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Abbraccialo per me: riflessioni psicologiche sul film e pensieri su una cura psicoanalitica delle psicosi

Abbraccialo per me è un film emozionante che racconta il dramma che una famiglia vive quando al suo interno vi è un membro affetto da una disabilità psichica.

Mirella Montemurro

 

Introduzione: la disabilità psichica in Abbraccialo per me

 Abbraccialo per me (2016) di Vittorio Sindoni è tra i più recenti film di argomento psichiatrico. Ha suscitato molto interesse e ottenuto riconoscimenti tra cui il patrocinio del Garante per l’Infanzia Vincenzo Spadafora e il timbro di “interesse culturale” dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali.

E’ un film emozionante che racconta il dramma che una famiglia vive quando al suo interno vi è un membro affetto da una disabilità psichica. Il lungometraggio evidenzia lo stigma sociale, una psichiatria a volte inadeguata ed un particolare rapporto madre/figlio che non facilita il processo di cura.

Francesco Gioffredi detto “Ciccio” è un ragazzo esuberante, con problemi comportamentali. Ciccio e la sua famiglia vivono in una piccola cittadina siciliana che reagisce alle bizzarrie del ragazzo con ostilità. All’interno della famiglia il padre Pietro percepisce Ciccio come un nemico, perché soffre la sua esclusione dal rapporto simbiotico madre-figlio. La madre Caterina vive le sue esuberanze giustificandole come delle ragazzate negando la presenza di un benché minimo disagio psicologico. La negazione della malattia da parte della madre porterà Ciccio a non curarsi adeguatamente. Tania, sua sorella maggiore, prenderà in mano la situazione e riuscirà finalmente ad indirizzare il fratello verso un percorso di cura.

Questo bel film stimola, a mio avviso, una riflessione sulla tematica relativa al rapporto genitori/figlio e su un argomento più vasto legato alla necessità di ampliare l’orizzonte di osservazione rispetto al trattamento di malattie mentali gravi.

Nel presente lavoro, traendo spunto da Abbraccialo per me, farò alcune riflessioni sul rapporto genitori/figlio nella lettura di Donald Winnicott e nel successivo paragrafo focalizzerò l’attenzione su una tipologia di cura, quella psicoanalitica, su pazienti psicotici.

Lo scopo di questo lavoro è duplice: in primo luogo si vuole favorire una riflessione sul ruolo primario della famiglia nel processo di cura del paziente grave. Il secondo scopo è quello di riflettere su un percorso terapeutico integrato a quello farmacologico. In particolare il trattamento psicoanalitico dimostra, come ben raccontato nell’ultimo libro Psicoanalisi delle psicosi: Prospettive attuali a cura di Riccardo Lombardi, Luigi Rinaldi, Sarantis Thanopulos (2016), di aver già operato e di continuare a farlo nella direzione della cura del paziente grave.

Rapporto genitori/figlio: Abbraccialo per me nella lettura di D. Winnicott

Un illustre psicoanalista e pediatra inglese Donald Winnicott (1974) sosteneva che “la madre debba essere sufficientemente buona”. Secondo l’Autore una madre deve saper illudere e gradualmente disilludere. In una prima fase il bambino ha bisogno di un ambiente protettivo quasi perfetto. Successivamente la madre dovrà esporlo, gradualmente, alle frustrazioni e difficoltà esterne senza difenderlo da ciò che è in grado di affrontare da solo.

La relazione diventa disfunzionale quando l’ambiente di accudimento è carente: quando le funzioni di holding (sostegno) ed handling (maneggiamento del neonato) sono deficitarie e anche quando la madre non riesce a modulare le fasi di illusione/disillusione. Questa mancata modulazione porta il bambino ad una illusione infantile onnipotente che inevitabilmente lo esporrà ad una disillusione traumatica mancando la madre della gradualità delle frustrazioni del mondo esterno.

Il rapporto tra Caterina e Ciccio in Abbraccialo per me è di tipo simbiotico. Caterina con tutte le sue forze nega a sé stessa ed agli altri la malattia del figlio. Con tutte le sue energie distorce la realtà, proprio come fa Ciccio con le sue allucinazioni e deliri. Nel tentativo di proteggerlo crea in lui una illusione onnipotente nella quale viene coinvolta a tal punto da assomigliare ad una folie à deux.

Winnicott sostiene che vi è una condizione psicologica che chiama “preoccupazione materna primaria” (1981) che inizia durante la gravidanza e si protrae fino a qualche mese dopo il parto caratterizzata da devozione, dipendenza. Winnicott parla di “ritiro”, “dissociazione”, “fase schizoide” della personalità. La fase di “preoccupazione materna primaria” è una condizione psicologica necessaria che ha bisogno di emergere, stabilirsi e cessare quando il bambino non ha più bisogno di tale stato di cose. Caterina sembra permanere in questo stato di devozione, dipendenza, fornendo a Ciccio una protezione eccessiva.

In Abbraccialo per me, nella madre Caterina prende il sopravvento anche un potente processo identificativo. Caterina si identifica con la fragilità di Ciccio, la fa propria. La simbiosi con il figlio le impedisce di vedere il figlio come “Altro da Sé” e quindi di aiutarlo. C’è un figlio ideale, un figlio frutto delle sue proiezioni, che non è Ciccio. A tale proposito, colpisce la scena dove il giovane riceve la proposta di suonare ad un matrimonio. Ciccio è preoccupato di non farcela e seduto sul letto chiede alla madre di aiutarlo. In questa scena sembra che glielo stia dicendo in qualche modo alla madre: “mamma aiutami perché non riesco più a far finta di nulla. Il gioco, il gioco della vita, sta diventando troppo complesso per me”. Anche in questo caso la madre non riesce a cogliere il bisogno del ragazzo. Caterina viene fomentata da questa notizia: finalmente vedrebbe suo figlio valorizzato. Gli compra una giacca molto elegante, eccessiva. Quella giacca è emblematica. E’ ciò che Caterina mette addosso al proprio figlio. E’ una giacca/Sé molto impegnativa e soprattutto che non sceglie Ciccio.

Come sostiene Palacio Espasa (2001) il bambino reale non è mai solo “il bambino”, ma è anche il “bambino che i genitori avrebbero voluto essere…” e specularmente i genitori si identificano con “i genitori che avrebbero voluto avere…” Queste identificazioni incrociate sono cruciali per la formazione dei primi legami e rappresentano una delle chiavi di lettura per comprendere le interazioni tra genitori e figli.

Caterina, ad esempio, ritiene che Ciccio abbia bisogno di musica, di esprimere la sua vena artistica, proprio quella che non era riuscita a coltivare lei stessa da giovane: “So io quello di cui ha bisogno Ciccio!” si può tradurre in: “So io quello di cui avevo bisogno da piccola”.

Come si poteva recuperare la relazione madre/figlio? Attraverso un padre. Il delicato compito del padre è quello di contrastare una possibile regressione fusionale della coppia madre-bambino.

All’inizio il padre ha una funzione di affiancamento alla compagna, per sostenerla nelle cure rivolte al neonato. Successivamente diventa una figura relazionale. Anche il padre si ritroverà a fare i conti con la mancata coincidenza tra figlio reale e figlio idealizzato. Per poter riconoscere ed accettare il figlio come “Altro da sé”, nella sua concretezza di persona diversa, dovrà operare uno sforzo separativo come quello richiesto alla madre.

Nel film Abbraccialo per me la figura paterna è mancata. Pietro non ha saputo “salvare” la relazione madre/figlio. Si è posto all’interno del rapporto in una posizione simmetrica rispetto a Ciccio. Non è riuscito a creare un legame con questo figlio perché accecato dalla rabbia narcisistica: “questo figlio si è preso tutto, me l’ha rubata” dice a Tania poco prima di morire.

La madre perpetrando la negazione del disagio psichico del figlio ha tardato le cure per poi interromperle definitivamente. Ciccio ha iniziato a curarsi per merito della sorella Tania che ha assunto un ruolo materno competente vicariando la madre simbiotica.

Concludendo, si può asserire che per riattivare un processo di crescita della relazione genitore/figlio sia necessario che i genitori sviluppino nei confronti del figlio un equilibrio tra amore di sé nell’altro (investimento narcisistico) e amore dell’altro come differente da sé (investimento oggettuale). La relazione simbiotica genitore/figlio, spesso foriera di danni psicologici, diventa ancor più pericolosa quando, come nel film Abbraccialo per me, il figlio presenta a monte un disagio psichico.

Una cura psicoanalitica delle psicosi

 Abbraccialo per me stimola anche una riflessione più generale sulla cura dei disturbi psichiatrici gravi che vengono di solito ascritti a quella categoria di malattie non curabili con la talking cure. Come sottolineato dal regista (“La carenza di strutture e di terapie adeguate è uno dei problemi che le famiglie affrontano. In molti casi la risposta che viene data loro passa solo dagli psicofarmaci mentre esistono anche altre possibilità”) ritengo sia necessario ampliare l’orizzonte di osservazione clinica. Sebbene la cura psichiatrica in Italia venga considerata una delle migliori al mondo si ritiene che l’orientamento biologista tipico di alcuni psichiatri odierni precluda l’apertura verso cure in parallelo a quella psicofarmacologica. Si dovrebbe, al contrario, optare per un modello che preveda l’attenzione su dinamiche biologiche, psicologiche e sociali. La lettura in parallelo del disturbo mentale potrà quindi legittimare tanto il trattamento psicoanalitico quanto quello farmacologico (Martini, 2016).

Lo studio della psicosi ha una lunga storia nella psicoanalisi, così come il dibattito sull’adeguatezza del trattamento psicoanalitico per la loro cura. Freud sosteneva che lo schizofrenico non potesse essere trattato psicoanaliticamente perché il suo ritiro libidico di tipo narcisistico impediva lo sviluppo del transfert (Kafka, 2016). Federn (1952) fu il primo psicoanalista a trattare pazienti psicotici; teorizzando che nello psicotico non ci siano abbastanza “guardie di confine”: L’Io non può differenziare gli stimoli esterni da quelli interni. Diversi psicoanalisti (Aulagnier, Bion, Grotstein, Ferrari) convergono verso una lettura della psicosi come “buco nero” nella rappresentazione affettiva e mentale del proprio corpo e del rapporto con la realtà.

Un primo esempio di cura psicoanalitica di pazienti gravi si realizzò nell’Ospedale Psichiatrico Chestnut Lodge nel 1933 quando il dottor Bullard jr (che successe al padre nella direzione clinica) trasformò l’istituto in un primo ospedale psichiatrico ad approccio psicoanalitico. Chestnut Lodge si sviluppò fino a diventare una istituzione con cento pazienti e venti psichiatri che tenevano dalle quattro alle cinque sedute settimanali con ciascuno dei loro pazienti. Kafka (2016), psichiatra e psicoanalista americano che lavorò presso il Chestnut Lodge dal 1957 al 1967, racconta di come vi fosse un assiduo lavoro di équipe e di come venisse data importanza al singolo individuo, promuovendo un trattamento “su misura”. “Se sai qualcosa di una persona schizofrenica, sai qualcosa di una persona schizofrenica” (Kafka, 2016). Chestnut Lodge era dotata anche di una struttura dove venivano ospitati quei pazienti dimessi dall’ospedale ma non ancora reinseriti nel tessuto sociale e lavorativo. Inoltre veniva offerta accoglienza anche alle famiglie che provenivano da lontano. Il Chestnut Lodge era anche un istituto di formazione per la ricerca clinica che forniva la possibilità di osservare pazienti per lunghi periodi. Al Lodge infatti i pazienti continuavano ad essere curati anche nelle fasi di compenso psicopatologico.

Un nome che segnò la storia di Chestnut Lodge fu Frieda Fromm-Reichmann psichiatra, neurologa e psicoanalista che lavorò nell’ospedale dal 1935 al 1957 anno della sua morte. Joanne Greenberg paziente di Frieda scrisse un libro autobiografico che racconta il dramma della malattia e l’incontro con la cura. Un percorso doloroso ma il solo in grado di permettere a Deborah (alias Joanne) di acquisire lentamente la consapevolezza di sé e del mondo reale. Il titolo Non ti ho mai promesso un giardino di rose (1964) pare fosse una frase che Frieda disse a Joanne.

Il Chestnut Lodge non è l’unico esempio di istituto psichiatrico ad orientamento psicoanalitico. Un’altra importante realtà è il Menninger Clinic nel Kansas dove hanno lavorato illustri psicoanalisti tra cui: Rapaport, Simmel, Fenichel, Fonagy, Kernberg, Gabbard e l’italiano Edoardo Weiss. Nel 2003 la Menninger Clinic si è spostata a Houston e continua ad operare con efficacia.

In riferimento ai trattamenti psicoterapici afferenti a diversi approcci (psicoanalitico, cognitivo-comportamentale, sistemico, etc) sono presenti organizzazioni internazionali tra cui l’International Society for the Psychological Treatments of the Schizophrenias and Other Psychoses che si occupa in modo organico e sistematico del trattamento psicoterapico integrato delle psicosi. A San Francisco è anche presente The Center for The Advanced Study of the Psychoses, diretto dai noti L. Bryce Boyer e Thomas H. Ogden, autori di articoli e libri conosciuti in tutto il mondo. In Italia sono diversi gli psicoanalisti (A. Correale, F. De Masi, R. Lombardi, F. Petrella, L. Rinaldi,  S. Thanopulos ed altri) che operano prevalentemente su pazienti gravi.

Si premette che i pazienti psicotici che si possono curare con la psicoanalisi sono pazienti trattati farmacologicamente e che presentano una qualche capacità di autoriflessione, una organizzazione narrativa della mente, come anche che tollerino il ritmo di presenza-assenza della seduta (Correale, 1997). Nel lavoro analitico bisogna tener conto della matrice multifattoriale della psicosi (Grotstein, 2001) e dei suoi limiti. Come sostiene lo psicoanalista Lombardi (2016) il lavoro deve essere un lavoro di équipe: psichiatra farmacologico, analista per la famiglia e analista per il paziente psicotico. Lombardi sottolinea inoltre l’importanza di intervenire il prima possibile specie quando la psicosi si presenta in età adolescenziale e nei primi esordi schizofrenici.

Il trattamento psicoanalitico non può essere quello classico. Non si può costruire, ad esempio, un setting strutturato; non si utilizza l’interpretazione di transfert ed in generale il pensiero simbolico (De Masi, 2016). Il lavoro psicoanalitico con questo tipo di pazienti è prevalentemente di tipo descrittivo e di chiarificazione in modo tale che la persona possa comprendere sempre meglio quale è la parte sana e quale è quella psicotica. Si lavora per costruire una esperienza di scambio, comprensione e fiducia nella relazione analitica che favorisce la costruzione di un legame del paziente con la dimensione relazionale (Lombardi, 2016).

Lo psicoanalista aiuta il paziente a pensare, lo aiuta a comprendere e a sviluppare delle capacità di far fronte al pensiero psicotico. Il paziente viene aiutato ad uscire dal mondo delirante, acquisendo pian piano una modalità di funzionamento basato sulle leggi della realtà psichica e dei legami emozionali fino ad arrivare a svolgere una vita del tutto normale. Vi sono numerose testimonianze di come si possa ritornare a vivere normalmente. Nella stessa opera letteraria troviamo riscontri positivi della cura psicoanalitica delle psicosi. Oltre al già citato libro Non ti ho mai promesso un giardino di rose, ricordo The Center Cannot Hold: A Memoir of My Schizophrenia (Un castello di sabbia. Storie della mia vita e della mia schizofrenia) di Elyn R. Saks pubblicato nel 2007 e diventato un best seller negli Stati Uniti. La Saks brillante professoressa universitaria racconta in questo libro il decorso della sua schizofrenia cronica e di come abbia potuto affrontarla anche grazie alla psicoanalisi. Elyn Saks ha beneficiato per una durata di trent’anni dell’assistenza di una terapia farmacologica e parallelamente di una psicoanalisi con il noto psicoanalista Kaplan.

 

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Comprendere ciò che si legge: uno studio sui prerequisiti della comprensione del testo a scuola

La comprensione del testo è il risultato del rapporto tra le suddette abilità (Comprensione = Decodifica x Comprensione linguistica) e qualora una di queste due componenti venga danneggiata, il processo di comprensione ne risulterà deficitario. Questo significa che affinché si avvii la comprensione del testo scritto devono essere garantite abilità minime in entrambe le componenti (Gough e Tunner, 1986; Hoover e Gough, 1990).

 

Introduzione: le componenti della comprensione del testo

La comprensione di ciò che si legge è un processo complesso che coinvolge diversi aspetti del funzionamento mentale di ogni individuo. Oltre ad abilità cognitive generali, come l’attenzione e la memoria che guidano il lettore nella costruzione dei significati, entrano in gioco anche processi di natura metacognitiva e strategica.

Gough e Tunmer (1986), autori del modello “Simple view of reading”, sostengono che le componenti primarie per lo sviluppo di una buona comprensione del testo siano l’abilità di decodifica e la comprensione linguistica. La comprensione del testo è il risultato del rapporto tra le suddette abilità (Comprensione = Decodifica x Comprensione linguistica) e qualora una di queste due componenti venga danneggiata, il processo di comprensione ne risulterà deficitario. Questo significa che affinché si avvii la comprensione del testo scritto devono essere garantite abilità minime in entrambe le componenti (Gough e Tunner, 1986; Hoover e Gough, 1990).

A sostegno di tale ipotesi, i dati di diverse ricerche suggeriscono che per uno sviluppo ottimale della comprensione del testo scritto sia utile valutare e potenziare le abilità implicate nella comprensione orale, fin dalle prime fasi di scolarizzazione (Carretti e Zamperlin, 2010; Florit, Levorato e Roch, 2008).

Bishop e Snowling (2004) rielaborando il modello Simple View of Reading proposto da Gough e Tunmer (1986) delineano altre due componenti fondamentali legate al linguaggio: l’elaborazione fonologica (phonological skills) e gli aspetti semantici e sintattici (nonphonological language skills). Gli autori sottolineano come la comprensione del testo sia direttamente collegata anche alla competenza linguistica sul versante sintattico e semantico.

Il fatto di non conoscere il significato di molte parole o non riuscire a cogliere il significato di una frase potrebbe ostacolare la creazione di una rappresentazione coerente del testo. I risultati presenti in letteratura mostrano infatti come il successo in prove di conoscenza lessicale e di comprensione sintattica sia fortemente associato a un buon livello di comprensione del testo (Nation et al. 2010; Carretti et al. 2002).

Sulla base di questa breve analisi, appare fondamentale considerare la competenza lessicale e la capacità di comprensione orale come due componenti essenziali che determinano il successo in prove di comprensione del testo. Lo studio che segue, partendo da questo presupposto, vuole offrire un contributo all’ampliamento delle conoscenze sull’efficacia degli interventi di potenziamento a scuola, considerata come luogo d’eccellenza in cui sviluppare competenze trasversali e strategie metacognitive.

