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L’utilizzo dell’eye-tracking in psicologia: come assegniamo la responsabilità di un evento?

Uno studio condotto da Tobias Gerstenberg, dottorato del Massachussetts Institute of Technology (MIT) e assistente professore al dipartimento di psicologia cognitiva dell’università di Standford, ha mostrato, tramite l’utilizzo della tecnologia eye-tracking, come le persone utilizzino un processo chiamato “simulazione contro fattuale” per immaginare come una situazione si sarebbe potuta manifestare diversamente da come si è verificata, con lo scopo di capire cosa sarebbe potuto accadere e in realtà non è successo.

 

Tramite l’utilizzo della tecnologia dell’ eye-tracking, Gerstenberg e colleghi hanno dimostrato l’utilizzo, da parte dei soggetti, del modello della simulazione contro fattuale per il quale si arriva a giudizi causali confrontando ciò che realmente è accaduto con ciò che la mente ha simulato e che sarebbe potuto accadere nella realtà fattuale.

Alla domanda su come le persone attribuiscano una causa ad un evento di cui sono testimoni, alcuni filosofi (Beebee et al., 2009) hanno suggerito che le persone, in molte occasioni, attribuiscono la responsabilità per il verificarsi di un evento immaginando cosa sarebbe potuto accadere se una causa sospettata non fosse accaduta: per esempio gli arbitri di calcio, per assegnare ad un giocatore un autogoal, cioè un goal accidentalmente segnato per la squadra avversaria, devono cercare di determinare cosa sarebbe accaduto se il giocatore non avesse toccato la palla.

L’uso della simulazione contro fattuale non è soltanto per lo sport ma anche per cercare di comprendere le nostre e le altrui azioni ed emozioni (Alicke et al., 2015; Kahneman and Miller, 1986; Roese, 1997).

Questo processo può essere consapevole, come nel caso degli arbitri di calcio, oppure inconsapevole, cioè non sappiamo di averlo attivato.

L’ eye-tracking per studiare il ricorso alla simulazione contro fattuale nell’attribuzione di responsabilità di un evento

Usando la tecnologia dell’ eye-tracking, tramite la quale è possibile tracciare e registrare online i movimenti oculari dei soggetti, è stato possibile dimostrare come essi utilizzino inconsapevolmente la simulazione contro fattuale per immaginare come una situazione sarebbe potuta verificarsi diversamente.

Lo studio di Gerstenberg e colleghi (2017), pubblicato su Psychological science per la prima volta ha mostrato una correlazione tra le simulazioni che gli individui compiono nella loro mente spontaneamente e in modo del tutto inconsapevole e i loro giudizi circa la causa di un evento.

Prima di tale ricerca, gli studi sul modello della simulazione contro fattuale riportavano ciò che i soggetti descrivevano circa il loro modo di attribuzione della causa, il che però offriva soltanto una evidenza indiretta di come la loro mente stava funzionando.

Con l’utilizzo dell’apparecchio dell’ eye tracking invece è stato possibile trarre evidenze dirette sul modo di leggere la situazione da parte dei soggetti tramite la registrazione dei movimenti oculari mentre essi erano intenti a guardare video in cui dovevano seguire con lo sguardo due palle da biliardo che si scontravano.

Gli studiosi hanno creato per l’esperimento 18 video che mostrano differenti possibili risultati delle collisioni tra le due palle da biliardo; in alcuni casi una collisione spinge una palla nella buca del biliardo, in altri essa impedisce che ciò accada.

Prima di guardare i video, ad una parte dei soggetti è stato chiesto chiesto di valutare quanto fossero in accordo con ciò che avevano appena visto nel video (per esempio: la palla A ha causato la caduta della palla B nella buca) costruendo così una congettura circa l’evento, cioè quale fosse la causa e l’effetto, all’altra parte dei soggetti invece è stato semplicemente chiesto quale fosse il risultato della collisione (per esempio la palla B è caduta nella buca).

Mentre i soggetti guardano il video, i ricercatori sono stati in grado di tracciare i loro movimenti oculari usando una luce infrarossa in grado di registrare i movimenti della pupilla e quindi di poter tracciare la direzione dello sguardo.

La potenzialità veramente interessante dell’ eye-tracking è che ci permette di vedere fenomeni di cui noi siamo inconsapevoli; questa tecnologia ci permette di scavare sotto la superficie e di rivelarci un processo cognitivo, come l’attribuzione della causa-effetto per un evento, di alto livello – riferisce J. Tenenbaum, professore al dipartimento di scienze cognitive del MIT e membro del laboratorio si scienze informatiche e intelligenza artificiale.

I ricercatori dello studio hanno mostrato che quando ai soggetti veniva chiesto di dire se la palla A avesse determinato la traiettoria della palla B verso la buca del biliardo, i loro occhi seguivano il corso che la palla B avrebbe preso se la palla A non avesse interferito con la collisione.

Inoltre più era incerta la responsabilità della palla A nell’avere un effetto sulla palla B e più i soggetti tracciavano con lo sguardo un’ipotetica traiettoria della palla B.

In particolare in quest’ ultima condizione di massima incertezza è stata riscontrata la dimostrazione più forte dell’utilizzo della simulazione contro fattuale negli individui che infatti utilizzano lo sguardo per risolvere quest’incertezza.

Al contrario, per quei soggetti a cui veniva chiesto soltanto di riportare l’evento senza attribuire un giudizio di causalità, non si riscontravano gli stessi movimenti oculari dell’altro gruppo per determinare la causa-effetto della collisione tra le due palle da biliardo.

Gerstenberg e colleghi affermano nel loro studio di voler utilizzare questo approccio per studiare situazioni molto più complesse in cui le persone utilizzano la simulazione contro fattuale per dare un giudizio di causalità.

Essi infatti sono persuasi che tale processo cognitivo sia molto diffuso e che per tale ragione non possa sempre essere rilevato dall’ eye-tracking in quanto ci sono innumerevoli pensieri contro fattuali che le persone fanno nella loro mente per attribuire una causa ad un evento.

Nonostante tutti noi abbiamo un’esperienza interna di pensieri contro fattuali, tale studio è il primo a mostrare un’evidenza diretta dell’utilizzo spontaneo della simulazione contro fattuale da parte degli individui.

Quando le persone danno giudizi causali, hanno la tendenza a mettere a confronto ciò che è realmente accaduto con le loro simulazioni mentali di ciò che sarebbe potuto accadere se la causa di quell’evento non fosse stata presente.

Sensibilità comuni: Discorsi di psicologia 2017-2018, ciclo di incontri a Varese

La cooperativa sociale Totem, assieme all’OPL e a IACP, ha organizzato un ciclo di incontri gratuito che ha come fine quello di condividere una sensibilità psicologica attenta e utile alla vita quotidiana, alle sue richieste e alle sue esigenze. 

 

Totem, agenzia sociale ed educativa, avverte il bisogno crescente tra le persone di un orientamento a forme reali di serenità, nella speranza di raggiungere una cura del vivere comune sempre più improntata ad un sereno e reciproco benessere.

Gli incontri si terranno a Varese in via Paolo Vergani, 1. Le date previste sono:

  • il 3 novembre 2017 con Genéviève Odier (ACP Parigi): “Buone scelte, cattive scelte, non sempre è così facile”;
  • il 26 gennaio 2018 con Giulio Fontò (Apeiron Milano): Presentazione del libro “Dall’illusione al disincanto – Fenomenologia delle relazioni di coppia e familiari”;
  • il 23 marzo 2018 con con Gianni Francesetti (IPSIG Torino): “Le metamorfosi del dolore – I percorsi della sofferenza verso la pienezza del vivere”;
  • il 18 maggio 2018 con Vincenzo Liguori (P. Sintesi Varese): “Essere felici senza un perché”.

Presenta gli incontri il dott. Andrea Braga, psicologo psicoterapeuta.

DISCORSI DI PSICOLOGIA 2017-2018

 

DISCORSI DI PSICOLOGIA 2017-2018 retro

Sulle Molestiadi, il mio punto di vista sui recenti scandali e sull’autonomia delle donne

Alcuni comportamenti un tempo socialmente accettabili -o almeno più accettabili- oggi non lo sono più. Sembra che si stia andando verso una ridefinizione del comportamento, privato ma anche pubblico. La parità e la cooperazione tra i sessi esigono un linguaggio e un contegno più neutri di un tempo e soprattutto più appropriati, per usare un altro termine molto americano che però rende bene l’idea.

 

Caro Roberto, caro amico, mi è venuta voglia di replicare a ciò che scrivi, anche in base alla mia esperienza femminista degli anni ’70. Che dire? In buona parte sono d’accordo. Soprattutto la possibilità di ottenere una condanna sociale a effetto immediato guadagnata attraverso mezzi non giuridici ma mediatici è un rischio per una società che dovrebbe essere fondata sul diritto. Un potere simile è una democrazia senza stato di diritto, due concetti che vengono troppo facilmente confusi tra loro. Mi lascia un po’ interdetta la durezza della commentatrice del Guardian che di fronte al suicidio del supposto molestatore Carl Sargeant non sembra dimostrare troppe esitazioni.

E poi il recentissimo coinvolgimento di Franco Moretti, il fratello di Nanni Moretti, mi disorienta particolarmente. È straniante vedere un professore italiano, il cui viso gentile starebbe bene in un qualche film di Nanni, risucchiato in uno scandalo così anglo-sassone e, mi vien da dire, così puritano ed estraneo alla nostra cultura. E mi convincono anche le considerazioni di Moretti: “Certamente non ho minacciato di rovinare nessuna carriera. Ero un visitatore allora, senza nessuna prospettiva di far parte dell’università americana” e la chiusa desolata “Purtroppo temo che questa accusa avrà un enorme impatto sui colleghi, sugli amici e sulla famiglia anche se è assolutamente falsa”.

Detto questo, è altrettanto vero la rivoluzione sessuale ha portato molte liberazioni -come ricorda Roberto Lorenzini- però non tutte nella direzione immaginata da alcuni, una sorta di cuccagna gioiosa e spensierata. L’attuale ondata di denunce non può essere un delirio di massa. 456 attrici svedesi che denunciano molestie non possono essere 456 isteriche.

Alcuni comportamenti un tempo socialmente accettabili -o almeno più accettabili- oggi non lo sono più. Sembra che si stia andando verso una ridefinizione del comportamento, privato ma anche pubblico. La parità e la cooperazione tra i sessi esigono un linguaggio e un contegno più neutri di un tempo e soprattutto più appropriati, per usare un altro termine molto americano che però rende bene l’idea.

Detto in modo più chiaro se sono l’unico ad andare in guerra e l’unico a mantenere la famiglia posso illudermi di essere quello che comanda, e decide i codici del desiderio, ma se in guerra ci si va tutti, tutti manteniamo la famiglia e tutti possono prendere l’iniziativa, occorre che si inventino nuovi codici. I nuovi codici dell’avvicinamento in un mondo più egualitario.

Ciò che colpisce negli episodi denunciati è che uno dei motivi di equivoco è il continuo tracimare di linguaggi e comportamenti magari non tutti violenti ma troppo spesso pecorecci, velleitariamente scherzosi e in fondo molesti in ambiti che dovrebbero essere istituzionali e professionali.

Si ha la sensazione che nel mondo moderno invece le relazioni professionali devono diventare più formali, più istituzionali e meno improntate all’aspetto personale e intimo. Forse più noiose, anzi sicuramente più noiose. Occorre anche prendere atto che non tutti sono capaci, come sa fare Roberto, di trasfigurare il proprio umorismo nella grazia eterea e spiritosa di un saggio che un tempo è stato giovane e voglioso e che ora sa ridere di se stesso.

Quanto al destino del desiderio sessuale delle donne posso solo dire che si tratta di un problema appunto delle donne. Il femminismo è stato soprattutto un movimento sociale e solo collateralmente sessuale. A differenza di quanto sembra pensare Roberto, la visione patriarcale della donna non era affatto quella di un essere asessuato e privo di desideri. Al contrario, era piuttosto quella di un essere pericoloso, dalle voglie incontrollabili e intensissime –eccole le isteriche- che per questo dovevano essere incatenate e represse. E l’uomo era invece capace di autocontrollo e razionalità.

La riscoperta del desiderio femminile insieme al desiderio di mettere in atto le proprie fantasie, è soprattutto un approccio meno colpevole ma anche meno ossessivo al sesso, non un’abbuffata a un banchetto a lungo negato, problema che forse attanagliava piuttosto i maschi, a loro volta per niente liberi ma costretti all’astensione o al sesso mercenario.

La prospettiva di un esercito di donne finalmente desiderose di scoprire i piaceri del sesso non è stata l’esperienza reale del femminismo, o almeno non di tutto il femminismo. In ballo c’era altro. Nel mio ricordo l’aspetto liberatorio non è stato centrale, è stato più legato a una ricerca della definizione di ciò che veramente si voleva e desiderava, più che un puro desiderio di maggiori sperimentazioni. Che mi sono sempre sembrate più un effetto che uno scopo.

