondo cambia intorno ad esso. Si potrebbe dire che la lavastoviglie è un sistema robotico per i piatti di pulizia (…) Innanzitutto non ha alcuna azione di fuori dei confini del suo corpo. In secondo luogo, non conosce i piatti al suo interno (…) Non ha una comprensione del mondo che lo circonda in qualsiasi tipo di modo significativo».

I punti critici, per Brooks, sono quindi la possibilità di agire sul mondo, la capacità di percepirlo e, in definitiva essere situato nel mondo e percepirlo.
Wooldridge e Jennigs (1995), elencano le tre caratteristiche più importanti dei sistemi intelligenti: 1) Reattività: gli agenti intelligenti percepiscono l’ambiente e sanno rispondere ai cambiamenti che occorrono per raggiungere gli obiettivi fissati. 2) Proattività: gli agenti intelligenti sono capaci di comportamenti finalizzati all’obiettivo anche prendendo autonomamente l’iniziativa. 3) Abilità sociali: gli agenti intelligenti sono capaci di comunicare con altri agenti per raggiungere gli obiettivi.

Ma forse la migliore definizione è quella di Engelberger (2012), considerato uno dei padri della robotica, che, intervistato, disse «Non so definire cosa sia un robot, ma lo so riconoscere quando ne vedo uno!».
Una frase che rimanda al concetto di “mentalizzazione” e, dunque, alla predisposizione umana di attribuire al robot una forma di consapevolezza in cui, il robot avendo una mente, potrà dedurre a sua volta che altri l’abbiano (Lombardo, 2017); si richiama così a fine articolo lo scenario iniziale: il binomio di possibilità ha radice nella domanda “A cosa può servire tale consapevolezza?”. In altri termini il robot, essendo dotato di una mente – ovvero, comportandosi come l’uomo – sarà al servizio di esso o contro la specie umana?

Non dimentichiamoci dell’odore: questione di genere

La ketamina funziona come antidepressivo sui topi solo se somministrata da ricercatori maschi.
Uno studio di Georgiou, presentato alla società di Neuroscienze (SfN) a Washington e pubblicato su Nature Methods, ha mostrato come l’esposizione a ricercatori di genere maschile e non femminile produca l’attivazione dell’azione antidepressiva della ketamina nei topi.

 

Le proprietà antidepressive della ketamina

La neuroscienziata Polymnia Georgiou dell’Università del Maryland si è trovata inconsapevolmente ad approfondire il mistero degli effetti della ketamina, che ha importanti proprietà antidepressive, sul cervello; infatti nel 2015 un suo collega di laboratorio maschio le chiese di continuare un protocollo di ricerca, chiamato “forced swim-test”, per testare gli effetti antidepressivi della ketamina sul cervello dei topi.

Gli studi sulla ketamina sono sempre più numerosi in quanto questa sostanza psicoattiva ha potenzialità antidepressive che possono essere attive sui network cerebrali già poche ore dopo la sua somministrazione pertanto può essere utilizzata in ambito terapeutico con le forme di depressione più severe e in cui è presente una forte componente suicidaria (Gao, Rejaei & Liu, 2016).

La ricercatrice mise in atto minuziosamente l’intero protocollo iniettando nei topi sani la ketamina e immergendoli poi in una vasca piena di acqua per misurare quanto tempo avrebbero impiegato nuotando prima di arrendersi e chiedere aiuto ad altri topi presenti nella medesima vasca.

Nei precedenti esperimenti condotti dalla stessa equipe e che usavano lo stesso protocollo, i ricercatori, tra i quali erano presenti anche uomini, avevano osservato che il gruppo dei topi al quale erano stati somministrati antidepressivi tendeva a nuotare per più tempo e più velocemente rispetto al gruppo di topi non trattati farmacologicamente.

Tuttavia nel portare avanti l’esperimento del collega, la ricercatrice Georgiou notò che i topi trattati con la ketamina non nuotavano più nelle stesse modalità osservate nell’esperimento precedente; quindi si rese conto che l’effetto antidepressivo della ketamina si attivava soltanto quando la sostanza veniva somministrata ai topi da ricercatori di genere maschile.

L’odore e il cervello

Questi sorprendenti risultati portarono l’equipe di ricercatori guidati dalla Georgiou ad approfondire l’argomento e a ritenere che l’odore emanato dai ricercatori stessi potesse essere coinvolto e potesse determinare lo strano effetto osservato.

Per poter dimostrare il coinvolgimento dell’odore nell’attivazione degli effetti antidepressivi della ketamina, l’equipe di ricerca decise di inserire i topi, al momento della somministrazione della sostanza e prima di immergerli nella vasca, sotto un telo intriso di un fumo con un odore molto forte per evitare così che gli animali potessero avvertire l’odore dei ricercatori.

Questo stratagemma determinò l’eliminazione dell’effetto antidepressivo della ketamina senza che vi fosse il coinvolgimento dell’odore dei ricercatori di genere maschile.

Per cui i topi a cui era stata somministrata la ketamina non nuotavano più velocemente e tendevano ad arrestarsi come i topi a cui era stato somministrato il placebo.

Al contrario nella condizione in cui sotto il telo, accanto ai topi, veniva posta una t-shirt indossata da un uomo, si osservò l’effetto antidepressivo della ketamina nei topi iniettati con la sostanza, che nuotavano più velocemente e per più tempo rispetto ai topi con il placebo.
Questo fece concludere che l’odore dei ricercatori di genere maschile fosse necessario per l’azione della ketamina.

L’equipe di Georgiou ripeté l’esperimento con altri tipi di antidepressivi per osservare se tale effetto potesse essere generalizzato anche ad altri farmaci ma osservò che il genere dei ricercatori non era così influente sugli effetti dei farmaci.
Pertanto i ricercatori sospettarono che l’effetto antidepressivo soltanto della ketamina fosse il risultato di una specifica interazione tra questa e l’odore dell’uomo nel cervello dei topi (Zanos & Georgiou, 2016).

Altre evidenze (Sorge et al., 2014) suggerivano come il genere dei ricercatori potesse influire anche su esperimenti comportamentali, non soltanto su quelli coinvolgenti la ketamina.

Nello studio condotto da Sorge e colleghi (2014) infatti si dimostrò che i topi che erano esposti ad un forte stress rispondevano al dolore con meno frequenza quando erano i ricercatori maschi a sottoporli ad uno shock, come se la vicinanza dei topi a “stimoli di genere maschile” inducesse una più robusta risposta analgesica.

È bene precisare che questi risultati sono preliminari e che altri studi dovranno essere fatti per indagare più nel dettaglio gli effetti del genere maschile sulla ketamina e sul cervello dei topi” afferma Adrienne Betz, neuroscienziata comportamentale all’università di Hamden, Connecticut.

Si ritiene che queste ricerche pocanzi illustrate siano importanti da considerare in quanto mettono in luce come negli esperimenti scientifici fatti sia per indagare gli effetti dei farmaci sul cervello degli animali sia per studiare i loro comportamenti, vi siano altre variabili, molto spesso non indagate e trascurate ma altrettanto cruciali, che possono in qualche modo influenzare gli esiti della ricerca stessa e la riproducibilità degli esperimenti.

A detta di Todd Gould, neuroscienziato dell’università del Maryland: “i ricercatori che studiano gli effetti dei farmaci psicoattivi sul comportamento degli animali dovrebbero riportare nelle loro pubblicazioni il genere dei partecipanti all’equipe di ricerca per poter assicurare che altri laboratori possano poi avere tutte le informazioni necessarie per replicare lo studio, in quanto ci sono molte variabili intervenienti, come l’odore, ancora sconosciute che possono influire sui risultati della ricerca”.

La relazione tra gli stili di attaccamento e la soddisfazione coniugale

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e la nostra soddisfazione coniugale: riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci dunque a comprendere punti di forza e vulnerabilità in una relazione

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e a quanto ci riteniamo soddisfatti all’interno della nostra relazione. Ecco perché riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci a comprendere i nostri punti di forza ed eventuali vulnerabilità in una relazione. I modelli di attaccamento si formano nella prima infanzia e continuano a funzionare come modello operativo per le relazioni in età adulta.

Bowlby ha concettualizzato la teoria dell’ attaccamento (1973) come un sistema psico-evolutivo che guida il comportamento sociale “dalla culla alla tomba” (Bowlby 1979, p. 129), il cui scopo e’ quello di mantenere un livello ottimale e funzionale di prossimità con l’ altro significativo e soddisfare I propri bisogni primari. Da queste prime interazioni, ciascun individuo sviluppa uno schema (o set di risposte) chiamato modello operativo interno, con cui interagisce con il mondo (gli altri).

Questo modello contiene anche le diverse strategie di coping e I diversi stili di regolazione emotiva propri di ciascun individuo, e regola le aspettative che abbiamo nei confronti degli altri, arrivando ad influenzare anche le conoscenze e le future relazioni.

Di conseguenza, l’attività e l’importanza del sistema di attaccamento non sono limitate all’infanzia. Fino ad oggi, gran parte della ricerca empirica suggerisce che l’ attaccamento esercita un ruolo notevolmente importante nei rapporti tra adulti, in particolare nei rapporti romantici e coniugali. La maggior parte degli studi condotti finora ha inoltre dimostrato che esiste una correlazione significativa e positiva tra lo stile di attaccamento di tipo sicuro e la soddisfazione coniugale, e una correlazione significativa e negativa tra gli stili di attaccamento insicuro e la soddisfazione coniugale.

Diverse ricerche hanno dimostrato che quando esiste un modello di attaccamento sicuro, la persona si percepisce affidabile e autosufficiente, e diventa in grado di interagire facilmente con gli altri, riuscendo a soddisfare sia le proprie esigenze e i propri bisogni sia quelli dell’altro. Viceversa, quando è presente un stile di attaccamento ansioso o evitante, la persona tenderà a cercare un partner che si adatterà perfettamente a quel tipo di modello maladattivo.

In che modo lo stile di attaccamento influenza le nostre relazioni sentimentali?

Attaccamento sicuro – Gli adulti con attaccamento sicuro tendono ad essere più soddisfatti nei loro rapporti. Il bambino che sviluppa un attaccamento di questo tipo vede il caregiver come una base sicura da cui può allontanarsi per avventurarsi ed esplorare autonomamente il mondo. Quando diventerà un adulto,  tenderà ad instaurare un rapporto simile con il proprio partner, sentendosi sicuro, e non limitato nelle esplorazioni. La persona svilupperà quindi un legame basato sulla fiducia reciproca e considererà il partner come degno d’amore e se stesso come degno di essere amato.

Gli adulti sicuri sono inoltre capaci di offrire supporto emotivo  quando il loro partner si sente afflitto e sono altrettanto capaci di chiederlo nei momenti di difficoltà.

Attaccamento ambivalente ansioso – A differenza delle coppie sicure, gli individui con stile di attaccamento ansioso tendono ad instaurare legami caratterizzati da continue idealizzazioni. Da bambini, hanno sperimentato un legame di attaccamento con una madre “imprevedibile”, che li ha portati a sviluppare modelli operative interni di sé ambivalenti, arrivandosi a percepire a volte come individui degni d’amore e di rispetto, a volte invece, come deboli e indegni di ricevere amore. All’interno della relazione amorosa, questi individui diventano esigenti e possessivi quando percepiscono incertezza, quando quindi sono i MOI negativi a prevalere, mentre esprimerà sentimenti di amore e rispetto e penserà di essere amato, quando prevarranno invece Modelli operativi positivi di sé e dell’altro.

Attaccamento evitante – Le persone con uno stile di attaccamento evitante hanno la tendenza a distanziarsi emotivamente dal loro partner. Possono cercare spesso l’isolamento e sentirsi “pseudo-indipendenti”. Dall’esterno, spesso appaiono come troppo concentrati su se stessi e sulla propria realizzazione personale, mai emotivamente coinvolti del tutto nella relazione col partner. Da bambini questi individui hanno fatto esperienza di una madre che non dà sicurezza affettiva, percepita come fredda, rifiutante, mai disponibile a soddisfare I bisogni d’amore o di conforto. Questi individui nel corso della loro infanzia hanno sviluppato un modello operativo interno che li definisce come non degni d’amore e diffidenti verso il mondo esterno, percepito come cattivo, inaffidabile. L’adulto evitante quindi, per paura di un eccessivo coinvolgimento nella relazione e di una eventuale sofferenza, adotterà una posizione estremamente difensiva e distaccata.

In che modo le esperienze di un individuo nell’infanzia influenzano la soddisfazione coniugale?