Lo Studio: Obiettivi, metodo e campione

L’obiettivo della ricerca è stato quello di confrontare gli effetti di due percorsi di potenziamento differenti:
1) il primo focalizzato sulla comprensione orale;
2) il secondo sulle competenze lessicali.

A questo studio hanno partecipato tre classi terze di scuola primaria, per un totale di 63 bambini (30 M, 33 F).
La scuola che ha partecipato alla ricerca è situata in una zona periferica del comune di Roma, in un contesto particolarmente svantaggiato dal punto di vista socio-culturale.

L’unico criterio di inclusione dei partecipanti è stato l’assenza di una certificazione di disabilità cognitiva secondo quanto previsto dalla legge 104/92.

Il lavoro sperimentale prevede un’articolazione in tre fasi:
1) fase pre-test: le 3 classi sono state sottoposte alle prove di valutazione iniziale.
2) fase di intervento: dopo la valutazione iniziale sono state individuate le due classi (due gruppi sperimentali) che avrebbero iniziato il potenziamento, una classe avrebbe lavorato sulla comprensione orale e l’altra sulle competenze lessicali, mentre la restante classe (gruppo di controllo) avrebbe seguito la programmazione didattica ordinaria.
3) fase post-test di valutazione finale: le 3 classi sono state sottoposte alle medesime prove somministrate nella fase iniziale.

L’intero lavoro è stato svolto durante l’orario scolastico nel periodo che va dal 20 settembre al 20 novembre del 2016.

Gli strumenti utilizzati nelle fasi di valutazione (pre-test e post-test) sono i seguenti:
La comprensione del testo è stata valutata attraverso la somministrazione del brano informativo della batteria MT-Clinica (Prove MT- Clinica, Cornoldi, Carretti, 2016) corrispondente alla classe frequentata. Il test di comprensione prevede la lettura di un brano, senza limiti di tempo, con la consegna di porre attenzione al contenuto, in modo da rispondere successivamente alle domande a scelta multipla relative al testo.

La comprensione orale è stata valutata attraverso le prove CO-TT (Carretti et all., 2013). Il test prevede la lettura da parte dell’esaminatore di una prima parte del brano. Successivamente viene consegnata la scheda con la prima serie di domande a scelta multipla e si invitano gli studenti a rispondere. Segue la lettura da parte dell’esaminatore della seconda parte del brano e la consegna del foglio con le restanti domande.

Infine è stato chiesto alle insegnanti di compilare le scale SDAI (Batteria BIA, Cornoldi, Marzocchi, 2010) sia all’inizio che alla fine del training, al fine di monitorare il livello di disattenzione e iperattività mostrato dagli alunni in classe e ricavare dati utili su eventuali cambiamenti osservati durante l’intero percorso.

Come precedentemente esplicitato, la fase di intervento ha avuto come obiettivo il potenziamento di due differenti componenti che possono essere considerate i precursori fondamentali della comprensione del testo: la comprensione orale e le competenze lessicali.
I due percorsi di potenziamento sono stati assegnati ai gruppi sperimentali (due delle tre classi coinvolte), mentre la terza classe è stata considerata come gruppo di controllo dello studio.

Il primo gruppo sperimentale, coinvolto nel percorso di potenziamento sulla comprensione orale, è composto da 18 soggetti (8 M, 10 F). Il materiale utilizzato è stato selezionato dal programma di trattamento CO-TT (Carretti et al., 2013).
Il programma si concentra su tre aree fondamentali: metacognizione, memoria di lavoro e collegamenti fra le diverse parti del testo.

Il secondo gruppo sperimentale, coinvolto nel percorso di potenziamento sulle competenze lessicali, è composto da 20 soggetti (11 M, 9 F). Il materiale utilizzato è stato selezionato dai seguenti programmi di intervento:
1) “Nuova guida alla comprensione del testo” vol. 3: 8-12 anni (De Beni et al., 2004)
2) “Lessico e ortografia” (Bigozzi et al., 1999)
3) “Imparo parole nuove” (Aprile, 2010)
4) “Superabilità più” (Zamperlin et al. 2009)

Entrambi i programmi sono stati eseguiti dalle insegnanti dopo un periodo di adeguata formazione iniziale, durante la quale sono stati esposti gli obiettivi della ricerca, le basi teoriche della comprensione del testo e gli aspetti principali del training che avrebbero dovuto eseguire.

Entrambi i programmi sono stati articolati in 20 incontri della durata di un’ora ciascuno. Gli incontri si sono svolti durante l’orario scolastico nelle prime ore di attività didattica (lunedì, mercoledì e venerdì dalle 9:00 alle 10:00).

Rispetto alla struttura dell’incontro sono state date le seguenti indicazioni:
10 minuti iniziali: introduzione dell’attività del giorno facendo un breve riepilogo dell’incontro precedente;
40 minuti: attività di potenziamento sulla base delle attività previste nei due programmi;
10 minuti di conclusione dell’incontro: riflessione sulle attività svolte. In particolare viene richiesto agli studenti di autovalutarsi e individuare le difficoltà riscontrate.

Risultati

La valutazione pre-test è stata effettuata nel mese di settembre 2016.

Nella prova di comprensione del testo il 27% del campione totale coinvolto nello studio si colloca in una fascia di “richiesta di intervento immediato” mentre il 20% ottiene un punteggio che si colloca nella fascia di “richiesta di attenzione”. Quasi la metà dei partecipanti dimostra di non aver ancora acquisito delle competenze sufficienti in compiti di comprensione del testo, emergono quindi difficoltà significative in questo ambito.

Per quanto riguarda la prova di comprensione orale i risultati sono sulla stessa linea. Il 28% si colloca in una fascia di “richiesta di intervento immediato” mentre il 30% mostra difficoltà meno gravi ma comunque da segnalare (fascia “abilità da sostenere”).

Infine è stato chiesto alle insegnanti di compilare le scale SDAI (Scala di disattenzione e iperattività, Cornoldi et al. 1996). Rispetto al parametro “disattenzione” vengono segnalati 11 soggetti su 62 (superano il cut off clinico >14), mentre per quanto riguarda l’iperattività ne vengono segnalati 4.
Questa fase di valutazione iniziale ci ha permesso di avere una visione d’insieme sulle tre classi coinvolte nello studio. I risultati sono stati condivisi con le insegnanti ed è stato deciso, di comune accordo, che le due classi coinvolte nel percorso di potenziamento sarebbero state quelle che hanno ottenuto i punteggi più bassi alle prove.

Al termine del periodo del potenziamento sono state somministrate le medesime prove della fase iniziale con l’obiettivo di verificare l’efficacia degli interventi proposti.

Nello specifico sono state condotte delle ANOVA (analisi della varianza) a misure ripetute con fattore entro i soggetti (i tempi pre e post trattamento) e fattore tra i soggetti (le classi coinvolte nello studio). Questo tipo di analisi ci ha permesso di capire se fossero stati registrati cambiamenti statisticamente significativi nella prestazione alle prove somministrate prima e dopo il trattamento, e capire quali dei due gruppi sperimentali avessero ottenuto maggiori benefici dal training.

Per quanto riguarda la comprensione del testo è stato possibile osservare un miglioramento in entrambi i gruppi sperimentali, mentre i punteggi ottenuti dal gruppo di controllo non si discostano significativamente da quelli iniziali. Dall’ANOVA effettuata è infatti emerso un effetto significativo nella condizione entro i soggetti dei due gruppi sperimentali. La differenza tra la condizione pre e post risulta statisticamente significativa F (1, 63) = 17.01 p< 0.01.

Non emerge invece alcun effetto significativo nell’interazione tra il gruppo di appartenenza e la sessione. Non è quindi possibile concludere quale dei due training abbia avuto una maggiore influenza sulla comprensione del testo.
Anche per quanto riguarda la comprensione orale è stato possibile osservare un cambiamento in entrambi i gruppi sperimentali. Dall’ANOVA effettuata è emerso un effetto significativo della sessione. La differenza tra la condizione pre e post risulta statisticamente significativa F (1, 63) = 5.852 p= 0.019.

Emerge inoltre un effetto significativo nell’interazione tra il gruppo di appartenenza e la sessione F (2)= 3.160 p= 0.51. In questo caso è possibile ipotizzare che uno dei due training abbia avuto una maggiore influenza sulla comprensione orale. Osservando le medie delle risposte corrette fornite dai tre gruppi coinvolti nello studio è possibile osservare come il gruppo che ha svolto il training sul lessico passi da M=6.33 nella fase pre a M=8.11 nella fase post.

Al termine del percorso le insegnanti hanno compilato le scale SDAI al fine di monitorare anche i possibili effetti dei training sulle componenti attentive.

Nella classe che ha svolto il potenziamento sulle competenze lessicali le insegnanti hanno riferito punteggi di disattenzione e iperattività notevolmente più bassi rispetto all’inizio del training. Alle insegnanti non è stato mostrato alcun riferimento alle scale compilate in precedenza in modo da garantire un giudizio che fosse il più possibile obiettivo rispetto ai cambiamenti osservati.

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Fig. 1 In ascissa viene riportato il codice identificativo degli alunni e in ordinata i punteggi di disattenzione della scala SDAI pre e post.

 

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Fig. 2 In ascissa viene riportato il codice identificativo degli alunni e in ordinata i punteggi iperattività della scala SDAI pre e post .

 

Riflessioni conclusive

Entrambi i percorsi di potenziamento hanno prodotto dei miglioramenti nella comprensione del testo. Dai risultati emerge come il training sul potenziamento delle competenze lessicali mostri degli effetti significativi anche sulla comprensione orale.

Il programma sulle competenze lessicali è stato strutturato su alcune caratteristiche del linguaggio che influenzano anche la comprensione d’ascolto, come l’arricchimento lessicale e la capacità di fare inferenze. Il cambiamento osservato dimostra quindi la validità di un percorso di potenziamento che prenda in considerazione questi aspetti.

Il ruolo del vocabolario e delle conoscenze lessicali è una delle componenti di base necessaria al processo di comprensione del testo. Non è possibile pensare all’attivazione di processi di elaborazione delle informazioni contenute in un testo se manca l’accesso ai significati dei termini incontrati nel processo di lettura. Tuttavia, dato che il testo da comprendere non è solo una lista di parole, un buon bagaglio lessicale non garantisce automaticamente la comprensione dei contenuti espressi o da estrarre dal testo. Per questo risultano fondamentali le abilità inferenziali sia di tipo lessicale che semantico (De Beni, Cisotto e Carretti, 2001).

La classe che ha lavorato su questi aspetti è costituita da soggetti che, secondo il parere delle insegnanti, partivano da una condizione di svantaggio linguistico e culturale. Lavorare sugli aspetti inferenziali, sull’ampliamento del vocabolario, riflettendo sulle difficoltà osservate attraverso il confronto tra i pari ha stimolato negli studenti un atteggiamento metacognitivo e ha contribuito a migliorare anche la comprensione orale.

Le insegnanti di questa classe hanno segnalato punteggi di disattenzione e iperattività notevolmente più bassi rispetto all’inizio del trattamento, in particolare per quanto riguarda i soggetti segnalati all’inizio come disattenti e iperattivi. Questi dati suggeriscono che un lavoro di questo tipo potrebbe produrre degli effetti positivi anche sulle componenti attentive osservate nel contesto scolastico.

Concludendo ritengo che sia importante sottolineare come i cambiamenti sopra descritti siano stati il frutto di un attento lavoro di analisi, reso possibile anche grazie alla collaborazione delle insegnanti. Loro stesse hanno condiviso la riflessione su come l’utilizzo di strumenti di valutazione standardizzata a scuola possa fornire dati precisi rispetto ai cambiamenti osservati.

Speriamo che questo studio possa essere considerato come un proficuo esempio di collaborazione tra il mondo della scuola e quello degli specialisti (psicologi dell’apprendimento, logopedisti, pedagogisti e educatori) che si occupano di valutazione degli apprendimenti.

Il fenomeno del Binge watching e i disturbi del sonno

In un studio recente Exelmans e Van den Bulck hanno mostrato come il binge watching notturno si associ a un rischio raddoppiato di disturbi del sonno.

In cosa consiste il fenomeno del binge watching

Una serie dopo l’altra, gli appassionati di serie TV passano sempre più notti davanti allo schermo; in America hanno pensato di dare un nome a questa maratona di episodi (5,10 o 15) senza sosta: Binge Watching.

Questo termine fa riferimento ad un disturbo dell’alimentazione, il binge eating disorder (BED). In entrambi i casi si hanno come filo conduttore le abbuffate, vere e proprie maratone, cambia soltanto l’oggetto di cui ci si abbuffa, da una parte abbiamo il cibo, dall’altra le serie TV.

I ricercatori stanno quindi iniziando a studiare questo fenomeno, che nei casi più estremi porta ad isolamento sociale, comportamenti compulsivi, disordini alimentari e disturbo del sonno.

Binge watching e disturbi del sonno

In un studio recente Exelmans e Van den Bulck infatti hanno mostrato come il binge watching notturno si associ a un rischio raddoppiato di disturbi del sonno.

Di questa ricerca hanno fatto parte 463 soggetti che hanno risposto a questionari specifici su abitudini di visione televisiva, qualità del sonno, stanchezza, insonnia, ed eccitazione pre-sonno.

80 % dei partecipanti ha riferito di aver avuto almeno una sessione di binge watching nel mese precedente. I risultati hanno inoltre rilevato che più queste sessioni erano frequenti, minore era la qualità del sonno e maggiori i casi di insonnia e di affaticamento il giorno dopo. Lo studio ha evidenziato inoltre che la visione in modalità “abbuffata” compromette la capacità di addormentarsi, determinando una eccitazione cognitiva.

Secondo gli autori, quando si guarda la televisione questa eccitazione è ridotta, mentre diverso è il caso delle serie tv poiché in queste la struttura narrativa è costruita in modo da mantenere alta la tensione con colpi di scena e finali di puntata spesso a sorpresa, in cui un episodio contiene più rami narrativi che continuano negli episodi seguenti e che si intersecano nelle diverse stagioni. Va poi considerato che le serie tv non forniscono quella chiusura della storia e quel senso di sollievo dato dal sapere come va a finire che invece caratterizzano i film, tutti elementi che mantengono sovraeccitato il cervello e rimandano il momento dell’addormentamento.

Si dovrebbe quindi smettere di appassionarsi alle serie tv?

Gli esperti rispondono che è sufficiente moderarsi un po’ e cercare di non trascorrere troppe ore immersi nelle intricate storie proprio prima di dormire.

Il cervello ci protegge dai brutti ricordi e pensieri

Uno studio di Schmitz, Correia e Anderson, pubblicato recentemente su Nature Communications, ha identificato una “chiave chimica”, all’interno dell’ippocampo, che consente di sopprimere pensieri intrusivi e memorie spontanee, aiutando così a far luce sui meccanismi di alcuni disturbi tra cui  l’ansia patologica, il PTSD, la depressione e la schizofrenia, nei quali spesso si esperiscono pensieri persistenti e intrusivi negativi, anche sotto forma di rimuginio, ruminazione e allucinazioni.

 

Il rimuginio: quando i pensieri e le memorie negative affiorano alla mente

Nel corso della propria esistenza infatti capita di frequente di avere a che fare con pensieri automatici legati a memorie, immagini o preoccupazioni. Quando questo succede, il pensiero legato ad un evento accaduto viene recuperato e focalizza la nostra attenzione su quell’evento, che lo si voglia oppure no, in modo spontaneo. Quando i pensieri e le memorie spontanee sono a contenuto negativo o traumatico, affiorano alla mente e possono assumere la forma di rimuginio pervasivo e persistente, di ruminazione su ciò che è accaduto di negativo in passato, riportandoci con la mente all’episodio accaduto e intensificando il malessere personale.

Pertanto diventa centrale per il benessere dell’individuo la capacità di controllare i propri processi di pensiero e di sopprimere il recupero spontaneo di memorie negative e dolorose.

Quando queste abilità di controllo del pensiero falliscono, si verificano alcuni dei sintomi più invalidanti dei disturbi d’ansia, della depressione, del PTSD e della schizofrenia (Brewin, Gregory, Lipton & Burgess, 2010).

Il meccanismo cerebrale che sopprime le memorie negative

Il professor Anderson, dell’unità di scienze mediche e cognitive dell’università di Cambridge, autore dello studio, in particolare sottolinea la capacità dell’individuo di poter intervenire per evitare il recupero di memorie e pensieri con lo scopo di inibire anche un comportamento conseguente.

Gli autori dello studio hanno così ipotizzato che possa esistere un meccanismo simile, a livello cerebrale, che possa sopprimere il recupero di memorie interrompendo in questo modo pensieri spontanei a esse collegati.

Il meccanismo cerebrale di controllo inibitorio delle memorie non è infatti legato solo alla corteccia prefrontale che svolge un ruolo di “controllore esecutivo” dell’intero sistema ma, in questo studio, è stato associato anche all’attività degli interneuroni GABAergici dell’ippocampo, la sede della memoria.

Gli autori nel loro studio (Anderson et al., 2017), hanno utilizzato una procedura definita “Think/No-Think” con l’intento di mostrare come l’inibizione GABAergica a livello ippocampale sia collegata al circuito inibitorio prefrontale con lo scopo di interrompere il recupero di memorie non volute e sopprimere così la comparsa di pensieri automatici.

Il compito sperimentale consisteva nel chiedere ai  soggetti di imparare l’associazione di coppia di parole legate da un significato comune come ad esempio “Muschio/Nord”, o di una coppia di parole scollegate tra loro come “insetto/strada”.

In un secondo momento ai soggetti veniva chiesto di rievocare la coppia di parole associate se una delle due parole in coppia era verde o di sopprimere l’associazione se invece era rossa: ad esempio, il soggetto, a cui veniva mostrato la parola “insetto” in rosso, doveva interrompere il pensiero che avrebbe associato “strada” ad “insetto”.

Usando una combinazione tra risonanza magnatica funzionale (fMRI) e la spettroscopia a risonanza magnetica, i ricercatori sono stati in grado di osservare ciò che stava accadendo nel cervello dei soggetti a cui veniva chiesto di inibire oppure di non sopprimere i loro pensieri.

L’ausilio della spettroscopia ha permesso di misurare l’attività dei neurotrasmettitori e non solo l’attività delle regioni cerebrali come la maggior parte degli studi fMRI.

Lo studio di Anderson e colleghi (2017) ha mostrato come l’inibizione dei pensieri intrusivi e automatici sia legata al neurotrasmettitore GABA, la cui aumentata concentrazione all’interno dell’ippocampo predice l’abilità del soggetto di sopprimere il processo di recupero della memoria e di conseguenza di evitare che si presentino pensieri nella mente.