L’aspetto che mi ricordo fondamentale aveva proprio a che fare con l’autonomia, con il desiderio di definire, da protagoniste, la propria vita. Allora non ci rendevamo ben conto dei costi di questo -e non li voglio neanche nominare tutti, eravamo giovani- ma un costo vero è stato la difficoltà di questa transizione nell’uomo, che spesso non sapendo bene come avere a che fare con questo nuovo essere, donna, capo di se stessa e più sicura di sé, intimorito, sentiva il bisogno di gestire il timore, il non saper che fare, riportando tutto alla libertà sessuale, alla dura contrattazione gestita in modo maschilista. E questo si chiama violenza e aggressività, o scarso rispetto, così è stato ed è percepito dalle donne. Non so se è chiaro, ma non credo che cambieremo molto gli uomini se non impariamo a essere maggiormente consapevoli dei prezzi che personalmente vogliamo pagare per la libertà.

Al di là di personaggi ovviamente malati, potenti e aggressivi, la maggior parte delle relazioni uomo donna, ha bisogno di uomini meglio educati da madri consapevoli e a loro volta libere, e da donne capaci di dire di no pagando consapevolmente i costi (che possono esserci, è la vita).

Ma per chiudere e riprendendo quel che scrive Lorenzini, io non credo in un irenico ideale di dolce parità condivisa. I rapporti uomo donna, come tutti i rapporti, avranno bisogno di trattative, di nuovi codici, di durezze e scambi, di tentativi e fallimenti, e non potranno mai fare a meno del tutto della forza. Nulla ci è regalato e occorre, come dice Camille Paglia, non dimenticare che la giustizia non è data, ma dipende da chi la difende in ciascun momento, e quindi da ciascuno di noi.

Le Molestiadi

Mi sembra che da questa vicenda ne usciamo tutti male: i maschi come delle teste di cazzo in senso letterale, le donne come dei motorini lasciati senza catena a Napoli in balia di chi voglia prenderle e gli umani nel loro insieme come bambini ritardati messi sotto tutela non più dalla santa Inquisizione o dai censori del regime ma da Netflix, HBO o SKY che decidono cosa sia opportuno vedano e cosa no.

 

Nella società attuale, così immotivatamente e allegramente tanatofobica dove a fare il tifo per la vecchia sfoltitrice sono rimasti soltanto -per un evidente concorso di interessi economici- l’INPS e il SSN (ignorando quanto ci insegnano tutte le leggende da Gilgamesh a Titone e al dottor Faust che la ricerca dell’immortalità ha sempre e solo portato  guai a secchiate), i necrologi stanno  quasi scomparendo dai quotidiani e gli anziani non hanno più da sospirare all’idea che un altro compagno di strada li ha lasciati, compiacendosi allo stesso tempo per essere stati preceduti e aggiornando così al ribasso l’elenco degli auguri da fare alle prossime festività.

Anche le pagine dei quotidiani soffrono di horror vacui e le colonne, rimaste prive degli struggenti ricordini di vite esemplari e degli encomi sperticati e pelosi per chi ha lasciato spazio su questa affollata valle di lacrime, sono state prontamente occupate dal quotidiano aggiornamento sulle donne molestate che a frotte recuperano la memoria di età migliori in cui orchi cattivi -noti e potenti- hanno insidiato le loro grazie, pudicamente nascoste e strenuamente difese.

Sono consapevole di quanto siano impopolari queste affermazioni in un periodo del “dagli al maiale” in cui l’onere della discolpa è dell’accusato, secondo la regola della presunzione di colpevolezza fino a prova contraria. E addirittura il reprobo non solo viene perseguito ma le sue opere messe all’indice o meglio bruciate come nel famoso rogo dei libri del 10 maggio del 1933 a  Berlino durante un comizio di quell’amabile personcina che rispondeva al nome di  Gobbels. Temo che presto assisteremo al ritiro di tutte le opere del Caravaggio noto alcolista, puttaniere, ludopatico e soprattutto omicida condannato a morte e conseguentemente latitante. Mi azzardo dunque a queste affermazioni pur non volendo affatto inimicarmi l’universo femminile  da cui spero sempre di ottenere con la benevolenza ciò che gli altri vogliono estorcere con la forza perché ritengo seriamente che le prime ad essere danneggiate da tutto questo frastuono mediatico siano di nuovo proprio le donne. E vado ad argomentare il perché.

Se l’immagine dell’uomo come brutale predatore sempre alla ricerca della copulazione non è certamente motivo d’orgoglio per la maggior parte di coloro che mingono in piedi, non certo più esaltante  è quella di una donna priva da un lato della capacità di autodeterminarsi e dall’altro di qualsivoglia desiderio sessuale che la rivoluzione sessuale degli anni ’60 del secolo scorso sembrava avergli restituito, delegando dunque al maschio tutte le incombenze propedeutiche alla perpetuazione della specie che sembrano essere piacevoli solo per lui. Non si torna in questo modo alla più antica e odiosa visione della donna come passivo oggetto sessuale?

È indispensabile distinguere nettamente i confini tra corteggiamento -più o meno raffinato- maleducazione, molestia e violenza sessuale o stupro e questo sarebbe corretto farlo prescindendo da quale sia il sesso che prende l’iniziativa.

Altra questione è lo sbilanciamento di potere all’interno di una relazione, sbilanciamento che sembrerebbe già di per sé configurare un contesto abusante. Premesso che non sempre necessariamente è il maschio ad avere più potere, mi sembra che un applicazione rigida del concetto porterebbe ad una società rigidamente divisa per classi in cui -come per le caste indiane- siano vietate le relazioni miste.

E comunque se è l’uomo ad avere più potere non potremmo rileggere la gran parte delle situazioni che stanno emergendo in questi giorni come tentativi di corruzione da parte dell’attore più debole, in questo caso la donna per ottenere favori peraltro nei casi specifici non dettati dalla necessità di mettere insieme il pranzo con la cena?

Al tentativo di corruzione di un tempo  si aggiunge  nel presente un’istigazione al ricatto. Ho ripercorso apprensivo il mio passato per valutare se potessi ricevere nei prossimi giorni una telefonata che rammentandomi una certa serata o una dimenticata gita scolastica stabilisse un prezzo non negoziabile per il suo silenzio circa un complimento, una pacca su una qualche morbida rotondità che non posso escludere in tempi precedenti alla quiescenza ormonale.

Mi sembra che da questa vicenda ne usciamo tutti male: i maschi come delle teste di cazzo in senso letterale, le donne come dei motorini lasciati senza catena  a Napoli in balia di chi voglia prenderle e gli umani nel loro insieme come bambini  ritardati messi sotto tutela non più  dalla santa Inquisizione o dai censori del regime ma da Netflix, HBO o SKY che decidono cosa sia opportuno vedano e cosa no.

È chiaro che da tutto questo non si può che uscirne con la definizione di una accurata modulistica promulgata dal ministero delle pari opportunità su come  proporre all’altro sesso nel rispetto della legge quella joint venture che prevede uno scambio di gameti per evitare l’estinzione della specie lasciando incompleta l’opera di devastazione del pianeta.

Infine mi chiedo come debba porsi per lavorare su tutto questo un approccio terapeutico  come quello cognitivo-comportamentale che -pur con la recente rivalutazione dell’importanza del trauma lasciato in disuso dalla più nobile psicoanalisi- tuttavia ha sempre  propeso per l’internalizzazione del vintage “locus of control”. Temo che anche in questo caso dobbiamo mettere da parte le rassicuranti classificazioni categoriali perché non abbiamo da un lato le donne a loro volta “vergini e martiri” o “puttane”(secondo l’esperienza di Morelli) e dall’altra i maschi tutti forsennati inseminatori, ma esseri umani in continua negoziazione tra loro perché entrambi mossi da scopi personali e sovra individuali che spesso si sovrappongono e concorrono l’uno alla realizzazione dell’altro. E tra questi uno molto potente è la ricerca del piacere sessuale.

 

 


Sulle Molestiadi, il mio punto di vista. Di Sandra Sassaroli

Eletta la nuova Consulta delle Scuole CBT

Mercoledì 8 novembre 2017 a Firenze è stata eletta la nuova Consulta delle scuole di CBT (cognitive behavioural therapy ovvero terapia cognitiva e comportamentale). La Consulta, nata nel 2014 per impulso del professor Ezio Sanavio, figura storica del movimento cognitivo e comportamentale italiano, ha l’obiettivo di diffondere in Italia la conoscenza della CBT, una terapia che al momento vanta i migliori dati di efficacia per alcuni disturbi emotivi, come i disturbi d’ansia, depressivi, alimentari e molti altri. Per una serie di ragioni culturali la CBT in Italia non è ancora conosciuta, praticata e diffusa come meriterebbe, con grande danno soprattutto dei pazienti. La Consulta si propone di rimediare a questo problema, cercando di rappresentare gli interessi delle scuole di specializzazione che la insegnano presso gli organi istituzionali e politici nazionali e regionali.

La nuova Consulta sarà in carica per i prossimi tre anni e si propone di affrontare una serie di problemi che non facilitano la diffusione della CBT in Italia, tra i quali i principali sono l’abbattimento degli ostacoli burocratici che rallentano il tirocinio negli enti accreditati degli allievi delle scuole CBT, lo sviluppo di strumenti di accertamento della qualità delle scuole, la valorizzazione dei vantaggi del mestiere di terapista CBT in termini di realizzazione professionale e personale, la diffusione della conoscenza della CBT come strumento scientificamente più efficace per alcuni disturbi emotivi presso l’opinione pubblica.
La nuova Consulta è composta dal presidente, Paolo Michielin, e da altri sei membri. Nel dettaglio, i nomi e le affiliazioni dei nuovi eletti sono:

Presidente membro della Consulta delle Scuole CBT:
Paolo Michielin, docente di Psicologia clinica all’Università di Padova, delegato dello Human Research di Bressanone, Presidente del primo Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi.

Membri della Consulta delle Scuole CBT:
Gabriele Melli, docente di Psicologia Clinica all’università di Pisa, Presidente dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva (IPSICO) di Firenze.
Paolo Moderato, Professore Ordinario di psicologia alla International University of Language and Media (IULM), presidente dell’Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (IESCUM) e Past President dell’European Association of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT).
Giuseppe Romano, professore straordinario Università G. Marconi di Roma, didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), docente e didatta delle Scuole di Specializzazione Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) e Associazione Scuola di Psicologia Cognitiva (SPC).
Giovanni Maria Ruggiero, docente di Psicologia Applicata all’Università Sigmund Freud di Vienna e Milano, Direttore della scuola di specializzazione Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Milano e Bolzano, docente presso la scuola di specializzazione Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Milano
Cecilia Volpi, didatta SITCC, Presidente Associazione di Terapia Cognitiva, didatta della scuola Associazione di Terapia Cognitiva (ATC).
Carla Maria Vandoni Responsabile didattica Scuola Centro Terapia Cognitiva (CTC) sede di Torino. Didatta CTC, Responsabile clinica dello Studio Torinese di Psicoterapia Cognitiva (STPC) di Torino.

Nella nuova Consulta Melli, Ruggiero e Vandoni sono subentrati ad Adriana Pelliccia, Enzo Sanavio (presidente uscente) e Sandra Sassaroli. Gli altri membri erano già presenti nella vecchia Consulta.

Eletta nuova consulta delle scuole CBT - 2
I membri della Consulta uscente

 

Eletta nuova consulta delle scuole CBT - 3
La nuova Consulta in carica per i prossimi 3 anni

L’utilizzo dell’ intelligenza artificiale per valutare la maturità cerebrale nei neonati prematuri

I ricercatori dell’Università di Helsinki hanno sviluppato un software di intelligenza artificiale in grado di valutare la maturità del cervello di neonati prematuri direttamente da un EEG.

 

Pubblicato nella rivista Scientific Reports, il metodo è il primo sistema di valutazione della maturità cerebrale basato su EEG. È più preciso di altri metodi attualmente utilizzati per valutare lo sviluppo del cervello di un neonato e consente il monitoraggio automatico ed obiettivo dello sviluppo del cervello prematuro.

Attualmente, attraverso il software di intelligenza artificiale, i ricercatori stanno monitorando lo sviluppo dei neonati prematuri mediante le curve di crescita del peso, dell’altezza e della testa del bambino. Il monitoraggio EEG combinato con l’analisi automatica fornisce uno strumento pratico per monitorare lo sviluppo neurologico dei neonati prematuri, generando informazioni che potrebbero aiutare a pianificare la migliore assistenza possibile per ogni singolo bambino.

Questo sistema di intelligenza artificiale offre un’occasione di tenere traccia, per la prima volta, della fase cruciale dello sviluppo di un neonato pretermine, ovvero, della maturazione funzionale del cervello sia durante che dopo la terapia intensiva.

I problemi di salute nei neonati prematuri

La gravidanza tardiva è una soglia biologica critica per lo sviluppo cerebrale del feto.

Uno su dieci nati vivi è prematuro e circa la metà di tutti i pazienti è in terapia intensiva neonatale a causa della nascita pretermine. La gravidanza tardiva è un momento di rapido sviluppo cerebrale per il feto, l’attività elettrica cambia quasi ogni settimana.

I vari problemi di salute associati alla nascita pretermine possono ostacolare lo sviluppo cerebrale. Già negli anni ’80 i ricercatori trovarono che i primi problemi di salute nei neonati prematuri comportavano spesso uno sviluppo più lento del cervello durante i primi mesi. Al fine di fornire la migliore cura possibile e sviluppare nuove forme di trattamento, è importante conoscere come si sviluppano le funzioni cerebrali dei neonati prematuri, ma il problema è che non sono disponibili metodi oggettivi e sufficientemente precisi per valutare la maturità precoce del cervello.

