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Molestie sessuali sul luogo di lavoro: analisi e misure preventive

Il fenomeno delle molestie sessuali sul luogo di lavoro è diventato un problema pervasivo e cronico che causa danni psicologici nelle vittime. Le ricerche sul tema hanno indagato le cause delle molestie sul posto di lavoro e hanno individuato delle strategie per prevenirle o ridurle.

 

Tra i limiti delle ricerche sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro, però, si riscontra la mancata identificazione delle caratteristiche dei molestatori, rendendo difficile il lavoro di prevenzione.

La letteratura evidenzia che le molestie sessuali si rivolgono principalmente alle donne, da parte non solo di chi ha un ruolo lavorativo superiore a loro, ma anche da colleghi, subordinati e clienti.

Un articolo scientifico pubblicato recentemente da Quick e McFadyen (2017) su Journal of Occupational Health Psychology ha analizzato gli studi sulle molestie sessuali condotti negli anni, tentando di individuare aspetti significativi tralasciati dalle indagini. Inoltre, ha considerato fattori contestuali e organizzativi che potrebbero influenzare la probabilità che le molestie si verifichino.

Dai dati emerge che le donne vittime di molestie sessuali sul luogo di lavoro manifestano diverse conseguenze negative: ansia, depressione, disturbi alimentari, stress post-traumatico, abuso di droghe e alcol. Inoltre, nonostante le donne abbiano maggiori probabilità di riportare molestie sessuali, gli studi indicano che anche gli uomini non sono immuni. In particolare, gli uomini nell’esercito hanno una probabilità 10 volte maggiore di subire molestie sessuali rispetto agli uomini civili, anche se l’81% dei molestati non lo denuncia.

Molestie sessuali sul luogo di lavoro: il ruolo dell’organizzazione e dei giochi di potere

Dalla rassegna di ricerche si evince che il fattore predittivo più forte di molestie sessuali sul posto di lavoro è il clima organizzativo e le relative dinamiche di potere. Si tratta, per esempio, di contesti in cui gli uomini sono più numerosi delle donne o i supervisori sono prevalentemente di sesso maschile.

L’analisi del fenomeno ha evidenziato la necessità di un’azione su più fronti per combattere il problema. Il primo passo da compiere è sicuramente l’adozione di politiche proattive che proibiscano le molestie sessuali, sensibilizzando i dipendenti e stabilendo procedure di segnalazione del problema.

A fronte di ciò, si può concludere che negli anni ci sono stati progressi su alcuni fronti ma non su altri e che il problema si è trasformato, diventando più complicato per una serie di motivi. Per quanto riguarda gli sviluppi futuri, dunque, è necessario sapere di più su molestatori, sugli aggressori, sugli abusi e sul ruolo delle dinamiche di potere nel determinare il problema. In questo modo sarebbe possibile sensibilizzare dipendenti e manager per attuare strategie di prevenzione adeguate.

Non è facile essere un Genio: la Plusdotazione è un Bisogno Educativo Speciale?

L’Università di Pavia è attiva dal 2009 in quest’ambito, grazie alle attività di LabTalento, il laboratorio italiano di ricerca e intervento per lo sviluppo del potenziale e della plusdotazione, diretto dalla professoressa Maria Assunta Zanetti per i bambini plusdotati.

L’aumento delle diagnosi dei DSA

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento formidabile delle diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento nei bambini in età scolare.
Il MIUR, in una relazione specifica sul tema e relativa all’anno scolastico 2011/2012, ha registrato un’impennata clamorosa nelle certificazioni di DSA: un aumento del 24% di alunni certificati alla scuola primaria, del 39% alla scuola secondaria di primo grado e del 54% a quella secondaria di secondo grado, percentuali che vanno considerate ancor più significative se si tiene conto del decremento, negli ultimi anni, del numero di bambini iscritti.

A cosa si deve una simile epidemia di discalculie, dislessie, sindromi da iperattività?
Certo, la legge 170 del 2010 sui DSA ha senz’altro dato un impulso decisivo al riconoscimento e alla tutela dei bambini che soffrono di questo tipo di disturbi, ma sembra anche che ci sia un allarme collettivo (e non sempre del tutto motivato) orientato prevalentemente a quello che nei piccoli allievi non funziona come ci si aspetterebbe, al deficit, alle difficoltà, rischiando in tutto questo di perdere di vista le risorse e i talenti individuali dei bambini.
Non a caso e diametralmente opposto alla dimensione dei DSA esiste un altro fenomeno, senz’altro sottostimato e meno conosciuto ma altrettanto gravido di potenziali criticità educative e sociali: quello dei bambini cosiddetti plusdotati.

Le difficoltà dei bambini plusdotati

Ad oggi, in Italia, non esistono standard condivisi per l’individuazione dei bambini ad alto potenziale e nemmeno norme che regolamentino una didattica inclusiva pensata per quei bambini che dimostrano talenti precoci ed eccezionali.
Una serie di miti e pregiudizi sui gifted children farebbe pensare che non abbiano in realtà bisogni educativi speciali; si crede che riescano a fare qualsiasi cosa e ad avere successo senza sforzo, che non abbiano bisogno di aiuto e siano più maturi, responsabili e popolari degli altri bambini della loro età, che grazie alle doti cognitive possano eccellere facilmente in qualunque area della loro vita.

Paradossalmente è spesso vero il contrario: nella maggioranza dei casi i genitori di bambini ad alto potenziale richiedono una consulenza specialistica perché i figli non hanno più voglia di andare a scuola, in classe sono distratti e turbolenti, ricercano continuamente attività alternative e si disinteressano a quelle proposte dagli insegnanti, si annoiano e hanno problemi comportamentali, talvolta vengono derisi e isolati dai compagni.

Tutto questo perché soffrono di quella dissincronia, già discussa da Terrassier, tra lo sviluppo cognitivo e quello emotivo, uno squilibrio che spesso crea disagio e sofferenza e che può sfociare in un paradossale fallimento scolastico proprio dei bambini intellettualmente più dotati e precoci (i cosiddetti gifted underachievers).

Per evitare che il talento vada sprecato risulta quindi opportuno e urgente formulare una procedura di assessment che sia chiara e condivisa, supportata se possibile anche da un inquadramento legislativo com’è stato, appunto, per i DSA; questo affinché le scuole possano poi pensare e proporre adeguate metodologie didattiche a sostegno anche del pieno sviluppo dei giovani talenti.

L’intelligenza è un costrutto piuttosto difficile da misurare, intessuto com’è di elementi cognitivi, emotivi e comportamentali, e ad oggi si fa in genere riferimento al calcolo del quoziente intellettivo ricavabile dalla somministrazione delle scale Wechsler, disponibili anche per i bambini in età prescolare e scolare. Si parla di plusdotazione quando il quoziente di intelligenza è superiore alla media nazionale (da 120 in su) e si stima che i bambini plusdotati siano tra il 5 e l’8% della popolazione scolastica (quindi all’incirca un bambino per classe).

LabTalento: il laboratorio italiano ideato per i bambini plusdotati

L’Università di Pavia è attiva dal 2009 in quest’ambito, grazie alle attività di LabTalento, il laboratorio italiano di ricerca e intervento per lo sviluppo del potenziale e della plusdotazione, diretto dalla professoressa Maria Assunta Zanetti.

Durante il recente seminario internazionale sull’argomento, oltre ad un confronto con alcune realtà straniere che già da anni si occupano di didattica inclusiva a sostegno dei bambini plusdotati, è stato presentato un innovativo modello didattico ideato proprio all’interno del laboratorio pavese e pensato per declinarsi sia in ambito scolastico che extrascolastico: si tratta del progetto STIMA, acronimo delle parole Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica, Arte.

L’idea alla base di questo modello è che sia necessaria una formazione specifica per gli insegnanti e un dialogo sistematico con le famiglie per poter individuare tempestivamente i bambini ad alto potenziale; definire in modo sistematico il livello di ogni singolo alunno dovrebbe consentire l’ingaggio di “docenti di potenziamento” che permettano lo svolgimento di un lavoro differenziato per i bambini sulla base delle rispettive inclinazioni e potenzialità; obiettivo audace se si pensa alle condizioni attuali delle scuole primarie, dove l’insegnamento è prevalentemente frontale e la platea è costituita all’incirca da 30 bambini.

Al progetto “La scuola educa il talento” stanno già partecipando diversi istituti comprensivi pavesi, i cui dirigenti hanno portato la propria testimonianza durante il seminario.

L’idea alla base di questa esperienza pionieristica sarebbe quella di poter stilare e proporre delle buone pratiche, riproducibili poi anche a livello nazionale e, perché no, internazionale.
Questo per scongiurare il rischio di perdere per strada i nuovi talenti, quei bambini geniali che se non riconosciuti e tutelati potrebbero ritrovarsi a sabotare il proprio talento per noia, demotivazione, conformismo, solitudine o (addirittura) vergogna delle proprie capacità.

ADHD negli adulti: cosa ne sappiamo oggi? Diagnosi, valutazione e trattamento di una condizione clinica largamente sottostimata

I clinici sono sempre più convinti che i sintomi dell’ ADHD possano proseguire per l’intero ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta (Brown, 2000). Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre non soltanto una parte dei sintomi tipici del disturbo in età infantile tendono a riproporsi, ma nuovi tratti fanno la loro comparsa e vanno a caratterizzare l’ ADHD nell’ adulto, che risulta associata ad una costellazione variegata di problemi psico-sociali (Young, Toone e Tyson, 2003).

Capolongo Manuela, Tramontano Martina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Nel corso degli ultimi anni la maggior parte dei servizi di salute mentale rivolti a bambini e adolescenti ha riconosciuto l’esistenza e la necessità di trattamento rispetto ad una condizione caratterizzata da una sintomatologia poliedrica riconducibile a tre aree principali: attenzione, impulsività e iperattività. Tale quadro di difficoltà prende il nome di Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (ADHD). Di conseguenza l’attenzione della maggioranza dei clinici è stata impegnata nella valutazione, diagnosi e cura di tale patologia e nell’implementazione di centri multidisciplinari in grado di aiutare tali pazienti. Su tale scia oggi, all’interno del mondo clinico, sono sorti degli interrogativi sulla presenza di tale disturbo non soltanto in età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita. Se la diagnosi viene formulata in età pediatrica e adolescenziale perché dovrebbe scomparire in età adulta?

Esistono molti adulti che potrebbero aver avuto la vita condizionata negativamente dall’ ADHD, ma non aver mai ricevuto una diagnosi. Come si presenta l’ ADHD nell’ adulto? Come viene effettuata la diagnosi? Quali strumenti? Quali possibili trattamenti?

L’ADHD nell’infanzia: una panoramica generale

Il disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (ADHD) colpisce il 3-5% dei bambini in età scolare, con un rapporto di 3 maschi per 1 femmina; esso rientra nel capitolo dei disturbi del neuro-sviluppo dell’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5, 2014) e si configura come un gruppo di disturbi con esordio infantile, caratterizzato da una compromissione funzionale a livello personale, familiare, sociale, scolastico o lavorativo. Si tratta quindi di un problema che coinvolge tutti gli ambiti di vita del bambino e che non può esimere nessuno dall’impegno per la cura, la terapia e la riabilitazione di questi pazienti, soprattutto in virtù del fatto che la prognosi favorevole del soggetto ADHD è fortemente legata alla diagnosi precoce e all’intervento qualificato della scuola e degli operatori socio-sanitari.

L’ADHD non si esprime attraverso evidenti e chiari sintomi fisici, ma si manifesta con problematiche comportamentali, che possono variare da persona a persona, in bambini dotati di un QI normale o superiore alla media. Questo è il motivo per cui il pensiero comune li etichetta come bambini “poco educati”, “senza motivazione”, o “prodotto di un ambiente familiare poco strutturato”. Anche se probabilmente un ambiente disfunzionale potrebbe comunque favorire l’espressione fenotipica di una disturbo geneticamente preordinato, non è stata trovata nessuna chiara relazione tra la vita familiare, l’ambiente e l’ADHD. Invece tale disturbo rappresenta un deficit dovuto ad un alterato sviluppo dei circuiti cerebrali che sottendono importanti funzioni cognitive; infatti, i ricercatori, hanno trovato importanti differenze tra le persone che hanno l’ADHD e quelle che non sono affette da tale patologia: le aree che governano le emozioni e la motivazione risultano essere più piccole rispetto alla popolazione generale.

L’ADHD è quindi una patologia di complessa gestione; i comportamenti maggiormente comuni sono la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività, che concretamente si manifestano con: comportamento negativista e provocatorio; crisi di collera; frequenti litigi con i coetanei e gli adulti; incapacità a rispettare le regole; violazioni delle regole sociali; comportamenti aggressivi; tendenza a porsi in situazioni di rischio; difficoltà di adattamento sociale; scarso rendimento scolastico.

Sulla base di tali caratteristiche possiamo dedurre che i bambini affetti da ADHD faticano molto a mantenere la loro mente su attività che richiedano concentrazione focale e prolungata nel tempo, per cui si annoiano e si distraggono anche dopo pochi minuti; hanno difficoltà a focalizzare consapevolmente l’attenzione al fine di pianificare, organizzare e completare attività o imparare qualcosa di nuovo; sono iperattivi, sempre in movimento, non riescono a stare seduti a lungo; posseggono scarse capacità di controllare gli impulsi e di pensare prima di agire; non tollerano la frustrazione, l’attesa prima di ottenere ciò che desiderano e non sanno rispettare i turni sia nei giochi che in una conversazione.

Per poter effettuare diagnosi di ADHD, però tale modello di comportamento deve essere confrontato con un insieme di caratteristiche proprie del disturbo, espresse in principi contenuti nel Manuale diagnostico dei disturbi mentali di riferimento chiamato il DSM, quello americano, (IV edizione) o ICD (edizione X) quello europeo. Inoltre bisogna fare attenzione, perchè spesso i comportamenti tipici dell’ADHD possono essere il risultato di altre situazioni o condizioni morbose. Infatti una delle difficoltà nel diagnosticare l’ADHD, è che spesso essa è accompagnata ad altri problemi e/o disturbi specifici: circa due terzi dei giovani con ADHD sono affetti da comorbilità, tra cui disturbi della condotta, tic, syndrome di Tourette, disturbi dello spettro autistico, ansia, depressione e difficoltà dell’apprendimento.

Anche se la maggior parte dei pazienti non supera l’ADHD con la crescita, mediante un’ottimale combinazione tra farmaci, psicoterapia, training e supporto emozionale essi possono sviluppare modalità di controllo dell’attenzione e dell’impulsività, minimizzando i comportamenti disgreganti. Nello specifico, crescendo, con un appropriato aiuto da parte dei genitori e dei clinici, i bambini con ADHD diventano maggiormente capaci di reprimere l’iperattività e incanalarla in comportamenti maggiormente accettabili socialmente.

L’ ADHD nell’ adulto: sintomatologia, diagnosi e problematiche

I clinici sono sempre più convinti che i sintomi dell’ ADHD possano proseguire per l’intero ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta (Brown, 2000). Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre non soltanto una parte dei sintomi tipici del disturbo in età infantile tendono a riproporsi, ma nuovi tratti fanno la loro comparsa e vanno a caratterizzare l’ADHD nell’adulto, che risulta associata ad una costellazione variegata di problemi psico-sociali (Young, Toone e Tyson, 2003).

Il quadro clinico si caratterizza in una variegata serie di problematiche che limitano la maggioranza delle aree di vita di questi soggetti. Nel dettaglio le caratteristiche che più frequentemente si presentano nell’adulto sono:
– disattenzione cronica esplicabile in diverse forme (distraibilità, scarsa capacità nel prestare e mantenere a lungo l’attenzione e nel portare a termine i compiti affidati, propensione ad evitare impegni che richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo, incapacità di mettere a fuoco la tematica principale, dimenticanze ecc..);
– impulsività comportamentale e verbale (agitazione, difficoltà a stare seduto, fare le cose senza pensare alle conseguenze, non rispettare i turni di parola all’interno di un dialogo, essere logorroici ecc…);
– disorganizzazione (caos e casualità nella pianificazione di pensiero e azione);
– scarse capacità sociali e di mentalizzazione;
– sensazione di noia e difficoltà ad essere soddisfatti con lo svolgimento del proprio lavoro o di altri aspetti della vita quotidiana;
– frustrazione immediata di fronte a circostanze di ritardo;
– labilità emotiva.