Le ricerche neuroscientifiche  precedenti (Milard, 2002), si sono focalizzate soprattutto sull’approfondimento del ruolo della corteccia prefrontale, da sempre considerato il “centro di comando” del cervello, nella regolazione top-down dei circuiti cerebrali legati alla memoria, al controllo motorio e nella modulazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Calhoon & Tye, 2015).

Tuttavia questo studio ha evidenziato come il quadro sia incompleto: infatti pare che l’inibizione delle memorie e dei pensieri automatici avvenga a livello delle cellule ippocampali che ricevono comandi dalla corteccia prefrontale facendo sì che questi siano implementati al meglio.

L’attività GABAergica degli interneuroni ippocampali infatti potrebbe giocare un ruolo importante nell’abilitare la corteccia prefrontale, rendendo la soppressione di pensieri intrusivi e automatici ancora più efficace (Anderson, 2017).

Questi meccanismi inibitori del neurotrasmettitore GABA nei confronti dei pensieri e delle memorie automatiche, mostrati nello studio di Anderson e colleghi (2017), sono stati evidenziati su 30 soggetti non patologici.

I ricercatori, tuttavia, sottolineano come sia possibile che nei soggetti patologici, con una diminuita attività delle cellule ippocampali GABA, sia più difficile modulare la comparsa di memorie e pensieri spontanei, come si verifica ad esempio nella schizofrenia.

Infatti, tale studio potrebbe spiegare le grandi questioni ancora aperte legate alla schizofrenia nella quale si è riscontrata un’iperattività ippocampale che correla con la presenza di sintomi intrusivi e pervasivi come le allucinazioni.

Tale iperattività delle cellule GABA dell’ippocampo potrebbe rendere maggiormente difficoltoso il loro controllo mnemonico da parte della corteccia prefrontale: l’ippocampo pertanto fallirebbe nell’inibire pensieri e memorie che tornerebbero nella mente dei soggetti affetti da schizofrenia, sotto forma di allucinazioni.

Un’elevata attività dell’ippocampo, dovuta a influenze sia genetiche che ambientali ancora da stabilire correttamente, potrebbe essere la chiave di lettura per molte patologie caratterizzate da una patologica inabilità al controllo di memorie e pensieri non voluti, intrusivi e spesso con contenuto negativo come il disturbo da Stress Post-traumatico, i disturbi d’ansia, il disturbo depressivo persistente.

Nonostante lo studio non passi in disamina i trattamenti che si possono mettere in atto alla luce di questa scoperta, tuttavia Anderson e colleghi ritengono che i risultati possano far luce sui meccanismi ancora non del tutto conosciuti che alimentano il rimuginio ansioso, la ruminazione e la presenza nei soggetti con PTSD di immagini e pensieri traumatici anche a distanza di anni dal trauma.

Utilizzare delle strategie per migliorare l’attività inibitoria delle cellule GABA dell’ippocampo, potrebbe aiutare molte persone a sopprimere il circolo vizioso dei pensieri intrusivi e diminuire di conseguenza il loro malessere e disagio psicofisico in quanto per loro sarebbe possibile interrompere il riaffiorare alla mente di ricordi e pensieri negativi.

Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI): prove di efficacia – La collaborazione con la Queensland University of Technology di Brisbane

In collaborazione con la Queensland University of Technology di Brisbane è stato condotto un nuovo studio di efficacia sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) attraverso una multiple baseline case series con 7 pazienti, con disturbi di personalità non borderline

 

Nella psicoterapia contemporanea è indispensabile tentare di fornire prove dell’efficacia di quello che si fa. È una questione di responsabilità verso i pazienti. I tempi dei maestri autoproclamati sono finiti da tempo.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI): dalle prove di efficacia su casi singoli alle case series

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), prima formulata per un ampio ventaglio di disturbi di personalità (Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio et al., 2007), è stata successivamente manualizzata (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013) per pazienti con disturbi non-borderline, quali evitante, narcisista, ossessivo-compulsivo, dipendente, paranoide. Le procedure della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) sono state descritte nel massimo dettaglio, in modo che le procedure fossero riproducibili con un training adeguato. Questa manualizzazione era il primo passo per testarne l’efficacia e possibilmente diffondere l’approccio all’estero.

Inizialmente abbiamo pubblicato alcuni casi singoli di a buon outcome, di pazienti con vari disturbi di personalità, segno che la terapia poteva funzionare, ma naturalmente era un livello del tutto preliminare: si selezionano i casi proprio perché sono andati a buon fine!

Il secondo passaggio è stato la case series svolta al Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) di Roma. Tre pazienti hanno soddisfatto i criteri di inclusione – disturbi di personalità non borderline e che soddisfacessero almeno 10 criteri di disturbo di personalità. I pazienti  hanno ricevuto 2 anni di terapia individuale, con follow-up a 3 mesi. I pazienti hanno tutti completato il trattamento e le terapie sono andate bene (Dimaggio et al., 2017). Anche questo però è un passaggio preliminare, anche se di maggiore solidità. Il campione è molto piccolo, i terapeuti sono tra i fondatori dell’approccio con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) e lo studio si è svolto alla lettera in casa. Era necessario riprodurlo e ampliarlo.

Prove di efficacia a multiple baseline: la collaborazione con la Queensland University of Technology di Brisbane

In collaborazione con la Queensland University of Technology di Brisbane abbiamo condotto un nuovo studio di efficacia. Ho formato con tre giorni di corso, più supervisione regolare mensile un gruppetto di giovani colleghe e lì abbiamo attuato una multiple baseline case series con 7 pazienti, di nuovo con disturbi di personalità non borderline.

Il disegno multiple baseline prevede misure dei sintomi settimana dopo settimana e il trattamento inizia solo quando i sintomi sono stabili, in questo modo si evita che alcuni pazienti sembrino migliorare solo perché magari dopo un’acuzie andavano naturalmente verso una fase di remissione.

L’articolo di Gordon-King, K., Schweitzer, R.D. & Dimaggio, G. (in stampa). Metacognitive Interpersonal Therapy for Personality Disorders Featuring Emotional Inhibition: A Multiple baseline Case Series. è stato accettato dal Journal of Nervous and Mental Disease, seguendo un lavoro di caso singolo tratto da questa serie da poco pubblicato (Gordon-King, Schweitzer & Dimaggio, 2017).

I risultati sono stati molto confortanti. C’è stata una sola interruzione prematura di trattamento, ma comunque con buon outcome che la paziente ha attribuito ai farmaci. Tutti i pazienti sono andati bene in termini di riduzione importante del numero di criteri soddisfatti per disturbi di personalità. Per dire, tutti i pazienti alla fine della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) non avevano più diagnosi di DP e massimo 7 criteri rimasti. Solo un paziente è passato da 27 criteri a 11, mantenendo quindi la diagnosi di DP Non Altrimenti Specificato. I risultati erano clinicamente significativi anche per quanto riguarda misure di sintomi psicologici generali e ansia e depressione, funzionamento sociale e alessitimia. Insomma, una roba niente male. Tra l’altro sommato alla case series, precedente abbiamo 10 pazienti trattati con 1 solo drop-out e nessuno adverse effect. Il passo successivo è di avere studi di efficacia randomizzati con gruppi di controllo, per valutare la tenuta di questi risultati che appaiono molto incoraggianti.

Ricordiamo che la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è un modello sviluppato interamente in Italia, che prende il modello della metacognizione di Semerari e colleghi (1999), adotta una formulazione del caso basato sul concetto di schema interpersonale patogeno per come operazionalizzato da Luborsky & Crits-Christoph (CCRT, Tema Relazionale Conflittuale Centrale) e si basa sul modello dei dei sistemi motivazionali multipli, che partendo da Gilbert, Lichtenberg e Panksepp, è stato sviluppato e testato e applicato clinicamente in Italia dai colleghi di area cognitivo evoluzionistica (Liotti & Monticelli, 2011; Fassone et al., 2016; Ivaldi, 2017).

Altri lavori di efficacia sono in corso, in Italia e all’estero (Norvegia, Danimarca e Spagna), riporteremo i risultati appena saranno disponibili.

Decision making e l’ipotesi del marcatore somatico

Damasio descrive il ruolo chiave giocato dalle cortecce prefrontali, in particolare della corteccia prefrontale ventromediale, nel comportamento emotivo e nel decision making. Dopo aver legato indissolubilmente il processo di ragionamento a quello della decisione, Damasio ha modo di rimarcare ulteriormente il ruolo del corpo nel processo intellettivo razionale decisionale introducendo l’ipotesi del marcatore somatico.

Daniele Giusto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO 

“ …la ragione è, e può solo essere,
schiava delle passioni…”
(D. Hume)

 

Non c’è nulla di piú comune in filosofia, e anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la palma alla ragione, e per affermare che gli uomini sono virtuosi solo nella misura in cui obbediscono ai suoi comandi(…).Per dimostrare come tutta questa filosofia sia erronea, cercherò di dimostrare in primo luogo che la ragione, da sola, non può mai essere motivo di una qualsiasi azione della volontà; e in secondo luogo che la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà”. (D. Hume)

La psicologia sperimentale del secolo corrente si muove su questa linea di ricerca: la ragione perde lo scettro e il trono viene spodestato dall’emozione. Le emozioni diventano il veicolo della decisione che si manifesta non solo attraverso il cervello, abbiamo bisogno di concepire la decisione come frutto di un’elaborazione di tutto il corpo agli stimoli ambientali.

Damasio descrive il ruolo chiave giocato dalle cortecce prefrontali, in particolare della corteccia prefrontale ventromediale, nel comportamento emotivo e nel decision making. Dopo aver legato indissolubilmente il processo di ragionamento a quello della decisione, Damasio ha modo di rimarcare ulteriormente il ruolo del corpo nel processo intellettivo razionale decisionale introducendo l’ipotesi del marcatore somatico. Un concetto già presente in William James, che mette in luce quanto il sistema cognitivo umano non sia limitato a strutture sottocorticali, ma si estenda a tutto l’organismo. Questo ci permette di svincolare ancora una volta i processi di ragionamento da una concezione puramente analitica cognitiva, che descrive la decisione come frutto di un ragionamento “freddo”, dettato dalle regole della logica e del continuo calcolo mentale dei costi e benefici.

Il decision making

Il decision making caratterizza alcuni dei più importanti eventi della vita: ad esempio, scegliere con chi sposarsi, quale casa comprare, su quale lavoro investire, se smettere di fumare sono decisioni lente che devono tenere in considerazione diversi elementi e devono esser valutate in base ad un tempo futuro, invece, se bere un altro bicchiere prima di mettersi in strada, quale pizza prendere in una serata con gli amici, scegliere se scappare da un pericolo richiedono che il processo del decision making sia rapido ed efficace.

In termini formali, il processo decisionale può essere considerato come il risultato di processi mentali (cognitivi ed emozionali), che determinano la selezione di una linea d’azione tra diverse alternative. Ogni decision making produce una scelta finale.

Ragionamento e decisione sono tanto intrecciati da venire spesso usati in maniera intercambiabile. I due termini, di solito, implicano che chi decide conosca almeno la situazione, le differenti possibili scelte d’azione e le conseguenze di ciascuna di esse nell’immediato e in tempi futuri (Damasio, 1994). I deficit di ragionamento e decisione a volte sono alla base della tossicodipendenza, dei disturbi alimentari, del disordine ossessivo compulsivo, della schizofrenia, della mania e dei disturbi di personalità (Rahman et al., 2001).

Eseguito in modo corretto, il decision making dà luogo a capacità umane elevate, come ad esempio l’etica, la politica, il comportamento economico.

Ricercatori nei campi della psicologia e dell’economia sono generalmente d’accordo sull’importanza di due fondamentali motivazioni umane, come il desiderio di ridurre l’incertezza e il desiderio di ottenere vantaggio (Bentham, 1948); queste motivazioni sono fondamentali nella presa di decisioni.
Contrariamente alle prime teorie, che vedevano il decision making legato alla scelta razionale, oggi è risaputo che le decisioni umane sono basate su motivazioni edoniche più che su motivazioni razionali (Cabanac, 1992).

Per esempio, i comportamenti sessuali rischiosi sono piuttosto il risultato di un’anticipazione di una ricompensa immediata piuttosto che un’analisi del rischio a lungo termine. Recentemente, ci sono stati numerosi tentativi di interpretare problemi clinici come il comportamento additivo, il comportamento criminale e il danno cerebrale in termini di decisione legata alla ricompensa. Questi tentativi si sono focalizzati sulle recenti scoperte concernenti la psicologia e le neuroscienze sul decision making (Bechara et al., 1999; Rahman, et al., 2001; Rogers et al., 1999).
Le immagini funzionali e altre tecniche fisiologiche, hanno chiarito quali processi neurali sottostanno all’esecuzione delle decisioni favorevoli e non.

Decisione guidata dall’emozione

Antonio Damasio è l’autore che più di ogni altro ha sostenuto l’idea della decisione come frutto di un ragionamento influenzato dall’emozione. L’idea di base di Damasio è che, nel considerare le alternative per un corso d’azione, basiamo la nostra decisione sulla rappresentazione di simili eventi che si sono incontrati nel passato. Queste rappresentazioni, tuttavia, non sono emozioni neutre, ma sono caratterizzate da disposizioni emozionali risultanti da eventi valutati come positivi o negativi. In contrasto con quanto accade in domini più astratti, quando l’argomento ha a che fare con il dominio personale, la nostra reazione non è puramente intellettuale ma caratterizzata da componenti fisiche.

Le emozioni primarie dipendono dai circuiti del sistema limbico, in primo luogo dall’attività dell’amigdala (Le Doux, 1993) e del cingolo anteriore. Il meccanismo delle emozioni primarie non descrive l’intera gamma dei comportamenti emotivi ma ne costituisce il meccanismo di base.
Secondo Damasio, in termini di sviluppo dell’individuo, le emozioni primarie sono seguite dai meccanismi delle emozioni secondarie, che si presentano dopo aver cominciato a provare dei sentimenti e a formare connessioni sistematiche tra categorie di oggetti e situazioni, da un lato, ed emozioni primarie, dall’altro.

Il processo delle emozioni secondarie non può poggiare soltanto sulle strutture del sistema limbico. La rete va ampliata e richiede l’intervento delle cortecce prefrontali e di quelle somatosensitive (Damasio, 1994).

Le rappresentazioni disposizionali prefrontali, che sono necessarie per le emozioni secondarie, formano un lotto separato rispetto alle rappresentazioni disposizionali innate che sono necessarie per le emozioni primarie: le prime però hanno bisogno delle seconde per potersi esprimere. Le emozioni secondarie sono fondamentali per la formazione dei marcatori somatici. I marcatori somatici vengono acquisiti attraverso l’esperienza sotto il controllo di un sistema di preferenze interne e sotto l’influenza di un insieme esterno di circostanze che comprendono non solo entità ed eventi con i quali l’organismo deve interagire, ma anche convenzioni sociali e norme etiche. La base neurale del sistema di preferenze interne consiste di disposizioni regolatrici per lo più innate, per assicurare la sopravvivenza. La conquista della sopravvivenza coincide con la riduzione massima degli stati somatici insoddisfacenti e con il raggiungimento di stati omeostatici (Damasio, 1994).

Nelle prime fasi dello sviluppo, punizione e ricompensa vengono somministrate non solo dalle circostanze ambientali, ma anche dai genitori o chi per loro, i quali incarnano l’etica e le convenzioni sociali della cultura cui l’organismo appartiene.

L’interazione tra i due sistemi di punizione e di ricompensa estende il repertorio di stimoli che diverranno automaticamente marcati. Senza dubbio è nell’infanzia e nell’adolescenza che si acquisisce il pensiero critico, anche se il processo continua nel tempo.

Se dobbiamo raggiungere una decisione riguardo ad un problema personale posto in un ambiente sociale, che è complesso e il cui esito è incerto, si richiedono sia conoscenze estese sia strategie di ragionamento che consentano di operare su tali conoscenze, queste includono fatti riguardanti oggetti, persone, situazioni del mondo esterno. Le decisioni personali e sociali, però, non sono separabili dalla sopravvivenza, e perciò le conoscenze includono anche fatti e meccanismi riguardanti la regolazione dell’organismo nel suo insieme. Le strategie di ragionamento ruotano attorno ad obiettivi, scelte d’azione, previsioni d’esiti futuri e programmi per il conseguimento d’ogni obiettivo a varie scale temporali. I processi dell’emozione e del sentimento sono parte essenziale dell’apparato neurale per la regolazione biologica, il cui nucleo è costituito da controlli omeostatici, pulsioni e istinti. (Damasio, 1994). Per il modo in cui è fatto il cervello, la conoscenza necessaria alla presa di decisione dipende da numerosi sistemi che si trovano in regioni cerebrali relativamente separate, piuttosto che in un’unica regione. Larga parte di tale conoscenza viene richiamata sotto forma d’immagini in molti siti cerebrali anziché in uno solo. Dato che il richiamo della conoscenza da diversi siti in molti sistemi paralleli è possibile solo in modo distribuito, per consentire al ragionamento di operare, occorre che la rappresentazione dei fatti sia mantenuta attiva in un’ampia mostra parallela e per un periodo prolungato.

Le decisioni personali e sociali sono dunque cariche d’incertezza e in modo diretto o indiretto hanno un influsso sulla sopravvivenza. Richiedono quindi un ampio repertorio di conoscenze riguardanti il mondo interno e il mondo esterno.

Un organismo forma rappresentazioni neurali che possono divenire immagini, essere manipolate in un processo chiamato pensiero e alla fine influenzare il comportamento aiutando a prevedere il futuro, a pianificare e a scegliere la prossima azione. Questo è il processo tramite il quale le rappresentazioni neurali, che consistono di modificazioni biologiche create in un circuito neurale dall’apprendimento, diventano immagini nella nostra mente. (Damasio, 1994).

Secondo Damasio, la conoscenza esiste nella memoria sotto forma di rappresentazione disposizionale e può essere resa accessibile alla coscienza in versioni sia linguistica sia non linguistica, pressoché in modo simultaneo. Inoltre, è fondamentale che chi decide, possegga qualche strategia logica per produrre inferenze efficaci sulla base delle quali scegliere un’adeguata risposta e che siano operanti i processi di sostegno che il ragionamento richiede. Ad esempio, l’attenzione e la memoria operativa fanno parte di questo processo, spesso, però, non si fa nemmeno un accenno all’emozione o al sentimento e non si dice quasi nulla del meccanismo mediante il quale si genera un repertorio d’opzioni diverse tra cui scegliere. (Damasio, 1994). Il ragionare per poi decidere può essere arduo, ma lo è in modo particolare, quando sono in gioco l’esistenza e il suo contesto sociale immediato.