L’opzione più allettante per valutare la maturazione del cervello è quella di utilizzare dei sensori EEG posti sullo scalpo del bambino. Questo è un metodo completamente non invasivo, a basso costo e privo di rischi; un metodo molto popolare negli ultimi anni nel monitorare l’attività cerebrale nelle unità di terapia intensiva neonatale.

Il problema pratico del monitoraggio EEG è che l’analisi dei dati è lenta e richiede una particolare competenza del medico che la svolge. Il professor Sampsa Vanhatalo dell’Università di Helsinki, che si occupa della ricerca, afferma che questo problema potrebbe essere risolto in modo affidabile e globale utilizzando l’analisi automatica come parte integrante del dispositivo EEG.

L’apprendimento automatico e l’ intelligenza artificiale per aiutare i neonati prematuri

Il nuovo software di intelligenza artificiale di analisi EEG è stato sviluppato da Nathan Stevenson, ingegnere australiano, che ha lavorato nel gruppo di ricerca del professor Vanhatalo come membro della Marie Curie Fellow finanziato dalla UE. La ricerca ha utilizzato un insieme estremamente ampio e ben controllato di dati di misurazione EEG di bambini prematuri riuniti nel gruppo di ricerca della professoressa Katrin Klebermass presso la Medical University di Vienna.

Il software di analisi si basa sull’apprendimento automatico. Una grande quantità di dati EEG, di neonati prematuri, è stata inserita in un computer e il software ha calcolato centinaia di caratteristiche computazionali di ogni misura senza l’intervento di un medico. Con l’aiuto di un algoritmo della macchina a vettori di supporto, queste caratteristiche sono state combinate per la generazione di una stima attendibile chiamata EEG maturational age (EMA).

Alla fine dello studio, il software di intelligenza artificiale è stato testato confrontando l’EMA stimata dal software con l’età clinicamente nota del neonato. La stima della maturazione era così affidabile e precisa che in ciascuno dei 39 neonati pretermine dello studio, lo sviluppo funzionale del cervello poteva essere monitorato quando le misure venivano ripetute a distanza di poche settimane.

 

Rimuginio: teoria e terapia del pensiero ripetitivo – Presentazione del libro a Genova

“Il problema non è cosa penso ma quanto ci rimugino sopra”

 

Tutti abbiamo esperienza di rimuginio. In termini tecnici è considerato uno stile di pensiero negativo, analitico, ripetitivo che negli ultimi decenni ha mostrato di avere un impatto fondamentale nel sostenere molti disturbi psicologici. È il cuore pulsante di molti disturbi d’ansia e della depressione.

Rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che possono accadere ma anche riflettere continuamente sui propri errori, sulle cause, sulle implicazioni, su ciò che desideriamo e non abbiamo, sulle ingiustizie subite, sul nostro malessere, la nostra sfortuna, ciò che non ci va a genio di noi stessi e degli altri.

Il rimuginio cattura la nostra attenzione. Ci chiude nella nostra mente. Ci isola nei pensieri e ci tiene lontano da ciò che ci circonda. Ci assorbe e mantiene salienti per noi informazioni e contenuti spiacevoli. Il rimuginio impedisce di dimenticare. Il rimuginio impedisce di andare oltre un brutto pensiero o una sensazione spiacevole, soprattutto quando i pazienti faticano a smettere di rimuginare una volta che iniziano.

Da dieci anni ormai mi occupo di rimuginio, come ricercatore e come clinico. Si è trattato di un lungo viaggio nato dapprima come naturale curiosità: “Perché le persone restano a pensare così a lungo su ciò che fa loro male? Cosa li spinge a questo macabro sodalizio con una prigione di pensieri ricorrenti e astratti?”.

La mia fortuna è stata quella di aver conosciuto maestri e colleghi come Sandra Sassaroli, Giovanni Ruggiero, Marcantonio Spada e Adrian Wells con i quali ho condiviso un lungo viaggio di scoperta delle caratteristiche del rimuginio, delle sue facce variegate e soprattutto dei meccanismi psicologici che lo accendono e lo mantengono attivo nel tempo.

Questo testo vede la luce dopo un lungo lavoro di ricerca e ricapitola i risultati teorici, empirici e clinici della letteratura internazionale e del percorso sperimentale di noi autori. Abbiamo voluto offrire nelle sue sezioni sia un impianto teorico chiaro ed esaustivo sui processi cognitivi di base e sul sistema di conoscenze implicita che li sorregge e che noi chiamiamo metacognizione, e su tecniche e strategie che i colleghi terapeuti possono adottare per mutare il modo in cui controlliamo il nostro funzionamento mentale.

Gabriele Caselli


GENOVA - Presentazione RIMUGINIO - ScuolaLa Scuola Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova è lieta di invitarvi alla giornata evento del 17 novembre 2017 per la presentazione del libro “Rimuginio: teoria e terapia dell’intervento” di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, edito da Raffaello Cortina. 

 

Presenta il libro il dott. Gabriele Caselli, psicologo e psicoterapeuta, direttore della scuola di specializzazione Psicoterapia e Scienze Cognitive di Genova, Vicedirettore Bachelor Psicologia, della “Sigmund Freud University” sede di Milano. Dopo la presentazione del libro, sarà effettuata la presentazione della Scuola, riconosciuta dal MIUR con decreto del 21 settembre 2017.

 

La partecipazione è gratuita ma è richiesta l’iscrizione all’evento: [email protected]

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Rimuginio: teoria e terapia dell’intervento – Prefazione di Sandra Sassaroli

Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017 – Recensione del libroQuesto libro è un testo importante e innovativo in Italia, almeno a nostro giudizio. Esso s’incardina nella storia del nostro gruppo di ricerca ed è allo stesso tempo impreziosito e reso necessario dall’esperienza di Gabriele Caselli nel mondo scientifico internazionale. Vale la pena di raccontarne la storia.

Il mio interesse per il pensiero ripetitivo nasce nei primi anni ‘90 quando, trasferitami a Milano ed entrata in contatto con un uno straordinario clinico e psichiatra come Marco Crosina, che operava come primario del reparto di psichiatria donne a Ville Turro, e discutendo con lui e Franco del Corno di problematiche dei disturbi alimentari si ragionava sulle difficoltà a motivare queste pazienti al trattamento. Era evidente che la motivazione per queste pazienti fosse un problema cruciale, era anche evidente che era ostacolata da un’ininterrotto impegno della mente di queste pazienti nei pensieri angosciosi sul controllo dell’alimentazione. Quell’impegno si chiamava rimuginio, e cominciammo a occuparci di questo fenomeno, ancora poco conosciuto nel mondo clinico italiano.

Io avevo da poco conosciuto Giovanni Maria Ruggiero, uno psichiatra interessato alla ricerca in ambito cognitivo che negli anni è diventato una figura fondamentale nel nostro gruppo di scuole, sia come direttore che come responsabile di importanti aree di ricerca, e mi trovai a operare con pazienti con disturbi alimentari sempre poco convinte a impegnarsi nel trattamento. Il paradigma imperante all’inizio degli anni ’90 nel cognitivismo clinico italiano era il modello costruttivista di Guidano, che tendeva a considerare le pazienti bulimiche come delle pazienti con problematiche legate soprattutto all’area della definizione del sé. Su questo modello, che assorbii direttamente a Roma, città da dove provenivo e dove il cognitivismo clinico italiano aveva il suo centro culturale, nutrivo dei dubbi. Il trasferimento a Milano favorì l’incontro con altri punti di vista.

In quel modello, tutto incentrato sulle strutture di personalità del sé, nessun accenno veniva fatto alle funzioni mentali, tra le quali ricadevano gli aspetti rimuginativi. E le tecniche di intervento erano tutte focalizzate alla costruzione narrativa di una più precisa e coerente definizione del sé senza alcuna attenzione alla gestione di un sintomo così invasivo e invalidante.

Non vi era ancora una consapevolezza che queste pazienti necessitassero di interventi specifici nell’ambito dei sintomi da un lato e delle credenze e dei processi, dal perfezionismo al rimuginio. Con le prime pazienti cominciammo a focalizzarci sul rimuginio che finalmente avevamo studiato, nella versione di Tom Borkovec che di questo fenomeno era stato il primo e più famoso ricercatore.

Non esisteva alcuno studio correlazionale che correlava il rimuginio ai disturbi alimentari. Con una certa fierezza ricordo che il primo fu il nostro, che arrivò dopo alcuni anni (Sassaroli & Ruggiero, 2005).

Il percorso come si vede è partito da un punto di vista non del tutto ortodosso. I primi studi sul rimuginio degli anni ‘90 si riferiscono soprattutto al disturbo ansioso. La nostra idea fu di applicarlo ai disturbi alimentari confermandone la presenza, individuandone la funzione e correlandolo a varie credenze e processi, man mano che il nostro gruppo di ricerca cresceva.

Inoltre esistevano già dai primi anni ’90 degli studi sulla ruminazione, processo simile al rimuginio ma presente in persone depresse (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991; Just & Alloy, 1997). Erano vulnerabili alla depressione e alla ricaduta coloro che in momenti di tristezza o davanti ai problemi della vita reagivano con un pensiero analitico estremamente elaborato: cercavano di riflettere, capire le cause, analizzare il proprio disagio. Ed ecco nascere gli studi sul pensiero ripetitivo applicato a temi di fallimento e d’inadeguatezza personale.

Nel 2010 la ricerca sui processi di pensiero ripetitivo si è arricchita con l’incontro e la collaborazione con Gabriele Caselli. La sua provenienza era più di area comportamentale che cognitiva. Questo approccio conserva una maggiore consapevolezza dell’attività della mente come insieme di funzioni e non di strutture statiche, come il sé. Caselli aveva poi capito che la vecchia vocazione funzionalista del comportamentismo poteva rinascere aggiornata nella nuova corrente della metacognizione, il cui maggiore esponente, Adrian Wells, era il più importante studioso del rimuginio dopo Borkovec. Grazie alle sue competenze di ricercatore prima e di clinico poi ha orientato il nostro gruppo di ricerca verso l’integrazione con gli studi di Wells sul rimuginio. La ricerca di Wells è di grande potenza scientifica, anche perché si tratta di uno dei rari paradigmi clinici basati su un nucleo scientifico di base forte invece che essere innestato sulle sole intuizioni cliniche.

Il testo che oggi presentiamo ricapitola i risultati teorici, empirici e clinici di questo percorso. Esso ha un impianto teorico e scientifico indiscutibile, ma vuole anche essere un manuale pratico, a uso dei clinici, che insegni a intervenire sugli scopi, le meta-credenze che orientano il rimuginio e la ruminazione e sugli aspetti attentivi che lo mantengono nel tempo.

Le tecniche che vengono presentate in questo volume non sono tecniche nuove. Molte di queste derivano da approcci cognitivi e comportamentali riviste entro una prospettiva metacognitiva e focalizzata sul rimuginio. Gli interventi sulla modifica delle meta-credenze si basano sui principi e sulle strategie della Terapia Metacognitiva di Adrian Wells a cui rimandiamo per una descrizione completa ed esaustiva di come possono essere attuati secondo protocolli specifici per alcune patologie (Wells, 2008). Il nostro obiettivo è quello di aiutare i clinici a distinguere le diverse forme di rimuginio e fornire una linea di intervento generale, applicabile con pazienti complessi, quadri misti ansioso-depressivi, disturbi di personalità, comorbilità o altri quadri psicopatologici.

L’organizzazione del libro

I primi 4 capitoli curano la parte storica e teorica, impostano, spiegano e articolano il discorso della regolazione cognitiva come funzione naturale dei sistemi umani e le modalità con cui certe strategie di regolazione cognitiva come il rimuginio possono svilupparsi e generare eccessiva sofferenza psicologica.

I capitoli 5-9 trattano le diverse forme di pensiero ripetitivo da una prospettiva clinica e psicopatologica: dal rimuginio ansioso e desiderante alla ruminazione depressiva e rabbiosa, nonché il loro rapporto con le intrusioni mentali e le strategie di soppressione ed evitamento.

La terza parte del libro, capitoli 10-16, spiega in modo esauriente e analitico il trattamento del pensiero ripetitivo, fornendo una linea strategica che permetta al clinico di muoversi tra le diverse tappe dell’intervento. Queste spiegazioni ovviamente non sostituiscono un apprendimento approfondito ed esperienziale, ma consentono di padroneggiare le tecniche di base e orientarsi per comprendere le preferenze personali nel metterle in atto.

Oggi il nostro gruppo di ricerca è impegnato nello sviluppare un approccio ai disturbi psicologici che sia guidato da evidence-based theory, in cui gli interventi di tipo evolutivo si possano curare con la terapia cognitivo-comportamentale classica e con i nuovi modelli di intervento di tipo processuale e metacognitivo entro una cornice teorica coerente, stabile e basata sull’evidenza. La sfida è impegnativa e ci impegnerà negli anni a venire.

Sandra Sassaroli

Mindfulness e autismo ad alto funzionamento 

La pratica di mindfulness aiuta gli individui con autismo ad alto funzionamento a mettere in atto comportamenti diretti ad uno scopo in sostituzione di tutti quei pattern ripetitivi e maladattivi diventati oramai automatici (Pahnke et al., 2014).

