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Lavorare in emergenza: stress traumatico secondario e interventi di prevenzione primaria per le “Helping Professions”

La psicologia dell’emergenza studia il comportamento degli esseri umani come singoli e come comunità in situazioni estreme. Raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria, la sociologia, tale disciplina cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico. Tra gli obiettivi della psicologia dell’emergenza il fornire metodologie di intervento che ridimensionino l’impatto dello stress sugli operatori dell’emergenza.

Barbara Marasco, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI FIRENZE

 

Le professioni di aiuto: come stare in contatto con la sofferenza altrui

Tutti coloro che svolgono professioni d’aiuto, dai medici ai vigili del fuoco, dagli assistenti sociali agli operatori di polizia, dagli psicologi ai miliari, pur nella specificità di ciascun contesto, sono accomunati da un comune denominatore: il contatto continuo e prolungato con la sofferenza altrui. Tali professionisti, infatti, nello svolgimento della loro attività lavorativa, non utilizzano solamente competenze di natura tecnica, ma anche e soprattutto abilità sociali e relazionali per soddisfare i bisogni dell’utenza. Quest’ultima presenta problematiche ed esigenze di diversa natura, ma solitamente necessita di un intervento volto a porre fine ad una condizione di disagio. Oltre a ciò, le richieste manifestate hanno quasi sempre la caratteristica dell’urgenza, creando le condizioni per cui una scelta sbagliata può diventare determinante per l’incolumità altrui. Infine, le caratteristiche del lavoro implicano un assorbimento, in termini di tempi e di spazi, che incide sensibilmente sull’esperienza degli operatori, che vedono ridurre al minimo il confine tra vita professionale e privata.

Gli operatori, in contesti emergenziali, si confrontano quotidianamente con il paradosso di “comportarsi come persone normali in situazioni anormali”. In tale scenario essi devono agire, rapidamente ed efficacemente, orientandosi al fare più che al sentire. Si tende a dare per scontato che chi svolge un mestiere del genere sviluppi una forma di tolleranza alle emozioni generate da situazioni potenzialmente traumatiche. Questo è solo in parte vero.

Il distanziamento emotivo è una risorsa di coping sicuramente funzionale per raggiungere l’obiettivo, portare a termine il proprio dovere. Eppure tale distacco diventa patologico quando l’operatore non è più in grado di entrare in contatto con le emozioni suscitate dall’evento traumatico, spinto dalla volontà non consapevole di voler aderire, a tutti i costi, allo stereotipo dell’imperturbabilità. La conseguenza diretta di tale processo “alessitimo” fa si che si tendano a sovrastimare le proprie capacità, sperimentando un senso di inadeguatezza ancora maggiore quando il controllo viene meno per qualche ragione.

Gli effetti dell’esposizione allo stress prolungato: la compassion fatigue e il burnout

Tra gli esiti dell’esposizione allo stress prolungato la letteratura scientifica ha indagato in particolare la compassion fatigue e il burnout. L’espressione compassion fatigue fa riferimento a un sentimento, la compassione, che è una delle componenti motivazionali fondamentali delle professioni d’aiuto. Si sperimenta compassion fatigue quando il contatto prolungato con la sofferenza genera nell’operatore dell’emergenza un senso di logoramento emotivo, che lo induce a non provare più sentimenti empatici nei confronti dell’utenza di cui si deve occupare.

Similmente, il burnout è una sindrome indotta da stress lavorativo e occupazionale che si manifesta attraverso esaurimento emotivo, depersonalizzazione e perdita nel proprio senso di efficacia. Il burnout è un processo progressivo e cumulativo che incide anch’esso sull’interesse verso l’utenza e sulla capacità di sopportare il carico emotivo derivante dal contatto, ma, a differenza della compassion fatigue, nasce principalmente dall’interazione tra caratteristiche personali del soggetto e condizioni lavorative e contestuali.

Un’ulteriore distinzione tra i due costrutti riguarda il timing: mentre la compassion fatigue è improvvisa e acuta e può emergere anche a seguito di un’unica esposizione a un incidente critico, il burnout rende l’operatore incapace di fronteggiare la situazione stressante a seguito di un’ esposizione allo stress graduale e progressiva.

Il contatto con il dolore degli utenti tuttavia non è legato con un rapporto di causalità ad esiti negativi. Gli operatori possono infatti ricavare un grande senso di soddisfazione dal loro lavoro: la partecipazione emotiva, il senso di efficacia che deriva dall’alleviare il dolore degli altri permette agli operatori di dare significato alla propria esperienza lavorativa, traendone un senso di realizzazione personale.

La traumatizzazione vicaria degli operatori delle professioni di aiuto

Tornando al tema dell’esposizione prolungata alla sofferenza altrui, non è necessario che l’operatore sia coinvolto in prima persona per essere considerato vittima di un evento traumatico. Attraverso un processo, indagato in letteratura, di traumatizzazione vicaria è infatti possibile che coloro che si trovino quotidianamente e per tempi considerevoli a contatto con la sofferenza degli altri possano sviluppare una specifica sintomatologia da stress reattiva. I soccorritori sono infatti considerati vittime di terzo livello, andando in coda solo alle vittime dirette e parenti e amici di queste ultime. La traumatizzazione vicaria è possibile si verifichi anche solo osservando direttamente l’evento, assistendovi senza la mediazione di terzi.

Lo stress che scaturisce dalle condizioni lavorative sopra presentate può dare luogo a problematiche di natura psicologica che vanno ad incidere non solo sulla vita personale dell’operatore, ma anche sulla sua prestazione professionale, intaccando l’efficienza e l’efficacia del servizio reso alla comunità. Poiché la salute psicologica degli operatori d’emergenza è direttamente proporzionale all’efficienza operativa dei reparti in cui operano, è fondamentale che le organizzazioni applichino al personale dei protocolli di intervento di prevenzione primaria.

La psicologia dell’emergenza e la tecnica del defusing

La psicologia dell’emergenza rappresenta un vertice conoscitivo fondamentale per affrontare questa esigenza concreta. Essa studia il comportamento degli esseri umani come singoli e come comunità in situazioni estreme. Raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria, la sociologia, tale disciplina cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico. Tra gli obiettivi della psicologia dell’emergenza il fornire metodologie di intervento che ridimensionino l’impatto dello stress sugli operatori dell’emergenza.

Uno dei paradigmi di intervento più noti e diffusi della psicologia dell’emergenza è il Critical Incident Stress Management, CISM, un protocollo clinico di prevenzione e trattamento delle reazioni psicologiche potenzialmente traumatiche, a fronte di eventi critici. Al fine di ridurre e modulare i fattori di rischio connessi con l’insorgere di situazioni patologiche collegate allo stress, una tecnica ampiamente utilizzata nella psicologia dell’emergenza è il defusing, un intervento breve, non necessariamente gestito da un professionista della salute mentale, che prevede una conversazione tra i 20 e i 40 minuti da realizzarsi immediatamente dopo l’intervento critico, in una sorta di pronto soccorso psicologico in cui si raccolgono le emozioni a caldo e si cerca di dare una prima costruzione di significato ad eventi che spesso sono inspiegabili e fuori dal controllo.

L’operatore esposto ad un evento potenzialmente traumatico è una persona normale che viene esposta ad una vera e propria fatica psicologica di natura eccezionale. Informare sulle normali e fisiologiche reazioni da stress ha un effetto significativo nel ridurre i probabili vissuti di inadeguatezza, colpa, vergogna che si sperimentano nello scarto tra ciò che si chiede di essere (operatore come eroe) e ciò che si è in quanto esseri umani.

Riconoscere le reazioni e collegarle agli eventi è il primo passo per restaurare una condizione di equilibro. Il defusing, lungi dall’ essere un intervento clinico, si colloca in una prospettiva depatologizzante che sollecita la comunicazione e il supporto sociale per ridurre l’effetto disorganizzate degli eventi critici. L’obiettivo è rielaborare brevemente e collettivamente il significato dell’evento e ridurre al minimo l’impatto dell’avvenimento traumatico.

La condivisione dell’esperienza, oltre a permettere l’integrazione dei vissuti che forti stress e traumi tendono a dissociare nella patologia, riduce il fenomeno dello stigma e apre alla possibilità di una trasformazione dei comportamenti e delle reazioni allo stress professionale.

Il defusing si compone di tre fasi: introduzione, in cui si presenta l’intervento e si specifica quali sono le sue caratteristiche, in un clima non giudicante; esplorazione, in cui si cerca di far emergere fatti, pensieri e stati d’animo; informazione, in cui l’obiettivo è sostenere, rassicurare sulle normali reazioni da stress e proporre la condivisione di risorse psicologiche per fronteggiare l’evento stressante.

Una strategia di gestione dello stress che godrebbe di una maggiore legittimazione agli occhi degli operatori riguarda il peer support, ovvero il supporto tra pari. I colleghi infatti condividono la stessa cultura organizzativa, le stesse condizioni lavorative e ciò offre le premesse per la creazione di un clima di migliore comunicazione e accettazione. Allo stesso tempo i pari devono essere disponibili ad accettare la comunicazione dei propri colleghi, sospendendo il giudizio. Ciò può essere reso possibile solo se si crea un clima di empatia ed ascolto, che favorisca la condivisione delle emozioni e del disagio sperimentato.

Un nuovo punto di vista scientifico per lo studio dello stress in relazione al linguaggio

Mehl e colleghi (2017) hanno indagato la possibilità che alcune variazioni di alcuni pattern di uso comune del linguaggio possano rappresentare degli indicatori più precisi della rilevazione automatica della minaccia e quindi del sistema biologico di risposta alla stress, le cui risposte sono regolate da specifici geni pro infiammatori, particolarmente sensibili a situazioni di vita avverse (Cole, 2013).

 

Lo stress può modificare l’espressione genica delle cellule del sistema immunitario

Il linguaggio riflette il modo in cui le persone interpretano e sono connesse alla realtà ma chi avrebbe mai detto che l’espressione genica potesse essere legata al linguaggio”.

In questo modo James Pennebaker, famoso ricercatore e psicologo all’università del Texas ha commentato la recente pubblicazione dello studio di Mehl e Raison su Proceeding of the National Academy of Sciences, nel quale è stato mostrato come esperienze di vita traumatiche come il coinvolgimento in attacchi terroristici, di povertà o di isolamento sociale contribuiscano al cambiamento dell’espressione genica nelle cellule del sistema immunitario dei soggetti che le hanno vissute.

Il contributo maggiore dello studio di Mehl e colleghi (2017) ha riguardato il fatto che tali cambiamenti dell’espressione genica dovuta a situazioni di vita di deprivazione e stressanti possono essere rilevate tramite l’analisi del linguaggio e l’uso di specifiche parole da parte degli individui in modo ancora più preciso rispetto all’uso di questionari self-report standardizzati.

Tale studio infatti mostrerebbe come il linguaggio possa spontaneamente “tracciare” gli effetti biologici dello stress in una maniera più efficace rispetto a come gli individui li potrebbero descrivere consapevolmente in un questionario.

Mehl e colleghi (2017) hanno indagato la possibilità che alcune variazioni di alcuni pattern di uso comune del linguaggio possano rappresentare degli indicatori più precisi della rilevazione automatica della minaccia e quindi del sistema biologico di risposta alla stress, le cui risposte sono regolate da specifici geni pro infiammatori, particolarmente sensibili a situazioni di vita avverse (Cole, 2013).

In particolare tale risposta biologica alle avversità è stata poco associata a misure self-report sia di esperienze emotive interne come lo stress, la depressione o stati emotivi negativi, sia di esperienze sociali esterne (status sociale basso, condizioni di deprivazione) che di percezioni soggettive di queste condizioni sociali esterne (isolamento percepito) (Knight et al., 2016).
Pertanto è stato ipotizzato che condizioni ambientali avverse e stressanti per l’individuo possano in qualche modo essere rilevati dall’organismo e avere conseguenze non solo sul sistema immunitario ma anche incidere sull’espressione genica (Mehl et al., 2017).

Lo scopo dello studio di Mehl e colleghi (2017) è stato quello di identificare indicatori comportamentali oggettivi dei processi psicologici coinvolti nel generare differenze individuali stabili nell’espressione dei geni pro-infiammatori.

Gli studi precedenti di Le Doux (2015) hanno ben evidenziato come le esperienze consapevoli degli stati emotivi negativi come lo stress, la paura o l’ansia siano mediati dalla neocorteccia e pertanto non siano direttamente legati ai sistemi sottocorticali di rilevazione e risposta alla minaccia che al contrario attivano in modo automatico, immediato e inconsapevole il sistema nervoso simpatico per predisporre l’organismo all’attacco o alla fuga dallo stimolo minaccioso.

Pertanto, si potrebbe ipotizzare che tale sistema “inconsapevole” di difesa dalla minaccia sia più sensibile alle condizioni sociali avverse rispetto al sistema corticale e ciò spiegherebbe il motivo per il quale cambiamenti nell’espressione dei geni pro-infiammatori siano misure più affidabili degli effetti di ambienti sociali avversi rispetto a misure sel-report consapevolmente riportati dagli individui.

Mehl e colleghi hanno dimostrato come specifici pattern nell’uso del linguaggio si modifichino nel momento in cui l’individuo esperisce condizioni sociali di minaccia come l’isolamento sociale, uno status sociale ed economico basso, il coinvolgimento in attacchi terroristici e infine crisi personali.

Questi cambiamenti nell’uso del linguaggio, per gli autori dello studio, si verificherebbero in modo inconsapevole per l’individuo, sarebbero in relazione con l’espressione dei geni pro-infiammatori e infine rappresenterebbero degli indicatori comportamentali per la valutazione dello stato di benessere dell’individuo, in quanto misure più legate a processi, come l’espressione genica, che regolano l’attivazione fisiologica dell’individuo in risposta a stimoli minacciosi e a condizioni ambientali avverse.