Damasio distingue, quindi, un dominio personale e uno non personale: una profonda menomazione della capacità personale di decidere non si accompagna necessariamente ad una menomazione altrettanto profonda nell’ambito non personale, o viceversa.

Il dominio personale e sociale immediato è quello che si trova più vicino alla nostra sorte e anche quello che comporta il massimo d’incertezza e complessità. Parlando in generale all’interno di tale dominio, decidere bene significa selezionare una risposta che alla fine sarà vantaggiosa per l’organismo direttamente o indirettamente in termini di sopravvivenza. Decidere bene significa anche decidere alla svelta, specie quando il tempo è poco o almeno decidere entro un arco temporale che si giudica adeguato per risolvere il problema in questione (Damasio, 1994).

Per spiegare cosa succede nel momento della presa di decisione, Damasio suggerisce di provare ad immaginare una situazione nella quale, “prima di applicare un qualsiasi tipo d’analisi costi-benefici alle premesse e prima di cominciare a ragionare verso la soluzione del problema, accada qualcosa di molto importante quando viene alla mente, sia pure, a lampi, l’esito negativo connesso con una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco.” Dato che ciò riguarda il corpo, Damasio l’ha definito tratto somatico e dato che esso contrassegna un’immagine, l’ha chiamato marcatore.

Ipotesi del marcatore somatico

Il marcatore somatico (Damasio, 1994) forza l’attenzione sull’esito negativo alla quale può condurre una data azione e agisce come un segnale automatico d’allarme che “avvisa” di far attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce a tal esito. Il segnale può far abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e così portare a scegliere fra alternative che lo escludono, protegge da perdite future e in tal modo permette di scegliere entro un numero minore d’alternative. È possibile impiegare l’analisi costi benefici e l’appropriata competenza deduttiva, ma solo dopo che il passo automatizzato ha ridotto drasticamente il numero di opzioni disponibili.

Nel normale processo umano di decisione, i marcatori somatici possono non essere sufficienti, poiché in molti casi avrà luogo un successivo processo di ragionamento e decisione finale. I marcatori rendono più efficiente e preciso, con ogni probabilità, il processo di decision making. (Damasio, 1994).

In breve, i marcatori somatici sono esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Quelle emozioni e sentimenti connessi, tramite l’apprendimento, a previsti esiti futuri di determinati scenari. Quando un marcatore somatico negativo è giustapposto ad un particolare esito futuro, la combinazione funziona come un campanello d’allarme, quando invece interviene un marcatore positivo, esso diviene un segnalatore d’incentivi: qui sta l’essenza dell’ipotesi.

I marcatori somatici, inoltre, possono operare celati e utilizzare un anello “come se”. Essi non deliberano per noi, ma assistono il decision making illuminando alcune opzioni ed eliminandone altre (Damasio, 1994).

In conclusione è evidente che il marcatore somatico nel processo decisionale è ancorato al lato emotivo delle persone. Le emozioni quindi sono un fattore importante di interazione tra le condizioni ambientali e i processi decisionali.

A chi appartiene il bambino ricoverato in ospedale? – Report dal Congresso jENS, Venezia 2017

A chi appartiene il bambino ricoverato in ospedale? Questo interrogativo, un po’ provocatorio, è rimasto sullo sfondo degli interventi che nell’edizione 2017 del jENS hanno approfondito gli aspetti della Family Centered Care.  

— ENGLISH ABSTRACT —

 

A chi appartiene il bambino ricoverato in ospedale?

Questo interrogativo, un po’ provocatorio, che sembra sondare l’ovvio, è rimasto sullo sfondo degli interventi che nell’edizione 2017 del jENS (Congress of joint European Neonatal Societies) hanno approfondito gli aspetti relazionali e comunicativi connessi al ricovero in ospedale di un bambino malato e della sua famiglia.

Senza ovviamente la pretesa di scandagliare le connotazioni legali ed etiche (il concetto di “appartenenza” di un essere umano ad un altro non va proprio a braccetto con le nozioni sui diritti umani) è abbastanza condivisa l’idea che la tutela del minore, anche quando questo è malato e ricoverato, rimane affidata ai suoi genitori.

La Family Centered Care al jENS di Venezia

Eppure, nonostante appaia come un concetto acquisito, resta a quanto pare ampio spazio al dibattito, se per due giornate si è discusso di Family Centered Care, di come favorire il coinvolgimento dei genitori nei processi di cura, dei progressi fatti rispetto alle neonatologie di inzio ‘900 e di quanto però resta ancora da fare (tanto) per risolvere le criticità esistenti nel rapporto tra famiglie e staff sanitari.

Il bambino in ospedale e la Family Centered Care - Report dal Congresso JENS - Imm1

Immagine 1- Reparti di Neonatologia a inizio ‘900

L’approccio Family Centered Care si basa sull’idea centrale che la famiglia è la costante e principale fonte di supporto e stabilità nella vita di un bambino e che i genitori sono i massimi esperti della sua cura e debbano quindi essere sistematicamente coinvolti nelle decisioni mediche, nelle attività assistenziali, nella valutazione degli esiti del servizio sanitario fornito.

Nella realtà però il rapporto tra genitori e operatori è tutt’altro che semplice e si regge su una serie di equilibri delicati e potenziali attriti; può ad esempio accadere che entrambi siano rispettivamente convinti di avere maggiormente a cuore il benessere del bambino e che si contendano il diritto di decidere come meglio tutelarlo, a discapito però dell’alleanza terapeutica, indispensabile nel processo di cura.

Il bambino in ospedale e la Family Centered Care - Report dal Congresso JENS - Imm3

Immagine 2 – Slide dal convegno: i potenziali attriti tra genitori e personale sanitario

Il professor Latour, dell’Università di Plymouth, ammette che i principi della Family Centered Care, benché riconosciuti e implicitamente condivisi, sono tuttora poco praticati nelle realtà di reparto, per una quantità di ragioni, sia individuali che organizzative.

La ricerca sta cercando di raccogliere evidenze che dimostrino come una separazione precoce e forzata dei neonati dai loro genitori, soprattutto in caso di nascita prematura o con patologie, abbia poi ripercussioni a lungo termine sullo sviluppo cognitivo e comportamentale; dimostrare questo darebbe senz’altro un forte impulso alla piena accoglienza delle famiglie negli ospedali, se non altro in un’ottica di prevenzione di costi assistenziali sul medio e lungo periodo (perché non va dimenticato che gli ospedali, al di là degli intenti filantropici, sono prima di tutto Aziende).

Alcune ricerche stanno dando risultati interessanti, ma quest’ipotesi è tuttora piuttosto controversa. Esistono però indicatori già assodati che giustificano l’urgenza di rendere le famiglie protagoniste attive della cura; la dimissione è più veloce quando i genitori acquisiscono precocemente il proprio ruolo, il contatto pelle a pelle favorisce la regolazione fisiologica dei piccoli e ne migliora la tolleranza alle procedure dolorose, la vicinanza fisica incoraggia e promuove l’allattamento al seno, il linguaggio genitoriale è fondamentale per promuovere le prime vocalizzazioni, l’ingaggio delle madri nella cura riduce il rischio di insorgenza di depressione post parto.

Mats Eriksson dell’Università di Orebro e Bonnie Stevens dell’Università di Toronto richiamano inoltre all’importanza della stretta collaborazione con i genitori per la misurazione e il trattamento del dolore; i genitori sono infatti i massimi esperti anche nell’interpretazione dei segnali di sofferenza o di sollievo del loro bambino.

Malgrado ciò molti operatori restano convinti che coinvolgere i genitori nelle procedure dolorose sia in realtà fonte di estrema angoscia e quindi pensano, escludendoli, di esercitare un desiderio di protezione. C’è l’idea che allontanare i genitori in certi momenti li protegga da un ulteriore carico emotivo e permetta allo staff di esercitare una propria responsabilità, ossia quella di assumersi il carico di gestire la situazione quando il genitore, troppo coinvolto emotivamente, non sarebbe in grado di farlo.

In questo emerge il rischio che la Family Centered Care si riduca ad una sorta di benevolente paternalismo dove, malgrado le migliori intenzioni dell’operatore, il ruolo dei genitori si riduce a quello che l’infermiere permette loro di fare.

Questo anche perché è ancora diffusa tra gli operatori una convinzione di base secondo cui i genitori non dovrebbero occuparsi di attività inerenti l’assistenza infermieristica, bensì limitarsi allo stare vicini al bambino, coccolandolo e garantendo un accudimento di base; tutto ciò collude anche con il bisogno dell’operatore, talvolta inespresso, di sentirsi riconosciuto nel proprio ruolo di esperto e di mantenere inalterati alcuni confini.

Anna Axelin, del Dipartimento di Scienze Infermieristiche dell’Università di Turku, ribadisce invece come la facilitazione da parte degli operatori a favore del ruolo attivo dei genitori resti la componente chiave per trasferire in maniera funzionale sulle famiglie la responsabilità della cura dei bambini, soprattutto in un’ottica di ritorno alla vita a casa.

L’aspetto psicoeducativo viene riconosciuto come cruciale, anche considerando che l’esigenza di informazioni adeguate, corrette e comprensibili rimane tra quelle prioritarie espresse dalle famiglie.

Non sono mancate le raccomandazioni di rito a mantenere costante un atteggiamento empatico e comprensivo, precursore di qualunque relazione terapeutica efficace.

Il bambino in ospedale e la Family Centered Care - Report dal Congresso JENS- Imm2

Immagine 3 – Slide dal convegno: l’importanza di un atteggiamento empatico

Questo ovviamente vale non soltanto nei confronti delle famiglie (due genitori all’apparenza aggressivi non dovrebbero mettere l’operatore automaticamente sulla difensiva, bensì in ascolto della loro sofferenza) ma anche degli operatori (va ricordato che medici e infermieri non sono degli aitanti robot, bensì persone normali che portano a loro volta nella relazione il proprio bagaglio personale di seccature quotidiane, inquietudini, problemi famigliari, lutti e frustrazioni).

 

Bambini sculacciati? Salute a rischio: più probabilità di depressione e suicidi

Aver ricevuto sculacciate da bambini può provocare ripercussioni da adulti. Secondo uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’università del Michigan, pubblicato sulla rivista Child Abuse, i bambini che sono stati sculacciati da grandi sono più soggetti a disturbi mentali o altri disagi emotivi fino al suicidio.

 

Gli effetti controproducenti delle sculacciate

La sculacciata educativa è ancora molto in voga tra i genitori, nonostante sia dannosa e controproducente per la salute mentale dei bambini: chi la subisce, infatti, ha una maggiore probabilità di porsi in una posizione di sfida nei confronti dei genitori, e meno probabilità di obbedirvi. I bambini sculacciati sono più propensi a comportarsi in modo anti-sociale, sono più aggressivi e hanno più probabilità di sviluppare disturbi mentali.

Un nuovo studio condotto da Andrew Grogan-Kaylor e Shawna Lee, entrambi professori associati del “Social Work” della Michigan University affermano che la violenza causata da ripetute sculacciate può indurre da adulti alla depressione, a tentare il suicidio, a diventare dipendenti dall’alcol e, in alcuni casi, all’uso di droghe.

Grogan-Kaylor afferma che “La nostra società vede nella sculacciata e negli abusi fisici due comportamenti completamente diversi, ma la ricerca dimostra che anche lo schiaffo o la sculacciata portano agli stessi risultati negativi di atti come l’abuso, e solo in misura leggermente inferiore”. Inoltre con la sculacciata si ottiene il contrario di ciò che i genitori di solito vorrebbero che il bambino facesse.

I ricercatori hanno preso in esame i dati relativi a 8.300 persone, di età compresa tra i 19 e i 97 anni, nell’ambito di uno studio denominato CDC-Kaiser  ACE, che osserva gli effetti sulla salute a lungo termine e sul benessere in bimbi sottoposti ad abusi, trascuratezze o abbandono da piccoli. Tutti i  partecipanti che hanno compilato il questionario erano sottoposti a controlli ambulatoriali di routine.

E’ stato chiesto loro quanto spesso siano stati sculacciati nei primi 18 anni di vita,  il loro background familiare e se un adulto avesse inflitto abuso  fisico  (spintoni, schiaffi) o emotivo (insulti o minacce). Quasi il 55% del campione ha confermato di essere stato sculacciato, gli uomini più delle donne. Quelli che sono stati esposti a questo tipo di punizioni corporali avevano un’elevata probabilità di mostrare livelli elevati di depressione e altri problemi di salute mentale.

Secondo gli studiosi  è importante non solo impedire i maltrattamenti ai bambini, ma ancora più importante è prevenire questa attitudine dei genitori  ad essere troppo duri nei confronti dei figli.

Una nuova comunicazione neuronale importante per la memoria

Gli scienziati che hanno preso parte alla ricerca hanno individuato un fenomeno neuronale particolare tra due regioni del cervello, durante il sonno, fondamentale per la formazione dei ricordi in memoria: una comunicazione incrociata o cross-talk formata da onde ad alta frequenza.

 

Una ricerca scopre un nuovo meccanismo neuronale implicato nella memoria

Il National Institute of Neurological Disorder and Stroke (NIH), che mira ad accelerare lo sviluppo di nuovi approcci per lo studio del cervello, in collaborazione con il Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies Initiative (BRAIN Initiative)  ha, di recente, supportato una ricerca che ha approfondito i meccanismi implicati nel modo in cui le informazioni sono immagazzinate nella memoria. Gli scienziati (Buzsáki et al.) che hanno preso parte alla ricerca hanno individuato un fenomeno neuronale particolare tra due regioni del cervello, durante il sonno, fondamentale per la formazione dei ricordi in memoria: una comunicazione incrociata o cross-talk formata da onde ad alta frequenza.

Come già affermato nella letteratura neuroscientifica, esiste un’area importante dedita alla creazione dei ricordi in memoria: l’ippocampo o propriamente detto “corno d’Ammone”. Questo importante ruolo è dovuto alla plasticità sinaptica che permette un potenziamento a lungo termine neuronale grazie alla somministrazione di stimolazioni elettriche ad alta frequenza.

Lavori precendenti, come lo studio del professore György Buzsáki, M.D., Ph.D., hanno rivelato un innesco di una rete neurale ad alta frequenza chiamata ripples (letteralmente corrente ondulata) nell’ippocampo durante il sonno.

Nel corrente studio, oltre a confermare la presenza di queste ripples nell’ippocampo durante il sonno, è stata trovata la presenza inaspettata di ripples anche nella neocorteccia, considerata la sede presunta delle funzioni di apprendimento e quella filogeneticamente più recente, che comprende la corteccia sensitiva primaria, la corteccia motoria primaria e le cortecce associative.

Quando per la prima lo abbiamo notato, abbiamo pensato che non fosse corretto poiché non era mai stato osservato prima“, dice Dion Khodagholy, Ph.D. e primo co-autore dello studio.

Sulla base di ciò, i ricercatori (Buzsáki et al.) hanno teorizzato che tale dialogo, o cross-talk, potesse aiutare il mantenimento delle informazioni nel cervello.

Oltre all’uso di un insieme di elettrodi di registrazione collocati nella parte più profonda del cervello, i ricercatori (Buzsáki et al.) si sono avvalsi di un innovativo sistema chiamato NeuroGrid, che consiste di un insieme di minuscoli elettrodi collegati insieme come i fili di una coperta, i quali vengono collocati in una zona del cervello in modo tale che ogni elettrodo possa monitorare continuamente l’attività di un diverso set di neuroni.

“Questo particolare dispositivo ci permette di osservare diverse aree del cervello allo stesso tempo”, dice la ricercatrice Jennifer Gelinas.

Grazie a questi strumenti,  i ricercatori (Buzsáki et al.) hanno potuto esaminare l’attività cerbrale durante la fase di sonno più lunga, il sonno NREM (No Rapid Eye Moviment), di due gruppi di topi in diverse aree del cervello. Il primo gruppo di topi era addestrato ad individuare delle ricompense in un labirinto mentre il secondo era composto da ratti che esploravano il labirinto in modo casuale.

Le registrazioni elettroencefalografiche mostravano che nei topi addestrati, l’apprendimento del compito incrementava la sincronizzazione delle onde ad alta frequenza nella cross-talk tra l’ippocampo e la neocorteccia; inoltre, una seconda sessione di training incrementava ancora di più la loro presenza.

Nel gruppo di ratti, ai quali era stato permesso di esplorare il labirinto in maniera casuale, non si osservava nessun cambiamento significativo nella registrazione elettroencefalografica nella comunicazione incrociata tra le aree.

Lo studio, quindi, suggerisce che questo tipo di comunicazione sia importante per la creazione e l’immagazzinamento dei ricordi e “identificare specifici pattern di reti neurali che permettono di andare avanti con la formazione della memoria suggerisce un modo per capire meglio la memoria e affrontare potenzialmente anche i disturbi della memoria” sostiene Dr. Gelinas.

Lobi frontali, corteccia frontale e corteccia prefrontale- Introduzione alla psicologia

I lobi frontali costituiscono la parte del cervello più estesa negli esseri umani e rappresentano anche l’area ontogeneticamente e filogeneticamente più giovane. I lobi frontali occupano la porzione anteriore dell’emisfero cerebrale e costituiscono la parte anteriore del cervello.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I lobi frontali

I lobi frontali sono delimitati dalle scissure centrale e laterale, sulla parte laterale, e dalla scissura limbica, sulla parte mediale. Anteriormente, presentano una sporgenza che costituisce il polo frontale dell’emisfero corrispondente.

In particolare, la parte laterale del lobo frontale è separata dal lobo temporale, in posizione inferiore, per mezzo della scissura laterale di Silvio e, dal lobo parietale, in posizione posteriore, dalla scissura centrale di Rolando. Anteriormente alla scissura centrale di Rolando si può individuare un’altra scissura verticale, detta solco precentrale, che segna il limite anteriore della circonvoluzione precentrale (o prerolandica). Dal solco precentrale originano altre due scissure a decorso pressoché orizzontale, il solco frontale superiore e il solco frontale inferiore, che si dirigono verso il polo frontale.

Inoltre, sulla parte laterale del lobo frontale sono da rilevare due aree, la motoria primaria, localizzata nella circonvoluzione precentrale; e l’area di Broca, corrispondente all’opercolo della circonvoluzione frontale inferiore, sede del principale centro per la coordinazione motoria del linguaggio.

La parte mediale del lobo frontale, invece, è separata dalla parte laterale per mezzo del margine superiore dell’emisfero, e dal lobo limbico per mezzo della scissura limbica. È costituita dalla sola circonvoluzione frontale interna, che segue il decorso della circonvoluzione limbica sottostante. Al suo estremo posteriore, essa accoglie parte del lobulo paracentrale, grossa piega di passaggio tra le circonvoluzioni precentrale e postcentrale.