In aggiunta a tali caratteristiche sintomatologiche è stato visto che se un individuo ha convissuto con l’ ADHD per la maggior parte della sua vita senza mai essere diagnosticato, potrà aver sviluppato altre forme di disagio: una storia di scarso rendimento scolastico, un eccesso di separazioni e divorzi, maggiori probabilità di difficoltà lavorative, sfavorevoli condizioni socioeconomiche, maggior rischio di andare incontro sia ad incidenti stradali che ad eventi traumatici in genere. Inoltre gli adulti che presentano questa patologia lamentano un eccesso di condotte suicidarie e tassi particolarmente elevati di comorbidità con altri disturbi della sfera mentale ed emotiva. Particolarmente problematica è l’associazione dell’ ADHD nell’ adulto con i disturbi della dipendenza da alcol e sostanze. Proprio l’uso di sostanze è largamente corresponsabile dell’ aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e di conseguenza di andare incontro a problemi giudiziari.

L’analisi del quadro clinico appena descritto mette in evidenza la difficoltà nel riconoscere e diagnosticare l’ ADHD nell’adulto. Come ogni “nuova” diagnosi è affrontata con incertezza sia dai professionisti che dal pubblico e rappresenta un compito delicato, perchè si configura come una diagnosi “non pulita” data la vasta sovrapposizione con altri problemi e disturbi di cui abbiamo già discusso.

La competenza diagnostica è dello psichiatra. Lo psicologo può effettuare tutta la valutazione con la supervisione dello psichiatra che grazie alla sua esperienza con le patologie mentali può distinguere l’ADHD dagli altri disturbi e fare anche una corretta diagnosi differenziale.

L’ ADHD nell’adulto: valutazione e trattamento

La valutazione della presenza dell’ ADHD nell’ adulto è un processo sistematico, che ha lo scopo di evidenziare la durata dei sintomi e il livello di invalidità che causano alla persona.
Secondo la dichiarazione del consenso europeo sulla diagnosi e trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, questo processo valutativo deve individuare una molteplicità di elementi e non limitarsi ad una singola impressione clinica.

Gli elementi di interesse diagnostico consistono nell’esordio infantile del disturbo, i sintomi presenti nell’età adulta e la presenza di invalidità in almeno due campi di vita, tra cui la famiglia, la scuola, il lavoro e le relazioni interpersonali.
E’ necessario evidenziare anche le caratteristiche associate al disturbo come la labilità dell’umore, scoppi di rabbia e collera e i disturbi da comorbilità.
Infatti è davvero fondamentale focalizzarsi sulla diagnosi differenziale, in quanto i sintomi che spesso coesistono con la sindrome di ADHD nell’ adulto, come instabilità dell’umore, incessante attività mentale e tendenza ad evitare situazioni di attesa se esse generano frustrazione, possono essere confusi con quelli di una comorbilità separata, come l’umore, l’ansia, disturbi psicotici, organici, da sostanze, disturbi di personalità, tic e disturbi da autismo.

Gli aspetti che mostrano spesso gli adulti con ADHD, per esempio la bassa autostima, cattivo umore, labilità emotiva ed irritabilità, possono essere sovrapposti alla distimia, ciclotimia, disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline, quindi il rischio è quello di far confusione fra i disturbi.
Altri elementi importanti ai fini della valutazione diagnostica sono l’anamnesi dei trattamenti somatici e psichiatrici e la storia familiare dei disturbi psichiatrici e neurologici, vista l’ereditarietà del disturbo.

Uno degli strumenti per condurre la valutazione diagnostica dell’ ADHD nell’adulto è il colloquio clinico, nel quale le aree da indagare sono le seguenti: il matrimonio, rapporti interpersonali, funzionamento sessuale, funzionamento lavorativo, attività quotidiane, genitorialità, maneggiamento economico ed eventuali problemi legali.

La scala di classificazione generalmente usata per lo screening comprende, oltre alla scala riferita ai criteri dettati dal DSM-5, le voci della World Health Organisation Adult ADHD Self-Report Scale (ASRS) Symtom Checklist (2005).
Sono a disposizione per la raccolta delle informazioni significative delle interviste diagnostiche strutturate, come la Conners Adult ADHD Diagnostic Interview (CAA – DID, 1994, 1998), e quella più recente la DIVA, ossia la Diagnostic Interview for ADHD in Adults (2007).

La prima è un’intervista strutturata a supporto della diagnosi di ADHD nell’ adulto ed è divisa in due parti: la prima parte è il questionario della storia del paziente (presentata come intervista clinica o come questionario di autocertificazione), che indaga la storia demografica del cliente, il corso dello sviluppo dei sintomi e dei problemi di attenzione e i fattori di rischio associati, includendo anche domande sulla comorbilità; la seconda parte invece, consistente nell’intervista clinica diagnostica , ha lo scopo di formulare la diagnosi clinica in base ai criteri del DSM e di raccogliere informazioni circa l’età di insorgenza, la pervasività e il livello di compromissione per ogni sintomo di ADHD indicato.

Il secondo strumento, sviluppato da J. J. S. Kooij e M. H. Francken, è la versione seguente dell’intervista Semi-Strutturata per l’ ADHD nell’ adulto: essa è divisa in tre parti, ognuna delle quali si riferisce all’infanzia/fanciullezza e all’età adulta, e comprende i criteri per il Deficit di Attenzione, i criteri per l’Iperattività/Impulsività, e infine l’età di insorgenza e il disfunzionamento causato dai sintomi. La DIVA prende in considerazioni solamente i sintomi dell’ADHD, e non include invece quei sintomi, sindromi e disturbi psichiatrici presenti in comorbilità, perciò, se si utilizza questo strumento, è necessario accompagnarlo ad una valutazione psichiatrica completa.

Un altro strumento utilizzato nella valutazione della diagnosi di ADHD nell’ adulto è la Brown ADD Scale Diagnostic Form (BADDS, 1996), che misura specificatamente i comportamenti relativi al funzionamento esecutivo e all’attenzione ed include un protocollo di raccolta della storia clinica del paziente, costituita da quaranta domande a scelta multipla, indaga la capacità di:
– Attivazione
– Sostenere l’attenzione
– Mantenimento dello sforzo
– Interferenza affettiva
– Memoria di lavoro e capacità di recuperare l’informazione.

Nel processo di valutazione sono utili anche gli strumenti self-report da somministrare ai familiari, partner e amici del paziente, in modo da ottenere una descrizione esterna del problema della persona: alcuni degli strumenti appena citati presentano versioni destinate a loro.
Importanti sono anche i test cognitivi usati nel processo di valutazione dell’ ADHD nell’ adulto:
– Cognitive Assessment System (CAS, Naglieri e Das, 1997): questo strumento si basa sulla teoria neuropsicologica PASS (Das et al., 1994), secondo la quale ci sono quattro processi cognitivi base dell’intelligenza umana, gli stessi misurati dalla strumento, ossia Pianificazione, Attenzione, Simultaneità e Successione;
– Scale Wechsler: Wisc III e IV, WAIS (Wechsler, 1949): soprattutto in riferimento all’indice di attenzione e concentrazione, e all’indice di velocità di processamento;
– Woodcock Johnson III (CHC, R. Woodcock e M. E. Johnson, 1977), di cui l’ultima versione del 2014 è chiamata WJ IV: esso è un test di abilità cognitive, basato sulla teoria di Cattel-Horn-Carrol, che si basa su nove abilità di livello, dalle quali possono essere ottenuti due indici, cioè un’Abilità Generale Intellettuale (GIA) e una Breve Abilità Intellettuale (BIA).

Per quanto riguarda il trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, la soluzione ottimale è quella di utilizzare un approccio multimodale, ossia che unisca insieme diversi interventi diversi, in modo da rendere il trattamento stesso più efficace possibile e una prognosi più favorevole. Questo tipo di trattamento multimodale comprende:
– La farmacoterapia per i disturbi dell’ ADHD e i sintomi in comorbidità;
– Psicoeducazione sui sintomi dell’ADHD e quelli in comorbidità;
Psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il trattamento farmacologico risulta fondamentale per lavorare sui sintomi nucleari dell’ADHD: il trattamento farmacologico più studiato e più efficace è quello basato sugli stimolanti (metilfenidato e dexamfetamina). Il trattamento con stimolanti ha effetti positivi sulla sintomatologia e sui comportamenti invalidanti dell’ADHD, ma migliora anche altri aspetti correlati come la bassa autostima, scoppi di rabbia, sbalzi d’umore, problemi cognitivi e rapporti familiari. Nonostante sia riconosciuta l’efficacia degli stimolanti nel trattamento di ADHD nell’ adulto, il loro ruolo è ancora controverso e studiato.

Trattamenti farmaco terapeutici di seconda linea prevedono l’atomoxetina non-stimolante, che può essere indicata per quei pazienti con disturbi in comorbidità da abuso di sostanze, disturbi emotivi o fobia sociale.

Anche la psicoeducazione è un tassello importante nel trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, in quanto permette l’educazione del paziente ed eventualmente del partner e dei suoi familiari sui sintomi e invalidità dell’ ADHD, sulla prevalenza nei bambini ed adulti, la possibilità di comorbilità, l’ereditarietà, le disfunzioni del cervello coinvolte e le possibilità di trattamento. Il fornire al paziente queste informazioni lo può aiutare a comprendere più approfonditamente la sua condizione ed aiutarlo ad affrontare le difficoltà causate dal disturbo. Spesso la psicoeducazione ha buoni effetti anche sulle relazioni familiari, in quanto queste informazioni vengono condivise tra i membri della famiglia, e anch’essi diventano consapevoli e riescono a dare una spiegazione dei comportamenti e sintomi del paziente.

Infine è necessario anche ingaggiare il paziente in un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale, dal momento che i pazienti sviluppano ulteriori problematiche a seguito del disturbo (credenze negative, bassa autostima, comportamenti di evitamento e disturbi dell’umore) e inoltre esiste un alto grado di comorbilità con i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze.

E’ stato dimostrato che la CBT è maggiormente efficace se affiancata a interventi comportamentali che mirino all’apprendimento e alla pratica di strategie compensatorie, non tralasciando l’intervento cognitivo sulle credenze disfunzionali e le emozioni che ne conseguono, che incentivano l’evitamento e la procrastinazione.

Un altro obiettivo della CBT è quello di focalizzarsi sull’autostima, problemi di ansia e abbassamento dell’umore.
Anche la DBT (DialecticL Behavior Therapy), la Terapia Metacognitiva e la Mindfulness sono risultate efficaci per il trattamento di questo tipo di pazienti.

In generale le tecniche utilizzate sono: cognitive (ristrutturazione cognitiva, problem solving, gestione della rabbia, riduzione procrastinazione, ecc…) ed emotive (gestione e regolazione delle emozioni, tecniche di controllo degli impulsi e dell’autoregolazione, aumento autostima, ecc…).

Il trattamento infine risulta efficace se tutti questi interventi sono applicati insieme in un sistema multimodale, così da fronteggiare il disturbo da diversi punti di vista ed aiutare il paziente su diversi fronti e con differenti tecniche.

Meno spreco alimentare di default con il nudging  

Anche se negli ultimi dieci anni sono stati condotti numerosi studi con l’intento di cambiare comportamenti socialmente rilevanti attraverso il nudge e le varie strategie basate sui principi del nudging, ci sono ancora campi che rimangono inesplorati come il problema dei rifiuti alimentari e dello spreco alimentare.

 

Influenzare le scelte attraverso il nudging

Il 9 ottobre 2017 l’economista Richard Thaler vince il premio Nobel per l’economia grazie ai contributi forniti nella Behavioral Economics, che hanno permesso di costruire un ponte tra economia e psicologia nello studio dei processi decisionali. Questo è un riconoscimento importante per l’economista americano e per la comunità scientifica che può così continuare a raccogliere i frutti di una rivoluzione iniziata circa quarant’anni fa e che si auspica continui a fornire nuova linfa allo studio del comportamento umano nel prossimo futuro. Questa è un’onda che dovrà essere cavalcata saggiamente dagli esperti nelle scienze comportamentali per produrre benessere individuale e sociale.

Se le persone commettono errori sistematici è infatti possibile prevederli e soprattutto prevenirli. Il quesito che sorge naturale è il seguente: in che modo è possibile indirizzare le persone verso scelte funzionali al proprio benessere e prevenire o correggere tali distorsioni? Thaler e Sunstein (2008) propongono di lavorare nel contesto nel quale le persone si muovono e interagiscono. Tale approccio viene definito dagli autori paternalismo libertario. Gli interventi di Nudging sono sviluppati infatti per influenzare deliberatamente le scelte individuali, senza però né impedire né punire scelte alternative. Thaler e Sunstein (2008) coniano a tal proposito, il termine “architettura delle scelte” per definire in che modo sia possibile avvalersi di conoscenze scientifiche per strutturare contesti che favoriscano i comportamenti desiderati.

Un buon architetto delle scelte osserva l’ambiente in cui le persone si muovono, le loro interazioni con l’ambiente e le scelte che esse compiono. Qualora queste si rivelassero disfunzionali e influenzate da fattori contestuali, sarà possibile riprogettare l’ambiente fisico o verbale per reindirizzarle, come farebbe un buon padre di famiglia nel crescere i propri figli.

Da un punto di vista comportamentale questa definizione sottolinea alcuni punti importanti: Nudge è qualsiasi tentativo di lavorare sul contesto per alterare la probabilità di emissione di un comportamento, influenzandolo in modo prevedibile, senza penalizzare risposte o comportamenti alternativi, senza sopprimere le alternative di scelta o fornire ricompense economiche significative. La psicologia, troppo spesso relegata in laboratorio e in contesti clinici, estende il suo raggio d’azione nel sociale e nella promozione della salute pubblica, entrando in contatto con diverse discipline.

La maggior parte delle tecniche utilizzate negli interventi di Nudging sono principalmente incentrate sulla modifica degli antecedenti, al fine di impostare l’occasione per emettere il comportamento desiderato (Sunstein, 2014). La letteratura mostra l’efficacia del Nudge nell’affrontare i problemi in molti domini diversi, dalle politiche sociali alla sostenibilità (Bailenson 2011; Hershfield et al., 2011; Costa & Kahn 2013; Kallbekken, Sælen & Hermansen 2013), utilizzando una vasta gamma delle tecniche utili per promuovere comportamenti prosociali. Tra questi la manipolazione della regola di default si è rivelata efficace in diversi casi nella promozione di comportamenti auspicabili secondo l’idea del paternalismo libertario (Johnson & Goldstein, 2003; Pichert & Katsikopoulos, 2008; Keller et al. 2011).

Utilizzare l’opzione di default significa determinare un’opzione che verrà scelta in modo automatico, a meno che le persone scelgano attivamente di comportarsi in modo differente. Sunstein (2008) riferisce che l’opzione di default dovrebbe rispecchiare le preferenze delle persone, affinché possa essere considerata una spinta gentile. La domanda da porsi non è se prendere o meno una decisione, ma quanto il costo della risposta necessario per effettuarla influenza la decisione stessa. Piuttosto che far fronte a una decisione costosa da un punto di vista cognitivo o comportamentale, le persone hanno la tendenza a rimanere nello stato in cui si trovano.

Un esempio di come funziona la regola di default è uno studio condotto da Johnson e Goldstein (2004) in cui gli autori hanno scoperto che la percentuale di donatori di organi nei paesi dell’UE era distribuita sulla base di due modelli: nei paesi in cui le persone dovevano scegliere attivamente di divenire donatori di organi la percentuale dei donatori era bassa; viceversa nei paesi in cui le persone, di default, si ritrovavano a essere donatori di organi, a meno che non scegliessero attivamente di non esserlo, la percentuale era molto più alta. Anche se negli ultimi dieci anni sono stati condotti numerosi studi con l’intento di cambiare comportamenti socialmente rilevanti attraverso strategie basate sul nudge, ci sono ancora campi che rimangono inesplorati come il problema dei rifiuti alimentari e dello spreco alimentare.

