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L’incidenza del fenomeno dello Stalking tra gli Health Care Professional

I motivi dell’alta incidenza di vittimizzazione si possono rintracciare nella natura stessa della professione d’aiuto (Pathè, Mullen e Purcell, 2002); professione che prevede l’instaurarsi della relazione con soggetti spesso inseriti in un quadro di sofferenza e disagio. In alcuni di loro l’intervento di cura dell’ HCP può essere frainteso nei termini di interesse romantico, suscitando reazioni aggressive e comportamenti insistenti e molesti o di stalking vero e proprio, quando l’approccio romantico non è ricambiato (Laskowsky, 2003).

 

Percentuali delle molestie subite dagli HCP

L’acronimo HCP (Health Care Professional) identifica le professioni dedite alla cura di altre persone: gli psicologi, psicoterapeuti, medici, psichiatri, infermieri, paramedici, operatori sociali, ecc.

In ambito di sicurezza sul posto di lavoro, la tematica della violenza ed il rischio di molestie per gli HCP è ormai nota. In letteratura emergono una serie di ricerche che coinvolgono professionisti della cura; i dati sottolineano l’estensione e gravità del fenomeno. Miller (1985), ad esempio, in uno studio a cui hanno partecipato 480 psichiatri forensi ha evidenziato come il 42.08% era stato vittima di una qualche forma di molestia: il 17.1% era stato minacciato di lesioni fisiche, il 12.9% di azioni legali e il 2.9% ha subito aggressioni. In una successiva ricerca è emerso che il 41.1% degli psichiatri coinvolti aveva subito molestie, mentre il 28.9% si riteneva vittima di stalking (Brown, Dubin, Lion e Garry, 1996). In Australia e Nuova Zelanda la percentuale di vittime tra 103 chirurghi plastici è del 20.4% (Allnutt, Samuels e Taylor, 2009).

In Gran Bretagna, dalla ricerca di Hudson-Allez (2002) è emerso che circa il 25% degli psicoterapeuti ha subito una campagna di stalking. Tra gli psichiatri, il 20.7% dichiarava di essere interessato dal fenomeno (McIvor, Potter e Davies, 2008). Negli USA Gentile (2001), in una prima ricerca, ha studiato le molestie coinvolgendo 238 psicologi; emerge che il 10.1% era stato vittima di stalking. Nella ricerca successiva, su psicologi operanti nei servizi di salute mentale, il 10.2% si è dichiarato vittima. Una ricerca di Galeazzi, Elkins e Curci svolta in Italia nel 2005, prima che entrasse in vigore il reato di stalking, ha coinvolto 361 HCP psichiatrici; il 33.2% si è dichiarato vittima di almeno un episodio di molestie mentre l’11.1% di stalking.

Motivazioni dello stalking

I motivi dell’alta incidenza di vittimizzazione si possono rintracciare nella natura stessa della professione d’aiuto (Pathè, Mullen e Purcell, 2002); professione che prevede l’instaurarsi della relazione con soggetti spesso inseriti in un quadro di sofferenza e disagio. In alcuni di loro l’intervento di cura dell’ HCP può essere frainteso nei termini di interesse romantico, suscitando reazioni aggressive e comportamenti insistenti e molesti o di stalking vero e proprio quando l’approccio romantico non è ricambiato (Laskowsky, 2003): gli psichiatri e psicoterapeuti risultano essere soggetti più a rischio di vittimizzazione in quanto hanno accesso alle emozioni di persone che sovente presentano disturbi della sfera emotiva.
Dal punto di vista psicopatologico, nella ricerca di Galeazzi (2005) condotta in Provincia di Modena su 475 HCP operanti nel servizio pubblico ed in regime privato, il 45% degli stalker (38 con diagnosi primaria) aveva un disturbo psicotico, il 14% un disturbo di personalità, di cui il 13% rientrava nel cluster B.

Conseguenze della vittimizzazione e strategie di difesa degli HCP

Le più importanti conseguenze emotive e fisiche della campagna di stalking sugli HCP risultano essere la paura, la rabbia, il sentimento di impotenza, l’ansia, il nervosismo, la depressione, i disturbi del sonno, lo stress, l’irritabilità e gli incubi.

Dalle ricerche emergono due strategie di difesa messe in atto quando gli HCP sono oggetto di attenzioni moleste e aggressive da parte dei pazienti: la negazione e la minimizzazione.

Le aggressioni ed i comportamenti intrusivi indesiderati sono considerati un correlato della professione, la naturale aspettativa verso il curante da parte di soggetti con problemi emotivi, relazionali e psichici; la negazione è la reazione di difesa che pone gli HCP nella condizione di ignorare una situazione di pericolo allo scopo di riuscire a continuare il proprio lavoro. Come si evince dalla letteratura citata precedentemente, gli HCP coinvolti nelle ricerche hanno infatti cercato maggiormente aiuto tra i colleghi che condividono le stesse difficoltà con gli utenti.

Nonostante le conseguenze della vittimizzazione, indicate da Littel (1999) in termini di soul-destroying, spesso i professionisti della cura non denunciano i perpetratori alle forze dell’ordine o agli organi di vigilanza interni alle strutture dove esercitano; la motivazione è stata cercata ed individuata proprio nell’ambito appena descritto del rapporto tra professionista e paziente (cfr. Sandberg, McNiel e Binder,1998), Smoyak, 2003), Brown, Dubin, Lion e Garry, 1996).

Un ulteriore elemento utile nell’approccio al professionista con evidenti segni di stress causati dalla vittimizzazione è il timore che la denuncia si ripercuota contro di sé, suscitando nei superiori e colleghi scetticismo rispetto le capacità di intervento e relazionali. Gli autori che seguono la teoria dell’attaccamento sostengono che la motivazione che spinge il perpetratore a mettere in atto la campagna di stalking possa essere rintracciata nello sviluppo di un attaccamento insicuro, il quale genera incapacità di leggere la relazione terapeutica per quello che è, alimentando aspettative con polarità diverse da quelle prettamente professionali. In altri casi lo stalker potrebbe ritenere di essere stato oggetto di una ingiustizia o torto da parte dell’HCP. In entrambi i casi, se il meccanismo non è ben chiaro ai colleghi di lavoro oppure ai responsabili diretti, si tende ad attribuire la colpa alla vittima (professionista), supponendo che non sia stato in grado di leggere la relazione. Si avrà in questo modo una duplice attribuzione ingiusta di colpa, da una parte il paziente distorce le intenzioni, dall’altra i colleghi o superiori scambiano il transfert con il controtransfert.

In letteratura, dalla ricerca sul campione italiano, il 42.5% delle vittime del fenomeno ritiene che il fraintendimento sia il motore della campagna di stalking, per il 12.5% sia la vendetta e nel 7.5% dei casi è stata la conclusione della relazione terapeutica (fine presa in cura).
Le interazioni relazionali della diade terapeuta/paziente si inseriscono nella complessa attività di generare senso e significato rispetto se stessi e la realtà esterna, attività che, inserita nello scambio verbale e non verbale, implementa processi emotivi; il terapeuta potrebbe esperire spavento, inquietudine eccitazione, collera, avvilimento (Secchi, 2003) a seguito delle molestie.

A sostegno, viene specificato che l’obiettivo degli agiti dello stalker sia proprio quello di suscitare una intensa reazione emotiva nel terapeuta, col fine di determinare una incapacità di contenimento e interpretazione.

Quando il setting e la relazione terapeutica sono oggetto di attacchi, il terapeuta può arrivare a provare angoscia persecutoria. In genere il confine terapeutico viene travalicato dal paziente tramite lettere, telefonate, regali, pedinamenti e appostamenti sempre più frequenti.

L’errore frequente dello psicologo/psicoterapeuta può essere quello di leggere gli agiti del paziente non come riflesso della campagna di stalking, ma assumendosi lui stesso la responsabilità di quanto accade, pensando erroneamente di aver commesso degli errori di tecnica o spiegando le molestie come segno della sofferenza del paziente.

Una ricerca in Italia sullo stalking tra gli HCP

Nel 2009 il gruppo di ricerca sullo stalking, guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), dalla Dott.ssa Valentina Pristerà e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha attivato un progetto di ricerca per valutare l’impatto del fenomeno sugli HCP in alcune realtà ospedaliere italiane.

Il campione del progetto era composto da 1072 professionisti della cura, 73.04% di genere femminile. La percentuale di HCP che si sono dichiarati vittime di stalking è il 14.9% (160 casi), di cui l’85% di genere femminile. Gli stalker di genere maschile sono il 70.6% mentre le donne stalker sono il 18.1%.

Per quanto riguarda le conseguenze fisiche, il 28.1% delle vittime esprime di non aver avuto conseguenze, mentre i disturbi del sonno, la stanchezza e gli attacchi di panico sono i principali disturbi fisici emersi. Tra i sintomi emotivi maggiormente dichiarati ci sono ansia, rabbia e paura.

La prevenzione

In ambito preventivo si consiglia ai professionisti della cura di porre maggior attenzione al mantenimento dei confini con i pazienti, evitare confusione tra il coinvolgimento personale e professionale, di fornire informazioni personali e segnalarne i casi nelle riunioni d’equipe o in supervisione di gruppo.
Per quanto concerne le strategie di coping, la più comune risulta essere la ricerca di supporto tra i colleghi più che tra amici e famigliari. Una ulteriore strategia adottata è l’adozione di maggiori precauzioni sul lavoro, che si riflette nel porre ulteriore attenzione all’accettazione di nuovi casi fissando un numero massimo di pazienti da poter prendere in carico.

Elenco delle strategie preventive (Kaplan, 2006):
Quando si ha un nuovo paziente, delimitare subito i limiti. Definire cosa è una relazione terapeutica e i suoi confini.
Fornire l’indirizzo di lavoro e non di casa alle associazioni di cui si è membri e all’ordine, sui motori di ricerca devono apparire solo le informazioni di base con gli indirizzi e i recapiti di lavoro; non fornire informazioni su social network; evitare foto di famiglia e altri dettagli personali sul luogo di lavoro.
Valutare il rischio rappresentato dal paziente (fattori di rischio, storia…).

È importante ricordare che le conseguenze della campagna di stalking sugli HCP non si manifestano solo sul professionista, ma anche sui famigliari, sullo staff e sugli altri pazienti; quest’ultimo punto è di particolare interesse in quanto il cambiamento del comportamento professionale incide sullo sviluppo di maggior distacco emotivo a svantaggio della relazione stessa di aiuto. Di conseguenza, è necessario che l’intervento verso gli HCP vittime sia tempestivo per permettere al professionista di prendersi cura dei malati e scongiurare l’incapacità di essere in grado di operare nel lungo periodo.

Elenco delle strategie di intervento (Kaplan, 2006):
In caso di comportamenti molesti terminare il caso o passarlo ad un altro collega.
Fare attenzione a come il proprio comportamento può inavvertitamente rinforzare il comportamento dello stalker.
Far sapere ai colleghi/associazioni che si è vittime di stalking e avvisare i collaboratori e le persone che lavorano nello stesso posto.
Documentare tutti gli incidenti, trattenendo le prove.
Prendere contatti con esperti in stalking.
Contattare la polizia, assicurandosi la massima discrezionalità.
Cercare aiuto per intervenire sulle conseguenze psicologiche della vittimizzazione: rabbia, sentimento di impotenza, frustrazione e delusione rispetto alla professione.

In letteratura sono presenti diversi approcci utili per sostenere gli HCP vittime di stalking.
Il primo è l’aspetto psicoeducativo; può essere utile per diminuire i dubbi su di sè, i sentimenti di colpa associati con la situazione, la condizione di essere vittima e la necessità di proteggere se stessi. Gli obiettivi di questo tipo di intervento non sarebbero tanto quelli di focalizzarsi sulle scelte “sbagliate” delle vittime, bensì fornire una spiegazione sul funzionamento dello stalker, gli aspetti patologici associati alla campagna di stalking e sviluppare la consapevolezza che non si è l’unica vittima, chiarimenti che altre persone stanno vivendo le stesse esperienze.

Un altro approccio è il sostegno psicologico, indipendentemente dal tipo di paradigma di riferimento (psicodinamico, comportamentale, cognitivo ecc.). La campagna di stalking ha un peso non indifferente sulla resilienza e l’equilibrio psicofisico del soggetto molestato; frequentemente si esperisce un senso di estrema vulnerabilità, legato a uno stato di disagio in previsione di un possibile assalto. Tecniche quali la desensibilizzazione, l’EMDR, il rilassamento e la terapia per il trauma sono particolarmente efficaci.

Ultimo approccio sono i gruppi di auto-aiuto; riducono la sensazione di essere le sole vittime, sviluppando tra i partecipanti un senso di comprensione reciproca, si condividono consigli, esperienze e strategie incrementando la capacità di fronteggiamento del distress.

In ultima analisi:

come professionista della cura ritengo che il HCP non debba difendersi dal paziente, non rappresenta un pericolo; il suo compito è comprendere in modo preciso le dinamiche interpersonali per evitare di entrare nel circolo disfunzionale dello stalking. Aspetto che, oltre a salvaguardare la salute del professionista, potrebbe essere un punto di partenza per aprire un nuovo frangente di lavoro col paziente (spesso inconsapevole del comportamento potenzialmente molesto).

Pregiudizi e differenze di genere nella gestione del paziente TGNC

Dato il complesso panorama relativo all’ identità di genere, l’APA ha pubblicato delle specifiche linee guida con lo scopo di fornire agli specialisti un supporto nella pratica clinica con pazienti TGNC (Transgender and Gender Nonconforming People), termine che raccoglie tutte le identità di genere che non si riconoscono col sesso assegnato alla nascita.

 

I terapeuti nella loro attività clinica si trovano di fronte una vasta gamma di condizioni e situazioni in cui sono chiamati a confrontarsi col mondo interiore e il vissuto del paziente, la maggior parte delle volte su temi delicati e complicati. La sfera dell’ identità di genere è fra questi.

Dal complesso panorama dell’ identità di genere ai pazienti TGNC

L’ identità di genere può non corrispondere al sesso assegnato alla nascita o alle caratteristiche primarie e secondarie e si riferisce al senso coerente e profondo del riconoscersi come maschio o femmina (APA, 2015). Ma non solo. L’APA allarga il ventaglio delle definizioni aggiungendo un termine cappello che raggruppa gli individui la cui identità di genere non rientra nella tradizionale idea binaria: il genderqueer. Chi si identifica come tale può non identificarsi in alcun genere o definirsi diversamente. Per esempio, un genderqueer può identificarsi contemporaneamente come maschio e femmina con diverse sfumature (bigender, pangender, androgino); in nessuno dei due (genderless, gender neutral, neutrois, a-gender); essere genderfluid, quindi un mix dinamico tra i due generi tradizionali, in cui il sentirsi maschio o femmina può variare in circostanze/fasi diverse; infine, identificarsi in un terzo genere che va oltre le definizioni e i mix di maschio/femmina. Cisgender viene invece definito chi si identifica col genere attribuito alla nascita.

Dato questo complesso panorama identitario, l’APA ha pubblicato nel 2015 delle specifiche linee guida con lo scopo di fornire agli specialisti un supporto nella pratica clinica con pazienti TGNC (Transgender and Gender Nonconforming People, termine che raccoglie tutte le identità di genere che non si riconoscono col sesso assegnato alla nascita) affinché sia rispettosa, consapevole e di supporto per l’identità, i bisogni e le esperienze di pazienti TGNC. Lo psicologo infatti è chiamato a gestire trattamenti terapeutici in cui possono sollevarsi delle problematicità.

La letteratura evidenzia come spesso pazienti TGNC riferiscano di esperienze negative che possono influenzare la severità dei sintomi e la soddisfazione generale del servizio ricevuto. Mizock e Lundquist (2016) passano in rassegna i principali errori di giudizio o azioni che i terapeuti compiono nei confronti di questi pazienti e che finiscono per allontanarli e creare attitudini negative nei confronti della psicoterapia.

In alcuni casi viene percepita mancanza di competenze e conoscenze specifiche per cui il paziente sente di non essere nel suo ruolo e di dover ‘educare ed istruire’ il terapeuta. A volte la mancanza di formazione induce il terapeuta a prendere in scarsa considerazione altri aspetti della vita dei pazienti TGNC e a focalizzarsi eccessivamente sulla tematica di genere, col risultato che il paziente sente che, da un lato, vengono sottovalutati e messi da parte altri vissuti ritenuti importanti, dall’altro questo focus può portare all’assunzione implicita che qualsiasi sia il problema portato all’attenzione, esso scaturisca dall’ essere TGNC. D’altra parte, viene esperita anche una mancanza di conoscenza e consapevolezza da parte del terapeuta nei casi in cui l’ identità di genere sia data per consolidata ed esclusa dal trattamento, andando così a sminuire ed ignorare tutto quello che comporta e l’impatto che può avere sulla salute mentale.

In altri casi ancora, il terapeuta può essere visto come focalizzato solo sull’ espletare le sue funzioni richieste per l’accesso ad altre procedure, come quelle mediche, piuttosto che attento al percorso terapeutico in sé.

Sebbene l’APA sia stata molto chiara su linee guida e pratiche da adottare, può ancora accadere che essere TGNC sia visto come una patologia o disordine da curare, rinforzando il senso di incomprensione, inadeguatezza, vergogna e stigma. Infine, Mizock e Lundquist parlano di generalizzazione e attitudini implicite che alcuni terapeuti adottano, avendo una visione tradizionale dei generi e riducendo di fatto la possibilità di esplorazione identitaria e di comunicazione da parte del paziente.

Gli atteggiamenti dei terapeuti verso i pazienti TGNC: differenze di genere

Nel 2016 Riggs e Sion hanno approfondito il tema degli atteggiamenti dei terapeuti verso pazienti TGNC evidenziando una differenza di genere nelle attitudini negative. Infatti sarebbero i terapeuti maschi a mostrare un grado più alto di propensione negativa rispetto alle colleghe femmine. Le attitudini negative verso pazienti TGNC servirebbero a legittimare e rivendicare la mascolinità normativa: ciò sarebbe dovuto alle norme culturali di egemonia maschile che inducono gli uomini a considerare come ai poli opposti della mascolinità altri come donne in generale e ancora di più omosessuali e TGNC. Gli Autori sottolineano che al di là delle possibili spiegazioni, il fatto che le ideologie di genere possano influenzare il lavoro degli psicoterapeuti deve porci di fronte alla consapevolezza che ciò possa ripercuotersi sul rapporto e sull’evolversi del processo terapeutico.