La soddisfazione coniugale può essere considerata come costituita da diversi fattori, tra cui la condivisione di interessi reciproci, valori reciproci, la soddisfazione sessuale e gli stili di comunicazione (ad esempio, Fowers & Olson, 1989; Gottman, 1999). Essa può essere inoltre vista come il piacere derivato dall’essere consapevoli di una situazione confortevole, di solito legata alla soddisfazione di specifici desideri coniugali. La parola soddisfazione invece, si riferisce ad un atteggiamento, un attitudine. Di conseguenza, è considerata una caratteristica personale di una coppia. Hawkins (2004) definisce la soddisfazione coniugale come “sentimenti soggettivi di felicità, soddisfazione e piacere sperimentati dalla coppia quando vengono considerati tutti gli aspetti del matrimonio

Sembra chiaro che il senso di sicurezza che si avverte ogniqualvolta siamo in una relazione amorosa, sia un elemento chiave per poter parlare di soddisfazione del rapporto.

Una delle funzioni più basilari delle relazioni significative infatti, è quello di fornire un senso di stabilità, protezione e di sicurezza in un mondo che è così mutevole e minaccioso (Mikulincer, Florian, & Hirschberger, 2003).

Sembra inoltre, che la sicurezza nel legame di attaccamento sia una risorsa psicologica che consente agli individui di affrontare con maggiore successo le sfide della vita quotidiana e di quella coniugale e che coloro che godono di un forte senso di sicurezza di attaccamento abbiano anche matrimoni più duraturi e più soddisfacenti (Shiota & Levenson, 2007)

Le ricerche che condividono le stesse premesse teoriche, hanno rivelato che, rispetto agli adulti con stile di attaccamento insicuro, gli individui caratterizzati da attaccamento sicuro possiedono credenze più positive e ottimiste sull’amore romantico e credono che quest’ultimo possa durare nel tempo (Hazan & Shaver, 1987). Inoltre è stato osservato che le persone con questo stile di attaccamento  presentano aspettative sulla relazione più positive (Collins, 1996, Collins & Read, 1990), e godono di una maggiore soddisfazione coniugale (ad esempio, Brennan & Shaver, 1995, Collins & Read, 1990, Feeney, 1994, Feeney, Noller e Callan , 1994; Fuller & Fincham, 1995).

Altre ricerche hanno dimostrato che anche lo stile di vita è un fattore importante, capace di influenzare il livello di soddisfazione coniugale (Banse,2004) Di conseguenza, le coppie sposate che si ritenevano soddisfatte del loro matrimonio, adottavano uno stile di vita basato sulla cooperazione e sugli obiettivi condivisi. Quindi, sperimentavano una maggiore soddisfazione coniugale.

Alcuni studi hanno esaminato l’influenza dello stile di attaccamento all’interno di rapporti significativi utilizzando modelli di studio longitudinali. In uno studio longitudinale di Kirkpatrick e Hazan (1994) è stato osservato che in un periodo di 4 anni gli individui con uno stile di attaccamento sicuro avevano relazioni più stabili, ed erano più disponibili ad impegnarsi, rispetto a quelli con stile di attaccamento insicuro. In  un altro studio longitudinale durato 31 anni (Klohnen & Bera, 1998) si sono verificati risultati simili. Le donne classificate come sicure, all’età di 52 anni, erano più propense a sposarsi quando avevano 21 anni, avevano maggiori probabilità di essere sposate all’età di 27 anni e più probabilità di rimanere sposate nel tempo, oltre a riportare un livello di soddisfazione coniugale maggiore misurata all’età di 52 anni.

Shi Lin (2003) ha condotto una ricerca in cui veniva presa in esame la correlazione tra lo stile di attaccamento nell’adulto e la risoluzione dei conflitti all’interno della coppia. I risultati hanno mostrato che coloro i quali erano stati classificati come “sicuri” erano piu’ propensi alla risoluzione di conflitti arrivando a compromessi, mettendo da parte sentimenti di sfiducia o paura.

I partner con uno stile di attaccamento sicuro mettono impegno per raggiungere soddisfacenti livelli di comunicazione verbale (Collins & Read, 1990), reciproca discussione e comprensione (Feeney, Noller, & Callan, 1994) e sono meno inclini all’utilizzo di aggressività verbale.

In una ricerca condotta da MacLean, a 124 coppie è stato chiesto di compilare questionari relativi allo stile di attaccamento e alla soddisfazione coniugale. I risultati hanno dimostrato che mogli e mariti che riportavano il più alto livello di soddisfazione coniugale, erano entrambi appartenenti alla categoria di attaccamento di tipo “sicuro”, mentre le mogli più insoddisfatte erano nella combinazione evitante-evitante. Questi risultati possono essere interpretati alla luce del fatto che nella coppia evitante-evitante, entrambi gli sposi sono incapaci di soddisfare i bisogni dell’altro, avendo la tendenza ad evitare la prossimità.

In conclusione possiamo affermare che le esperienze precoci di vita e lo stile di attaccamento giocano un ruolo importante nella formazione e nel mantenimento di relazioni significative oltre che influire sulla scelta del partner.

Report dal Convegno Donna e Sport di Catania – 22 novembre 2017

Il Convegno che si è svolto il 22 novembre 2017 a Catania nei locali del Palazzo Platamone, è stato organizzato e promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana nella persona del Consigliere Dott.ssa Graziella Zitelli ed ha avuto quale Responsabile Scientifico il Presidente Nazionale dell’Ordine, Dott. Fulvio Giardina. Ha fatto da cornice all’evento la mostra fotografica dal titolo “Donna è Sport nell’Unità d’Italia 1861-2011”, un’esposizione corposa, costituita da 70 pannelli formato 1 x 2 metri che hanno testimoniato, attraverso 700 immagini e brevi didascalie, l’evoluzione dello sport femminile dall’Unità d’Italia ai nostri giorni.

 

Donna e sport: il processo di emancipazione della donna attraverso lo sport

Il tema Donna e sport è stato trattato dai relatori, con interventi che hanno spaziato dall’emancipazione della donna attraverso lo sport, alla psicologia dello sport, dal diritto allo sport alla “sport terapia” nella disabilità fisica e psichica, per concludere con l’importanza dello sport nella malattia oncologica ed i racconti delle atlete tra sfide e motivazioni.

Apre i lavori il Prof. Santo Di Nuovo, Direttore del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Catania e Presidente del Corso di Laurea in Psicologia, con la considerazione che, al di là di ciò che divide uomini e donne nella pratica sportiva, andrebbe considerato ciò che accomuna, ovvero ciò che prescinde dal genere: l’educazione allo sport.

Il Dott. Pierluigi Torresani, Esperto in processi formativi che opera presso l’ Università Cattolica di Milano, ha offerto una lettura di questo percorso di emancipazione della donna attraverso lo sport, proponendo spunti di riflessione rispetto al pensiero di Pierre De Coubertin, il barone francese principale artefice del movimento olimpico moderno nato alla fine del XIX secolo, che si opponeva risolutamente all’agonismo femminile per la differente fisiologia della donna e il diverso ruolo nella società che la rendevano, a suo avviso, inadatta all’attività sportiva. Ha inoltre ben trasmesso il punto di vista di Candido Cannavò, che ha ricoperto per 19 anni la carica di direttore della Gazzetta dello sport, il quale scriveva nella sua rubrica Candidamente: “di aver conosciuto le pioniere e le eroine, le grandi atlete capaci di sfidare il mondo. Il loro fascino si incrociava con il nostro stupore“. Secondo Cannavò in nessun settore, come quello dello sport, si è realizzato un superamento di qualità rispetto all’universo maschile, ed è in riconoscimento a ciò che ha dedicato molte prime pagine alle atlete che ne hanno fatto la storia.

Alla tavola rotonda è intervenuta la Dott.ssa Cristiana Conti, membro del direttivo dell’AIPS (Associazione Italiana Psicologia dello Sport), nonché ex-tecnico per gli sport da combattimento, che ha parlato dei predittori dell’impegno verso lo sport ed ha offerto un quadro dello sport al femminile, ancora caratterizzato da modelli culturali stereotipati.

Lo sport come terapia

Il Prof. Fabio Lucidi ha poi più volte parlato del concetto di retorica nello sport, nell’accezione di accrescimento dell’efficacia di un discorso, ad opera del già citato De Coubertin, per il quale lo sportivo doveva essere uomo in quanto freddo, agonista e competitivo; il che è in linea con quanto i media ancora oggi trasmettono da un punto di vista comunicativo parlando non sempre di atlete, bensì di “ragazze” che praticano sport.

Ha fatto seguito l’intervento di Claudio Pellegrino, delegato provinciale del C.I.P. (Comitato Italiano Paralimpico) Sicilia che ha sottolineato l’importanza dello sport come “terapia” per i benefici che apporta a livello fisico, psichico e sociale; ciò attraverso anche qui un’evoluzione che è passata da un punto di vista di riconoscimento normativo, tra i concetti di inserimento, integrazione, inclusione delle persone con disabilità. Da un punto di vista prettamente sportivo, solo nel 1984 il Comitato Internazionale Olimpico approva il termine Paralimpiadi, il quale sarà utilizzato ufficialmente ai mondiali di Seul dell’88.

Molto toccanti, le testimonianze delle atlete intervenute al convegno. Tra tutte quella dell’ex pallanuotista Giusy Malato ha fatto vibrare i cuori. La più forte della storia di questo sport, l’unica donna ad aver vinto la “Calottina d’oro” (2003), premio che viene dato ogni anno al miglior giocatore del mondo. Con la nazionale vinse l’oro alle Olimpiadi di Atene (2004), due titoli mondiali (1998, 2001), un titolo europeo (1999), 14 scudetti consecutivi (1992-2005) con l’Orizzonte Catania, squadra che nel 2007/2008 condusse da allenatrice alla vittoria in campionato e in coppa Campioni. Racconta della sua sostituzione, dopo aver deciso con sacrificio e determinazione di programmare anticipatamente il parto pur di ottemperare ai suoi doveri professionali. Nell’aprile del 2008 diventa mamma, trovandosi costretta a scrivere una lettera per dichiarare che all’origine del suo licenziamento c’era anche la maternità.

La Dott.ssa Maria Cristina Scuderi, dirigente medico presso la clinica Morgagni di Catania, in linea con uno degli obiettivi dell’evento, ha messo in evidenza infine, l’importanza dell’attività sportiva dopo un percorso di malattia oncologica, neurologica e cardiopatica quale promotore del benessere psico-fisico della persona.

Sei un ragazzo estroverso e guidi spesso? Attenzione! Le probabilità che tu possa distrarti alla guida sono alte

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

 

La relazione tra i tratti di personalità e la distrazione alla guida

Il primo studio che analizza come i tratti di personalità influenzino la distrazione del guidatore.

L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che, ogni anno, circa un milione di persone perdono la vita in incidenti stradali. I maggiori motivi di distrazione che possono contribuire al verificarsi di questi incidenti mortali sono l’utilizzo dello smartphone ed il cambio di stazione radiofonica durante la guida.

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

Inoltre, da precedenti studi dell’Institute of Transport Economics norvegese, è emerso come gli incidenti tendono a verificarsi nei due secondi successivi alla deconcentrazione e per questo motivo i ricercatori hanno ritenuto che la comprensione della distrazione da parte del guidatore ed un intervento focalizzato alla riduzione di questa aiuterà ad impedire incidenti stradali e contribuirà a salvare diverse vite.

Lavorando sull’efficacia di un intervento atto a ridurre la guida distratta, gli studiosi hanno dato ai partecipanti allo studio la possibilità di scegliere tra una lista di piani il cui scopo è quello di ridurre il proprio comportamento distrattivo (facendo, ad esempio, corrispondere frasi tra loro: “se sono tentato dal superare il limite di velocità in autostrada” – “poi mi ricorderò che è illegale”.). Nel frattempo ad un gruppo di controllo sono state fornite informazioni sulla guida distratta, senza che fosse data loro la possibilità di scegliere dei piani, come quello appena riportato ad esempio. Successivamente, a distanza di due settimane, è stata misurata la distrazione dei conducenti, confrontando i soggetti dei due gruppi.

È emerso che non vi erano differenze significative tra i due gruppi, sia coloro che avevano fatto dei piani sia coloro che avevano solamente ricevuto delle informazioni sulla guida distratta hanno mostrato un declino della distrazione alla guida. L’intervento incentrato sulla formazione di piani non è risultato efficace, sembra che essere semplicemente esposti al materiale sulla guida distratta sia sufficiente a rendere i partecipanti più consapevoli delle proprie distrazioni.

In base ai risultati ottenuti, i ricercatori stanno lavorando a futuri interventi. Si ipotizzano attività future focalizzate principalmente sui gruppi a rischio (ad esempio, giovani ragazzi) ed interventi in cui l’elaborazione dei piani non è fatta di corrispondenze tra frasi da selezionare da una lista, ma piuttosto che i soggetti creino dei propri, così da essere maggiormente coinvolti nell’intervento.