Marzia Paganoni, OPEN SCHOOL PTCR di Milano

 

L’autismo ad alto funzionamento

Oggi l’autismo colpisce 10 bambini su 1000 e sembra essere presente in misura nettamente superiore nei maschi (Fombonne et al., 2003). La prognosi del disturbo è influenzata dal grado di funzionamento cognitivo che viene designato come miglior indicatore rispetto allo sviluppo futuro (Panerai et al., 2014).

Si parla di autismo ad alto funzionamento (HFA) quando il QI totale è superiore a 65/70, quando l’individuo ha sviluppato il linguaggio verbale, quando non sono presenti disturbi neurologici e quando quindi non vi è disabilità intellettiva (Ibidem).

Secondo Panerai et al. (2014) gli individui con diagnosi di autismo ad alto funzionamento presentano difficoltà marcate nel processo dell’inferenza sociale ed in particolare, questa disfunzione, si manifesta nel momento in cui è chiamato a scegliere quale informazione prendere in considerazione e nella fase di memorizzazione.

Presentano quindi difficoltà durante l’interazione sociale che, secondo Hobson (2006), è spiegata dalla scarsa comprensione e consapevolezza che hanno di se stessi e dalle difficoltà che incontrano nel momento in cui devono dare un nome alle emozioni e devono essere in grado di esprimerle in modo socialmente convenzionale, autoregolandosi e condividendo quindi in modo adeguato i propri stati d’animo.

Va inoltre evidenziato come, in soggetti con autismo ad alto funzionamento, la scarsa capacità di regolazione emotiva può rinforzare strategie maladattive ed automatiche come la ruminazione (Mazefsky et al., 2014). I deficit nella regolazione emotiva potrebbero essere intrinsecamente legati sia all’ansia che all’autismo (Ibidem).

Le possibili terapie per l’autismo ad alto funzionamento

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), con l’obiettivo di lavorare sugli schemi cognitivi e comportamentali e sulle strategie di controllo emotivo, è stata adattata al disturbo dello spettro autistico con lo scopo di trattare l’ansia e lo stress che risultano spesso associati a questa condizione (Sofronoff, Attwood e Hinton, 2005).

Essendo i soggetti con autismo ad alto funzionamento persone che hanno la tendenza ad assumere come propri schemi di pensiero e che hanno difficoltà nel considerare soluzioni e spiegazioni alternative ai problemi risulta importante attuare un intervento di CBT che miri alla ristrutturazione cognitiva e all’educazione emotiva (Ibidem).

L’acceptance and commitment therapy (ACT), terapia di terza ondata, che ha come obiettivo quello di aumentare la flessibilità psicologica e ridurre la rigidità degli schemi abituali di funzionamento attraverso l’accettazione, il riconoscimento dei propri pensieri e valori personali, l’impegno nell’azione, il contatto con il momento presente e il sé come osservatore della propria esperienza nel qui ed ora, si sta rilevando essere molto efficace nel campo dell’autismo (Hayes e Strosahl, 2004).

Si tratta infatti di un approccio che utilizza strategie basate sull’accettazione e sulla mindfulness (Ibidem).

La mindfulness come possibile terapia dell’ autismo ad alto funzionamento

La pratica di mindfulness aiuta gli individui con autismo ad alto funzionamento a mettere in atto comportamenti diretti ad uno scopo in sostituzione di tutti quei pattern ripetitivi e maladattivi diventati oramai automatici (Pahnke et al., 2014).

In seguito ad un intervento ACT, opportunamente adattato per soggetti con autismo ad alto funzionamento, si sono registrati miglioramenti dei sintomi emozionali, una riduzione dell’ansia e dell’iperattività che si sono mantenuti anche nel periodo di follow-up. Sembra infatti che le abilità acquisite dai soggetti durante la pratica mindfulness abbiano avuto un effetto protettivo sullo stress quotidiano e sul distress psicologico (Pahnke et al., 2014).

Un altro studio, effettuato sempre nello stesso anno da Murza et al., volto ad indagare l’efficacia del metodo ACT in associazione con un intervento di verifica di generalizzazione dell’abilità acquisita in contesti differenti ha fornito risultati contrastanti. A fine trattamento è stato infatti rilevato un miglioramento nella generazione dell’inferenza durante la lettura e nelle abilità metacognitive mentre non si sono invece osservati cambiamenti significativi per quanto riguarda l’abilità di inferenza sociale. È quindi probabile che le acquisizioni dell’inferenza nella lettura non bastino perché i risultati vengano generalizzati ad altri contesti comunicativi. Gli autori stessi ritengono che forse in questo studio non ci si è focalizzati esplicitamente sull’inferenza sociale vera e propria, che è sicuramente diversa dall’inferenza nella lettura, anche se di situazioni sociali.

Lo studio di Murza et al. (2014) risulta essere comunque di grande rilievo in quanto suggerisce che gli individui affetti da autismo ad alto funzionamento possono imparare strategie di inferenza molto facilmente.

Gli studi citati risalgono a tempi recenti, di conseguenza i risultati, anche se promettenti, meritano maggiore attenzione e necessitano di ulteriori approfondimenti. La quantità degli scritti presenti non è inoltre ancora sufficiente per fornire conclusioni soddisfacenti.
Gli studi sulla mindfulness presentano sicuramente qualche lacuna (Dimidjian & Segal, 2015) o, comunque, la pratica di mindfulness stessa potrebbe incontrare nuovi ostacoli, laddove fosse applicata ad una popolazione clinica fortemente eterogenea, quale è l’autismo, e ancora caratterizzata da diversi interrogativi.

Esistono tuttavia interventi adatti a promuovere la mindfulness che non fanno largo uso di competenze linguistiche e che non necessitano di un impegno cognitivo particolare. È il caso dei mindful movements, ovvero la pratica della consapevolezza dei propri movimenti.

Il movimento corporeo è considerato da tempo una buona via per coltivare diverse abilità mentali, quali l’attenzione, l’autocontrollo e la mindfulness, e recenti studi hanno riportato i vari benefici, apportati da addestramenti al movimento consapevole (Clark, Schumann & Mostofsky, 2015). La pratica del movimento consapevole è risultata efficace anche nella riduzione dello stress, componente presente nei soggetti affetti da autismo ad alto funzionamento, e delle sue conseguenze fisiche e psichiche (Ibidem).

Nel campo dell’autismo ad alto funzionamento, un programma d’intervento che tenga conto anche di esercizi di mindful movements potrebbe risultare efficace per trattare i sintomi comportamentali, dati i riscontri positivi nell’autoregolazione, anche nei casi in cui non è prevista una terapia farmacologica (Rosenblatt et al., 2010).

In uno studio di Silva e Schalock (2013), in cui si sono osservati gli effetti di una pratica orientale, il qigong, che si focalizza sui movimenti, sull’affermazione, sulla respirazione, sulla meditazione e sul massaggio su bambini con diagnosi di autismo, si è evidenziato un significativo miglioramento nell’autoregolazione comportamentale e sensoriale.

Inoltre, è stato dimostrato che anche una terapia integrativa basata sulla danza risulta efficace in adolescenti affetti da autismo in quanto, lo studio effettuato da Koch et al. (2015) ha evidenziato un’aumentata consapevolezza corporea, una migliore capacità nel distinguere sé dall’altro e miglioramenti nelle abilità sociali nei soggetti che si sono sottoposti al trattamento.

Bremer et al. (2016) osservano come l’esercizio fisico, come ad esempio, nuoto, jogging o yoga, inserito come approccio terapeutico integrativo per bambini e adolescenti con autismo ad alto funzionamento, apporti importanti benefici in diversi indici comportamentali. Sono stati infatti osservati miglioramenti significativi nella frequenza e nell’intensità di comportamenti stereotipici, nel funzionamento socio-emotivo, nella cognizione e nelle capacità attentive.

Tutte queste tecniche si focalizzano sull’esercizio fisico, la respirazione e la corporeità, aspetto quest’ultimo centrale nella condizione dell’autismo ad alto funzionamento, se si pensa alle precedenti considerazioni sulla consapevolezza corporea e sull’autoregolazione. Secondo Clark et al. (2015), diversi sono i processi coinvolti nelle pratiche di questo tipo in quanto, la coordinazione dei movimenti potrebbe migliorare in conseguenza alle informazioni sensoriali in entrata, si sperimenta pianificazione ed organizzazione del nuovo movimento e si va ad aumentare la consapevolezza così da poter avere la possibilità di scegliere tra diverse prospettive, risposte nuove e contestualmente appropriate che permettono così all’individuo affetto da autismo ad alto funzionamento di ridurre le risposte abituali disfunzionali.

Infine, interventi di mindfulness risultano efficaci anche se applicati sui caregivers in quanto, un lavoro di questo tipo aiuterebbe il genitore, laddove fosse necessario, a trattare i livelli di stress percepito, ad osservare e affrontare con maggiore consapevolezza e minore impulsività i problemi comportamentali del figlio e ad aumentare il senso di auto-efficacia e di rilassatezza genitoriale (Singh, Singh, Lancioni, et al., 2010).

Gli stessi autori hanno preso in considerazione il fatto che un intervento di mindfulness, appositamente pensato per gli operatori legati alla realtà dell’autismo, potrebbe incidere sul soggetto autistico in modo indiretto. In questo caso, il miglioramento della qualità dell’attenzione e della capacità di riconoscimento delle emozioni dell’operatore avrebbe un effetto salutare indiretto sul soggetto affetto da autismo, in quanto a beneficiarne sarebbe in primis la relazione nella sua totalità (Singh, Singh, Lancioni, et al., 2010).

Una stanza piena di gente (1981) di Daniel Keys – Recensione del libro

Nel romanzo Una stanza piena di gente il protagonista soffre di disturbo dissociativo dell’identità. La trama è avvincente anche per i non addetti ai lavori; le personalità si dipanano via via che la storia prosegue ed il giallo prende forma.

Francesca Gervasoni

 

I dieci personaggi interiori hanno un range d’età che va dai 3 anni ai 26, presentano entrambi i generi ed ognuno di loro ha talenti e caratteristiche diverse; la trama si complica con altri 13 personaggi “indesiderabili” e la conoscenza di tutti è possibile tramite il Maestro che è l’integrazione di tutti i precedenti soggetti. Come in un percorso psicoterapeutico si inizia dal presente, dalla stabilizzazione e dal dipanamento della confusione per riuscire a recuperare la storia di vita incluse le memorie traumatiche.

Una stanza piena di gente: tra le pagine, il trattamento del disturbo dissociativo dell’identità

Una stanza piena di gente è strutturato allineandosi alle indicazioni del trattamento del disturbo dissociativo dell’identità e del trattamento del trauma: la prima parte è quella in cui si dipana la confusione, in cui regna il caos ed il paziente presenta amnesia, alterazione del tempo e in cui si trova in posti diversi da quelli in cui si era addormentato; sono i clinici, i poliziotti e gli operatori attorno a lui che prendono consapevolezza  per primi dell’esistenza e del susseguirsi delle parti compartimentate. Viene ben descritta l’amnesia caratterizzante questo genere di disturbo e le fobie specifiche dello stesso (la fobia del mondo interno, dell’attaccamento..), gli shift da una personalità all’altra.

Nella seconda parte di Una stanza piena di gente inizia il processo d’integrazione: il dialogo tra le parti è ben descritto ed emerge un poco alla volta il Maestro che è l’unico a conoscenza dei ventitrè alter ego; è lui che comprende le loro funzioni protettive, il loro legame con il mondo emotivo e la loro origine a partire dalle memorie traumatiche. Può chiamare “sul posto” i vari personaggi che si susseguono all’attenzione dei clinici che lo stanno aiutando.

La terapia farmacologica viene messa in discussione così come le diagnosi cliniche date precedentemente: disturbo della condotta, poi trattato come psicotico ed antisociale, rinchiuso in ospedale o, in alcuni momenti in carcere. Anche da questo punto di vista Una stanza piena di gente è fedele ai commenti dei clinici che si occupano di questi temi: farmaci per sedare e peggiorano il disagio, diagnosi che si susseguono senza un efficace esito dei trattamenti; disturbi che peggiorano se messi in situazioni di costrizione dove il protagonista perde il senso di controllo ed emergono le parti aggressive protettive.

Prendono forma anche le fatiche e le incertezze dei clinici quando si confrontano con aspetti direttivi istituzionali, coi pregiudizi e le diffidenze di colleghi e dei cittadini giudicanti perché spaventati, con i timori ed il timore di credere in qualcosa che ai più appare strano e improbabile, la fatica di assumersi il rischio di perseguire una strada incerta senza saperne la meta.

Un romanzo gradevole e leggero pur nella complessità del tema trattato.


Una stanza piena di gente, by Daniel Keyes (Disturbo Dissociativo)

Il ruolo dell’abuso emotivo infantile e della percezione di sé nei Disturbi del Comportamento Alimentare

Un potenziale mediatore della relazione tra abuso emotivo infantile e obesità è il disturbo alimentare: diversi studi hanno messo in evidenza l’associazione tra DCA e sovrappeso e obesità, come pure i fattori di rischio comuni tra disturbi alimentari e obesità.

Luisa Resta – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

Nonostante i numerosi modelli eziologici del sovrappeso, dell’obesità e dei disturbi alimentari, gli interventi di gestione del peso rimangono efficaci in modo marginale, o spesso sono associati al recupero del peso. Questi dati sembrano suggerire la necessità di esplorare ulteriori modelli di trattamento e prevenzione di Disturbi del Comportamento Alimentare, sovrappeso e obesità.