Nudge e spreco alimentare

La tematica sembra essere diventata centrale negli ultimi anni all’interno della comunità internazionale (FAO, 2011, FAO, 2013) suggerendo che, ogni anno, circa un terzo del cibo prodotto viene sprecato in tutto il mondo (FAO, 2013; Monier et al., 2011; Gustavsson et al., 2011). Oggi circa il 34% del consumo alimentare si svolge fuori casa e un terzo di esso in luoghi pubblici come i ristoranti (Coldiretti et al., 2010; Fontanelli et al., 2011; Segrè et al., 2011).

Purtroppo, nei ristoranti non tutti gli alimenti ordinati dai consumatori vengono consumati e gli avanzi vengono spesso buttati via. Ridurre la quantità di cibo residua che viene gettata via potrebbe avere un impatto economico e ambientale su larga scala (CE, 2014; Thönissen, 2009; FAO, 2013).

In Italia è stata recentemente approvata la legge n. 166/2016 per regolamentare la questione dello spreco alimentare. Per spreco alimentare si intende l’insieme dei prodotti alimentari scartati dalla catena agroalimentare per ragioni commerciali o estetiche o perché prossimi alla data di scadenza, ancora commestibili e potenzialmente destinabili al consumo umano o animale e che, in assenza di un possibile uso alternativo, sono destinati a essere smaltiti. Nello specifico, l’articolo 9 del Dgl.166/2016, si riferisce all’importanza di ridurre i rifiuti nei ristoranti e nei locali, aumentando la disponibilità nel fornire appositi contenitori che permettano alla clientela di portare con sé il cibo rimasto (doggy bag). In Italia, secondo un sondaggio fatto da Coldiretti (2010) circa il 21% dello spreco alimentare proviene dai ristoranti e la fonte principale di spreco è rappresentato dalle rimanenze di cibo (Parfitt et al., 2010). Di solito, i clienti devono chiedere attivamente ai camerieri di imballare i loro avanzi nelle cosiddette “doggy bag” e le indagini mostrano che solo il 36% dei clienti chiede di poter portar via i propri avanzi (Paladino, 2015; Gaiani, 2013; Coldiretti, 2016). Probabilmente, gli individui percepiscono un costo nel chiedere di portare a casa le rimanenze della cena, forse dovuto all’imbarazzo o a un eccessivo sforzo cognitivo.

Nudge e spreco alimentare in Italia: lo studio condotto a Milano

Obiettivo del Team Nudge Italia è agire sul contesto e predisporre ambienti che promuovano comportamenti funzionali al benessere individuale e sociale. A tal proposito, è stato condotto uno studio finalizzato a verificare l’efficacia della regola di default per ridurre i rifiuti alimentari in pizzeria.

Lo studio è stato condotto in una pizzeria vicino la periferia di Milano ospitante circa 60 persone a pasto. I dati sono stati raccolti a cena, dalle ore 19:00 alle ore 24:00. Tutte le procedure eseguite nello studio hanno rispettato gli standard etici previsti dal comitato di ricerca istituzionale e/o nazionale con la dichiarazione di Helsinki del 1964 e le successive modifiche. L’ipotesi iniziale era che fornendo automaticamente alle persone un contenitore per riporre i propri avanzi di cibo (doggy bag), sarebbe aumentato l’utilizzo delle doggy bag. I dati sono stati raccolti per un mese: due settimane per la misurare la linea di base e due settimane per quella sperimentale. Durante la fase di controllo è stata semplicemente misurata la richiesta spontanea di doggy bag da parte dei clienti: sono stati forniti al personale degli adesivi da mettere su ciascun contenitore dato ai clienti per portare gli avanzi di cibo a casa, in modo da poter facilmente contare gli adesivi mancanti. Il personale del ristorante aveva inoltre il compito di apportare una “x” per ciascun piatto che contenesse degli avanzi (almeno una fetta di pizza rimanente nel piatto del cliente) su una apposita griglia di osservazione posta in cucina.

Durante la fase sperimentale, per manipolare l’opzione predefinita è stata utilizzata una chip da poker, posta sul tavolo davanti a ciascun cliente del ristorante e colorata in modo differente sui due lati: un lato verde e l’altro rosso. Di default la chip era posta sul lato verde, indice che il cliente avrebbe voluto portare a casa gli eventuali avanzi della cena, in caso contrario, se il cliente non avesse voluto richiedere la doggy bag, avrebbe dovuto intenzionalmente capovolgere sul rosso la chip.

Per rendere comprensibile e semplice la struttura logica dell’intervento ai clienti, sono stati posizionati su ciascun tavolo dei centrotavola informativi, contenenti le istruzioni sulla modalità di utilizzo delle chip da poker. In aggiunta, sono stati sviluppati dei volantini collocati all’interno dei menù contenenti informazioni sullo spreco alimentare e le stesse istruzioni riportate sui centritavola.

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - IMM 1

Imm. 1 – centrotavola informativo e chip da poker

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - IMM 2

Imm. 2 – centrotavola informativo

I dati ottenuti in seguito all’ intervento di nudging hanno dimostrato che il numero di doggy bag fornite ai clienti è aumentato notevolmente durante la condizione sperimentale, come è possibile osservare dal grafico sottostante. Durante la linea di base dodici clienti (41%) hanno chiesto la doggy bag, mentre durante la fase sperimentale l’hanno richiesta in trentaquattro clienti (85%).

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - GRAFICO

Grafico – Numero di doggy bag fornite ai clienti durante il controllo e durante la condizione sperimentale

La richiesta di contenitori per portare a casa gli avanzi della cena è stata del 44% superiore durante la fase sperimentale rispetto a quella di controllo. La differenza è risultata statisticamente significativa (Chi-square (1) = 17.27 p <.001) e la dimensione dell’effetto ha mostrato che nella fase sperimentale la probabilità di richiedere una doggy bag è stata circa 8 volte superiore rispetto alla fase di controllo (OR = 8,05; 95% CI: 2,82-22,96). Apportando una modifica semplice e sostenibile nel contesto, le persone hanno aumentato la richiesta di doggy bag, ottenendo un impatto significativo sulla riduzione dello spreco alimentare.

L’intervento di nudge pianificato e messo in campo sembra sostenere l’efficacia nel manipolare l’opzione di default, quando si lavora su comportamenti disfunzionali e “insalubri” che si presume siano privi di cognizione di causa.  I risultati sembrano essere in linea con l’idea che maneggiando la regola predefinita, la probabilità che un cliente con gli avanzi nel proprio piatto, richieda la doggy bag, sia maggiore nella condizione sperimentale rispetto a quella di controllo. Come Johnson e Goldstein (2004) hanno mostrato nel loro lavoro, l’opzione di default sembra interessare i comportamenti delle persone indipendentemente dal loro background culturale.

Esperimenti futuri potrebbero valutare la generalizzabilità di questa constatazione in altri contesti culturali ed è facile intuire il notevole impatto del nudge, di questo intervento semplice, economico ed ecologico, in termini di riduzione dello spreco alimentare e di economia sociale, lasciando piena libertà di scelta nelle persone.

Binge Watching: la dipendenza a portata di click

Letteralmente il termine binge-watching si riferisce all’unione dei termini “guardare” (watching) e “abbuffata” (binge). In buona sostanza, ci si riferisce all’atto di guardare più puntate di una serie tv o puntate di un programma televisivo, una dopo l’altra.

Arrigoni Andrea, Vinciullo Francesca – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Che cosa succede quando mettiamo un essere umano a contatto con uno stimolo piacevole e sempre disponibile, se la persona decide in autonomia quanto tempo o impegno dedicare a questo stimolo?

Letteralmente il termine binge-watching si riferisce all’unione dei termini “guardare” (watching) e “abbuffata” (binge). In buona sostanza, ci si riferisce all’atto di guardare più puntate di una serie tv o puntate di un programma televisivo, una dopo l’altra. Che cosa ci ricorda questo termine? La letteratura scientifica ha ampiamente approfondito il tema del binge-eating, ovvero l’abbuffata di grandi quantità di cibo in pochissimo tempo. Questo termine è entrato recentemente nel linguaggio clinico comune e fa parte dei disturbi della condotta alimentare, insieme all’anoressia, alla bulimia nervosa e all’obesità. Altro termine affine, è quello del binge-drinking, l’abbuffata alcolica, che riguarda l’assunzione di più bevande alcoliche in un arco di tempo limitato.

Sia nel fenomeno del binge-eating che in quello del binge-drinking si riscontra una significativa sensazione di perdita di controllo durante l’atto di abbuffarsi, come se la persona non fosse in grado di interrompere quell’attività considerata in modo negativo: spesso si riscontra la volontà di fermare l’abbuffata ma la totale incapacità di opporsi allo stimolo. La perdita di controllo rappresenta, quindi, un elemento fondante il disturbo, il quale è strettamente collegato a difficoltà nella regolazione delle emozioni, che rappresenta il principale fattore scatenante le abbuffate.

Tra binge-watching e dipendenza

Abbuffata, insomma, di puntate televisive, di serie-tv, di fiction. Una “maratona” televisiva che obbliga a incollarsi al televisore, o al computer, per diverse ore consecutive.

Il binge-watching rappresenta un fenomeno difficile da misurare. Jenner (2014) lo identifica nell’atto di guardare tre o più ore di contenuto televisivo in una singola sessione, ma, qualora diventasse frequente, il binge-watching rischia di trasformarsi in una forma di dipendenza.

Non dimentichiamo che non tutte le sostanze che creano dipendenza sono illecite e anzi molte di queste sono disponibili facilmente. Basti pensare allo shopping, al gioco o semplicemente all’alcool che nel contesto italiano può essere acquistato senza alcun controllo. Talvolta gli oggetti di dipendenza possono essere comportamenti e talvolta pensieri. Che caratteristiche deve avere un fenomeno del mondo (o dell’uomo) per poter essere reso oggetto di dipendenza? Ci sono differenze con le caratteristiche di un oggetto “buono per il binge”?

Alcuni autori (Sussman, Lisha & Griffiths, 2011) hanno approfondito il tema delle dipendenze, cercando di chiarire che cosa si intende con questo termine. Per dipendenza, non intendiamo solamente attività intrinsecamente appaganti o che portano ad un aumento della perdita di controllo (ad esempio il binge-eating) ma anche a comportamenti che non derivano da una ricerca appagante di piacere, quanto piuttosto ad una tendenza allo spreco del tempo, come, appunto, il binge-watching.

Sussman (2012) ha identificato dodici categorie di dipendenze allo scopo di buttare luce ulteriore su questo fenomeno.

Quali sono queste categorie? Le dipendenze correlate all’uso di sostanze stupefacenti, al cibo e a comportamenti anti-sociali, quelle che riguardano le tecnologie, il Gambling, le attività lavorative o la sfera sociale e relazionale; quelle correlate alla ricerca della perfezione fisica (ad esempio, la chirurgia estetica); quelle connesse alla tendenza a fantasticare (ad esempio, l’isolamento), all’esercizio fisico, alle ossessioni spirituali, alla ricerca del dolore fisico (automutilazione), allo shopping. Secondo questo schema, la Dipendenza da Televisione rientra nella Dipendenza da Tecnologie.

Ciò che accomuna questi comportamenti è la marcata perdita di controllo associata all’attività, caratterizzata dall’incapacità di predire quando la persona riuscirà ad interrompere il comportamento. La persona, così, sperimenta una sensazione di craving, di desiderio impellente di vedere una puntata di una serie tv con l’incapacità di sapere quando riuscirà a fermarsi (Sussman, 2012).

Nel binge-watching la persona, quindi, sperimenta un forte desiderio di abbuffarsi di serie-tv e volutamente appaga questo desiderio consumando una puntata dopo l’altra, in misura maggiore rispetto al suo stato psico-fisico e al contesto di riferimento. Quando l’abbuffata di puntate televisive diviene ripetuta nel tempo e non ha più carattere occasionale si parla di dipendenza, che si accompagna alle diverse conseguenze psico-fisiche già menzionate.

Le dipendenze comportamentali, tra cui il binge-watching, presentano uno spettro sintomatologico simile a quelli riscontrato nelle tossicodipendenze: sono presenti in entrambi i casi fenomeni di craving ed astinenza ed una serie di conseguenze sul funzionamento sociale e lavorativo che impattano largamente sulla qualità della vita. Per quanto riguarda il funzionamento cerebrale, inoltre, le dipendenze coinvolgono i medesimi circuiti nervosi: esse agiscono sul sistema di ricompensa, che è responsabile del rilascio di dopamina, che innesca la sensazione di benessere conseguente all’assunzione della sostanza. Allo stesso modo, l’abbuffatore di serie tv, proverà la medesima sensazione di rilassamento e benessere durante la visione della serie tv e ricercherà assiduamente tale sensazione, andando incontro ad una vera e propria forma di dipendenza.

Sono già noti gli effetti della Dipendenza da Internet (o Internet Addiction), sindrome riconosciuta ufficialmente nel panorama scientifico e catalogabile del DSM-IV nell’ambito dei disturbi ossessivo-compulsivi. Si tratta di una sindrome che solo recentemente ha ricevuto l’attenzione che merita, considerato il largo diffondersi di problemi psicopatologici connessi all’utilizzo massiccio e spesso inadeguato della rete. Il dibattito sull’argomento riguarda la scelta di considerare l’abuso di Internet come vera e propria dipendenza, accomunabile a quella per le sostanze stupefacenti, o più semplicemente come un fenomeno che porta a conseguenze negative per la salute dell’individuo ma che non si caratterizza come dipendenza.

Secondo Kymberly Young (2009), l’abuso di Internet genera una mole di conseguenze nocive per la salute che possono essere raggruppate in quattro macro-categorie: l’ambito relazionale, quello lavorativo o scolastico, l’ambito della salute e quello finanziario. L’eccessivo coinvolgimento nella rete, dunque, debilita la salute della persona, “costretta” per ore seduta davanti un computer, che la esclude dalle attività sociali, gravando sulla qualità delle relazioni personali e in caso di “Gambling” (Gioco d’azzardo patologico) anche sulle finanze.

Implicazioni dannose per i binge-watcher

In che modo l’abbuffata di serie tv rischia di trasformarsi in una dipendenza, una brutta abitudine per il nostro corpo e il nostro cervello? La piattaforma Netflix, il servizio di streaming online più famoso nel mondo, ha condotto recentemente un sondaggio per indagare i vissuti psicologici nascosti dietro gli abbuffatori seriali di puntate televisive: pare che la maggioranza degli intervistati riferisca sensazioni positive riguardo il proprio consumo della rete, un certo grado di benessere e soddisfazione nel vedere e nel considerare l’uso del proprio tempo libero. Secondo Netflix, si può considerare “maratona televisiva” o binge-watching la visione prolungata di serie tv, indicativamente tra le due e le sei puntate consecutive. Si tratta di un comportamento che viene da un lato sottoposto ad indagine, quanto contemporaneamente incoraggiato: ad esempio, in una si può leggere: “obiettivi della giornata raggiunti? 13 ore di visione.” e così via. Sempre Netflix, e sempre in chiave buffa, traccia i profili dei binge-watchers, come il “velocista”, lo “scalatore” e lo “sprinter”, a seconda di qual è l’approccio scelto non solo alla visione, ma all’abbuffata e al dedicare immense quantità di tempo a scavare in profondità nel catalogo offerto.

Netflix non è l’unica a immaginare lo spettatore, e di conseguenza la comunicazione, in questo modo: dedicare tanto tempo da un lato e fare ciò che viene descritto in maniera chiarissima come abbuffate sono elementi chiave nella comunicazione di tanti competitori. Per farsene un’idea in pochi istanti basta sfogliare le pagine Facebook delle varie “Amazon Prime Video”, “Infinity”, “Mediaset”. Verrebbe da pensare che se tutto questo viene offerto in questo modo, non vi sia nessun pericolo. Secondo i ricercatori, però, questo abuso di serie tv ha implicazioni dannose per il funzionamento psico-fisico dell’individuo nel momento in cui al benessere per aver visto l’ultima puntata di How I Met Your Mother o Criminal Minds, si sostituisce la tendenza ad andare sempre più avanti, così che le puntate da tre diventano sei. La persona tende a trascurare altri ambiti della propria vita, come le relazioni sociali o l’attività fisica: è così che la visione di serie tv passa dall’essere un passatempo ad essere un comportamento di dipendenza.