In attesa di questi passi avanti, il consiglio rimane quello di esser consapevoli di quanto le proprie piccole distrazioni alla guida possano divenire letali.

ACT per il dolore cronico – Report dal workshop esperienziale di Verona, 10 novembre 2017

Si è svolto a Verona nella giornata di venerdì 10 novembre il workshop esperienziale sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per il trattamento del dolore cronico e l’ottavo incontro nazionale dell’ormai collaudato GIS “ACT-for Health”.

 

L’analisi funzionale e l’assessment del paziente con dolore cronico

L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Ospite del workshop il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna e presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state quella della definizione della componente dolore, dell’importanza dell’analisi funzionale nell’assessment dei pazienti affetti da dolore cronico e come questa possa essere una componente utile ed essenziale nel trattamento con il paziente. L’obiettivo finale di tale approccio è proprio quello di aumentare la flessibilità psicologica dei pazienti, vale a dire la loro capacità di essere pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze, e contemporaneamente, agire in linea coi propri valori, verso le cose che sono importanti per loro.

Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Nanni, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume “Oltre il dolore cronico”, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo dato dall’approccio Acceptance and Commitment Therapy (ACT) a tutti coloro che si occupano di dolore, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.

Il dolore è un’esperienza soggettiva, universale, immediata, e molto spesso invalidante. Quello del dolore è un tema molto attuale essendo un problema la cui entità è destinata ad aumentare, in relazione sia alla maggior incidenza di numerose patologie a sintomatologia dolorosa, sia all’invecchiamento della popolazione. Da uno studio europeo, Pain in Europe 2005, emerge che il 19% è la percentuale di persone che soffrono di dolore cronico in Europa, l’Italia, con una percentuale del 26%, è al terzo posto. Dalla letteratura scientifica si evince che in Italia una persona ogni quattro soffre di dolore cronico (Breivik et al. 2006, Melotti et al. 2009 e Apolone et al.2009).

Dalla definizione nell’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore (IASP): “(il dolore) è un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, è quello che esprime il paziente ed esiste ogni volta che il paziente lo esprime”. Tale definizione pone l’accento su due caratteristiche fondamentali dell’esperienza dolorifica: la percezione soggettiva del dolore e la sua duplice componente, sensoriale e affettiva. Infatti il dolore, definito sempre dall’ Associazione Internazionale per lo studio del Dolore, in quanto “esperienza spiacevole”, implica sempre un’esperienza emotiva, generalmente negativa.

Un’ulteriore componente del dolore fa riferimento alla sfera cognitiva, con meccanismi come l’attenzione, l’aspettativa, il significato attribuito all’esperienza dolorifica. Proprio per tali motivi la comunità scientifica ha raggiunto un consenso nell’interpretare il dolore come un’esperienza multidimensionale in cui una componente prettamente sensoriale comunica in modo bidirezionale con una componente emotivo-cognitiva.

Il dolore cronico secondo il modello biopsicosociale

Da qui si evince la necessità di inquadrare l’esperienza dolorifica all’interno del modello biopsicosociale, teorizzato da Engel negli anni ’80 sulla base della concezione della salute descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale modello considera per ogni tipologia di disturbo, le interazioni tra i fattori biologici, psicologici e sociali.
 Il dolore può esistere in duplice natura: acuto o cronico. Il dolore acuto è normalmente caratterizzato da una durata breve e limitata nel tempo, generalmente tende a regredire con la guarigione/la cessione dello stimolo nocivo, purché non incorra nella cronicizzazione. Esempi di dolore acuto possono essere il dolore da parto o il dolore post-chirurgico. Un dolore acuto diviene cronico se per lungo tempo rimane invariato. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra dolore cronico benigno e maligno. Si parla di dolore benigno quando il dolore cronico è provocato da diversi tipi di lesioni o patologie, come ad esempio nella fibromialgia. Si parla invece di dolore maligno solitamente in rapporto al dolore oncologico.

La definizione di dolore secondo il modello ACT

Durante la prima parte dell’incontro il professor Nanni ha illustrato la definizione di dolore, ridefinendola in chiave ACT. Secondo tale approccio, esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello che è naturalmente connesso alla vita di tutte le persone. A volte può essere forte, a volte tenue, ma di questa componente di dolore non ci si può liberare facilmente in quanto non sarà mai sotto controllo (ad esempio il dolore che deriva da un lutto, o da una malattia fisica). Si fa riferimento al dolore sporco quando parliamo di sofferenza emotiva, che deriva dai nostri sforzi per controllare i nostri sentimenti, nel tentativo di non provare dolore. Come conseguenza della fuga dagli eventi interni spiacevoli, viene a crearsi un nuovo set di sentimenti dolorosi. Questo “dolore sul dolore” è chiamato “dolore sporco”. Questa componente di dolore è quella su cui il farmaco non può agire, e su cui si innesca spesso una disabilità, in un circuito vizioso che implica dolore, paura del dolore, evitamento delle attività e infine appunto disabilità e naturale sofferenza che ne consegue.

Tale modello si propone di aiutare i pazienti ad essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con l’esperienza di dolore. Mettendo in atto azioni volte a ridurre o cambiare gli eventi interni che non vorremmo, causiamo un’amplificazione della sofferenza, dove pensieri e sensazioni sono incrementati.

In questo modo il paziente lascia la sua vita “in attesa”, la pone al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT e quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperenziale per quello che sono e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie.

L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo ai pazienti affetti da dolore cronico una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza dolorifica.

L’ACT prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: accettare quello che è al di fuori del nostro controllo personale, come può appunto essere il dolore, mentre ci impegniamo nel fare qualunque cosa possa permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Lo scopo dell’ACT in queste patologie, sottolinea il professor Presti, è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta.

L’ACT pone le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Ancora una volta, Presti sottolinea l’importanza di un’adeguata analisi del comportamento e rivolge a chiunque voglia approcciarsi a tale tipo di intervento un ottimo consiglio: “Prima di iniziare un trattamento ACT, una solida analisi funzionale risulta necessaria”. Un’ulteriore esaltazione quindi della behavior analysis, su cui si basa appunto l’approccio ACT, inserito per questo ed altri motivi tra le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione.

Inoltre, il terapeuta ACT fa ampio uso di esercizi esperienziali costruiti per aiutare il paziente a entrare in contatto con: pensieri, sentimenti e sensazioni fisiche. Tali esercizi permettono di fare esperienza di particolari sensazioni in un contesto diverso e più sicuro. Elicitare esperienze difficoltose permette che queste siano osservate con l’esperienza.

Concludendo l’esperienza di dolore cronico comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi condotti in ambito ACT, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro flessibilità psicologica.

Quando la sofferenza bussa alla tua porta e tu la informi che non c’è posto per lei,
questa ti risponde di non preoccuparti, perché ha portato uno sgabello.
Chinua Achebe, da Arrow of God (1967, p. 84)

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, l’invito è quello di partecipare al prossimo incontro internazionale che si terrà a Roma a fine marzo del GIS “Act for Health”, gruppo questo che nasce con l’obiettivo di riunire tutti i clinici interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute, del benessere e non solo.

“Terapie iniziate e finite, più delle volte che ho scaricato e cancellato Grindr” – da una riflessione di Hobbes sulla condizione omosessuale al giorno d’oggi – Fluidsex

Michael Hobbes, scrittore e attivista per i diritti umani originario di Seattle, ha narrato a Huffpost quella che è un po’ sia la sua storia sia la storia della maggior parte delle persone omosessuali, in un contesto in cui i progressi sociali e legali sono stati i più ampi e rapidi della storia dei gruppi minoritari.

 

Le domande di Hobbes sull’omosessualità

La domanda principale a cui l’autore cerca risposta è: “Come mai, nonostante il sostegno pubblico per il matrimonio gay sia salito dal 27% nel 1996 al 61% nel 2016 e molte persone omosessuali siano uscite allo scoperto, rimane una forte disparità di benessere tra omosessuali ed eterosessuali?”
Come mai le persone omosessuali hanno in media meno amici intimi rispetto alle persone eterosessuali? Come mai i tassi di depressione sono più alti? E così anche le sostanze sono più utilizzate? Vengono riportati maggiori tassi di solitudine, autolesionismo e suicidi. Per non parlare dei più alti tassi di malattie cardiovascolari, tumori, allergie e asma (Stults et al., 2015; Ferlatte et al., 2015; Hottes et al., 2016). A cosa sarà dovuta questa epidemia che colpisce le persone omosessuali? (TOGETHER ALONE – The epidemic of Gay Loneliness).

Negli anni le spiegazioni date innanzi a queste domande sono state differenti. Inizialmente si riteneva che le disparità di comportamenti e patologie tra omosessuali ed eterosessuali facessero parte di una sintomatologia legata all’omosessualità stessa. Ma successivamente, quando non si trattò più l’omosessualità come una patologia, tale disparità fu collegata alla forte non accettazione degli omosessuali da parte dei familiari, degli amici e della società.

Il senso di solitudine delle persone omosessuali al giorno d’oggi

Ma al giorno d’oggi, in contesti in cui molti omosessuali non si nascondono più e possono anche costruire facilmente una rete con altre persone non eterosessuali, come mai questa disparità di salute rimane marcata? Come mai ci sono omosessuali che non sono mai stati aggrediti fisicamente o sessualmente che presentano sintomi da disturbo da stress post-traumatico paragonabili a quelli di persone che sono state violentate? (Keuroghlian et al., 2017) Come mai omosessuali che non sono mai stati rinnegati dalla propria famiglia, né sono mai stati vittime di bullismo omofobico vivono un così forte senso di isolamento?

Attualmente, per trovare risposta a queste domande, si fa riferimento al concetto di “stress minoritario”. Far parte di un gruppo emarginato richiede un maggiore stress e degli sforzi maggiori per star dentro ai differenti contesti. Gli omosessuali, a differenza di altri gruppi minoritari, vivono un’ ulteriore aggravante connessa al fatto che il proprio stigma può essere nascosto. Ad esempio, un giovane ragazzo omosessuale dalla pubertà utilizzerà moltissime energie pensando a come comportarsi, a cosa dire e a come rispondere a determinate domande, senza poter condividere con le persone vicine questa fatica, in quanto il proprio stigma non è manifesto finché non sarà la persona stessa a volerlo rendere tale.
A questo proposito il ricercatore Hottes, amico di Hobbes, afferma che “non c’è bisogno che qualcuno ti chiami frocio perché tu debba regolare il tuo comportamento per evitare di essere chiamato così”. La regolazione dei propri atteggiamenti e comportamenti è un pensiero di controllo costante, un’incessante auto-osservazione.

Nascondere la propria omosessualità è come convivere con qualcuno che ti tocca insistentemente il braccio. All’inizio è snervante. Dopo un po’ diventa esasperante. Alla fine, non ti permette di pensare ad altro” (Elder, 2015).
Proprio nell’arco temporale incluso dal momento in cui una persona riconosce il proprio orientamento sessuale al momento in cui inizia a dirlo a qualcuno, i piccoli stressor quotidiani vengono vissuti con effetti eccessivi e non perché siano fortemente stressanti per propria natura, ma in quanto la persona inizia ad aspettare continuamente il loro arrivo (Pachankis et al., 2015). In altre parole, le persone rimangono costantemente attivate in attesa dell’eventuale verificarsi di questi eventi. Ritornando così al concetto che, anche in assenza di prese in giro, la persona continua ad auto-monitorarsi, percependosi in un sottile, ma perpetuo stato di rischio.

Non deve accadere molte volte (di essere, ad esempio, insultati in pubblico, senza esser mai stati attaccati fisicamente) prima di iniziare ad aspettarsi altro, prima che il cuore inizi a battere più velocemente ogni volta che si vede una macchina avvicinarsi”.

A proposito di stressor la scienza ha rilevato che le persone omosessuali producono meno cortisolo dei loro pari eterosessuali. Sembra che gli adolescenti omosessuali producano costantemente così tanto ormone dello stress, da determinare velocemente un decadimento del sistema di produzione ormonale, come accade naturalmente nel caso di persone eterosessuali in età adulta (Austin et al., 2016).

Queste disparità non sembrano ancora totalmente spiegate, essendo il vissuto interiore delle persone, sia legato ai movimenti e ai cambiamenti sociali sia per certi versi indipendente da essi o probabilmente solo più lento di loro nell’evolversi.

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gerontofilia: l’attrazione sessuale verso le persone anziane

Il termine gerontofilia deriva dal greco geron che significa anziano e philia cioè amore, affinità. Indica l’attrazione sessuale specifica, tendenzialmente esclusiva, verso persone anziane da parte di soggetti molto più giovani. Seppur né il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) né la Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati (ICD) hanno mai inserito un riferimento specifico a questo disturbo, in contesti forensi può essere classificato negli slot diagnostici del DSM 5, come “altra specificazione” o come “Disturbo Parafilico non specificato” (APA 2013, p. 705).