La letteratura sostiene l’applicazione efficace del modello cognitivo comportamentale per il trattamento della bulimia e dell’ obesità. Tale quadro teorico indica come la percezione negativa di sé, la bassa autostima, unite all’insoddisfazione per il peso e la forma corporea, aumentano il rischio di sviluppare un disturbo legato all’alimentazione, nonché la sindrome da alimentazione notturna (NES), l’emotional eating, le abbuffate e i meccanismi di controllo sul peso (es. uso di lassativi, esercizio fisico eccessivo). La condotta alimentare disturbata, a sua volta, aumenta il rischio di sovrappeso e obesità.

Maltrattamento infantile e alimentazione disturbata

La ricerca ha dimostrato le associazioni tra maltrattamento infantile e il peso attuale; in particolare, gli individui obesi spesso riferiscono storie di maltrattamento infantile ed esperienze di abuso che a loro volta aumentano il rischio di sviluppare l’obesità. Ad ogni modo, i meccanismi che guidano la relazione tra maltrattamento infantile e lo status del peso non sono ancora stati pienamente spiegati. Quando si parla di maltrattamento psicologico o abuso emotivo, si intende una relazione emotiva inappropriata e dannosa caratterizzata da pressioni psicologiche, ricatti affettivi, indifferenza, rifiuto, denigrazione e svalutazioni che danneggiano o inibiscono lo sviluppo di competenze cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria. Il maltrattamento psicologico si esprime attraverso critiche, ironia, sarcasmo, disprezzo e angherie ripetute e continue, modalità verbali fortemente svalutanti e sadiche, il coinvolgimento del bambino in conflitti e in ideazioni patologiche.

Un potenziale mediatore della relazione tra maltrattamento infantile e obesità è il disturbo alimentare; diversi studi hanno messo in evidenza l’associazione tra Disturbi del Comportamento Alimentare e sovrappeso e obesità, come pure i fattori di rischio comuni tra disturbi alimentari e obesità. Gli studi di popolazione hanno dimostrato che le condotte compensatorie, inclusi l’uso di lassativi, l’assunzione di pillole dimagranti e il vomito autoindotto, correlano trasversalmente con l’ obesità e sono predittori longitudinali dell’aumento di peso e dell’alimentazione incontrollata. Inoltre il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e la sindrome da alimentazione notturna (NES) sono frequenti tra soggetti in sovrappeso o obesi. La sovrapposizione tra meccanismi di compenso, bulimia e sindrome da alimentazione notturna, e la loro associazione con l’ obesità supportano la considerazione che questi fattori rappresentano dei mediatori nello sviluppo del sovrappeso e dell’ obesità.

Il periodo che va dall’adolescenza alla prima età adulta (18-25 anni) è considerata una fase distintiva dello sviluppo che richiede un aumento dell’ attenzione da parte del mondo della ricerca scientifica. Questa fase dello sviluppo risulta particolarmente critica per l’instaurarsi dei fattori di rischio per la salute, incluse le problematiche legate al peso, con oltre il 70% dei giovani adulti che aumentano di peso durante il periodo compreso tra le superiori e l’università. Sebbene tali meccanismi non siano ancora completamente compresi, i disturbi alimentari potrebbero avere un ruolo specifico, in particolare il loro aumento nella fase compresa tra l’adolescenza e la prima età adulta.

Il maltrattamento infantile in generale è stato associato con l’ alimentazione come strategia disfunzionale di gestione delle emozioni o dello stress, e con l’alimentazione incontrollata (binge eating). Nello specifico, l’ abuso emotivo infantile potrebbe essere il miglior predittore degli esiti negativi psicologici e comportamentali, rispetto ad altri tipi di maltrattamento o avversità. Kent, Waller e Dagnan hanno dimostrato che l’ abuso emotivo predice unicamente e in modo significativo gli atteggiamenti e i comportamenti alimentari disfunzionali (es. la spinta alla magrezza, le abbuffate e le condotte di compenso, e l’insoddisfazione corporea) ben oltre l’abuso fisico o sessuale. Inoltre, i soggetti con binge eating (BED) o quelli con sindrome da alimentazione notturna (NES) riportano un disturbo alimentare più frequentemente rispetto alla popolazione non clinica. L’ abuso emotivo potrebbe predire l’alimentazione incontrollata, il sovrappeso e le condotte di controllo del peso fino a cinque anni dopo.

La relazione tra l’ abuso emotivo infantile e i Disturbi del Comportamento Alimentare si vede anche nei giovani adulti, anche se non è ancora completamente chiaro quanto il grado di gravità dell’ abuso emotivo aumenti il rischio di sviluppare BED, sindrome da alimentazione notturna o meccanismi di controllo del peso.

Abuso emotivo infantile e percezione di Sé

La relazione tra l’ abuso emotivo infantile e i Disturbi Alimentari non è propriamente diretta; uno dei mediatori proposti dal gruppo di Hymovitz è la percezione di sé negativa. Studi sperimentali, longitudinali e trasversali dimostrano un collegamento tra la percezione di sé negativa legata all’ alimentazione, alla forma corporea e all’autostima, e i Disturbi Alimentari. Nella popolazione, l’ abuso emotivo infantile è associato con la percezione negativa del peso, forma corporea e autostima, e a livello longitudinale predice maggiormente un disagio interiore rispetto all’ abuso fisico o sessuale.

Le associazioni tra l’ abuso emotivo infantile e la percezione di sé negativa si rintracciano anche nei soggetti con BED. Nello specifico, in quelli che cercano attivamente un intervento per la gestione del peso, l’ abuso emotivo era associato all’insoddisfazione corporea, alla bassa autostima e al criticismo verso se stessi. La ricerca indica inoltre che la percezione di sé come vulnerabile e isolato media la relazione tra la vittimizzazione verbale e i Disturbi Alimentari, inoltre giustifica l’inclusione della percezione negativa di sé e l’ abuso emotivo infantile nei modelli teorici sui Disturbi del Comportamento Alimentare.

In accordo con il modello cognitivo comportamentale dei Disturbi Alimentari e dell’ obesità, la letteratura indica che i pensieri e la percezione negativa di sé legate all’ alimentazione predicono i Disturbi del Comportamento Alimentare che a loro volta predicono l’obesità.

Secondo alcuni, i modelli cognitivo comportamentali per i Disturbi Alimentari e l’ obesità non si sono interessati abbastanza al ruolo dei primissimi fattori ambientali, come l’ abuso emotivo infantile. Altri studi che prendono in considerazione l’ abuso e i Disturbi Alimentari suggeriscono come il primo giochi un ruolo centrale a livello eziologico, e i pensieri associati alla percezione negativa di sé mediano la relazione tra abuso emotivo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Inoltre, l’avvicinarsi all’età adulta costituisce probabilmente un periodo critico per lo sviluppo delle problematiche legate al peso e dei Disturbi Alimentari.

Il modello di mediazione della relazione tra abuso emotivo, percezione di sé, disturbo alimentare e obesità

La ricerca di Hymowitz et al. ha tentato di comprendere se l’ abuso emotivo impatta sui Disturbi Alimentari attraverso la percezione di se stessi e se il disturbo alimentare ha un impatto sul BMI nella prima età adulta e quindi contribuisce allo sviluppo dell’ obesità. Secondariamente i ricercatori hanno valutato se l’ abuso emotivo predice un disturbo alimentare e come la gravità dell’ abuso aumenta il rischio di binge eating, alimentazione notturna o meccanismi di controllo sul peso nei giovani adulti.

Il modello ipotizzato dagli autori è stato confermato, evidenziando la significatività delle relazioni tra abuso emotivo infantile e percezione di sé, percezione di sé e Disturbi AlimentariDisturbi Alimentari e BMI.

Abuso emotivo infantile: quale ruolo nella percezione di sé e nei Disturbi Alimentari? - IMM1

Fig. 1 – Modello di mediazione della relazione tra abuso emotivo, percezione di sé, disturbo alimentare e obesità

Tali dati confermano un modello cognitivo-comportamentale che include l’ abuso emotivo come un fattore di rischio per le distorsioni cognitive (bias) e il successivo sviluppo di un Disturbo Alimentare e problematiche legate al peso durante la prima età adulta. Il collegamento possibile tra storia di trascuratezza infantile e successivo sviluppo di Disturbi del Comportamento Alimentare sembra risiedere nella capacità di regolare l’intensità delle emozioni e degli impulsi. Dal momento in cui i bambini trascurati non fanno esperienza di contenimento da parte del caregiver, sono costretti ad apprendere meccanismi esterni che favoriscono lo sviluppo di meccanismi di controllo in contrasto al contesto di trascuratezza, in cui evidentemente tali soggetti non esercitano alcun controllo, favorendo così la modulazione di uno stato di calma interiore e affettiva quando si presentano degli stati emotivi negativi intensi.

Queste conclusioni sostengono la necessità di approfondire ulteriormente la relazione tra la percezione di sé, la sindrome da alimentazione notturna e il binge eating nei giovani adulti con una storia di abuso infantile.

Sogni ad occhi aperti? Allora sei efficiente e creativo!

Un nuovo studio del Georgia Institute of Technology suggerisce come sognare ad occhi aperti durante delle riunioni non sia necessariamente una cosa negativa, ma potrebbe essere un segno di intelligenza e creatività.

 

Schumacher, principale autore dello studio, e i suoi colleghi hanno misurato i modelli di attivazione cerebrale di più di 100 persone attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Ai partecipanti era chiesto di concentrarsi su un punto di fissazione statico per cinque minuti, e nel frattempo venivano misurate le attivazioni cerebrali durante il task e durante un periodo in cui non veniva svolto alcun task (a riposo).

I partecipanti hanno inoltre compilato un questionario per misurare quanto la mente vagava durante l’arco della giornata.

Coloro che hanno riferito di sognare di più ad occhi aperti durante l’arco del giorno hanno anche ottenuto un punteggio più alto nelle capacità intellettuali e creative, e risultano avere specifici pattern di attivazione cerebrale.

La gente tende a pensare che vagare con la mente sia necessariamente qualcosa di negativo perché lo si vede come una mancanza di attenzione – riporta Schumacher – I nostri dati sono coerenti con l’idea che ciò non sia sempre vero. Alcune persone hanno menti e cervelli più efficienti, pur avendo una maggiore tendenza a vagare con la mente (mind wandering).

I nostri risultati mi ricordano il professore distratto, ovvero qualcuno che è brillante, ma fuori dal suo mondo, a volte ignaro del proprio ambiente – sostiene Schumacher – Oppure i bambini, intellettivamente più dotati degli altri, che seguono lezioni per loro facilmente comprensibili. Mentre i loro compagni possono richiedere cinque minuti per imparare qualcosa di nuovo, loro capiscono in un minuto, quindi poi hanno tempo di distrarsi.

Gli autori dello studio ritengono che questi risultati possano promuovere ulteriori ricerche per  capire meglio quando il vagare della mente è nocivo e quando può effettivamente essere utile.

Ci sono importanti differenze individuali da considerare, come la motivazione di una persona o l’intenzione di rimanere concentrati su un compito particolare – ha detto Godwin, altro autore dello studio.

 


 

Fantasticare ad occhi aperti…che stress!!

Steven C. Hayes e l’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT)- Introduzione alla Psicologia

Steven C. Hayes è professore di Psicologia dell’Università del Nevada ed è il fondatore dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Steven C. Hayes: storia

Steven C. Hayes è nato nel 1948, è cresciuto nella California meridionale degli anni ’60 e ha frequentato la University High di San Diego, affiliata ad un college cattolico. Da sempre, è stato affascinato dalla psicologia perché la considerava un ambito in cui era possibile unire la scienza all’umanità. Contemporaneamente, però, non ha mai smesso di interessarsi alla scrittura, al canto, alla musica, alla matematica e alla scienza in generale.

Tra il 1966 e il 1970 ha cominciato a lavorare presso la Loyola Marymount University di Los Angeles. Inizialmente, frequentò Irving Kessler, terapista comportamentale e suo mentore. Kessler era diventato membro di questa facoltà dopo aver svolto un lavoro sul condizionamento dell’occhio, ma si occupava anche di ricerca di base e di pratica clinica.

Steven C. Hayes, inoltre, era un estimatore degli ideali utopici del tempo e dall’importanza dell’esplorazione spirituale. Di conseguenza era influenzato dal pensiero orientale, in particolare gli interessavano gli scritti di Suzuki (Zen Flesh, Zen Bones ) e Alan Watts. L’interesse per la spiritualità, le arti e la scienza sono confluite e inglobate nel lavoro di Skinner, e il suo libro Scienza e comportamento umano divenne, per Hayes, una sorta di esercizio zen che lo appassionò alla psicologia comportamentale fino a realizzare un lavoro di tesi in tale ambito. Così, supervisionato del dottor Kessler, ha creato un laboratorio sui ratti, costruito le gabbie e completato una tesi in cui confrontava la prevenzione, la modellazione e l’osservazione delle risposte nella riduzione del comportamento di evitamento nei ratti.

Dopo la laurea, Steven C. Hayes, divenne un  attivista politico e presidente di una lobby popolare della contea di San Diego e in questo periodo ha sposato Angel Butcher, da cui ha avuto una figlia, Camille Rose Hayes .