La parte inferiore (od orbitaria) del lobo frontale poggia sulle cavità orbitarie, scavate nello spessore dell’osso frontale. È percorsa in senso anteroposteriore da due scissure, i solchi orbitari, che individuano i confini delle circonvoluzioni orbitarie mediale, intermedia e laterale. Un’ulteriore scissura, il solco olfattivo, accoglie nella sua compagine il bulbo olfattivo.

La corteccia frontale

La corteccia frontale è suddivisa in: corteccia motoria che comprende l’Area Motoria Primaria e le aree motorie non-primarie (area premotoria e area supplementare motoria) e la corteccia prefrontale che ha connessioni reciproche con tutti i sistemi sensoriali e motori, sia corticali che sottocorticali. Inoltre la corteccia prefrontale è interconnessa con strutture coinvolte nella memoria, regolazione delle emozioni e rinforzi, sia positivi che negativi. Grazie all’ampia rete di connessioni anatomiche, la corteccia prefrontale ha accesso ad una varietà di informazioni interne ed esterne all’organismo. La corteccia prefrontale opera la sintesi di queste varie informazioni allo scopo di regolare una gamma di processi mentali e comportamenti.  Essi sono connessi con le aree posteriori cerebrali mediante fibre di associazione intraemisferiche e intervengono in complessi circuiti neuronali, unitamente alle strutture subcorticali quali il talamo, l’amigdala, i gangli della base e il cervelletto.

La corteccia prefrontale

La corteccia prefrontale occupa la parte più rostrale dei lobi frontali e costituisce una vasta area che si collega alle aree motorie, percettive e limbiche del cervello.

La corteccia prefrontale svolge un ruolo fondamentale nei processi cognitivi e nella regolazione del comportamento e, grazie alle connessioni con diverse aree corticali, risulta essere il substrato neuroanatomico delle funzioni esecutive: pianificazione, attuazione e conclusione di comportamenti diretti ad uno scopo attraverso azioni coordinate e strategiche, integrazione e sintesi di informazioni, organizzazione, regolazione del comportamento emotivo. Inoltre, le connessioni con le aree limbiche determinano i processi di riconoscimento e gestione delle emozioni. Le funzioni esecutive sono legate all’apprendimento di nuove esperienze, alla pianificazione, al decision making, all’apprendimento di nuovi comportamenti derivanti da una sequenza di azioni, etc.

Lesioni a carico di questa area portano al manifestarsi di sindromi disesecutive, ovvero deficit a carico delle funzioni esecutive, quali perdita di iniziativa, apatia, lentezza nell’iniziare azioni, comportamenti di perseverazione, risposte emozionali ridotte oppure disinibizione, euforia, impulsività e deficit a livello cognitivo, come disturbi a carico della memoria di lavoro, deficit di pianificazione, incapacità di usare strategie e perdita dell’attenzione.

La corteccia prefrontale si connette attraverso una serie di fascicoli ai gangli della base e il talamo. Danni a carico di queste strutture porta al manifestarsi di disturbi motori, deficit esecutivi e compromissione della motivazione e della personalità.

La corteccia prefrontale si suddivide principalmente in due regioni: la corteccia dorsolaterale e la corteccia orbitofrontale.

La corteccia prefrontale dorsolaterale

La corteccia dorsolaterale comprende le porzioni laterali dell’emisfero, ovvero le aree di Brodmann dalla 9 alla 12, le aree 45 e 46 nonché la parte superiore dell’area 47. Inoltre, si estende fino al giro frontale superiore, al giro frontale medio e al giro frontale inferiore, tre grandi circonvoluzioni connesse ciascuna con altre aree cerebrali, posteriori e frontali.

La corteccia dorsolaterale è una delle componenti principali dei processi esecutivi, quali comportamento strategico, pianificazione, astrazione e flessibilità cognitiva, e working memory. La working memory, in particolare, è una memoria a breve termine che permette l’immagazzinamento di informazioni in entrata e allo stesso tempo il loro recupero dalla memoria a lungo termine. La working memory è fondamentale nella pianificazione dell’azione, e consente di recuperare le conoscenze passate, e le loro rappresentazioni, depositate nella memoria a lungo termine, utilizzandole nel dirigere il comportamento presente. Quando questa capacità è compromessa, non si è più in grado di orientare il comportamento verso uno scopo attraverso azioni coordinate e strategiche. Inoltre, risulta essere deficitaria anche la capacità di monitorare il decorso dell’azione volta a passare da un piano all’altro e, di conseguenza, il comportamento messo in atto appare caotico, confuso, rigido.

I soggetti con lesioni della corteccia prefrontale dorsolaterale presentano i comportamenti perseverativi: non riescono a ricordare le esperienze passate e di conseguenza continuano a comportarsi nel medesimo modo reiterando il comportamento.

La corteccia orbitofrontale

La corteccia orbitofrontale o ventromediale interessa le porzioni inferiori dell’area 47 di Broadman e quelle mediali delle aree 9- 12 ed è coinvolta nei processi di riconoscimento emotivo e di decisione mantenendo in memoria l’associazione fra uno stimolo familiare e la risposta considerata gratificante per il soggetto.

La corteccia orbitofrontale mette insieme le esperienze interne e quelle esterne, permette di compiere una valutazione sociale istantanea che consente di agire in base alle circostanze.

Inoltre, la divisione ventromediale si attiverebbe quando l’individuo deve operare una decisione in mancanza di molte informazioni esterne, quindi deve prendere decisioni basandosi maggiormente sulla sensazione più che sulle conseguenze logiche.

Il ruolo dell’intera corteccia orbitofrontale è quello di regolare una vasta gamma di comportamenti sociali.

Il lobo orbitofrontale presenta una enorme rete di proiezioni che si estende nei centri emotivi, permettendo di modulare le reazioni emotive. Una delle funzioni primarie di queste reti sembra essere quella di inibire le reazioni emotive, coordinandole con gli stimoli provenienti dal mondo esterno per rendere le azioni adeguate al contesto.

Inoltre, la corteccia orbitofrontale sembra essere coinvolta nei processi di problem solving.

I pazienti con lesioni nella regione ventromediale, mostrano incapacità di gestione della vita quotidiana e deficit nella regolazione di comportamenti socialmente adattivi.

Alcuni non sono capaci di prendere decisioni poiché non integrano le informazioni emotive e sociali, per questo è possibile che risultino incapaci di fare scelte appropriate alle circostanze e di modulare il comportamento in modo adattivo nel rispetto delle norme sociali.

Suddivisione funzionale della corteccia prefrontale

La corteccia prefrontale può essere suddivisa, inoltre, a livello funzionale in porzione di destra, sede delle emozioni negative, e la parte sinistra legata alle emozioni positive. Esse si attivano in maniera asimmetrica in risposta a emozioni e stati diversi in situazioni sociali diverse (Davidson, 2002).

Davidson ha elaborato la teoria degli Stili Emozionali identificando 6 Stili fondati neurobiologicamente determinati, in quanto riflettono livelli di attività diversi riguardanti le attivazioni delle aree in questione.

Ogni dimensione ha due estremi che sono il risultato di un’attività più intensa o ridotta in quei circuiti.

Gli Stili Emozionali sono trasversali rispetto alle categorie diagnostiche dei Disturbi Psichici e rappresentano caratteristiche sottostanti le manifestazioni psicologiche che ne condizionano l’espressività.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Effetti del contatto con la natura sul benessere personale

Un team di ricercatori del dipartimento di psicologia del “University of British Columbia Okanagan”, conosciuto come “Happy Team” e diretto da Holli-Anne Passmore, ha dato avvio ad una serie di studi per dimostrare come il contatto con la natura può incrementare la felicità e il benessere delle persone.

 

Psicologia positiva: gli effetti della natura sul benessere personale e sulle emozioni

Uno di questi studi (Passmore,& Holder, 2017) ha esaminato gli effetti di un intervento di due settimane, in cui 395 studenti universitari erano assegnati in modo casuale a una di tre condizioni: natura, oggetti costruiti dall’uomo e gruppo di controllo. Ai partecipanti era richiesto di prestare attenzione nel loro ambiente quotidiano a come la natura o gli oggetti costruiti dall’uomo, a seconda dell’assegnazione, li facessero sentire. Inoltre, dovevano fotografare le scene o gli oggetti che notavano descrivendo le emozioni da essi evocate.

I risultati dimostravano che il gruppo sperimentale che doveva notare elementi naturali, rispetto agli altri due gruppi, presentava un livello significativamente maggiore di benessere generale, connettività verso altre persone, verso la natura e verso la vita nel suo complesso, e più elevata tendenza prosociale.

Questa ricerca, dunque, sottolinea la connessione esistente tra il fermarsi a notare qualcosa del proprio ambiente naturale e il conseguente benessere personale. Non si tratta soltanto di trascorrere del tempo all’aperto ma di riuscire a trovare nel proprio ordinario ambiente naturale qualcosa di diverso, come notare un giardino di fiori accanto al complesso aziendale dove lavoriamo da anni e capire l’effetto positivo che questo semplice giardino può avere su di noi.

Si può concludere che tale ricerca fornisce un importante supporto empirico del fatto che la natura si configura come un efficace intervento di psicologia positiva.

Seconda edizione del Festival della Comunicazione sociale a Milano

La seconda edizione del Festival della Comunicazione sociale, organizzato dalla Fondazione Pubblicità Progresso, ha preso il via a Milano. Il programma, che quest’anno ha come tema la sostenibilità, comprende 20 appuntamenti per un viaggio che tocca nel mese di novembre non soltanto il capoluogo lombardo, ma anche altre città italiane, come Bologna e Roma. Si tratta di un’occasione per promuovere scelte di vita e di consumo responsabili. E’ questo lo scopo della comunicazione sociale che, attraverso messaggi pubblicitari, mira a sensibilizzare il largo pubblico su tematiche di interesse generale, per esempio l’AIDS, l’emarginazione e la ludopatia.

 

La comunicazione sociale: intervista a Vincenzo Russo

La rassegna si concluderà il 28 novembre alla Triennale di Milano. Abbiamo intervistato Vincenzo Russo, Professore di Psicologia dei Consumi e Direttore scientifico del Centro di Ricerca di Neuromarketing, protagonista dell’incontro che si svolgerà il 16 novembre presso l’Università IULM.

– In che modo la comunicazione sociale può contribuire a stimolare comportamenti corretti, cioè quelle buone pratiche che non danneggiano né la salute né l’organizzazione sociale?

“La comunicazione sociale nasce per stimolare comportamenti corretti, non fosse altro che per supportare le categorie in difficoltà o, comunque, per intervenire su comportamenti che possono essere patologici a lungo termine. Le campagne pubblicitarie di Pubblicità Progresso, ad esempio, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di un problema sociale, come l’alcolismo”.

Qual è il criterio per la selezione dei messaggi nella comunicazione sociale?

“Il dilemma che emerge è sempre lo stesso: la comunicazione è razionalità o emozione? Molto spesso si confonde la comunicazione sociale con quel tipo di comunicazione che dovrebbe, in qualche modo, dare indicazioni razionali sui modi di agire. In realtà, tutti sappiamo quali siano i comportamenti da mettere in pratica. Il vero problema è metterli effettivamente in pratica. Per questo le campagne sociali non devono parlare solo alla parte razionale delle persone, ma anche alla componente emozionale”.

– Che cos’è il nudge?

“In italiano si può tradurre con spinta gentile, ovvero la possibilità di creare le condizioni, attraverso ambienti e stimolazioni, per fare in modo che le persone sappiano quale sia il comportamento giusto da agire, senza doverci pensare. Un esempio: se uso un piatto piccolo o un piatto grande per un buffet, è chiaro che spingo le persone a scegliere una quantità di cibo che è coerente con la grandezza del piatto. Se si opta per piatti piccoli, sicuramente le persone prenderanno meno cibo, rispetto a quando hanno piatti grandi. In questo modo, possiamo arginare il problema dello spreco alimentare. Così ho creato un nudge, studiato dallo scrittore Richard Palmer che, non a caso, quest’anno ha vinto il premio Nobel per l’economia. I teorici del nudging propongono persino di introdurre dispositivi che sollecitino buoni comportamenti: in alcuni alberghi esiste la chiave magnetica della porta che disattiva automaticamente la luce; in California un raccoglitore di vetro, che assegna dei punti come accade nei videogame, ha incoraggiato la raccolta differenziata”.

In un messaggio è meglio evidenziare l’aspetto positivo o quello negativo?

“Comunicare vietando è sempre un boomerang, è molto rischioso, è come dire ad un bambino di non mangiare la marmellata. E’ chiaro che il bambino, alla prima occasione, non rispetta la regola, quando non c’è qualcuno che controlla il comportamento. Da un lato, quello che bisognerebbe fare è creare le condizioni per premiare comportamenti corretti, piuttosto che punire quelli scorretti. Dall’altro, fare in modo che il comportamento corretto venga agito non perché le persone temano di essere punite, ma perché viene naturale agire in quel modo”.

Il Centro di Ricerca di Neuromarketing Behavior and Brain Lab, che Lei dirige, si occupa di comunicazione sociale?

“Certo, lavoriamo molto con organizzazioni non profit, perché la comunicazione sociale è particolarmente impregnata di emozione. Il problema sta nel capire come misurare queste emozioni. Collaboriamo con ONG, per le quali valutiamo, in base al contesto, al messaggio, al prodotto, al servizio, quale sia la formula migliore. Ultimamente i messaggi che, fino a qualche anno fa, venivano esclusi perché troppo negativi, quelli che ad esempio fanno leva sulla paura, oggi sembrano avere sempre più efficacia. Questi ultimi, che si chiamano fear arousing appeals, letteralmente ‘appelli alla paura’, mirano a determinare nei destinatari reazioni di paura a quanto mostrato. Lo scopo è dissuadere dall’attuare comportamenti pericolosi, come guidare in stato di ebbrezza, comunicando il rischio e la minaccia a cui le persone vanno incontro, se non modificano le loro insane abitudini. Secondo gli studi, un messaggio che stimola la paura favorisce l’elaborazione cognitiva delle informazioni ed aumenta la motivazione ad evitare la minaccia”.

Uno degli ultimi progetti in cantiere?

“Di recente stiamo operando con Unicef per spingere le persone a donare un po’ di più, tramite i lasciti testamentari. Si tratta di un tema molto caldo perché, dai dati che Unicef ha comunicato in un congresso dedicato al Neuromarketing, sembra che nel 2020 noi Italiani, che abbiamo il tasso di crescita più basso al mondo, al pari dei Giapponesi, avremo quasi 105 miliardi in euro di patrimonio senza eredi. Questo per le ONG rappresenta un bacino di finanziamento per il loro servizio estremamente importante. Unicef sta investendo su un messaggio che sia comprensibile, facile ed emozionale per favorire i lasciti testamentari”.

I linguaggi non convenzionali, come social e app, possono facilitare la comunicazione sociale?

“Più che facilitare la comunicazione sociale, i linguaggi non convenzionali diventano l’elemento chiave per raggiungere un pubblico più vasto, compreso quello giovanile. Esistono studi estremamente importanti che dimostrano come tramite il social media marketing si possono raccogliere fondi impareggiabili rispetto a quelli ottenuti tramite la comunicazione televisiva o tradizionale. Il social media marketing, svolto in maniera professionale, permette di avere un grandissimo seguito a costi molto inferiori ai canali classici. Non c’è dubbio, però, che chi affronta un tema così complicato, come quello della comunicazione sociale, non può non considerare l’importanza dell’integrazione dei canali di comunicazione. Dunque, va bene social, ma è necessaria una pianificazione mirata”.

Un esempio di una campagna sociale ben riuscita?

“Francesca Ambrogetti, responsabile foundraising di Unicef, ha scritto un libro che si intitola Emotional raising, in cui tratta di numerosi casi di comunicazione a basso costo, anche social, sviluppata in maniera intelligente ed azzeccata. A livello personale mi sono imbattuto in un’associazione che si occupa di aiutare animali abbandonati, che è diventata famosa per il caso Fiona: si tratta di una cagnolina salvata da un gruppo di volontari. Questi ultimi hanno raccontato con un video, diventato virale sui social network, la storia di Fiona, ricevendo un ottimo sostegno economico”.

Basta un Nudge e lo zucchero va giù

Obiettivo del Team Nudge Italia è lavorare sul contesto e strutturare ambienti che promuovano comportamenti funzionali al benessere individuale e sociale. Il Nudge è un approccio applicabile in moltissimi campi, dalla lotta all’obesità, al risparmio energetico, al sistema pensionistico (Costa e Kahn, 2013; Just & Wansink, 2009; Thaler e Benartzi, 2004).

 

Quanto zucchero va assunto al giorno?

La mattina, quando entro in un bar per sorseggiare un caffè, il mio sguardo cade per qualche istante sui clienti al banco, i loro volti, la loro postura, i loro abiti, e da qualche tempo, da quando ho approfondito le mie conoscenze sul Nudge, l’occhio cade anche sul numero di bustine di zucchero richieste e consumate che restano nei piattini dei clienti e poi finiscono nella spazzatura. I gestori riferiscono che sul mercato sono presenti diverse versioni: canna, bianco, fruttosio, dolcificante e che al momento dell’acquisto delle bustine di zucchero dal grossista, non si chiedono quale sia la quantità di zucchero contenuta in ciascuna bustina ma pongono attenzione al prezzo dell’intero lotto di pacchetti, sulla base del peso totale della confezione acquistata. Sorge il dubbio che lo zucchero contenuto nelle singole bustine sia eccessivo rispetto alla quantità necessaria per rendere gradevole l’espresso ma l’essere umano tende a non porsi il problema, normalmente utilizza la bustina che trova all’interno del locale, senza chiedersi la quantità di zucchero (in grammi) in essa contenuta.

Il momento caffè in Italia non è solo una grande storia artigianale e industriale, con il tempo ha assunto un’identità diventando quasi un rito. È sinonimo di “pausa” per chi lavora in ufficio, di conoscenza e aggregazione tra colleghi, di risveglio e buongiorno al mattino o di ripresa nel primo pomeriggio. D’altra parte, gli individui hanno difficoltà nel consumo consapevole e nel calcolo effettivo delle calorie ingerite durante la giornata, compreso il consumo di zucchero. Per questo il caffè, elemento di unione e condivisione, è anche associato al consumo di zucchero e quindi al tema dell’obesità.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2015) prevede come limite massimo di zuccheri liberi che si possono assumere durante la giornata una quantità non superiore al 10% dell’apporto complessivo di calorie ingerite. Questa indicazione non si riferisce agli zuccheri contenuti in ortaggi freschi e frutta, o quelli presenti naturalmente nel latte, sui quali non vi è alcuna evidenza scientifica che ne segnali gli effetti negativi, ma allo zucchero presente in bevande, salse, biscotti, ecc.