Che cosa si può fare allora? Mettere in pratica le indicazioni dell’APA non è facile, le difficoltà sono soprattutto fuori dal setting terapeutico. Persone TGNC sono soggette a rischio di suicidio, depressione, ansia, abuso di sostanze. Genitori TGNC affrontano diverse problematiche nella costruzione e nel mantenimento di una famiglia e con l’età affrontano problemi di accesso alle strutture dedicate. Ancora, i più giovani si trovano a fronteggiare già a scuola atti di bullismo e violenza che spesso portano all’ abbandono degli studi. Oltre a ciò, sono soggette continuamente ad atti di microviolenza e negazione della loro identità, basti pensare a quante cose sono divise per genere (per esempio, le toilette in edifici pubblici) o la difficoltà anche solo a espletare funzioni burocratiche quando perfino la modulistica segue il sistema binario di genere. Come Singh e Dickey (2016) sottolineano, tanto va fatto non solo nel lavoro di formazione e supervisione dei professionisti del settore, ma anche sul terapeuta. La formazione deve tener conto delle difficoltà già presenti nella vita quotidiana e della specificità della loro condizione identitaria che non deve essere disconfermata né patologizzata, mentre il terapeuta deve assicurarsi che, anche a partire dal setting terapeutico, il paziente possa sentirsi al sicuro e libero di esprimersi.

L’efficacia a lungo termine della terapia cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo in età infantile

Una nuova ricerca dimostra che l’effetto della terapia cognitivo comportamentale per il disturbo ossessivo compulsivo in infanzia perdura anche un anno dopo la fine del trattamento.

 

Alcuni bambini pensano che avranno un incidente se non contano tutti i lampioni sulla strada di scuola, altri non riescono ad uscire di casa se non prima di essersi lavati le mani esattamente venticinque volte: questi bambini soffrono di disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Il disturbo ossessivo compulsivo in infanzia colpisce tra lo 0,25% e il 4% dei bambini e il metodo di trattamento più efficace e documentato è, ad oggi, la terapia cognitivo comportamentale.

Disturbo ossessivo compulsivo in infanzia e terapia cognitivo comportamentale: lo studio dell’ Università di Aarhus

La ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Aarhus rappresenta il più grande studio riguardante il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo in infanzia e adolescenza, su soggetti tra i 7 e i 17 anni e dimostra come la terapia cognitivo comportamentale abbia un effetto a lungo termine.

Lo studio fa parte del progetto The Nordic Long Term OCD Treatment Study (NordLOTS) e ha previsto la partecipazione di bambini e adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo provenienti da Danimarca, Norvegia e Svezia. La collaborazione tra le cliniche di psichiatria infantile norvegese e svedese ha permesso di ottenere evidenze importanti per quanto riguarda l’organizzazione del trattamento del disturbo ossessivo compulsivo in infanzia.

La terapia cognitiva comportamentale intrapresa dai partecipanti avevo lo scopo di inibire i pensieri ossessivi alla base dell’agito compulsivo introducendo nuovi modelli di pensiero. Trattamenti psicologici di questo tipo richiedono la collaborazione dell’intera famiglia in quanto l’efficacia della terapia è incrementata dal sostegno genitoriale.

David Højgaard, autore principale dello studio e dottore di ricerca afferma:

I risultati dello studio indicano che per mantenere un effetto duraturo della terapia è necessario aver consapevolezza dei sintomi in modo da poterli riconoscere e interrompere sul nascere prima che si sviluppino e peggiorino. Tutto ciò è realizzabile offrendo incontri terapeuta-bambino–famiglia al fine di analizzare le strategie e i principi di trattamento.

I risultati della ricerca nordica hanno dimostrato che il 92% dei 177 bambini e adolescenti, che hanno beneficiato immediatamente del trattamento, non presentava alcun sintomo clinico riferibile al disturbo ad un anno di distanza dalla fine del trattamento.

Lo studio dimostra che gli effetti della terapia cognitivo comportamentale permangono oltre il periodo di trattamento. Il risultato è interessante per i professionisti ma non meno importante per i bambini e le loro famiglie – dice Per Hove Thomsen, professore all’Università di Aarhus e consulente presso il Centro psichiatrico infantile e dell’adolescenza di Risskov, che continua – Il disturbo ossessivo-compulsivo è un disturbo molto complesso, è impossibile vivere una vita normale per il bambino o l’adolescente che deve lavarsi le mani cento volte al giorno in un modo particolare. Appare quindi necessario un intervento precoce prima che il disturbo abbia conseguenze invalidanti nell’età adulta

 

IX Conferenza Internazionale dell’ Association for Behavior Analysis International – Report dal convegno

Si è tenuta nei giorni scorsi a Parigi la IX Conferenza Internazionale dell’ABAI, Association for Behavior Analysis International. L’ ABAI nasce nel 1974 negli Stati Uniti come associazione nazionale americana, e negli anni a venire si apre a una dimensione sempre più internazionale, diventando poi ABA International.

 

La Conferenza Internazionale, che si svolge ogni due anni in una città al di fuori degli Stati Uniti, rappresenta concretamente questa progressiva apertura. La prima conferenza internazionale si è tenuta significativamente nel primo anno del nuovo millennio, nel 2001, a Venezia, sull’Isola di S. Giorgio, in collaborazione con il nostro gruppo italiano di analisti comportamentali. In quell’occasione, tra l’altro, si sono poste le basi per la fondazione dell’European Association for Behavior Analysis che si sarebbe formalmente costituita nel 2003 a Parma. (Arntzen, Hughes, Pellón, Moderato, 2009).

Quest’anno la Conferenza si è aperta e chiusa con due relazioni particolarmente rappresentative della ricerca europea: la relazione di apertura è stata tenuta da Dermot Barnes-Holmes, quella di chiusura da chi scrive. Entrambi possono essere considerati scienziati comportamentali piuttosto sui generis rispetto all’analisi del comportamento mainstream, soprattutto americana.

Dermot Barnes-Holmes e il tributo ai padri del comportamentismo

Dermot Barnes-Holmes, irlandese ma ora in servizio presso l’Università di Ghent, è noto per il suo contributo fondamentale allo sviluppo della Relational Frame Theory (RFT), la teoria post-skinneriana sullo sviluppo del linguaggio e della cognizione che vede come co-autori Steven Hayes e Brian Roche. La RFT sta alla base dell’Acceptance and Committmnet Therapy, il modello terapeutico di terza generazione sviluppato da Hayes, Wilson e Strohsal, di cui ci siamo occupati più volte su State of Mind.

La relazione di Dermot Barnes-Holmes è stata un percorso intellettuale e un tributo ai personaggi che hanno fatto la storia della ricerca nel campo del linguaggio in ambito comportamentista. Tutto comincia naturalmente con B. F. Skinner, che dopo la pubblicazione di Verbal Behavior (1957) pubblica, nel 1966, An operant analysis of problem solving, in cui traccia la distinzione fra comportamento modellato dalle contingenze e comportamento governato da regole. Ma il vero cambio di paradigma si ha con Morris Sidman, che negli anni Ottanta introduce il concetto di classi di equivalenza, grazie al quale anche i comportamentisti affrontano con successo due problemi fino ad allora trattati in modo insoddisfacente: l’origine del comportamento nuovo, cioè non frutto di training precedenti, e l’origine del significato.

Dermot Barnes-Holmes ricorda con emozione e devozione il contributo di Sidman, leggendo passi tratti da alcuni dei suoi libri. Avendo avuto il privilegio di conoscere personalmente Morris Sidman ho potuto condividere questa emozione e questa devozione: Sidman è un grande maestro di metodologia della ricerca nella scienza.

La relazione di Dermot Barnes-Holmes prosegue con il passo successivo, il primo abbozzo ante litteram di Relational Frame Theory, nel volume curato da S. Hayes nel 1989: Rule Governed Behavior, in cui scrivono i più illustri esponenti della scienza del comportamento. Per la prima volta si parla di track and ply, e di frames relazionali, termini che poi costituiranno l’ossatura della RFT.

Dermot Barnes-Holmes ammette che la Relational Frame Theory è una teoria ancora controversa e complessa, è un’interpretazione, che però è sostenuta da una quantità di evidenze sperimentali davvero impressionanti, in molteplici campi. E non dimentichiamo che è alla base dell’ACT, il modello psicoterapeutico che sta sfidando, con successo, la CBT tradizionale.

Tony Biglan: come la scienza del comportamento migliora la nostra vita

Dopo la relazione di Dermot Barnes-Holmes è salito sul palco Tony Biglan, dell’Oregon Research Institute, autore dello splendido volume: The Nurture Effect: how the science of human behavior can improve our lives and our world. La sua relazione è stata un’appassionata, puntuale e convincente analisi di come la scienza del comportamento possa migliorare la nostra vita e il nostro mondo: il mondo naturale, agendo ad esempio per migliorare il clima e aumentare le risorse alimentari, e il mondo sociale, agendo per la prevenzione e il contrasto a povertà, comportamenti antisociali, comportamenti ad alto rischio (droghe, alcool, tabacco, sesso non protetto).

Il lavoro di ricerca di Biglan si è focalizzato sulla possibilità di fare prevenzione: contesti ambientali che definisce “nutrienti” (nurturing environments) possono promuovere la pro-socialità e al tempo stesso diminuire la probabilità di attivazione di manifestazioni aggressive e disadattive. Biglan parla anche di “ambienti tossici”, che sono l’opposto dei  “contesti nutrienti”. Gli ambienti tossici sono contesti in cui i giovani sono lasciati a se stessi, in cui viene loro negata la possibilità di provare emozioni, in cui viene prevalentemente incoraggiato un modello di evitamento dei sentimenti. La nostra cultura ci indirizza verso un atteggiamento di chiusura rispetto ai pensieri e ai sentimenti definiti “negativi”; questo assunto potrebbe acquistare un significato se inserito in un’ottica di “cura” verso il soggetto, allo scopo di proteggere quest’ultimo dalla sofferenza, ma spiega Biglan, in realtà è un atteggiamento punitivo, che sottende il pensiero “ti darò qualcosa per cui piangere”. L’ambiente tossico è un ambiente che non rinforza, che promuove scarsamente le abilità “prosociali”, in quanto è un contesto in cui emerge la rigidità e la scarsa flessibilità del comportamento, dove la punizione diventa il mezzo privilegiato per controllare il comportamento. i contesti nutrienti offrono la possibilità di insegnare promuovere, rafforzare tutti quei comportamenti che costituiscono la prosocialità.

Biglan non parla solo del coinvolgimento della famiglia nella creazione di questi contesti nutrienti, ma anche di quello degli insegnanti e della comunità più in generale, sottolineando l’importante compito delle istituzioni che dovrebbero insegnare ai ragazzi ad essere rispettosi, responsabili e gentili. Questo può realizzarsi, secondo Biglan, dando importanza e valore al rinforzo tramite un uso più frequente dell’approvazione, del “contatto affettuoso”, del riconoscimento pubblico di coloro che agiscono con modalità prosociali.

La letteratura scientifica mostra l’efficacia di programmi d’intervento per la prevenzione dei comportamenti antisociali basati sul ribaltamento radicale di prospettiva nella gestione genitoriale di questi comportamenti: dall’atteggiamento coercitivo, caratterizzato dall’uso di punizioni e penalizzazioni come strumento di controllo e cambiamento, bisogna passare a un saggio, coerente e contingente uso di pratiche positive. Il rinforzamento positivo di condotte desiderabili rappresenta la migliore strategia per promuovere comportamenti adeguati e adattivi, non solo nel sistema famiglia ma anche nel contesto scolastico e nel contesto sociale. Biglan ne ha presentato molti esempi.

Costruire servizi che siano in grado di prendersi cura delle persone con disturbi del neurosviluppo e gravi e gravissimi disturbi del comportamento rimane una delle sfide più importanti nell’applicazione della moderna scienza del comportamento. A Parigi un intero simposio coordinato da Cynthia M. Anderson del May Institute di Boston ha visto eccellenze internazionali presentare modelli di servizio per la scuola (Todd Harris del Devereaux Advanced Behavioral Health) per l’ambulatorio intensivo (Patricia Kurtz del Kennedy Krieger Institute), per il trattamento ospedaliero (Louis Hagopian del Kennedy Krieger Institute) e per i servizi residenziali (Mauro Leoni e Giovanni Miselli di Fondazione Istituto Ospedaliero di Sospiro Onlus). I colleghi italiani hanno presentato i dati ottenuti, in termini di riduzione nei comportamenti problematici, nell’uso delle contenzioni, negli infortuni e nello stress e burnout degli operatori, in dieci anni di applicazione dei modelli contestualistici di analisi del comportamento, integrati con i modelli di qualità di vita per i servizi residenziali per gli adulti, sotto la direzione di Serafino Corti.

Queste expertise e le collaborazioni internazionali sono il fondamento per riuscire a costruire servizi a supporto della famiglie che possano rispondere in maniera tempestiva e preventiva ai gravi disturbi del comportamento anche in fascia evolutiva, esigenza sempre più forte anche nel nostro Paese.

Altre importanti relazioni si sono ascoltate a Parigi, ma diventa lungo darne conto in dettaglio.

Paolo Moderato: Le sfide dell’analisi comportamentale moderna

Il congresso si è concluso con la relazione a invito di chi scrive, presentato da Michael Dougher, attuale presidente di ABA International. Il titolo della relazione era Behavior analysis in a complex world. Ho colto quest’occasione per presentare la nostra visione dell’Applied Behavior Analysis, una visione contestualista, funzionalista, individualizzata, e umanizzata, e per mettere sul tavolo tre sfide fondamentali per l’analisi comportamentale moderna. In primo luogo, il tema della disabilità intellettiva e dell’autismo, che non può limitarsi a interventi intensivi e precoci, certamente essenziali, ma deve estendersi a interventi per adolescenti e giovani adulti, una popolazione che richiede interventi non semplicistici, scientificamente basati, sensibili al contesto, che abbraccino anche la dimensione clinica, considerato che questa popolazione presenta un alto rischio per lo sviluppo di disturbi psicopatologici quali ansia, compulsioni, depressione.

In secondo luogo, il tema della Clinical behavior analysis. L’analisi comportamentale degli inizi non si è occupata molto di temi che costituiscono invece il campo di lavoro principale dei clinici: ansia, depressione, traumi. In tal modo ha lasciato una prateria allo sviluppo della psicoterapia cognitiva. Fortunatamente negli ultimi vent’anni si sono elaborati modelli terapeutici come l’ACT, la FAP, la DBT, la Behavior Activation, che affondano le loro radici nella moderna scienza del comportamento e hanno dimostrato la loro efficacia anche nella “terapia della parola”.

Infine il tema della behavioral economics, di cui abbiamo trattato su queste pagine in occasione del premio Nobel per l’Economia assegnato a Richard Thaler. Si tratta di una nuova rivoluzione comportamentista, che ha già dimostrato la sua efficacia nelle applicazioni finalizzate a migliorare e semplificare la vita dei cittadini, grazie alla costituzione di Behavior Insight Units in vari paesi (tranne che in Italia….).

La moderna analisi del comportamento ha ancora sfide importanti da affrontare. Oltre a quelle menzionate da Tony Biglan, ne ho ricordate altre due: l’atteggiamento antiscientifico incarnato dai movimenti antivax o a favore di cure prive di fondamento scientifico, che mettono a rischio la salute dell’umanità, conquistata faticosamente nei secoli, e le agenzie che disseminano scientemente falsità, le cosiddette fake news, che mettono a rischio il futuro della democrazia. Non sono sfide facili, ma abbiamo metodo, tattiche strategie e strumenti per affrontarli.

L’intera relazione è disponibile sullo Youtube IESCUM Channel:

Terzo millennio: l’era delle dipendenze (per esempio dai TV Series)

Si ha un problema nella dipendenza da serie TV quando si usa il pensiero desiderante per oggetti o attività dannosi e/o pericolosi non accessibili o non raggiungibili, in quanto in contrasto con la nostra realtà (per esempio, cercare di trasformarsi in “Buffy”, l’ammazza vampiri). In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere consapevolezza di ciò che siamo, per essere in grado di modificare il nostro stile di pensiero, in quanto rimanere vincolati al pensiero desiderante ci esporrebbe solo a pericoli e/o frustrazioni.

Federica Liso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

La dipendenza da serie tv: chi sono i protagonisti?

Non si tratta solo di fumo, droghe e cibo spazzatura, ma una new entry ha percorso il red carpet accompagnata dalla dipendenza da internet e dalla nascita dello streaming online. E’ oramai, universalmente, riconosciuta come una patologia: la dipendenza da serie TV.

Per quanto si possa tentare di negarlo, tutti siamo ossessionati da almeno una serie che ha divorato la nostra anima per mesi e mesi, trasformandoci in bradipi da materasso, in almeno cinque fasi: fatale curiosità (il soggetto viene a conoscenza, per caso, di una imperdibile serie TV e la cerca su google); discesa negli inferi (senza che il soggetto, in questione, possa rendersene conto, la trasformazione in una talpa da pirata streaming ha già avuto inizio); ossessione (il soggetto non ha più vita sociale, i suoi pensieri sono rivolti ad un mondo immaginario, dove potrebbe rischiare la vita in ogni momento; il soggetto crede di essere un eroe, un cavaliere o una ricca e bella ragazza in giro per New York, tutto ciò mentre affonda il cucchiaino nell’ennesimo barattolo di Nutella; si avvicina ad una condizione di non ritorno); trasformazione completa (l’umanità del soggetto è solo un vago ricordo) e, infine, l’incapacità di intendere e di volere (quando le risorse nella propria lingua scarseggiano o non sono disponibili online, il soggetto è disposto a seguire gli episodi della sua serie TV preferita in qualunque altro tipo di lingua e/o proveniente da qualunque sito internet, anche a pagamento).