Altra caratteristica spesso associata al comportamento dipendente riguarda la tendenza ad isolarsi per compiere l’attività: come l’alcolista che predilige l’abbuffata di sostanze tra le mura di casa, in completa solitudine, così anche l’abbuffatore di serie tv che si chiude nella propria stanza e macina una puntata dopo l’altra (il 98% del campione secondo una ricerca di Marketcast, altro colosso mondiale della ricerca audiovisiva). Le conseguenze disfunzionali di queste scelte riguardano spesso l’isolamento dagli altri, dagli amici o dalla famiglia; la tendenza a trascurare le attività lavorative e quelle di svago e la sensazione di non riuscire a smettere, di essere entrati in un vortice in cui si ricerca sempre più l’oggetto o il comportamento che ci fa stare bene, come appunto nella dipendenza.

Kubey e Csikszentmihalyi (2004), in un lavoro pubblicato sulla rivista Scientific American Mind, precisano che la visione vorace di serie tv non è di per sé problematica se non quando al piacere di guardare un telefilm si sostituisce l’urgenza di doverlo fare e la difficoltà nell’interrompere l’attività. Ciò che più sorprende, secondo gli autori, riguarda lo stato d’animo della persona durante e dopo la visione della serie tv. Se, nel momento in cui si sta gustando la puntata della propria serie tv preferita, la persona sperimenta un senso di rilassamento, subito dopo la fine della puntata si sperimenta perlopiù un senso di passività e di vigilanza sempre più basso; gli intervistati riferiscono, inoltre, una difficoltà maggiore a concentrarsi in compiti diversi dopo aver trascorso diverse ore davanti alla tv. Per cercare di comprendere maggiormente il peso delle conseguenze negative del binge-watching, gli autori hanno indagato lo stato psicofisico delle persone dopo essere state coinvolte in un altro genere di attività, come attività sportive o altri hobbies: in questi casi, i soggetti riferivano uno stato emotivo maggiormente positivo ed attivo.

Le ricerche in ambito scientifico tendono a dare conferma del fatto che il binge-watching rischia di trasformarsi in una vera dipendenza, causando una serie di complicate conseguenze negative sullo stato psicofisico dell’individuo. Come abbiamo già visto, però, il web spesso non interpreta nel medesimo modo la portata di questo fenomeno, fornendo considerazioni e spunti alquanto discordanti. Ad esempio, il sito internet movieplayer.it, offre al visitatore la possibilità di trovare “25 serie tv perfette per il binge-watching”, allo scopo di fornire un pacchetto di opportunità televisive in grado di tenere incollato lo spettatore per diverse ore. In questo articolo, in realtà, lo scopo è quello di dare all’utente un’opportunità di “svago ed emozioni davanti lo schermo”, qualcosa di molto piacevole insomma. Ma si tratta veramente di questo? Come abbiamo analizzato in precedenza e secondo la letteratura, la situazione è ben diversa. La linea che separa lo svago davanti a una serie tv dalla tendenza a starci incollato per ore, con la difficoltà a staccarsene, risulta essere talvolta sottile e difficile da comprendere e, soprattutto, tra trattare.

Considerare il fenomeno del binge-watching come potenzialmente patologico può risultare utile per evitare di sottovalutare le conseguenze del fenomeno stesso e fornire al pubblico uno spunto di riflessione diverso. Ti è davvero utile passare ore davanti al computer o alla televisione? Chiedersi, dunque, se un comportamento è utile, e se non distoglie da attività più importanti per il proprio benessere, può essere sicuramente una buona strada. Ma, come tutte le dipendenze, non è così facile rendersene conto e trattarle nel modo corretto.

Binge-watching, dipendenza e depressione: la post-binge watching blues

Gli studi sulle dipendenze in genere hanno portato a evidenziare l’alta correlazione tra questi fenomeni e la depressione. Spesso nelle dipendenze la depressione ha alcune caratteristiche fondamentali, come l’abulia, l’apatia e la carenza di gratificazione e di stimoli, come se la persona fosse incapace di riconoscere altri stimoli piacevoli disponibili. Nell’ambito del fenomeno del binge-watching, sintomi depressivi si declinano in quella che viene comunemente chiamata “post-binge watching blues”, ovvero la depressione di fine serie. Di cosa si tratta? Pare che, una volta conclusa l’ultima stagione della nostra serie tv preferita, la persona sperimenta un forte senso di vuoto, di abbandono da qualcosa da cui ha avuto compagnia per lunghi giorni. È la malattia del nostro tempo, qualcosa di nuovo, ma altamente diffuso. Riconoscerlo è quasi semplice: una volta finita l’ultima puntata ci si sente tristi, irrequieti, vuoti, come se non ci fosse più quella cosa che ci fa stare bene.

Il binge-watching è diventato, nel corso degli ultimi anni, un fenomeno sociale, che rispecchia i comportamenti di numerose persone in giro per il mondo, diverse per attitudini caratteriali, abitudini, caratteristiche di personalità e che rispecchia un radicale cambio di rotta avvenuto nelle comunicazioni: l’ascesa di Netflix, o altre piattaforme on-line di distribuzione di contenuto televisivo, hanno sconvolto le abitudini di milioni di cittadini. In che modo? Secondo una ricerca condotta dall’Istituto SNL Kagan, solo nel 2010 le televisioni americane hanno visto drasticamente diminuire il numero di clienti (oltre 700 mila persone) a favore dell’azienda Netflix, la quale ha avuto una significativa ascesa come strumento di intrattenimento televisivo.

Recentemente, mi sono imbattuta in un interessante articolo sul fenomeno del binge-watching, dal titolo “Netflix, i trucchi per usarlo meglio: dal binge-watching di coppia alle categorie nascoste” nel quale l’autore offre suggerimenti e scorciatoie manuali da utilizzare sulla piattaforma al fine di ottimizzarne il suo utilizzo. Il titolo dell’articolo parla da sé: per “usarlo al meglio” è lecito anche abusarne, meglio se in coppia o con gli amici, perché più puntate riesci a vedere meglio è per il tuo “tempo libero”. L’articolo sembra essere in linea, difatti, con la rivoluzione apportata da Netflix e dalla altre piattaforme che da sempre investono sul potere persuasivo della ricerca del benessere e del divertimento come conseguenza della visione delle serie-tv preferite. Se siete in coppia e volete seguire la stessa serie del vostro partner, Netflix ve lo lascia fare attraverso una sincronizzazione della riproduzione delle puntate che vi permette, a distanza, di gestire in automatico pause e salti nella visione. Se siete studenti, inoltre, è possibile utilizzare uno specifico browser che permette di lasciare in primo piano la finestra di Netflix, mentre studiate o fate delle ricerche. Cosa volere di più? Si fa per dire.

Gli hobby, come la visione di film o serie-tv nel tempo libero, sono diventati così qualcosa di diverso da un passatempo, in quanto spesso si sostituiscono al tempo impiegato in modo produttivo per lavorare o studiare. Con l’influenza dei media, infatti, è facile sottovalutare l’influenza negativa che l’abuso di questi strumenti di streaming online ha sul comportamento e le abitudini delle persone. Anche una ricerca pubblicata sul Journal of Social and Personal Relationship sfata il mito per cui l’abbuffata televisiva sia qualcosa di dannoso per la salute, in quanto ne evidenza gli effetti positivi purché consumato in buona compagnia. Secondo questi dati, seguire diverse serie tv, macinando diverse puntate dopo l’altra, fa bene alla coppia perché favorisce l’intimità e la condivisione. Il rischio nel sostenere questa tesi non è però irrilevante, in quanto per alcune persone potrebbe essere difficile porsi dei limiti ed evitare di trasformare un hobby in un comportamento di dipendenza.

Evoluzione del disturbo post-traumatico da stress nei pazienti oncologici

Caryn Meri Hsien Chan, ricercatrice al National University of Malaysia, attraverso un studio pubblicato su Cancer, una rivista dell’American Cancer Society, ha evidenziato che, approssimativamente, ad un quinto dei pazienti oncologici è stata identificata l’insorgenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e la sua presenza per diversi mesi o anni dopo la diagnosi.

 

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD)

Il PTSD è un disturbo psichiatrico che, nelle sue forme più croniche, si sviluppa in una minoranza di sopravvissuti ad un trauma. Rappresenta l’incapacità di integrare l’esperienza traumatica con la visione integrata di sé e del mondo. I soggetti con PTSD rimangono incastrati nel ricordo terrifico e presentano difficoltà nel concentrarsi sul presente.

Il disturbo è caratterizzato dalla continua intrusione nella coscienza di ricordi dolorosi a cui segue una forte attivazione emotivo-fisiologica con relativi tentativi di impedire il riaffiorare dei ricordi attraverso strategie di evitamento attivo e passivo. Questo schema di intrusione ed evitamento porta ad un progressivo peggioramento dei sintomi e delle disabilità nel periodo che segue l’esposizione al trauma (Navarra, 2011).

Il PTSD è stato inserito ufficialmente nel manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (DSM) nel 1980, ma già nella letteratura del Novecento è stato descritto con dizioni differenti (es., nevrosi da guerra, cuore del soldato, shock post-traumatico) per indicare una patologia che insorge acutamente in conseguenza dell’esposizione ad eventi stressanti di gravità estrema che mettono a repentaglio la propria o altrui incolumità. Mentre nella letteratura dei primi anni Ottanta si faceva riferimento prevalentemente alle conseguenze psicologiche di soggetti esposti
a operazioni di guerra, da qualche anno le situazioni potenzialmente in grado di portare allo sviluppo del PTSD sono aumentate, mantenendo il riferimento alla “gravità oggettiva estrema” della situazione (Fullerton e Ursano 2001).

Il PTSD nei pazienti oncologici

Anche se il PTSD è primariamente conosciuto in relazione alla sua insorgenza in individui a seguito di eventi traumatici come seri incidenti o disastri naturali, può anche occorrere nei pazienti oncologici.

A tal proposito, la ricercatrice Caryn Meri Hsien Chan e il suo team hanno studiato 469 pazienti oncologici con diversi tipi di cancro a un mese di distanza di tempo dalla diagnosi presso un unico centro oncologico di riferimento e, in seguito, gli stessi pazienti sono stati sottoposti a ulteriori test dopo sei mesi e nuovamente dopo quattro anni.

Le valutazioni cliniche hanno rivelato un’incidenza di PTSD del 21,7% a 6 mesi di follow-up, con tassi in calo al 6,1% al follow-up a 4 anni. Sebbene i tassi complessivi del disturbo siano diminuiti nel tempo, circa un terzo dei pazienti inizialmente diagnosticati con PTSD hanno avuto sintomi persistenti o un peggioramento quattro anni più tardi.

Molti pazienti oncologici credono di dover adottare una “mentalità da guerriero”, di rimanere ottimisti dal momento della diagnosi e durante il trattamento per avere una migliore possibilità di sconfiggere il cancro. Per questi pazienti cercare un aiuto per i problemi è simile ad ammettere la propria debolezza“, sostiene la Dr.ssa Chan. “Deve esserci una maggiore consapevolezza, non c’è nulla di male nell’ottenere un aiuto per gestire lo sconvolgimento emotivo, in particolare per la depressione, ansia e il PTSD post cancro“.

Inoltre la ricercatrice Chan nel suo studio sottolinea che molti pazienti vivono nella paura che il cancro possa ritornare e di conseguenza, in alcuni casi i sopravvissuti evitano e rifiutano le visite oncologiche o fisiche per evitare il ricordo traumatico e doloroso dell’esperienza della malattia.
Tutto questo potrebbe condurre la persona a ricercare aiuto in ritardo nel caso di insorgenza di nuovi sintomi o, addirittura, al rifiuto del trattamento per condizioni non correlate in maniera diretta con la malattia.

Mettendo a confronto i pazienti affetti da diversi tipi di cancro, i ricercatori hanno trovato che i soggetti con il cancro al seno possiedono circa 3,7 volte meno la probabilità di sviluppare il PTSD nell’intervallo di tempo di sei mesi, ma non a distanza di quattro anni. Questa differenza potrebbe essere dovuta alla presenza, all’interno del centro oncologico preso in considerazione, di un programma di supporto e consulenza dedicato principalmente ai pazienti con il cancro al seno che si protrae per un anno dal momento della diagnosi.

Attraverso i risultati si evidenzia quanto sia importante porre l’attenzione a una precoce identificazione e a un trattamento continuo del PTSD nei pazienti oncologici. In relazione a quanto detto la dottoressa Chan sostiene: “E’ necessaria una valutazione psicologica in fase iniziale e un servizio di supporto e di follow-up continuo per i pazienti con il cancro in quanto il benessere psicologico e la malattia mentale – e per estensione la qualità della vita – sono importanti quanto il benessere fisico“.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale. Paradigmi e percorsi di cura (2017) di L. E. Zappa – Recensione del libro

La “malattia anoressica” è il tema trattato da Mente coatta, corporeità, anoressia mentale, libro esaustivo ma più adatto agli addetti ai lavori, sulla base delle conoscenze e delle competenze maturate dai diversi specialisti attraverso la loro attività pluriennale di ricerca e cura.

 

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) purtroppo non sono malattie rare, sono malattie piuttosto complesse caratterizzate da un’alterata e persistente condotta alimentare e da comportamenti atti a controllare il peso e le forme corporee. Altre caratteristiche frequenti sono la negazione del disturbo ed una marcata resistenza alle cure. Il testo Mente coatta, corporeità, anoressia mentale di Luigi Enrico Zappa contribuisce a svelare le aree di ricerca condivise che mirano alla realizzazione di un percorso clinico “integrato”, capace di non risultare una esemplificazione eccessiva di una realtà molto complessa.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale: il funzionamento mentale di tipo anoressico

La prima parte del libro Mente coatta, corporeità, anoressia mentale fornisce un inquadramento descrittivo del funzionamento mentale di tipo anoressico, partendo da una prospettiva storica delle prime teorie di spiegazione del disturbo, fino a quelle più attuali. Vengono illustrati numerosi casi clinici, proponendo la centralità della relazione terapeutica come assetto curante della malattia anoressica.

Successivamente la lettura viene orientata verso le prospettive di ricerca e la clinica (con un’attenta analisi alle alterazioni del vissuto corporeo), proponendo accanto agli interventi standard per la cura dei DCA (psicoterapia individuale, terapia farmacologica, riabilitazione nutrizionale, incontri psicoterapeutici e di supporto alle famiglie) anche un trattamento di gruppo basato sul modello dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), breve e focalizzato, volto alla gestione del rapporto problematico con il corpo, attraverso attività finalizzate allo sviluppo di abilità di mindfulness utilizzando esercizi esperenziali e meditativi. Il modello di intervento proposto dagli autori è frutto dell’incontro costante tra ricerca e psicoterapia, e presuppone un attento lavoro di assessment che miri alla raccolta puntuale della storia clinica e a identificare la struttura di funzionamento e i tratti di personalità.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale: il confronto tra diversi approcci terapeutici

La seconda parte del libro si occupa di psicoterapia, analizzando in particolare due tra gli approcci psicoterapici possibili utilizzati dagli specialisti di diversa formazione inseriti in equipe: l’ approccio ad orientamento psicodinamico (con il suo importante passato ed incoraggiante futuro verso nuovi sviluppi e recenti prove di evidenza) e quello cognitivo-psicodinamico o cognitivo-analitico, secondo la teorizzazione introdotta da Ryle nel 1990, applicato alla cura dell’anoressia in alcuni studi (Dare et al. , 2001). Quest’ultimo approccio, pur mantenendo la radice teorica psicodinamica, dà ampio spazio anche ad un ruolo più attivo del terapeuta, all’analisi dei significati consci e del valore che le pazienti attribuiscono alla malattia, ed ad un’analisi dettagliata degli schemi mentali connessi al mantenimento del sintomo.