Metodo e risultati dello studio di Mehl

Per poter dimostrare ciò, i ricercatori hanno ascoltato gli audio di 143 adulti volontari americani e hanno trascritto ogni parola dei loro dialoghi e analizzato il linguaggio da loro utilizzato; gli autori dello studio in particolare hanno mostrato particolare interesse per le cosiddette “parole funzionali”, come i pronomi e gli aggettivi i quali di per sè non hanno alcun significato ma nel parlare aiutano il soggetto a spiegare cosa sta accadendo.
Tali parole infatti vengono prodotte in modo automatico dai soggetti e aiutano maggiormente a dipingere un quadro più preciso della condizione ambientale nella quale essi sono calati rispetto a verbi o a “parole di significato” in quanto il loro uso cambia quando i soggetti si trovano a fronteggiare una crisi o a seguito di un attacco terroristico (Mehl et al., 2017).

I ricercatori hanno poi messo in relazione il linguaggio usato dai soggetti con l’espressione di 50 loro geni nelle cellule dei leucociti presenti nel sangue e hanno trovato che l’uso nei soggetti delle “parole funzionali” era in grado di predire in modo significativo i cambiamenti nell’espressione genica, a seguito di condizioni ambientali avverse, rispetto alle misure self-report di ansia, depressione e stress.

Gli autori hanno sottolineato come l’uso massiccio di questi specifici pattern di parole in particolare avverbi come “davvero”, “incredibilmente” “veramente” fungesse da “intensificatore emotivo” per i soggetti che li usavano per sottolineare il loro elevato stato di attivazione.
Insieme a questo, gli autori dello studio hanno rilevato nei dialoghi un’ alta prevalenza di pronomi in terza persona plurale (“loro”) come ad indicare un orientamento dei soggetti verso l’ambiente sociale esterno con lo scopo di ridurre la loro percezione della minaccia e abbassare così il loro stato di attivazione.

Tuttavia lo studio presenta alcune limitazioni: prima fra tutte l’uso di soggetti esclusivamente di nazionalità americana e di lingua inglese senza prendere in considerazione altri linguaggi per dimostrare se lo stesso effetto sia riscontrabile anche in nazionalità e lingue diverse.
Inoltre rimane ancora poco chiaro se sia lo stress a influenzare il linguaggio o viceversa.

Nonostante ciò, il contributo dello studio risiede nell’aver ipotizzato una nuova modalità di studio dello stress negli individui prendendo in considerazione meccanismi genetici e biologici andando al di là delle attuali misurazioni self-report dello stress.

Pazienti bipolari che non rispondono alla terapia con il litio potrebbero avere i geni associati alla schizofrenia

I pazienti affetti da disturbo bipolare che non rispondono al trattamento al litio mostrano un numero elevato di geni già identificati per la schizofrenia. Questo è quanto sostenuto da un nuovo studio internazionale condotto dall’Università di Adelaide in Australia.

 

Nuovi dati spiegano perché alcuni pazienti con disturbo bipolare non rispondono al trattamento con il litio

Il litio, comunemente prescritto sin dagli anni Cinquanta per il suo effetto di stabilizzatore dell’umore, anche oggi è considerato il trattamento d’eccellenza per i pazienti affetti da disturbo bipolare in quanto riduce sia gli episodi maniacali sia quelli depressivi e, addirittura, riduce il rischio di suicidio.
Tuttavia, circa il 30% dei pazienti bipolari sono solo parzialmente reattivi. Infatti, più di un quarto di questi non dimostra alcuna risposta clinica, e altri hanno effetti collaterali significativi al litio.

La ricerca in questione ha coinvolto un gruppo internazionale di scienziati guidato dal professor Bernhard Baune dell’Università di Adelaide che ha studiato la genetica sottostante di più di 2.500 pazienti trattati con litio per disturbo bipolare.

Abbiamo scoperto che i pazienti con disturbo bipolare che hanno mostrato una scarsa risposta al trattamento al litio hanno qualcosa in comune: un numero elevato di geni precedentemente identificati come rilevanti per l’insorgere della schizofrenia“, ha affermato Baune, titolare della cattedra di psichiatria presso l’Università di Adelaide e autore principale dello studio.

Questo non significa che il paziente ha anche la schizofrenia, ma se un paziente bipolare ha un elevato numero di geni che aumentano il rischio della schizofrenia, ci sono meno probabilità che possa rispondere agli stabilizzatori dell’’umore come il litio. Inoltre, abbiamo individuato nuovi geni in grado di svolgere un ruolo biologico importante nei circuiti cerebrali utilizzati dal litio e il suo effetto sulla risposta al trattamento“, afferma Baune.

Indagare sulla biologia sottostante la risposta al trattamento del litio è una delle aree chiave della ricerca e ha inoltre urgente necessità clinica in materia di salute mentale.

Questi risultati rappresentano un notevole passo avanti per il campo della psichiatria “, ha detto Baune. “In combinazione con altri bio-marcatori e variabili cliniche, i nostri risultati contribuiranno a far avanzare la capacità necessaria di prevedere la risposta al trattamento prima di un intervento. Questa ricerca fornisce anche nuovi indizi su come i pazienti con disturbo bipolare e altri disturbi psichiatrici dovrebbero essere trattati in futuro “.

Una precoce impalcatura neuronale favorisce la risposta agli stimoli sensoriali

Un nuovo studio, condotto da neuroscienziati dell’Università del Maryland (Kanold et al., 2017), ha identificato per la prima volta un meccanismo che è in grado di spiegare un precoce collegamento tra l’input del suono e le funzioni cognitive.

 

L’organizzazione neuronale precoce dei mammiferi in risposta ai suoni

E’ noto che l’ascolto della musica durante il periodo prenatale possa favorire l’incremento delle funzioni cognitive nelle fasi più tardive della vita nei bambini e che nel periodo postnatale il bambino è capace di riconoscere i suoni che lo hanno accompagnato durante tutta la vita intrauterina, come la voce della madre. “Ma quel feto che ancor’oggi non viene valorizzato con tutte le sue competenze, con la sua capacità a discriminare e ad elaborare gli stimoli, sembra sia legato alla madre anche attraverso qualcosa che difficilmente può essere spiegato scientificamente“, dice Arturo Giustardi, neonatologo e vicepresidente della SIMP (Societa Italiana di Medicina Prenatale).

Nonostante la grande mole di ricerche su tale fenomeno, non sono state identificate delle precise strutture nervose responsabili di questo collegamento. “Precedenti ricerche hanno documentato l’attività del cervello in risposta a suoni durante le fasi del primo sviluppo, ma era difficile determinare da dove provenissero questi segnali del cervello“, dice Patrick Kanold, professore di biologia all’Università del Maryland.

Un nuovo studio, condotto da neuroscienziati dell’Università del Maryland (Kanold et al., 2017), ha identificato per la prima volta un meccanismo che è in grado di spiegare un precoce collegamento tra l’input del suono e le funzioni cognitive.

I ricercatori hanno individuato, in un modello animale, un tipo di strato neuronale presente fin dal primo sviluppo, a lungo pensato come una forma di impalcatura strutturale senza nessun ruolo nella trasmissione di informazioni sensoriali, tuttavia attualmente si pensa che potrebbe condurre alcuni tipi di segnali: “il nostro studio è il primo a misurare questi segnali in un importante tipo di cellula nel cervello, fornendo nuove importanti informazioni nel primo sviluppo sensoriale nei mammiferi“, dice Kanold.

Lavorando con piccoli furetti attraverso registrazioni elettrofisiologiche, Kanold e il suo team ha indagato se questo substrato neuronale rispondesse agli stimoli sensoriali. Le registrazioni di unità singole hanno mostrato che le risposte uditive sono emerse prima nei neuroni corticali e solo successivamente sono apparse le risposte nel futuro strato talamocorticale.

Durante lo sviluppo i neuroni del substrato neuronale sono tra i primi neuroni a formare la corteccia cerebrale – la parte più esterna del cervello dei mammiferi che controlla la percezione, la memoria e, negli umani, importanti funzioni come il linguaggio e il ragionamento astratto – infatti, dalle registrazioni dell’insieme di elettrodi emerge che le risposte uditive iniziali dimostrano un’organizzazione topografica nascente, dove il substrato neuronale aiuta a guidare la formazione dei circuiti neuronali.

Il modello convenzionale di sviluppo neurologico sostiene che il cervello dei mammiferi trasmetta i suoi primi segnali sensitivi in risposta al suono solamente dopo che il talamo è pienamente connesso alla corteccia cerebrale. Sulla base di ciò i ricercatori hanno cercato di conciliare questo modello con le osservazioni da loro fatte sulle precoci attività cerebrali indotte dalla stimolazione sonora.

Il nostro lavoro è il primo a suggerire che il substrato neuronale fa più che colmare il divario tra il talamo e la corteccia, formando la struttura per un circuito futuro. […] Forma una impalcatura funzionale che attualmente processa e trasmette precocemente le informazioni rispetto ad altri circuiti corticali. Pare che il substrato neuronale aiuti a determinare la prima organizzazione funzionale della corteccia oltre alla organizzazione strutturale” sostiene Kanold.

Tale studio, sottolinea come i risultati potrebbero avere utili implicazioni per la cura di bambini prematuri e dimostra come i sistemi sensoriali siano influenzati dall’ambiente già a un’età molto precoce. In conclusione, la ricerca può essere considerata un appello a identificare come l’arricchimento dell’ambiente possa ottimizzare lo sviluppo sensitivo, la diagnosi e il trattamento precoce dei disturbi dello sviluppo.

Quali misure usare per valutare la competenza del terapeuta?

L’interesse della ricerca recente si è focalizzato su quale sia il modo migliore di formare i terapeuti e sulla necessità di sviluppare strumenti rigorosi e scalabili per misurare la competenza del terapeuta nel somministrare i trattamenti psicologici. Quest’ultima è definita come la capacità del terapeuta di implementare una forma specifica di trattamento allo standard necessario per raggiungere gli effetti attesi.

 

Nella valutazione della competenza del terapeuta ci sono due componenti da considerare:

  1. La valutazione della conoscenza del trattamento, incluso come e quando usare le strategie e le procedure;
  2. La valutazione delle abilità (skill) nell’applicare tale conoscenza nella pratica clinica.

Mentre la valutazione della conoscenza (knowledge) dei terapeuti del trattamento può essere eseguita in modo efficiente anche via Web o con questionari a scelta multipla, la valutazione delle abilità è eseguita da clinici esperti e richiede tempo e risorse non sempre disponibili.

Misurare la competenza del terapeuta: lo studio di Cooper e colleghi

Zafra Cooper e collaboratori del centro CREDO dell’Università di Oxford hanno recentemente pubblicato un studio che ha avuto l’obiettivo di sviluppare una misura di valutazione delle abilità del terapeuta basata sul role-play e di confrontarla con una misura scalabile di valutazione della conoscenza basata sul Web.

I ricercatori hanno usato come modello la terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) per i disturbi dell’alimentazione e hanno sviluppato 10 scenari clinici (vedi Tabella 1) assieme a uno schema di valutazione per la valutazione numerica della prestazione dei terapeuti in formazione. Prima di ogni scenario veniva fornita ai terapeuti la descrizione clinica da affrontare con la CBT-E assieme a una sintesi dei progressi del paziente nel trattamento, della sua storia e personalità. Ogni scenario è stato standardizzato in modo tale che l’interazione terapeuta-paziente avesse una durata di 8 minuti. Gli scenari sono stati valutati esaminando la prestazione di 93 terapeuti di diverso background professionale e a diversi livelli di training nell’implementazione della CBT-E. Tutti i terapeuti hanno anche completato una misura basata sul Web finalizzata a valutare la conoscenza della CBT-E.

Per la valutazione della qualità dell’implementazione delle procedure (cioè dei contenuti) è stata usata una scala a 7 punti (0 = completa assenza di applicazione di procedure CBT-E; 6 = consistente e completa applicazione di tutte le procedure CBT-E). Un punteggio 4 definito come moderata applicazione delle procedure CBT-E è stato preso come cut-off per definire una prestazione “competente”. Gli esaminatori hanno anche valutato con una risposta “Si” o “No” se lo stile del terapeuta fosse compatibile con quello della CBT-E utilizzando la descrizione dettagliata a lor fornita sia degli aspetti generici dello stile CBT (cioè essere caldi, empatici e collaborativi, fare domande aperte, focalizzare e incoraggiare il cambiamento) sia di quelli inappropriati (cioè essere insensibili ai sentimenti del paziente, non assistere l’angoscia del paziente, essere critici, non mantenere i confini professionali, dare al paziente informazioni personali che dimostrino comportamenti incompatibili con i consigli forniti, essere controllanti). Se il terapeuta aveva ricevuto un punteggio maggiore od uguale a 4 (che indica una prestazione competente), ma una risposta “No” nella valutazione dello stile, il punteggio della scala a 7 punti veniva ristretto solo ai valori compresi tra 0 e 3.

La maggior parte dei terapeuti ha valutato la loro prestazione come moderatamente o molto simile alla prestazione abituale della loro pratica clinica. I terapeuti che hanno completato la formazione sulla CBT-E hanno raggiunto una competenza media con un’affidabilità buona ed eccellente con coefficienti di correlazione intraclasse da 0,653 a 0,909. La misura è risultata anche sensibile al cambiamento, con punteggi significativamente più alti alla fine del training rispetto al basale (differenza media 0.758, P <.001), anche tenendo conto di dati ripetuti (differenza media 0.667, P <.001). Infine i punteggi ottenuti dai partecipanti con la misura della conoscenza basata sul Web hanno efficacemente predetto la competenza del terapeuta valutata con il role-play con un valore predittivo positivo del 77% e una specificità di 78%.