Ma per quale assurdo motivo avviene questo tipo di messa in atto di determinati comportamenti? Innanzitutto, il soggetto cerca emozioni diverse da quelle che vive nel contesto di vita quotidiana, come un adolescente che desidera diventare bella e popolare come Kelly di “Beverly Hills” o Jen di “Dawson’s Creek”; una donna di oltre 30 anni che immagina di indossare i bei vestiti di Carrie di “Sex and the City” o avere le sue stesse amiche con le quali condividere tutto ciò che le accade di piacevole o di spiacevole nella vita. Non si aspetta di guardare la puntata la settimana successiva, ma è possibile vederne 15 di fila. Perché no? Questo crea dipendenza da un mondo immaginario, un mondo che non esiste nella vita reale dello spettatore ed è bene che la persona si prenda cura di questo aspetto.

Gli effetti della dipendenza da serie tv

Nel dettaglio, esistono alcune serie TV che appagano i bisogni di ciascuno di noi.

In primo luogo, la fiction “Don Matteo”, da parecchi anni, oramai, sui nostri schermi, con delle trame centrate sui buoni sentimenti e, soprattutto, sul lieto fine, permette a Don Matteo di rappresentare il buon padre, la persona che può dare sicurezza, la persona che può aiutarci in qualunque circostanza, così come “Un Medico in Famiglia”, fiction caratterizzata da un nucleo familiare molto unito e affiatato, in certi momenti, allargato, che ricorda la famiglia Cunningham di “Happy Days”, una tipica famiglia degli anni ’50, dove si creano le dinamiche di identificazione di quello che ciascuno di noi potrebbe e/o vorrebbe vivere. Questo identifica il bisogno di appartenenza e di sicurezza.

Poi, si distinguono i bisogni di stima e di autorealizzazione, piuttosto importanti nel contesto di vita quotidiana, ben trattati nelle seguenti serie TV: “Friends”, dove un gruppo di amici comincia a esplorare il mondo degli adulti, ad avere rapporti di coppia più seri, che sfociano nel matrimonio o nella nascita dei figli. D’altronde, si ricorre, anche, ad altre serie TV, come “Er” oppure “Dottor House”, dove si diventa adulti, anche, da un punto di vista professionale. In entrambi i casi, si va ad illustrare la vita che si ha all’interno di una struttura ospedaliera, una delle professioni che ha più fascino ed autorevolezza.

Esiste, anche, una categoria che permette, a ciascuno di noi, di avvicinarci a qualcosa di morboso o di proibito che, nella vita reale, non potremo mai vivere, ma identificandoci con i personaggi di quel telefilm, potremo provare ad essere qualcun altro in un altro contesto. A tal proposito, si ricorda la serie TV “Twin Peaks”, dove si racconta la storia morbosa, in bilico tra il surreale e la lentezza, con cui scorreva una giornata in un paesino sperduto. Attualmente, si guarda “Gomorra” o “Romanzo Criminale”, che ci portano ad identificarci, indistintamente, sia con i personaggi appartenenti alla categoria “bravi”, sia, al contrario, alla categoria “cattivi”, che presentano una complessità caratteriale ed una dinamicità di relazioni e di motivazioni, che, talvolta, ce li fa sentire vicini, nonostante, non si condivida la medesima scala valoriale.

Alla fine, i personaggi principali della serie TV preferita diventano i nostri migliori amici, quindi, quando se ne vanno, si diventa tristi. Si ricorda il caso recente del Dottor Shepperd in “Grey’s Anatomy” o Ridge Forrester in “Beautiful”. Secondo uno studio della Ohio State University, la fine della propria serie TV preferita può scatenare sintomi depressivi e un senso di angoscia e di smarrimento simile a quella generata dalla fine di un amore importante.

Quindi, quando diventa un problema?

Quando diventa un problema la dipendenza da serie TV: il pensiero desiderante

Si ha un problema quando si usa il pensiero desiderante per oggetti o attività dannosi e/o pericolosi non accessibili o non raggiungibili, in quanto in contrasto con la nostra realtà (per esempio, cercare di trasformarsi in “Buffy”, l’ammazza vampiri).

In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere consapevolezza di ciò che siamo, per essere in grado di modificare il nostro stile di pensiero, in quanto rimanere vincolati al pensiero desiderante ci esporrebbe solo a pericoli e/o frustrazioni.

Il desiderio può diventare, anche, uno strumento, grazie al quale si induce un immediato piacere virtuale o ci si distrae da altre preoccupazioni o pensieri non funzionali alla nostra realtà. Il soggetto è costretto a rimanere all’interno dei suoi pensieri disfunzionali o negativi, desiderando di avere qualcosa che esiste solo in video e con il tempo, il piacere dell’ipotesi di avere qualcosa di bello diventa il dolore di non averlo davvero. Ciò potrebbe portare il soggetto a pensare, quasi in maniera ossessiva ad un determinato personaggio televisivo e prendere questo come un esempio da imitare, sostituendo, così, le figure autorevoli che, nell’arco degli anni, hanno gestito i suoi comportamenti ed azioni.

Immaginare di essere qualcun altro, diverso da sé, genera una sorta di gratificazione simile, anche fisiologicamente, a quella ottenuta dal reale raggiungimento dell’oggetto o, in questo caso, soggetto desiderato.

L’individuo potrebbe rimanere bloccato in un limbo, in cui non riesce a distinguere quale sia la propria realtà o quella di Meredith Grey di “Grey’s Anatomy”.

Nasce, così, il bisogno di farsi accompagnare in un percorso di psicoterapia con indirizzo cognitivo – comportamentale, in grado di occuparsi dei processi cognitivi, coinvolti nell’ esperienza del desiderio in modo chiaro ed esaustivo.

La psicoterapia cognitivo – comportamentale è un approccio terapeutico finalizzato a promuovere un cambiamento positivo nelle persone, per alleviare alcune forme di sofferenza emotiva e per affrontare numerosi problemi di carattere psicologico, sociale o comportamentale. Gli psicoterapeuti ad indirizzo cognitivo identificano e trattano le difficoltà personali che emergono dai pensieri disfunzionali degli individui.

Dipendenza da serie tv o da sostanze? Tutta colpa della dopamina

In particolare, il “binge watching” appartiene al cluster delle dipendenze comportamentali e consiste in una dipendenza da serie tv.

La parola “binge”, letteralmente “baldoria”, indica che la persona si abbandona ad un consumo smodato dell’oggetto, sostanza o comportamento.

Questa classe di disturbi non è ancora stata inserita nei manuali ufficiali delle psicopatologie, nonostante rappresenti una realtà tangibile nell’attività clinica e con conseguenze negative.

La persona, passando molto tempo davanti ad uno schermo, toglie tempo ad altre attività e subisce gli effetti psicofisiologici, deficit attentivi, insonnia, aumento di peso.

La quantità di tempo consumato a guardare serie tv ostacola la produttività in altre aree importanti dell’attività lavorativa e relazionale.

La sintomatologia risulta essere molto simile a quella della tossicodipendenza.

La terapia efficace

Si conclude suggerendo una terapia focalizzata sul craving, ovvero sulla ricerca di occasioni, in cui poter abbuffarsi di puntate. Al tempo stesso, si lavora sulle credenze disfunzionali, irrazionali all’origine dell’uso acritico del mezzo televisivo (“mi consola” o “mi fa compagnia” o “mi aiuta a riflettere su di me”).

A livello comportamentale, la persona dovrebbe essere motivata a dirigere i suoi interessi anche ad altre attività. Impiegare il tempo in maniera più produttiva.

Netflix è, sicuramente, la sostanza più a portata di mano e più comune del nostro millennio, ma il punto di ogni terapia dovrebbe essere quello di far capire al paziente che la propria vita può essere interessante, anche fuori dallo schermo, basta concentrarsi sulla propria e non su quella dei personaggi delle serie tv.

Il potere dopo l’ininfluenza: predittore di molestie sessuali?

Chi ricopre per la prima volta una posizione autoritaria, continuando a percepirsi ininfluente è più propenso a molestare sessualmente: quando il potere può predire la tendenza di una persona a perpetrare molestie sessuali.

 

A proposito delle recenti denunce rivolte a uomini di potere che hanno abusato del proprio ruolo e della propria influenza per ottenere vantaggi sessuali, un recente studio condotto da Williams, Gruenfeld e Guillory (2017) indaga il rapporto esistente tra potere e tendenza all’abuso sessuale.

Da un’analisi condotta sui precedenti studi sull’argomento è emerso che in uomini e donne di prestigio, interessati al sesso occasionale, aumenta la convinzione che i propri subordinati (ad esempio dei lavoratori dipendenti) siano sessualmente interessati a loro. Al contrario, coloro che godono di un certo prestigio, ma che non sono interessati al sesso occasionale sono soliti ritenere i propri subordinati non interessati.

Inoltre è emerso che coloro che coprono posizioni di potere sono più predisposti a vedere le altre persone come oggetti, anziché come esseri umani alla pari.

Il potere dopo l’ininfluenza: predittore di molestie sessuali?

Nel presente studio è invece emerso che la tendenza a commettere molestie sessuali è messa in atto soprattutto da persone che ricoprono posizioni di potere, in seguito a lunghi periodi di assenza di autorevolezza. Così, in egual misura, sia uomini sia donne che, in seguito ad un periodo prolungato di impotenza e ininfluenza, sperimentano un senso di autorità sono più propensi ad agire molestie sessuali nei confronti delle altre persone, rispetto a quanto non lo siano gli altri.

In particolare, gli uomini non fiduciosi di sé, i quali improvvisamente sperimentano un rinnovato o nuovo potere, tendono ad assumere atteggiamenti marcatamente sessisti nei confronti di donne che li rifiutavano sessualmente. Al contrario, l’incremento di potere in uomini che confidano nel proprio potere autentico conduce ad una diminuzione di sessismo ostile nei confronti delle donne, in generale.

In questo studio, quando si parla di potere si fa riferimento più ad un senso soggettivo di potere, il quale non è necessariamente corrispondente ad un potere concreto. Infatti, è stato notato che anche coloro che ricoprono posizioni di grande autorità possono ancora sperimentare sentimenti di inadeguatezza o insicurezza.

Tant’è che in passato è emerso che i genitori che si percepiscono impotenti innanzi al proprio bambino mostrano maggiori probabilità di abusare fisicamente di esso. L’ abuso viene così vissuto come l’opportunità (a prescindere dall’effettiva posizione gerarchica di genitori) di esercitare un potere reale di controllo sugli altri, a fronte di una propria insicurezza personale.

Dietro ad una persona potente che compie molestie sessuali si potrebbe dunque nascondere un essere umano con un armamentario psicologico rozzo e al contrario di quanto sembra, impotente, o per lo meno poco fiducioso della propria autorità. È proprio chi utilizza la propria posizione di potere per compensare un proprio senso di inadeguatezza ad esser più propenso all’utilizzo della propria influenza per cogliere un qualche vantaggio sessuale.

Greta Riboli


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Padre depresso? Quanto incide sulla salute dei figli

Secondo uno studio condotto dai ricercatori dello University College London, la depressione paterna aumenta il rischio per i figli adolescenti di sviluppare sintomi depressivi.

 

Gli effetti della depressione paterna sui figli adolescenti

Se il legame tra la depressione delle madri e la depressione dei loro figli, sostenuto fino ad oggi dalle teorie più accreditate è ben chiara agli studiosi, il nuovo studio “Lancet Psychiatry” è il primo che ha trovato un’associazione tra la depressione dei Padri e quella dei loro giovani figli, fenomeno che risulta indipendente dalla relazione che intercorre con le madri. Gli effetti della depressione di madri e padri sui propri figli risultano essere molto similari.

C’è un malinteso comune che vedrebbe le madri più responsabili della salute mentale dei loro figli e i padri meno influenti; abbiamo scoperto che il legame tra genitori e depressione adolescenziale non dipende dal genere”, ha dichiarato l’autrice a capo dello studio Gemma Lewis, sottolineando l’importanza di interventi preventivi che coinvolgano tutta la famiglia.

Per determinare questa responsabilità paterna, i ricercatori hanno condotto una complessa analisi statistica su due studi distinti, che comprendevano i dati di 13.838 famiglie d’Inghilterra, Galles e Irlanda.

Tenendo conto di fattori noti che influiscono sulla depressione adolescenziale come la salute mentale della madre, l’abuso di alcol e le condizioni socioeconomiche della famiglia, dai calcoli è emerso che all’aumento della depressione del padre aumenta anche il “punteggio” di quella dei figli. I dati sono stati raccolti con questionari multipli quando i ragazzi avevano tra i 7 e i 9 anni, con una successiva valutazione fatta tra i 13 e i 14 anni.

L’incidenza della depressione cresce in maniera marcata all’inizio dell’età adolescenziale; questo aspetto, secondo i ricercatori, è cruciale al fine di comprendere i fattori di rischio associati e prevenire situazioni di depressione sui soggetti in tarda età.

I ricercatori si augurano che i risultati emersi dallo studio possano spingere i papà a curare i propri sintomi depressivi, dato che sono meno disposti rispetto alle donne a consultarsi con psicologi e psichiatri.

Studi precedentemente condotti hanno mostrato collegamenti diretti tra la depressione paterna e le difficoltà comportamentali ed emotive nei loro figli, ma nessuno studio precedente aveva esaminato il legame che intercorre tra la depressione adolescenziale e disturbi paterni, considerando anche potenziali disturbi depressivi materni.

La salute mentale di entrambi i genitori dovrebbe essere di importanza prioritaria al fine di prevenire disturbi depressivi nei figli. C’è troppa enfasi sul legame tra figlio e madre, ma anche la figura paterna è altrettanto importante, come lo studio ha evidenziato.

Vite non vissute. Esperienze in Psicoanalisi – Recensione del libro

Vite non vissute. Esperienze in Psicoanalisi ” scritto da Thomas Ogden, psicoanalista particolarmente noto per i suoi contributi nel panorama psicoanalitico contemporaneo, è un libro che invita alla conquista della crescita psicologica. Puntando sulla forza coinvolgente del linguaggio, evocata dal fondersi dell’abilità artistica e del sapere psicoanalitico, avvicina il lettore al lavoro doloroso e trasformativo di alcune condizioni limitanti dell’esistenza umana che chiama “ vite non vissute ”.

 

Vite non vissute: un nuovo approccio psicoanalitico

Il testo, sin dalle prime pagine, offre uno spazio per pensare in modo critico, guardare con la propria lente ai contenuti che propone, scoprirsi attivo in una conversazione che non ha la pretesa di indicare un modo esatto di procedere, ma propone un modo altro di guardare. In esso, il lavoro psicoanalitico più vivo, più autentico e irripetibile con ciascun paziente corrisponde a una lingua unica, creata “con e per il paziente” e riconoscibile già dai suoni, dalla struttura, dal ritmo e dal contenuto della conversazione; queste caratteristiche, che la distinguono da tutte le altre, non potrebbero appartenere a nessun’altra conversazione ed essere perfette per nessun’altra persona.

È proprio nella direzione del nuovo orizzonte conoscitivo psicoanalitico, più interessato a comprendere il modo del pensare, piuttosto che il suo contenuto, il luogo in cui Ogden conduce il lettore, anticipando il suo itinerario. Selezionando almeno tre forme di pensiero, il pensiero magico, onirico e trasformativo, cui dedica nel testo un’attenzione speciale, mette in guardia dalla possibilità di riconoscerli in una loro forma pura e ne semplifica la comprensione con l’aiuto dell’esperienza clinica generosamente condivisa. Attraverso quest’ultima, apre scenari in cui la realtà è costruita e distrutta con un movimento improduttivo e costante, in cui la maturazione psicologica avviene attraverso la presenza di un altro con cui “sognare davvero”, in cui diviene possibile la riorganizzazione della propria esperienza in un modo prima inimmaginabile.

Il lavoro con e per il paziente con quella vita che non ha vissuto consiste dunque nella “intuizione” di una realtà psichica troppo dolorosa da poter essere tollerata da solo e che ha la funzione di riconsegnare al paziente la responsabilità del suo dolore, di recuperare una parte di sé viva e sentirsi finalmente completo. Il modo attraverso cui il lavoro analitico consente questo passaggio non è molto diverso da quello in cui sogniamo, in cui è riconoscibile una maggiore realtà dell’individuo verso se stesso e quindi una sua maggiore abilità di intuire più aspetti della propria vita inconscia.

Ciò che diventa tollerabile rispetto al pensiero impensabile è più grande della somma delle capacità dei singoli sistemi di personalità individuali. I due o più creano un terzo soggetto inconscio in grado di pensare quello che nessuno, da solo, sarebbe in grado di pensare e rielaborare in modo trasformativo” (Ogden, 2016, p.173).

È quindi quello stato paradossale di “unisono e separatezza” a rendere possibile una trasformazione.

La maturazione e il cambiamento dell’individuo e del professionista

La maturazione e l’alterità, oggetti della lunga e profondissima riflessione che compie su se stesso, come individuo e come professionista, attraversano l’intero testo e si presentano al giovane analista come un invito ad abbracciare il cambiamento e a raggiungere l’autoconsapevolezza di sé. A questo proposito afferma: ”Il cambiamento è l’unica costante negli stati psicologici” (Ogden, 2016, p.160).

Crescere professionalmente e come individuo richiede un’altra considerazione, quella secondo cui oltre al valore delle esperienze personali, è possibile comunque riconoscere degli aspetti rilevanti comuni a più professionisti. Ogden ce ne dà una dimostrazione, in questo capitolo, impegnandosi a condividere con il lettore pensieri ed esperienze, frutto del lavoro con il co-autore Gabbard.

Nello specifico, secondo gli autori, non può essere trascurata l’importanza della dimensione “interpersonale e solitaria” attraverso cui la maturazione avviene, il sogno come fonte di apprendimento, la relazione tra ciò che è possibile produrre dal nulla e ciò che invece può essere trasformato dall’eredità emotiva, il limite e la risposta al bisogno del paziente, la conclusione dell’autoanalisi come inizio di un lavoro anche solitario su se stessi.