La diagnosi e la programmazione dei trattamenti proposti, nascono dai risultati ottenuti dalla ricerca e dai dati provenienti dall’esperienza clinica, e si traducono in un intervento multidisciplinare necessario a fronteggiare lo “straordinario disordine psiconeuroendocrinologico” (Gatti B., 1997) dell’anoressia mentale.

Grande rilievo viene dato in Mente coatta, corporeità, anoressia mentale, oltre che alla comprensione diagnostica, alla cura del contesto clinico ospedaliero, alle linee guida sugli specifici livelli di assistenza e ricerca clinica, anche ai diversi livelli di integrazione a partire dai vissuti e dalle emozioni di tutte le componenti dell’equipe curante. Secondo gli autori la mente anoressica presenta una teoria metapsicologica caratterizzata dalle dimensioni dell’alessitimiadisregolazione emotiva, del controllopaura e dell’alterata immagine corporea. Ma l’accento principale viene posto anche sulla funzione integrante dello psicoterapeuta, declinata su più livelli del lavoro di cura inter-disciplinare. Questa funzione integrante è cognitiva ed affettiva, dentro di sé (nel terapeuta), all’interno dell’equipe, attraverso la relazione che è centrale con il paziente nel percorso di cura, affinché il paziente stesso possa acquisire e utilizzare quelle competenze che a livello mentale non ha potuto sviluppare, insieme alla possibilità di ripristinare un insediamento della psiche nel corpo e nel funzionamento corporeo.

I modelli di cura

La terza parte del libro Mente coatta, corporeità, anoressia mentale offre in analisi i modelli di cura, dalla RPP – Riabilitazione Psiconutrizionale Progressiva (applicabile in ambito residenziale, semi-residenziale e ambulatoriale) fino ai modelli di intervento di riabilitazione intensiva ospedaleria, ai quali afferiscono circa il 30% dei pazienti con DCA, che necessitano di cure più intensive. In ultima analisi viene illustrato il modello della comunità terapeutica psichiatrica per i DCA, impiegato per i casi più gravi e con tendenza alla cronicizzazione, analizzando tutti gli aspetti salienti, fino al periodo successivo all’uscita dalla comunità.

Una nuova scoperta sui meccanismi di morte cellulare nelle malattie neurodegenerative

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto nuovi meccanismi di morte cellulare associati a malattie neurodegenerative debilitanti quali il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson.

 

La nuova ricerca, pubblicata su Current Biology, potrebbe assumere un ruolo di estrema importanza per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici utili nel trattamento delle malattie neurodegenerative attualmente senza cura.

Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da una perdita progressiva delle funzioni cerebrali con la conseguenza che i soggetti affetti diventano progressivamente inabili nel controllo del movimento, dell’equilibrio, della memoria e del linguaggio e di altre funzioni cognitive.

Il problema maggiore quando si parla di condizioni neurodegenerative è la mancanza di conoscenza circa il come e il perché i neuroni perdano la loro funzione, in particolar modo nella fase terminale di queste malattie.

Malattie neurodegenerative e blocco nel processo di autofagia

Nello studio inglese, i ricercatori osservando le cellule cerebrali dei moscerini della frutta e dei topi hanno trovato un processo disfunzionale simile a quello che si ipotizza possa accadere nel cervello umano in casi di malattie neurodegenerative. In particolar modo hanno scoperto che, nella condizione patologica simulata, le cellule nervose di alcune aree del cervello andavano incontro ad un blocco che impediva l’eliminazione delle tossine. Il processo noto con il nome di autofagia svolge il compito essenziale di eliminare le cellule vecchie o danneggiate che vengono poi riciclate per rinnovare altre cellule cerebrali.

Il blocco persistente dell’ autofagia si traduce in un accumulo di tossine che induce i neuroni ad eliminare erroneamente elementi essenziali per il funzionamento cerebrale portando prima ad una perdita delle funzioni e poi alla morte cellulare.

Le evidenze trovate risultano alquanto importanti poiché permetterebbero lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici focalizzati sul processo dell’ autofagia. Nello studio infatti i ricercatori sono stati in grado di interrompere specifici processi che interferivano con la clearance cellulare (il processo di eliminazione delle sostanze messo in atto dalla cellula). Le terapie odierne al contrario, appaiono incentrate solo sul miglioramento della clearance, senza andare ad indagare le possibili cause interferenti; i risultati della ricerca potrebbero quindi suggerire una soluzione alternativa rispetto agli attuali trattamenti per le malattie neurodegenerative.

Olga Baron, autrice dello studio ha dichiarato:

Studi come il nostro sono molto importanti per identificare nuovi meccanismi biologici che possono essere alla base delle malattie neurodegenerative. Attualmente stiamo lavorando per replicare gli stessi risultati per altri disturbi nei quali l’ autofagia ha dimostrato una scarsa funzionalità come ad esempio il morbo di Alzhaimer e la malattia dei motoneuroni.

 

Autismi: quale futuro – Una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo di noi”

Il 5 dicembre si è svolta nell’Auditorium La Filanda di Cornaredo, una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo Di Noi”. Hanno partecipato il Prof. Lucio Moderato, Direttore dei Servizi per l’Autismo della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, Corrado Bassi, Presidente della Onlus “Dopo di Noi”, Mirko Gelsomini, ricercatore del Politecnico di Milano e Elisa Fusaro, mamma di Giacomo.

 

Come migliorare la qualità di vita e il futuro delle persone autistiche

Durante la serata si sono presentati i progetti in atto volti a migliorare la qualità della vita delle persone autistiche in un’ottica di ampliamento delle autonomie e quindi dello sviluppo delle risorse delle persone con autismo. La parola d’ordine è “oggi è già domani”: è necessario agire oggi per preparare il futuro. Negli anni ’70 l’incidenza delle persone con autismo era 1: 700000, oggi 1 ogni 68: questo dato ci dice che, con un’incidenza così elevata, l’autismo è una condizione da accettare e abilitare. Lucio Moderato, infatti, parla di abilitazione al posto di cura, di qualità della vita, di case, di posti di lavoro, al posto di guarigione.

Aumentare l’ inclusione sociale significa ampliare la conoscenza della condizione autistica, implementare l’uso di nuovi strumenti tecnologici ad hoc nella vita quotidiana e avvicinarsi alle esperienza di vita delle famiglie di persone autistiche in modo empatico. Le conoscenze in merito all’autismo si sono modificate notevolmente negli ultimi vent’anni, portando a radicali mutamenti nel paradigma di comprensione della condizione autistica di neurodiversità grazie soprattutto alle famiglie che agiscono e si battono per i propri figli. È proprio avvicinandosi alla realtà quotidiana che è possibile comprendere quali sono le necessità inderogabili delle persone autistiche: in Italia un ragazzo autistico che compie 18 anni, risulta paradossalmente “guarito” per lo Stato Italiano, non sono previsti aiuti né progetti statali e rodati per accompagnarlo nella transizione alla vita adulta.

Quale sarà quindi il futuro di un adulto autistico? Come si può preparare un futuro caratterizzato da una migliore qualità di vita, dall’inclusione sociale e lavorativa?

Il Prof. Moderato e Corrado Bassi rispondono a questa importante domanda mostrando come si può, e si dovrebbe, lavorare “in sistema” per favorire un Clinical Management Territoriale che possa essere non solo socialmente sostenibile, ma anche una risorsa per l’intera società sul lungo periodo. L’ottica non è assistenziale, ma inclusiva, tale da permettere alle persone autistiche di trovare il proprio posto nel mondo adulto e produrre valore per sé e per la società.

Il Prof. Moderato ci illustra il suo progetto di intervento su bambini e famiglie che ha come obiettivo la presa in carico totale e l’accompagnamento attraverso le tappe di abilitazione che porteranno il bambino con autismo a sviluppare le proprie risorse. Un grande progetto di questo tipo parte proprio dalle piccole necessità di ogni giorno: “è più importante intervenire nel quotidiano subito, in modo tempestivo per costruire le piccole autonomie giornaliere, per esempio partendo dal mettersi le mutande da soli!

L’importanza del lavoro di rete con le persone autistiche

Il progetto non riguarda solo bambini e famiglie ma anche altri attori significativi del sistema (medici pediatri, medici di medicina generale, servizi per famiglie straniere, servizi socio sanitari, scuola, servizi domiciliari, educatori, aziende) in modo che, attraverso la conoscenza della condizione autistica e della formazione ad hoc, l’autismo possa avere un impatto sociale meno pesante di quello di oggi.

Corrado Bassi ha fondato la Onlus “Dopo di Noi”: è una onlus giovane che ha come obiettivo la creazione di condizioni di sicurezza per costruire il DOPO. Le domande che preoccupano i genitori sono “Quando non ci saremo più, che fine farà nostro figlio? Chi si prenderà cura di lui? Come farà a gestirsi?”. La Fondazione prevede un patrimonio gestito rigidamente solo ed esclusivamente ad uso dei progetti previsti per l’autonomia dei giovani adulti autistici. È necessario contribuire e creare reti sociali sempre più forti e funzionanti in modo che il futuro diventi sempre meno incerto.

L’intervento di Mirko Gelsomini, ci ha invece aperto il mondo delle nuove tecnologie e della ricerca (Politecnico di Milano) volte alla creazione di percorsi educativi personalizzati con l’impiego di tecnologie innovative ed interattive per il gioco, l’apprendimento e l’inclusione. Sono stati sviluppati progetti e strumenti tecnologici che si avvalgono della robotica e della realtà virtuale per fornire ai bambini e ragazzi autistici la possibilità di fare esperienze relazionali giocando e apprendendo in un contesto sicuro e privilegiato nuove competenze sociali da generalizzare nella vita quotidiana.

L’intera serata ha dato quindi spazio a più contributi specifici che condividono la consapevolezza dell’autismo non come malattia, ma come condizione di vita da accettare e integrare e perché questo avvenga, è necessario che ogni attore sociale faccia un passo avanti, all’interno della rete da costruire e rinforzare.

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

 

«Nello specifico i comportamenti del robot sono le predizioni derivate dalla teoria usata per costruire il robot e, se il robot si comporta come un essere umano, la teoria è confermata
Parisi (2013)

Parole chiave: robotica, robot, automa, intelligenza artificiale, psicologia del senso comune, biomimetismo, mentalizzazione.

La differenza tra biologico e artificiale è spesso percepita dal senso comune come una battaglia in cui l’ordine sociale si decompone insieme ai cadaveri: incendi, fame, carestie, sofferenza, terrore e morte. Scenari che legano inconsci presagi di un “mondo messo a fuoco” da una sorta di “razzismo” artificiale: il robot contro la specie umana.

Le nostre paure provengono soprattutto da una non definita descrizione di cosa sia (e, quindi, cosa può fare) un robot.
In realtà, dagli stupendi automi meccanici del Settecento, fatti di legno e cuoio, ai cagnolini-robot per l’intrattenimento della Sony, ogni epoca ha avuto i robot che sono l’espressione più elevata del particolare momento tecnologico in cui sono stati costruiti (Metta, Sandini, Tagliasco, 2012).

In cosa consiste la robotica

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

La robotica spesso si è ispirata, più o meno consciamente, alla biologia [Biomimetismo]. A volte ha cercato di emulare le prestazioni più sofisticate dell’essere umano (sfruttando la mediazione dell’intelligenza artificiale); altre volte ha tratto ispirazione da organismi relativamente semplici (richiamandosi alla prima cibernetica e alle reti neurali).

La robotica autonoma è la scienza che studia i metodi per progettare e realizzare robot intelligenti in grado di svolgere dei compiti utili, di un certo livello di difficoltà, interagendo in un ambiente fisico senza richiedere l’intervento umano. Trae fortemente ispirazione dai sistemi autonomi naturali dato che sono i sistemi autonomi per antonomasia e sono in grado di svolgere in modo efficace una grande varietà di compiti in ambienti complessi e ostili. In alcuni casi, infatti, lo sviluppo di robot autonomi ha l’obiettivo di costruire delle macchine artificiali con caratteristiche fisiche e comportamentali analoghe agli organismi naturali, accrescendo così lo studio e la comprensione dei principi alla base dell’intelligenza biologica naturale e dei processi cognitivi e comportamentali degli organismi, tra cui animali e l’uomo (Carboni, 2002).

Possibili definizioni di robot

In realtà, la definizione di robot, è talmente ampia che anche un forno a micro-onde può essere considerato un robot. Altri studiosi, come Mackworth (1977), presidente della American Association for Artificial Intelligence, ritengono che i robot debbano avere uno scopo, ed agire in accordo ad esso.

Brooks (1986) ritiene:

«Per me un robot è qualcosa che ha qualche effetto fisico sul mondo, ma lo fa in base a come si percepisce il mondo e come il mondo cambia intorno ad esso. Si potrebbe dire che la lavastoviglie è un sistema robotico per i piatti di pulizia (…) Innanzitutto non ha alcuna azione di fuori dei confini del suo corpo. In secondo luogo, non conosce i piatti al suo interno (…) Non ha una comprensione del mondo che lo circonda in qualsiasi tipo di modo significativo».

I punti critici, per Brooks, sono quindi la possibilità di agire sul mondo, la capacità di percepirlo e, in definitiva essere situato nel mondo e percepirlo.
Wooldridge e Jennigs (1995), elencano le tre caratteristiche più importanti dei sistemi intelligenti: 1) Reattività: gli agenti intelligenti percepiscono l’ambiente e sanno rispondere ai cambiamenti che occorrono per raggiungere gli obiettivi fissati. 2) Proattività: gli agenti intelligenti sono capaci di comportamenti finalizzati all’obiettivo anche prendendo autonomamente l’iniziativa. 3) Abilità sociali: gli agenti intelligenti sono capaci di comunicare con altri agenti per raggiungere gli obiettivi.

Ma forse la migliore definizione è quella di Engelberger (2012), considerato uno dei padri della robotica, che, intervistato, disse «Non so definire cosa sia un robot, ma lo so riconoscere quando ne vedo uno!».
Una frase che rimanda al concetto di “mentalizzazione” e, dunque, alla predisposizione umana di attribuire al robot una forma di consapevolezza in cui, il robot avendo una mente, potrà dedurre a sua volta che altri l’abbiano (Lombardo, 2017); si richiama così a fine articolo lo scenario iniziale: il binomio di possibilità ha radice nella domanda “A cosa può servire tale consapevolezza?”. In altri termini il robot, essendo dotato di una mente – ovvero, comportandosi come l’uomo – sarà al servizio di esso o contro la specie umana?

Non dimentichiamoci dell’odore: questione di genere

La ketamina funziona come antidepressivo sui topi solo se somministrata da ricercatori maschi.
Uno studio di Georgiou, presentato alla società di Neuroscienze (SfN) a Washington e pubblicato su Nature Methods, ha mostrato come l’esposizione a ricercatori di genere maschile e non femminile produca l’attivazione dell’azione antidepressiva della ketamina nei topi.

 

Le proprietà antidepressive della ketamina

La neuroscienziata Polymnia Georgiou dell’Università del Maryland si è trovata inconsapevolmente ad approfondire il mistero degli effetti della ketamina, che ha importanti proprietà antidepressive, sul cervello; infatti nel 2015 un suo collega di laboratorio maschio le chiese di continuare un protocollo di ricerca, chiamato “forced swim-test”, per testare gli effetti antidepressivi della ketamina sul cervello dei topi.

Gli studi sulla ketamina sono sempre più numerosi in quanto questa sostanza psicoattiva ha potenzialità antidepressive che possono essere attive sui network cerebrali già poche ore dopo la sua somministrazione pertanto può essere utilizzata in ambito terapeutico con le forme di depressione più severe e in cui è presente una forte componente suicidaria (Gao, Rejaei & Liu, 2016).

La ricercatrice mise in atto minuziosamente l’intero protocollo iniettando nei topi sani la ketamina e immergendoli poi in una vasca piena di acqua per misurare quanto tempo avrebbero impiegato nuotando prima di arrendersi e chiedere aiuto ad altri topi presenti nella medesima vasca.