In conclusione i risultati di questo studio suggeriscono che la misura basata sul role-play recentemente sviluppata presso il centro CREDO è affidabile per valutare le abilità dei terapeuti ad applicare la CBT-E. Purtroppo questo metodo di valutazione richiede molto tempo e considerevoli risorse che non sono sempre disponibili. Il discreto valore predittivo della competenza del terapeuta della misura delle conoscenze basata sul Web, uno strumento poco costoso ed altamente scalabile, suggerisce comunque che questo metodo di valutazione possa essere utilizzato in certe circostanze come alternativa alla valutazione più intensiva e costosa basata sul role-play.

Tabella 1: Gli scenari usati per la valutazione dell’applicazione delle procedure CBT-E

Competenza del terapeuta: è possibile misurarla attraverso rigorosi strumenti?

 

La cognizione sociale nella sclerosi multipla

Dal momento che la Sclerosi Multipla (SM) si pone quale patologia prototipica della compromissione della materia bianca nel sistema nervoso centrale a cui si associano non solo deficit di natura neurologica, ma anche psicopatologica e cognitiva che compromettono la qualità di vita delle persone affette, in letteratura sono presenti diversi studi che hanno indagato la possibile compromissione delle abilità legate alla cognizione sociale in tale malattia demielinizzante.

Simona Pappacena – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

I più recenti modelli sul funzionamento cerebrale assegnano grande importanza alle connessioni tra le differenti reti neurali nel trasferimento di informazioni e pertanto queste rivestono un ruolo importante sull’efficienza delle funzioni cognitive complesse (funzioni esecutive). Dunque, diversamente dalla visione più tradizionale della neuropsicologia che pone l’attenzione perlopiù sul ruolo della materia grigia, oggi grande importanze viene data ai fasci di materia bianca che connettono le differenti reti neurali (Henry et al., 2008).

Compromissioni a carico della materia bianca possono essere indice di gravi disfunzionalità delle funzioni esecutive (velocità di elaborazione di informazioni, memoria di lavoro, attenzione sostenuta). Queste compromissioni sono state interpretate sia come conseguenza diretta di un danno a carico della materia bianca in sede frontale, e sia come un danno alla fitta rete di connessioni tra i differenti sistemi cerebrali distribuiti. Inoltre dal momento che specifiche abilità legate alla cognizione sociale, quali la Theory of Mind (ToM) e il riconoscimento di espressioni facciali, fanno capo a sistemi neurali che comprendono aree frontali e temporali, è possibile riscontrare a seguito di danni alla materia bianca, compromissioni nelle suddette abilità.

Dal momento che la Sclerosi Multipla (SM) si pone quale patologia prototipica della compromissione della materia bianca nel sistema nervoso centrale a cui si associano non solo deficit di natura neurologica, ma anche psicopatologica e cognitiva che compromettono la qualità di vita delle persone affette, in letteratura sono presenti diversi studi che hanno indagato la possibile compromissione delle abilità legate alla cognizione sociale in tale malattia demielinizzante.

Che cos’è la cognizione sociale e gli studi sulla sclerosi multipla

La cognizione sociale designa l’abilità di un individuo di comprendere gli stati mentali e le emozioni altrui. Essa è un costrutto multi-componenziale che comprende le abilità legate alla Teoria della Mente (ToM), l’empatia, la percezione sociale delle emozioni dalla prosodia, alle espressioni facciali, ai gesti del corpo. Quali dati emergono in letteratura dagli studi condotti per indagare la cognizione sociale nella Sclerosi Multipla?

Per esempio, Henry e colleghi, hanno mostrano che i pazienti riportano prestazioni deficitarie in un compito che valutano le abilità della Teoria della Mente (Reading Mind in the Eyes Test, RMET, Baron-Cohen, 2001) e in compiti di riconoscimento delle espressioni facciali (Ekman e Friesen, 1987). Inoltre ai partecipanti, sono stati somministrati alcuni test valutanti diversi domini cognitivi, tra cui memoria, processo di elaborazione delle informazioni e pianificazione.

I risultati dimostrano prestazioni deficitarie dei pazienti con Sclerosi Multipla sia all’RMET sia al compito di riconoscimento delle espressioni facciali (in particolar modo la rabbia e la paura erano più difficilmente discriminate) confrontati con i soggetti sani. Gli autori hanno poi riscontrato nei pazienti con Sclerosi Multipla, una correlazione positiva tra il compito di riconoscimento delle espressioni facciali e il compito valutante il processo di elaborazione delle informazioni. Quest’ultimo dato viene interpretato come evidenza del fatto che nella Sclerosi Multipla i deficit alle funzioni esecutive si associno a deficit di riconoscimento delle emozioni e a specifiche competenze sociali, quale la Teoria della Mente. In un successivo studio del 2011, gli autori (Henry et al., 2008) hanno valutato la capacità di riconoscere le espressioni facciali in pazienti con Sclerosi Multipla sia su stimoli statici, ovvero fotografie, che su stimoli dinamici, ovvero video che riprendono alcuni soggetti in situazioni di vita quotidiana, in quanto questi ultimi mostrano avere una maggiore validità ecologica. In tale studio gli autori giungono alla conclusione che i pazienti con Sclerosi Multipla mostrano specifici danni nel riconoscimento di espressioni facciali, sia per stimoli statici che per stimoli dinamici, rispetto ad un gruppo di soggetti sani (Henry et al., 2011). Inoltre in uno studio recente Berneiser e colleghi (2014) hanno mostrato che i pazienti con Sclerosi Multipla che hanno una compromissione nella capacità di riconoscere le espressioni facciali presentano deficit cognitivi ed alterazioni dell’umore in maniera significativamente maggiore rispetto a pazienti con Sclerosi Multipla senza tali compromissioni nel riconoscimento di espressioni facciali.

Sono stati, inoltre, condotti studi volti a valutare se anche l’aspetto cognitivo di attribuzione di stati mentali potesse risultare compromesso nella Sclerosi Multipla. Banati e colleghi hanno confrontato i pazienti con Sclerosi Multipla con un gruppo di soggetti sani, mostrando che i pazienti con Sclerosi Multipla avevano prestazioni significativamente peggiori sia nei compiti di natura più emotiva (RMET, Baron.Cohen; adult Face Task, Baron-Cohen) che di natura più cognitiva (Faux pas Test) della ToM. Secondo gli autori tale significativa compromissione nelle capacità della ToM, potrebbe riflettere una comprensione disfunzionale dei contesti sociali.

In uno studio del 2010, Ouellet e colleghi hanno mostrato come le abilità ToM siano in relazione alla compromissione cognitiva globale, in quanto i pazienti con compromissione attribuivano più difficilmente stati mentali ai protagonisti di alcune brevi storie (Faux Pas Test, Ouellet et al., 2005; Strange Stories, Happé, 1998) e ai protagonisti di alcuni video (Conversation & Insibuation, Ouellet et al., 2005) loro mostrati, rispetto ai pazienti senza compromissione cognitiva e ai soggetti di controllo.

Kramer e colleghi nel 2013, hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare la possibile connessione tra aspetti delle funzioni esecutive (Stroop test, Trail Making Test), le abilità della ToM (Movie or Assessment of Social Cognition, Dziobeck, 2006) e l’empatia (Empathy Quotient, Baron-Cohen, 2004), in un gruppo di pazienti con Sclerosi Multipla recidivante remittente che si trovavano nel primo anno di diagnosi. I risultati mostrano come anche nelle prime fasi della malattia è possibile riscontrare difficoltà nell’attribuire stati mentali agli altri e in generale i pazienti mostravano punteggi più bassi alla scala autosomministrata dell’empatia, rispetto ai soggetti sani. L’unica correlazione significativa trovata per quanto concerne la ToM e le abilità cognitive indagate, è quella con la capacità di inibire l’interferenza, valutata tramite il test di Stroop.

Questi dati, nel loro insieme sembrerebbero mettere in evidenza, dunque, una compromissione della cognizione sociale nella Sclerosi Multipla. Ma come interpretare tale dato?

In letteratura vi è un dibattito nel definire se le difficoltà nel dominio della cognizione sociale siano un deficit primario e proprio della Sclerosi Multipla, oppure una conseguenza dei sintomi neurologici e fisici della patologia, oppure la risultante di un deficit di tipo cognitivo, soprattutto a carico delle funzioni esecutive.

La schizofrenia e le interferenze nelle reti di comunicazione cerebrale: lo studio del gruppo ENIGMA

Una nuova ricerca ha rivelato come gli effetti della schizofrenia si manifesterebbero in tutte le aree del cervello nullificando la teoria secondo la quale il disturbo psicotico sarebbe causato da problemi di comunicazione solo a livello dei lobi prefrontali e temporali.

 

Una nuova scoperta sulle anomalie cerebrali dei pazienti con schizofrenia

Sebbene, infatti, più di 40 anni fa le prime scansioni di tomografia computerizzata documentassero anomalie generali a livello cerebrale in pazienti con schizofrenia, la teoria maggiormente diffusa riteneva che queste anomalie fossero associate alle aree frontali del cervello.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry di Nature, spianerebbe la strada a future ricerche riguardanti la malattia mentale debilitante per eccellenza che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, colpisce più di 21 milioni di persone in tutto il mondo.

Per la prima volta, possiamo affermare che nella schizofrenia le connessioni tra i neuroni appaiono compromesse in tutto il cervello” ha dichiarato l’autrice dello studio Sinead Kelly che poi ha aggiunto “Il nostro studio contribuirà a migliorare la comprensione dei meccanismi sottostanti la schizofrenia, una malattia mentale che se non trattata porta spesso alla perdita del lavoro, all’assunzione di sostanze e persino al suicidio. I nostri risultati potrebbero essere utili per identificare i biomarcatori che permetterebbero di osservare la risposta dei pazienti al trattamento della malattia“.

Attualmente il trattamento per la schizofrenia è volto a curare soltanto i sintomi manifesti in quanto le cause della malattia sono ancora sconosciute. Molti pazienti sono costretti ad assumere farmaci antipsicotici per il resto della loro vita con possibili diversi effetti collaterali.

Questa ricerca è ad oggi il più grande studio riguardante la schizofrenia: gli scienziati hanno infatti analizzato i dati di 1963 persone con schizofrenia e 2359 soggetti di controllo provenienti da Australia, Asia, Europa, Sudafrica e Nord America.

La moltitudine di dati è stata ricavata da 29 studi internazionali integrati dalla rete ENIGMA (Enhancing Neuro Imaging Genetics through Meta Analysis), un consorzio globale diretto da Paul Thompson presso la Keck School of Medicine dell’University of Southern California.

ENIGMA ha pubblicato i più grandi studi di neuroimaging riguardanti l’autismo, la depressione e il disturbo bipolare fornendo le scansioni cerebrali di oltre 20000 persone” ha dichiarato Thompson, direttore associato dell’Istituto Stevens Neuroimaging e Informatics dell’Università californiana.

Per la realizzazione dello studio, i ricercatori hanno esaminato i dati provenienti dalla Diffusion Tensor Imaging (DTI), una tecnica di Risonanza Magnetica che analizza il movimento delle molecole d’acqua all’interno di determinati tratti di materia bianca (fasci di fibre nervose che consentono ai neuroni di comunicare fra di loro). Queste scansioni forniscono immagini della connettività anatomica del cervello che consentono agli scienziati di individuare eventuali aree problematiche all’interno del sistema comunicativo cerebrale.
Sebbene i ricercatori abbiano trovato una difficoltà di comunicazione neurale diffusa in tutto il cervello, i deficit maggiori sono risultati essere più evidenti nel corpo calloso, zona responsabile della comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Neda Jahanshad, co-autore principale dello studio ha affermato “Senza questo studio, la ricerca futura avrebbe potuto prendere direzioni errate. Anziché ricercare geni che influenzano la comunicazione in una specifica area, ora gli scienziati cercheranno i geni responsabili dell’intera infrastruttura comunicativa del cervello. Stiamo dimostrando che studiare una singola regione del cervello per cercare di scoprire la causa della schizofrenia non è un buon approccio poiché l’effetto della malattia è globale“.

In conclusione, gli studiosi ritengono che questa ricerca possa condurre a studi scientifici sempre più specifici. Il passo successivo potrebbe essere quello di ricercare le cause delle anomalie osservate a livello della materia bianca. Un’ipotesi potrebbe essere rappresentata dalla genetica, la schizofrenia è infatti in parte ereditaria: questo significa che geni specifici potrebbero causare piccole alterazioni a livello delle connessioni neurali portando alla manifestazione del disturbo.

Cosa ci fa sentire amati: lo studio sul contesto culturale americano

Uno studio pubblicato recentemente su Journal of Social and Personal Relationships (2017) ha indagato l’esistenza di un eventuale consenso culturale su cosa significhi essere amati per gli americani. Tale studio è stato condotto nel “Penn State’s College of Health and Human Development” da parte del gruppo di ricerca di Saeideh Heshmati, mossa dalla curiosità di capire se la maggioranza degli americani fosse d’accordo su cosa li facesse sentire amati o se prevalessero differenze individuali.