In questo processo evolutivo Ogden attribuisce alla scrittura un valore estremamente significativo e lo fa con un dono prezioso, una lettura psicoanalitica molto interessante dei contributi di Kafka e Borges. Rispettivamente, del primo mette in luce un uso capace di comunicare verità emotive impensabili che avrebbero diversamente avuto la possibilità di distruggerlo, del secondo la scoperta del coesistere di ciò che lo inquieta e gli dà piacere. In questo dono mi piace riconoscere una speranza per se stesso di ciò che dice degli autori di cui si fa interprete: “[…] loro mi hanno visto in un modo nel quale io non mi ero ancora visto, e io ho letto il loro lavoro in un modo nel quale non erano ancora stati visti. È in questo senso che creo i miei progenitori, che mi creano a loro volta quando leggo i loro lavori” (Ogden, 2016, p.165).

Un’intervista che percorre la storia personale e professionale di Ogden nel libro Vite non vissute

Per la conclusione del testo, sfruttando lo stile dell’intervista, Ogden propone al lettore di percorrere un pezzo di strada con lui, nella sua storia personale e professionale, facendolo partecipare alla sua conversazione con Luca di Donna, psicoanalista a sua volta in veste di intervistatore.
Dal suo avvicinamento in tenera età alla psicoanalisi, passando per il modo in cui la sua produzione letteraria è sempre stata influenzata dall’idea che “sono necessarie sempre due persone per pensare” e dall’importanza del linguaggio come “veicolo per creare pensieri e sentimenti”, Ogden ci porta a scoprire qual è per lui l’essenza della psicoanalisi e il modo in cui intende alcuni tra i principali concetti. La natura della psicoanalisi non può prescindere dall’umanità e a tal proposito la sua riflessione prosegue anche verso le implicazioni di un’analisi disumana.

La sua scrittura in quest’ultima parte del testo si fa incredibilmente chiara e intima, quando dell’analista afferma: “[…] non è una persona che pratica la psicoanalisi, l’analista è una persona che porta la sua sensibilità analitica, la sua formazione e la sua esperienza nel lavoro con i pazienti” (Ogden, 2016, p.172); ancor prima rispetto a ciò che accade in quella stanza tra psicoanalista e paziente sostiene: ” Ciò che è mutativo, credo, è l’esperienza di una persona nel contesto dell’essere con un’altra persona che ti riconosce come la persona che sei e la persona che sei in procinto di divenire” (Ogden, 2016, p.171). Si comprende dunque benissimo, il valore che Ogden attribuisce all’unicità affinché, secondo la sua idea, il lavoro psicoanalitico “funzioni”.

Per concludere, la prospettiva di vivificare il lavoro analitico, costruendo una lingua “straniera” personale, riecheggia nel testo come un percorso lungo e costellato da numerose trasformazioni, da preziosi lavori con tante vite non vissute e con le vite non vissute personali, anche da fallimenti, da passioni attraverso cui comprendersi e ricrearsi, un lasciarsi condurre verso l’indefinito, verso il nuovo, con il coraggio di mettersi in gioco senza copioni nella relazione con l’altro con la propria umanità e competenza.

 

50 primavere (2017) di Blandine Lenoir – Recensione del film

Cosa significa essere donna? E cosa significa esserlo lungo il corso della vita? Domanda davvero complessa a cui rispondere. Il film 50 primavere ci prova attraverso il racconto della fase di vita della sua protagonista, la spumeggiante Aurore.

— Il film 50 primavere sarà sui grandi schermi dal 21 Dicembre 2017 —

50 primavere : la vita di Aurore e il coraggio di continuare

Aurore è una bella donna, energica e spiritosa, che si ritrova a vivere, allo scoccare dei cinquant’anni, una fase di transizione, una crisi di adattamento legata al tempo che passa. Ha due figlie già grandi, la prima delle quali le annuncia che sta aspettando un bambino. Lavora come cameriera in un locale da anni, ma il nuovo proprietario tratta lei e le altre colleghe più giovani con sufficienza, chiamandole con altri nomi di battesimo per il solo gusto di farlo (e Aurore si ritrova ad essere ribattezzata Samantha).

Il suo ex marito, con cui si era messa insieme giovanissima, ai tempi del liceo, ha una nuova compagna e due altre figlie più piccole, e lei fa i conti con il timore della solitudine, le figlie ormai adulte e alla ricerca della loro strada, le vampate di calore della menopausa, la sottile paura che la parte più interessante della vita sia già trascorsa.

In realtà, in 50 primavere si sottolinea come essere donne non è mai facile, a qualunque età: anche le figlie di Aurore hanno i loro problemi, le loro incertezze, e la paura di non farcela è sempre dietro l’angolo. Come reagire? Una bella dose di sana autoironia non guasta mai: Aurore alle volte è giù di morale, ma mai si piange addosso e cerca, con determinazione e semplicità di ricominciare, rinascendo a nuova vita. In questo può contare sul supporto delle amiche storiche e di nuove amiche che incontra lungo il sua cammino di crescita, perché sì, anche a cinquant’anni (e ben oltre!) si può crescere.

50 primavere (2017) di B. Lenoir, un film sul significato di essere donna -Recensione - imm.1

Imm. 1 – Immagine dal film “50 primavere”

La protagonista di 50 primavere non rinuncia a cercare nuove strade, a provare a innamorarsi di nuovo, nonostante viva in una società che la fa, a volte, sentire fuori posto. Di fatto per tutta la vita non facciamo altro che cercare il nostro posto nel mondo, uno scopo alle nostre vite, qualcosa per cui combattere, qualcosa che ci definisca come persone.

50 primavere (2017) di B. Lenoir, un film sul significato di essere donna -Recensione - Imm.2

Imm. 2 – Immagine dal film “50 primavere”

Il tempo che scorre inesorabile ci mette costantemente di fronte ai nostri limiti, al fatto che gli orizzonti delle nostre vite non sono infiniti; possiamo farci prendere dal panico, oppure buttarci nella vita, prendendo quello che ha da offrirci momento per momento.

Per quanto possa non essere facile, Aurore in 50 primavere non si perde d’animo e trova nelle donne intorno a lei (amiche, colleghe, figlie) delle compagne di viaggio con cui ridere, litigare, divertirsi, piangere insieme a darsi coraggio reciproco nei momenti in cui tutto sembra troppo difficile.

Il film 50 primavere riesce a trattare temi profondi con leggerezza e grande umorismo; la vita è dolceamara, si sa, ma, se si ha il coraggio di vivere fino in fondo, tutto può (ancora) succedere.

GUARDA IL TRAILER DEL FILM 50 PRIMAVERE:

 

Relazioni sociali, benessere individuale e benessere lavorativo negli operatori sanitari

La capacità di relazionarsi positivamente con l’alterità diviene un archetipo che consente di preservare il proprio benessere personale ma anche il proprio benessere lavorativo.

 

Le relazioni sociali sono fondamentali per il benessere di ogni individuo e il relazionarsi con l’altro è un bisogno dell’essere umano. La capacità di relazionarsi è influenzata dalle caratteristiche di personalità del singolo e dalle contestualità di vita. La solitudine pesa negativamente sul benessere individuale. Infatti, essa può essere un fattore di rischio per alcune patologie psichiche, come le sindromi depressive, con relativa ideazione suicidaria, le sindromi ansiose, e per alcune patologie psicosomatiche, come le cefalee, la sindrome da stanchezza cronica. L’abilità di stabilire delle buone relazioni con l’alterità è un paradigma fondamentale per prevenire le patologie lavoro-correlate, soprattutto, nel personale sanitario. In pratica, la capacità di relazionarsi positivamente con l’alterità diviene un archetipo che consente di preservare il proprio benessere sia nel contesto di vita personale che in quello lavorativo.

Keywords: relazioni sociali, solitudine, benessere individuale, benessere lavorativo.

 

Il bisogno di relazionarsi con l’alterità e gli effetti negativi della solitudine

Le relazioni sociali sono fondamentali per il benessere di ogni individuo e il relazionarsi con l’altro è un bisogno dell’essere umano (Lieberman, 2013). La capacità di relazionarsi è influenzata dalle caratteristiche di personalità del singolo e dalle contestualità di vita. Nello specifico, l’abilità di stabilire delle buone relazioni sociali dipende da alcuni fattori individuali, che si possono compendiare nei seguenti punti.

  • Un ambiente educativo rigido vissuto nelle fasi precoci della vita ipoteca negativamente la capacità di relazionarsi con l’alterità (Hojat, 1987).
  • L’attaccamento insicuro, che si instaura fra il bambino e la figura di accudimento, è responsabile di una scarsa capacità di stabilire delle relazioni sociali nell’età adulta (Shaver e Hazan, 1987).
  • L’essere vissuti in famiglie in cui è mancata la relazionalità sociale condiziona pesantemente la competenza sociale dell’individuo (Jones e Moore, 1987).
  • Il vivere in un ambiente estremamente deprivato determina un impoverimento delle relazioni sociali (Di Tommaso e Spinner, 1997).
  • La mancanza della competenza interpersonale è responsabile di un deficit nella relazionalità sociale (Hojat, 2016).

L’insieme di uno o più fattori menzionati determina la mancanza di empatia, che è l’archetipo fondante di ogni buona relazione sociale. La solitudine pesa negativamente sul benessere individuale. Infatti, essa può essere un fattore di rischio per alcune patologie psichiche, come le sindromi depressive (Heinrich e Gullone, 2006), con relativa ideazione suicidaria (Mellor e al., 2008), le sindromi ansiose, e per alcune patologie psicosomatiche, come le cefalee, la sindrome da stanchezza cronica (Di Tommaso e Spinner, 1997).

Una condizione di malattia può incidere negativamente sulla capacità di relazionarsi (Soler Gonzales e al., 2017). Per esempio, nei pazienti affetti da patologie croniche, si crea un progressivo impoverimento delle relazioni sociali e questo determina una condizione di solitudine, che implementa la sofferenza provata (Mann e al., 2017). Sovente la persona affetta da patologia cronica tende a compensare questa solitudine, stabilendo delle buone relazioni con il personale sanitario preposto alla sua cura.

La capacità di relazionarsi come archetipo del benessere lavorativo e personale degli operatori sanitari

È importante, quindi, per ogni operatore sanitario sviluppare la capacità di relazionarsi nel migliore dei modi con il paziente (Hojat, 2016). Inoltre, l’abilità di stabilire delle buone relazioni con l’alterità è un paradigma fondamentale per prevenire le patologie lavoro-correlate nel personale sanitario (Marilaf-Caro e al., 2017).

Nella vita di ogni individuo la dimensione lavorativa occupa un posto importante, in quanto ogni persona spende gran parte del suo tempo nell’ambiente di lavoro e come tale ambito viene vissuto è fondamentale, in quanto può incidere negativamente o positivamente sulla qualità della vita. A migliorare o a peggiorare la percezione del proprio ambiente di lavoro interviene la relazionalità sociale e la capacità di relazionarsi che in esso si instaura (Dutton e Ragins, 2007). Delle buone relazioni sociali sul posto di lavoro sono fonte di arricchimento e di crescita non solo per il singolo individuo, ma anche per l’intero gruppo di lavoro. Particolarmente importanti sono le relazioni sociali che si creano in alcuni contesti lavorativi, come, per esempio, negli ambienti ospedalieri, laddove una buona relazionalità fra gli operatori sanitari previene il disagio stress-correlato (Gittel e al., 2013).

Negli operatori sanitari è stato riscontrato che la mancata capacità di relazionarsi e l’incapacità di stringere amicizie nel corso degli studi universitari è correlata ad una difficoltà successiva nello stabilire delle buone relazioni sociali nell’ambiente di lavoro (Papadakis e al., 2005).

Affinché un operatore sanitario possa avere delle buone interazioni sociali nel contesto lavorativo, sia nei confronti dei pazienti che dei colleghi di lavoro, è necessario che possegga tre caratteristiche, ovvero la capacità di capire l’altro, la competenza comunicazionale e il desiderio di aiutare chi è in difficoltà (Yuguero-Torres e al., 2017). Queste tre peculiarità sono, inoltre, alla base dell’empatia. Fra gli operatori sanitari, come alcune ricerche rivelano, i più empatici sono gli infermieri (San-Martin e al., 2017) e, fra i medici, i medici di base, i pediatri e gli psichiatri (Hojat, 2016).

Una recente ricerca spagnola (Soler-Gonzales e al., 2017) ha indagato questi aspetti in 628 medici e infermieri. La ricerca ha stabilito che la capacità degli operatori sanitari di intrecciare delle buone relazioni sociali nell’ambiente di lavoro è correlata ad un decremento delle patologie lavoro-correlate e ad un incremento del benessere percepito nel contesto lavorativo. Relativamente al sesso, le donne stabiliscono più relazioni sociali e sono più empatiche rispetto ai loro colleghi uomini. Rispetto all’età e all’esperienza, gli operatori sanitari più anziani e con più esperienza tendono a fraternizzare maggiormente e questo diminuisce la probabilità di ammalarsi di una patologia stress-correlata.

In conclusione, la capacità di relazionarsi positivamente con l’alterità diviene un archetipo che consente di preservare il proprio benessere sia nel contesto di vita personale che in quello lavorativo.

Lo psicologo con i pazienti in emodialisi: umanizzare la pura assistenza medica

E’ fondamentale sostenere il paziente sottoposto ad emodialisi nel “metabolizzare” le sue emozioni, in modo da ridurre possibili fattori di rischio per l’insorgenza di difficoltà psicologiche, nelle fasi successive. La figura dello psicologo può essere un valido e prezioso aiuto al candidato, ai familiari ed operatori sociali.

Maria Obbedio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI BOLZANO

La lenta evoluzione del disagio dei pazienti sottoposti a emodialisi

La malattia cronica si accompagna spesso a difficili vissuti emotivi e intense dinamiche relazionali che possono aggravare ulteriormente il disagio della persona. Muta la percezione di sé, spesso si lascia l’ambiente lavorativo, cambiano le proprie abitudini, i rapporti interpersonali, la quotidianità è scandita da nuovi ritmi; rassegnazione, incertezza, sfiducia, senso di costrizione dato dalla nuova condizione, influiscono pesantemente sulla qualità della vita del paziente ed inevitabilmente sulle figure di riferimento a lui vicine.

Tali aspetti, oltre ad avere un peso notevole sul benessere generale dell’individuo, hanno una forte influenza anche sulla prognosi evolutiva della malattia organica. La persona si identifica nel ruolo di malato, subisce così un cambiamento nel suo stile di vita e nei suoi ruoli in ambito sociale, familiare e lavorativo (Castelnuovo, 2011). Molto spesso il vissuto che si viene a creare porta i pazienti a vivere la malattia nel timore di non farcela e/o di rimanere da soli. La presenza dello psicologo è importante per poter alleviare e accompagnare il paziente lungo questo nuovo e insidioso percorso; lo psicologo potrebbe svolgere un importante ruolo di sostegno e supporto, accompagnando non solo il paziente, ma anche i familiari e gli operatori sanitari verso un’elaborazione e un’accettazione di alcuni vissuti e stati emotivi negativi che la emodialisi può far emergere.

I reni: funzione e possibili terapie

I reni sono organi fondamentali per la loro capacità di regolare il volume e la composizione dei liquidi corporei. I reni regolano: l’osmolalità e il volume dei liquidi corporei, il bilancio degli elettroliti, l’equilibrio acido-base. I reni inoltre, provvedono all’escrezione dei prodotti terminali del metabolismo e delle sostanze estranee e producono e secernono ormoni.

Il controllo dell’osmolalità dei liquidi corporei è importante per mantenere il normale volume cellulare in tutti i tessuti dell’organismo. Il controllo del volume dei liquidi corporei è necessario per la normale funzione del sistema cardiovascolare (Berne & Levy, Fisiologia 2016). Il rene, svolgendo anche funzioni endocrine, rilascia ormoni che regolano la pressione arteriosa, attivando la vitamina D di fondamentale importanza per il metabolismo osseo, controllando la produzione di globuli rossi (WebMD, 2014 & National Kidney Foundation 2013). Quando sopraggiunge una malattia renale cronica il quadro clinico muta: si ha un graduale venir meno della funzione dei reni che si manifesta con una varietà di sintomi: ipertensione, anemia, anomalie del metabolismo minerale- osseo, alterazioni dello stato nutrizionale, neuropatia, e in ultimo una riduzione della qualità e delle aspettative di vita.

L’ Insufficienza renale cronica (IRC) è classicamente distinta in cinque stadi che vanno dalla insufficienza renale cronica lieve alla IRC terminale – uremia terminale, che porta alla cessazione totale ed irreversibile della funzionalità renale. Nella popolazione uremica si riscontra un tasso di sopravvivenza notevolmente ridotto rispetto alla media (McClellan et al., 2009) legato sia al riferimento tardivo (late referral) allo specialista Nefrologo, sia alle frequenti comorbilità, in particolare con le patologie cardiovascolari (De Nicola et. al., 2010). E’ un problema che interessa circa il 10-15% della popolazione adulta mondiale (Capuano et al., 2012).

Per sopperire alla perdita totale della funzionalità renale sono necessarie terapie sostitutive come l’ emodialisi, la dialisi peritoneale o il trapianto, al fine di garantire il miglioramento e l’aumento della qualità e delle aspettative di vita del paziente.

L’ Emodialisi è una forma di terapia che consente la rimozione dal sangue di sostanze tossiche; ciò è possibile attraverso il “lavaggio e filtraggio” del sangue mediante l’utilizzo di un’apparecchiatura che prende il nome di rene artificiale (dati espressi dall’Azienda Ospedaliera Brotzu). La D.P. (dialisi peritoneale), è come l’ emodialisi, una valida terapia sostitutiva della funzione renale; Il trattamento è domiciliare, di facile esecuzione, gestito autonomamente dal paziente e di basso costo. Il trapianto consiste nel “trasferimento (attecchimento) di cellule umane, tessuti o organi provenienti da un donatore a un ricevente con l’obiettivo di ripristinare delle funzioni nel corpo” (World Health Organization, 2009).