Maria Carlucci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

La parafilia e il disturbo parafilico

Recentemente, il DSM 5 ha introdotto un importante cambiamento in tema di parafilia/comportamento parafilico. Vengono considerate parafilie tutti quei comportamenti sessuali atipici per i quali il soggetto sente una forte e persistente eccitazione erotico-sessuale; tale condizione erotica è vissuta in perfetta egosintonia. Quando il comportamento parafilico invece, diventa una forma di dipendenza e il soggetto accusa un certo disagio interpersonale (egodistonia), allora è utile introdurre il concetto di Disturbo Parafilico. Il Disturbo Parafilico è quindi una parafilia, ma il soggetto, oltre ad avere un intenso e persistente interesse sessuale per particolari attività erotico-sessuali, vive l’esperienza e i vissuti parafilici con disagio, tanto da arrecare danni a se stesso e/o agli altri.

Gli studi sulla gerontofilia

Per quanto riguarda la gerontofilia, le descrizioni psicopatologiche variano, i casi sono scarsi e la riflessione medico/psicologica resta ancora tutta da scrivere.

Secondo l’ottica psicoanalitica, le cause del disturbo potrebbero essere riconducibili al mancato superamento dei complessi infantili di Edipo (per la madre) e di Elettra (per il padre). Si tratta certamente di una manifestazione della sessualità insolita che non deve essere necessariamente etichettata come “sbagliata” o “anormale” ma che diventa tale nel momento in cui l’oggetto di attrazione è una persona non consenziente o comunque soggetta ad umiliazione e sofferenza.

D’ altro canto, i case reports presenti in letteratura, generano spesso più domande che risposte.
Ad esempio una Letter to Editor pubblicata su Lancet, riporta i casi di 3 uomini, rispettivamente di 68, 82 e 85 anni che avevano avuto rapporti sessuali con donne anziane e cognitivamente compromesse, di età compresa tra gli 85 ed i 104 anni. Dato che gli uomini si erano rivelati come condannati in passato per violenza sessuale su minori, gli autori hanno sollevato la questione se i soggetti siano virati con il passare del tempo “da pedofilia a gerontofilia“.

Diversi studi, hanno tentato di dare informazioni sui sex offenders che prenderebbero di mira le persone anziane, ed alcuni di questi evidenziavano che la maggior parte degli abusi sessuali si verificano in strutture residenziali.

Recentemente, un articolo del 2014, riportava i risultati di una ricerca relativa a 119 presunti “sexual abusers” statunitensi (32 dei quali confermati come colpevoli) che sono stati segnalati alle autorità statali come abusatori di persone anziane residenti in strutture di cura; il più grande gruppo di accusati erano impiegati delle strutture di accoglienza oppure residenti nelle strutture stesse. Le caratteristiche degli abusatori che vittimizzavano sessualmente gli anziani erano prevalentemente: malati mentali, abusatori di sostanze o personalità con tratti dominanti o sadici.

In aggiunta, Holt (1993) ha riferito che la maggior parte degli offenders, in 90 casi di sospetto abuso sessuale verso anziani in Gran Bretagna, erano maschi e spesso impiegati del centro che forniva cure e l’abuso si era verificato all’interno delle residenze stesse.
Ovviamente nei casi di gerontofilia non consensuale, ad esempio con anziani malati che subiscono violenze sessuali, passiamo nel campo legale propriamente detto.

Uno studio americano del 2006 asseriva che le aggressioni sessuali che si verificavano in strutture venivano raramente segnalate alle forze dell’ordine ed i colpevoli erano spesso residenti della struttura coinvolta.

Nel nostro Paese la violenza sugli anziani è poco segnalata all’Autorità Giudiziaria, eppure la tendenziale crescita demografica della popolazione di età avanzata ha posto la società di fronte al problema dell’assistenza agli anziani.

Analizzando i casi di abuso sugli anziani, riferendosi agli articoli del Codice Penale, è stato constatato che, in un intero quinquennio, sono giunte all’osservazione della magistratura solamente pochissime denunce. I casi di “maltrattamento” ai danni delle persone di età avanzata che giungono alla Magistratura sono presumibilmente una minima parte della reale presenza del fenomeno.

Prendendo in esame l’ordinamento giuridico vigente in Italia, nel Codice Civile non vi sono riferimenti diretti agli anziani. Alcune citazioni si riscontrano, per contro, nella legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, la Legge 833/78, all’interno della quale si annovera, tra gli obbiettivi del nostro Sistema Sanitario Nazionale, la “… tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e rimuovere le condizioni che potrebbero concorrere alla loro emarginazione …”.

Analogamente, nel Codice Penale vi sono rare citazioni specifiche di tale figura; in merito a tale codice gli articoli che richiamano in modo più specifico al fenomeno della violenza contro le persone anziane sono quelli di “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, di “Abbandono di minore o incapace”, di “Violazione degli obblighi di assistenza familiare” e di “Circonvenzione di incapace”; in misura meno specifica sono coinvolti, inoltre, i delitti di “Lesioni personali” e di “Violenza sessuale”.

Attenendosi ai dati raccolti dall’ISTAT relativi all’anno 2005, all’interno della popolazione italiana i soggetti con più di sessantacinque anni sono ben il 20%. Applicando a tali numeri la stima dell’incidenza del fenomeno proposta dal NEAIS (National Elder Abuse Incidence Study) relative alle altre nazioni europee, ci si dovrebbe aspettare un numero annuo di casi di maltrattamento, in Italia, che si avvicinerebbe alle 500.000 vittime. È evidente, pertanto, quanto il fenomeno dell’abuso sull’anziano debba necessariamente iniziare ad essere considerato ed approfondito soprattutto da parte dei medici operanti in strutture pubbliche ed in residenze assistenziali, e degli operatori sanitari che si trovano quotidianamente a contatto con gli anziani; essi, infatti, rappresentano spesso l’unico accesso ai visibili segni di “maltrattamento” dell’anziano costituendo per la vittima una delle poche risorse di tutela cui possa fare riferimento.

Ecce Bombo (1987) – Nanni Moretti e la generazione post-sessantottina

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo. Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina.

 

L’arte ci attrae solo per ciò che rivela del nostro io più intimo. (Jean Luc Godard)

La domanda è però “sappiamo cosa si nasconde nel nostro io più intimo?”

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo.

Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina, di quei ragazzi senza scopi, senza direzioni, privi di spinta motivazionale sia a livello politico che sociale, complice sarà stata l’ironia che lo contraddistingue. “Il film non doveva far ridere

Il percorso psicoanalitico in Ecce bombo

Il percorso è quello di individuazione, l’analisi è evidente. L’arte, come citato, lo aiuta. La frase è di Jean Luc Godard, il fondatore della Nouvelle Vague, corrente da cui trae ispirazione Nanni Moretti e che in Ecce bombo più che mai è del tutto evidente. E’ evidente a partire dalle inquadrature, per passare ai dialoghi improvvisati e gli attori non attori, la caratteristica che crea il distacco e risponde alla domanda è che attraverso il film si intraprende un percorso psicoanalitico, tipico della filmografia Morettiana.

La storia di Ecce bombo è quella di Goffredo, Vito, Mirko e lui, Michele, il protagonista.

Michele ed i suoi amici si sono da poco diplomati. Il malessere del tempo sprecato al bar, dei difficili rapporti con le famiglie, la mancanza di obiettivi da perseguire, la difficoltà nei rapporti sentimentali e l’incomunicabilità con gli altri porta i ragazzi a voler intraprendere in maniera gruppale e del tutto autonoma un percorso di autocoscienza. Ci si interroga sulle tematiche più disparate, ma gli argomenti preferiti sono sempre gli stessi, in fondo, si parla di sentimenti, il senso di vuoto, il tempo, la noia, il qualunquismo, la difficoltà nell’approcciarsi alla socialità, il non essere capiti, il disagio di molti, nelle cose più banali.

No veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no…ah no: se si balla non vengo. No, no…allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele vieni in là con noi dai…” e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo…”. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci.

ECCE BOMBO – LA SCENA DA CUI E’ TRATTO IL MONOLOGO RIPORTATO:

E’ evidente con questo dialogo/monologo di Michele al telefono con un suo amico che lo sta invitando ad una festa l’insicurezza del personaggio. Chi sono? Cosa voglio?

Il problema cruciale di Michele Apicella è proprio quello dell’identità,di stabilire chi egli sia e quali siano i suoi rapporti con il resto del mondo. Ma non è il solo, e il gruppo di autocoscienza che creano i quattro amici, lo chiarifica. Ognuno di loro si identifica con l’altro, cerca una spalla ma diventando un gruppo e pensando alla teoria psicoanalitica di Bion sui gruppi, in effetti questi diventano una mente unica e la risposta non può arrivare, perché dal “chi sono io?” la domanda passa al “chi siamo noi?”. La base quindi rimane uguale.

La teoria del gruppo di Bion in Ecce Bombo di Nanni Moretti

Vediamo meglio la teoria del gruppo per Bion.

L’uomo è un animale sociale e, nel confronto con gli altri, sperimenta un’apparente contraddizione: il confronto con il gruppo determina la perdita di individualità, frutto di una regressione inconscia. Per tale ragione, il gruppo è causa di grandi frustrazioni per i suoi membri. Allo stesso tempo, però, l’uomo è attratto verso la socializzazione poiché, grazie al gruppo, può sperimentare il senso di appartenenza e soddisfare parte dei propri bisogni materiali e psicologici e questo è proprio il caso evidenziato nel film di Nanni Moretti, Ecce bombo.

Nei gruppi gli individui sperimentano, quindi, due tipi di attività e di stati mentali: uno cosciente e razionale, l’altro incosciente e pulsionale. Il primo è definito “gruppo di lavoro” ed è legato al conseguimento di traguardi concreti, esplicitamente dichiarati in vista del raggiungimento di un determinato risultato. A questa attività cosciente si alterna costantemente una dinamica inconscia, derivante “dai contribuiti anonimi dei singoli membri che inconsciamente mettono in comune stati emotivi fortemente regressivi, a motivo dei quali essi perdono parte della loro individualità e acquistano il sentimento di appartenenza al gruppo, sentito come un’entità distinta dalla somma dei singoli membri”. Nel gruppo emerge e si sviluppa un’esperienza sensoriale, affettiva, emotiva, inconscia, una “vita propria” definita come “mentalità di gruppo” o “gruppo di base”. I membri, in seguito ad una regressione inconscia, rinunciano a qualcosa di se stessi, nel momento in cui agiscono come parti del gruppo, da esso condizionati. È importante occuparsi delle dimensioni emotivo-affettive che appartengono al mondo inconscio del gruppo, poiché esse interferiscono continuamente sul gruppo di lavoro, cioè sull’esecuzione del compito.

Bion individua tre modalità di funzionamento del gruppo, dette “assunti di base” vere e proprie fantasie inconsce di tipo magico-onnipotente che il gruppo produce per raggiungere gli obiettivi e  per risolvere i problemi.

Esse rappresentano difese adottate dal gruppo nei confronti dello sviluppo-trattamento, con lo scopo di non far provare al gruppo la frustrazione legata all’apprendimento dall’esperienza, soggetta – per sua natura – a sforzo e a dolore. Essendo inconsce, sono al di fuori della consapevolezza dei membri ed ostacolano l’attività attraverso forti tendenze emotive. A questo proposito, Bion distingue tre assunti di base: 1) di dipendenza: 2) di accoppiamento; 3) di attacco-fuga.

Il primo descrive la situazione secondo cui il gruppo si riunisce allo scopo di dipendere da qualcuno o da un capo, il quale può risolvere tutti i problemi e sul quale vengono proiettate molte aspettative. Il secondo si riferisce all’attesa o alla speranza di un evento o di un individuo, un Messia, che risolva tutti i problemi del gruppo. Il terzo assunto di base è caratterizzato da una convinzione globale secondo cui esiste un nemico esterno da cui difendersi o attraverso l’evitamento/fuga o tramite l’attacco e poi la fuga.

L’oscillazione tra i due stati mentali – quello razionale consensuale e quello inconscio collusivo – dà origine alla “cultura di gruppo”, cioè alla sua struttura organizzativa vivente, alla sua attività reale, al suo sistema relazionale interno che, secondo Bion, è un tentativo di mediazione automatico e non cosciente tra il gruppo considerato come realtà autonoma e l’individuo.