 

Cosa ci fa sentire amati: cosa ne pensano gli americani

In passato, diversi ricercatori hanno indagato in vari modi l’esperienza del “sentirsi amati”. Alcuni ricercatori hanno creato tassonomie dell’amore, categorizzandolo in diversi stili (Berscheid, 2006, Sternberg, 1986); altri lo hanno studiato attraverso un approccio comportamentale, ovvero osservando i fenomeni di attaccamento e cura (Hazan & Shaver, 1987) e gli atti amorosi (Buss, 1988). Infine, c’è chi ha optato per una valutazione biologica delle persone innamorate (Young, 2009). In sintesi, questi studi suggeriscono che l’amore può essere un costrutto multidimensionale e indagabile da diversi punti di vista.

Uno studio pubblicato recentemente su Journal of Social and Personal Relationships (2017) ha indagato l’esistenza di un eventuale consenso culturale su cosa significhi essere amati per gli americani. Tale studio è stato condotto nel “Penn State’s College of Health and Human Development” da parte del gruppo di ricerca di Saeideh Heshmati, mossa dalla curiosità di capire se la maggioranza degli americani fosse d’accordo su cosa li facesse sentire amati o se prevalessero differenze individuali.

A tale scopo sono stati reclutati 495 soggetti americani adulti, a cui era richiesto di valutare se la maggior parte delle persone potevano sentirsi amate in 60 situazioni diverse. Queste situazioni avevano diverse connotazioni: positiva, negativa o neutra.

I dati sono stati analizzati attraverso il modello del consenso culturale, che permetteva di raccogliere le opinioni culturalmente condivise su cosa significasse sentirsi amati per gli americani.

In generale, i risultati dimostrano che le azioni ricevevano più consensi rispetto alle espressioni verbali. Per esempio, era ritenuto più amorevole coccolare un bambino che sentirsi dire “ti amo”. Inoltre, la maggior parte dei soggetti collocavano in cima alla lista i piccoli gesti, non necessariamente romantici; allo stesso tempo, in fondo alla stessa si trovavano con una frequenza significativamente maggiore i comportamenti controllanti e possessivi.
Ovviamente bisogna tener presente che questi dati possono variare in base a differenze socio-culturali, di genere e a caratteristiche di personalità.

La formulazione del caso clinico (2017) di Rosario Esposito – Recensione del libro

La formulazione del caso clinico di Rosario Esposito ha lo scopo di perfezionare la scrittura del caso clinico, organizzandolo in modo da essere fruibile al terapeuta in ogni momento della terapia, in cui sia necessario rivedere il percorso fatto e il lavoro da compiere.

 

Il volume si rivolge inoltre al clinico che ha bisogno di concettualizzare il caso, per comunicarlo ai colleghi, ad esempio in supervisione o per la pubblicazione.

Lo scopo principale del libro La formulazione del caso clinico è mettere in una sequenza pratica tutti gli elementi di un caso. Chi è la persona che ci sta davanti? Cosa gli è successo? Qual è il problema per cui si rivolge a noi? Cosa è necessario fare operativamente per aiutarlo a cambiare?

Il lavoro compiuto dal Dottor Esposito è l’elaborazione di una metodologia appresa in più di dieci anni di lavoro come supervisore presso la scuola di Specializzazione SPC di Napoli. I contributi di cui si è avvalso sono quelli delle discussioni con il direttore della scuola Francesco Mancini e delle condivisioni fatte con gli altri supervisori come Emanuele De Castello, Maurizio Falcone e Antonio Pinto.

La formulazione del caso clinico – La struttura del libro

La struttura dell’opera La formulazione del caso clinico è composta da tre sezioni. Nella prima parte viene riportata tutta la teoria e la letteratura necessarie a fare una buona formulazione di un caso: quali sono i fondamentali di una formulazione, in che maniera concettualizzare le variabili individuali, in che modo redigere gli interventi e le strategie terapeutiche e le modalità con cui sono stati eseguiti.

Nella seconda sezione del volume sono presentati diversi casi clinici utilizzabili come modello e che spiegano nel concreto come utilizzare i principi teorici espressi dal dottor Esposito.

La terza parte del volume non è presente nel cartaceo, ma costituisce la procedura gratuita, fornita sul sito della casa editrice FrancoAngeli che permette di stendere i casi clinici sotto forma di report.

Nella parte teorica, l’autore, si concentra in maniera dettagliata, a partire dalla letteratura scientifica in merito, sugli elementi importanti per concettualizzare il lavoro del clinico. Si parte dal descrivere le informazioni di base riguardanti la persona che chiede aiuto agli aspetti centrali del caso. Grande importanza, nella stesura del caso clinico, è data al profilo interno del disturbo ovvero le variabili psicologiche individuali che hanno influito sul malessere. Una volta chiaro il profilo interno, il clinico sarà in grado di identificare quali variabili esterne hanno influenzato, prodotto e mantenuto la sofferenza.

Esposito fa un’utile disanima, ne La formulazione del caso clinico, tra quali sono le cause della sofferenza, divise in prossime e remote, come si manifestano, attraverso segni e sintomi, da cosa sono state influenzate, i fattori di vulnerabilità, cosa ha prodotto lo scompenso e infine ciò che impedisce al paziente di cambiare, ovvero i fattori di mantenimento del disturbo. Questa parte puramente didattica viene puntualmente accompagnata da esempi clinici che ne semplificano la comprensione.

Un aspetto di La formulazione del caso clinico che risulterà importante, soprattutto per i terapeuti che non hanno iniziato o hanno iniziato da poco ad esercitare la professione, è la sezione centrale del testo con la presentazione di diversi casi che costituiscono i prototipi di processi psicopatologici generali, non casi reali quindi, ma modelli che permettono la comprensione di processi comuni a diversi disturbi.

Un libro che risulta essere utile non solo per il clinico alle prime armi, ma che permette anche al terapeuta esperto di “schiarirsi le idee” e sapere in qualsiasi momento della terapia quale direzione seguire. La formulazione del caso clinico di Esposito ha il pregio di non rivolgersi al professionista di una particolare scuola di psicoterapia, ma appare evidente la volontà di integrare i diversi filoni teorici e tecnici, in modo che il suo l’utilizzo possa rivolgersi ai professionisti di qualsiasi orientamento.

Il metadone: quando si usa, indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali – Introduzione alla Psicologia

Il metadone è un farmaco appartenente alla classe degli analgesici, antidolorifici oppioidi, chimicamente derivato della difenilpropilamina. Chiamato anche Polamidon, Eptadone, Dolophine, ecc., è un oppioide sintetico, usato come farmaco nelle cure palliative, per ridurre l’assuefazione da dipendenza da stupefacenti e per il dolore cronico. Nonostante sia chimicamente differente dalla morfina o dall’eroina, utilizza i loro recettori per agire e per questo induce gli stessi effetti e sintomi. E’ disponibile in formulazioni farmaceutiche adatte sia alla somministrazione orale che parenterale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia

Nel 1939  fu sintetizzata la petidina, da parte di due ricercatori Eisleb e Schaumann, avente una struttura simile a quella della morfina. Successivamente Bockmühl e Ehrhart lavorarono su composti con una struttura simile alla petidina: la Dolophine sostanza solubile in acqua, utilizzabile come ipnotico e in grado di rallentare il transito gastrointestinale per facilitare la chirurgia. In questo modo si ottenne il metadone, brevettato l’11 settembre 1941.

Il metadone fu usato come sostituto della morfina, ma solo durante la II guerra mondiale quando era divenuta difficile trovare la petidina in Germania.
Il nome Dolophine o adolfina, nell’immaginario collettivo, si presume possa originare da Adolf Hitler, ma ovviamente si tratta di una leggenda metropolitana, poiché il termine Dolophine, infatti, deriva dalla unione di due parole francesi Dolor e fin, ovvero fine del dolore.

Dopo la guerra il brevetto del farmaco fu esportato negli Stati Uniti come risarcimento per i danni di guerra. Nel 1947 la società farmaceutica statunitense Eli Lilly lo introdusse nel mercato USA e successivamente in altri paesi nel mondo. In Germania il farmaco fu reintrodotto nel 1949 con il nome di Polamidon, dalla Hoechst AG, erede della IG Farben, oggi confluita in Sanofi Aventis.
Dal 1960 il metadone è usato come sostanza utile come terapia sostitutiva nella dipendenza da eroina.
Inoltre, da alcuni decenni il metadone è impiegato nella terapia del dolore oncologico o cronico incoercibile, in alternativa alla morfina, ossicodone, etc.

Sintesi del composto e assorbimento

Il metadone si presenta sotto forma di cristalli incolore, inodore o di polvere bianca cristallina. Esso è solubile in acqua, in alcool e in cloroformio. Si conserva in contenitori ermeticamente chiusi ad una temperatura di 25 °C, e deve essere protetto dalla luce.

E’ una sostanza derivante da una miscela racemica di due molecole speculari, enantiomeri, in rapporto reciproco di 1:1 da cui originano due forme: la levogira di metadone (L)-metadone con evidenti proprietà analgesiche e la destrogira (D)-metadone che possiede efficaci proprietà antitussive e non è analgesico.

Il metadone cloridrato è immediatamente assorbito nel tratto gastrointestinale, dopo essere stato introdotto attraverso un’iniezione sottocutanea o intramuscolare. Esso, se assunto, è ampiamente distribuito nei tessuti, si diffonde attraverso la placenta, e nel latte materno. E’ metabolizzato a livello epatico e i metaboliti sono escreti nella bile e nelle urine.

Il metadone ha emivita lunga e per questo si elimina con minore facilità, di conseguenza una assunzione ripetuta porta ad accumulo nei tessuti, che variano da soggetto a soggetto.

Meccanismo d’azione

Il metadone è un potente agonista dei recettori oppioidi ed esercita la sua azione antidolorifica in maniera analoga a quella della morfina. Tuttavia, rispetto a quest’ultima, possiede una più lunga durata d’azione e una maggiore potenza se somministrato per via orale.
I recettori oppioidi sono localizzati lungo le vie del dolore presenti all’interno dell’organismo e il loro compito è quello di modulare la neurotrasmissione degli stimoli dolorosi. Di conseguenza, quando tali recettori sono stimolati, si induce analgesia.
Pertanto, il metadone, essendo agonista selettivo dei suddetti recettori, è in grado di attivarli esercitando così la sua azione antidolorifica.
Il metadone essendo un agonista selettivo dei recettori oppioidi ed avendo una lunga durata d’azione è un farmaco molto utile anche per la riduzione dei sintomi provocati dalla sindrome d’astinenza in pazienti con dipendenza da oppioidi.

Assunzione del metadone

Il metadone è disponibile per la somministrazione orale, sotto forma di soluzione orale o sciroppo, e per la somministrazione parenterale, sotto forma di soluzione iniettabile.

Poiché può causare dipendenza, durante il trattamento, è necessario monitorare e controllare i pazienti per verificare che il farmaco non sia utilizzato in modo improprio. Quindi, per ridurre i sintomi della sindrome di astinenza nei pazienti con dipendenza da oppioidi si utilizza, di solito, il metadone per via orale.

Tendenzialmente, il trattamento comincia con una dose iniziale di 10-30 mg aumentabile fino a 60-120 mg al giorno. Tale trattamento, ovviamente, deve essere stabilito da un medico.
Invece, per il trattamento del dolore severo si può utilizzare il metadone per via orale o per via parenterale, somministrato per via intramuscolare o sottocutanea ogni 3-4 ore, secondo necessità.
In qualsiasi caso, è necessario seguire sempre tutte le indicazioni fornite dal medico.

Indicazioni terapeutiche

Il metadone può causare dipendenza fisica e psichica e tolleranza, similmente alla morfina. Per questo motivo, devono essere adottate tutte le precauzioni necessarie.

L’utilizzo del metadone in pazienti con ipertensione endocranica dovrebbe essere evitato, poiché vi è un maggior rischio d’insorgenza di depressione respiratoria e di aumento della pressione del liquido cerebrospinale.

Anche nei pazienti affetti da patologie respiratorie o con attacchi d’asma in corso, l’utilizzo del metadone dovrebbe essere evitato, poiché il farmaco può ridurre gli stimoli respiratori e aumentare le resistenze delle vie aeree fino ad arrivare all’apnea.
Il metadone può causare grave ipotensione in pazienti affetti da ipovolemia e in pazienti già in trattamento con alcuni tipi di farmaci neurolettici o anestetici.
Inoltre, durante il trattamento, si deve evitare l’assunzione di succo di pompelmo, poiché quest’ultimo può alterare l’effetto del farmaco.

Il metadone è in grado di alterare la capacità di guidare veicoli e di utilizzare macchinari, pertanto, durante il trattamento, tali attività devono essere evitate.
Infine, per chi svolge attività sportiva, l’utilizzo senza necessità terapeutica costituisce doping.

Effetti desiderati e Collaterali

Gli effetti del Metadone sono simili a quelli della Morfina e dell’Eroina, ma non produce l’intenso effetto iniziale di benessere, il cosiddetto flash, allevia il dolore producendo uno stato di benessere che possono durare fino a 24 ore.

Inoltre, può provocare nausea, costipazione acuta (dovuta ad un rallentamento delle funzioni gastriche ed intestinali), dolori intestinali e di stomaco e diminuzione del desiderio sessuale (dovuta ad una diminuzione della produzione di Testosterone).

Il Metadone tende a dare tolleranza, che scompare abbastanza velocemente, e, di conseguenza, assumerne la stessa quantità espone a serio rischio di overdose, con conseguenze anche gravi. L’uso continuato di metadone da dipendenza, e le crisi di astinenza da Metadone possono essere molto più intense e durature di quelle provocate dagli altri oppiacei.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il terapeuta e la domanda raggelante

La domanda che fa tremare i terapeuti. La domanda che fa tremare i giovani terapeuti. La domanda che terrorizza i terapeuti. I pazienti te la pongono proprio in quel momento lì.