Non esiste un unico tipo di trapianto. Esso può provenire da donatore vivente/non vivente oppure essere effettuato con modalità incrociata, vale a dire lo scambio di rene tra coppie di consanguinei dei candidati, per via dell’incompatibilità tessutale e immunologica (Centro Nazionale Trapianti, 2012.). Nel caso di trapianto da donatore vivente il primo passo da effettuare consiste nel sottoporre ad un iter valutativo piuttosto complesso donatore e ricevente da parte di équipe multidisciplinari indipendenti. Entrambi devono essere accuratamente informati dei rischi e dei benefici relativi a tale forma d’intervento.

È importante che, nel caso di donatore vivente sia in modalità incrociata che non, il donatore sia sottoposto ad una valutazione accurata, cercando di cogliere primariamente quelle che sono le motivazioni alla donazione, per escludere che si tratti di una scelta frutto di pressioni coercitive (Picozzi, 2012 & CNT). I donatori viventi sono una popolazione clinica peculiare, in quanto si tratta di individui sani che decidono di sottoporsi ad un intervento chirurgico di una certa rilevanza (Di Martini et al., 2008). Il donatore vivente può essere un consanguineo o una persona con cui si ha un forte legame affettivo, oppure uno sconosciuto (Klara et al., 2011 & Galeotti, 2012).

Il triplice ruolo dello psicologo con i pazienti sottoposti a emodialisi

Come già precedentemente detto, non si tratta di una condizione puramente medica. Quella che si viene a creare, è una condizione che coinvolge molte sfere della vita del paziente. In passato l’aspetto psicologico era considerato come fattore “secondario” rispetto alla condizione medica e gli psichiatri che lavoravano nelle équipe di trapianto si occupavano principalmente dello screening precoce dei potenziali fattori di rischio psicopatologici che potevano presentarsi dopo il trapianto (Corruble, 2010), forse sottovalutando quelli che possono essere i fattori di rischio che possono presentarsi sin nella fase pre-trapianto.

Sin dall’ iniziale diagnosi di disfunzioni renali il paziente, e di conseguenza i familiari, si trovano a dovere vivere, con impatto forte, un cambiamento complesso. La perdita della funzionalità di una parte del proprio corpo è un’esperienza logorante per il paziente dalla quale scaturisce una riduzione o alterazione della qualità della vita. Il solo pensiero che un organo del proprio corpo non è più funzionante e che debba essere sostituito con quello di un altro essere umano, può essere molto difficile da accettare (Klara et al., 2011).

Basti pensare che alcuni studi hanno mostrato come nella fase iniziale il candidato vive una moltitudine di forti ed intense emozioni che vanno dallo shock, incredulità fino a raggiungere negazione e depressione (Gill, 2012). Non solo, ad esempio alla notizia dell’inserimento in lista d’attesa, il candidato può sperimentare vissuti emotivi diversi: vi può essere alternanza di euforia e sollievo a cui possono far seguito stati d’incertezza e ansia legati al pensiero che possa trascorrere molto tempo prima che si renda disponibile l’organo necessario (Di Martini, 2009), oppure pensieri negativi legati al potenziale fallimento del trapianto, a causa del rigetto dell’organo. Occorre inoltre valutare il cambiamento al quale il candidato è sottoposto: la perdita della funzione renale e della possibilità della minzione, l’inizio dell’ emodialisi, la “perdita” del proprio ruolo sociale, familiare, lavorativo, associate allo stato di dipendenza nei confronti della “macchina” per la emodialisi, degli operatori e dei familiari, possono favorire la comparsa di problemi psicologici, anche di una certa gravità.

Pertanto è fondamentale sostenere il paziente nel “metabolizzare” le sue emozioni, in modo da ridurre possibili fattori di rischio per l’insorgenza di difficoltà psicologiche, nelle fasi successive. La figura dello psicologo può essere un valido e prezioso aiuto al candidato, ai familiari ed operatori sociali. In che modo? Nel candidato come già precedentemente detto, lo psicologo cerca di individuare se sono presenti sin dalle fasi iniziali, delle difficoltà psicosociali e personali, come il candidato gestisce normalmente situazioni di stress, livello e flessibilità nell’adattamento a nuovi ruoli e/o situazioni, strategie di coping; valuta il livello di stress pre-trapianto, il mutamento del ruolo all’interno del sistema familiare, indipendenza, autonomia e privacy.

È importante, pertanto, favorire la metabolizzazione delle emozioni e guidare il paziente nella direzione del riconoscimento e della presa di consapevolezza di queste difficoltà, poiché soprattutto quadri di ansia e depressione correlano negativamente con l’outcome dei trapianti (National Register of Health Servive Psychologists, 2010). Inoltre lo psicologo, inserito all’interno di una rete multidisciplinare, può muoversi per valutare nella fase iniziale la rete di supporto psicosociale che ruota intorno alla figura del candidato e a cui, in situazioni di “crisi”, può rivolgersi.

Importante è valutare anche le strategie di coping, capacità di adattamento e tolleranza a fattori stressanti, al fine di avere un quadro generale della situazione di partenza e per costruire un piano di intervento valido supportivo (Sabia S. 2014). Lo psicologo può servirsi di test, strumenti integrativi utili, per avere un quadro generale più chiaro. Ad esempio per comprendere qual è il modo abituale del paziente di affrontare problemi di salute può essere utilizzato il Millon Behavioral Health Inventory, che è tra i pochi self-report esistenti, specifico per la valutazione psicologica di pazienti ospedalizzati (Collins et. al., 2007 & Sweet et al., 1985), in grado di predire la presenza di una buona o scarsa compliance del paziente in prospettiva del trapianto. Oppure, visto il notevole impatto che la patologia può avere sulla qualità di vita del paziente, lo psicologo può contare nel suo repertorio di uno strumento importante quale il questionario Beck Depression Inventory (BDI) per rilevare la presenza di episodi o disturbi depressivi, non rari in questo tipo di patologie.

Ripetutamente la letteratura empirica sottolinea che è importante organizzare già nella fase pre-trapianto degli incontri di follow-up con i pazienti in lista di attesa, ripetere periodicamente la valutazione, per valutare l’impatto del disagio nella vita quotidiana del candidato, delle reazioni alla medesima e se ci sono dei cambiamenti a livello cognitivo, affettivo, nella compliance e nella qualità e quantità di supporto da parte dell’entourage, nel periodo dell’attesa (Quotidiano Sanità, 2009).

Il ruolo dello psicologo clinico si esplica sia nell’aiuto/supporto tradotto in termini di accettazione, da parte del candidato, dei limiti posti dalla malattia, e sia nella necessità di costruire con il paziente percorsi nuovi nella gestione della quotidianità. La diade che si viene a creare tra candidato e terapeuta è importante poichè ci si confronta con una condizione medica importante come questa, non ci si confronta solo con il dato biologico, con la pura condizione ed esigenza medica, ma con l’insieme delle caratteristiche, dimensioni affettivo-culturale-sociale del soggetto.

Dare sollievo alla sofferenza emotiva di un candidato affetto da una malattia cronica, che si trova a gestire e ridisegnare il proprio status, ad affrontare nell’incertezza la nuova condizione, significa “umanizzare” la pura assistenza medica, riconoscendo al paziente il diritto di avere risposte non solo ai bisogni medico-fisici, legati alla “cura” del corpo ma anche a quelli psicologici (Giornale Italiano di Nefrologia, 2014). Inoltre il ruolo dei familiari risulta decisivo nel percorso di accettazione della patologia e delle sue conseguenze. Lo psicologo anche in questo caso può svolgere un valido e importante ruolo supportivo a favore dell’entourage: quando un membro della famiglia si ammala, ed inizia una terapia, l’equilibrio familiare ne risente. Al fine di andare incontro alle nuove esigenze e alle limitazioni imposte, diviene necessario ridisegnare i ruoli, modificare le abitudini e gli stili di vita finora mantenuti.

I ritmi della vita del paziente, sono scanditi dai ritmi della emodialisi, che richiede al candidato e ai familiari molte risorse fisiche, psicologiche e, non meno importanti, organizzative (Sabia S. 2014). Il nucleo familiare vive una continua situazione di stress peggiorata dalla continua incertezza ed ansia per il futuro, sul quale pesano possibili aggravamenti della patologia, complicazioni e morte. I sentimenti di frustrazione verso l’impossibilità di intervento concreto nei confronti della malattia si uniscono al disagio che può scaturire dal dover gestire in solitudine o in maniera adeguata e continuativa, sia sul piano fisico che psicologico, il familiare sottoposto a cura. I familiari possono essere esposti a rischi di isolamento sociale, eccessivo carico di stress, aumento dell’ansietà (Giornale Italiano di Nefrologia, 2014).

In questi casi può essere utile la figura di un professionista e di uno “spazio” personale in cui poter esprimere i propri sentimenti, paure, disagi e difficoltà emotive in piena libertà e senza incorrere in giudizi. Infine lo psicologo, se inserito all’interno di una equipe multidisciplinare, può supportare il personale medico. Gli operatori sanitari sono continuamente costretti a confrontarsi con la sofferenza, con tematiche legate alla perdita e alla morte. Questo può essere causa di insorgenza di stress emotivo e talora di veri e propri rischi di burn-out (Giornale Italiano di Nefrologia, 2014). Lo psicologo potrebbe garantire quella “finestra” nella gestione del carico emotivo-lavorativo utile al fine di ridurre l’impatto emotivo e stressante nella gestione del paziente nella relazione con i familiari e colleghi, così da garantire una migliore presa in carico.

Allopregnanolone: un neurosteroide coinvolto nei disturbi di anoressia e obesità

L’ allopregnanolone, conosciuto comunemente come “allo”, è un metabolita del progesterone, nonché neurosteroide che si lega ai recettori del neurostrasmettitore gamma-amminobutirrico (GABA) modulandone l’attività.

 

Agli stessi recettori si legano anche le sostanze ansiolitiche, come le benzodiazepine. Nel momento in cui una sostanza si lega ai recettori gabaergici, l’allopregnanolone solitamente ne bilancia il segnale, dando origine ad umore positivo e sensazioni di benessere.

Diversi studi hanno evidenziato bassi livelli di allopregnanolone in patologie di ansia e depressione, disturbi spesso associati ad anoressia ed obesità.

Uno studio recente (Dichtel, 2017), a differenza dei precedenti, ha indagato l’impatto dell’ allopregnanolone su donne anoressiche e obese. Le partecipanti alla ricerca erano 12 donne con anoressia nervosa, amenorrea (assenza di ciclo mestruale)  e un indice di massa corporea (IBM) minore di 18,5; 12 donne normo-peso con un IBM tra 19-24 e 12 donne obese con un IBM maggiore di 25. I partecipanti né avevano ricevuto una diagnosi di depressione/ansia, né assumevano antidepressivi. L’ ansia e la depressione erano state valutate con un questionario e i livelli di allopregnanolone erano stati misurati attraverso l’analisi del sangue.

I risultati evidenziavano che sia le donne con anoressia che quelle obese presentavano livelli di allopregnanolone nel sangue minori del 50 % rispetto a quello delle donne normo-peso. Inoltre, in tutti i partecipanti, i livelli di allopregnanolone correlavano significativamente con la severità dei sintomi depressivi e ansiosi valutati attraverso il questionario.

Chi possedeva bassi livelli di allopregnanolone presentava sintomi depressivi o ansiosi più gravi. Il decremento dell’ allopregnanolone nelle donne con anoressia od obesità, dunque, potrebbe essere dovuto a un funzionamento anomalo degli enzimi responsabili della trasformazione del progesterone in allopregnalone, causando anche disturbi dell’umore.

Alla luce di ciò, le sostanze che facilitano l’efficacia di questi enzimi potrebbero essere utili nell’incrementare i livelli di allopregnanolone, ma sono necessarie altre ricerche per individuare quale sia esattamente il deficit nel metabolismo del progesterone. In questo si potrebbero sviluppare farmaci che usino l’ allopregnanolone come marcatore biologico.

La speranza è quella di approfondire i meccanismi che determinano queste patologie per pensare a nuove terapie da utilizzare in futuro. In questa prospettiva Graziano Pinna, autore dello studio sopracitato e professore associato di psichiatria presso il “Chicago College of Medicine”, ha già avviato studi preclinici sui ratti, attraverso diverse strategie farmacologiche, per individuare le sostanze che incrementano i livelli di allopregnanolone nel sangue.

Gli effetti negativi dei “media digitali” sulla qualità del sonno dei bambini

Secondo un nuovo studio i bambini e gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili agli effetti dei dispositivi elettronici, come smartphone e tablet, i quali possono interferire con la qualità del sonno e riducono le ore di riposo.

 

I dispositivi elettronici ritardano il sonno nei bambini

Uno studio condotto presso l’università del Colorado-Boulder e pubblicato sulla rivista Pediatrics, ha spiegato per quale motivo i bambini piccoli dovrebbero evitare di utilizzare gli smartphone, soprattutto prima di andare a dormire.

Sono state prese in esame le abitudini di 454 bambini e adolescenti e sono emersi i seguenti dati: il 60% di loro va a letto con il cellulare, il 45% lo usa come sveglia e ben il 90% dei bambini tra i 5 e i 17 anni vanno a letto tardi, dormono poco e male proprio perché non riescono a state lontani dallo smartphone quando invece dovrebbero riposare durante la notte.

I ricercatori hanno spiegato che la luce emanata dai dispositivi ha degli effetti negativi sui ritmi circadiani e sulla fisiologia del sonno, abbassando il livello di melatonina del corpo, l’ormone che regola il ritmo sonno-veglia. “La luce è il nostro orologio naturale. Quando la luce colpisce la nostra retina durante le ore serali, invia una cascata di segnali al sistema circadiano al fine di tenere a bada la melatonina e di ritardare il sonno”, ha spiegato Monique LeBourgeois, professore associato del dipartimento di fisiologia al CU Boulder e autrice dello studio.

Gli studiosi sottolineano che esposti alla stessa intensità di luce, adulti e bambini producono una risposta diversa, in quanto, il livello di melatonina dei bambini si riduce di ben due volte in più rispetto al livello negli adulti.

In tal senso gli autori dello studio suggeriscono di rimuovere tutti i dispositivi elettronici dalla stanza dei bambini, inclusa la tv e di stabilire delle regole relativamente all’utilizzo dei dispositivi elettronici.

 

Ecco di seguito le 3 regole auree per il buon sonno dei più piccoli:
a) Limitare l’utilizzo dei media digitali ai bambini nelle ore che precedono il sonno notturno;
b) Spegnere tutti i dispositivi nelle stanze da letto, e collocarli in una stanza lontana;
c) Rimuovere ogni altra apparecchiatura elettronica dalle stanze da letto, come TV, videogame, computer, tablet e telefoni.

ACT – Acceptance and Commitment Therapy: fare terapia tra accettazione e impegno

Secondo il modello Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio.


  1. Introduzione
  2. Evitamento o Apertura all’Esperienza?
  3. Fusione e De-fusione cognitiva
  4. In Quale Tempo Viviamo?
  5. Quale maschera indossiamo?
  6. I Valori: So cosa per me è importante?
  7. Inattività o Impegno dell’Azione?
  8. Acceptance e Commitment Therapy e i suoi ACTors: la parola ai protagonisti

ACT – Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione


Secondo la visione di Steven Hayes, l’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) fa parte di un movimento più ampio, basato e costruito su precedenti terapie comportamentali e cognitivo-comportamentali. Tuttavia, alcuni concetti presenti nella struttura corporea dell’ ACT sono caratterizzati da istanze peculiari che costituiscono una nuova fase evolutiva, sia da un punto di visto teorico sia applicativo.

Le terapie cosiddette di “terza ondata” sono caratterizzate da strategie di cambiamento su basi contestuali ed esperienziali (oltre agli aspetti più didattico-direttivi) e da una forte sensibilità al contesto dei fenomeni psicologici e non alla loro forma o al loro contenuto. Insomma, il focus è concentrato sui processi mentali.

Come già indicato in molti articoli di State of Mind, le terapie di terza ondata hanno diversi aspetti in comune:

  • Focus sui processi di accettazione;
  • Focus sul decentramento/shifting cognitivo;
  • Focus sulla relazione terapeutica;
  • Focus ciò che per l’individuo è importante nella vita (i valori).

In un momento storico come quello del mondo scientifico attuale, sta emergendo sempre più la necessità di fornire una teoria di base, che spieghi il funzionamento psichico globale, fondata su chiari fondamenti teorici e, allo stesso tempo, strettamente connessa ai protocolli e alle tipologie di trattamento clinico. Potremmo, quindi, sostenere che l’ Acceptance and Commitment Therapy sia una moderna forma di terapia cognitivo-comportamentale disegnata per incrementare le capacità personali di perseguire obiettivi e valori individuali significativi.

L’ ACT si basa su un modello teorico-filosofico noto come Relational Frame Theory. Secondo tale teoria, nell’essere umano, il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di frame relazionali, di cornici relazionali, nucleo centrale del linguaggio e non necessariamente per esperienza diretta).

L’origine della sofferenza psicologica risiede nella normale funzione di alcuni processi del linguaggio umano (es. problem solving), quando applicati alla risoluzione di esperienze private/interne (es. pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni corporee, ecc.), invece che alla risoluzione di eventi/situazioni del mondo esterno.

Riteniamo che questo sia un aspetto molto importante dell’ Acceptance and Commitment Therapy. Tali processi mentali portano l’individuo a dare significato e sperimentare il pensiero in modo letterale. Per questo motivo, se ho un pensiero di inadegatezza allora io sono inadeguato. L’eccesso di tale processo porta a quello che in ACT viene chiamato il sé concettualizzato (una maschera scomoda che indossiamo, di cui abbiamo già scritto su State of Mind).

Di fatto l’ Acceptance and Commitment Therapy non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente.

Il fine ultimo dell’ Acceptance and Commitment Therapy è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT.

I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto.

Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente.

Insomma, secondo il modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio.