Nei precedenti esperimenti condotti dalla stessa equipe e che usavano lo stesso protocollo, i ricercatori, tra i quali erano presenti anche uomini, avevano osservato che il gruppo dei topi al quale erano stati somministrati antidepressivi tendeva a nuotare per più tempo e più velocemente rispetto al gruppo di topi non trattati farmacologicamente.

Tuttavia nel portare avanti l’esperimento del collega, la ricercatrice Georgiou notò che i topi trattati con la ketamina non nuotavano più nelle stesse modalità osservate nell’esperimento precedente; quindi si rese conto che l’effetto antidepressivo della ketamina si attivava soltanto quando la sostanza veniva somministrata ai topi da ricercatori di genere maschile.

L’odore e il cervello

Questi sorprendenti risultati portarono l’equipe di ricercatori guidati dalla Georgiou ad approfondire l’argomento e a ritenere che l’odore emanato dai ricercatori stessi potesse essere coinvolto e potesse determinare lo strano effetto osservato.

Per poter dimostrare il coinvolgimento dell’odore nell’attivazione degli effetti antidepressivi della ketamina, l’equipe di ricerca decise di inserire i topi, al momento della somministrazione della sostanza e prima di immergerli nella vasca, sotto un telo intriso di un fumo con un odore molto forte per evitare così che gli animali potessero avvertire l’odore dei ricercatori.

Questo stratagemma determinò l’eliminazione dell’effetto antidepressivo della ketamina senza che vi fosse il coinvolgimento dell’odore dei ricercatori di genere maschile.

Per cui i topi a cui era stata somministrata la ketamina non nuotavano più velocemente e tendevano ad arrestarsi come i topi a cui era stato somministrato il placebo.

Al contrario nella condizione in cui sotto il telo, accanto ai topi, veniva posta una t-shirt indossata da un uomo, si osservò l’effetto antidepressivo della ketamina nei topi iniettati con la sostanza, che nuotavano più velocemente e per più tempo rispetto ai topi con il placebo.
Questo fece concludere che l’odore dei ricercatori di genere maschile fosse necessario per l’azione della ketamina.

L’equipe di Georgiou ripeté l’esperimento con altri tipi di antidepressivi per osservare se tale effetto potesse essere generalizzato anche ad altri farmaci ma osservò che il genere dei ricercatori non era così influente sugli effetti dei farmaci.
Pertanto i ricercatori sospettarono che l’effetto antidepressivo soltanto della ketamina fosse il risultato di una specifica interazione tra questa e l’odore dell’uomo nel cervello dei topi (Zanos & Georgiou, 2016).

Altre evidenze (Sorge et al., 2014) suggerivano come il genere dei ricercatori potesse influire anche su esperimenti comportamentali, non soltanto su quelli coinvolgenti la ketamina.

Nello studio condotto da Sorge e colleghi (2014) infatti si dimostrò che i topi che erano esposti ad un forte stress rispondevano al dolore con meno frequenza quando erano i ricercatori maschi a sottoporli ad uno shock, come se la vicinanza dei topi a “stimoli di genere maschile” inducesse una più robusta risposta analgesica.

È bene precisare che questi risultati sono preliminari e che altri studi dovranno essere fatti per indagare più nel dettaglio gli effetti del genere maschile sulla ketamina e sul cervello dei topi” afferma Adrienne Betz, neuroscienziata comportamentale all’università di Hamden, Connecticut.

Si ritiene che queste ricerche pocanzi illustrate siano importanti da considerare in quanto mettono in luce come negli esperimenti scientifici fatti sia per indagare gli effetti dei farmaci sul cervello degli animali sia per studiare i loro comportamenti, vi siano altre variabili, molto spesso non indagate e trascurate ma altrettanto cruciali, che possono in qualche modo influenzare gli esiti della ricerca stessa e la riproducibilità degli esperimenti.

A detta di Todd Gould, neuroscienziato dell’università del Maryland: “i ricercatori che studiano gli effetti dei farmaci psicoattivi sul comportamento degli animali dovrebbero riportare nelle loro pubblicazioni il genere dei partecipanti all’equipe di ricerca per poter assicurare che altri laboratori possano poi avere tutte le informazioni necessarie per replicare lo studio, in quanto ci sono molte variabili intervenienti, come l’odore, ancora sconosciute che possono influire sui risultati della ricerca”.

La relazione tra gli stili di attaccamento e la soddisfazione coniugale

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e la nostra soddisfazione coniugale: riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci dunque a comprendere punti di forza e vulnerabilità in una relazione

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e a quanto ci riteniamo soddisfatti all’interno della nostra relazione. Ecco perché riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci a comprendere i nostri punti di forza ed eventuali vulnerabilità in una relazione. I modelli di attaccamento si formano nella prima infanzia e continuano a funzionare come modello operativo per le relazioni in età adulta.

Bowlby ha concettualizzato la teoria dell’ attaccamento (1973) come un sistema psico-evolutivo che guida il comportamento sociale “dalla culla alla tomba” (Bowlby 1979, p. 129), il cui scopo e’ quello di mantenere un livello ottimale e funzionale di prossimità con l’ altro significativo e soddisfare I propri bisogni primari. Da queste prime interazioni, ciascun individuo sviluppa uno schema (o set di risposte) chiamato modello operativo interno, con cui interagisce con il mondo (gli altri).

Questo modello contiene anche le diverse strategie di coping e I diversi stili di regolazione emotiva propri di ciascun individuo, e regola le aspettative che abbiamo nei confronti degli altri, arrivando ad influenzare anche le conoscenze e le future relazioni.

Di conseguenza, l’attività e l’importanza del sistema di attaccamento non sono limitate all’infanzia. Fino ad oggi, gran parte della ricerca empirica suggerisce che l’ attaccamento esercita un ruolo notevolmente importante nei rapporti tra adulti, in particolare nei rapporti romantici e coniugali. La maggior parte degli studi condotti finora ha inoltre dimostrato che esiste una correlazione significativa e positiva tra lo stile di attaccamento di tipo sicuro e la soddisfazione coniugale, e una correlazione significativa e negativa tra gli stili di attaccamento insicuro e la soddisfazione coniugale.

Diverse ricerche hanno dimostrato che quando esiste un modello di attaccamento sicuro, la persona si percepisce affidabile e autosufficiente, e diventa in grado di interagire facilmente con gli altri, riuscendo a soddisfare sia le proprie esigenze e i propri bisogni sia quelli dell’altro. Viceversa, quando è presente un stile di attaccamento ansioso o evitante, la persona tenderà a cercare un partner che si adatterà perfettamente a quel tipo di modello maladattivo.

In che modo lo stile di attaccamento influenza le nostre relazioni sentimentali?

Attaccamento sicuro – Gli adulti con attaccamento sicuro tendono ad essere più soddisfatti nei loro rapporti. Il bambino che sviluppa un attaccamento di questo tipo vede il caregiver come una base sicura da cui può allontanarsi per avventurarsi ed esplorare autonomamente il mondo. Quando diventerà un adulto,  tenderà ad instaurare un rapporto simile con il proprio partner, sentendosi sicuro, e non limitato nelle esplorazioni. La persona svilupperà quindi un legame basato sulla fiducia reciproca e considererà il partner come degno d’amore e se stesso come degno di essere amato.

Gli adulti sicuri sono inoltre capaci di offrire supporto emotivo  quando il loro partner si sente afflitto e sono altrettanto capaci di chiederlo nei momenti di difficoltà.

Attaccamento ambivalente ansioso – A differenza delle coppie sicure, gli individui con stile di attaccamento ansioso tendono ad instaurare legami caratterizzati da continue idealizzazioni. Da bambini, hanno sperimentato un legame di attaccamento con una madre “imprevedibile”, che li ha portati a sviluppare modelli operative interni di sé ambivalenti, arrivandosi a percepire a volte come individui degni d’amore e di rispetto, a volte invece, come deboli e indegni di ricevere amore. All’interno della relazione amorosa, questi individui diventano esigenti e possessivi quando percepiscono incertezza, quando quindi sono i MOI negativi a prevalere, mentre esprimerà sentimenti di amore e rispetto e penserà di essere amato, quando prevarranno invece Modelli operativi positivi di sé e dell’altro.

Attaccamento evitante – Le persone con uno stile di attaccamento evitante hanno la tendenza a distanziarsi emotivamente dal loro partner. Possono cercare spesso l’isolamento e sentirsi “pseudo-indipendenti”. Dall’esterno, spesso appaiono come troppo concentrati su se stessi e sulla propria realizzazione personale, mai emotivamente coinvolti del tutto nella relazione col partner. Da bambini questi individui hanno fatto esperienza di una madre che non dà sicurezza affettiva, percepita come fredda, rifiutante, mai disponibile a soddisfare I bisogni d’amore o di conforto. Questi individui nel corso della loro infanzia hanno sviluppato un modello operativo interno che li definisce come non degni d’amore e diffidenti verso il mondo esterno, percepito come cattivo, inaffidabile. L’adulto evitante quindi, per paura di un eccessivo coinvolgimento nella relazione e di una eventuale sofferenza, adotterà una posizione estremamente difensiva e distaccata.

In che modo le esperienze di un individuo nell’infanzia influenzano la soddisfazione coniugale?

La soddisfazione coniugale può essere considerata come costituita da diversi fattori, tra cui la condivisione di interessi reciproci, valori reciproci, la soddisfazione sessuale e gli stili di comunicazione (ad esempio, Fowers & Olson, 1989; Gottman, 1999). Essa può essere inoltre vista come il piacere derivato dall’essere consapevoli di una situazione confortevole, di solito legata alla soddisfazione di specifici desideri coniugali. La parola soddisfazione invece, si riferisce ad un atteggiamento, un attitudine. Di conseguenza, è considerata una caratteristica personale di una coppia. Hawkins (2004) definisce la soddisfazione coniugale come “sentimenti soggettivi di felicità, soddisfazione e piacere sperimentati dalla coppia quando vengono considerati tutti gli aspetti del matrimonio

Sembra chiaro che il senso di sicurezza che si avverte ogniqualvolta siamo in una relazione amorosa, sia un elemento chiave per poter parlare di soddisfazione del rapporto.

Una delle funzioni più basilari delle relazioni significative infatti, è quello di fornire un senso di stabilità, protezione e di sicurezza in un mondo che è così mutevole e minaccioso (Mikulincer, Florian, & Hirschberger, 2003).

Sembra inoltre, che la sicurezza nel legame di attaccamento sia una risorsa psicologica che consente agli individui di affrontare con maggiore successo le sfide della vita quotidiana e di quella coniugale e che coloro che godono di un forte senso di sicurezza di attaccamento abbiano anche matrimoni più duraturi e più soddisfacenti (Shiota & Levenson, 2007)

Le ricerche che condividono le stesse premesse teoriche, hanno rivelato che, rispetto agli adulti con stile di attaccamento insicuro, gli individui caratterizzati da attaccamento sicuro possiedono credenze più positive e ottimiste sull’amore romantico e credono che quest’ultimo possa durare nel tempo (Hazan & Shaver, 1987). Inoltre è stato osservato che le persone con questo stile di attaccamento  presentano aspettative sulla relazione più positive (Collins, 1996, Collins & Read, 1990), e godono di una maggiore soddisfazione coniugale (ad esempio, Brennan & Shaver, 1995, Collins & Read, 1990, Feeney, 1994, Feeney, Noller e Callan , 1994; Fuller & Fincham, 1995).

Altre ricerche hanno dimostrato che anche lo stile di vita è un fattore importante, capace di influenzare il livello di soddisfazione coniugale (Banse,2004) Di conseguenza, le coppie sposate che si ritenevano soddisfatte del loro matrimonio, adottavano uno stile di vita basato sulla cooperazione e sugli obiettivi condivisi. Quindi, sperimentavano una maggiore soddisfazione coniugale.

Alcuni studi hanno esaminato l’influenza dello stile di attaccamento all’interno di rapporti significativi utilizzando modelli di studio longitudinali. In uno studio longitudinale di Kirkpatrick e Hazan (1994) è stato osservato che in un periodo di 4 anni gli individui con uno stile di attaccamento sicuro avevano relazioni più stabili, ed erano più disponibili ad impegnarsi, rispetto a quelli con stile di attaccamento insicuro. In  un altro studio longitudinale durato 31 anni (Klohnen & Bera, 1998) si sono verificati risultati simili. Le donne classificate come sicure, all’età di 52 anni, erano più propense a sposarsi quando avevano 21 anni, avevano maggiori probabilità di essere sposate all’età di 27 anni e più probabilità di rimanere sposate nel tempo, oltre a riportare un livello di soddisfazione coniugale maggiore misurata all’età di 52 anni.

Shi Lin (2003) ha condotto una ricerca in cui veniva presa in esame la correlazione tra lo stile di attaccamento nell’adulto e la risoluzione dei conflitti all’interno della coppia. I risultati hanno mostrato che coloro i quali erano stati classificati come “sicuri” erano piu’ propensi alla risoluzione di conflitti arrivando a compromessi, mettendo da parte sentimenti di sfiducia o paura.

I partner con uno stile di attaccamento sicuro mettono impegno per raggiungere soddisfacenti livelli di comunicazione verbale (Collins & Read, 1990), reciproca discussione e comprensione (Feeney, Noller, & Callan, 1994) e sono meno inclini all’utilizzo di aggressività verbale.

In una ricerca condotta da MacLean, a 124 coppie è stato chiesto di compilare questionari relativi allo stile di attaccamento e alla soddisfazione coniugale. I risultati hanno dimostrato che mogli e mariti che riportavano il più alto livello di soddisfazione coniugale, erano entrambi appartenenti alla categoria di attaccamento di tipo “sicuro”, mentre le mogli più insoddisfatte erano nella combinazione evitante-evitante. Questi risultati possono essere interpretati alla luce del fatto che nella coppia evitante-evitante, entrambi gli sposi sono incapaci di soddisfare i bisogni dell’altro, avendo la tendenza ad evitare la prossimità.

In conclusione possiamo affermare che le esperienze precoci di vita e lo stile di attaccamento giocano un ruolo importante nella formazione e nel mantenimento di relazioni significative oltre che influire sulla scelta del partner.

Report dal Convegno Donna e Sport di Catania – 22 novembre 2017

Il Convegno che si è svolto il 22 novembre 2017 a Catania nei locali del Palazzo Platamone, è stato organizzato e promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana nella persona del Consigliere Dott.ssa Graziella Zitelli ed ha avuto quale Responsabile Scientifico il Presidente Nazionale dell’Ordine, Dott. Fulvio Giardina. Ha fatto da cornice all’evento la mostra fotografica dal titolo “Donna è Sport nell’Unità d’Italia 1861-2011”, un’esposizione corposa, costituita da 70 pannelli formato 1 x 2 metri che hanno testimoniato, attraverso 700 immagini e brevi didascalie, l’evoluzione dello sport femminile dall’Unità d’Italia ai nostri giorni.

 

Donna e sport: il processo di emancipazione della donna attraverso lo sport

Il tema Donna e sport è stato trattato dai relatori, con interventi che hanno spaziato dall’emancipazione della donna attraverso lo sport, alla psicologia dello sport, dal diritto allo sport alla “sport terapia” nella disabilità fisica e psichica, per concludere con l’importanza dello sport nella malattia oncologica ed i racconti delle atlete tra sfide e motivazioni.

Apre i lavori il Prof. Santo Di Nuovo, Direttore del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Catania e Presidente del Corso di Laurea in Psicologia, con la considerazione che, al di là di ciò che divide uomini e donne nella pratica sportiva, andrebbe considerato ciò che accomuna, ovvero ciò che prescinde dal genere: l’educazione allo sport.