 

Quando hai spremuto tutte le tue residue capacità intellettive per inquadrare il problema. Sei riuscito a formulare il caso e a condividere la lettura col paziente. E il paziente è anche d’accordo. Non ti sembra vero. Perché in quel momento sei anche allo stremo delle tue capacità emotive. Il paziente ti ha testato, sfidato, svalutato, messo alla prova. E tu hai fatto tutto quello che potevi per non reagire. Masticando amaro, sentendo l’autostima che crolla a picco, sprofonda in una voragine, la rabbia che monta, la frustrazione, il senso di fallimento, incapacità, colpa. Li hai regolati, in qualche modo miracoloso non ti hanno travolto. Ma sei sfinito.

Il paziente smontava tutto quello che dicevi ma ce l’hai fatta, in qualche modo. Sei riuscito a tenere a bada ogni sorta di fantasma personale: padri critici e sprezzanti, assenti. Madri colpevolizzanti, angosciate, territori geografici ostili alla psicoterapia. Il gruppo dei pari che non ti capiva. Il paziente ti ha evocato tutto questo, ma tu ce l’hai fatta. Hai detto delle cose sensate e il paziente, miracolo, ha detto che è d’accordo.

La domanda raggelante il paziente te la fa in quel momento lì. Quando sei cognitivamente esaurito ed emotivamente sfiancato. La domanda suona così:

“Sì, vabbe’, ho capito. E adesso?”. La domanda raggelante è: “E adesso?”.

È il momento in cui scappereste dalla stanza alla velocità di un cartone animato, cambiereste lavoro, vi ritirereste tremanti in una selva incantata protetti da un muro di druidi incazzati: “La dottoressa non c’è. Che vuoi? Chi sei?”.

Ma non potete. La domanda raggelante piomba sulle vostre spalle, il brivido di freddo percorre la spina dorsale in su e giù. Il paziente continua a fissarvi. Come avere gli occhi di tutto lo stadio addosso prima del calcio di rigore.

La domanda raggelante ha una risposta.

Sentite già un po’ di sollievo, vero?

La risposta è che, non siete voi a dovere rispondere. Ora, detto più tecnicamente, quando il paziente vi pone la domanda raggelante, vuol dire che in qualche modo è arrivato al livello di avere un minimo di distanza critica dalle proprie idee disfunzionali sulle relazioni o sui sintomi. Sa che teme di morire, ma questo non accadrà necessariamente domani, sa che è convinto che il partner lo trascuri, che i capi lo umilino con intenzione, ma non è necessariamente vero, sa di credersi una schifezza ma alla fine è un’idea che ha appreso nel corso dello sviluppo. Ma di tutta questa splendida e profonda consapevolezza cognitiva non ci fa niente. Perché: “Dottoressa, quando sono a casa non so come uscire da queste spirali. Quando mio padre mi tratta così poi mi sento in colpa e mi dispiace per lui. Quando la mia amante non mi risponde al telefono vado in panico e la tempesto di messaggi. Lo so che è sbagliato, ma non riesco a controllarmi”.

Se il paziente è arrivato fin lì, e vi fa la domanda raggelante, è tempo di riformulare il contratto terapeutico. La vera risposta alla domanda raggelante è che da quel momento in poi il lavoro in seduta è meno importante del lavoro a casa. Si tratta di condividere con il paziente il tipo di lavoro che sarà necessario per interrompere comportamenti disfunzionali, circuiti rimuginatori, per uscire da stati mentali dolorosi che ora si sa cosa sono: stati mentali dolorosi, non più lo specchio della realtà.

A quel punto direte: “Guardi, la sua domanda è importante. Ora è il momento di pensare insieme a cosa fare per uscire dalla sofferenza quando ci entra in quel momento lì”. E così si concordano esercizi comportamentali: “Può provare a non andare a cena da suo padre quando lui glielo chiede dopo averle detto che è una cretina? Può provare a resistere all’impulso di mandare un messaggio alla sua amante e dirmi come si sente?”. Gli esercizi non devono essere eseguiti. È sufficiente che il paziente ci provi e riporti l’esperienza, poi in seduta si ragionerà insieme su come è stato provarci, e si concorderanno esercizi ulteriori.

In seduta si potranno tentare esercizi di guided imagery e rescripting per provare a tornare su scene dolorose e cercare nuove risposte che evochino stati del sé positivi. In seduta si eseguiranno lavori somato-sensoriali per regolare emozioni dolorose, o si impegnerà il paziente nel training attentivo, o in esercizi di mindfulness, per uscire da circuiti rimuginatori. E poi si negozierà su cosa è necessario fare da qui alla prossima seduta per sostenere i risultati e fare ulteriori progressi. Da questo momento in poi la responsabilità del progresso non è più del terapeuta. È nel contratto terapeutico. Si decide insieme di andare verso la salute. Se il paziente non se la sente di fare un passo va rispettato, e il terapeuta può tranquillamente accettare la propria imperfezione e il limite del paziente. Basta solo mantenere l’atteggiamento interno di fiducia e speranza anche quando il paziente sceglie di non fare il prossimo passo, perché lo sta scegliendo. Voi restate vicini, con fiducia, con pazienza, ma la domanda raggelante ha smesso di preoccuparvi.

Quando il lutto diventa patologico: il lutto complicato secondo il DSM-5

Il DSM-5 ha proposto la diagnosi di disturbo da lutto persistente e complicato per indicare proprio quelle condizioni in cui le manifestazioni acute del lutto, con vissuti a stampo negativo, di tristezza, colpa, invidia, rabbia, associati a persistenti ruminazioni relative alle cause, circostanze e conseguenze della perdita, permangono se sono trascorsi almeno 12 mesi dalla morte di qualcuno con cui l’individuo in lutto aveva una relazione stretta, considerando questo lasso di tempo come discriminante tra lutto normale e patologico.

Laura Pizzacani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il processo di elaborazione e accettazione del lutto

La morte di una persona cara rappresenta un’esperienza che altera il benessere psico-fisico e sociale di chi affronta la perdita in modo più o meno significativo e transitorio, sulla base delle caratteristiche soggettive dell’individuo, della sua storia personale, del contesto sociale in cui vive e della rilevanza della perdita.
Solitamente, infatti, al lutto seguono fasi caratterizzate da specifici aspetti cognitivi ed emotivi, che vanno da una iniziale negazione dell’evento, con profonda angoscia, tristezza e ansia associate alla mancanza di motivazione, fino alla sua progressiva accettazione, che porta al recupero di un buon funzionamento alla luce della rielaborazione, sul piano affettivo e cognitivo, della relazione con il defunto e all’acquisizione della capacità di stare nel mondo anche senza di lui.

La variabilità individuale delle manifestazioni sintomatologiche sopracitate, nonché la loro transitorietà, ci porta quindi a considerare il lutto non come una condizione di stato, ma come un processo estremamente mutabile, caratterizzato da manifestazioni che, nella maggior parte dei casi, evolvono spontaneamente nel tempo riducendosi sempre più a fronte del buon esito del processo di elaborazione.

Talvolta, però, si riscontrano casi in cui il lutto non viene elaborato, dando origine ad una condizione patologica, invalidante e persistente in cui queste emozioni negative continuano ad essere esperite, compromettendo significativamente il funzionamento del soggetto. Nei casi più complessi, alla perdita possono conseguire reazioni emotive compatibili con quelle del disturbo da stress post traumatico, caratterizzate da pensieri e ricordi intrusivi, iperattivazione fisiologica, fino ad arrivare a sintomi dissociativi, oppure con quelle del disturbo depressivo maggiore, nel quale prevalgono invece sentimenti di disperazione, tristezza, paura ecc.

Proprio per la parziale sovrapposizione del quadro sintomatologico legato al lutto complicato con il disturbo depressivo maggiore o il disturbo da stress post traumatico, le sue manifestazioni venivano ricondotte, fino a qualche anno fa ed in accordo con i criteri proposti dal DSM-IV-TR, all’interno di questi quadri diagnostici. Solo con la pubblicazione della quinta edizione del Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, il disturbo da lutto persistente complicato ha assunto una sua autonomia, pur restando tra quelle condizioni cliniche che necessitano di ulteriori studi per poter essere validate.

Già nel DSM-IV-TR il lutto era stato collocato tra le cosiddette “condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”, proprio ad indicare come, nel normale processo di elaborazione conseguente a tale evento, potessero esserci difficoltà tali da rendere la condizione del sopravvissuto patologica. Tuttavia il manuale prevedeva la possibilità di virare verso una diagnosi di episodio depressivo maggiore qualora i sintomi e la compromissione funzionale perdurassero oltre i 2 mesi, facendo così rientrare le conseguenze della mancata elaborazione del lutto in un quadro più propriamente depressivo.

Il crescente dibattito scientifico in merito al tema, nonostante la contrapposizione tra coloro che attribuiscono particolare enfasi all’evitamento e a sintomi post-traumatici, e coloro i quali si concentrano maggiormente sulla componente ansioso-depressiva, ritenendo centrali il distacco emotivo e l’ansia da separazione, anche alla luce della consapevolezza della continuità esistente tra lutto normale e patologico, che si differenzierebbero solo per l’intensità dei disturbi manifestati e la persistenza della compromissione nel funzionamento, ha fatto sì che si giungesse ad una descrizione univoca dei criteri diagnostici specifici per il disturbo da lutto persistente e complicato.

La diagnosi di disturbo da lutto persistente e complicato secondo il DSM-5

Il DSM-5 ha quindi proposto la diagnosi di disturbo da lutto persistente e complicato per indicare proprio quelle condizioni in cui le manifestazioni acute del lutto, con vissuti a stampo negativo, di tristezza, colpa, invidia, rabbia, associati a persistenti ruminazioni relative alle cause, circostanze e conseguenze della perdita, permangono se sono trascorsi almeno 12 mesi dalla morte di qualcuno con cui l’individuo in lutto aveva una relazione stretta, considerando questo lasso di tempo come discriminante tra lutto normale e patologico. Questo disturbo, inoltre, si accompagna frequentemente a disturbi del sonno, iporessia, astenia e facile faticabilità, così come all’intensificazione di condotte disfunzionali quali uso di alcool o droghe.

I criteri diagnostici del disturbo da lutto persistente e complicato sono:
A. L’individuo ha vissuto la morte di qualcuno con cui aveva una relazione stretta.
B. Dal momento della morte, almeno uno dei seguenti sintomi è stato presente per un numero di giorni superiore a quello in cui non è stato presente e a un livello di gravità clinicamente significativo, ed è perdurato negli adulti almeno 12 mesi e nei bambini per almeno 6 mesi dopo il lutto:
1. Un persistente desiderio/nostalgia della persona deceduta. Nei bambini piccoli il desiderio può essere espresso nel gioco e nel comportamento anche tramite comportamenti che riflettono l’essere separato da, e anche riunito a, un caregiver o un’altra figura oggetto di attaccamento.
2. Tristezza e dolore emotivo intenso in seguito alla morte.
3. Preoccupazione per il deceduto.
4. Preoccupazione per le circostanze della morte. Nei bambini, questa preoccupazione per il deceduto può essere espressa attraverso i contenuti del gioco e il comportamento può estendersi fino alla preoccupazione per la possibile morte di altre persone vicine.
C. Dal momento della morte, almeno 6 dei seguenti sintomi sono stati presenti per un numero di giorni superiore a quello in cui non sono stati presenti e ad un livello di gravità clinicamente significativo, e sono perdurati negli adulti almeno 12 mesi e nei bambini almeno 6 mesi dopo il lutto:

Sofferenza relativa alla morte
1. Marcata difficoltà nell’accettare la morte. Nei bambini questa difficoltà dipende dalla capacità di comprendere il significato e la definitività della morte.
2. Provare incredulità o torpore emotivo riguardo alla perdita.
3. Difficoltà ad abbandonarsi a ricordi positivi che riguardano il deceduto.
4. Amarezza o rabbia in relazione alla perdita.
5. Valutazione negativa di sé in relazione al deceduto o alla morte (es. senso di autocolpevolezza).
6. Eccessivo evitamento di ricordi della perdita (per es. evitamento di persone, luoghi o situazioni associati al deceduto; nei bambini questo può includere l’evitamento di pensieri e sentimenti che riguardano il deceduto.

Disordine sociale e dell’identità
Desiderio di morire per essere vicini al deceduto.
Dal momento della morte, difficoltà nel provare fiducia verso gli altri.
Dal momento della morte, sensazione di essere soli o distaccati dagli altri.
Sensazione che la vita sia vuota o priva di senso senza il deceduto, o pensiero di non farcela senza il deceduto.
Confusione circa il proprio ruolo nella vita, o diminuito senso della propria identità (per es. una parte di se stessi è diminuita insieme al deceduto).
Dal momento della perdita, difficoltà o riluttanza nel perseguire i propri interessi o nel fare piani per il futuro (per es. amicizie, attività).

D. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti
E. La reazione di lutto è sproporzionata o non coerente con le norme culturali o religiose o appropriate per l’età.

Specificare se lutto traumatico, ovvero: lutto dovuto a omicidio o suicidio con persistenti pensieri gravosi riguardo alla natura traumatica della morte (spesso in risposta a ricordi della perdita), tra cui gli ultimi momenti del deceduto, il grado di sofferenza e delle ferite, o la natura dolorosa o intenzionale della morte.

Diagnosi differenziale del disturbo da lutto persistente e complicato

Il disturbo da lutto persistente e complicato presenta una sovrapposizione parziale, e anche spesso una comorbidità, con il disturbo depressivo maggiore e con il PTSD, tuttavia è possibile evidenziare le differenze esistenti tra questi quadri sintomatologici.