Concretamente, spiega Enzo Spisni (2016), docente di Fisiologia della Nutrizione all’Università di Bologna, un adulto il cui fabbisogno calorico quotidiano è pari a 2000 calorie, può consumare circa 50 grammi di zuccheri semplici al giorno. L’esperto aggiunge un ulteriore consiglio per poter ottenere benefici in termini di salute: non superare il 5% di zuccheri semplici del piano calorico standard previsto durante la giornata, ovvero assumere massimo 25 grammi di zucchero “libero” al giorno (pari a circa 6 cucchiai da tè).

Gli effetti di un consumo eccessivo e prolungato di zucchero

La letteratura fornisce la prova che un eccessivo e prolungato consumo di zucchero può aumentare la probabilità di sviluppare numerose malattie, quali ad esempio: diabete, tumori, malattie cardiovascolari, obesità (Vecchia, Franceschi, Bidoli, Barbone e Dolara, 1993; Janket, Manson, Sesso, Buring e Liu, 2003; Johnson et al., 2009; Lustig, Schmidt e Brindis, 2012; Yang et al., 2014).

Il gruppo di ricerca della University of California di Los Angeles (UCLA), afferma sulla rivista Nature che il consumo di zucchero negli ultimi cinquanta anni è triplicato, facendo aumentare le patologie ad esso connesse (Lustig, R. H., Schmidt, L. A., e Brindis, C. D., 2012).

D’Aria Irma (2013) riporta in un articolo comparso su Repubblica che in Italia il consumo di zucchero ammonta a circa 1 milione 650 mila tonnellate annue, quantità che corrisponde a un consumo di circa 27 kg pro-capite all’anno, e la ricerca condotta dal Crédit Suisse Research Institute ha analizzato gli aspetti nutrizionali, medici ed economici, dimostrando come nel lungo termine si potrebbe pensare di bandire totalmente lo zucchero dal mercato, considerate le patologie a questo associate.

Quali fattori influenzano il consumo alimentare e come sceglie l’essere umano?

Tra i fattori che in genere influenzano il consumo alimentare, svolgono un ruolo significativo gli imballaggi e le dimensioni delle singole porzioni (Rolls, Morris e Roe, 2002; Aerts e Smits, 2017; Poelman et al., 2016). Nonostante tali evidenze, in tutto il mondo, gli ultimi quarant’ anni sono stati caratterizzati dall’ aumento generale delle dimensioni dei prodotti (Smiciklas-Wright, Mitchell, Mickle, Goldman e Cook, 2003).

Osservando i distributori automatici presenti all’interno degli edifici pubblici, è possibile notare che essi indicano sul display attraverso delle semplici palline la quantità di zucchero che si desidera all’interno del proprio caffè, tè o cioccolata. In essi di default la quantità di zucchero impostata è pari a una quantità media utile per dolcificare la bevanda. Le persone possono scegliere di modificare la quantità di zucchero aumentando o diminuendo attraverso gli appositi pulsanti l’opzione predefinita ma, tendenzialmente, intenti nel dialogare con il collega accanto, inseriscono la moneta non ponendosi il problema della quantità di zucchero contenuta nella loro bevanda.

L’essere umano si lascia guidare dal contenuto predefinito (opzione di default), non si pone il problema della quantità di zucchero ingerita o presente all’interno della bustina. L’uomo ha la tendenza a lasciare le cose nello stato in cui sono (status quo) (Thaler e Benartzi, 2004).
Secondo lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, Premio Nobel per l’Economia nel 2002, il contesto in cui viviamo quotidianamente può esercitare un’importante influenza sulle nostre scelte, che ne siamo consapevoli o meno (Kahneman, 2013). Nel suo libro “Pensieri Lenti e Veloci” (2013) sintetizza in maniera chiara e semplice le premesse da cui nasce la Behavioural Economics (BE), branca della scienza cognitiva e del comportamento che ha avuto origine a partire da numerosi studi sperimentali:

Vivendo la nostra vita, ci lasciamo di norma guidare da impressioni e sensazioni, e la fiducia che abbiamo nelle nostre convinzioni e preferenze intuitive è solitamente giustificata. Ma non sempre. Spesso siamo sicuri delle nostre idee anche quando ci sbagliamo, e un osservatore obiettivo ha più probabilità di noi di individuare i nostri errori teorici.” (Kahneman, 2013, p.4).

Kahneman (2011) spiega la modalità con cui gli individui effettuano le loro scelte dinnanzi a una pluralità di stimoli, a partire dai due termini utilizzati precedentemente da Stanovich e West (2000) per descrivere i due sistemi che convivono (metaforicamente) nel cervello di ogni individuo: il Sistema 1, più “antico”, irrazionale e veloce, e il Sistema 2, più evoluto e capace di ragionamenti complessi, ma molto più lento. Il Sistema 1 è fondamentale per l’evoluzione della specie umana perché permette all’uomo di affrontare diverse situazioni della quotidianità; tuttavia nell’assumere decisioni complesse gli individui hanno bisogno di utilizzare alcune scorciatoie di pensiero denominate euristiche (Tversky e Kahneman, 1974). Esse riducono le energie cognitive impiegate nella risoluzione di problemi e permettono all’uomo di giungere a valutazioni e decisioni rapide in situazioni comuni e di routine, nelle quali a volte si hanno a disposizione poche e inaccurate informazioni. In molti casi però esse possono portare a commettere errori sistematici di valutazione, i cosiddetti bias (Tversky e Kahneman, 1974).

Che cos’è il Nudge?

Il Nudge, è un approccio multidisciplinare sviluppato dall’Economista Richard Thaler, vincitore del premio Nobel per l’Economia Comportamentale nel 2017, e dal giurista Cass Sunstein (2009) a partire dai principi della Behavioural Economics sopra accennati e tradotto in italiano come “spinta gentile”, permette di indirizzare le persone verso scelte il meno distorte possibile dagli errori sistematici ai quali la maggior parte degli individui è sensibile, riguardo sia il sistema 1 sia il sistema 2. A tal fine, l’utilizzo di un’accurata “architettura delle scelte”, ovvero un’impalcatura contestuale che favorisce l’’emissione di comportamenti funzionali per il benessere dell’individuo, può essere utile per modulare alcuni comportamenti, senza l’utilizzo di incentivi economici o punizioni e senza precludere la libertà di scelta (Thaler e Sunstein, 2009).

Obiettivo del Team Nudge Italia è lavorare sul contesto e strutturare ambienti che promuovano comportamenti funzionali al benessere individuale e sociale.
Il Nudge è un approccio applicabile in moltissimi campi, dalla lotta all’obesità, al risparmio energetico, al sistema pensionistico (Costa e Kahn, 2013; Just & Wansink, 2009; Thaler e Benartzi, 2004).

L’attuale letteratura sul nudging, mostra come una delle spinte maggiormente efficaci per promuovere comportamenti virtuosi, sia l’utilizzo strategico dell’opzione di default. Un caso esemplare di questo, è descritto da Johnson e Goldstein che nel 2004, confrontando la percentuale di donatori di organi in diversi paesi europei, hanno evidenziato come questa non fosse influenzata dalle opinioni individuali o dalla cultura di appartenenza, ma dalla modalità con cui era stato strutturato il modello di adesione al programma di donazione. Nei paesi in cui il cittadino doveva fornire un consenso esplicito per donare gli organi, le percentuali di donatori risultavano molto basse. Di contro, nei paesi in cui il cittadino era automaticamente incluso nel programma di donazione e, al contrario, il dissenso alla donazione doveva essere fornito attivamente, la percentuale di donatori rimaneva al di sopra del 90%. È utile sottolineare che la libertà di scelta era garantita in entrambe le situazioni, ma con risultati che di fatto dipendevano in larga parte dall’opzione di default presente.

Lo stesso principio è stato utilizzato da Save More Tomorrow (Thaler e Benartzi, 2004), intervento di nudge applicato al piano pensionistico negli Stati Uniti. Inserendo l’adesione al piano pensionistico come opzione di default contrattuale, si è ottenuta una maggiore aderenza al programma da parte dei dipendenti, i quali hanno usufruito di un diritto lavorativo e ne hanno tratto beneficio al momento della loro pensione.

Il quesito non è se assumere o meno una decisione, ma quanto il costo della risposta necessario per effettuarla influenzi la decisione stessa. Le persone hanno la tendenza a rimanere nello stato in cui si trovano, piuttosto che affrontare una decisione costosa da un punto di vista cognitivo o comportamentale.

Applicare l’opzione di default significa impostare un’opzione che verrà scelta automaticamente, a meno che le persone scelgano attivamente di comportarsi in modo diverso. Nella vita quotidiana, essa la troviamo ad esempio, negli smartphone e nei dispositivi digitali, venduti con impostazioni predefinite che la gente può scegliere di cambiare. Molti abbonamenti vengono rinnovati automaticamente a meno che il cliente non decida attivamente di annullare l’iscrizione.

Secondo Sunstein, tuttavia, l’opzione predefinita dovrebbe essere quella che è in linea con le preferenze delle persone, in modo da essere considerata come una spinta gentile.

Lo studio del Nudge sulla quantità di zucchero assunta col caffè

I clienti chiedono una o due bustine di zucchero al gestore del bar ma non chiedono loro informazioni sulla reale quantità di zucchero (in grammi) in esse contenuto, pertanto, partendo dalla letteratura di riferimento, il team di ricerca di Nudge Italia ha sviluppato nel luglio del 2016 un intervento di nudge all’interno di un bar di una palestra catanese, utilizzando il principio dell’opzione di default, con l’obiettivo di ridurre la quantità di zucchero assunta dai clienti che gustano una tazza di caffè nel bar che ha ospitato l’iniziativa.

L’ipotesi iniziale era che le persone scelgono la quantità di zucchero da mettere nel loro caffè su base unitaria, ovvero in base al numero di bustine, piuttosto che considerare l’importo effettivo in grammi, contenuto nel pacchetto. Sostituendo le bustine di zucchero normalmente utilizzate con bustine contenenti una quantità minore di zucchero, si sarebbe potuta ridurre in media, la quantità di zucchero assunta da ogni singola persona nel momento del caffè.

A tal fine, i clienti del bar sono stati osservati per due settimane (n = 213) e sono stati analizzati solo i dati relativi a coloro che hanno messo lo zucchero nel loro caffè (n = 96).
L’osservazione continua della durata di 1 ora, nella fase di baseline e in quella sperimentale, è stata svolta nella fascia oraria in cui il gestore del bar ha riferito esserci maggiore consumo di caffè: dalle 15:00 alle 16:00 del pomeriggio.
Il consumo di zucchero è stato misurato sia nella fase di controllo che in quella sperimentale, attraverso una griglia di osservazione, nella quale l’osservatore ha riportato il numero di bustine di zucchero versate da ciascun cliente nella propria bevanda.

Per l’analisi dei dati, sono stati considerati solo i clienti che hanno usato zucchero bianco o di canna, escludendo coloro che hanno utilizzato altri tipi di dolcificanti.
Risultato dell’esperimento è la media dei grammi consumati dai clienti che hanno messo lo zucchero nel loro caffè. Per farlo, i pacchetti sono stati convertiti in grammi.

Nello specifico, durante la fase di controllo sono stati osservati 102 clienti. Fra loro 52 (51%), hanno messo dello zucchero nel loro caffè, mentre 50 (49%) no. Durante la fase sperimentale sono stati osservati 111; tra di loro, 44 (40%) hanno utilizzato lo zucchero nella loro bevanda, mentre 67 (60%) non l’ha utilizzato.

Nella fase di baseline, il consumo medio di zucchero a persona è stato pari a 5,91 g (ds = 1,87), mentre in quella sperimentale, il consumo medio di zucchero a persona si è ridotto a 3,05g (ds = 1.01), come è possibile osservare dal grafico sotto riportato.
La differenza tra la media dello zucchero consumato durante la fase di controllo e quella sperimentale è stata statisticamente significativa (t (94) = 9.10; p < 0,001; Cohen D = 1,37).

Entrambe le fasi (baseline e sperimentale) svolte a distanza di una settimana l’una dall’altra, hanno avuto durata pari a sei giorni, esclusa la domenica. Nello specifico, la fase di baseline è durata dall’11 al 16 Luglio mentre quella sperimentale dal 25 al 30 Luglio.
Durante la baseline sono state utilizzate le bustine messe a disposizione dal gestore del bar, il cui contenuto di zucchero è pari a 7g. Nella fase sperimentale le bustine sono state sostituite con bustine contenenti 4g di zucchero.

I dati ottenuti in seguito all’intervento di nudge hanno confermato l’ipotesi iniziale, mostrando una riduzione significativa del consumo di zucchero durante la seconda settimana (fase sperimentale).

Lo studio sembra sostenere l’efficacia nel manipolare l’opzione di default, quando si lavora su comportamenti malsani che si presume siano “insensati”. I risultati sembrano essere in linea con l’idea che i clienti, quando scelgono la quantità di zucchero da mettere nel caffè, basano la loro scelta sulle singole unità invece che sull’ importo reale dei grammi contenuti in ciascuna bustina.
Apportando una modifica semplice e sostenibile nel contesto, le persone hanno ridotto sensibilmente la quantità di zucchero che ingerivano nel bere una tazza di caffè. Ulteriori esperimenti potrebbero valutare la generalizzabilità di questa constatazione in altri contesti culturali, utilizzando anche differenti tipi di merci.

Se si moltiplicasse la quantità di zucchero non ingerita per ogni caffè bevuto al giorno, è facile intuire il notevole impatto in termini di salute ed economia sociale di questo semplice intervento, che non impedisce comunque a ciascun individuo di utilizzare maggiori quantità di zucchero.
I risultati finora ottenuti sono stati incoraggianti e hanno mostrato come sia possibile sviluppare interventi a costi ridotti e con un impatto significativo a livello socio-economico e di salute pubblica.

L’accettazione dell’invecchiamento: una strategia protettiva in età avanzata

Accettazione dell’ invecchiamento: Un possibile modo per mantenere nelle ultime decadi di vita un’alta percezione di qualità della vita potrebbe essere quello di fare leva sull’accettazione psicologica, uno dei processi al centro dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999, 2012). L’ACT è una terapia comportamentale che appartiene agli approcci emergenti di “terza generazione” della terapia comportamentale e cognitiva e che è stata sviluppata per trattare quei problemi psicologici in cui l’evitamento – strategia di coping fallimentare nel lungo periodo – riveste un ruolo chiave.

Lucia Pomoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI MILANO 

 

L’invecchiamento della popolazione ed i suoi effetti

Stiamo invecchiando. Oggi più che mai. Mentre all’inizio del ‘900, donne e uomini occidentali vivevano all’incirca fino a, rispettivamente, 48 e 45 anni (Hansen, 2013; Kinsella, 1992), nel 2014 l’aspettativa di vita alla nascita di una donna ha raggiunto gli 83.6 anni, quella di un uomo i 78.1 anni (Eurostat, 2016a). Questo pattern di longevità prolungata, insieme ai bassi livelli di fertilità degli ultimi decenni, ha dato vita ad un vero e proprio cambiamento demografico (Rossini & Marra, 2014), responsabile di un invecchiamento della popolazione: in Europa, nell’ultima decade (2005-2015), si è verificato un incremento del 2.3 % di persone anziane, ovvero di coloro che hanno 65 e più anni (Eurostat, 2016b).

L’aumento repentino di individui che vivono più a lungo ha spostato l’attenzione alle generazioni di età avanzata. Queste si trovano a dover far fronte a cambiamenti fisici e psicologici che, in aggiunta a fattori ambientali e socio-economici, possono minare la loro efficienza ed il loro benessere (Ajmone Marsan et al., 2014). Il trascorrere degli anni, infatti, è associato ad un peggioramento nella salute fisica e mentale che può però essere rallentato da interventi che promuovono il benessere e migliorano la qualità della vita dei soggetti anziani (Clark et al., 2012; Diener & Chan, 2011).

L’accettazione: costrutto cardine dell’Acceptance and Commitment Therapy

Un possibile modo per mantenere nelle ultime decadi di vita un’alta percezione di qualità della vita potrebbe essere quello di fare leva sull’accettazione psicologica, uno dei processi al centro dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999, 2012).

L’ACT è una terapia comportamentale che appartiene agli approcci emergenti di “terza generazione” della terapia comportamentale e cognitiva e che è stata sviluppata per trattare quei problemi psicologici in cui l’evitamento – strategia di coping fallimentare nel lungo periodo – riveste un ruolo chiave.

Essa mira a incrementare la flessibilità psicologica (capacità di prendere consapevolezza del momento presente e di persistere o modificare il comportamento in vista di scopi valoriali) ed a promuovere un cambiamento comportamentale coerente con valori personalmente importanti mediante l’impiego di una serie di tecniche, tra cui appunto l’accettazione (Hayes et al., 1999). L’accettazione è un’abilità psicologica positiva che favorisce l’azione guidata dai valori e che contrasta l’evitamento esperienziale, coinvolto in numerosi disturbi e problemi clinici (Hayes, Masuda, Bissett, Luoma, & Guerrero, 2004).

Accettare (dal latino “capere”, ossia “prendere”) non significa tollerare o rassegnarsi (Kanter, Baruch, & Gaynor, 2006). Bensì, accogliere ciò che arriva; sperimentare, abbracciare attivamente e consapevolmente i pensieri, le emozioni, le sensazioni, senza modificarli o eliminarli, anche quando risultano spiacevoli e dolorosi (Bricker & Tollison, 2011); vivere evitando di sprecare tempo e risorse mentali nel controllare le memorie ed i pensieri (Butler & Ciarrochi, 2007); approcciarsi in modo impegnato e non giudicante agli eventi personali prima evitati (Kanter et al., 2006).

Tre sono i motivi che fanno pensare che più alti livelli di accettazione si leghino ad una migliore condizione psichica. Primo, l’accettazione rende disponibili più risorse psicologiche per affrontare gli eventi di vita (Bond & Bunce, 2003). Secondo, rispetto all’evitare, l’accettare porta con minore probabilità al pensiero negativo (Feldner, Zvolensky, Eifert, & Spira, 2002; Pennebaker, Kiecolt-Glaser, & Glaser, 1988; Petrie, Booth, & Pennebaker, 1998; Wegner & Gold, 1995). Terzo, l’accettazione consente di vivere molteplici esperienze dal momento che non si ha la necessità di evitare le situazioni che possono generare distress (Butler & Ciarrochi, 2007).