Il Dott. Pierluigi Torresani, Esperto in processi formativi che opera presso l’ Università Cattolica di Milano, ha offerto una lettura di questo percorso di emancipazione della donna attraverso lo sport, proponendo spunti di riflessione rispetto al pensiero di Pierre De Coubertin, il barone francese principale artefice del movimento olimpico moderno nato alla fine del XIX secolo, che si opponeva risolutamente all’agonismo femminile per la differente fisiologia della donna e il diverso ruolo nella società che la rendevano, a suo avviso, inadatta all’attività sportiva. Ha inoltre ben trasmesso il punto di vista di Candido Cannavò, che ha ricoperto per 19 anni la carica di direttore della Gazzetta dello sport, il quale scriveva nella sua rubrica Candidamente: “di aver conosciuto le pioniere e le eroine, le grandi atlete capaci di sfidare il mondo. Il loro fascino si incrociava con il nostro stupore“. Secondo Cannavò in nessun settore, come quello dello sport, si è realizzato un superamento di qualità rispetto all’universo maschile, ed è in riconoscimento a ciò che ha dedicato molte prime pagine alle atlete che ne hanno fatto la storia.

Alla tavola rotonda è intervenuta la Dott.ssa Cristiana Conti, membro del direttivo dell’AIPS (Associazione Italiana Psicologia dello Sport), nonché ex-tecnico per gli sport da combattimento, che ha parlato dei predittori dell’impegno verso lo sport ed ha offerto un quadro dello sport al femminile, ancora caratterizzato da modelli culturali stereotipati.

Lo sport come terapia

Il Prof. Fabio Lucidi ha poi più volte parlato del concetto di retorica nello sport, nell’accezione di accrescimento dell’efficacia di un discorso, ad opera del già citato De Coubertin, per il quale lo sportivo doveva essere uomo in quanto freddo, agonista e competitivo; il che è in linea con quanto i media ancora oggi trasmettono da un punto di vista comunicativo parlando non sempre di atlete, bensì di “ragazze” che praticano sport.

Ha fatto seguito l’intervento di Claudio Pellegrino, delegato provinciale del C.I.P. (Comitato Italiano Paralimpico) Sicilia che ha sottolineato l’importanza dello sport come “terapia” per i benefici che apporta a livello fisico, psichico e sociale; ciò attraverso anche qui un’evoluzione che è passata da un punto di vista di riconoscimento normativo, tra i concetti di inserimento, integrazione, inclusione delle persone con disabilità. Da un punto di vista prettamente sportivo, solo nel 1984 il Comitato Internazionale Olimpico approva il termine Paralimpiadi, il quale sarà utilizzato ufficialmente ai mondiali di Seul dell’88.

Molto toccanti, le testimonianze delle atlete intervenute al convegno. Tra tutte quella dell’ex pallanuotista Giusy Malato ha fatto vibrare i cuori. La più forte della storia di questo sport, l’unica donna ad aver vinto la “Calottina d’oro” (2003), premio che viene dato ogni anno al miglior giocatore del mondo. Con la nazionale vinse l’oro alle Olimpiadi di Atene (2004), due titoli mondiali (1998, 2001), un titolo europeo (1999), 14 scudetti consecutivi (1992-2005) con l’Orizzonte Catania, squadra che nel 2007/2008 condusse da allenatrice alla vittoria in campionato e in coppa Campioni. Racconta della sua sostituzione, dopo aver deciso con sacrificio e determinazione di programmare anticipatamente il parto pur di ottemperare ai suoi doveri professionali. Nell’aprile del 2008 diventa mamma, trovandosi costretta a scrivere una lettera per dichiarare che all’origine del suo licenziamento c’era anche la maternità.

La Dott.ssa Maria Cristina Scuderi, dirigente medico presso la clinica Morgagni di Catania, in linea con uno degli obiettivi dell’evento, ha messo in evidenza infine, l’importanza dell’attività sportiva dopo un percorso di malattia oncologica, neurologica e cardiopatica quale promotore del benessere psico-fisico della persona.

Sei un ragazzo estroverso e guidi spesso? Attenzione! Le probabilità che tu possa distrarti alla guida sono alte

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

 

La relazione tra i tratti di personalità e la distrazione alla guida

Il primo studio che analizza come i tratti di personalità influenzino la distrazione del guidatore.

L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che, ogni anno, circa un milione di persone perdono la vita in incidenti stradali. I maggiori motivi di distrazione che possono contribuire al verificarsi di questi incidenti mortali sono l’utilizzo dello smartphone ed il cambio di stazione radiofonica durante la guida.

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

Inoltre, da precedenti studi dell’Institute of Transport Economics norvegese, è emerso come gli incidenti tendono a verificarsi nei due secondi successivi alla deconcentrazione e per questo motivo i ricercatori hanno ritenuto che la comprensione della distrazione da parte del guidatore ed un intervento focalizzato alla riduzione di questa aiuterà ad impedire incidenti stradali e contribuirà a salvare diverse vite.

Lavorando sull’efficacia di un intervento atto a ridurre la guida distratta, gli studiosi hanno dato ai partecipanti allo studio la possibilità di scegliere tra una lista di piani il cui scopo è quello di ridurre il proprio comportamento distrattivo (facendo, ad esempio, corrispondere frasi tra loro: “se sono tentato dal superare il limite di velocità in autostrada” – “poi mi ricorderò che è illegale”.). Nel frattempo ad un gruppo di controllo sono state fornite informazioni sulla guida distratta, senza che fosse data loro la possibilità di scegliere dei piani, come quello appena riportato ad esempio. Successivamente, a distanza di due settimane, è stata misurata la distrazione dei conducenti, confrontando i soggetti dei due gruppi.

È emerso che non vi erano differenze significative tra i due gruppi, sia coloro che avevano fatto dei piani sia coloro che avevano solamente ricevuto delle informazioni sulla guida distratta hanno mostrato un declino della distrazione alla guida. L’intervento incentrato sulla formazione di piani non è risultato efficace, sembra che essere semplicemente esposti al materiale sulla guida distratta sia sufficiente a rendere i partecipanti più consapevoli delle proprie distrazioni.

In base ai risultati ottenuti, i ricercatori stanno lavorando a futuri interventi. Si ipotizzano attività future focalizzate principalmente sui gruppi a rischio (ad esempio, giovani ragazzi) ed interventi in cui l’elaborazione dei piani non è fatta di corrispondenze tra frasi da selezionare da una lista, ma piuttosto che i soggetti creino dei propri, così da essere maggiormente coinvolti nell’intervento.

In attesa di questi passi avanti, il consiglio rimane quello di esser consapevoli di quanto le proprie piccole distrazioni alla guida possano divenire letali.

ACT per il dolore cronico – Report dal workshop esperienziale di Verona, 10 novembre 2017

Si è svolto a Verona nella giornata di venerdì 10 novembre il workshop esperienziale sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per il trattamento del dolore cronico e l’ottavo incontro nazionale dell’ormai collaudato GIS “ACT-for Health”.

 

L’analisi funzionale e l’assessment del paziente con dolore cronico

L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Ospite del workshop il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna e presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state quella della definizione della componente dolore, dell’importanza dell’analisi funzionale nell’assessment dei pazienti affetti da dolore cronico e come questa possa essere una componente utile ed essenziale nel trattamento con il paziente. L’obiettivo finale di tale approccio è proprio quello di aumentare la flessibilità psicologica dei pazienti, vale a dire la loro capacità di essere pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze, e contemporaneamente, agire in linea coi propri valori, verso le cose che sono importanti per loro.

Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Nanni, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume “Oltre il dolore cronico”, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo dato dall’approccio Acceptance and Commitment Therapy (ACT) a tutti coloro che si occupano di dolore, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.

Il dolore è un’esperienza soggettiva, universale, immediata, e molto spesso invalidante. Quello del dolore è un tema molto attuale essendo un problema la cui entità è destinata ad aumentare, in relazione sia alla maggior incidenza di numerose patologie a sintomatologia dolorosa, sia all’invecchiamento della popolazione. Da uno studio europeo, Pain in Europe 2005, emerge che il 19% è la percentuale di persone che soffrono di dolore cronico in Europa, l’Italia, con una percentuale del 26%, è al terzo posto. Dalla letteratura scientifica si evince che in Italia una persona ogni quattro soffre di dolore cronico (Breivik et al. 2006, Melotti et al. 2009 e Apolone et al.2009).

Dalla definizione nell’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore (IASP): “(il dolore) è un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, è quello che esprime il paziente ed esiste ogni volta che il paziente lo esprime”. Tale definizione pone l’accento su due caratteristiche fondamentali dell’esperienza dolorifica: la percezione soggettiva del dolore e la sua duplice componente, sensoriale e affettiva. Infatti il dolore, definito sempre dall’ Associazione Internazionale per lo studio del Dolore, in quanto “esperienza spiacevole”, implica sempre un’esperienza emotiva, generalmente negativa.

Un’ulteriore componente del dolore fa riferimento alla sfera cognitiva, con meccanismi come l’attenzione, l’aspettativa, il significato attribuito all’esperienza dolorifica. Proprio per tali motivi la comunità scientifica ha raggiunto un consenso nell’interpretare il dolore come un’esperienza multidimensionale in cui una componente prettamente sensoriale comunica in modo bidirezionale con una componente emotivo-cognitiva.

Il dolore cronico secondo il modello biopsicosociale

Da qui si evince la necessità di inquadrare l’esperienza dolorifica all’interno del modello biopsicosociale, teorizzato da Engel negli anni ’80 sulla base della concezione della salute descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale modello considera per ogni tipologia di disturbo, le interazioni tra i fattori biologici, psicologici e sociali.
 Il dolore può esistere in duplice natura: acuto o cronico. Il dolore acuto è normalmente caratterizzato da una durata breve e limitata nel tempo, generalmente tende a regredire con la guarigione/la cessione dello stimolo nocivo, purché non incorra nella cronicizzazione. Esempi di dolore acuto possono essere il dolore da parto o il dolore post-chirurgico. Un dolore acuto diviene cronico se per lungo tempo rimane invariato. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra dolore cronico benigno e maligno. Si parla di dolore benigno quando il dolore cronico è provocato da diversi tipi di lesioni o patologie, come ad esempio nella fibromialgia. Si parla invece di dolore maligno solitamente in rapporto al dolore oncologico.

La definizione di dolore secondo il modello ACT

Durante la prima parte dell’incontro il professor Nanni ha illustrato la definizione di dolore, ridefinendola in chiave ACT. Secondo tale approccio, esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello che è naturalmente connesso alla vita di tutte le persone. A volte può essere forte, a volte tenue, ma di questa componente di dolore non ci si può liberare facilmente in quanto non sarà mai sotto controllo (ad esempio il dolore che deriva da un lutto, o da una malattia fisica). Si fa riferimento al dolore sporco quando parliamo di sofferenza emotiva, che deriva dai nostri sforzi per controllare i nostri sentimenti, nel tentativo di non provare dolore. Come conseguenza della fuga dagli eventi interni spiacevoli, viene a crearsi un nuovo set di sentimenti dolorosi. Questo “dolore sul dolore” è chiamato “dolore sporco”. Questa componente di dolore è quella su cui il farmaco non può agire, e su cui si innesca spesso una disabilità, in un circuito vizioso che implica dolore, paura del dolore, evitamento delle attività e infine appunto disabilità e naturale sofferenza che ne consegue.

Tale modello si propone di aiutare i pazienti ad essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con l’esperienza di dolore. Mettendo in atto azioni volte a ridurre o cambiare gli eventi interni che non vorremmo, causiamo un’amplificazione della sofferenza, dove pensieri e sensazioni sono incrementati.

In questo modo il paziente lascia la sua vita “in attesa”, la pone al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT e quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperenziale per quello che sono e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie.

L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo ai pazienti affetti da dolore cronico una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza dolorifica.

L’ACT prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: accettare quello che è al di fuori del nostro controllo personale, come può appunto essere il dolore, mentre ci impegniamo nel fare qualunque cosa possa permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Lo scopo dell’ACT in queste patologie, sottolinea il professor Presti, è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta.

L’ACT pone le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Ancora una volta, Presti sottolinea l’importanza di un’adeguata analisi del comportamento e rivolge a chiunque voglia approcciarsi a tale tipo di intervento un ottimo consiglio: “Prima di iniziare un trattamento ACT, una solida analisi funzionale risulta necessaria”. Un’ulteriore esaltazione quindi della behavior analysis, su cui si basa appunto l’approccio ACT, inserito per questo ed altri motivi tra le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione.

Inoltre, il terapeuta ACT fa ampio uso di esercizi esperienziali costruiti per aiutare il paziente a entrare in contatto con: pensieri, sentimenti e sensazioni fisiche. Tali esercizi permettono di fare esperienza di particolari sensazioni in un contesto diverso e più sicuro. Elicitare esperienze difficoltose permette che queste siano osservate con l’esperienza.

Concludendo l’esperienza di dolore cronico comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi condotti in ambito ACT, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro flessibilità psicologica.

Quando la sofferenza bussa alla tua porta e tu la informi che non c’è posto per lei,
questa ti risponde di non preoccuparti, perché ha portato uno sgabello.
Chinua Achebe, da Arrow of God (1967, p. 84)

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, l’invito è quello di partecipare al prossimo incontro internazionale che si terrà a Roma a fine marzo del GIS “Act for Health”, gruppo questo che nasce con l’obiettivo di riunire tutti i clinici interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute, del benessere e non solo.

“Terapie iniziate e finite, più delle volte che ho scaricato e cancellato Grindr” – da una riflessione di Hobbes sulla condizione omosessuale al giorno d’oggi – Fluidsex

Michael Hobbes, scrittore e attivista per i diritti umani originario di Seattle, ha narrato a Huffpost quella che è un po’ sia la sua storia sia la storia della maggior parte delle persone omosessuali, in un contesto in cui i progressi sociali e legali sono stati i più ampi e rapidi della storia dei gruppi minoritari.

 

Le domande di Hobbes sull’omosessualità

La domanda principale a cui l’autore cerca risposta è: “Come mai, nonostante il sostegno pubblico per il matrimonio gay sia salito dal 27% nel 1996 al 61% nel 2016 e molte persone omosessuali siano uscite allo scoperto, rimane una forte disparità di benessere tra omosessuali ed eterosessuali?”
Come mai le persone omosessuali hanno in media meno amici intimi rispetto alle persone eterosessuali? Come mai i tassi di depressione sono più alti? E così anche le sostanze sono più utilizzate? Vengono riportati maggiori tassi di solitudine, autolesionismo e suicidi. Per non parlare dei più alti tassi di malattie cardiovascolari, tumori, allergie e asma (Stults et al., 2015; Ferlatte et al., 2015; Hottes et al., 2016). A cosa sarà dovuta questa epidemia che colpisce le persone omosessuali? (TOGETHER ALONE – The epidemic of Gay Loneliness).

Negli anni le spiegazioni date innanzi a queste domande sono state differenti. Inizialmente si riteneva che le disparità di comportamenti e patologie tra omosessuali ed eterosessuali facessero parte di una sintomatologia legata all’omosessualità stessa. Ma successivamente, quando non si trattò più l’omosessualità come una patologia, tale disparità fu collegata alla forte non accettazione degli omosessuali da parte dei familiari, degli amici e della società.

Il senso di solitudine delle persone omosessuali al giorno d’oggi

Ma al giorno d’oggi, in contesti in cui molti omosessuali non si nascondono più e possono anche costruire facilmente una rete con altre persone non eterosessuali, come mai questa disparità di salute rimane marcata? Come mai ci sono omosessuali che non sono mai stati aggrediti fisicamente o sessualmente che presentano sintomi da disturbo da stress post-traumatico paragonabili a quelli di persone che sono state violentate? (Keuroghlian et al., 2017) Come mai omosessuali che non sono mai stati rinnegati dalla propria famiglia, né sono mai stati vittime di bullismo omofobico vivono un così forte senso di isolamento?