Nel 1976 conseguì il dottorato in psicologia clinica presso la West Virginia University. Il dipartimento di psicologia della West Virginia University era una eccellenza per l’analisi del comportamento e in questi anni entrò in contatto con diversi terapisti cognitivo-comportamentali tra cui John Cone, Rob Hawkins, Andy Lattal, Norm Cavior, John Krapfl e Hayne Reese.

Di conseguenza, immersosi nell’analisi del comportamento, Steven C. Hayes iniziò a pubblicare diversi lavori sul comportamento umano e animale.

Tra il 1976 e il 1977 Hayes fu influenzato dal pensiero di Barlow, che lo ha anche avviato alla ricerca clinica e da cui ha appreso sia come costruire disegni di ricerca su casi singoli sia come valutare il comportamento. Nel 1977-1986 divenne membro di facoltà presso l’Università di North Carolina a Greensborg, dove aprese da Rosemery Nelson ad essere attento e impegnato nella ricerca.

Sul fronte personale, invece, negli stessi anni Steven C. Hayes divorziò dalla moglie.

Da un punto di vista professionale era combattuto tra l’orientamento cognitivista e quello comportamentista fino a sviluppare un forte disturbo d’ansia che gradualmente gli rese la vita sempre più complicata. Proprio in questi anni iniziò a pensare a una soluzione teorica che lo portasse fuori da questo impasse e la risposta arrivò con la creazione di un nuovo modello teorico,  Acceptance and Commitment Therapy, ACT.

Nel 1986 Steven C. Hayes accettò la direzione della Clinical Training presso l’Università del Nevada e condusse una serie di studi empirici sul modello cognitivo, verificando che funzionava, ma solo in alcuni contesti e se supportati anche dalle tecniche comportamentali. A questo punto entrò in gioco l’ Acceptance and Commitment Therapy, inizialmente chiamato comprehensive distancing, in cui però si utilizzavano diverse metodi come: l’accettazione, la defusione e lo spostamento di attenzione, tutte tecniche che vanno oltre al distanziamento di cui parlava Beck (1976).

All’inizio del periodo all’università del Nevada, Steven C. Hayes sposò Linda Parrott, che lo aiutò a rafforzare le sue tendenze contestuali e a eliminare le implicazioni meccanicistiche dal suo pensiero. Inoltre, il filosofo Stephen C. Pepper e il suo libro Ipotesi mondiali hanno ulteriormente consolidato queste distinzioni. Nel 1988 è nato il figlio Charlie nel 1991 la figlia Esther.

Nel 2001 Steven C. Hayes divorziò dalla seconda moglie Linda.

Steven C. Hayes è stato molto attivo politicamente all’interno della psicologia, dove ha proposto la fondazione della American Psychological Society (APS) e presieduto il suo comitato organizzativo. Successivamente, insieme ad altri colleghi, Steven C. Hayes ha fondato l’Associazione Americana per la Psicologia Applicata e Preventiva.

Nel 2005 sposò Jacque Pistorello, con cui ebbe, diversi mesi dopo, Little Stevie.

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

L’ Acceptance and Commitment Therapy, in italiano Terapia di accettazione e di impegno all’azione è una forma di psicoterapia di recente diffusione che fa parte delle psicoterapie cognitivo-comportamentali, più note come approcci di “terza onda” o “terza generazione”.

L’acronimo “ACT” richiama opportunamente il verbo inglese to act ovvero agire.

L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è stata sviluppata, dunque, da Steven C. Hayes e i suoi collaboratori nel 1986, ma era stata preceduta da due articoli scientifici (Hayes & Brownstein, 1986; Hayes & Wilson, 1994) e poi, nel 1999, in un libro dal titolo Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change edito da Guilford Press.

Da allora è stata oggetto di numerosi studi di perfezionamento e validazione e, a oggi, rappresenta una delle psicoterapie con le maggiori prove di efficacia empiriche che le permettono di avere l’etichetta evidence-based (basata sull’evidenza).

L’obiettivo dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT), contrariamente a tutte le altre psicoterapie, non è la riduzione dei sintomi, ma la modificazione della relazione che si ha con i propri pensieri disfunzionali e con le emozioni negative. Questo si traduce in una riduzione della sintomatologia, ma come conseguenza di tale cambiamento di prospettiva e non come obiettivo primario.

Alla base dell’ ACT vi è il presupposto che la sofferenza psicologica sia connaturata all’esperienza umana e diversi processi psicologici sono, per loro stessa natura, potenzialmente distruttivi e derivanti da altra sofferenza. L’ Acceptance and Commitment Therapy postula, inoltre, che la radice di questa sofferenza sia il linguaggio. Questo assunto si fonda su una più ampia teoria di base del linguaggio e della cognizione umana, la Relational Frame Theory (RFT; Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001), alla quale l’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si appoggia quale substrato teorico e sperimentale.

Secondo la RFT tutte le attività cognitive umane sono qualitativamente linguistiche, dove per processi linguistici non si intendono soltanto il parlare o l’ascoltare o lo scrivere, ma anche il pensare, l’immaginare, il sognare ad occhi aperti, il visualizzare il futuro, il pianificare e così via. Secondo questa concezione tutto ciò che è mentale è linguistico. I pensieri, le immagini, le anticipazioni, i giudizi, le valutazioni, dunque, costituiscono una narrazione senza fine, un dialogo interno che le persone hanno con loro stesse. Quando questo dialogo interno è connotato negativamente o è troppo rigido determina problematiche di tipo psicologico.

Ad esempio, il linguaggio può diventare fonte di sofferenza psichica quando definisce rigidamente sé e gli altri, quando si associa a esperienze passate e fa rivivere ricordi dolorosi, quando spaventa almanaccando un futuro infausto, etc. Secondo l’ Acceptance and Commitment Therapy le persone sono influenzate profondamente da questo dialogo interno e non sono consapevoli di tale condizionamento, in altre parole sono cognitivamente “fuse” con la propria narrazione, sono tutt’uno con i propri pensieri, quindi sono quello che pensano di essere e questo pensiero è in grado di influenzare la propria vita.

Scopo dell’ Acceptance and Commitment Therapy

Lo scopo dell’ACT, in primis, consiste nel diventare consapevoli di questa fusione tra sé e il pensiero. Questo processo, dunque, porterebbe ad avere una maggiore flessibilità psicologica.

Il processo con cui l’ Acceptance and Commitment Therapy promuove questa consapevolezza prende il nome di detached mindfulness o defusione cognitiva. Attraverso la defusione cognitiva si diventa capaci di osservare la propria narrazione dall’esterno, come se accadesse a un amico, quindi in maniera più oggettiva.

In questo modo, si giunge a riconoscere che i pensieri non sono altro che eventi transitori, un flusso di parole, suoni e immagini continuamente mutevoli che non rappresentano pertanto la realtà.

Tecniche di Defusione cognitiva

Le tecniche per promuovere la defusione cognitiva sono moltissime e consistono, ad esempio, nell’osservare i pensieri con distacco, immaginare le parole scritte su uno schermo davanti a sé, ripeterle più volte, declamarle ad alta voce fino a che non diventano un suono senza significato o cantarle come una filastrocca. Un aspetto molto importante è che i pensieri non sono mai messi in discussione o confutati, contrariamente alla terapia cognitivo-comportamentale standard.

L’evitamento esperienziale e l’accettazione dell’esperienza

Un altro principio cardine dell’ Acceptance and Commitment Therapy è quello dell’evitamento esperienziale, dove per evitamento esperienziale si intende la non disponibilità da parte della persona a rimanere in contatto con particolari esperienze personali, come sensazioni fisiche, emozioni, pensieri, ricordi, etc. Questa non disponibilità si traduce in una messa in atto di comportamenti specifici per modificare l’impatto di questi eventi e i contesti che li provocano. Questo tipo di atteggiamento, oltre a essere molto faticoso, costituisce un problema e spesso peggiora la situazione, come nel caso dell’ evitamento dell’ansioso: più una situazione mi spaventa, più mi tengo lontano.

Secondo l’ACT, così come per la terapia cognitivo-comportamentale in generale, più lottiamo per cercare di respingere l’emozione negativa che ne consegue, evitandola chiaramente, più questa aumenta, amplificando così la sofferenza. Nel disturbo ossessivo compulsivo, per esempio, si mettono in atto rituali complessi nel vano tentativo di tenere a bada l’ansia provocata da pensieri o immagini considerati estremamente paurosi al punto da doverli controllare.

Quindi, secondo l’ Acceptance and Commitment Therapy, la sofferenza psicologica è spesso il risultato di un tentativo di evitare l’esperienza caratterizzata da sensazioni ed emozioni tipiche di una serie di eventi.

L’ Acceptance and Commitment Therapy propone, dunque, di contrastare questo evitamento con l’accettazione dell’esperienza, l’accoglimento non giudicante di ciò che si vive interiormente, senza l’assillo del controllo né della spiegazione.

E’ qui che l’ ACT diventa chiaramente una psicoterapia mindfulness based, perché tramite la pratica della mindfulness aiuta i pazienti a prendere consapevolezza dell’esperienza interiore nel qui e ora (nel momento presente) senza valutazioni o giudizi, ma con apertura e recettività, lasciando che i propri pensieri (le proprie narrazioni) vadano e vengano. Osservando i propri eventi interiori in questo modo anche i pensieri più dolorosi e le emozioni o i ricordi più negativi diventano meno minacciosi, e riducono il loro impatto e la loro influenza sulla nostra vita.

I valori e gli obiettivi

Un altro aspetto importante dell’ Acceptance and Commitment Therapy è la rilevanza che essa attribuisce ai valori personali. Secondo l’ ACT le energie e il tempo prima impiegati a cercare di lottare contro le proprie esperienze interiori dovrebbero essere investiti in azioni concrete, in un impegno fattivo, guidato dai propri valori, per rendere migliore la propria vita. L’ ACT aiuta, quindi, le persone a chiarire a se stesse cos’è davvero importante per loro, che persone vogliono essere, cosa ha veramente significato e valore, e cosa vorrebbero realizzare nella vita. Hayes e collaboratori (Dahl et al. 2005) definiscono i valori come le qualità continuative e globali delle azioni, ovvero si riferiscono ad un agire continuo nel tempo, dove il focus riguarda il modo in cui ci si vuole comportare, non l’obiettivo o il fine che si intende raggiungere. Se, ad esempio, il valore di una persona è “essere leale e onesto”, è possibile scegliere di intraprendere parecchie azioni diverse, tutte caratterizzate dalle qualità di “lealtà e onestà”. In altri termini, il valore viene coltivato costantemente, grazie ai modi in cui si decide di agire. I valori non coincidono con obiettivi che sono concretamente raggiungibili, ma rappresentano un processo continuo in cui trovare la direzione da seguire per aumentare il proprio senso di vita. Alla chiarificazione dei valori segue l’identificazione e la messa in pratica di azioni concrete e impegnate che permettono all’individuo di rimanere connesso e orientato verso i propri desideri, ovvero individuazione degli obiettivi.

Insomma,  l’ ACT aiuta a individuare gli obiettivi e ad agire con perseveranza e impegno per raggiungerli.

L’ Acceptance and Commitment Therapy può quindi essere sintetizzata come segue:

  • Accept your reactions and be present (Accetta le tue esperienze interiori e sii presente a te stesso)
  • Choose a valued direction (Scegli una direzione di valore)
  • Take action (Agisci)

Prove di efficacia ACT

L’ Acceptance and Commitment Therapy è stata utilizzata con individui, coppie e gruppi, sia come terapia a breve termine, che a lungo termine e per un ampio spettro di disturbi clinici. L’efficacia è stata dimostrata, attraverso la realizzazione di trial clinici randomizzati, per i seguenti disturbi: depressione, disturbo ossessivo compulsivo, stress lavoro-correlato, dolore cronico, stress da cancro terminale, ansia, disturbo post traumatico da stress, anoressia, abuso di sostanze e schizofrenia.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali (2017) – Recensione del libro

Giovanni Liotti è uno degli esponenti di spicco del cognitivismo italiano, il suo contributo è riconosciuto a livello internazionale e la sua elaborazione culturale rimane ancora ricca di spunti interessanti come dimostra il suo ultimo lavoro pubblicato per Raffaello Cortina e curato in collaborazione con Giovanni Fassone e Fabio Monticelli, L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali.

 

A gennaio del prossimo anno si celebrerà con un convegno nella sede della Biblioteca Nazionale a Roma il quarantesimo anniversario del cognitivismo italiano.

Giovanni Liotti è uno degli esponenti di spicco del movimento. Il suo contributo è riconosciuto a livello internazionale e la sua elaborazione culturale rimane ancora ricca di spunti interessanti come dimostra il suo ultimo lavoro pubblicato per Raffaello Cortina e curato in collaborazione con Giovanni Fassone e Fabio Monticelli, L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali.

Il volume fornisce le coordinate teoriche sulla teoria evoluzionistica della motivazione (TEM) e si divide in tre parti.

Gli autori sostengono una tesi di fondo: gli schemi comportamentali ed emozionali sono intrinsecamente motivati, diretti a conseguire mete che corrispondono a valori evoluzionistici e sono invarianti in tutti gli individui di una specie.

L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali: la motivazione nella prospettiva evoluzionista

La prima parte del volume propone un excursus sullo studio della motivazione nella prospettiva evoluzionista con l’illustrazione dei concetti di base.