Questi assunti si intravedono in qualche modo nella pellicola di Ecce Bombo: questo rimando ipotetico e semplice in qualche modo è la chiave della trama del film e del processo di individuazione di Michele e dei suoi amici, per cui evidentemente non può calzare troppo la sopra descritta teoria psicoanalitica del gruppo per il loro processo di individuazione.

Le diverse caratteristiche dei personaggi emergono inevitabili; in queste riunioni infondo non si intraprende un percorso analitico, infatti, tutto ruota intorno una fluttuazione inconcludente di argomenti e problematiche personali esistenzialistiche. Le differenze personologiche si manifestano e a lungo andare, ognuno di loro, Michele soprattutto si distaccherà per procedere con un processo di individualizzazione personale, forse anche se vogliamo di maturazione, che Nanni Moretti, simboleggia magistralmente e metaforicamente nell’ultima scena, quella in cui tutti gli amici dovrebbero andare a trovare Olga, un amica comune, ma dove arriverà solo Michele.

Arricchire il bagaglio lessicale di un bambino? Basta avere genitori che contano! – Le possibili relazioni tra alfabetizzazione e calcolo domestico

La quantità di parole conosciute da un bambino in età prescolare sembra essere influenzata più dalla matematica che dalla lettura.

 

Genitori, se ci tenete allo sviluppo linguistico dei vostri bambini, insegnate loro a contare!

David Purpura, ricercatore di scienze dell’educazione e psicologia clinica, ha condotto uno studio su 114 bambini tra i 3 ed i 5 anni ed i rispettivi genitori. È stato chiesto ai genitori di lavorare insieme ai loro figli sulla lettura di storie e su esercizi di numerazione.

I ricercatori hanno valutato i bambini su quattro componenti (vocabolario definitivo, consapevolezza fonologica, conoscenza della scrittura e competenze di calcolo) in autunno e successivamente in primavera.

Lo scopo di questo studio è stato quello di esplorare le possibili relazioni tra alfabetizzazione e calcolo domestico.

Il rapporto tra alfabetizzazione e calcolo domestico: i risultati dello studio

Il calcolo domestico predice i risultati del vocabolario definitivo. L’esposizione ai numeri di base ed ai primi concetti matematici, nell’ambiente casalingo, predice il miglioramento del vocabolario generale dei bambini in età prescolare, più di quanto possa fare la lettura di storie o altre interazioni ricche di contenuti alfabetizzati.

Come mai questi risultati? I ricercatori ipotizzano che sia proprio il dialogo che si viene a creare quando i genitori insegnano ai propri figli la matematica, spronando i propri figli al confronto, ad incrementare le abilità linguistiche dei bambini.

Essendo i risultati attuali solamente correlazionali, in futuri approfondimenti sperimentali sarà necessario valutare la causalità dei risultati ottenuti.

E quando i genitori non si sentono abbastanza competenti in matematica? Un metodo per tutti

David Purpura lavora da anni sugli strumenti che i genitori possono utilizzare per portare la matematica tra le mura domestiche ed ha notato che spesso i genitori sono più propensi a dedicarsi all’ alfabetizzazione, piuttosto che alla matematica con i propri figli. Questo accade in quanto i genitori stessi sentono di non esser abbastanza bravi e competenti in matematica.

Ma Purpura ritiene che non ci sia bisogno di una laurea in scienze matematiche, basta saper contare!

In pratica, per incoraggiare l’ apprendimento matematico dei propri figli si può parlare di conteggio applicandolo alla realtà quotidiana. Contare i prodotti che si acquistano al supermercato, oppure, interagire con i propri figli includendo sempre dei conteggi (ad esempio “per colazione ci sono DUE uova”, anziché “per colazione ci sono le uova”; oppure “mi passi TRE carote?” anziché “mi passi le carote?”, e così via).

Non ci resta che attendere i futuri sviluppi dello studio e iniziare a provare (e contare!).

Teoria della regolazione affettiva. Un modello clinico (2017) di Daniel Hill – Recensione del libro

Il volume Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico di Daniel Hill rappresenta un ottimo tentativo di sintesi di ipotesi, dati, teorie che partono dal modello psicanalitico per ampliare e integrare con gli studi più recenti l’ampia gamma di informazioni che riguardano la regolazione degli stati del sé.

 

Come affermato nell’introduzione, il volume “è un’integrazione di teoria dell’attaccamento, neurobiologia affettiva dello sviluppo, neurobiologia dello sviluppo sociocognitiva, studi emozionali, studi madre-bambino e psicoanalisi dello sviluppo”. Ne risulta un manuale chiaro e ben organizzato, comprensibile anche al lettore con una differente formazione di base.

Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico – Un manuale tra teoria e pratica clinica

Dopo l’introduzione, in cui viene chiarita la terminologia essenziale, il libro Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico si divide in quattro parti, corrispondenti a diversi aspetti del modello presentato: (1) la teoria del corpo-mente, (2) teoria dello sviluppo, (3) teoria della patogenesi e (4) teoria delle azioni terapeutiche. Fin dall’architettura del volume si percepisce lo scopo finale dell’autore, ovvero creare un manuale capace di integrare teoria e pratica clinica.

Tra i contributi più originali troviamo il modello corpo-mente e, nel capitolo VIII, alcune idee sulla dissociazione moderata. Nella prima parte del manuale Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico, viene esposta la teoria dell’attaccamento, con gli strumenti utilizzati per la codifica dei pattern di attaccamento. Nel secondo capitolo, viene affrontato nello specifico ciò che si intende con “modello corpo-mente” e i punti di contatto tra psicoanalisi e biologia. Gli stati del sé vengono posti su una polarizzazione che va da regolati/integrati a disregolati/dissociati, con le relative caratteristiche specifiche. Successivamente vengono presentati gli aspetti neurobiologici del sistema di regolazione affettiva e i ruoli delle diverse strutture coinvolte. Il quarto capitolo è dedicato al cervello destro, oggetto di numerosi studi curati dal prof. Allan Shore, e sede dei processi cognitivi impliciti (o, per usare la terminologia psicanalitica, inconsci).

La seconda parte del volume Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico si apre nuovamente con la teoria dell’attaccamento classica, nucleo dell’apprendimento di modalità efficaci di regolazione affettiva. In seguito, viene dato spazio al concetto di mentalizzazione, riprendendo il modello di Fonagy e sottolineandone la valenza in termini di sistema secondario di regolazione. Nel VII capitolo viene presentata la teoria dell’attaccamento moderna, la quale delinea le strutture neurologiche e le dinamiche psicobiologiche del sistema primario di regolazione affettiva e ne collega lo sviluppo alle esperienze di regolazione affettiva della relazione di attaccamento (pag. 109).

Nella parte dedicata all’eziopatogenesi (parte terza del manuale) emerge la centralità del ruolo dei traumi relazionali nell’insorgenza della psicopatologia. D’altronde, se il disturbo psichico viene concettualizzato come mancanza di un’efficace regolazione affettiva, e quest’ultima si sviluppa nel legame d’attaccamento, ecco che è lì che dovremo cercare l’origine della problematica attuale. La natura del trauma relazionale, che si affianca quindi alla specificità del pattern insicuro di attaccamento, determina la qualità del deficit di regolazione affettiva. Da ciò hanno origine la psicobiologia del trauma evitante, quella del trauma preoccupato e quella del trauma disorganizzato. Questa parte del libro Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico, in particolare, meriterebbe di essere approfondita, perché il rischio di riduzionismo è molto alto e la letteratura scientifica risulta ancora frammentata. Il nono capitolo si sofferma sulle condizioni di dissociazione cronica e grave, dovuta a condizioni di ipo- o iper- arousal spesso perpetrate nel tempo.

In un compendio che ambisce a essere così completo non poteva mancare una sezione dedicata ai disturbi di personalità, che vengono difatti trattati nel capitolo X e correlati sempre al trauma relazionale (in particolare vengono affrontati il disturbo narcisistico e il disturbo borderline, sebbene non nello specifico). A seguire viene dedicato un capitolo alla vergogna pervasiva dissociata, definita come forza patogenetica primaria che sottende i disturbi psichiatrici dello sviluppo, un importante motivo di rimozione e un fattore chiave nell’arresto evolutivo (pag. 169). Tale definizione sembra un retaggio del passato e in effetti le fonti bibliografiche citate risultano particolarmente datate. Solo quando tale aspetto viene collegato al trauma complesso e al trauma di sviluppo (forse sovrapponendo definizioni di concetti che non sono sempre intercambiabili) possono trovare posto ricercatori contemporanei.

L’ultima parte di Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico è dedicata alle azioni terapeutiche che possono essere praticate alla luce della teoria esposta. La relazione tra paziente e terapeuta è uno strumento essenziale, in cui secondo l’autore può essere riorganizzato il sistema di regolazione affettiva, attraverso processi terapeutici più o meno impliciti. Anche in questo caso, sarebbe necessario un nuovo volume per capire al meglio i meccanismi descritti da Hill, autore di questo volume, psicoanalista e editor-in-chief del Center for the Study of Affect Regulation. Nell’attesa, il suggerimento è quello di godervi questo viaggio mano nella mano con uno dei più moderni psicoanalisti.

In Treatment. La serialità in analisi – Recensione del libro

In Treatment. La serialità in analisi è un libro di Elisa Mandelli. Si tratta di una ricognizione estremamente completa su tutto l’universo “ In Treatment ” serie TV che come noto, ha dato vita non solo a una catena di adattamenti su molti continenti ma anche anticipato una modalità di circolazione globale dei modelli seriali di grande efficacia.

 

L’ analisi di In treatment nel libro

Partendo dal prototipo israeliano (BeTipul), da cui nasce tutto, l’avventura seriale di In Treatment è sottoposta a vari tipi di esame:

1) Narrativo: gli impianti, le differenze, i criteri compositivi che differenziano i diversi prodotti a partire appunto da quello israeliano, per passare allo statunitense in cui era necessario riadattare una sceneggiatura preesistente all’insieme di regole consolidate nell’industria americana per passare ad altri paesi, tra cui l’Italia. Un caso di riadattamento di sceneggiatura interessante è portato dai paesi dell’est Europa che non vantano una tradizione psicoanalitica come nel resto del mondo, basti pensare alla Romania dove il regime di Ceausescu tra il 1965 ed il 1989 bandì la psicoterapia, creando anche negli anni a seguire un clima di sospetto e difficoltà nel fidarsi a raccontare i pensieri più intimi ad una persona estranea. La narrazione è ben scandita e divisa nelle giornate della settimana ed ogni giorno vede un suo paziente. Lo stile si adatta perfettamente al format televisivo e mima in qualche modo anche il modello soap opera che porta ad inchiodare lo spettatore alla poltrona.

2) Funzionale e Simbolico: centrato sui personaggi. Lo psicoanalista e i diversi pazienti piacciono e rendono la serie seguibile perché infondo parlano di problemi assoluti e archetipici che possono cambiare eventualmente in raffronto al riadattamento basato su tradizioni ed identità locali ma che rimangono comunque di chiave universale.

3) Formale: in cui si analizzano lo spazio e lo stile tra i diversi adattamenti, la location per il setting che in alcuni casi è più ricco e dettagliato, la poltrona, il divano, i vari strumenti noti in analisi, le entrate e le uscite per i pazienti, ambiente interno, ambiente esterno.

4) Psicoanalitico: parte dedicata agli psicoanalisti e al loro pensiero in merito alla serie che può essere si un confronto sul pensiero legato al prodotto ma anche uno spunto di riflessione sulla diversità dei diversi contesti.

Tutto quindi in qualche modo gira intorno al paragone tra le diverse culture ed i diversi approcci nel raccontare il percorso psicoanalitico, nel mondo che a quanto pare è attrattiva con le dovute peculiarità ovunque.

Il trauma dimenticato. L’interpretazione dei sogni nelle psicoterapie: storia, tecnica, teoria – Recensione del libro

Il trauma dimenticato. L’ interpretazione dei sogni nelle psicoterapie: storia, tecnica, teoria: un nuovo libro sull’ interpretazione dei sogni è l’occasione per fare il punto sulla psicoanalisi oggi sia dalla prospettiva clinica che da quella istituzionale.

Il trauma dimenticato: la psicoanalisi dei sogni

Prendendo abbastanza alla lettera il titolo del libro, Il trauma dimenticato potrebbe essere considerato fondamentalmente l’elaborazione di un lutto: il lutto per quanto la psicoanalisi prometteva di essere all’inizio della sua storia e nel corso dei decenni successivi non è forse mai diventata. Una lunga sezione iniziale del testo Il trauma dimenticato, infatti, è dedicata piuttosto che alla psicoanalisi dei sogni, al sogno della psicoanalisi, o almeno al sogno di alcuni di coloro che hanno storicamente posto la psicoanalisi al centro della propria esistenza (clinica, teorica e anche filosofica, in certi casi).