Il modello della psicopatologia, quindi, è un modello di inflessibilità psicologica e di “blocco/incastro”, in cui se si lascia che i pensieri (intesi in senso molto ampio) vivano al posto nostro arriviamo a non avere chiaro cosa vogliamo della vita e che cosa sia importante per noi.

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Acceptance and Commitment Therapy – Evitamento o Apertura all’Esperienza?


ACT – Acceptance and Commitment Therapy la terapia tra accettazione e impegno- imm1

L’ evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Dunque un primo processo chiave dell’ ACT è l’ evitamento esperienziale, la cui controparte è l’ accettazione.

Come accennato precedentemente, l’ accettazione rientra nel macro-processo di processi di mindfulness e accettazione, cardine per la flessibilità psicologica cui mirano i percorsi psicoterapici ACT.

Ma che cos’è esattamente l’evitamento esperienziale? L’ evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.

L’ evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione della rabbia.

Che sia rivolto all’interno della nostra esperienza psichica o all’esterno, la natura e la funzione dell’ evitamento esperienziale non cambia: lo scopo è fuggire, razionalizzando, ignorando, iperspiegando… insomma, cercando con tutte le forze di allontanare ciò che per noi è doloroso e che riteniamo insopportabile.

Possiamo, quindi, evitare pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni (anche piacevoli, ad esempio entrare in contatto con l’intimità…) ma anche situazioni esterne.

E’ fondamentale comprendere insieme al paziente quali siano le aree della sua esperienza in cui presenta un repertorio e modalità di fare esperienza che siano ristretti, ripetitivi, ricorsivi e che portino alla formazioni di circoli viziosi dannosi.

Anche durante la terapia, e nella relazione terapeutica, è possibile osservare alcuni comportamenti del paziente che facciano pensare ad una messa in atto dell’ evitamento. Vediamone alcuni. Rispondere in modo aggressivo ad un intervento del terapeuta, arrivare in ritardo alla seduta, attivare spesso e volentieri l‘accudimento del terapeuta tramite una richiesta di aiuto disfunzionale e allarmante. Altre situazioni di evitamento esperienziale potrebbero essere le risate durante un racconto doloroso e sofferente, non lasciare mai spazio agli aspetti negativi e dolorosi degli episodi narrati oppure cambiare in modo repentino argomento mentre in seduta si stanno affrontando temi importanti per il paziente.

Come si può vedere da questi esempi, tutti questi comportamenti sono accomunati dallo scopo di evitare pensieri, emozioni, immagini e ricordi dolorosi che sarebbe opportuno affrontare. Il tutto con l’aspettativa e la convinzione che controllando questi aspetti si possa soffrire meno. Presto ci si accorge che, come ben scrive Hayes: “the control is the problem, not the solution” (“il controllo non è la soluzione, ma il problema”).

Quale alternativa, quindi, all’ evitamento esperienziale? Il corrispettivo funzionale dell’ evitamento esperienziale nell’ ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”.

Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorno la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi.

Per quanto difficile tale processo possa essere, l’alternativa sembra più dannosa: versare tutto nel pentolone bucato del dimenticatoio non funziona e non fa altro che aggiungere dolore e sofferenza al dolore già normalmente presente nelle vite di tutti gli esseri umani.

Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’ evitamento esperienziale (metafora frequente nell’ Acceptance and Commitment Therapy) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.

In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.

Proviamo ad immaginare un tema di sofferenza a noi (ahimè) caro. Questa immagine continua a presentarsi nella nostra mente e non ha nessuna intenzione di andarsene. Puntualmente si ripresenta nella nostra esperienza e ne influenza i comportamenti e gli esiti del nostro agire. Cosa potremmo farci con questa immagine?

Se metto in atto un evitamento esperienziale potrei far finta di niente, cercare con tutte le risorse che ho di allontanarla, di non pensarci, di scaricare l’emozioni che accompagna l’immagine con un comportamento impulsivo, o con l’uso di una sostanza, e così via… Dove porterebbero tali tentativi di allontanamento da questa immagine dolorosa?

Se la risposta è facile, la soluzione non lo è di certo. Assumente un atteggiamento di apertura, di accettazione verso la propria esperienza richiede sforzo, tempo, fatica, impegno e anche sofferenza.

Ma se, come ricorda il titolo del famoso libro di Hayes, vogliamo “Smettere di soffrire e iniziare a vivere” forse questa sarebbe la strada più appagante e a lungo termine meno dolorosa.

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ACT, Acceptance and Commitment Therapy – Fusione e De-fusione?


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Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo. Un secondo processo, incluso nel macro-processo processi di mindfulness e accettazione è la Fusione Cognitiva.

Che cos’è la Fusione Cognitiva? Si riferisce alla tendenza degli esseri umani di essere catturati, “imbrigliati” dai contenuti dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo.

Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro.

Se io mi definisco come una “persona inadeguata nelle relazioni sociali” tale insieme di pensieri influenzeranno le mie azioni e, nei casi estremi, mi faranno vivere tutte le esperienze relazionali con questa lente, che rappresenta sì il mio modo di vivere le esperienze, ma canalizza e semplifica eccessivamente le informazioni legate a come sono “io in relazione con gli altri”. Potrei quindi, sminuire le situazioni relazionali in cui non sono stato inadeguato, oppure le valutazioni che gli altri fanno di me, in cui sostengono che “non è vero che sei inadeguato” etc…

Che effetto ha quindi la fusione cognitiva nella nostra esperienza di tutti i giorni?

Le valutazioni che riguardano la vita di tutti i giorni possono addirittura arrivare a sostituire la nostra esperienza della vita stessa. Spesso non si riesce più a distinguere tra il mondo costruito e valutato (attraverso il linguaggio) da quello di cui si ha conoscenza diretta attraverso l’esperienza sensoriale.

Il focus dell’intervento è, quindi, sui processi cognitivi, e non sui contenuti specifici dei pensieri. In questa ottica, i pensieri si sostituiscono alla nostra esperienza presente e sensoriale in un processo di vera e propria “alterazione” dell’esperienza nel presente.

Nell’ Acceptance and Commitment Therapy, sono previste diverse forme di fusione cognitiva:

  1. Fusione giudizio – evento;
  2. Fusione dannosità immaginata di un evento – evento dannoso;
  3. Fusione con le attribuzioni causali arbitrarie che l’individuo costruisce rispetto alla propria storia di vita;
  4. Fusione con il passato o con il futuro concettualizzato (di cui parleremo in modo più approfondito in seguito).

La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ ACT è la Defusione.

Che cos’è la Defusione? La Relational Frame Theory (di cui abbiamo accennato precedentemente) postula che non sia di primaria importanza intervenire in modo diretto sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ Acceptance and Commitment Therapy: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.

Brevemente, l’ ACT intende promuovere due capacità psicologiche:

  1. Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute;
  2. Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Allenando tali abilità, e a mettersi nella posizione consapevole dell’osservatore, è possibile aumentare i gradi di libertà psicologica dell’individuo. Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile scegliere di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.

Un’ulteriore abilità che l’ Acceptance and Commitment Therapy tenta di promuove nell’individuo è quella di rinunciare a controllo dei propri pensieri e lasciarli andare, lasciargli spazio, passarci attraverso e grazie a questo diminuire l’influenza e la potenza di tali pensieri.

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ACT – Acceptance and Commitment Therapy: in Quale Tempo Viviamo?


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Un terzo processo, incluso nel macro-processo processi di mindfulness e accettazione è la Dominanza di passato e futuro concettualizzato.

Che cos’è la Dominanza del passato e del futuro sul momento presente? Potremmo definire la dominanza passato/futuro come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita.

Vi sono molti esempi di dominanza del passato o del futuro sul momento presente. Pensiamo ad esempio al rimuginio o alle ruminazioni depressive. Nel momento in cui si rimugina o si rumina sul passato, tale processo richiede molte energie e concentra tutta la nostra attenzione sul processo stesso. In questo modo, viviamo in un tempo diverso da quello presente e lasciamo che i nostri pensieri di rimuginio o di ruminazione ci “ingaggino” e ci trascinino in una dimensione molto diversa, e talvolta anche lontana nel tempo, da ciò che stiamo esperendo nel presente.

Altri segnali della dominanza del passato/futuro sono, ad esempio, l’eccesso di rigidità e la mancanza di consapevolezza rispetto a ciò che succede intorno all’individuo nel momento presente. Oppure alle difficoltà di attenzione o anche a segnali più lievi di “mindlessness” o sbadataggine.

Un piccolo esperimento di osservazione potrebbe permetterci di farci un’idea di quando noi stessi lasciamo che il passato e il futuro “vivano” al posto nostro la nostra esistenza…

Il seguente elenco, ripreso da un training ACT a cui ho partecipato ci aiuta a capire cosa osservare (in colloquio), gli elementi che potrebbero farci ipotizzare una difficoltà legata alla dominanza passato/futuro sul momento presente.

  • Il paziente riesce a mantenere il contatto oculare o è “perso nei propri pensieri”?
  • Il paziente cambia in modo significativo il tono di voce?
  • Si riscontra la presenza di pensiero ripetitivo?
  • Si distrae spesso e facilmente con suoni o rumori anche lievi?
  • Alla richiesta di cambiare argomento o di affrontare un aspetto diverso (altro argomento, altro momento temporale di vita, esercizio, etc), ci riesce?
  • Come reagisce il paziente quando gli si chiede di spostare e/o di portare la propria attenzione e notare aspetti specifici della propria esperienza?

Questi sono solo alcuni esempi di come notare la dominanza del passato o del futuro. Nell’ottica dell’ Acceptance and Commitment Therapy i pazienti che passano ore e ore a rimuginare e a preoccuparsi per eventuali catastrofi future o a temere che qualcosa possa succedere mostrano una inflessibilità e una rigidità nella scelta consapevole di spostare l’attenzione su un altro aspetto della propria vita; ciò dirige verso una difficoltà a “depotenziare” o ad “abbassare il volume” e quindi l’influenza di tali processi psicologici disfunzionali.

Che fare, quindi, con i pazienti che mostrano una severa dominanza del passato e del futuro sull’esperienza presente? La proposta dell’ ACT è: Promuovere il contatto con il momento presente. Cosa significa essere in contatto con il momento presente?

Essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale”, tendiamo naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che facciamo. Come se spesso le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci permette di svolgere più attività in contemporanea. Sebbene, in molte occasioni, tali automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e perdere il contatto con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita.

Almeno per due motivi: il primo, è legato al fatto che vivendo in automatico, limitiamo la qualità della nostra esperienza e non siamo consapevoli di ciò che ci sta succedendo, anche quando si tratta di situazioni o episodi gradevoli positivi e appaganti. Il secondo motivo , riguarda appunto la dominanza del passato e del futuro. Infatti, se noi facciamo esperienza guidati (o per meglio dire “oscurati”) dalle lenti dei rimuginii e delle ruminazioni, non faremo altro che confermare ciò che la nostra mente ci racconta, in un processo di “profezia che si autoavvera” in cui, ad esempio, se mi approccio ad un’esperienza dopo averci rimuginato per ore arrivo ad affrontare quella stessa esperienza con un carico emotivo ansiogeno da cui non ho scampo; e l’esito di tale esperienza sarà molto simile a come me lo sono immaginato nelle mie rimuginazioni sul futuro.

Entrare in contatto con il momento presente significa anche scegliere consapevolmente di portare la propria attenzione su ciò che sta accedendo dentro di me e nel mondo fisico esterno in quel preciso momento. Detto in altri termini, risvegliarsi all’esperienza ed essere presenti a se stessi e agli altri e aprirsi con disponibilità a ciò che il presente ha da offrire.

Coltivare un atteggiamento di apertura e di disponibilità porta a sviluppare diverse risorse, che contribuisco a promuovere la flessibilità psicologica, faro auspicabile dell’ ACT.

Tra tali risorse, ne ricordiamo brevemente alcune. Mantenere il contatto con il momento presente permette di “apprendere dall’esperienza” e di notare cosa sta accadendo nel momento stesso in cui accade, presenti a noi stessi e all’esperienza nel momento presente. Ciò permette di individuare risposte adeguate e di agire in modo consapevole e adeguato. Un secondo vantaggio del focalizzarsi sul momento presente riguarda la possibilità di spostare l’attenzione (shifting) verso aspetti importanti a fondamentali dell’esperienza. In questo modo, si può riuscire a “muoversi” in modo flessibile con il contesto, mentre l’esperienza stessa si modifica, in un moto evolutivo costante e in perpetuo cambiamento. Aprirsi alla propria esperienza di ansia nel momento presente può aiutare a “accettare” lo stato ansioso e a notare come questo cambia e si modifica con il tempo… rimanere agganciati non solo all’emozione dell’ansia ma anche a tutti i pensieri legati allo stato di ansia (e quindi rimuginare, in un processo di dominanza del futuro, ovvero le preoccupazioni) e non notare la naturale evoluzione dell’ansia, che porterebbe (nella maggior parte dei casi…) a una sua naturale diminuzione.

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ACT – Quale maschera indossiamo?


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Ciò che l’ACT promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza mentre questa avviene.

Il quarto processo dell’ Acceptance and Commitment Therapy, incluso nel macro-processo di mindfulness e accettazione, è il “Sé Concettualizzato”.

Potremmo definire il sé concettualizzato come un insieme di “fusioni” a definizioni di noi stessi che la mente di ognuno di noi ci racconta. Queste definizioni, solitamente, toccano aspetti nucleari e rilevanti per la definizione di sé e di sé-in relazione con gli altri.

Quando questo processo è molto presente e dannoso, ci identifichiamo fortemente con i contenuti della nostra mente e, in particolare, con quei pensieri, immagini e ricordi disfunzionali che fanno sì che nella vita di tutti i giorni noi viviamo indossando la maschera che la nostra storia di vita ha costruito per noi.

Ci sono varie forme che il sé concettualizzato può assumere nella nostra quotidianità. Alcune tra le più frequenti possono essere le “etichette” che noi stessi ci diamo. Pensiamo, ad esempio, all’essere “il malato”, “lo sfortunato”, “l’imbranato” etc… . In altre occasioni il sé concettualizzato assume il contenuto di fissazioni rigide su specifici problemi, blocco che porta a non riuscire a cogliere l’evoluzione dell’esperienza. In altre occasioni ancora, il sé concettualizzato può essere caratterizzato da “fusioni” con alcuni aspetti di sé rigidi e astratti/valutativi.

Alcune domande utili a individuare quanto il passato concettualizzato influenza il modo con cui noi stessi ci descriviamo e ci etichettiamo nel presente possono essere le seguenti (adattate da un training ACT Italia cui ho partecipato):

  • Che regole si porta dietro dal passato?
  • Quando eri bambino, quali erano le emozioni “giuste” e quelle “sbagliate”, indesiderabili che non potevi provare?
  • Da bambino, cosa ti dicevano in merito a come gestire le tue emozioni, soprattutto quelle spiacevoli?
  • Quali emozioni si potevano esprimere liberamente nella tua famiglia?
  • Quali emozioni erano scoraggiate o disapprovate?
  • Nella tua famiglia, gli adulti come gestivano le loro emozioni negative/spiacevoli?
  • Quali strategie di gestione (leggi: controllo) delle emozioni venivano utilizzate?
  • Nella tua famiglia, gli adulti che reazioni avevano di fronte alle tue emozioni spiacevoli/negative?
  • Come effetti di tale esperienza, quali idee/visioni/significati/rappresentazioni ti porti dietro sulle tue emozioni e su come gestirle?

Queste domande potrebbero essere un ottimo spunto di riflessione per comprendere ciò che le persone hanno imparato dalla propria storia personale e a quali “insegnamenti”, idee e convinzioni ha finito per credere.

Ciò che l’ ACT suggerisce come controparte virtuosa del sé concettualizzato è il Sé Come Contesto.

In breve, potremmo sostenere che il sé come contesto è un punto di vista nuovo, talvolta mai sperimentato, in cui impariamo a osservare la nostra esperienza interna ed esterna da un punto di vista privilegiato, cioè quello di un “osservatore partecipe, gentile, compassionevole e curioso” della propria esperienza.

Ciò che l’ Acceptance and Commitment Therapy promuove è l’osservazione delle esperienze mentre esse avvengono, tramite uno sguardo attento e consapevole (potremmo dire meta-cognitivo) di (auto)riflessione della propria esperienza mentre questa avviene.

Questo potrebbe portare a scoprire che noi stessi possiamo imparare ad osservare la nostra esperienza mentre avviene, a guardarla in modo curioso e allargare in questo modo l’orizzonte delle possibilità, delle scelte e riconoscere in questo modo quale è la maschera che indossiamo.

Mantenendoci dentro la maschera che indossiamo, potremmo pensare al Sé Come Contesto come ad un attore, che sa di essere un attore, sa di essere su un palco e che sa che una volta conclusa la storia messa in scena si può “uscire dal personaggio”, togliere la maschera e vivere le esperienze della vita nella loro interezza, in modo pieno e significativo, meno vincolato dalla propria storia e, soprattutto, scegliendo se seguire il “personaggio della sua maschera” (e comportarsi come se credesse alla storia del proprio sé concettualizzato) oppure no.

Nell’ ACT questo atteggiamento viene chiamato “consapevolezza di essere consapevole”, oppure “coscienza dell’essere cosciente”.

E, a pensarci bene, tale abilità è ciò che caratterizza la pratica della mindfulness e che la rende qualcosa di pienamente diverso da quasi tutto il resto degli esercizi esperienziali e comportamentali presenti in psicoterapia.

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Acceptance and Commitment Therapy – I Valori: So cosa per me è importante?


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Un processo fondamentale dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata la Mancanza di contatto con i propri valori.

In breve, con tale mancanza si intende l’insieme di difficoltà legate all’individuazione di ciò che per il singolo individuo è importante e rende(rebbe) la propria vita significativa e ricca. Si può manifestare in varie forme e modalità, ma il punto centrale che si può osservare è la confusione e la vacuità degli scopi personali e delle mete individuali. In sostanza, le persone che presentano difficoltà nel processo Mancanza di chiarezza/contatto con i propri valori hanno difficoltà a rispondere alla domanda: “cosa voglio dalla vita?” oppure “cosa è importante per me?” oppure “quali sono i miei valori?”.