Sono riprese le concettualizzazioni di autori che hanno fornito un contributo fondamentale allo studio delle emozioni: Darwin, Ekman, Bowlby, Panksepp, Gilbert.

Bowlby e Panksepp, sottolineano gli autori, condividono essenzialmente la tesi centrale dell’esistenza di sistemi psicobiologici frutto dell’evoluzione, omologhi negli animali e nell’uomo, che regolano sequenze caratteristiche sia di comportamenti sia di emozioni, in vista del perseguimento di specifici obiettivi adattativi.

E ancora, sono messi in evidenza i contributi di Tomasello sul potenziamento della capacità di cooperare in maniera paritetica come caratteristica cruciale dell’evoluzione di Homo sapiens, e di Lichtenberg e collaboratori, sull’esistenza nella teoria multimotivazionale di un sistema di affiliazione al gruppo sociale da considerare accanto alle altre motivazioni primarie relative ad attaccamento, avversione, sensualità/sessualità, esplorazione e regolazione dei bisogni corporei.

La teoria evoluzionistica della motivazione tiene in considerazione sia i processi alti sia i processi bassi in un’organizzazione gerarchica tripartita in cui i vari sistemi motivazionali si collocano al livello inferiore, intermedio o superiore in accordo con la loro successiva comparsa nel corso dell’evoluzione. Si delinea, perciò, una ricorsività dell’informazione fra sistemi motivazionali che unisce in maniera bidirezionale il livello arcaico, intermedio e il livello superiore evoluzionisticamente più recente.

Per superare la rigidità di questa organizzazione che comporta evidenti limiti, Liotti introduce in L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali i concetti di eterarchia e proprietà emergente. Il primo usato per definire “organizzazioni i cui elementi possono disporsi, a seconda delle contingenze ambientali, a diversi livelli di una struttura complessa, e inoltre possono stabilire connessioni funzionali molteplici fra loro”.

Le proprietà emergenti possono nascere dalla selezione naturale di due o più adattamenti evoluzionistici domain-specific e possono essere utilizzate per funzioni nuove, capaci di incrementare l’adattamento generale all’ambiente. Per questa ragione, oltre che “pennacchi evoluzionistici” le proprietà emergenti da un insieme di moduli possono essere chiamate “adattamenti domain-general”.

Questi due concetti permettono di esprimere la possibilità che il sistema dell’intersoggettività, in quanto sistema emergente, può acquisire episodicamente un livello eterarchicamente sovraordinato nell’organizzazione complessiva dei sistemi motivazionali.

Il sistema dell’intersoggettività, in quanto evoluzionisticamente più recente, esercita una funzione regolatrice sui sistemi sottostanti da cui emerge, mentre un’abnorme attivazione di questi ultimi può condurre a una più o meno protratta dissoluzione della motivazione intersoggettiva.

Ne consegue che nessuna influenza culturale sui contenuti della coscienza può annullare il fondamento evoluzionistico e dunque universale sul quale la coscienza di ordine superiore poggia.

Ne discende che ogni emozione umana presuppone l’intervento dei processi cognitivi superiori dell’uomo: le componenti fisiologiche delle emozioni sono trasformate in emozioni propriamente dette soltanto grazie all’intervento delle regioni neocorticali e “cognitive” del cervello umano.

Questa posizione è condivisa anche dal neuroscienziato LeDoux. Nel suo ultimo lavoro (LeDoux, 2016) sostiene che il senso del sé è fondamentale perché si possa provare paura. Sono le aree corticali, la corteccia prefrontale, sede dell’identità, che cognitivamente danno significato all’ emozione. Si prova paura solo quando il cervello è consapevole di se stesso e del corpo che ha avuto una reazione fisiologica alla minaccia.

Per la TEM i sistemi motivazionali più recenti evolvono da quelli più antichi, e usano le informazioni emozionali elaborate da essi per la sintesi di emozioni più raffinate e complesse.

Il terzo capitolo di L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali spiega l’esistenza di una forte tendenza, comparsa nel corso dell’evoluzione come Strategia Evoluzionisticamente Stabile (SES), a inibire l’aggressività distruttiva negli scontri fra conspecifici (Meccanismo di Inibizione della Violenza, MIV) e considera l’inibizione di questo meccanismo, dovuta a fattori sociologici e psicologici legati a tensioni dinamiche tra sistemi motivazionali diversi, come causa dell’aggressività distruttiva nell’interazione interumana.

La prima parte del volume si chiude con un capitolo curato da Antonella Ivaldi dedicato al confronto fra i risultati di due linee di studio sui fondamenti dei processi motivazionali umani quella di Joseph Lichtenberg e quella della Teoria Evoluzionistica della Motivazione che sono giunte a concordare sulla molteplicità di tali fondamenti e su molte loro caratteristiche.

L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali: le ricerche condotte con l’AIMT

Nella seconda parte del volume L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali sono riportate una serie di ricerche condotte con l’AIMIT (Analisi degli Indicatori della Motivazione Interpersonale nei Trascritti) uno strumento che permette attraverso l’analisi degli scambi verbali di rilevare la presenza di indicatori validi che segnalano la presenza di un processo motivazionale interpersonale in atto. E’ illustrato il percorso fatto per mettere a punto, validare e sviluppare l’AIMIT che consente di rilevare il ruolo dei Sistemi Motivazionali Interpersonali, ovvero Attaccamento, Accudimento, Rango, Sessuale, Cooperativo-paritetico, Gioco Sociale e Affiliazione.

Nel sesto capitolo de L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali sono messe in evidenza le criticità dello strumento: la complessità del procedimento di codifica, l’impegno richiesto in termini di tempo per trascrivere e codificare frase per frase il materiale clinico da analizzare, il livello di expertise richiesto per ottenere una valutazione sufficientemente attendibile, hanno giocato a sfavore di quella proliferazione nell’utilizzo del metodo, specialmente ai fini della ricerca, che invece era negli auspici degli autori.

Quindi, considerando che anche la lettura dei processi relazionali e sempre più incentrata sull’idea di assetto (Liotti, Monticelli, 2014), appare particolarmente importante per la teoria disporre di un metodo in grado di cogliere questo funzionamento sovramodulare, ascrivibile alla capacità combinatoria esercitata dai “piani alti” della coscienza intersoggettiva in termini di specificità (non cogliere il dato quando non c’è) e sensibilità (cogliere il dato quando c’e).

La comprensione delle emozioni in psicoterapia

La terza e ultima parte del volume L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali riguarda la clinica e si apre con un capitolo di Liotti sulla comprensione delle emozioni in psicopatologia e psicoterapia.

Liotti parte dalla considerazione che gli studi non hanno trovato alcuna rete neurale specifica per le emozioni primarie, mentre hanno rilevato mappe neurali specifiche per due diversi sistemi motivazionali e ipotizza che per avere una mappatura cerebrale occorre considerare il sistema motivazionale capace di organizzare molteplici emozioni e azioni in sequenze caratteristiche rivolte al perseguimento di una specifica meta, e non la singola emozione primaria. E’ illustrato, inoltre il contributo della TEM alla comprensione delle emozioni che caratterizzano la psicopatologia, con particolare riferimento all’ansia, alla tristezza, alla colpa, alla vergogna e alla collera.

Alla descrizione dell’alleanza terapeutica nella prospettiva dei sistemi motivazionali con esemplificazioni cliniche sono dedicati i successivi due capitoli curati da Fabio Monticelli.

L’alleanza terapeutica é un fattore predittivo del buon esito della psicoterapia: studi e meta-analisi che lo dimostrano si vanno accumulando da decenni.

La TEM per valutare e orientare le dinamiche motivazionali durante lo scambio clinico al fine di attivare il sistema cooperativo evita atteggiamenti psicopedagogici e direttivi; commenta le narrazioni dei pazienti in chiave empatica o di validazione emozionale; concorda le regole del setting anziché imporle rigidamente; condivide con il paziente l’intento che muove il terapeuta a porre alcune domande invece di tante altre possibili.

Nel condividere gli obiettivi, nel concordare i compiti e nel costruire e mantenere il legame l’attenzione è rivolta all’attivazione dei sistemi motivazionali in una dimensione sincronica (nella relazione con il terapeuta) e in una diacronica (MOI rintracciabili nella storia evolutiva).

Viene messa in rilievo l’utilità di considerare il sistema di attaccamento nel corso dello sviluppo della personalità, per comprendere la forma individualizzata, composta da particolari sequenze di attivazione di diversi sistemi motivazionali, che possono caratterizzare le rotture dell’alleanza terapeutica.

La riparazione delle rotture è illustrata attraverso un caso clinico in cui si analizzano dettagliatamente le dinamiche relazionali.

Il libro si chiude con un capitolo dedicato alle perversioni sessuali in cui si esamina la terapia di un paziente da una doppia prospettiva, psicodinamica e della TEM che chiama in causa le strategie controllanti sessuali, punitive e accudenti riscontrabili in soggetti con attaccamento disorganizzato.

I libri di Liotti hanno accompagnato la mia formazione e non nego che leggendo L’ evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali molte parti mi risultavano familiari ma ciò che mi ha sorpreso non poco alla fine della lettura è stata la gioia per aver raccolto ancora una volta delle preziose indicazioni da utilizzare nel lavoro clinico con i pazienti.

Mi sono, perciò, interrogato su quale assetto motivazionale si fosse attivato per conseguire quale meta specifica. Lascio a voi intuirlo e se avete qualche difficoltà, sicuramente potrete superarla dopo aver letto il libro.

La tossicodipendenza in Trainspotting 2 – Recensione del film

Trainspotting 2: I ragazzi di Edimburgo tornano dopo ben vent’anni di assenza dagli schermi: un tempo scattanti e spregiudicati, ora si ritrovano stanchi e afflitti dagli strascichi di una giovinezza trascorsa tra i furti e l’eroina.

 

La trama di Trainspotting 2

 Il sipario di Trainspotting 2 si apre così con il coraggioso e sprezzante Mark che all’età di 46 anni è riuscito ad uscire dal tunnel della vecchia routine, a recidere i ponti con il passato e a costruire un’esistenza regolare tra il lavoro fisso e redditizio, lo sport e lo stile di vita sano, che non bastano, tuttavia, a salvarlo dal rischio di patologie collegate all’uso di sostanze in età giovanile. Sarà un malore improvviso ad occupare le prime scene e catapultare il protagonista nella consapevolezza di un’adolescenza imbevuta di abitudini malsane che si attenuano, cambiano ma non svaniscono nel nulla.

Mark, però, non è l’unico a sperimentare il fallimento: il resto del gruppo, composto da Francis “Franco” Begbie, Simon “Sick boy” e Daniel “Spud”, nel film Trainspotting 2 è intento a confrontarsi con l’amara realtà della vita degli adulti che si rivela diametralmente opposta a quella infantile e adolescenziale: nella quale non esistevano preoccupazioni e inibizioni, ci si concedeva e perdonava tutto, persino usare le sostanze in presenza di una neonata trascurata, vivere in un appartamento sfasciato, rubare e riprendere il giro.

Il violento e dominante Begbie, finalmente fuggito dal carcere, incontra un figlio riluttante nel seguire le sue orme criminali, il bello e biondo Sick boy sniffa cocaina e ricatta gli uomini d’affari, e lo sfortunato e dolce Spud compie futili e infruttuosi tentativi di uscire dalla dipendenza, compromettendo l’equilibrio famigliare. Insomma la situazione è peggiorata per tutti e a questo si aggiungono gli anni che trascorrono, il matrimonio e le responsabilità verso i figli che diventano incompatibili con le caratteristiche di personalità e le cattive abitudini.

Tutti e quattro affrontano problemi analoghi, tra cui la perdita del lavoro, le crisi famigliari, i lutti irrisolti, i comportamenti antisociali, ma spicca una differenza importante: Mark è scappato all’estero con il bottino, il resto degli amici è rimasto a casa.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La fuga di Rent Boy

Sarebbe un errore interpretare la fuga di Rent Boy in Trainspotting 2 come una semplice palla al balzo colta all’improvviso, sembrerebbe invece che questa decisione sia tutt’altro che istintiva, bensì meditata come l’unica alternativa per non ricadere più, anche a costo di tradire gli amici e di salutare per sempre i genitori e un’aspirante partner. Il desiderio di scappare e rifarsi una vita altrove è infatti ricorrente nelle storie di tossicodipendenza in cui si tende ad attribuire all’esterno, nella fattispecie al posto e ai legami, la responsabilità delle proprie azioni; riducendo la riflessione sulle dinamiche psicologiche che conducono ad assumere la sostanza e ai fattori di rischio come la mancanza di interessi e di impegni, nonché le amicizie che condividono il consumo dell’eroina e l’incapacità di trovare metodi sani per gestire le emozioni e i pensieri. Mark, infatti, riesce a tenere un equilibrio fino ad un certo punto, quando la perdita del lavoro, la malattia e la separazione coniugale scatenano i sensi di colpa, la solitudine, la voglia di rimediare alle vecchie ferite causate alla famiglia e agli amici.