Armando e Bolko, infatti, si inseriscono in una tradizione di pensiero che ha considerato le idee di Freud come possibile punto di partenza per una profonda evoluzione dell’umanità. Il freudismo aveva originariamente un carattere pressoché eversivo: questo pensava il Padre Fondatore quando nel 1909, rivolto a Jung, disse che gli Americani non sapevano che loro due stavano portando “la peste”. Tanto rivoluzionaria appariva la psicoanalisi in origine, che il nome di Freud è stato più volte accostato a quello di Marx, malgrado le idee politiche freudiane fossero sostanzialmente moderate.

La psicoanalisi, ai suoi esordi, si presentava veramente come portatrice di un profondo cambiamento nei costumi (in particolare sessuali) dell’umanità e come essenzialmente anti-istituzionale. Il movimento psicoanalitico, tuttavia, nel corso del tempo si è trasformato a sua volta in istituzione e luogo di potere, attraverso l’International Psychoanalytic Association, l’associazione degli psicoanalisti che era nata assai modestamente come “Società del mercoledì” (dal giorno in cui si incontravano Freud e i primi allievi). Fu infatti l’IPA a trasformare il principio dell’analisi didattica (l’analisi del futuro analista) in uno strumento di coercizione per i candidati (Kernberg, 1987) e a imporre il primato della psichiatria al proprio interno.

Sembra in effetti assai significativo che le pochissime idee di Freud, da subito completamente disattese dai suoi seguaci, riguardavano principalmente la formazione degli analisti. Secondo Freud, l’analisi didattica poteva risultare piuttosto breve (Freud, 1912); avrebbe però dovuto essere ripetuta ogni cinque anni (Freud, 1937). Freud dedicò inoltre un intero saggio a spiegare che gli studi universitari di medicina non dovessero costituire l’unica porta di accesso alla pratica analitica e nemmeno la porta principale (Freud, 1925). All’inverso, l’analisi didattica all’interno dell’IPA divenne un impegno da centinaia di ore (ma una volta terminata, l’esperienza era ed è considerata chiusa per sempre); mentre gli studi di psichiatria, largamente preferiti un po’ ovunque dalle sezioni nazionali dell’IPA, sono stati a lungo l’unica ed esclusiva possibilità di essere ammesso alla formazione come analista negli Stati Uniti.

Quando Freud provò a far modificare la presa di posizione dei colleghi americani, Abraham Brill, loro leader, mise immediatamente in chiaro che in caso di insistenza l’intero gruppo di oltre Atlantico avrebbe rescisso i suoi legami dall’associazione internazionale (Jones, 1953-1957).

Non molti sono stati i tentativi di modificare il roccioso assetto istituzionale dell’IPA, ma tra i pochi, uno di quelli storicamente più significativi risultò l’organizzazione di un Controcongresso a Roma nel 1969, in parallelo al XXVI Congresso internazionale di psicoanalisi che si teneva nella stessa città (Bolko e Rotschild, 2006). Di tale Controcongresso Marianna Bolko fu uno dei protagonisti: un’immagine dell’epoca rimasta iconica la ritrae insieme a Elvio Fachinelli nell’atto di attaccare un manifesto di protesta, nel quale le due esse di “Congress” sono sostituite da altrettanti simboli del dollaro (la foto è stata di recente ripubblicata in Herzog, 2016).

 

Né l’iniziativa del 1969, tuttavia, né il successivo “manifesto” per la riforma della società psicoanalitica (Aa. Vv., 1974) ebbero un seguito in Italia e anche altrove:

Il dibattito sulla formazione prosegue ancora oggi in ambito istituzionale, con consapevolezza indubbiamente maggiore che nel passato, ma producendo solo cambiamenti conservativi o irrisori (Armando e Bolko, 2017, p. 41).

Ciò che è cambiato è il mondo circostante, dove la psicoanalisi non è più l’unico paradigma psicoterapeutico. In Italia, per esempio, la legge Ossicini ha travolto le ubbie sull’identità del terapeuta e sul suo percorso formativo. Lo psicoterapeuta non ha nessun obbligo di seguire un percorso analitico prima di esercitare la professione di fronte alla legge. Decenni di discussione sul controtransfert sono stati cancellati da una norma che ne stabilisce, si può dire, l’irrilevanza. Si può concordare o meno sul principio, ma lo stato dei fatti non cambia.

Il trauma perduto e l’ interpretazione dei sogni

Se Armando e Bolko si soffermano all’inizio del libro Il trauma perduto su questioni di storia della politica istituzionale della psicoanalisi, è proprio per ripartire dal lascito freudiano originario. Si capisce, quindi, che Il trauma dimenticato è un testo concepito come militante, e alla luce di questa impostazione deve essere letto. In particolare, da parte degli autori non c’è e non ci può essere alcuna intenzione di proporre una storia obiettiva della tecnica psicoanalitica dell’ interpretazione dei sogni, come un lettore potrebbe forse anche legittimamente aspettarsi. Al contrario, IL libro di Freud del 1899, L’ interpretazione dei sogni, appunto, viene inteso come testo del quale recuperare il carattere di fondamento (e si potrebbe affermare: sia in senso positivo che negativo).

In quanto testo militante, Il trauma dimenticato legge i tentativi teorici di revisione del dettato freudiano sull’ interpretazione dei sogni esclusivamente in funzione della loro vicinanza o distanza da Freud, cioè in quanto “conferme”, sia pure a diverso livello (cap. 7) oppure “alterazioni” (cap. 8) dell’originale. Particolarmente forte è la scelta delle sottoclassi nel quale vengono divise queste ultime: edulcorazioni, ibridazioni, profanazioni (sic!), scismi.

Tra le edulcorazioni vengono fatte rientrare le modifiche della formulazione del complesso edipico, che costituirebbe la base dell’ Interpretazione dei sogni. Edulcorazione, per esempio, è classificata la teoria di Kohut del sogno come stato del Sé (cioè come espressione della condizione presente del sognatore).

Tra le ibridazioni sono annoverate le proposte di fondere la psicoanalisi con altre discipline (a partire dal tentativo del pastore Pfister, amico di Freud, di renderla compatibile con la religione).

La categoria delle profanazioni comprende tutti i tentativi di negare il valore dell’ interpretazione dei sogni semplicemente perché si nega in generale il valore del lascito freudiano, sulla base di una presunta disonestà intellettuale (o peggio) dello stesso Freud, come ha proposto una pubblicistica particolarmente di moda negli anni novanta (chi scrive ha a suo tempo analizzato i contenuti di tale pubblicistica: Innamorati, 2000).

Gli scismi corrispondono alle proposte teoriche che hanno spinto i rispettivi autori al di fuori del movimento psicoanalitico freudiano: Alfred Adler, “K.” G. Jung e Jacques Lacan. Mancano all’appello e alla classificazione diversi libri che hanno segnato la storia della tecnica dell’ interpretazione dei sogni (Bonime, 1962; French e Fromm, 1964; Lichtenberg, Lachmann e Fosshage, 1996, tra i tantissimi) e di alcuni viene largamente sottovalutato il contenuto innovativo (Sharpe, 1937): va appunto ribadito, però, che Armando e Bolko non intendevano proporre un testo storico in senso letterale ma una testimonianza e soprattutto una proposta di innovazione clinica, che viene sviluppata nell’ultima sezione di Il trauma dimenticato.

Il lavoro dell’ interpretazione dei sogni viene suddiviso in una serie di operazioni che rientrano in due gruppi fondamentali: i “momenti costitutivi” e i “momenti operativi”. Tra i momenti costitutivi vanno classificati ciò che gli autori chiamano “formazione della mente” e la “costruzione del contesto”. Gli autori individuano nei momenti costitutivi, infatti, una serie di accorgimenti volti a focalizzare l’attenzione dell’interprete con i giusti tempi di attesa sugli elementi fondamentali del contenuto onirico e sulle caratteristiche del lavoro analitico che si sta svolgendo e fa da cornice alla presentazione dei sogni (secondo Armando e Bolko, per esempio, è possibile classificare otto diversi possibili atteggiamenti dell’analizzando rispetto al sogno, ognuno dei quali suggerisce altrettanti atteggiamenti interpretativi dell’analista). I momenti operativi descrivono invece come debba procedere l’interpretazione vera e propria, dalla “connessione” (cioè l’individuazione dei nessi tra gli elementi significativi del contenuto onirico”) alla fase finale di “valutazione”. Senza mai perdere quel carattere militante che emerge anche nel voler sottolineare che un metodo rigoroso serve anche a evitare di “perdersi in quell’indiscriminato divagare emblematicamente rappresentato dall’opera di Jung del 1912 che segnò la sua separazione da Freud” (Armando e Bolko, 2017, p. 161).

Miglioramento del pensiero innovativo e della connettività cerebrale attraverso un training cognitivo strategico

Il pensiero innovativo o cognizione innovativa viene definito come un dominio cognitivo caratterizzato da adattabilità e flessibilità di pensiero che influisce sulla vita decisionale, sulla resilienza e sul benessere psicologico; è ampiamente riconosciuta come una capacità vitale caratterizzata da un tipo di pensiero adattivo e flessibile.

 

Interventi non invasivi, come un training cognitivo o l’esercizio fisico, sono sempre più gettonati tra i modi per incrementare e allenare le funzioni cognitive e cerebrali durante tutto il corso della vita. Uno degli aspetti più fondamentali ma poco studiati della cognizione umana è il pensiero innovativo, specialmente negli anziani –  sostiene la Dr.ssa Sandra Bond Chapman neuroscienziata cognitiva e fondatrice del Center for Brain Health dell’Università del Texas a Dallas.

Il pensiero innovativo o cognizione innovativa viene definito definito come un dominio cognitivo caratterizzato da adattabilità e flessibilità di pensiero che influisce sulla vita decisionale, sulla resilienza e sul benessere psicologico; è ampiamente riconosciuta come una capacità vitale caratterizzata da un tipo di pensiero adattivo e flessibile (Chapman et al., 2017). Il pensiero innovativo può essere una capacità cognitiva fondamentale e una funzione cerebrale che consente di rispondere in modo efficace a richieste di vita impegnative e in costante cambiamento (Saggar et al., 2016).

Il pensiero innovativo negli anziani: migliorarlo attraverso un training cognitivo

In un nuovo studio pilota, pubblicato recentemente in Frontiers in Aging Neuroscience, la neuroscienziata cognitiva Sandra Bond Chapman e il suo team hanno provato a dimostrare come uno specifico training cognitivo può favorire un miglioramento del pensiero innovativo nelle persone anziane.

La ricerca è stata condotta in adulti in salute con un’età compresa tra i 56 e i 75 anni e per misurare la cognizione innovativa i ricercatori si sono avvalsi della capacità quantitativa e qualitativa di differenti livelli di interpretazioni astratte nelle diverse fasi del training esaminando al contempo i cambiamenti cerebrali attraverso la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) nelle aree che interessano la default mode network e la rete dell’esecutivo centrale.

In questo caso i ricercatori hanno condotto uno studio randomizzato, analizzando e comparando sia gli effetti dello SMART program (Chapman et al., 2017) sia dell’esercizio aerobico, conosciuto come salutare per il benessere mentale, sul pensiero innovativo dei soggetti sottoposti al training.

Lo SMART program, nello specifico sarebbe l’acronimo di Strategic Memory Advanced Reasoning Training, letteralmente tradotto come training di memoria strategica e ragionamento avanzato, il quale è stato sviluppato al Center for BrainHealth di Dallas e si focalizza sull’apprendimento di strategie che favoriscono l’attenzione, il ragionamento e la prospettiva generale.

Questo studio rivela che il training cognitivo può essere di aiuto per accrescere le capacità cognitive e costruire la resilienza contro il declino nel benessere delle persone adulte – sostiene la neuroscienziata Chapman.

Ogni gruppo è stato sottoposto al training tre ore a settimana per dodici settimane e i partecipanti sono stati valutati tre volte durante tutto il periodo del training – una fase di baseline, una centrale e una finale –  per verificare i cambiamenti e l’incremento delle attività cerebrali nelle aree interessate e le capacità di diversi livelli di interpretazione astratta.

Oltre a valutare gli effetti del training cognitivo, questo studio provvede anche a testare l’affidabilità dello strumento che valuta la cognizione innovativa, la quale è stata sempre relativamente ignorata a causa della complessità del pensiero innovativo – sostiene la Chapman.

In relazione ai risultati, i componenti del gruppo sottoposto allo SMART program (SMART) hanno mostrato un incremento del 27% sulla performance del pensiero innovativo migliore dalla fase baseline alla fase finale del training cognitivo. Invece, il gruppo sottoposto ad esercizio fisico non mostra miglioramenti.