Nonostante la tristezza e i sentimenti di colpa rappresentino elementi pervasivi sia nel disturbo depressivo maggiore che nel lutto complicato, si evidenzia come nel primo caso questi siano generalizzati, mentre nel secondo vengano esperiti solo in relazione alla figura del defunto; la ruminazione sugli errori e sui fallimenti del passato, anch’essa presente in entrambi i casi, è centrata nel disturbo da lutto prolungato solo sulla persona deceduta anziché essere generalizzata.

Se confrontato al disturbo da stress post traumatico, invece, si può notare come nonostante entrambi rappresentino una risposta ad un evento inatteso e traumatico, nel PTSD la risposta sintomatologica è provocata da una minaccia all’integrità fisica propria o altrui, mentre nel lutto è provocata dalla perdita di una persona cara; le emozioni prevalenti esperite dal soggetto, inoltre, sono estremamente diverse, nel PTSD si tratta di paura e ansia, nel lutto di tristezza e nostalgia. Anche per quanto riguarda i pensieri intrusivi è ben identificabile una differenza, nel PTSD, infatti, questi determinano una attivazione incontrollata delle emozioni negative, mentre le intrusioni sperimentate a seguito della mancata elaborazione di un lutto sono prettamente relative ad immagini positive e confortanti della relazione con il defunto.

Si può osservare come una diagnosi differenziale si possa formulare anche rispetto al disturbo dell’adattamento, che secondo il DSM 5 rappresenta un insieme di sintomi emotivi e comportamentali in risposta ad uno o più fattori stressanti ed identificabili.

Epidemiologia e fattori di rischio

Secondo il DSM 5 la prevalenza del disturbo da lutto persistente e complicato si attesta approssimativamente tra il 2,4 e il 4,8% della popolazione.
Tra i fattori di rischio connessi alle variabili del soggetto, si ritiene siano più esposte persone di genere femminile, con pregressa diagnosi per disturbi psichici, soprattutto d’ansia/umore, e con abuso di alcol o droghe.

I fattori legati alla struttura di personalità, invece, che possono contribuire ad allungare i tempi e limitare l’elaborazione del lutto, sono la presenza di basse capacità di coping e la tendenza a reagire negativamente a situazioni che prevedono la necessità di tollerare gli imprevisti e il distress emozionale, quale quello conseguente alla perdita. Gli individui che hanno sperimentato una perdita significativa, infatti, non possono continuare a sostenere le loro vecchie assunzioni su sé, mondo e futuro, ma allo stesso tempo faticano ad accettare le nuove, che implicano una visione di questi aspetti negativa e priva di significato. È necessario, quindi, che gli assunti vengano modificati e resi nuovamente adattivi, ristabilendo una interpretazione degli eventi focalizzata su aspetti positivi grazie ad un drastico cambio di prospettiva.

Per quanto riguarda, invece, le condizioni esterne che possono rappresentare un fattore di rischio si evidenzia la mancanza di supporto sociale come elemento centrale.

I conflitti parentali porterebbero ad una maggior prevalenza del machiavellismo nei maschi

Secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Personality and Individual Differences, i litigi tra i genitori sarebbero associati a elevati livelli di machiavellismo negli adolescenti di sesso maschile.

 

Cosa si intende per machiavellismo

Con il termine machiavellismo in psicologia si definisce uno dei tratti di personalità facente parte della cosiddetta “Triade Oscura” insieme al narcisismo e alla psicopatia. Il termine descrive un tratto di personalità caratterizzato da atteggiamenti quali l’essere cinico, manipolativo e ingannevole.

Il vocabolo deriverebbe dal nome dello scrittore italiano cinquecentesco Niccolò Machiavelli a cui viene erroneamente attribuita la frase “il fine giustifica i mezzi” utilizzata per indicare l’atteggiamento di chi pur di raggiungere i propri scopi prescinde dalle regole morali.

Come si sviluppa il machiavellismo e le possibili cause nel contesto familiare

L’autore dello studio András Láng spiega come è nata la ricerca “Dopo aver finito il dottorato nel 2011, mi sono trovato in una situazione in cui molte persone parlavano di machiavellismo nell’Istituto di Psicologia dell’Università di Pécs in Ungheria. Questo gruppo di colleghi tuttavia non sembrava particolarmente interessato agli aspetti dello sviluppo di tale atteggiamento. Il disinteresse per l’aspetto evolutivo del machiavellismo era diffuso anche all’interno della letteratura scientifica. Il mio lavoro vuole far luce sull’evoluzione di questo tratto al fine di arricchire lo scenario della letteratura psicologica su tale argomento“.

Allo scopo di osservare l’aspetto evolutivo del machiavellismo, gli autori hanno scelto come fascia di età sperimentale l’adolescenza per due ragioni principali: anzitutto è durante questo periodo di vita che il machiavellismo diventa un costrutto personologico relativamente stabile, in secondo luogo durante quest’età l’ambiente familiare riveste un ruolo importante per la crescita sana dei soggetti.

La ricerca è composta da due studi.
Un primo sondaggio compiuto con 266 soggetti (115 maschi e 151 femmine) ha rivelato che i conflitti genitoriali intensi e irrisolti sarebbero associati a elevati livelli di machiavellismo nei ragazzi ma non nelle ragazze. I soggetti di sesso maschile, d’accordo con affermazioni quali “I miei genitori si arrabbiano davvero molto quando discutono” e “I miei genitori rimangono arrabbiati anche quando il litigio è terminato”, prediligerebbero affermazioni machiavelliane quali “Fidarsi completamente di qualcun altro equivale ad andare in cerca di problemi”.

Il secondo studio che ha esaminato 98 famiglie ungheresi con almeno un figlio adolescente, ha confermato i risultati iniziali ottenuti. Le famiglie in cui era presente un alto livello conflittuale e una scarsa cooperazione genitoriale mostravano maggior probabilità di avere ragazzi con tratti di personalità machiavellica.

I due studi quindi forniscono risultati analoghi, sembra infatti che i litigi e la bassa qualità della cooperazione parentale siano associati in egual modo a più alti livelli di machiavellismo e che questa correlazione riguardi selettivamente i soggetti di sesso maschile.

Gli autori ipotizzano che questi adolescenti percepiscano se stessi come incapaci di affrontare la situazione e ritengano i genitori inabili nel mantenere un clima familiare positivo.

“Vorrei sottolineare due aspetti di questi studi” ha detto Lang “Ritengo che il machiavellismo sia un mezzo di sopravvivenza per alcuni di noi, un metodo per gestire il mondo che li circonda. Scenari familiari di rifiuto e conflitto possono condurre alcune persone ad utilizzare la manipolazione come unica strategia relazionale e rendere, in tal modo, più sopportabile la vita. In secondo luogo, sottolineerei la natura di genere di questo tratto personologico, le difficoltà familiari infatti sembrano influenzare la presenza di machiavellismo negli uomini ma non nelle donne. Non credo però che queste difficoltà lascino inalterate le donne, le quali potrebbero esserne influenzate in modi diversi rispetto a quelli maschili” ha concluso Láng.

ll limite maggiore riscontrato nel disegno sperimentale è rappresentato dall’impossibilità di formulare conclusioni circa la causalità tra le variabili osservate, in effetti potrebbe essere vero anche il contrario ovvero che gli adolescenti machiavellici rendano le famiglie più turbate.
In conclusione appaiono necessari studi longitudinali per formulare ipotesi certe circa la direzione della causalità tra conflitti genitoriali e machiavellismo.

La consultazione in psicoterapia: la giornata di confronto tra diversi approcci – VIDEO –

Il 30 settembre 2017 si è svolto al Teatro Arcimboldi di Milano un confronto clinico e scientifico tra alcuni autorevoli esponenti dei principali orientamenti di psicoterapia: Sandra Sassaroli per la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Annamaria Sorrentino per la psicoterapia sistemico-familiare e Fabio Vanni per la psicoterapia dinamica.

 

La giornata all’Arcimboldi è nata da un’idea di Annamaria Sorrentino della Scuola Mara Selvini Palazzoli e Sandra Sassaroli di Studi Cognitivi. che da tempo ragionavano su come costruire una iniziativa comune. Si stava cercando una formula che non fosse teorica ma pratica e clinica. Stefano Cirillo della Scuola Mara Selvini Palazzoli ha suggerito il nome di un terapista che non conoscevamo: Fabio Vanni della Scuola SIPRe e così è nata l’idea di confrontarsi portando un caso clinico a testa, illustrando agli studenti di psicoterapia le linee principali dell’intervento in psicoterapia e permettendo ai colleghi di diverso orientamento di fare osservazioni e domande e di ragionare sulle differenze e sui punti condivisi.

Erano presenti circa 500 allievi delle diverse scuole; molti sono intervenuti e hanno portato idee, commenti, critiche e spunti al dibattito. La giornata si è conclusa con tre colleghi un poco più giovani delle diverse scuole che hanno  portato i rilievi finali e hanno rilanciato spunti di riflessione e commenti: la Dr.ssa Ada Labanti per la Scuola SIPRe, Roberto Berrini per la Scuola Mara Selvini Palazzoli e Giovanni Maria Ruggiero per la Scuola Studi Cognitivi.

La cornice dell’Arcimboldi e una splendida organizzazione comune hanno contribuito alla riuscita dell’evento. Si pensa di ripetere l’esperienza con un unico caso commentato da clinici con diversi approcci, così da rendere il confronto ancora più stringente e illustrativo di differenze, aree comuni e analogie.

Qui di seguito si possono vedere i 3 interventi più le considerazioni finali.


1) La consultazione in psicoterapia – Intervento di Sandra Sassaroli


2) La consultazione in psicoterapia – Intervento di Fabio Vanni

 


3) La consultazione in psicoterapia – Intervento di Annamaria Sorrentino

https://www.youtube.com/watch?v=elFQ7aM61EE


4) La consultazione in psicoterapia: considerazioni finali

 

 

Il disturbo post traumatico complesso. Dalla teoria alla pratica multidisciplinare (2017) di M. Cheli, C. Gambuzza – Recensione del libro

Il libro Il disturbo post traumatico complesso. Dalla teoria alla pratica multidisciplinare affronta le conseguenze del trauma interpersonale in età evolutiva, proponendo un approccio multidimensionale integrato e body-centred da applicare ai servizi, e raccoglie una preziosissima esperienza clinica di colleghi esperti.

 

La diagnosi ‘Disturbo Post-Traumatico Complesso’ (PTST-C), proposta da Herman nel 1992, ha cercato di colmare la lacuna tra la diagnosi di Disturbo da Stress Post Traumatico, che descrive adeguatamente le conseguenze dei singoli eventi traumatici, e la sintomatologia dei traumi interpersonali ripetuti e di lunga durata, che comportano, specie se precoci, disregolazione emotiva, somatizzazione, disintegrazione e dissociazione.

Successivamente, molti autorevoli scienziati hanno cercato di inserire nel DSM una nuova categoria diagnostica: il disturbo post traumatico complesso (DPTS-C) come Disturbo dello Sviluppo. Tale impegno ha permesso negli ultimi decenni di prestare maggiore attenzione all’importante presenza del trauma, nella sofferenza della realtà clinica dei pazienti, superando così il ‘negazionismo’ Freudiano del trauma da abuso sessuale inteso come fantasia isterica (J.Bowlby ricordava in una intervista che Freud nel primo lavoro del 1985 aveva attribuito i sintomi isterici all’abuso sessuale, ma poco più tardi sostenne che quegli eventi non erano realmente accaduti, ma erano immaginari).

Tale sofferenza, evidente ai clinici e non definita ancora ufficialmente nel DSM V, esprime una complessità che necessita di un coordinamento tra servizi e sistemi di cura differenti sul territorio, al fine di non incentivare la frammentazione e quindi la patologia degli utenti.

Il disturbo post traumatico complesso. Dalla teoria alla pratica multidisciplinare – La struttura del libro

Approfondendo sia il processo diagnostico che di cura, il libro Il disturbo post traumatico complesso. Dalla teoria alla pratica multidisciplinare (saggiamente!) si suddivide in due parti. La prima parte, dal titolo ‘Sviluppare una cultura integrata sul trauma personale’, affronta le conseguenze del trauma interpersonale in età evolutiva e propone un approccio multidimensionale integrato e body-centred da applicare ai servizi, sulla base delle più recenti scoperte e attivazioni di programmi internazionali. La seconda parte, dal titolo ‘Esperienze sul campo’ raccoglie una preziosissima esperienza clinica di colleghi esperti, che hanno ricostruito e generosamente offerto l’attuazione pratica e personalizzata dei modelli proposti.

Tale organizzazione del libro Il disturbo post traumatico complesso consente una lettura a più livelli del materiale, da cui emerge una riflessione attenta, curiosa e approfondita, dal teorico al pratico, sulla possibilità concreta che ogni operatore ha (individualmente e nel sistema di cura in cui è inserito) di gestire la sofferenza del paziente con disturbo post traumatico complesso.

È descritta la prospettiva di studi Trauma Informed Care: parte dal presupposto che vi è un’alta prevalenza di esperienze traumatiche nelle persone in carico ai servizi di protezione dell’infanzia e di salute mentale. Essa può quindi diventare una guida pratica per rispondere, nei servizi di cura, alla crescente comprensione teorico-scientifica dell’interazione tra stress e sviluppo.