A questo punto è necessaria una piccola specificazione: con il termine valori nell’ ACT si intende qualcosa di diverso dagli obiettivi personali, dalle aspirazioni concrete e dalla morale. Potremmo definire i valori come “long-term desired qualities of life” (qualità della vita desiderate a lungo termine; Hayes et al., 2006). I valori sono ciò che motiva le persone al cambiamento, ad affrontare momenti difficili. Potremmo pensare “Questo è per me importante, e lo porterò avanti nonostante le emozioni difficili che sto provando”.

Le scelte difficili della nostra vita, spesso vengono fatte proprio facendoci guidare dai nostri valori.

Chi non si muove secondo i propri valori, si trova spesso a preferire una gratificazione a breve termine che, seppure dannosa, ci dà la illusoria impressione di “gestire” le emozioni difficili. Altra caratteristica dei valori è che vengono scelti liberamente dal singolo individuo.

Utilizzando le parole di Steven Hayes:

Values are chosen qualities of purposive action that can never be obtained as an object but can be instantiated moment by moment. ACT uses a variety of exercises to help a client choose life directions in various domains (e.g., family, career, spirituality) while undermining verbal processes that might lead to choices based on avoidance, social compliance, or fusion (e.g., ‘‘I should value X ’’ or ‘‘A good person would value Y ’’ or ‘‘My mother wants me to value Z ’’). In ACT, acceptance, defusion, being present, and so on are not ends in themselves; rather they clear the path for a more vital, values consistent life (Hayes et al., 2006, p.9).

Spesso i valori sono mete finali, che guidano l’azione impegnata nella vita. Possiamo avvicinarci ai nostri valori tramite insiemi di obiettivi, concreti, fattibili (workable,una delle parole chiave dell’ ACT) e praticabili.

Facciamo alcuni esempi. Ad un valore come quello di “prendersi cura della propria relazione”, un individuo potrebbe scegliere diversi obiettivi come “ascoltare il proprio partner”, “essere sincero con lui/lei” etc. Se una persona ha come valore “mangiare sano” potrebbe perseguire azioni e darsi obiettivi legati alla dieta, al come farla, a cosa mangiare. Se il valore è “prendersi cura del proprio fisico”, potrebbe sviluppare obiettivi come “andare in palestra”, “camminare” etc.

I valori spesso entrano in terapia. Alcune persone potrebbero richiedere una psicoterapia per un problema d’ansia. Per questa persona, “agire più coraggiosamente e fare esperienza” potrebbe essere un valore. Un obiettivo che ci si potrebbe porre nel percorso con questo paziente potrebbe essere quello di “lasciare spazio all’ansia e gestirla in modo più utile”.

Nella riflessione con i pazienti sui valori, dobbiamo stare attenti a una piccola/grande trappola: gli obiettivi da uomo morto (dead person’s goal). Sono quelle aspettative e obiettivi personali (e spesso di terapia) che focalizzano l’attenzione su ciò che non si vuole ottenere, che non si vuole provare, che vogliamo che non accada. Insomma, quando i pazienti ci portano obiettivi formulati al negativo, come ad esempio, “non voglio avere l’ansia”, “non voglio più sentirmi triste”, “voglio che mia moglie non mi lasci”.

Come possiamo osservare la mancanza di contatto con i propri valori?

Secondo il modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy, potremmo trovarci di fronte a diverse situazioni. La prima, a mio personale parere la più frequente, si manifesta con una sensazione di forte confusione, rispetto a ciò che la persona ritiene importante e significativo per sé, che si può concretizzare in frasi come : “non so proprio cosa voglio, cosa mi importa in questo momento” . Una seconda situazione si trova nel momento in cui l’individuo manifesta una completa (o quasi) assenza apparente di aree della vita che considera importanti, di valore appunto (ad es. lavoro, prendersi cura di sé, relazioni, famiglia etc…). Una frase tipica può risuonare con un “per me nulla è importante, ormai”.

Esistono anche situazioni opposte, in cui tutte o quasi tutte le aree di valore sono considerate di grande importanza per l’individuo ma allo stesso tempo non c’è un investimento coerente con il valore. Qui ci possiamo trovare di fronte a persone bloccate da un ideale di perfezionismo eccessivo che causa l’effetto opposto dell’impegno secondo i propri valori (“tanto non sono mai contento, per cui non mi ci metto neanche”).

Secondo l’ ACT, un lavoro importante da fare con questi pazienti è quello di riflettere insieme sui valori, sugli obiettivi per raggiungerli e chiarire la fattibilità e l’utilità di impegnarsi per i propri valori, mettendo in conto e lasciando spazio alle difficoltà, che nel breve termine si potrebbero incontrare.

Metafore molto utilizzate nell’ ACT per discutere insieme al paziente dei propri valori e obiettivi sono quella della bussola, del faro e del viaggio.

Essendo una forma di psicoterapia che trae molte riflessioni dalla componente esperienziale/immaginativa, il consiglio è di provare prima su di sé a riflettere sui propri valori e sulle proprie azioni impegnate, chiedendoci, ad esempio: “Cosa per me è importante?”

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ACT – Inattività o Impegno dell’Azione?


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L’ultimo dei processi inseriti nel modello dell’ Acceptance and Commitment Therapy è la mancanza di attività e impegno per perseguire un valore personale.

Cosa significa? anche quando riusciamo a diventare consapevoli dei nostri meccanismi dannosi, delle nostre fusioni, delle maschere che indossiamo e dei momenti di mindlessness, in cui ci comportiamo con il pilota automatico acceso, resta un passo importante da fare: impegnarsi per l’azione! e perseguire i propri valori!

Gli ostacoli più dannosi a tale impegno possono essere riassunti in due categorie di comportamenti: l’impulsività e l’ evitamento persistente.

Entrambi tali comportamenti portano a vivere una vita caratterizzata da restrizione delle attività e rigidità del repertorio comportamentale. Fare sempre le stesso cose, evitare sempre le stesse situazioni equivale a non fare!

L’effetto maggiormente disfunzionale della inflessibilità comportamentale è che tale scelta (perché in fondo, di scelta si tratta…) rende difficile adattare i propri obiettivi e i propri scopi personali alle esigenze del contesto e ciò porta l’individuo ad un continuo confronto con i propri ostacoli, che spesso ha esito negativo.

Ciò che l’ Acceptance and Commitment Therapy persegue è favorire la consapevolezza dell’individuo su tali meccanismi e il riconoscimento di come perseguire all’interno di un panorama di impulsività e evitamenti lo porti ad agire contro i propri valori.

L’ azione impegnata, termine usato in Acceptance and Commitment Therapy per definire l’azione personale guidata dai propri valori, prevedere che l’individuo “faccia i conti” con le proprie difficoltà e fragilità.

Accogliendo e prendendo contatto con le proprie fragilità e guidando le proprie azioni partendo dai propri valori personali permette di perseguire una vita significativa e ricca, non senza sofferenze, ma soddisfacente e scelta!

Un tema molto caro all’ Acceptance and Commitment Therapy è il concetto della workability, della “fattibilità“. Un’azione impegnata e guidata dai propri scopi deve essere anche fattibile, perseguibile. Ad esempio, se io vado in terapia con l’obiettivo di “non provare mai l’ansia“, posso anche impegnarmi a cercare di evitare il meno possibile le situazioni ansiogene, posso impegnarmi nelle esperienze proposte dal percorso psicoterapeutico, ma se il mio obiettivo rimane quello di non provare mai ansia l’esito sarà fallimentare, perché non è fattibile!

Perché allora l’impulsività e l’evitamento sono azioni poco funzionali? Perché entrambe non sono perseguibili per un lungo periodo di tempo. Sia l’agire in modo impulsivo nella maggior parte delle situazioni sia evitare tutto ciò che mi fa paura non può portare a risultati soddisfacenti, in termini di benessere personale e relazionale.

La proposta dell’ Acceptance and Commitment Therapy è ciò che viene chiamata “committed action”, l’azione impegnata.

  • Scegliere continuamente di impegnarsi in azioni nella direzione dei propri valori personali, nonostante le emozioni difficili che si potranno incontrare durante il percorso
  • Impegnarsi nelle azioni importanti per se stessi e nel momento di difficoltà ancorarsi al respiro, in modo quanto possibile gentile, grazie alle pratiche di mindfulness
  • Godersi anche il viaggio, non concentrarsi sempre e solo sui piccoli obiettivi (un piccolo fallimento può essere un passo importante e diretto verso i propri valori personali)
  • Persistere e mantenere tale impegno, mettendo in conto ostacoli e difficoltà (ad esempio, paura di sbagliare, ricordi dolorosi, sensi di colpa, vergogna etc…)
  • Do what it takes! fa quel che serve per vivere secondo i propri valori.

A parere di chi scrive, l’azione impegnata rappresenta una delle parti più difficili dei percorsi di vita di ognuno di noi. Talvolta, noi sappiamo bene cosa sarebbe utile e significativo per noi e passare all’azione spesso risulta comunque difficile, soprattutto se oltre alle normali paure umane ci mettiamo ad ascoltare la radio della nostra mente (metafora molto usata nell’ Acceptance and Commitment Therapy), con le sue storie catastrofiche e giudicanti di come siamo, di come ci vedranno gli altri e di cosa siamo e non siamo in grado di fare.

E talvolta, farlo da soli può risultare molto difficile… E per fare il “balzo in avanti” a volte è utile un percorso di psicoterapia.

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L’ Acceptance e Commitment Therapy e i suoi ACTors: la parola ai protagonisti


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Quando le esperienze della vita ti permettono di conoscere persone straordinarie, non si può fare a meno che ascoltare le loro storie e lasciarsi incuriosire da ciò che hanno da raccontare.

Sono venuto a conoscenza di Randy Pausch ad un Training ACT (organizzato da ACT Italia) a cui ho partecipato. Randy Pausch è professore di informatica alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pennsylvania.

Nel settembre 2006, gli è stato diagnosticato un cancro al pancreas metastatizzato. Sottoposto a intervento chirurgico palliativo e chemioterapia, è vissuto in modo attivo e proattivo fino alla fine del 2007. È deceduto il 25 luglio 2008.

Come ricorda wikipedia, nella pagina a lui dedicata, Randy Pausch ha tenuto la sua ultima lezione pubblica, la “Last Lecture” intitolata “Realizzate i Vostri Sogni d’Infanzia” (“Really Achieving Your Childhood Dreams”), presso la Carnegie Mellon University il 18 settembre 2007.

Randy Pausch ha tenuto la sua “Last Lecture” gravitando intorno alla seguente domanda: “quale messaggio provereste a trasmettere se aveste una sola ed ultima occasione per farlo?”.

Ciò che colpisce della lezione di Randy Pausch è la freschezza e il vigore con cui parla, il contatto preciso e disincantato con ciò che gli è accaduto e soprattutto con ciò che lo aspetta. In questa lezione Randy Pausch incarna molti dei principi dell’ ACT e, a suo modo, continua (per quanto gli è concesso) la propria vita, ispirato a ciò che lui ritiene importante, fattibile e “di valore”.

Non credo vi sia modo migliore per comprendere il suo messaggio che ascoltarlo nella sua Last Lecture…

Un altro personaggio di fondamentale importanza nell’ Acceptance and Commitment Therapy non può non essere il suo fondatore, Steven Hayes.

Tra le nozioni chiave dell’ ACT da Hayes concettualizzate e di cui si è ampiamente parlato in precedenza, ritengo utile accennare anche all’ Hexaflex e al suo utilizzo in terapia, con lo scopo di fornire ai lettori di State of Mind un modello grafico dei sei processi sovradescritti e di rivedere una famosa intervista a Steven Hayes.

Il grafico, noto appunto come Hexaflex, è stato ripreso da un famoso articolo scritto da Steven Hayes e colleghi nel 2006 e pubblicato su Behavior Research and Therapy.

L’ Hexaflex può essere utilizzato con i pazienti, in modo da concordare con loro quali sono i processi maggiormente inflessibili e disfunzionali e con il fine di impostare un contratto terapeutico individualizzato.

ACT – Acceptance and Commitment Therapy fare terapia tra accettazione e impegno - Hexaflex

 

Per questo motivo, l’ Hexaflex potrebbe essere inteso anche come strumento “diagnostico” e come “bussola” per l’intervento, secondo l’ Acceptance and Commitment Therapy.

Per comprendere però la natura, le basi epistemologiche e teoriche e l’uso psicoterapeutico dell’ Acceptance and Commitment Therapy, un suggerimento è di ascoltare le parole del suo fondatore, Steven Hayes, con le quali scegliamo di chiudere l’articolo.

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Lavorare in emergenza: stress traumatico secondario e interventi di prevenzione primaria per le “Helping Professions”

La psicologia dell’emergenza studia il comportamento degli esseri umani come singoli e come comunità in situazioni estreme. Raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria, la sociologia, tale disciplina cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico. Tra gli obiettivi della psicologia dell’emergenza il fornire metodologie di intervento che ridimensionino l’impatto dello stress sugli operatori dell’emergenza.

Barbara Marasco, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI FIRENZE

 

Le professioni di aiuto: come stare in contatto con la sofferenza altrui

Tutti coloro che svolgono professioni d’aiuto, dai medici ai vigili del fuoco, dagli assistenti sociali agli operatori di polizia, dagli psicologi ai miliari, pur nella specificità di ciascun contesto, sono accomunati da un comune denominatore: il contatto continuo e prolungato con la sofferenza altrui. Tali professionisti, infatti, nello svolgimento della loro attività lavorativa, non utilizzano solamente competenze di natura tecnica, ma anche e soprattutto abilità sociali e relazionali per soddisfare i bisogni dell’utenza. Quest’ultima presenta problematiche ed esigenze di diversa natura, ma solitamente necessita di un intervento volto a porre fine ad una condizione di disagio. Oltre a ciò, le richieste manifestate hanno quasi sempre la caratteristica dell’urgenza, creando le condizioni per cui una scelta sbagliata può diventare determinante per l’incolumità altrui. Infine, le caratteristiche del lavoro implicano un assorbimento, in termini di tempi e di spazi, che incide sensibilmente sull’esperienza degli operatori, che vedono ridurre al minimo il confine tra vita professionale e privata.

Gli operatori, in contesti emergenziali, si confrontano quotidianamente con il paradosso di “comportarsi come persone normali in situazioni anormali”. In tale scenario essi devono agire, rapidamente ed efficacemente, orientandosi al fare più che al sentire. Si tende a dare per scontato che chi svolge un mestiere del genere sviluppi una forma di tolleranza alle emozioni generate da situazioni potenzialmente traumatiche. Questo è solo in parte vero.

Il distanziamento emotivo è una risorsa di coping sicuramente funzionale per raggiungere l’obiettivo, portare a termine il proprio dovere. Eppure tale distacco diventa patologico quando l’operatore non è più in grado di entrare in contatto con le emozioni suscitate dall’evento traumatico, spinto dalla volontà non consapevole di voler aderire, a tutti i costi, allo stereotipo dell’imperturbabilità. La conseguenza diretta di tale processo “alessitimo” fa si che si tendano a sovrastimare le proprie capacità, sperimentando un senso di inadeguatezza ancora maggiore quando il controllo viene meno per qualche ragione.

Gli effetti dell’esposizione allo stress prolungato: la compassion fatigue e il burnout

Tra gli esiti dell’esposizione allo stress prolungato la letteratura scientifica ha indagato in particolare la compassion fatigue e il burnout. L’espressione compassion fatigue fa riferimento a un sentimento, la compassione, che è una delle componenti motivazionali fondamentali delle professioni d’aiuto. Si sperimenta compassion fatigue quando il contatto prolungato con la sofferenza genera nell’operatore dell’emergenza un senso di logoramento emotivo, che lo induce a non provare più sentimenti empatici nei confronti dell’utenza di cui si deve occupare.

Similmente, il burnout è una sindrome indotta da stress lavorativo e occupazionale che si manifesta attraverso esaurimento emotivo, depersonalizzazione e perdita nel proprio senso di efficacia. Il burnout è un processo progressivo e cumulativo che incide anch’esso sull’interesse verso l’utenza e sulla capacità di sopportare il carico emotivo derivante dal contatto, ma, a differenza della compassion fatigue, nasce principalmente dall’interazione tra caratteristiche personali del soggetto e condizioni lavorative e contestuali.

Un’ulteriore distinzione tra i due costrutti riguarda il timing: mentre la compassion fatigue è improvvisa e acuta e può emergere anche a seguito di un’unica esposizione a un incidente critico, il burnout rende l’operatore incapace di fronteggiare la situazione stressante a seguito di un’ esposizione allo stress graduale e progressiva.

Il contatto con il dolore degli utenti tuttavia non è legato con un rapporto di causalità ad esiti negativi. Gli operatori possono infatti ricavare un grande senso di soddisfazione dal loro lavoro: la partecipazione emotiva, il senso di efficacia che deriva dall’alleviare il dolore degli altri permette agli operatori di dare significato alla propria esperienza lavorativa, traendone un senso di realizzazione personale.

La traumatizzazione vicaria degli operatori delle professioni di aiuto

Tornando al tema dell’esposizione prolungata alla sofferenza altrui, non è necessario che l’operatore sia coinvolto in prima persona per essere considerato vittima di un evento traumatico. Attraverso un processo, indagato in letteratura, di traumatizzazione vicaria è infatti possibile che coloro che si trovino quotidianamente e per tempi considerevoli a contatto con la sofferenza degli altri possano sviluppare una specifica sintomatologia da stress reattiva. I soccorritori sono infatti considerati vittime di terzo livello, andando in coda solo alle vittime dirette e parenti e amici di queste ultime. La traumatizzazione vicaria è possibile si verifichi anche solo osservando direttamente l’evento, assistendovi senza la mediazione di terzi.