A sostegno di tale ipotesi, l’accettazione ha effettivamente dimostrato di essere significativamente associata ad un migliore funzionamento fisico, emozionale e sociale in ricerche su pazienti con dolore cronico (McCracken & Vowles, 2008) e di correlare positivamente con la salute mentale, il benessere fisico e la performance in ricerche condotte in settings lavorativi (Bond & Bunce, 2003; Donaldson & Bond, 2004). Pertanto, è confortante che gli studi pubblicati finora suggeriscano che l’ACT sia efficace nell’incrementare l’accettazione auto-riportata in svariati problemi (ad esempio, dolore, diabete, fumo, psicosi) (Bricker & Tollison, 2011).

L’ accettazione dell’ invecchiamento

La ricerca che indaga l’efficacia dell’ACT con le persone di tarda età è agli esordi e quindi piuttosto carente. Tuttavia, molteplici sono i fattori che suggeriscono che questo approccio di trattamento sia particolarmente indicato con la fascia di popolazione anziana.

Primo, esso va a bersagliare l’evitamento esperienziale, strategia di coping che ha un’influenza negativa sul funzionamento persino negli anziani (Petkus & Wetherell, 2013). Secondo, l’ACT ha per focus di trattamento i valori, solitamente riscoperti dall’individuo di tarda età grazie alla consapevolezza che il tempo di vita è oramai limitato. Terzo, essa è applicabile a qualunque stadio di vita (McCracken & Jones, 2012) ed è relativamente semplice da apprendere (Lappalainen et al., 2007). Quarto, nell’ACT l’assessment mira a stabilire quanto il problema attuale del cliente sia causato dal processo dell’evitamento. Pertanto, non essendo necessario individuare il disturbo primario che genera sofferenza, l’ACT pare essere in accordo con le caratteristiche che l’ansia e la depressione assumono nell’ultima fase dell’esistenza (Petkus & Wetherell, 2013). Esse si presentano in comorbidità. Differenziarle non è semplice (Gum & Cheavens, 2008). Quinto, l’approccio fondato sull’accettazione e sulla mindfulness sembrerebbe essere migliore della CBT nel trattare anziani con GAD.

Gli anziani hanno per lo più preoccupazioni relative alla salute o a possibili perdite (Diefenbach, Tolin, Gilliam, & Meunier, 2008) che possono non essere del tutto infondate. Di conseguenza, a differenza della CBT che li porterebbe a modificare, a mettere in discussione la validità di tali pensieri, l’ACT risulta di maggior beneficio in quanto insegna loro a focalizzarsi sulle risorse rimanenti (Petkus & Wetherell, 2013). Sesto, oltre alla mindfulness ed all’accettazione, l’intervento ACT impiega tecniche di defusione cognitiva, ossia strategie che tentano di ridurre l’attaccamento alla qualità letterale del pensiero.

Poichè durante l’ invecchiamento, oltre ad un miglioramento nell’abilità di regolare le emozioni (Scheibe & Carstensen, 2010), è presente la capacità di separare le emozioni passate da quelle attuali (Zautra, Reich, Davis, Potter, & Nicolson, 2000), si può ipotizzare che gli individui anziani abbiano più alti livelli di defusione cognitiva e che quindi l’ACT vada proprio a lavorare su una risorsa di questo periodo della vita (Petkus & Wetherell, 2013).

Settimo, considerato che i soggetti di età avanzata mostrano meno consapevolezza dei problemi di salute mentale rispetto alle persone più giovani (Fisher & Goldney, 2003), essi possono avere difficoltà a comprendere l’obiettivo dei trattamenti cognitivo-comportamentali (diminuzione dell’ansia, della depressione o di altri sintomi) (Petkus & Wetherell, 2013) per una scarsa familiarità con l’identificazione dei sintomi dell’ansia e della depressione (Gum et al., 2009; Wetherell et al., 2009).

L’obiettivo del trattamento ACT, ovvero vivere una vita coerentemente ai valori scelti, potrebbe essere invece maggiormente comprensibile e praticabile (Petkus & Wetherell, 2013). Ottavo, il declino dovuto all’età può portare all’impossibilità di ottenere gli obiettivi prefissati. Pertanto, per mantenere il funzionamento c’è bisogno di adottare strategie alternative – come l’accettazione del deterioramento inevitabile e l’identificazione di obiettivi facilmente raggiungibili – che risultano effettivamente adattive.

Gli studi lo dimostrano. Mentre gli anziani che tentano attivamente di eliminare i problemi irrisolvibili tipici dell’ultimo stadio dell’esistenza hanno un maggiore rischio di depressione (Isaacowitz & Seligman, 2002), quelli che sostituiscono obiettivi irraggiungibili con altri più realizzabili godono di un miglior benessere emozionale (Wrosch, Dunne, Scheier, & Schulz, 2006; Wrosch, Scheier, Miller, Schulz, & Carver, 2003). In altre parole, le esperienze che capitano ai soggetti di età avanzata, essendo spesso fuori dal controllo individuale (ad esempio, la morte del coniuge, la malattia), favoriscono l’utilizzo dell’accettazione (Shallcross, Ford, Floerke, & Mauss, 2013), strategia che non a caso si è visto aumentare con l’età (Blanchard-Fields, 2007; Butler & Ciarrochi, 2007).

Oltre agli eventi di vita incontrollabili, due altri elementi spiegano l’incremento dell’accettazione con l’avanzare dell’età. Primo, l’accettazione, non basandosi sulle funzioni cognitive (ad esempio, velocità di processo, memoria di lavoro) che solitamente peggiorano negli anni (Craik & McDowd, 1987; Schloss & Haaga, 2011), può essere adottata come strategia di regolazione emozionale anche in presenza di declino cognitivo (Shallcross et al., 2013). Secondo, dal momento che la saggezza aumenta generalmente con l’ invecchiamento (Clayton, 1982; Grossmann et al., 2010; Tentori, Osherson, Hasher, & May, 2001) e che l’accettazione costituisce una sua componente chiave, è probabile che anche quest’ultima incrementi con l’aumentare dell’età (Shallcross et al., 2013).

L’evidenza empirica preliminare conferma quanto abbiamo appena detto: gli anziani presentano una maggiore volontà a sperimentare le emozioni negative connesse al decadimento fisico e psichico (Butler & Ciarrochi, 2007; Efklides, Kalaitzidou, & Chankin, 2003; Leung, Wu, Lue, & Tang, 2004) e, diversamente dai giovani, impiegano di solito la strategia dell’accettazione a fronte di difficoltà socio-emozionali (Blanchard-Fields, 2007) e di conflitti interpersonali frustranti (Charles & Carstensen, 2008). Dato per assodato che l’accettazione di esperienze emozionali spiacevoli possa giovare durante l’ invecchiamento, bisogna riconoscere che la potenzialità che essa riveste per la popolazione anziana è da ricondurre soprattutto alle prime ricerche condotte impiegando l’ACT con campioni di anziani che suggeriscono che questo trattamento è efficace nel ridurre la depressione, l’ansia ed il dolore cronico (Davison, Eppingstall, Runci, & O’ Connor, 2016; Karlin et al., 2013; McCracken & Jones, 2012; Scott, Daly, Yu, & McCracken, 2017; Wetherell et al., 2011) ed ai recenti studi trasversali che in generale confermano l’esistenza, negli anziani, di un’associazione tra accettazione e migliore funzionamento (Bickerstaff, Grasser, & McCabe, 2003; Butler & Ciarrochi, 2007; Gomez & Madey, 2001; Yong, 2006).

Pertanto, sebbene il venire a contatto con le emozioni negative possa in un primo momento aumentare le sensazioni ad esse associate (Campbell-Sills, Barlow, Brown, & Hofmann, 2006; Hofmann, Heering, & Asnaani, 2009), lo sperimentarle in modo non giudicante – principio cardine dell’accettazione – fa sì che si disperdano rapidamente (Campbell-Sills et al., 2006) conducendo ad una minore affettività negativa (Segal, Williams, & Teasdale, 2002). Riepilogando, l’avanzare dell’età è associato ad un aumento dell’accettazione, il cui incremento correla a sua volta con una minore affettività negativa.

L’accettazione, detto diversamente, mediando statisticamente la relazione tra l’età e l’affettività negativa, rappresenta una strategia di regolazione emozionale fortemente utilizzabile dai soggetti anziani, anche più fragili e malati come quelli istituzionalizzati. Uno studio lo mostra (Alonso-Fernández, López-López, Losada, González, & Wetherell, 2016). Di conseguenza, essa non solo potrebbe divenire un’indispensabile componente terapeutica di trattamenti che cercano di alleviare i disturbi psicologici negli anziani (ricoverati e non) ma sembrerebbe anche spiegare la relazione tra l’età e la più bassa affettività negativa (Shallcross et al., 2013). Quest’ultima affermazione, se si considera che esistono studi empirici che dimostrano che l’ invecchiamento sia unicamente connesso con il deterioramento fisico e cognitivo (Bromley, 1990; Frenkel-Brunswik, 1968; Levy, 1994; Schonknecht, Pantel, Kruse, & Schroder, 2005), è assai rassicurante. Ci fa infatti capire che l’ invecchiamento non porta con sé soltanto conseguenze negative (Shallcross et al., 2013). Piuttosto, come un corpus sempre più crescente di ricerche rivela, esso correla con un miglior benessere emozionale.

Le nuove linee guida per il trattamento delle persone transgender: tra medicina e psicologia

Una task force, presieduta da W. Hembree della Columbia University di New York, ha riconosciuto i passi avanti che la scienza ha percorso sulle tematiche legate alla disforia di genere, rispetto alle prime linee guida redatte per il trattamento delle persone transgender; eppure l’esiguo numero di dati a disposizione lascia ancora aperte alcune questioni.

 

Questioni ancora aperte sul trattamento della disforia di genere

La disforia di genere richiede una presa in carico da parte di psicologi e di psicoterapeuti? Da che età è bene iniziare il trattamento ormonale? Il dottor Safer è il direttore medico del Centro per la Medicina e la Chirurgia Transgender del centro medico della Boston University (USA) ed insieme alla Società Endocrinologica ha lavorato sugli aggiornamenti delle linee guida per il trattamento delle persone transgender.

Una task force, presieduta da W. Hembree della Columbia University di New York, sulle tematiche legate alla disforia di genere ed al suo trattamento ha riconosciuto i passi avanti che la scienza ha percorso rispetto alle prime linee guida redatte per la cura delle persone transgender; eppure l’esiguo numero di dati a disposizione lascia ancora aperte alcune questioni.

L’ importanza di una équipe multidisciplinare nel trattamento delle persone transgender

La task force ha ritenuto importante suggerire che la diagnosi e soprattutto il trattamento delle persone transgender vengano portati avanti in un’equipe multidisciplinare composta sia da medici sia da professionisti della salute mentale.

Si ritiene necessaria questa collaborazione in quanto le tematiche da prendere in considerazione durante il trattamento, soprattutto nelle fasi prepuberali, metteranno bambini, ragazzini e genitori dinnanzi a decisioni mediche talvolta irreversibili che dipendono ed avranno ricadute sul benessere psicologico presente e futuro.

Facendo riferimento ai sedici anni, età che in America ed in altre parti del mondo viene considerata come inizio di una fase decisionale autonoma del soggetto, la domanda che gli studiosi si pongono è dunque se un ragazzo minore di sedici anni possa decidere di iniziare un trattamento parzialmente irreversibile.

Il problema decisionale del soggetto si pone in quanto, dal punto di vista diagnostico, mancano dei test capaci di garantire al 100% la purezza di una diagnosi di disforia di genere: è lo sguardo esperto dello psicologo clinico innanzi alle parole del bambino o del ragazzo a poter inquadrare al meglio il fenomeno. Ed è proprio per questa assenza di testologia che le linee guida precedenti consigliavano il trattamento ormonale solamente in un momento successivo al compimento di un’età più matura.

Eppure il dottor Safer ha evidenziato il punto di vista della medicina a riguardo:

Stendendo la guida in base alla biologia, gli interventi ormonali per i bambini transgender dovrebbero iniziare ben prima dei sedici anni, all’inizio della pubertà, ad esempio dodici, tredici o quattordici anni.

Inoltre, le linee guida includono altre raccomandazioni chiave dal punto di vista prettamente medico, quali un attento monitoraggio dei disturbi metabolici e della perdita ossea, inoltre raccomandazioni biologiche che, come specificato in precedenza, hanno ripercussioni sul benessere psicologico del soggetto in una successiva fase di vita. Ad esempio un argomento di centrale importanza medico-psicologica è informare una persona molto giovane e guidarla nella scelta della conservazione o meno della propria fertilità prima di iniziare il trattamento.

Da considerare, ulteriormente, gli effetti che il ritardo prolungato della pubertà può apportare al cervello, con conseguenze a livello cognitivo, sociale e sessuale.

La riflessione e la ricerca scientifica nel campo della disforia di genere devono indubbiamente implementarsi e sarà proprio un’inclusione dei vari professionisti sanitari nella cura delle persone transgender la strada da percorrere perché questi studi possano procedere.


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

LinkedIn come strumento di promozione: cosa viene valutato e cosa mostriamo

I social network occupano una fetta importante del nostro tempo speso online; di questo, una buona parte è dedicata ai social network professionali come LinkedIn. Grazie a questo strumento specifico per la ricerca di lavoro, da un lato, e di candidati, dall’altro, è possibile connettere facilmente domanda e offerta in ambito professionale.

 

In LinkedIn, il proprio profilo è simile a un classico curriculum vitae dove inserire le esperienze lavorative, formative e qualche dettaglio su di sé. Sebbene più strutturato rispetto ad altri social network, l’utente può liberamente scegliere cosa e come mostrare di sé in virtù dei suoi obiettivi professionali e della rete di contatti che vuol raggiungere. Il punto di forza principale di LinkedIn è l’azzeramento di barriere geografiche e fisiche in generale e ciò fa sì che diventi molto più facile connettersi con altri professionisti e ampliare così la cerchia dei propri contatti e di riflesso le proprie occasioni lavorative.

Come ci mostriamo su LinkedIn?

Visto il ventaglio di opportunità che si profilano all’orizzonte, viene da chiedersi quanto, cosa e come viene mostrato di sé in LinkedIn, dato che parrebbe ovvio che l’utente sia portato a mentire per mostrare un sé potenziato/ideale che risponda a spinte di desiderabilità sociale. Già nel 1959, con la sua teoria dell’interazione sociale (Goffman, 1959), Goffman ipotizzò come la situazione sociale in cui si svolge l’azione determina lo schema interpretativo con il quale si legge e ci si comporta nella data situazione. L’attore sociale bada all’impressione che suscita negli altri e questo lo motiva a comportarsi in maniera strategica, ovvero presentandosi in modo da offrire una presentazione di sé positiva a seconda della situazione in essere.

Guillory e Hancock (2012) smentiscono la visione del senso comune che vede la comunicazione mediata dalla tecnologia come ambiente in cui è più facile e frequente presentarsi in maniera mendace: dimostrano invece che in LinkedIn avviene esattamente il contrario. Infatti nella costruzione del curriculum virtuale il collegamento tra online e offline mette in gioco aspetti troppo importanti per condurre a mentire e la posta in gioco è alta: essere scoperti può danneggiare la propria reputazione e causare problemi, se non addirittura la perdita del lavoro.

Gli Autori ci ricordano come i curricula tradizionali rimangano privati e condivisi solo con le persone a cui vengono inviati, mentre i profili di LinkedIn sono pubblici e a disposizione di chiunque voglia prenderne visione (fatte salve specifiche impostazioni privacy che del resto limitano anche la possibilità di essere trovati dai recruiter). In particolare gli autori mostrano che nel profilo di LinkedIn tendiamo a mentire solo su informazioni come interessi e hobby ma non su altre verificabili e quindi più ‘sensibili’; viceversa nei curricula tradizionali è proprio su queste ultime che si mente, lasciando i reali interessi ed hobby. Questo perché il bisogno di presentarsi positivamente viene soddisfatto nel primo caso mentendo su aspetti secondari ‘a rischio zero’, nel secondo caso su altri importanti ma difficilmente verificabili.

LinkedIn: cosa cercano i recruiter?

Ma cosa influenza davvero un recruiter? Quali caratteristiche del profilo ci rendono più competitivi? Secondo Chiang e Suen (2015) in primis vengono valutate le caratteristiche personali e se sono in linea con le caratteristiche dell’azienda in termini di valori e obiettivi – compatibilità. Naturalmente, vengono valutate anche competenze e abilità, attributi che devono soddisfare i requisiti richiesti dal lavoro – competenze. In terzo luogo, i recruiter, tramite LinkedIn, possono attingere a informazioni ‘periferiche’ e non direttamente legate al lavoro e all’azienda: i candidati che presentano attributi che per i recruiter sono più desiderabili, che suscitano una percezione soggettiva positiva (a prescindere dagli aspetti di competenze e più oggettivi), o che stimolano un senso di vicinanza col recruiter stesso, avranno più chance di essere selezionati perché andranno ad aumentare la percezione che le loro affermazioni siano veritiere – credibilità percepita.

Come sottolineato da Van Dijck (2013) gli utenti hanno bisogni espressivi e comunicativi che manifestano attraverso queste piattaforme. I social network sono strumenti attraverso cui possiamo modellare l’identità, strumenti in cui auto-espressione, auto-comunicazione e auto-promozione vengono combinati. Attraverso LinkedIn possiamo promuovere le nostre aspirazioni professionali mostrando le parti del sé (e le informazioni) che riteniamo più adatte ai nostri scopi. Ma, avverte l’Autore, non va dimenticato che i social network incasellano le possibilità di esprimersi in format precostituiti. Inoltre, un profilo di LinkedIn può essere utilizzato non solo per modellare un ritratto – idealizzato o meno – della propria identità professionale, anche attraverso l’osservazione dei pari, ma anche e soprattutto da valutatori, anche anonimi, che utilizzano le informazioni condivise per valutare personalità e competenze e questo non deve farci dimenticare tematiche relative alla privacy e, in generale, ad una maggiore consapevolezza del mezzo e di ciò che attraverso di esso divulghiamo di noi.

 


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Il Male Oscuro (1964) di G. Berto – Recensione del libro

Un romanzo assai complesso, Il male oscuro, affatto scorrevole, eppure così intenso e significativo, una pietra miliare fra i romanzi psicologici.

 

L’autore de Il male oscuro, Giuseppe Berto, soprannominato Bepi da amici e familiari, scrive la propria storia in prima persona, così come la pensa, nel mancato rispetto della punteggiatura. Mentre scrive non scrive ma pensa, narra nella sua mente, proprio come continua a procedere chi è incastrato dal meccanismo ossessivo del pensiero che continua a pensare, involvendosi in sé, in un percorso sempre più buio.

Chi ha un po’ di dimestichezza col pensiero ossessivo e con le ansie fobiche le riconosce e ne è estenuato, il romanzo procede lento proprio per questo, eppure proprio questo ci permette di dare peso e valore ad ogni singola parola, ad ogni pensiero, che pur sembra pesante e ripetitivo.