È necessaria sempre più una continuità della cura tra infanzia ed età adulta (apparentemente logica, ma raramente presa in considerazione a livello pratico) e per attuarla si deve volgere verso un ‘mutamento di paradigma’, che richiede una ‘vision’, ovvero l’adozione di una prospettiva centrata sul trauma complesso come disturbo dello sviluppo, e una ‘mission’, ovvero lo sviluppo di un modello ecologico dell’intervento. Tali obiettivi si traducono in un processo di integrazione, delle conoscenze e dei percorsi di cura, ma l’integrazione è un processo culturale, che richiede tempo, dedizione, pazienza e costituisce un passo avanti importantissimo.

Il disturbo post traumatico complesso. Dalla teoria alla pratica multidisciplinare è un libro ricco di contenuti e spunti di riflessione e rappresenta uno strumento concreto sia per approfondire il disturbo post-traumatico complesso, nelle sue implicazioni teoriche e pratiche, sia per creare un ‘sistema autenticamente curante’, capace di integrare la continuità nello sviluppo e nella crescita della persona.

Adattarsi ai tempi del terrorismo: effetti sulla popolazione generale e cambiamento nelle abitudini

In generale la paura di rimanere coinvolti in un attacco terroristico può essere razionale, nei casi in cui la minaccia ed il rischio siamo costanti (vivere nelle grandi città), ed irrazionale, quando si tende a sovrastimare il rischio di essere vittime di un attacco

Antonio Cozzi e Raffaele Guido – Open School Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Terrorismo: quale definizione?

Per quanto non esista una definizione unica e condivisa del termine terrorismo, esso può essere descritto come l’uso sistematico di azioni criminali contro persone o beni, con lo scopo di diffondere paura e terrore nella popolazione. Proprio in funzione di tale scopo, l’impatto e la risonanza che gli atti terroristici hanno sulla popolazione risultano, ai fini della causa terroristica, più importanti degli esiti fisici dell’azione (danni, numero di vittime).

Spesso gli atti terroristici hanno scopi politici particolari, ne sono esempio le numerose organizzazioni nate in Europa nel ‘900, ad esempio l’IRA in Irlanda del Nord, le Brigate Rosse in Italia, ecc (Living with terrorism, 2017).

In altri casi, considerando ad esempio la minaccia attuale prodotta dal fondamentalismo islamico, le organizzazioni terroristiche agiscono in difesa dell’identità e dei valori religiosi e culturali che rappresentano, perseguendo coloro che sono considerati offensori e che ne minacciano l’identità e la sopravvivenza. L’accusa in questo caso può riguardare il non rispetto della cultura o religione (attantato di Charlie Hebdo), altre azioni possono essere attuate come vendetta nei confronti di paesi che hanno tentato di contrastare l’espansione estremista attraverso altre azioni militari (ne sono esempio gli attentati nelle principali capitali europee, e negli Stati Uniti, colpi inflitti al cuore del mondo occidentale) o che in generale ne abbiano minacciato i valori.

Gli effetti di un attacco terroristico sulla popolazione generale

L’attenzione a chi è stato fisicamente coinvolto in tali eventi è sicuramente la prima a dirigersi. Tuttavia, le conseguenze del terrorismo sono diffuse non solo nelle vittime dirette, ma anche nella comunità, nella popolazione generale.

La diffusione mediatica della minaccia terroristica, l’aumento degli attacchi e la loro violenza, condizionano in modo rilevante la vita delle persone, infondendo paura e diffidenza.

Non sono solo gli incidenti maggiori ad avere effetti sulle persone. Già un anno fa il sociologo Marco Orioles commentava l’aumentata diffidenza nei confronti dell’immigrazione sostenendo il ruolo delle immagini televisive riguardanti l’ingente flusso di migranti sui barconi e alle frontiere. In un’intervista, lo stesso Orioles commenta questa paura sottolineando come i migranti arrivavano anche 5 anni fa. Però finché la tragedia della migrazione rimaneva nel perimetro del Mediterraneo, coi barconi che affondavano, per noi era un fenomeno distante. Quando abbiamo visto le capitali dei paesi europei sotto assedio, ci siamo resi conto che la questione è ingestibile. La concomitanza con la minaccia jihadista ha facilitato l’associazione fra i due aspetti. (Orioles, 2016).

In generale la paura di rimanere coinvolti in un attacco terroristico può essere razionale, nei casi in cui la minaccia ed il rischio siamo costanti (vivere nelle grandi città), ed irrazionale, quando si tende a sovrastimare il rischio di essere vittime di un attacco (Waxman, 2011).

Le persone coinvolte indirettamente in tali eventi (vivere nelle prossimità o condizioni simili, avere parenti coinvolti in un attacco) riportano in particolar modo sintomi e disturbi da stress e modifiche comportamentali, sono presenti tuttavia anche sintomi ansiosi, depressivi, traumatici, percezione di scarso controllo sugli eventi, diffuso senso di insicurezza e pericolo. Possono presentarsi somatizzazioni e disturbi fisiologici (calo del sonno); ripercussioni, come già detto, sulla vita quotidiana (conflitti, problemi relazionali, calo di produttività nel lavoro) ed infine cali nelle risorse psicosociali (ridotta partecipazione, scarso supporto sociale, ritiro ed isolamento) (Institute of medicine, 2003).

In generale tuttavia, nonostante l’alto livello di stress esperito, solo una bassa percentuale della popolazione generale esposta ad attacchi terroristici sviluppa disturbi psichiatrici. Il decorso di tali disturbi risulta inoltre molto variabile: essi possono essere transitori, reattivi ed acuti, vanno solitamente in remissione spontanea e solo una bassa percentuale della popolazione manifesta un disturbo, generalmente post-traumatico o depressivo (Grieger, 2006).

Se sulle vittime dirette gli effetti permangono più a lungo, come dimostra uno studio retrospettivo del 2004 svolto con vittime di attentati in Francia tra il 1995 e il 1996, il quale ha riportato un tasso di 31% di PTSD nelle vittime (Verger et al, 2004), studi condotti sulla popolazione generale dopo gli attentati alle Torri gemelle del 9/11 e di Madrid nel 2004 confermano come i sintomi da PTSD tendano col tempo a diminuire, mentre aumentano tuttavia i sintomi depressivi. I sintomi PTSD sembrano più correlati alla magnitudo dell’ attacco terroristico, mentre sembra che ci siano altri fattori a mediare lo svuluppo di disturbi e sintomi depressivi (Silver et al, 2002; Miguel-Tobal et al, 2006).

Vari studi, tra cui uno condotto pochi giorni dopo l’attacco a Londra del 2005 e con follow up a 7 mesi di distanza, indicano inoltre come l’impatto di tali attentati tenda a diminuire nel tempo, in particolare il livello di stress percepito dalla comunità. Nonostante ciò, tuttavia, le persone riportavano cambiamenti e ripercussioni nei comportamenti e nello stile di vita, in particolare per quanto riguarda i viaggi e l’utilizzo dei mezzi di trasporto (Galea et al, 2003. Stein et al, 2004) Ciò avviene perché in tali contesti e con una minaccia così elevata, le persone sviluppano meccanismi e risorse per adattarsi alla situazione. In un ambiente di violenza minacciata e prolungata, ciò che è normalmente considerato inaccettabile ed estraneo alla quotidianità diventa normale ed accettabile (Living with terrorism, 2017). Questa capacità adattiva risulta dunque fondamentale per convivere con situazioni di alto rischio e difendersi da processi cognitivi maladattivi che potrebbero portare a sofferenze, disturbi e psicopatologie.

Terrorismo: Paura e psicosi

Le organizzazioni terroristiche hanno progressivamente modificato i propri obiettivi, passando dal colpire i simboli più rappresentativi del potere politico di uno stato (Torri gemelle, Pentagono) ai luoghi in cui si svolgono le attività lavorative e ricreative della gente comune (vedi Bataclan, Nizza e gli ultimi avvenimenti di Manchester e Londra). L’obiettivo è quello di trasmettere un senso di minaccia perpetuo e globale, generando modifiche comportamentali in buona parte della popolazione. L’assunto di base, fondato su una credenza erronea ma fortemente diffusa, è che un’attenta analisi delle proprie abitudini (scelta dei trasporti, dei luoghi da frequentare e degli eventi a cui partecipare) possa modificare il rischio di essere coinvolti in un attacco terroristico.

Da un’indagine del Censis, successiva all’ attacco terroristico al Bataclan, emerge come più del 10% della popolazione italiana abbia adottato in modo sistematico una serie di evitamenti, dettati dalla diffusione della paura: si evitano i mezzi pubblici, le uscite serali e la partecipazione ad eventi molto affollati. Ma circa i due terzi della popolazione ha modificato le proprie abitudini sotto la minaccia terrostica: si rinuncia a viaggiare all’estero o a frequentare i luoghi più rinomati e rappresentativi delle città.

Questa situazione sta portando ad un lento decremento dei flussi turistici con effetti sempre crescenti sugli introiti nel settore.

Un dato che colpisce è che i più influenzati siano i giovani dai 18 ai 35 anni (il 77% del totale). Una possibile spiegazione è data dall’efficace rete di comunicazione e propaganda delle organizzazioni terroristiche, in grado di raggiungere attraverso il web soprattutto la fascia più giovane della nostra società.

La diffusione della paura può anche portare a casi di “influenza” o “contagio” sociale, fenomeno che si verifica in situazioni ambigue e confuse in cui si tende a replicare il comportamento assunto dagli altri cospecifici (Deutsch e Gerard, 1955).

Un esempio è dato dai fatti di Torino, dove abbiamo visto come la psicosi da attacco terroristico possa portare a conseguenze anche molto gravi. Nella piazza in cui veniva trasmessa un’importante partita di calcio, per la quale erano affluite migliaia di persone, in circostanze non del tutto chiare, e dunque in assenza di un evidente segnale di reale pericolo, si è diffuso il timore che uno dei presenti fosse un terrorista. A seguito del primo clamore alcuni hanno pensato ad una bomba e chi era distante ha valutato lo sguardo di terrore di chi fuggiva come una prova sufficiente per confermare quell’ipotesi.

Da esseri sociali, quali siamo, l’espressione di paura di persone vicine può condizionare la nostra interpretazione della realtà, portandoci ad esperire noi stessi paura ed adottare una strategia di fuga. Viene da chiedersi quanto la vicinanza temporale dei fatti di Manchester e Londra e il persistere di un clima di imminente attacco terroristico abbiano aumentato l’intensità di questo fenomeno. Sicuramente le particolari modalità adottate dai terroristi hanno condizionato la folla nella valutazione della pericolosità degli stimoli: nel marasma della fuga c’è chi si è convinto di aver visto visto un camion, chi ha sentito urla in arabo, chi era certo si trattasse di una bomba.

È sotto gli occhi di tutti come un obiettivo raggiunto dai terroristi sia quello di aver diffuso il terrore anche attraverso una sorta di condizionamento: stimoli una volta neutri, come una valigia in una stazione, un giaccone un po’ più largo del solito (che adesso tutti associano ad una cintura esplosiva) oppure un furgone o un camion vicino ad aree affollate, sono ad oggi considerati potenzialmente dei pericoli per la nostra incolumità.

La personalità antisociale: fattori di rischio e indicazioni al trattamento

Esiste in letteratura una vasta mole di studi che hanno individuato caratteristiche specifiche emotive, cognitive e comportamentali del Disturbo Antisociale di Personalità. Diverse ricerche mostrano come pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità mostrano difficoltà nel processare le informazioni emozionali e nel rispondere empaticamente agli altri (in Greco e Grattagliano, 2014).

Giada Costantini, Open School STUDI COGNITIVI San Benedetto Del Tronto

 

La diagnosi del disturbo antisociale di personalità

Secondo la definizione del DSM 5 (2013) il Disturbo Antisociale di Personalità è un pattern pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che inizia nell’infanzia o nella prima adolescenza e continua nell’età adulta. Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni (Criterio B) e avere in anamnesi alcuni sintomi del disturbo della condotta prima dell’età di 15 anni (Criterio C).

Gli individui con disturbo antisociale di personalità non riescono a conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale (Criterio A1), sono frequentemente disonesti e manipolativi per profitto o per piacere personale (per es., per ottenere denaro, sesso o potere) (Criterio A2) e possono prendere decisioni sotto l’impulso del momento, senza riflettere e senza considerare le conseguenze per sé e per gli altri. Tendono a essere irritabili e aggressivi (Criterio A4), mostrano una noncuranza sconsiderata della sicurezza propria o degli altri (Criterio A5), tendono anche a essere spesso estremamente irresponsabili (Criterio A6) e mostrano scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni (Criterio A7).

Si evince che, per definizione, le persone che rispondono ai criteri del disturbo antisociale di personalità presentano scarso senso di colpa e a questa carenza è abitualmente ricondotta larga parte della fenomenologia del disturbo.

La colpa è un’emozione fortemente legata alla sfera dello scambio sociale e manifesta implicazioni morali, in quanto l’attenzione della persona si focalizza in modo specifico su un atto compiuto valutato come trasgressivo, su una valutazione delle ripercussioni che tale comportamento potrà avere sugli altri, sulle eventuali modalità con le quali riparare ai danni arrecati. In chiave evolutiva, la colpa è stata selezionata per mantenere l’ordine sociale e la coesione del gruppo: nella cultura dove siamo immersi ci sono coordinate sociali e morali per muoversi adeguatamente all’interno del gruppo sociale, il colpevole di aver trasgredito tali norme ne rischia l’esclusione.

Le caratteristiche del disturbo antisociale di personalità

Esiste in letteratura una vasta mole di studi che hanno individuato caratteristiche specifiche emotive, cognitive e comportamentali del Disturbo Antisociale di Personalità.

Diverse ricerche mostrano come pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità mostrano difficoltà nel processare le informazioni emozionali e nel rispondere empaticamente agli altri (in Greco e Grattagliano, 2014).