Lo stress che scaturisce dalle condizioni lavorative sopra presentate può dare luogo a problematiche di natura psicologica che vanno ad incidere non solo sulla vita personale dell’operatore, ma anche sulla sua prestazione professionale, intaccando l’efficienza e l’efficacia del servizio reso alla comunità. Poiché la salute psicologica degli operatori d’emergenza è direttamente proporzionale all’efficienza operativa dei reparti in cui operano, è fondamentale che le organizzazioni applichino al personale dei protocolli di intervento di prevenzione primaria.

La psicologia dell’emergenza e la tecnica del defusing

La psicologia dell’emergenza rappresenta un vertice conoscitivo fondamentale per affrontare questa esigenza concreta. Essa studia il comportamento degli esseri umani come singoli e come comunità in situazioni estreme. Raccogliendo stimoli da settori come la psichiatria, la sociologia, tale disciplina cerca di fornire delle risposte a situazioni non ordinarie che non possono essere trattate semplicemente con l’applicazione del metodo clinico. Tra gli obiettivi della psicologia dell’emergenza il fornire metodologie di intervento che ridimensionino l’impatto dello stress sugli operatori dell’emergenza.

Uno dei paradigmi di intervento più noti e diffusi della psicologia dell’emergenza è il Critical Incident Stress Management, CISM, un protocollo clinico di prevenzione e trattamento delle reazioni psicologiche potenzialmente traumatiche, a fronte di eventi critici. Al fine di ridurre e modulare i fattori di rischio connessi con l’insorgere di situazioni patologiche collegate allo stress, una tecnica ampiamente utilizzata nella psicologia dell’emergenza è il defusing, un intervento breve, non necessariamente gestito da un professionista della salute mentale, che prevede una conversazione tra i 20 e i 40 minuti da realizzarsi immediatamente dopo l’intervento critico, in una sorta di pronto soccorso psicologico in cui si raccolgono le emozioni a caldo e si cerca di dare una prima costruzione di significato ad eventi che spesso sono inspiegabili e fuori dal controllo.

L’operatore esposto ad un evento potenzialmente traumatico è una persona normale che viene esposta ad una vera e propria fatica psicologica di natura eccezionale. Informare sulle normali e fisiologiche reazioni da stress ha un effetto significativo nel ridurre i probabili vissuti di inadeguatezza, colpa, vergogna che si sperimentano nello scarto tra ciò che si chiede di essere (operatore come eroe) e ciò che si è in quanto esseri umani.

Riconoscere le reazioni e collegarle agli eventi è il primo passo per restaurare una condizione di equilibro. Il defusing, lungi dall’ essere un intervento clinico, si colloca in una prospettiva depatologizzante che sollecita la comunicazione e il supporto sociale per ridurre l’effetto disorganizzate degli eventi critici. L’obiettivo è rielaborare brevemente e collettivamente il significato dell’evento e ridurre al minimo l’impatto dell’avvenimento traumatico.

La condivisione dell’esperienza, oltre a permettere l’integrazione dei vissuti che forti stress e traumi tendono a dissociare nella patologia, riduce il fenomeno dello stigma e apre alla possibilità di una trasformazione dei comportamenti e delle reazioni allo stress professionale.

Il defusing si compone di tre fasi: introduzione, in cui si presenta l’intervento e si specifica quali sono le sue caratteristiche, in un clima non giudicante; esplorazione, in cui si cerca di far emergere fatti, pensieri e stati d’animo; informazione, in cui l’obiettivo è sostenere, rassicurare sulle normali reazioni da stress e proporre la condivisione di risorse psicologiche per fronteggiare l’evento stressante.

Una strategia di gestione dello stress che godrebbe di una maggiore legittimazione agli occhi degli operatori riguarda il peer support, ovvero il supporto tra pari. I colleghi infatti condividono la stessa cultura organizzativa, le stesse condizioni lavorative e ciò offre le premesse per la creazione di un clima di migliore comunicazione e accettazione. Allo stesso tempo i pari devono essere disponibili ad accettare la comunicazione dei propri colleghi, sospendendo il giudizio. Ciò può essere reso possibile solo se si crea un clima di empatia ed ascolto, che favorisca la condivisione delle emozioni e del disagio sperimentato.

Un nuovo punto di vista scientifico per lo studio dello stress in relazione al linguaggio

Mehl e colleghi (2017) hanno indagato la possibilità che alcune variazioni di alcuni pattern di uso comune del linguaggio possano rappresentare degli indicatori più precisi della rilevazione automatica della minaccia e quindi del sistema biologico di risposta alla stress, le cui risposte sono regolate da specifici geni pro infiammatori, particolarmente sensibili a situazioni di vita avverse (Cole, 2013).

 

Lo stress può modificare l’espressione genica delle cellule del sistema immunitario

Il linguaggio riflette il modo in cui le persone interpretano e sono connesse alla realtà ma chi avrebbe mai detto che l’espressione genica potesse essere legata al linguaggio”.

In questo modo James Pennebaker, famoso ricercatore e psicologo all’università del Texas ha commentato la recente pubblicazione dello studio di Mehl e Raison su Proceeding of the National Academy of Sciences, nel quale è stato mostrato come esperienze di vita traumatiche come il coinvolgimento in attacchi terroristici, di povertà o di isolamento sociale contribuiscano al cambiamento dell’espressione genica nelle cellule del sistema immunitario dei soggetti che le hanno vissute.

Il contributo maggiore dello studio di Mehl e colleghi (2017) ha riguardato il fatto che tali cambiamenti dell’espressione genica dovuta a situazioni di vita di deprivazione e stressanti possono essere rilevate tramite l’analisi del linguaggio e l’uso di specifiche parole da parte degli individui in modo ancora più preciso rispetto all’uso di questionari self-report standardizzati.

Tale studio infatti mostrerebbe come il linguaggio possa spontaneamente “tracciare” gli effetti biologici dello stress in una maniera più efficace rispetto a come gli individui li potrebbero descrivere consapevolmente in un questionario.

Mehl e colleghi (2017) hanno indagato la possibilità che alcune variazioni di alcuni pattern di uso comune del linguaggio possano rappresentare degli indicatori più precisi della rilevazione automatica della minaccia e quindi del sistema biologico di risposta alla stress, le cui risposte sono regolate da specifici geni pro infiammatori, particolarmente sensibili a situazioni di vita avverse (Cole, 2013).

In particolare tale risposta biologica alle avversità è stata poco associata a misure self-report sia di esperienze emotive interne come lo stress, la depressione o stati emotivi negativi, sia di esperienze sociali esterne (status sociale basso, condizioni di deprivazione) che di percezioni soggettive di queste condizioni sociali esterne (isolamento percepito) (Knight et al., 2016).
Pertanto è stato ipotizzato che condizioni ambientali avverse e stressanti per l’individuo possano in qualche modo essere rilevati dall’organismo e avere conseguenze non solo sul sistema immunitario ma anche incidere sull’espressione genica (Mehl et al., 2017).

Lo scopo dello studio di Mehl e colleghi (2017) è stato quello di identificare indicatori comportamentali oggettivi dei processi psicologici coinvolti nel generare differenze individuali stabili nell’espressione dei geni pro-infiammatori.

Gli studi precedenti di Le Doux (2015) hanno ben evidenziato come le esperienze consapevoli degli stati emotivi negativi come lo stress, la paura o l’ansia siano mediati dalla neocorteccia e pertanto non siano direttamente legati ai sistemi sottocorticali di rilevazione e risposta alla minaccia che al contrario attivano in modo automatico, immediato e inconsapevole il sistema nervoso simpatico per predisporre l’organismo all’attacco o alla fuga dallo stimolo minaccioso.

Pertanto, si potrebbe ipotizzare che tale sistema “inconsapevole” di difesa dalla minaccia sia più sensibile alle condizioni sociali avverse rispetto al sistema corticale e ciò spiegherebbe il motivo per il quale cambiamenti nell’espressione dei geni pro-infiammatori siano misure più affidabili degli effetti di ambienti sociali avversi rispetto a misure sel-report consapevolmente riportati dagli individui.

Mehl e colleghi hanno dimostrato come specifici pattern nell’uso del linguaggio si modifichino nel momento in cui l’individuo esperisce condizioni sociali di minaccia come l’isolamento sociale, uno status sociale ed economico basso, il coinvolgimento in attacchi terroristici e infine crisi personali.

Questi cambiamenti nell’uso del linguaggio, per gli autori dello studio, si verificherebbero in modo inconsapevole per l’individuo, sarebbero in relazione con l’espressione dei geni pro-infiammatori e infine rappresenterebbero degli indicatori comportamentali per la valutazione dello stato di benessere dell’individuo, in quanto misure più legate a processi, come l’espressione genica, che regolano l’attivazione fisiologica dell’individuo in risposta a stimoli minacciosi e a condizioni ambientali avverse.

Metodo e risultati dello studio di Mehl

Per poter dimostrare ciò, i ricercatori hanno ascoltato gli audio di 143 adulti volontari americani e hanno trascritto ogni parola dei loro dialoghi e analizzato il linguaggio da loro utilizzato; gli autori dello studio in particolare hanno mostrato particolare interesse per le cosiddette “parole funzionali”, come i pronomi e gli aggettivi i quali di per sè non hanno alcun significato ma nel parlare aiutano il soggetto a spiegare cosa sta accadendo.
Tali parole infatti vengono prodotte in modo automatico dai soggetti e aiutano maggiormente a dipingere un quadro più preciso della condizione ambientale nella quale essi sono calati rispetto a verbi o a “parole di significato” in quanto il loro uso cambia quando i soggetti si trovano a fronteggiare una crisi o a seguito di un attacco terroristico (Mehl et al., 2017).

I ricercatori hanno poi messo in relazione il linguaggio usato dai soggetti con l’espressione di 50 loro geni nelle cellule dei leucociti presenti nel sangue e hanno trovato che l’uso nei soggetti delle “parole funzionali” era in grado di predire in modo significativo i cambiamenti nell’espressione genica, a seguito di condizioni ambientali avverse, rispetto alle misure self-report di ansia, depressione e stress.

Gli autori hanno sottolineato come l’uso massiccio di questi specifici pattern di parole in particolare avverbi come “davvero”, “incredibilmente” “veramente” fungesse da “intensificatore emotivo” per i soggetti che li usavano per sottolineare il loro elevato stato di attivazione.
Insieme a questo, gli autori dello studio hanno rilevato nei dialoghi un’ alta prevalenza di pronomi in terza persona plurale (“loro”) come ad indicare un orientamento dei soggetti verso l’ambiente sociale esterno con lo scopo di ridurre la loro percezione della minaccia e abbassare così il loro stato di attivazione.

Tuttavia lo studio presenta alcune limitazioni: prima fra tutte l’uso di soggetti esclusivamente di nazionalità americana e di lingua inglese senza prendere in considerazione altri linguaggi per dimostrare se lo stesso effetto sia riscontrabile anche in nazionalità e lingue diverse.
Inoltre rimane ancora poco chiaro se sia lo stress a influenzare il linguaggio o viceversa.

Nonostante ciò, il contributo dello studio risiede nell’aver ipotizzato una nuova modalità di studio dello stress negli individui prendendo in considerazione meccanismi genetici e biologici andando al di là delle attuali misurazioni self-report dello stress.

Pazienti bipolari che non rispondono alla terapia con il litio potrebbero avere i geni associati alla schizofrenia

I pazienti affetti da disturbo bipolare che non rispondono al trattamento al litio mostrano un numero elevato di geni già identificati per la schizofrenia. Questo è quanto sostenuto da un nuovo studio internazionale condotto dall’Università di Adelaide in Australia.

 

Nuovi dati spiegano perché alcuni pazienti con disturbo bipolare non rispondono al trattamento con il litio

Il litio, comunemente prescritto sin dagli anni Cinquanta per il suo effetto di stabilizzatore dell’umore, anche oggi è considerato il trattamento d’eccellenza per i pazienti affetti da disturbo bipolare in quanto riduce sia gli episodi maniacali sia quelli depressivi e, addirittura, riduce il rischio di suicidio.
Tuttavia, circa il 30% dei pazienti bipolari sono solo parzialmente reattivi. Infatti, più di un quarto di questi non dimostra alcuna risposta clinica, e altri hanno effetti collaterali significativi al litio.

La ricerca in questione ha coinvolto un gruppo internazionale di scienziati guidato dal professor Bernhard Baune dell’Università di Adelaide che ha studiato la genetica sottostante di più di 2.500 pazienti trattati con litio per disturbo bipolare.

Abbiamo scoperto che i pazienti con disturbo bipolare che hanno mostrato una scarsa risposta al trattamento al litio hanno qualcosa in comune: un numero elevato di geni precedentemente identificati come rilevanti per l’insorgere della schizofrenia“, ha affermato Baune, titolare della cattedra di psichiatria presso l’Università di Adelaide e autore principale dello studio.

Questo non significa che il paziente ha anche la schizofrenia, ma se un paziente bipolare ha un elevato numero di geni che aumentano il rischio della schizofrenia, ci sono meno probabilità che possa rispondere agli stabilizzatori dell’’umore come il litio. Inoltre, abbiamo individuato nuovi geni in grado di svolgere un ruolo biologico importante nei circuiti cerebrali utilizzati dal litio e il suo effetto sulla risposta al trattamento“, afferma Baune.

Indagare sulla biologia sottostante la risposta al trattamento del litio è una delle aree chiave della ricerca e ha inoltre urgente necessità clinica in materia di salute mentale.

Questi risultati rappresentano un notevole passo avanti per il campo della psichiatria “, ha detto Baune. “In combinazione con altri bio-marcatori e variabili cliniche, i nostri risultati contribuiranno a far avanzare la capacità necessaria di prevedere la risposta al trattamento prima di un intervento. Questa ricerca fornisce anche nuovi indizi su come i pazienti con disturbo bipolare e altri disturbi psichiatrici dovrebbero essere trattati in futuro “.

Una precoce impalcatura neuronale favorisce la risposta agli stimoli sensoriali

Un nuovo studio, condotto da neuroscienziati dell’Università del Maryland (Kanold et al., 2017), ha identificato per la prima volta un meccanismo che è in grado di spiegare un precoce collegamento tra l’input del suono e le funzioni cognitive.

 

L’organizzazione neuronale precoce dei mammiferi in risposta ai suoni

E’ noto che l’ascolto della musica durante il periodo prenatale possa favorire l’incremento delle funzioni cognitive nelle fasi più tardive della vita nei bambini e che nel periodo postnatale il bambino è capace di riconoscere i suoni che lo hanno accompagnato durante tutta la vita intrauterina, come la voce della madre. “Ma quel feto che ancor’oggi non viene valorizzato con tutte le sue competenze, con la sua capacità a discriminare e ad elaborare gli stimoli, sembra sia legato alla madre anche attraverso qualcosa che difficilmente può essere spiegato scientificamente“, dice Arturo Giustardi, neonatologo e vicepresidente della SIMP (Societa Italiana di Medicina Prenatale).

Nonostante la grande mole di ricerche su tale fenomeno, non sono state identificate delle precise strutture nervose responsabili di questo collegamento. “Precedenti ricerche hanno documentato l’attività del cervello in risposta a suoni durante le fasi del primo sviluppo, ma era difficile determinare da dove provenissero questi segnali del cervello“, dice Patrick Kanold, professore di biologia all’Università del Maryland.

Un nuovo studio, condotto da neuroscienziati dell’Università del Maryland (Kanold et al., 2017), ha identificato per la prima volta un meccanismo che è in grado di spiegare un precoce collegamento tra l’input del suono e le funzioni cognitive.

I ricercatori hanno individuato, in un modello animale, un tipo di strato neuronale presente fin dal primo sviluppo, a lungo pensato come una forma di impalcatura strutturale senza nessun ruolo nella trasmissione di informazioni sensoriali, tuttavia attualmente si pensa che potrebbe condurre alcuni tipi di segnali: “il nostro studio è il primo a misurare questi segnali in un importante tipo di cellula nel cervello, fornendo nuove importanti informazioni nel primo sviluppo sensoriale nei mammiferi“, dice Kanold.

Lavorando con piccoli furetti attraverso registrazioni elettrofisiologiche, Kanold e il suo team ha indagato se questo substrato neuronale rispondesse agli stimoli sensoriali. Le registrazioni di unità singole hanno mostrato che le risposte uditive sono emerse prima nei neuroni corticali e solo successivamente sono apparse le risposte nel futuro strato talamocorticale.

Durante lo sviluppo i neuroni del substrato neuronale sono tra i primi neuroni a formare la corteccia cerebrale – la parte più esterna del cervello dei mammiferi che controlla la percezione, la memoria e, negli umani, importanti funzioni come il linguaggio e il ragionamento astratto – infatti, dalle registrazioni dell’insieme di elettrodi emerge che le risposte uditive iniziali dimostrano un’organizzazione topografica nascente, dove il substrato neuronale aiuta a guidare la formazione dei circuiti neuronali.

Il modello convenzionale di sviluppo neurologico sostiene che il cervello dei mammiferi trasmetta i suoi primi segnali sensitivi in risposta al suono solamente dopo che il talamo è pienamente connesso alla corteccia cerebrale. Sulla base di ciò i ricercatori hanno cercato di conciliare questo modello con le osservazioni da loro fatte sulle precoci attività cerebrali indotte dalla stimolazione sonora.

Il nostro lavoro è il primo a suggerire che il substrato neuronale fa più che colmare il divario tra il talamo e la corteccia, formando la struttura per un circuito futuro. […] Forma una impalcatura funzionale che attualmente processa e trasmette precocemente le informazioni rispetto ad altri circuiti corticali. Pare che il substrato neuronale aiuti a determinare la prima organizzazione funzionale della corteccia oltre alla organizzazione strutturale” sostiene Kanold.

Tale studio, sottolinea come i risultati potrebbero avere utili implicazioni per la cura di bambini prematuri e dimostra come i sistemi sensoriali siano influenzati dall’ambiente già a un’età molto precoce. In conclusione, la ricerca può essere considerata un appello a identificare come l’arricchimento dell’ambiente possa ottimizzare lo sviluppo sensitivo, la diagnosi e il trattamento precoce dei disturbi dello sviluppo.

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