E’ un romanzo che non può essere letto frettolosamente, sorvolato, preso alla leggera.

Il male oscuro: la trama

Il protagonista de Il male oscuro narra del padre che, ricoverato in ospedale, subisce un intervento per un tumore intestinale, lui accorre in quanto primogenito maschio e si fa carico di ogni spesa. Fa avanti e indietro fra ospedale e albergo.

In ospedale trova una madre silenziosa, quasi fantasmatica, due sorelle livorose da sempre, che lo richiamano alle sue continue responsabilità, un padre silenzioso, che persevera a guardarlo con noncuranza, quasi disprezzo, come sempre del resto. In albergo una vedova francese, la sua attuale compagna, che non può portare in ospedale in quanto segno della sua “immoralità e indecenza”, gli chiede continuamente presenza, spirito, sesso, lo rimprovera.

E’ tiranneggiato da due parti.

Bepi non ha una sua collocazione, non è a casa da alcuna parte. Non può essere ciò che è, come da sempre non possiede la libertà di esprimersi. Preso in questa morsa è sovrastato dall’odore putrido delle escrescenze paterne, dal fetore del suo alito e non tollerando oltre, prende a prestito le parole del chirurgo e, nell’illusione che tutto andrà bene, torna a Roma con la francese.

La notte stessa il padre muore e lui riparte immediatamente per Verona, il padre non ha detto nulla, non ha chiesto di lui.

Il male oscuro: il senso di colpa e gli attacchi di panico

Si apre così il baratro, si spalancano le porte di un male oscuro le cui fondamenta sono state gettate fin dalla nascita e ancora prima. Esplode il senso di colpa per averlo lasciato solo, in punto di morte. All’inizio in sordina e mascherato, poi in modo più palese. L’estrinsecazione del senso di colpa inizia con Manuela, più giovane di 18 anni, la sua futura moglie. Con lei inizia una seconda giovinezza, cerca di fare sport, mantengono una vita sessuale sfrenata, vacanze, ecc.

Da lì il nostro autore vive le sue molteplici patologie, coliche renali, intestinali, vertigini e via dicendo, iniziando un tour medico che trova soluzioni solo momentanee, le prova tutte: dalla chirurgia all’agopuntura, dai vocabolari sotto i piedi, agli psicofarmaci ….

Spende e si dispera, senza trovar pace, anzi si esaltano paure e fobie di ogni tipo: attacchi di panico, paura dei luoghi affollati, dei luoghi chiusi, del giudizio, di star solo, di sentirsi male, di morire, paura di impazzire …..

Così va avanti per anni, a tratti meglio a tratti peggio, lavora nelle pause di ristoro psichico e inizia a scrivere i primi tre capitoli di quello che progetta essere “il suo capolavoro che lo porterà alla gloria”. In verità il progetto che lo farà crollare definitivamente.

Non può permettersi di scriverlo, questo romanzo attiva il conflitto psichico della sua vita, ben espresso in una frase sorprendentemente lucida: “suo padre ha fatto di tutto perché fosse diverso da lui, ma alla fine non lo accettava se non uguale a sé stesso!”

E’ come se gli attribuisse tutta la responsabilità del successo o del fallimento, fornendogli però un programma difettoso che può sputare solo output fallimentari.

Ogni volta che Bepi esprimeva qualcosa di diverso dalle aspettative, il padre gli preannunciava “So io come finirai, finirai in galera”.

Il padre ex brigadiere dei Carabinieri, improvvisato negoziante di cappelli, di poco garbo, scarsa lungimiranza, con conseguente scarso successo, desiderava per il figlio un futuro splendente. Con quest’obiettivo lo invia in collegio, per garantirgli un’istruzione valida. Il minimo che potesse pretendere da lui: vederlo sul podio dei primi tre alla fine di ciascun anno scolastico. Doveva dimostrare che valeva i sacrifici che tutti facevano, togliendosi il pane di bocca per lui!

Un cappotto pesante da indossare, che si è svelato nel momento in cui il protagonista ha cominciato a realizzare ciò che realmente era suo padre proprio grazie all’istruzione fornita in collegio, grafomane sgrammaticato, ammalato di criticismo, commerciante di poche capacità, padre pessimo e poco accorto. Pur nella consapevolezza, vive dibattendosi con l’angoscia dell’identificazione incastrante, di un Super Io rigido e anacronistico.

Il protagonista de Il male oscuro si è diplomato, ha accolto in silenzio ogni svalutazione, compresa la bicicletta da donna, anziché quella da lui desiderata, come promesso. Si è arruolato ed è andato in guerra, ha inviato soldi a casa, è stato fatto prigioniero, meritando due medaglie al valore.

Ma tutto era scontato, il minimo ritorno di tutti i sacrifici sostenuti dall’intera famiglia.

Tornato dalla guerra si è laureato con poco interesse e scarsa fatica, ma di seguito inizia a scrivere e sembra che la sua vita assuma la piega della leggerezza e della libertà, fino alla morte del padre.

Così all’incontro con la “ragazzetta”, quella che diventerà sua moglie, si dà alla pazza gioia, ma dura poco, non può permetterselo. Non può essere felice, non può godere, non può essere.

I pensieri ossessivi e le fobie

Da lì in poi, si innesca un baratro di angosce, fobie, pensieri ossessivi, bizzarri e comportamenti evitanti. Vi sono scene quasi comiche eppure infinitamente drammatiche ne Il male oscuro, come nel momento in cui ritrovato solo in mezzo al traffico, preso da angoscia, si abbarbica alla gamba di un vigile urbano. In un’altra occasione si sdraia sul letto dei portinai al primo piano, chiedendo di fare a cambio col proprio appartamento al terzo piano.

I sintomi lo costringono e autorizzano a ritirarsi dalla vita e gli impongono una sorta di immobilismo, nella stasi della patologia infatti si allerta su eventuali ulteriori disastri e peggioramenti. Qualunque passo, qualunque movimento potrebbe causare una qualche catastrofe, la punizione del padre morto in ospedale da solo!

Si aggiungono le riflessioni intriganti e intrigate quando si sposa e nasce la figlia Augusta a cui dà il nome di propria madre, una figlia non programmata e desiderata, ma poi così teneramente amata da innescare in lui altri dubbi sul padre. Si è chiesto se quel padre così despota e svalutante non l’abbia amato come lui ama la figlia. Si chiede se sia sua responsabilità nel non aver colto tale amore. Si innescano ancora dubbi e sensi di colpa, ma anche contraddizioni intollerabili sull’amore genitoriale.

Alla fine giungerà a fare psicoanalisi da un noto analista, Nicola Perrotti, che ne Il male oscuro chiamerà sempre “il vecchietto”. Un uomo, che col tempo ha incarnato la figura di padre benevolo, figura per lui sconosciuta.

Guarirà quel tanto che gli basta per tornare a vivere e a continuare a scrivere, a lui basta! Come se non meritasse di più. Questo ciò accade nella vita.

Nel romanzo Il male oscuro, il protagonista torna a casa e affermando di essere guarito, la moglie gli rivela di avere un’altra relazione. Preso dalla confusione se ne va, vaga per un po’ con l’auto, decide di tornare alla casa paterna, ormai in affitto, ma non la riconosce più, non ha più niente della sua casa dei ricordi.

Allora va in cerca del Padre, si stabilisce in Calabria. Da solo, in cima ad una collina da cui vede la Sicilia tanto narrata, in solitudine, autonomo e volto solo ad identificarsi completamente col padre. Giunge il giorno in cui la figlia gli fa visita. E’ sporco e puzza, la figlia gli chiede perché. Si ricorda il suo ribrezzo verso il padre, è una triste ripetizione!

Nel momento in cui Augusta se ne va, brucia i suoi tre capitoli e le foto del padre morto, comprende che è arrivata la sua morte, ha ripetuto ciò che è successo a suo padre. E’ diventato ed è morto, esattamente come lui.

L’autore de Il male oscuro nella vita reale

Nella vita reale Berto è morto dello stesso tumore del padre, ma non secondo l’epilogo del racconto, quella casa in Calabria gli è servita solo per scrivere il romanzo Il male oscuro, questo viaggio verso l’identificazione/diversificazione genitoriale.

Un romanzo molto vivo, sofferto, un processo difficile eppure universale: identificarsi e distanziarsi.

L’autore de Il male oscuro vive costantemente su un filo di realtà/follia, concretezza/fantasia. Non a caso non chiama mai per nome né moglie né psicoanalista, né altre figure, perché sono figure del proprio inconscio, del proprio mondo interno, non sono differenziate, come non lo è ancora lui. L’unica è la figlia, che gli offre una finestra verso sé come figlio e forse avendo il nome materno rappresenta la figura originaria, da cui si è sentito amato e abbandonato, Berto infatti narra che il padre gli portava via la madre ma anche che “la madre correva dietro al padre”. Mostrandoci il vissuto del bambino, che si sente piccolo e raggirato di fronte ai due adulti che avrebbero dovuto metterlo al centro.

Il male oscuro rappresenta la vicenda umana di fondo che appartiene a tutti noi, il passaggio dall’infanzia all’età adulta, il passaggio da relazioni ego centrate a relazioni decentrate, più mature, dove l’altro non rappresenta unicamente un oggetto del proprio mondo interno, la proiezione di una propria necessità ma un individuo diverso da noi e dalle proprie immagini interne, con cui interagire nella concretezza. Un percorso che ci mette di fronte alla capacità di liberarci dai propri oggetti di identificazione originari e dai propri oggetti di proiezione conseguenti, con la concretezza e l’immaginario, con quel filo di follia che ci si interpone alla realtà.

Questo processo può rappresentare un male oscuro e sotterraneo, che può annichilirci o fungere da trampolino di lancio per il mondo!

Ammalarsi d’amore: la Dipendenza Affettiva

Il desiderio di amare e di essere amati è un bisogno sano e fondamentale, è associato ad emozioni positive e al benessere psicofisico, ma per alcune persone le relazioni affettive possono essere fonte di malessere, diventare una vera e propria droga ed avere delle conseguenze devastanti; quando ciò si verifica possiamo parlare di Dipendenza Affettiva.

Maddalena D’Urzo (Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Roma)

 

Il desiderio di amare e di essere amati è un bisogno sano e fondamentale, è associato ad emozioni positive e al benessere psicofisico, e dal punto di vista evoluzionistico consente la sopravvivenza dell’individuo e della specie.

In uno studio recente, pubblicato ad aprile in una rivista di psiconeuroendocrinologia, è stata esaminata la relazione che c’è tra stato civile e livelli di cortisolo (un ormone che aumenta nel nostro organismo quando siamo stressati) in un campione di 572 persone sane (uomini e donne di età compresa tra i 21 e i 55 anni sposate, divorziate, vedove, single). Dai risultati è emerso che le persone sposate hanno livelli di cortisolo più bassi rispetto agli altri soggetti che facevano parte del campione (Chin et al. 2017).

Quindi, in base a questo studio, i legami affettivi stabili hanno un’influenza positiva sulla salute ma per alcune persone le relazioni affettive possono essere fonte di malessere, diventare una vera e propria droga ed avere delle conseguenze devastanti; quando ciò si verifica possiamo parlare di Dipendenza Affettiva.

La Dipendenza Affettiva e i disturbi di personalità

Attualmente la Dipendenza Affettiva non è una patologia inclusa nel DSM V probabilmente perché, come per altre dipendenze comportamentali, mancano ad oggi degli studi che consentano di stabilire dei criteri diagnostici e delle indicazioni sul decorso necessari per identificarla come un disturbo mentale.

Al contrario nella pratica clinica spesso incontriamo pazienti che non riescono a interrompere relazioni intime profondamente distruttive, che generano sofferenza e compromettono la loro vita a vari livelli.

I pazienti con Disturbo Dipendente di personalità sono caratterizzati dalla dipendenza dagli altri, cioè sono incapaci di vivere in maniera autonoma e hanno sempre bisogno di consigli e rassicurazioni. Quando sono soli si sentono indifesi e senza punti di riferimento, vivono costantemente con il terrore di essere abbandonati dal partner.

Pur di scongiurare il temuto abbandono sono disposti a fare cose spiacevoli e degradanti (ad es. si fanno sfruttare economicamente o sessualmente, tollerano l’infedeltà e nei casi estremi la violenza). Ma la Dipendenza Affettiva non è appannaggio solo del Disturbo Dipendente; anche i pazienti con Disturbo Borderline di personalità hanno serie difficoltà a stare da soli e adottano comportamenti dipendenti (ad es. si mettono a completa disposizione del partner e lo idealizzano). Hanno relazioni affettive caotiche caratterizzate da una passione travolgente ma anche da discussioni violente; i pazienti con questo disturbo vivono con il terrore di essere abbandonati dal partner ma temono anche di dipendere da lui e di perdere la loro autonomia.

I pazienti con Disturbo Istrionico di personalità temono la solitudine e sono travolti dall’angoscia davanti alla separazione; hanno costantemente bisogno di attenzione, approvazione e sostegno.

Dipendenza Affettiva: quali analogie con la tossicodipendenza?

Esattamente come avviene nella dipendenza da sostanze anche nella Dipendenza Affettiva con il passare del tempo tutto inesorabilmente ruota intorno al partner; spesso la persona dipendente si chiude o evita volutamente gli altri nel tentativo di proteggersi dalle critiche o dal temuto abbandono.

Solitamente sia gli interessi che gli hobby vengono progressivamente abbandonati e il fulcro dell’esistenza diventa il partner; anche il rendimento lavorativo diminuisce perché la persona ha la mente costantemente occupata dai suoi problemi sentimentali e trascorre molto tempo a rimuginare per cercare di risolverli.

Nei casi estremi, per es. anche quando il partner è violento fisicamente, i pazienti dipendenti tendono a giustificarlo, si isolano, mentono o non chiedono aiuto pur di proteggerlo; spesso purtroppo non riescono a lasciarlo anche quando è a rischio la loro incolumità fisica. Generalmente, i pazienti con Dipendenza Affettiva sono consapevoli degli effetti devastanti che il partner ha nella loro vita, ma esattamente come i tossicodipendenti, non riescono ad astenersi dalla relazione.

Ma l’amore può essere considerato una droga? Effettivamente l’innamoramento e la tossicodipendenza hanno molte analogie; sia gli innamorati che i tossicodipendenti sperimentano:

  • Intensa euforia quando vedono il partner simile all’euforia che caratterizza l’uso di una droga
  • Craving (che è un desiderio spasmodico e irrefrenabile) per il partner o per la droga
  • Tendenza a ricercare sempre più la vicinanza con il partner (fenomeno simile alla tolleranza un meccanismo che spinge i tossicodipendenti ad aumentare progressivamente la quantità di droga assunta abitualmente per ottenere l’effetto desiderato)
  • Quando una relazione finisce le persone innamorate hanno dei sintomi d’astinenza che sono simili a quelli che si riscontrano nella sindrome d’astinenza dei tossicodipendenti (depressione, ansia, insonnia o ipersonnia, irritabilità, perdita dell’appetito o abbuffate) che, esattamente come avviene nella tossicodipendenza, portano alla ricaduta; ad es. nella Dipendenza Affettiva avere una ricaduta vuol dire cercare nuovamente il partner nonostante sia stato infedele, violento ecc. (Liebowitz, 1983; Hatfield & Sprecher, 1986; Meloy & Fisher, 2005).

Le analogie tra innamoramento e tossicodipendenza sono confermate anche dagli studi di neuroimaging (che visualizzano l’attività cerebrale in vivo). Questi studi dimostrano che l’innamoramento attiva alcune regioni cerebrali della via mesolimbica che è ricca di dopamina (una sostanza che viene liberata nel nostro cervello ogni volta che facciamo qualcosa di piacevole come per es. mangiare, fare sesso, accudire la prole ecc.). Il piacere che proviamo serve a motivarci a ripetere questi comportamenti e quindi a garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Come dimostrano numerose prove empiriche queste stesse regioni vengono attivate sia nella dipendenza da sostanze (Fisher et al. 2010; Acevedo et al. 2011; Xu et al. 2011) che nelle dipendenze comportamentali come lo shopping compulsivo (Knutson et al. 2007) e il gambling (Breiter et al. 2001).

Quindi per concludere le persone che soffrono di Dipendenza Affettiva si sentono inadeguate e non degne di essere amate e vivono costantemente con il terrore di essere abbandonate dal partner.

Sono sempre disponibili, accudenti, pronte a sacrificarsi e s’illudono, così facendo, di rendere la relazione stabile e duratura.

In realtà chi soffre di questo disturbo cerca disperatamente di essere amato da persone anaffettive quindi per definizione incapaci di amare; infatti è proprio il rifiuto che crea e alimenta la Dipendenza Affettiva: più il partner è sfuggente, freddo, distante, più la persona dipendente si sacrifica fino ad annullarsi, si colpevolizza, si mette in discussione e lo rincorre esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che ”rincorrono la perdita” e non riescono a smettere di giocare.

A volte, a causa di un torto subito dal partner, la rabbia può momentaneamente spingere chi soffre di Dipendenza Affettiva a dire basta e a chiudere la relazione, ma inevitabilmente, i sintomi dell’astinenza (depressione e incapacità di provare piacere, ansia, sensazione di vuoto ecc.) spingono a perdonare il partner e a giustificarlo rientrando così nel circolo vizioso di una relazione tossica.

Si può guarire dalla dipendenza affettiva?

Il primo passo verso la guarigione consiste nell’essere consapevoli di avere un problema e quindi di avere bisogno dell’aiuto di un esperto per risolverlo.

Il trattamento che attuo con i pazienti con dipendenza affettiva è basato sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013).

Il primo obiettivo, a breve termine, della TMI della Dipendenza Affettiva è affrontare e risolvere la sofferenza attuale del paziente in termini di sintomi e disfunzioni comportamentali.

Il secondo obiettivo, a lungo termine, consiste nell’affrontare le esperienze precoci di abbandono, di trascuratezza fisica ed emotiva, di maltrattamenti, abusi ecc. che generalmente sono alla base della convinzione di non valere nulla e di non essere degni di essere amati che caratterizzano i pazienti che soffrono di Dipendenza Affettiva. In parallelo, la terapia mira ad aiutare i pazienti ad avere accesso a quello che provano, ai loro desideri e ai loro scopi e a utilizzarli per compiere delle scelte autonome. In questo modo si ripara uno dei nuclei delle personalità dipendenti che è la carenza di agency, ovvero di portare avanti un piano d’azione che nasca all’interno, anche in condizioni di mancante supporto relazionale o di avversità.

Grazie a questo lavoro si creano le basi perché i pazienti possano da un lato formare relazioni affettive basate sulla reciprocità in cui sentirsi finalmente amati e accettati, o perché possano mantenere un senso di amabilità e valore personale, accompagnati da un senso di attività anche quando tali relazioni mancano.

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