Questi risultati positivi nel gruppo sottoposto al training cognitivo sono sostenuti dalla fMRI, attraverso la quale è stato possibile individuare un incremento della connettività tra le cellule del cervello nelle aree che interessano l’ esecutivo centrale. E’ possibile, quindi, vedere come questa alta attività nella rete dell’esecutivo centrale corrisponda un miglioramento della cognizione innovativa.

I progressi nel campo del fMRI ci permettono di misurare i differenti aspetti delle funzioni del cervello – dice il Dr. Sina Aslan, specialista della fRMI al Center for BrainHealth.

Questi risultati suggeriscono che essere mentalmente attivi non solo mitiga il declino cognitivo, ma ha anche il potenziale di “rinvigorire” il pensiero innovativo, il quale è tipicamente perso con l’età.

La neuroscienziata Chapman si dichiara incoraggiata dai risultati ottenuti e conclude sostenendo che:

Il training di ragionamento offre un intervento promettente ed economicamente vantaggioso per migliorare la cognizione innovativa, una delle capacità più preziose e fruttuose della mente umana a qualsiasi età.

 

I cambiamenti nella sessualità durante il ciclo di vita di una coppia: dalla gravidanza alla genitorialità

La gravidanza porta a notevoli cambiamenti nell’equilibrio relazionale di una coppia e nonostante l’aspetto affettivo possa essere rafforzato dalla nascita di un figlio, la sessualità risente di diversi fattori: biologici, fisici, familiari, culturali, religiosi e sociali. Questi posso portare a tabù e condanne all’attività sessuale con conseguente diminuzione dei rapporti; risulta pertanto necessario per ogni coppia ridefinire l’equilibrio tra i ruoli di genitori e partner sessuali.

Elisabetta Momo e Giada Sera, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Introduzione

La coppia subisce numerosi cambiamenti durante il ciclo di vita familiare sia relazionali sia legati alla sessualità; la funzione sessuale di coppia cambia ed è soggetta a diversi fattori di rischio in base alla fase in cui ci si trova.

La coabitazione è una evoluzione nella coppia che ha numerosi risvolti a livello relazionale, giuridico e pratico. In questa fase avvengono solitamente aggiustamenti tra i partner, non da ultimo anche quello a livello sessuale. Da diversi studi è emersa una diminuzione della frequenza dei rapporti sessuali nelle coppie correlata alla coabitazione (sia in convivenze che in matrimoni) (Laumann, Gagnon, Michael e Michaels, 1994) ed alla durata del matrimonio (Call et al., 1995). Altro fattore correlato alla frequenza dei rapporti è l’età: all’aumentare dell’età diminuiscono i rapporti sessuali, dato dovuto probabilmente a fattori biologici e psicologici associati all’invecchiamento (Call et al., 1995; Marsiglio e Donnelly, 1991; Rao e DeMaris, 1995).

Altri studi si sono concentrati su differenti parametri: la soddisfazione sessuale e l’intimità di coppia. La soddisfazione sessuale sembra diminuire all’aumentare dell’età e alla durata del matrimonio, in altre parole all’intimità della coppia (Greeley, 1991; Edwards, Booth, 1994; Lawrance, Byers, 1995).

La funzione primaria di una coppia, dal punto di vista biologico ed evoluzionistico, è quella riproduttiva. In Italia la ricerca di un figlio tarda sempre di più per motivi economici, lavorativi e culturali. Dati Eurostat rivelano un incremento dell’età media delle madri alla nascita del primo figlio: dai 28,1 anni nel 1995 si è passiti ai 30,8 nel 2015. L’aumentare dell’età delle primipare comporta cambiamenti su molti fronti: socio-culturali, psicologici e biologici (legati sopratutto alla fertilità di coppia).

La donna al momento della gravidanza attraversa una trasformazione in senso totale, gli equilibri raggiunti cambiano e così anche la relazione di coppia. Gli studi in ambito sessuologico durante il periodo gestazionale sono aumentati nell’ultimo decennio ma si sono concentrati prevalentemente sulla donna, non sempre estendendo l’analisi al partner o all’intera coppia. E’ sicuramente emersa una significativa presenza di pregiudizi e falsi miti strettamente legati al periodo della gestazione.

Alla nascita di un figlio intervengono poi ulteriori cambiamenti. Il nuovo ruolo di genitori, stravolgendo completamente le abitudini di una coppia, può portare con sé difficoltà nell’intesa sessuale dei neogenitori.

La sessualità in gravidanza

La gravidanza porta a notevoli cambiamenti nell’equilibrio relazionale di una coppia e nonostante l’aspetto affettivo possa essere rafforzato dalla nascita di un figlio, la sessualità risente di diversi fattori: biologici, fisici, familiari, culturali, religiosi e sociali. Questi posso portare a tabù e condanne all’attività sessuale con conseguente diminuzione dei rapporti; risulta pertanto necessario per ogni coppia ridefinire l’equilibrio tra i ruoli di genitori e partner sessuali.

I cambiamenti fisici portano nella futura mamma timori riguardo il non sentirsi più attraente e desiderabile mentre nell’uomo, di conseguenza, la difficoltà di rapportarsi non più solo alla loro donna ma anche alla madre di loro figlio.

Il primo famoso studio sulla sessualità in gravidanza è stato svolto da Masters e Johnson nel 1966; da questo emerse un aumento del desiderio sessuale e della sessualità nel II trimestre di gravidanza ed un decremento di questi nel III trimestre. Questo primo studio fu poi riconfermato negli anni da altre ricerche, che approfondirono ed ampliarono i parametri presi in considerazione (Scarselli et al., 2002). Si può quindi individuare un andamento specifico del desiderio sessuale e della sessualità in gravidanza: una diminuzione moderata, pari al 59%, nel primo trimestre seguito da un aumento di questi al 75-84% nel II trimestre. Il terzo trimestre sembra invece caratterizzato da una decisa diminuzione (40-41%) del desiderio e della sessualità con un peggioramento di tutti parametri: desiderio, eccitazione, orgasmo, soddisfazione e frequenza; questo è dovuto ai consigli medici e a diverse difficoltà frequenti al termine della gravidanza (pienezza addominale, dolori lombari e affaticamento) (Von Sydow K., 1999). Queste alterazioni della vita sessuale di coppia durante la gestazione sono dovute ad aspetti fisiologici ed anatomici oltre che a fattori prettamente psicologici.

Dal punto di vista fisiologico intervengono moltissimi cambiamenti che influiscono sulla sessualità. Durante la gestazione le più importanti modificazioni anatomiche sono: la diminuzione del tessuto connettivo, l’aumento delle dimensioni delle fibre muscolari delle pareti vaginali, l’allargamento della circonferenza del lume vaginale per aumento delle cellule epiteliali e la diminuzione della sensibilità vaginale ( Farage & Maibach, 2006; Zhao et al., 2000). Tutto ciò può portare a cambiamenti nel rapporto penetrativo, come ad esempio la diminuzione della percezione del pene a causa della dilatazione della vagina e della sua iposensibilità. Sono discordanti invece gli studi che hanno analizzato l’influenza dei livelli ormonali sulla sessualità: da una parte si ipotizza che alti tassi di progesterone tendano a diminuire il desiderio sessuale, dall’altra l’aumento della massa uterina è maggiormente reattiva all’ossitocina rilasciata durante l’orgasmo e si ipotizza che ciò porti quindi ad una maggior percezione delle sensazioni piacevoli (Erol et coll., 2007).

Dal punto di vista psicologico vi sono numerose fantasie, timori e apprensioni intorno alla gravidanza e risulta molto difficile fare un quadro di quelli che saranno, almeno con ogni probabilità, le reazioni psicologiche della gestante. Dallo studio di Pauleta e collaboratori (2010) emerge che le donne hanno diverse paure durante la gestazione: il 40% delle donne teme di essere meno attraente e di piacere meno al proprio patner, il 23,4% confessa di aver paura di fare male al feto. È quindi fondamentale, durante una consulenza sessuologica, sfatare questi falsi miti migliorando il vissuto psicologico della donna durante questo periodo. A queste ansie può affiancarsi la paura per la trasformazione, l’aumento di responsabilità e impegno per il nuovo ruolo che si riveste o conflitti per la nuova visione di sé come madre rispetto a quella che esse avevano precedentemente di sé come donne indipendenti. La percezione della gravidanza, se voluta o meno, il senso che il bambino ha per la coppia in quel momento, la situazione psicologica della donna, il supporto percepito dal patner e la situazione socio-economica-culturale sono tutti fattori da valutare che possono avere notevoli riscontri a livello psicologico per la donna in gravidanza.

Meno studiato è il vissuto dell’uomo nel periodo di gestazione, infatti anche i compagni possono risentire dei cambiamenti legati alla gravidanza e accusare difficoltà comportamentali: è possibile che essi non comprendano totalmente le esigenze della partner e sviluppino pensieri distorti o comunque non funzionali all’attività sessuale della coppia. Masters e Johnson (1966) e studi più recenti (Scarselli et al., 2002) hanno riscontrato negli uomini credenze disfunzionali rispetto alla donna gravida: tra le più comuni la paura di creare disagio al feto e/o alla donna, poca comprensione di eventuali difficoltà fisiologiche riportate dal medico, paura che il proprio pene possa toccare e far male al feto. Inoltre il patner può attivare un atteggiamento maggiormente protettivo, talvolta eccessivo, rispetto a prima della gravidanza che può irrigidire ulteriormente i rapporti sessuali nella coppia. Questi aspetti devono essere trattati in caso di consulenza sessuale o affrontati dal ginecologo/medico curante in modo da sfatare falsi miti.

Il puerperio: i cambiamenti nella sessualità

Nei primi 40 giorni di vita del bambino diversi fattori possono impattare negativamente il desiderio e l’eccitazione sessuale e possono portare a disfunzioni sessuali nel post-partum e durante il puerperio. Tra questi sono presenti fattori biologici come la fatica, la deprivazione di sonno, la modificazione degli ormoni sessuali, gli esiti cicatriziali perineali; fattori contesuali come il nuovo ruolo di madre e di padre e infine fattori psicologici come l’identità materna ( Basson et coll., 2005). Lo studio di Pastore e collaboratori (2007) evidenzia come in un range di tempo che va dalle due settimane agli undici mesi dopo il parto la ripresa del coito avvenga in media dopo 1,9 mesi dal parto.

Secondo lo studio di Rowland e colleghi (2005) le motivazioni per l’assenza di rapporti sessuali dopo 6 settimane dal parto sono: stanchezza eccessiva, assenza del desiderio, timore di dolore e divieto posto dal ginecologo.

La dispareunia, un disturbo che consiste nel provare dolore genitale durante o, più raramente, dopo il rapporto sessuale, può essere presente nel post-partum ed è strettamente correlata al tipo di parto. In caso di traumi perineali ed epistotonia ed in caso di utilizzo di strumenti quali la ventosa ostetrica o il forcipe la severità della dispareunia post partum è molto elevata (Signorello et al., 2001); è invece minore a seguito del taglio cesareo dove non vi è interessamento della muscolatura del perineo.

Dallo studio di Glowacka e collaboratori (2014) emerge che il 49% delle donne sviluppa dolore pelvico genitale durante la gravidanza e questo persiste dopo il parto in un terzo dei casi, al contrario solo il 7% delle donne riferisce l’inizio del dolore dopo il parto. Inoltre gli autori riscontrano una correlazione tra ansia riguardo al dolore in gravidanza ed un maggior livello di dolore pelvico-genitale dopo 3 mesi dal parto; le donne che hanno un dolore ricorrente pre-gravidanza non genitale hanno maggiore probabilità di sviluppare anche un dolore post partum. Nell’uomo invece la sessualità non sembra influenzata dalla tipologia di parto della donna (Gungor et al., 2010).

E’ molto comune anche la perdita del desiderio sessuale nella donna dopo il parto: la donna è assorbita fisicamente e mentalmente nel suo nuovo ruolo, sentendosi più mamma che donna. Questo disiteresse è favorito naturalmente da squilibri ormonali, ma intervengono anche numerosi fattori psicologici. L’uomo a sua volta può avere una caduta del desiderio sessuale in questa fase, a seguito della visione del parto o in conseguenza alla percezione di trascuratezza della compagna o ad emozioni di gelosia verso il figlio al quale la partner dedica tutte le sue attenzioni. Buoni alleati per superare questo momento nella coppia sono la comunicazione, la condivisione ed il desiderio di entrambi di trovare un compromesso. Il desiderio sessuale solitamente tende a tornare entro tre mesi, con variabilità soggettiva della coppia anche in relazione alla loro sessualità pregressa.