I deficit nel processamento emozionale sono l’aspetto caratteristico degli antisociali individuato già da Cleckley (1941). L’Autore notò come questi pazienti fossero in grado di riprodurre una pantomima delle emozioni pur senza sperimentarle. Così utilizzò il concetto di emozione paradosso (ibidem) per esprimere la mancata associazione negli antisociali tra la componente cognitiva e quella soggettiva e fisiologica delle emozioni.

Altri studi si sono concentrati sulla produzione linguistica di parole emotivamente connotate, ad esempio Louth et all. (1998) hanno osservato che individui antisociali parlavano con un tono di voce più basso e monotono e davano meno enfasi prosodica alle parole emotive rispetto ai soggetti di controllo. Questa riduzione nell’espressione prosodica emozionale, è stata trovata anche in uno studio sulla comprensione linguistica di informazioni emozionali, che mostrava che gli antisociali erano meno abili dei soggetti di controllo nel percepire l’emozione di paura a partire da stimoli vocali (Blair et al. 2002).

Altri studi hanno evidenziato come gli antisociali, diversamente dai soggetti di controllo, rispondono alle parole emozionali con la stessa velocità e accuratezza delle parole neutre (Lorenz e Newman 2002; Mitchell et al. 2002). Alcuni autori hanno suggerito che il deficit nella risposta emozionale in questi pazienti sia selettivo (Newman et al. 1987). Per esempio, Patrick, Bradley e Lang, (1993) hanno osservato negli antisociali una ridotta differenziazione rispetto ai non antisociali, nella frequenza del battito cardiaco in risposta a frasi-stimolo neutre vs frasi-stimolo minacciose. Allo stesso modo, studi di psicofisiologia hanno evidenziato una ridotta risposta elettrotermica agli stimoli avversivi negli antisociali, come pur un ridotto potenziamento del riflesso di ammiccamento palpebrale (Kosson et al. 2002). Questo potrebbe suggerire che questi pazienti hanno una ridotta capacità di sperimentare paura quando esposti a situazioni minacciose (Herpetz et al. 2001).

A ulteriore conferma di questa selettività, diversi studi hanno evidenziato che gli antisociali non mostrano nessun deficit nel provare emozioni positive come il piacere o la felicità, anzi appaiono orientati alla ricompensa e tendono ad assumere rischi, entrambi fattori associati ai centri della ricompensa nel cervello (Newman et al. 1987). Coerentemente, gli antisociali evidenziano un’accresciuta emozionalità positiva (Izard et al. 1993). Questo deficit nell’esperienza emozionale potrebbe addirittura essere alla base del successo spesso ottenuto dagli antisociali nel manipolare e mentire agli altri (Greco e Grattagliano, 2014): è possibile che la mancanza o la riduzione dell’intensità con cui vengono sperimentate alcune o tutte le emozioni, comporti una riduzione dell’interferenza emozionale tra emozioni esibite e quelle soggettivamente esperite durante la simulazione di espressioni emozionali, e questo a causa della mancanza di una reale emozione (ibidem). Così l’emozione soggettivamente esperita dall’antisociale trapela meno dall’espressione simulata dell’emozione rispetto ad altri individui, e tutto questo potrebbe rendere questi individui più convincenti e persuasivi agli occhi degli altri (ibidem).

Rifacendoci alla Teoria della Mente che si riferisce all’abilità di rappresentare gli stati mentali degli altri, i loro pensieri, desideri, credenze, intenzioni e conoscenze (Frith, 1989), diversi studi hanno cercato di verificare i deterioramenti nella capacità di rappresentare gli stati mentali dell’altro, in individui con Disturbo Antisociale di Personalità (Richell et al. 2003; Widom 1978). Nello specifico, Blair e collaboratori (2004) hanno verificato l’abilità degli individui con antisocialità a svolgere Advanced Theory of Mind Test (Happé, 1994), un test che misura il grado di comprensione di una storia valutando la comprensione degli stati mentali. I risultati hanno mostrato che la performance degli individui con antisocialità al compito non era peggiore di quella di individui del gruppo di controllo, pur mostrando una ridotta responsività ai segnali di stress. Richell e collaboratori (2003) hanno esaminato l’abilità degli individui con antisocialità di svolgere il Reading the Mind in the Eyes’ Task (Baron-Cohen et al. 1997), un test in cui i partecipanti devono giudicare lo stato socio-emozionale mostrato da un individuo basandosi solo sulle informazioni provenienti dalla zona degli occhi. Ancora una volta gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità non mostravano deficit in questo compito.

Ciò nonostante, numerosi studi hanno evidenziato che gli antisociali hanno problemi nell’identificare le espressioni emozionali negative degli altri, specialmente tristezza e paura (Blair et al. 2004; Hasting et al. 2008). Blair, Colledge, Murray e Mitchell (2001) hanno confrontato le abilità a identificare le espressioni facciali in bambini e adolescenti tra i 9 e i 17 anni distinti sulla base di elevate o basse tendenze antisociali. Anche in questo caso sono emerse delle difficoltà nei bambini con elevate tendenze antisociali a riconoscere le espressioni di paura e tristezza, rispetto a quelli con basse tendenze antisociali. Stevens, Charman e Blair (2001) hanno condotto uno studio simile per esaminare il riconoscimento di tristezza, paura, felicità e rabbia nelle espressioni facciali e vocali in bambini e adolescenti tra i 9 e i 15 anni. Gli autori (ibidem) hanno scoperto un deficit specifico nel riconoscimento di paura e tristezza sia nelle espressioni facciali che vocali in bambini con elevate tendenze antisociali. Tuttavia, è stato evidenziato che gli antisociali tendono ad affermare e simulare la sperimentazione di queste emozioni, senza esperirle soggettivamente: possono dire che sono dispiaciuti per le loro azioni o apparire empatici con la loro vittima, senza provare niente di tutto ciò.

Per questo Cleckley (1988) parla di maschera di sanità, perché le parole o le azioni degli antisociali non riflettono il loro mondo interno: pur non avendo problemi a capire quello che gli altri stanno sentendo, non reagiscono emozionalmente a queste esperienze.

Concludendo le evidenze empiriche hanno osservato delle consistenti differenze nei processi emozionali degli antisociali, tuttavia non è chiaro se queste differenze sono legate all’assenza di emozione, al fallimento di processare automaticamente l’emozione o alla ridotta intensità dell’esperienza emozionale (Greco e Grattagliano, 2014).

Per quanto riguarda le caratteristiche cognitive, sembrerebbe che gli schemi di base di sé, degli altri e del mondo dei pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità siano piuttosto rigidi e inflessibili. L’antisociale vede se stesso come forte e autonomo da solo, mentre gli altri sono visti come sfruttatori e da sfruttare, deboli, vulnerabili e da predare (Greco e Grattagliano, 2014). Inoltre, è piuttosto caratteristico un bias cognitivo nel percepire intenti malevoli da parte degli altri (Blackburn e Lee-Evans 1985). Le credenze intermedie riguardano la necessità di fare attenzione a chiunque, evitare la vittimizzazione diventando aggressore o sfruttatore, e il percepito diritto o non curanza nel violare le regole sociali per raggiungere i propri obiettivi. Le strategie di compensazione tipiche sono l’attacco, il furto o varianti più subdole come la manipolazione e la frode.

Caratteristica del Disturbo Antisociale è la messa in atto di un comportamento immorale. La questione aperta è se sono in grado di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, quindi se possiedono la capacità di un normale giudizio morale. Nonostante l’interesse verso questa questione, i dati sperimentali circa l’abilità degli antisociali di formulare giudizi morali normali sono piuttosto limitati.

Tuttavia Mancini, Capo e Colle (2009) affermano che piuttosto che avere un deficit di empatia potrebbero avere scopi antisociali e quindi far uso dell’empatia per scopi immorali: lo scarso peso attribuito alla sofferenza degli altri, al pari dello scarso senso morale, sembra nascere dalla limitata importanza attribuita al rispetto degli scopi morali e al peso rilevante attribuito a scopi esplicitamente antisociali, come dominanza, vendetta, etc. (Lochman, Wayland, e White, 1993).

Prognosi e trattamento del disturbo antisociale di personalità

Dal punto di vista della prognosi e del trattamento, è stato osservato (Robbins, Tipp, Przybeck, 1991) che molte persone antisociali tendono a maturare nel corso degli anni, soprattutto al superamento dei quaranta-cinquanta anni di età (Black, 1999, p.89) e cessano di compiere azioni criminali o, almeno, crimini violenti. Le componenti comportamentali hanno di solito maggiori probabilità di trarre beneficio dal trattamento di quanto avvenga per i tratti di personalità (Dazzi e Madeddu, 2009). Tuttavia, tra questi ultimi, l’impulsività può più facilmente essere modulata rispetto ai tratti predatori o sadici (ibidem). La capacità di provare compassione può essere un elemento cruciale per una prognosi maggiormente favorevole (come anche il suo opposto, l’insensibilità) (Annette Streeck-Fisher (1998 a,b).

A rendere più complesso il trattamento c’è il ricorso a uso di sostanze: la relazione tra il disturbo antisociale di personalità e l’uso di sostanze rappresenta quella meglio documentata nella letteratura psicopatologica (Waldman, Slutske, 2000).

 

C’è stato un trauma significativo? I batteri intestinali potrebbero aiutarci a predire l’insorgenza di un Disturbo da Stress Post Traumatico

Confrontando il DNA microbico di un gruppo di soggetti con PTSD con il DNA microbico di un gruppo di soggetti di controllo che hanno subito almeno un trauma, senza però sviluppare il PTSD, è emerso che i soggetti del gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo, riportano livelli significativamente inferiori di tre batteri intestinali.

Greta Riboli

 

I batteri intestinali e la relazione con il PTSD

Come mai non tutti sviluppano un disturbo da stress post traumatico (PTSD) in seguito ad eventi traumatici di rilievo? Vari fattori influenzano l’insorgenza di questo disturbo e dei ricercatori sembrano aver scoperto come anche il microbioma intestinale svolga una sua importante funzione a riguardo.

Il microbioma è l’insieme dei microbi esistenti all’interno del tratto gastrointestinale umano. Tali microbi hanno il compito di svolgere diverse funzioni, tra le quali metabolizzare il cibo e mantenere in funzione il sistema immunitario, combattendo le infezioni. Studi recenti (Bravo et al., 2012) hanno evidenziato il ruolo del microbioma sul cervello: sembra avere la capacità di condizionare e determinare la produzione di neurotrasmettitori ed ormoni. Inoltre il microbioma intestinale sembra avere un ruolo nell’insorgenza di diverse patologie psichiatriche (Parashar & Udayabanu, 2016).

Il disturbo post traumatico da stress è una patologia psichiatrica correlata ad eventi traumatici e/o stressanti, contrassegnata da sintomi, tra cui possibili ricordi angoscianti, flashback, difficoltà di memoria, irritabilità e ipervigilanza (APA, 2013).

Come è già stato introdotto, l’insorgenza di questa patologia non ha un rapporto diretto 1:1 con un evento traumatico. Si parla infatti di vulnerabilità del soggetto allo sviluppo del PTSD e ci sono diversi fattori che possono influenzare questa sensibilità, tra cui: tipologia di trauma vissuto; fattori ambientali, condizioni di vita del soggetto, età del soggetto, rete di supporto; risorse interne, tra cui lo stile di coping; corredo genetico, ed ora si ipotizza rivestano una loro importanza anche le caratteristiche del microbioma.

Inoltre è necessario considerare che gli stati emotivi stessi possono apportare modifiche al microbioma: in particolare un rilascio massiccio di cortisolo (ormone dello stress), a seguito di determinate emozioni, può influenzare la crescita batterica e causare infiammazioni, le quali sembrano avere un ruolo privilegiato nell’insorgenza di diversi disturbi psichiatrici (Foster & Neufeld, 2013).

Confrontando il DNA microbico di un gruppo di soggetti con PTSD con il DNA microbico di un gruppo di soggetti di controllo che hanno subito almeno un trauma, senza però sviluppare il PTSD, è emerso che i soggetti del gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo, riportano livelli significativamente inferiori di tre batteri intestinali.

I tre batteri interessati sono l’Actinobacteria, il Lentisphaerae ed il Verrucomicrobia. Due di essi (actinobacteria e verrucomicrobia) raggiungono livelli significativamente inferiori in individui che hanno subito traumi in una prima fase di vita. Si ipotizza dunque che individui che hanno vissuto traumi infantili siano a rischio più elevato di sviluppare PTSD nell’arco della propria vita, essendosi verificati, in età precoce, in risposta al trauma, cambiamenti nel microbioma intestinale.

Interpretazione dei risultati

I ricercatori ipotizzano che i bassi livelli dei tre batteri possano aver provocato una disregolazione immunitaria ed un aumento dell’infiammazione.

La disregolazione e l’infiammazione, di conseguenza, potrebbero, a loro volta, aver contribuito allo sviluppo dei sintomi del PTSD.

L’utilità dello studio: tra limiti e nuovi sviluppi

I ricercatori non sono in grado di determinare con sicurezza che il deficit batterico riscontrato sia un fattore contribuente all’insorgenza del PTSD. Si domandano se il deficit batterico non sia magari una conseguenza dell’insorgenza del PTSD stesso.

Rimanendo dubbi come questo ancora aperti, la ricerca deve proseguire, magari disponendo anche di studi longitudinali.

L’identificazione e la comprensione del legame tra microbioma e sintomi psichiatrici può contribuire a miglioramenti nei futuri trattamenti, in quanto il microbioma può esser riequilibrato grazie a interventi dietetici, tra cui l’introduzione di prebiotici, probiotici e/o sinbiotici.

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