Attualmente, per trovare risposta a queste domande, si fa riferimento al concetto di “stress minoritario”. Far parte di un gruppo emarginato richiede un maggiore stress e degli sforzi maggiori per star dentro ai differenti contesti. Gli omosessuali, a differenza di altri gruppi minoritari, vivono un’ ulteriore aggravante connessa al fatto che il proprio stigma può essere nascosto. Ad esempio, un giovane ragazzo omosessuale dalla pubertà utilizzerà moltissime energie pensando a come comportarsi, a cosa dire e a come rispondere a determinate domande, senza poter condividere con le persone vicine questa fatica, in quanto il proprio stigma non è manifesto finché non sarà la persona stessa a volerlo rendere tale.
A questo proposito il ricercatore Hottes, amico di Hobbes, afferma che “non c’è bisogno che qualcuno ti chiami frocio perché tu debba regolare il tuo comportamento per evitare di essere chiamato così”. La regolazione dei propri atteggiamenti e comportamenti è un pensiero di controllo costante, un’incessante auto-osservazione.

Nascondere la propria omosessualità è come convivere con qualcuno che ti tocca insistentemente il braccio. All’inizio è snervante. Dopo un po’ diventa esasperante. Alla fine, non ti permette di pensare ad altro” (Elder, 2015).
Proprio nell’arco temporale incluso dal momento in cui una persona riconosce il proprio orientamento sessuale al momento in cui inizia a dirlo a qualcuno, i piccoli stressor quotidiani vengono vissuti con effetti eccessivi e non perché siano fortemente stressanti per propria natura, ma in quanto la persona inizia ad aspettare continuamente il loro arrivo (Pachankis et al., 2015). In altre parole, le persone rimangono costantemente attivate in attesa dell’eventuale verificarsi di questi eventi. Ritornando così al concetto che, anche in assenza di prese in giro, la persona continua ad auto-monitorarsi, percependosi in un sottile, ma perpetuo stato di rischio.

Non deve accadere molte volte (di essere, ad esempio, insultati in pubblico, senza esser mai stati attaccati fisicamente) prima di iniziare ad aspettarsi altro, prima che il cuore inizi a battere più velocemente ogni volta che si vede una macchina avvicinarsi”.

A proposito di stressor la scienza ha rilevato che le persone omosessuali producono meno cortisolo dei loro pari eterosessuali. Sembra che gli adolescenti omosessuali producano costantemente così tanto ormone dello stress, da determinare velocemente un decadimento del sistema di produzione ormonale, come accade naturalmente nel caso di persone eterosessuali in età adulta (Austin et al., 2016).

Queste disparità non sembrano ancora totalmente spiegate, essendo il vissuto interiore delle persone, sia legato ai movimenti e ai cambiamenti sociali sia per certi versi indipendente da essi o probabilmente solo più lento di loro nell’evolversi.

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gerontofilia: l’attrazione sessuale verso le persone anziane

Il termine gerontofilia deriva dal greco geron che significa anziano e philia cioè amore, affinità. Indica l’attrazione sessuale specifica, tendenzialmente esclusiva, verso persone anziane da parte di soggetti molto più giovani. Seppur né il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) né la Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati (ICD) hanno mai inserito un riferimento specifico a questo disturbo, in contesti forensi può essere classificato negli slot diagnostici del DSM 5, come “altra specificazione” o come “Disturbo Parafilico non specificato” (APA 2013, p. 705).

Maria Carlucci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

La parafilia e il disturbo parafilico

Recentemente, il DSM 5 ha introdotto un importante cambiamento in tema di parafilia/comportamento parafilico. Vengono considerate parafilie tutti quei comportamenti sessuali atipici per i quali il soggetto sente una forte e persistente eccitazione erotico-sessuale; tale condizione erotica è vissuta in perfetta egosintonia. Quando il comportamento parafilico invece, diventa una forma di dipendenza e il soggetto accusa un certo disagio interpersonale (egodistonia), allora è utile introdurre il concetto di Disturbo Parafilico. Il Disturbo Parafilico è quindi una parafilia, ma il soggetto, oltre ad avere un intenso e persistente interesse sessuale per particolari attività erotico-sessuali, vive l’esperienza e i vissuti parafilici con disagio, tanto da arrecare danni a se stesso e/o agli altri.

Gli studi sulla gerontofilia

Per quanto riguarda la gerontofilia, le descrizioni psicopatologiche variano, i casi sono scarsi e la riflessione medico/psicologica resta ancora tutta da scrivere.

Secondo l’ottica psicoanalitica, le cause del disturbo potrebbero essere riconducibili al mancato superamento dei complessi infantili di Edipo (per la madre) e di Elettra (per il padre). Si tratta certamente di una manifestazione della sessualità insolita che non deve essere necessariamente etichettata come “sbagliata” o “anormale” ma che diventa tale nel momento in cui l’oggetto di attrazione è una persona non consenziente o comunque soggetta ad umiliazione e sofferenza.

D’ altro canto, i case reports presenti in letteratura, generano spesso più domande che risposte.
Ad esempio una Letter to Editor pubblicata su Lancet, riporta i casi di 3 uomini, rispettivamente di 68, 82 e 85 anni che avevano avuto rapporti sessuali con donne anziane e cognitivamente compromesse, di età compresa tra gli 85 ed i 104 anni. Dato che gli uomini si erano rivelati come condannati in passato per violenza sessuale su minori, gli autori hanno sollevato la questione se i soggetti siano virati con il passare del tempo “da pedofilia a gerontofilia“.

Diversi studi, hanno tentato di dare informazioni sui sex offenders che prenderebbero di mira le persone anziane, ed alcuni di questi evidenziavano che la maggior parte degli abusi sessuali si verificano in strutture residenziali.

Recentemente, un articolo del 2014, riportava i risultati di una ricerca relativa a 119 presunti “sexual abusers” statunitensi (32 dei quali confermati come colpevoli) che sono stati segnalati alle autorità statali come abusatori di persone anziane residenti in strutture di cura; il più grande gruppo di accusati erano impiegati delle strutture di accoglienza oppure residenti nelle strutture stesse. Le caratteristiche degli abusatori che vittimizzavano sessualmente gli anziani erano prevalentemente: malati mentali, abusatori di sostanze o personalità con tratti dominanti o sadici.

In aggiunta, Holt (1993) ha riferito che la maggior parte degli offenders, in 90 casi di sospetto abuso sessuale verso anziani in Gran Bretagna, erano maschi e spesso impiegati del centro che forniva cure e l’abuso si era verificato all’interno delle residenze stesse.
Ovviamente nei casi di gerontofilia non consensuale, ad esempio con anziani malati che subiscono violenze sessuali, passiamo nel campo legale propriamente detto.

Uno studio americano del 2006 asseriva che le aggressioni sessuali che si verificavano in strutture venivano raramente segnalate alle forze dell’ordine ed i colpevoli erano spesso residenti della struttura coinvolta.

Nel nostro Paese la violenza sugli anziani è poco segnalata all’Autorità Giudiziaria, eppure la tendenziale crescita demografica della popolazione di età avanzata ha posto la società di fronte al problema dell’assistenza agli anziani.

Analizzando i casi di abuso sugli anziani, riferendosi agli articoli del Codice Penale, è stato constatato che, in un intero quinquennio, sono giunte all’osservazione della magistratura solamente pochissime denunce. I casi di “maltrattamento” ai danni delle persone di età avanzata che giungono alla Magistratura sono presumibilmente una minima parte della reale presenza del fenomeno.

Prendendo in esame l’ordinamento giuridico vigente in Italia, nel Codice Civile non vi sono riferimenti diretti agli anziani. Alcune citazioni si riscontrano, per contro, nella legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, la Legge 833/78, all’interno della quale si annovera, tra gli obbiettivi del nostro Sistema Sanitario Nazionale, la “… tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e rimuovere le condizioni che potrebbero concorrere alla loro emarginazione …”.

Analogamente, nel Codice Penale vi sono rare citazioni specifiche di tale figura; in merito a tale codice gli articoli che richiamano in modo più specifico al fenomeno della violenza contro le persone anziane sono quelli di “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, di “Abbandono di minore o incapace”, di “Violazione degli obblighi di assistenza familiare” e di “Circonvenzione di incapace”; in misura meno specifica sono coinvolti, inoltre, i delitti di “Lesioni personali” e di “Violenza sessuale”.

Attenendosi ai dati raccolti dall’ISTAT relativi all’anno 2005, all’interno della popolazione italiana i soggetti con più di sessantacinque anni sono ben il 20%. Applicando a tali numeri la stima dell’incidenza del fenomeno proposta dal NEAIS (National Elder Abuse Incidence Study) relative alle altre nazioni europee, ci si dovrebbe aspettare un numero annuo di casi di maltrattamento, in Italia, che si avvicinerebbe alle 500.000 vittime. È evidente, pertanto, quanto il fenomeno dell’abuso sull’anziano debba necessariamente iniziare ad essere considerato ed approfondito soprattutto da parte dei medici operanti in strutture pubbliche ed in residenze assistenziali, e degli operatori sanitari che si trovano quotidianamente a contatto con gli anziani; essi, infatti, rappresentano spesso l’unico accesso ai visibili segni di “maltrattamento” dell’anziano costituendo per la vittima una delle poche risorse di tutela cui possa fare riferimento.

Ecce Bombo (1987) – Nanni Moretti e la generazione post-sessantottina

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo. Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina.

 

L’arte ci attrae solo per ciò che rivela del nostro io più intimo. (Jean Luc Godard)

La domanda è però “sappiamo cosa si nasconde nel nostro io più intimo?”

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo.

Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina, di quei ragazzi senza scopi, senza direzioni, privi di spinta motivazionale sia a livello politico che sociale, complice sarà stata l’ironia che lo contraddistingue. “Il film non doveva far ridere

Il percorso psicoanalitico in Ecce bombo

Il percorso è quello di individuazione, l’analisi è evidente. L’arte, come citato, lo aiuta. La frase è di Jean Luc Godard, il fondatore della Nouvelle Vague, corrente da cui trae ispirazione Nanni Moretti e che in Ecce bombo più che mai è del tutto evidente. E’ evidente a partire dalle inquadrature, per passare ai dialoghi improvvisati e gli attori non attori, la caratteristica che crea il distacco e risponde alla domanda è che attraverso il film si intraprende un percorso psicoanalitico, tipico della filmografia Morettiana.

La storia di Ecce bombo è quella di Goffredo, Vito, Mirko e lui, Michele, il protagonista.

Michele ed i suoi amici si sono da poco diplomati. Il malessere del tempo sprecato al bar, dei difficili rapporti con le famiglie, la mancanza di obiettivi da perseguire, la difficoltà nei rapporti sentimentali e l’incomunicabilità con gli altri porta i ragazzi a voler intraprendere in maniera gruppale e del tutto autonoma un percorso di autocoscienza. Ci si interroga sulle tematiche più disparate, ma gli argomenti preferiti sono sempre gli stessi, in fondo, si parla di sentimenti, il senso di vuoto, il tempo, la noia, il qualunquismo, la difficoltà nell’approcciarsi alla socialità, il non essere capiti, il disagio di molti, nelle cose più banali.

No veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no…ah no: se si balla non vengo. No, no…allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele vieni in là con noi dai…” e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo…”. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci.

ECCE BOMBO – LA SCENA DA CUI E’ TRATTO IL MONOLOGO RIPORTATO:

E’ evidente con questo dialogo/monologo di Michele al telefono con un suo amico che lo sta invitando ad una festa l’insicurezza del personaggio. Chi sono? Cosa voglio?

Il problema cruciale di Michele Apicella è proprio quello dell’identità,di stabilire chi egli sia e quali siano i suoi rapporti con il resto del mondo. Ma non è il solo, e il gruppo di autocoscienza che creano i quattro amici, lo chiarifica. Ognuno di loro si identifica con l’altro, cerca una spalla ma diventando un gruppo e pensando alla teoria psicoanalitica di Bion sui gruppi, in effetti questi diventano una mente unica e la risposta non può arrivare, perché dal “chi sono io?” la domanda passa al “chi siamo noi?”. La base quindi rimane uguale.

La teoria del gruppo di Bion in Ecce Bombo di Nanni Moretti

Vediamo meglio la teoria del gruppo per Bion.

L’uomo è un animale sociale e, nel confronto con gli altri, sperimenta un’apparente contraddizione: il confronto con il gruppo determina la perdita di individualità, frutto di una regressione inconscia. Per tale ragione, il gruppo è causa di grandi frustrazioni per i suoi membri. Allo stesso tempo, però, l’uomo è attratto verso la socializzazione poiché, grazie al gruppo, può sperimentare il senso di appartenenza e soddisfare parte dei propri bisogni materiali e psicologici e questo è proprio il caso evidenziato nel film di Nanni Moretti, Ecce bombo.

Nei gruppi gli individui sperimentano, quindi, due tipi di attività e di stati mentali: uno cosciente e razionale, l’altro incosciente e pulsionale. Il primo è definito “gruppo di lavoro” ed è legato al conseguimento di traguardi concreti, esplicitamente dichiarati in vista del raggiungimento di un determinato risultato. A questa attività cosciente si alterna costantemente una dinamica inconscia, derivante “dai contribuiti anonimi dei singoli membri che inconsciamente mettono in comune stati emotivi fortemente regressivi, a motivo dei quali essi perdono parte della loro individualità e acquistano il sentimento di appartenenza al gruppo, sentito come un’entità distinta dalla somma dei singoli membri”. Nel gruppo emerge e si sviluppa un’esperienza sensoriale, affettiva, emotiva, inconscia, una “vita propria” definita come “mentalità di gruppo” o “gruppo di base”. I membri, in seguito ad una regressione inconscia, rinunciano a qualcosa di se stessi, nel momento in cui agiscono come parti del gruppo, da esso condizionati. È importante occuparsi delle dimensioni emotivo-affettive che appartengono al mondo inconscio del gruppo, poiché esse interferiscono continuamente sul gruppo di lavoro, cioè sull’esecuzione del compito.

Bion individua tre modalità di funzionamento del gruppo, dette “assunti di base” vere e proprie fantasie inconsce di tipo magico-onnipotente che il gruppo produce per raggiungere gli obiettivi e  per risolvere i problemi.

Esse rappresentano difese adottate dal gruppo nei confronti dello sviluppo-trattamento, con lo scopo di non far provare al gruppo la frustrazione legata all’apprendimento dall’esperienza, soggetta – per sua natura – a sforzo e a dolore. Essendo inconsce, sono al di fuori della consapevolezza dei membri ed ostacolano l’attività attraverso forti tendenze emotive. A questo proposito, Bion distingue tre assunti di base: 1) di dipendenza: 2) di accoppiamento; 3) di attacco-fuga.

Il primo descrive la situazione secondo cui il gruppo si riunisce allo scopo di dipendere da qualcuno o da un capo, il quale può risolvere tutti i problemi e sul quale vengono proiettate molte aspettative. Il secondo si riferisce all’attesa o alla speranza di un evento o di un individuo, un Messia, che risolva tutti i problemi del gruppo. Il terzo assunto di base è caratterizzato da una convinzione globale secondo cui esiste un nemico esterno da cui difendersi o attraverso l’evitamento/fuga o tramite l’attacco e poi la fuga.

L’oscillazione tra i due stati mentali – quello razionale consensuale e quello inconscio collusivo – dà origine alla “cultura di gruppo”, cioè alla sua struttura organizzativa vivente, alla sua attività reale, al suo sistema relazionale interno che, secondo Bion, è un tentativo di mediazione automatico e non cosciente tra il gruppo considerato come realtà autonoma e l’individuo.

Questi assunti si intravedono in qualche modo nella pellicola di Ecce Bombo: questo rimando ipotetico e semplice in qualche modo è la chiave della trama del film e del processo di individuazione di Michele e dei suoi amici, per cui evidentemente non può calzare troppo la sopra descritta teoria psicoanalitica del gruppo per il loro processo di individuazione.

Le diverse caratteristiche dei personaggi emergono inevitabili; in queste riunioni infondo non si intraprende un percorso analitico, infatti, tutto ruota intorno una fluttuazione inconcludente di argomenti e problematiche personali esistenzialistiche. Le differenze personologiche si manifestano e a lungo andare, ognuno di loro, Michele soprattutto si distaccherà per procedere con un processo di individualizzazione personale, forse anche se vogliamo di maturazione, che Nanni Moretti, simboleggia magistralmente e metaforicamente nell’ultima scena, quella in cui tutti gli amici dovrebbero andare a trovare Olga, un amica comune, ma dove arriverà solo Michele.

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