Nel periodo immediatamente successivo al parto avvengono quindi cambiamenti totalizzanti nella vita della coppia, in particolare della donna. In questa fase può subentrare frequentemente la depressione post partum, una patologia sempre più presente. Nello studio di Faisal-Cury e collaboratori (2013) su un campione di 831 donne il 21% riferisce sintomi ansiosi depressivi nel post partum e questo sembra correlare significativamente con un declino dell’attività sessuale fino a 18 mesi dal parto.

L’allattamento

Da studi emerge che la sessualità di una coppia può essere problematica anche durante la fase di allattamento e che il tempo di allattamento sembra essere un fattore significativo: sono presenti maggiori problemi nella sessualità quando l’allattamento supera i 12 mesi. Avery e collaboratori (2000) riportano che l’allattamento influisce sulla secchezza vaginale e che questo problema diminuisce con il tempo: 43% nei primi 4 mesi di allattamento, 36% entro i 12 mesi e 14% dai 12 mesi in poi.

Durante l’allattamento si registra una caduta del progesterone accompagnata dall’aumento della prolattina e dell’ ossiticina. L’aumento della prolattina, ormone che stimola la lattazione, comporta una diminuzione degli androgeni che portano ad un calo della libido e ad una diminuzione degli estrogeni responsabili di una minore lubrificazione vaginale. Al termine dell’allattamento i valori ormonali tornano nella norma a seguito del primo ciclo mestruale.

L’ossitocina è l’ormone del piacere post orgasmico, questo è responsabile dell’eiezione del latte dalla mammelle, delle contrazioni uterine durante l’orgasmo ed il parto. In alcune donne può provocare sensazioni simili all’orgasmo sottoforma di intense contrazioni uterine (Riordan et al., 2005).
Quindi le problematiche riscontrate in questa fase possono essere: secchezza vaginale e conseguente dispareunia, aumento della sensibilità dei capezzoli, eiezione di latte durante il rapporto sessuale o l’orgasmo, diminuzione del desiderio sessuale, sensazione di provare un orgasmo/eccitazione mentre si allatta il figlio.

Conclusioni

La gravidanza è un evento che comporta numerosi cambiamenti che influiscono sulla relazione di coppia e sulla sessualità. Come abbiamo visto, la sessualità risente di modificazioni ormonali, fisiologiche, psicologiche e sociali. Sembra risultare importante investire maggiormente sul canale comunicativo medico-paziente in modo da sfatare falsi miti, fornire chiarificazioni, anche di natura medica, sui cambiamenti che stanno avvenendo e come questi giochino un ruolo nella sessualità ed infine fornire risposte ai numerosi timori riportati dalle coppie.

Dallo studio di Nusbaum e colleghi (2002) sembra emergere la necessità che i medici affrontino per primi l’argomento sessualità con donne in gravidanza o post partum e che eventualmente approfondiscano la loro preparazione su tale argomento. Gli autori riportano che il 50-60% delle puerpere intervistate nel loro studio parla di sessualità con il proprio ginecologo al controllo post partum, ma il 70% di queste riferisce un notevole imbarazzo da parte del medico nell’affrontare l’argomento. Questo dato porta a riflettere sulla necessità di fornire una formazione più improntata all’ascolto attivo e all’accoglienza delle pazienti da parte dei medici.

La parafilia “Devotee” e l’attrazione sessuale per i disabili

Da anni esiste una particolare parafilia nota negli Stati Uniti e ancora poco conosciuta in Italia, chiamata “ devotee ” una delle attrazioni sessuali più particolari. Il “devotismo” è traduzione culturale della categoria diagnostica “acrotomofilia”, che J. Money, psicologo e sessuologo, esplora scientificamente negli anni Ottanta, ovvero la capacità di provare interesse o eccitazione sessuale solo al cospetto di persone che hanno deformazioni o amputazioni agli arti o come nell’ abasophilia per gli ausili come le carrozzine, i gessi, le protesi ect.

 

La parafilia del devotee: l’attrazione sessuale verso i disabili

Il concetto di bellezza femminile e maschile è stato trattato da innumerevoli autori, ma nonostante questo nella società odierna è difficile se non impossibile, stabilire cos’è definibile come “realmente bello”. Esistono dei canoni estetici sui quali appoggiarsi, che rispecchiano “gli ideali” comuni e ci consentono di distinguere l’armonia, la grazia e l’eleganza di un corpo, rispetto ad un altro, che possiamo percepire come sgradevole, se non addirittura mostruoso. Non sempre però, quanto diamo per scontato è la regola di tutti. A volte, quanto per noi di più imperfetto esiste, risulta essere seducente per un’altra persona, e viceversa.

Da anni esiste una particolare parafilia nota negli Stati Uniti e ancora poco conosciuta in Italia, chiamata “devotee” una delle attrazioni sessuali più particolari.
Il “devotismo” è traduzione culturale della categoria diagnostica “acrotomofilia”, che J. Money, psicologo e sessuologo, esplora scientificamente negli anni Ottanta, ovvero la capacità di provare interesse o eccitazione sessuale solo al cospetto di persone che hanno deformazioni o amputazioni agli arti o come nell’ abasophilia per gli ausili come le carrozzine, i gessi, le protesi ect.

La componente patologica di questo fenomeno risiede e prende consistenza nel fatto che l’interesse è indirizzato solo verso la parte amputata o l’handicap e raramente verso la persona e le sue qualità umane.

Nei devoti, spesso è compromessa l’area sociale, lavorativa e l’intimità emotiva e sessuale nei confronti del loro partner.
Questo tipo di parafilia si avvicina al feticismo, come pulsione sessuale diretta verso un oggetto inanimato. Come nel feticista, l’oggetto è indispensabile e imprescindibile per l’eccitamento e l’attività sessuale. I devoti tendono ad evitare la relazione intima col partner, e rendono erotico non uno stivale ma gli ausili di cui il disabile si serve o l’arto menomato.

Nel devotismo, le persone chiedono di poter toccare le gambe, di guardare mentre la persona mangia, chiedono di poter pettinare i capelli o poterla accompagnare in bagno, trattano la persona come un oggetto.

Le sue condotte sessuali sono egosintoniche, ossia il soggetto ha un assoluto bisogno delle pratiche o fantasie sessuali e le giustifica come normali.
La maggior parte dei devotee appartengono al gruppo degli “Amplovers” o amanti degli amputati.
L’attrazione sessuale può risiedere nel moncherino vero e proprio, nelle protesi, oppure nell’immaginario di quanto esiste sotto di essa.

Taluni si eccitano nel cogliere le difficoltà di deambulazione dovuta alla mancanza di uno o di entrambi gli arti inferiori; altri nel riscontrare durante lo svolgimento di normali azioni, la malagevolezza tipica di chi è privo di una o ambedue le braccia.
Altri ancora focalizzano l’interesse esclusivamente sulla “parte mancante” del portatore di handicap e nel tentativo d’immaginare le sue sembianze.

Altre tipologie sono:
CASTER: amante dei gessi;
AMPUTEE: amanti degli amputati/e;
LOVERWHEELCHAIR: amanti delle sedie a rotelle;
LOVERPOLIO: amanti dei poliomielitici.

Le categorie del fenomeno del devotee

Il fenomeno devotee si sfrangia in quattro categorie ben definite che sono le seguenti:

– Admirer (ammiratore): l’admirer ha un alto grado di ammirazione e rispetto per le persone disabili. Non presenta aspetti di tipo ossessivo, il suo comportamento è congruo, non bizzarro ed è conforme alle norme sociali. Generalmente l’admirer si può trovare in quelle persone che frequentano associazioni di disabili come volontari.
– Pretender (to pretend: fingere): persone che pur non essendo disabili fingono di esserlo. Il loro comportamento viene considerato bizzarro e, se pubblico, soggetto a riprovazione sociale.
– Wannabe (vorrei diventare): persone che non essendo disabili desiderano diventarlo e arrivano ad amputarsi. Tra le tipologie, questa è la più grave di rischio psicologico.
Devotee (devoto): persone che sono affascinate, attratte (anche in termini sessuali), verso persone disabili e i loro ausili. A volte si presentano aspetti di tipo ossessivo con una ricerca continua di immagini e/o di incontri. Può accadere che il grado di fascinazione sia al di fuori del controllo della persona.

I devoti manifestano più apertamente la deviazione del devotismo verso una “categoria” di disabili che è quella degli amputati. I gruppi devotee oltre alla ricerca di fotografie o filmati, si scambiano anche richieste relative alle loro preferenze sul tipo di amputazione (ad esempio singola amputazione sopra il ginocchio, oppure amputazione sotto il ginocchio ect.)

L’assenza di tre arti e la totale assenza di arti sono rispettivamente descritte come Triple e Quad. Nella Community Amputee-Devotee ci sono tracce di devozione per l’amputazione del dito alluce.
C’è poi un piccolo gruppo di nucleo di devotee che hanno attrazione ossessiva per amputazioni agli occhi: RE (occhio destro), LE (occhio sinistro).

I devoti utilizzano social media in una varietà di modi, ma la loro motivazione principale è quella di: incontrare e stringere relazioni con le donne o uomini con deficienza degli arti; accedere in modo non autorizzato alle immagini fotografiche di persone in cui gli arti colpiti sono visibili, fare rete con altri devoti per condividere immagini e mantenere un gruppo sociale; normalizzare i loro comportamenti sostenendo l’accettabilità sociale dei devoti.

In conclusione, è importante considerare che i devoti per sedare la loro ossessione, scelgono attività di volontariato o di lavoro in contatto con persone disabili.

È importante strutturare strategia di tutela da persone che possono approfittare della situazione di debolezza fisica e psicologica della persona con disabilità fisica e prevenire l’abuso dando informazioni di educazione sessuale sia ai disabili che alle loro famiglie.

Psicoanalisi attraverso lo schermo. I limiti delle terapie online – Recensione del libro

Psicoanalisi attraverso lo schermo (i limiti delle terapie online) è un libro di Gillian Isaacs Russell. Il libro è il risultato dell’esperienza personale della psicoterapeuta.

 

Trasferitasi dagli Stati Uniti in Gran Bretagna, continua la sua didattica, le sue collaborazioni scientifiche e l’assistenza di alcuni pazienti, attraverso l’uso di Skype.

Da questo nuovo assetto ed osservando l’era del digitale che avanza inesorabile, la Russell comincia ad interrogarsi cosi su tre questioni fondamentali:

1- Un trattamento terapeutico senza presenza fisica può avere un’efficacia ottimale?

2- Cosa succede in una terapia circoscritta allo schermo quando non c’è alcuna possibilità, come suggerito da una paziente, di scambiarsi “pugni o carezze?”

3- Quale effetto ha sull’intimità la radicale alterazione dell’equilibrio fra comunicazioni verbali esplicite e non verbali implicite?

Ricercando le risposte, ecco nascere il libro Psicoanalisi attraverso lo schermo, estendendo i quesiti oltre la psicoanalisi e la psicoterapia e attingendo ad altri campi quali le neuroscienze, l’osservazione infantile, gli studi sulla comunicazione verbale e non verbale e le scienze cognitive.

L’opera è divisa in quattro parti. La prima descrive cosa ha spinto appunto la psicoterapeuta ad interrogarsi sui sopracitati quesiti, le testimonianze di pazienti e terapeuti già invischiati nel trattamento informatizzato e alla riflessione su ciò che avviene attraverso schermo del computer.

La seconda parte è prettamente basata sulle teorie e ricerche nel campo clinico-terapeutico. La terza, si concentra sul concetto di “presenza”. La comunicazione infatti è composta non solo dalle parole ma moltissimo anche dal “non verbale”: gesti, movimenti, mimica, postura, meta-comunicazioni che si leggono “fra le righe” ed il processo terapeutico per essere efficace richiede azioni esplicite ed implicite e la comunicazione attraverso il computer sicuramente non trova problemi nell’esplicito ma lo stesso non si può dire dell’implicito e il ridotto senso di presenza e appunto la trasmissione limitata della comunicazione potrebbero influire sull’efficacia del trattamento attraverso lo schermo.

L’ultima parte pone la riflessione sulla professione, riprendendo il concetto di ‘presenza’ che come accennato è una parte fondamentale per l’analisi di questo nuovo approccio e ponendo attenzione sui rapporti che ormai da molto tempo ha l’uomo con i sistemi informatici nonché sulle motivazioni che spingono molti professionisti ad approcciare con la psicoterapia online tra cui la ricerca semplicistica di un lavoro.

Cambia il setting, cambia la diade paziente-analista, cambia la co-presenza.

E’ evidente che il ruolo dell’analista, accettando questa nuova pratica clinica, è in via di cambiamento. Dall’accettazione della validità di questo nuovo approccio, e non sono pochi i clinici favorevoli a tal nuova metodica, si modificheranno altresì diversi paradigmi della disciplina stessa, nonché in un futuro il decidere che tipo di terapeuta si vorrà essere.

 

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