Non tutti, però, lo aspettano a braccia aperte: Begbie non perdona nemmeno in condizioni estreme, neanche in ricordo dei vecchi tempi in cui si era instaurata un’amicizia sincera, Spud si infuria e successivamente chiede aiuto, bisognoso e debole, e infine Sick boy medita la vendetta perfetta, ma alla fine è pronto a difenderlo a spada tratta. Tutti e tre appaiono feriti dalla perdita e dal tradimento del componente del gruppo, che coglie l’attimo e li lascia nell’abisso della dipendenza e della criminalità: Renton è l’unico a prendere i soldi e ricominciare un’altra vita senza dire una parola, e con ciò significa lasciare definitivamente gli amici che l’hanno considerato un fratello, ma verso il quale provano una lancinante invidia per quella azzardata audacia con cui ha posto fine ad una situazione agghiacciante. Del resto Rent boy non si sbaglia quando nel monologo finale del primo film giustifica il tradimento come un atto che avrebbe potuto commettere chiunque di loro se solo gli fosse data l’opportunità, ma solo a posteriori e dopo vent’anni valuta la ferita emotiva procurata a Simon, dal quale curiosamente torna spesso nell’arco del film.

Il rapporto tra Simon e Mark in Trainspotting 2 e il bisogno reciproco di aiuto

Il rapporto tra Simon e Mark è predominante nel film e appare ambivalente nonché poco integrato: entrambi avvertono l’inaffidabilità e al tempo stesso il bisogno di soccorrere ed essere soccorsi in una modalità in cui le emozioni di rabbia, delusione e paura, ad esempio, non sono consapevoli.

Non mancano tuttavia i momenti di confronto sulle esperienze presenti e passate da cui emerge la percezione di aver danneggiato la propria e la vita altrui: le accuse di aver introdotto la droga nel gruppo o di aver trascurato gli affetti a causa della stessa non permettono di accettare e imparare dalle scelte sbagliate, bensì di ricadere ancora, affermando l’uso della sostanza come l’unico tentativo di attenuare e regolare i contenuti disturbanti.

Il personaggio di Veronika Kovach

Nell’intreccio tra i vecchi personaggi si inserisce Veronika Kovach, ventenne, senza lavoro e titoli, fuggita dal suo paese natio e capitata volutamente nelle grinfie di Sick boy: la ragazza rievoca costantemente gli sbagli dei tre giovani che ora lei stessa sta per compiere se non “sceglie la vita”, abbandonando la compagnia e tornando a casa. Il confronto reciproco tra gli amici e la ragazza trasmette la consapevolezza, la paura, la rabbia, il senso di colpa, la difficoltà e l’importanza di andare oltre, cambiare direzione, riconoscere i legami essenziali e recuperarli prima che sia troppo tardi: Veronika è ancora in tempo, è da poco nel giro, non si droga e ha l’opportunità di andare a casa, al contrario dei tre amici che purtroppo regolano ancora i conti di una volta. L’ingresso di questo personaggio, inoltre, enfatizza le caratteristiche dei tre protagonisti; Simon, possessivo e incapace di definirsi la tiene stretta senza mettersi in gioco, Daniel attanagliato dai rimorsi della sua giovinezza le regala tutto quello di cui ha bisogno per uscire dalla vita che conduce, e infine Mark coglie di nuovo l’attimo, la soffia all’amico e la perturba comunicandole le ripercussioni del passato sul presente.

Conclusioni

Da un lato si percepisce un mantenimento di alcuni tratti di personalità e comportamenti improntati sulla ricerca della sostanza come fonte di piacere istantaneo e attenuazione/esaltazione di stati emotivi. Dall’altra parte, invece, si notano le riflessioni su di sé e sulle esperienze pregresse, nonché la capacità di ricercare e mantenere metodi alternativi per regolare e rielaborare gli stati interni; Daniel e Mark, più di tutti, riescono a sostituire l’eroina con la scrittura e lo sport, Begbie migliora il rapporto con il figlio ripensando alla relazione con il padre alcolista, Simon accetta la partenza di Veronika e abbandona le attività illecite per dedicarsi al locale.

Nonostante i conflitti e le incomprensioni i tre amici restano uniti di fronte al nemico Franco, che si riafferma ancora una volta come il violento ed emarginato del gruppo, incapace di superare la rabbia e di rappresentare sé e gli altri in vesti differenti: il valore di sé è misurato in base alla capacità di dominare e soggiogare e le persone sono percepite come oggetti da manovrare a piacimento. È l’unico personaggio che finisce nello stesso punto da cui è partito, mentre gli altri riescono a trovare una via di uscita alternativa, a riparare i rapporti danneggiati e ad affrontare le difficoltà con maggior consapevolezza. Sullo sfondo, però, resta la voglia di evadere velocemente, di ritornare a quell’epoca in cui le preoccupazioni erano colte con leggerezza e non esisteva un passato su cui riflettere.

Il ruolo svolto dal cervello nell’apprendimento di immagini durante lo sviluppo

Il neuroscienziato Christiaan Levelt, usando una registrazione elettrofisiologica in topi geneticamente modificati, ha mostrato che questa regione contiene neuroni inibitori che regolano in maniera efficiente come il cervello apprende ad integrare gli inputs binoculari.

 

I ricercatori David Hubel e Torsten Wiesel ottennero il premio Nobel nel 1981 per i loro studi sull’architettura funzionale del sistema visivo. Qualche anno prima, nel 1970, pubblicarono la loro ricerca “The period of susceptibility to the physiological effect of unilateral eye closure in kittens” in The Journal of Physiology, dove esponevano gli effetti fisiologici della deprivazione visiva tramite la sutura delle palpebre dell’occhio destro a gatti di differente età.

Registrando le attività neuronali della corteccia visiva primaria ed analizzando le risposte agli input provenienti dai due occhi, osservarono che nei gatti più piccoli si era verificato un declino della proliferazione neuronale deputata all’acquisizione dell’elaborazione dello stimolo visivo rispetto ai gatti con età maggiore di un anno. Conclusero (Wiesel & Hubel 1970) che la deprivazione visiva, durante il periodo critico, poteva causare deficit visivi permanenti e difficoltà nella riabilitazione della dominanza oculare nell’occhio precedentemente suturato. Esiste perciò una predisposizione del sistema nervoso verso stimoli con caratteristiche specifiche, la cui somministrazione durante il periodo critico induce una rapida e definitiva acquisizione di quella specifica funzione.

Il periodo critico è un intervallo di tempo differente per ogni specie e ad esso si riferiscono i neuroscienziati per indicare come nel cervello avvenga un raffinamento della struttura dei circuiti cerebrali affinché questi rispondano meglio ai problemi di interazione del soggetto con l’ambiente.

Solitamente, si fa riferire questo lasso di tempo ai primi anni di sviluppo della persona, dove la sua abilità di apprendimento per specifiche competenze e funzioni è fortemente incrementata e, inoltre, gli stimoli ambientali a cui la persona è soggetta potrebbero condizionare le sue capacità per il resto della sua vita.

Si presume che l’inizio e la fine di questi periodi critici sia regolato dalla corteccia, cioè lo strato più esterno del cervello ma una recente scoperta è stata fatta dai neuroscienziati (Christiaan Levelt et al. , 2017) del Netherlands Institute for Neuroscience. La ricerca mette in luce il ruolo cruciale di una regione sottocorticale del cervello, deputata già al trasferimento degli input sensoriali provenienti dall’occhio ed indirizzati alla corteccia visiva primaria.

La regione interessata sarebbe la struttura chiamata talamo (dal greco thalamos, “camera interna”), divisa in parecchi nuclei che ricevono l’informazione sensitiva dai sistemi sensoriali e inviano questa alle aree specifiche della corteccia tramite fibre di proiezione.

Il neuroscienziato Christiaan Levelt, usando una registrazione elettrofisiologica in topi geneticamente modificati, ha mostrato che questa regione contiene neuroni inibitori che regolano in maniera efficiente come il cervello apprende ad integrare gli inputs binoculari.

Sulla base di tali osservazioni, l’inizio del periodo critico della dominanza oculare avverrebbe con la maturazione delle sinapsi inibitorie caratterizzate da recettori GABA di tipo A che contengono le subunità α1. Inoltre, i neuroni del talamo deputati alla trasmissione dell’informazione del nucleo genicolato dorsolaterale subiscono il modellamento neuronale dovuto alla dominanza visiva. Tali risultati dimostrano che i circuiti inibitori del talamo svolgono un ruolo centrale nella regolazione del periodo critico.

Alla luce di tali risultati Levelt sostiene:

Per risolvere i problemi di sviluppo osservati nei problemi di apprendimento durante i periodi critici, ripristinare solo la flessibilità dei neuroni nella corteccia visiva non potrebbe essere sufficiente. Dunque, gli scienziati e i clinici potrebbero non limitarsi al mero studio dei deficit corticali, ma potrebbero focalizzarsi anche sul talamo e sul modo in cui processa le informazioni prima di accedere alla corteccia.

 

Esiste un legame tra omosessualità e cross-gender acting? – Le risposte di fluIDsex

C’è un legame tra omosessualità ed il vestirsi, atteggiarsi come bambini-ragazzini del genere opposto in infanzia? C’è qualche evidenza o motivazione ormonale per questo? (Tizy)

 

Salve Tizy,

prima di tutto mi piacerebbe chiarire che non esiste nessuna evidenza o motivazione ormonale dietro al cosiddetto fenomeno del cross-dressing.

Non è per nulla inusuale, per bambini in età prescolare, giocare con i ruoli di genere (vestiti, atteggiamenti …) e in generale può essere paragonato al fenomeno del “cross-gender acting”, ovvero quando ad alcuni attori viene richiesto di portare in vita personaggi di genere opposto al proprio; un fenomeno molto comune nel teatro antico in Grecia, nel periodo rinascimentale in Inghilterra e ancora oggi presente nel teatro Kabuki Giapponese.

Travestirsi o il giocare “a far finta di” è il modo più semplice, per un bambino, di capire il mondo in cui vivono e le molteplici realtà in cui si trovano immersi nella vita d’ogni giorno.

E’ vero che molti bambini che mostrano spesso questi atteggiamenti, da grandi si identificheranno come transgender e/o omosessuali, ma è in egual misura vero il contrario.

 

Lorena Lo Bianco

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Lo sviluppo del comportamento prosociale dall’infanzia all’età adulta e le differenze di genere

Un individuo socialmente competente, è in grado di agire nell’ ambiente sociale in modo da generare negli altri reazioni positive nei suoi confronti e quindi essere accettato. Un tipo di comportamento che genera questo tipo di reazione è il comportamento prosociale.

Pastore Valentina – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La maggior parte degli psicologi (Batson, 1998; Eisenberg, Fabes & Spinrad, 2006) intende come comportamento prosociale, qualsiasi comportamento volontario diretto a beneficiare altre persone. Mentre nei vari ambiti della ricerca si utilizzano definizioni empiriche che di volta in volta circoscrivono il comportamento prosociale come quello messo in atto in particolari tipi di relazione con le altre persone e di tipo molto specifico, come ad esempio aiutare, donare e consolare (Caprara, 2006).

Di conseguenza risulta alquanto difficile giungere ad un’univoca definizione di prosocialità, tuttavia Mussen ed Eisenberg (1985) tentarono di dare una prima interpretazione ai comportamenti che potevano essere collocati all’interno di questa categoria in base alle caratteristiche distintive:

…si tratta di un comportamento diretto ad aiutare o beneficiare un’altra persona o un gruppo di persone, senza aspettarsi ricompense esterne (Mussen & Eisenberg, 1985, p. 53).

Successivamente, Roche (1995) propone una definizione di prosocialità più specifica. L’autore categorizza come prosociali quei comportamenti che, senza la ricerca di ricompense esterne, favoriscono altre persone, gruppi o fini sociali e aumentano la probabilità di generare una reciprocità positiva, di qualità, solidale nelle relazioni interpersonali o sociali conseguenti, salvaguardando l’identità, la creatività e le iniziative degli individui o gruppi implicati, sia che essi offrano o ricevano aiuto.

Più tardi l’autore ha enunciato i seguenti elementi costitutivi dell’azione prosociale:

  • Emittente: inteso come l’individuo che da inizio all’ azione prosociale tendente a realizzare o migliorare il benessere oppure a diminuire lo stato di sofferenza del proprio interlocutore.
  • Ricevente: colui che ottiene o trae beneficio dall’ azione prosociale manifestata dall’emittente.
  • Azione: l’atto implementato dall’emittente verso il ricevente e che presenta caratteristiche tali da realizzare o migliorare il benessere del ricevente, o almeno, ridurne lo stato di sofferenza.
  • Ambiente: inteso come l’insieme delle condizioni esterne, relativamente stabili, di natura fisica e psicologica, che influenzano la condotta degli individui interessati all’ azione prosociale.
  • Situazione: può essere riferita alle condizioni psicofisiche del ricevente o a particolari eventi esterni. Sia l’ambiente che la situazione, possono influenzare pesantemente l’esito dell’ azione prosociale.
  • Valori e norme sociali: intesi come gli elementi che definiscono i principi, rispettivamente soggettivi e intersoggettivi, che regolano la manifestazione di un’ azione prosociale. Nel caso in cui il soggetto non rispetti i valori, può andare incontro al conflitto interiore e al senso di colpa, quando invece sono le norme sociali a non essere rispettate, l’individuo può incorrere ad una sanzione.

In conclusione, le componenti essenziali dell’ azione prosociale sono l’emittente, vale a dire la persona che mette in atto il comportamento prosociale e il destinatario dell’azione. Quest’ultima determina un cospicuo vantaggio nel ricevente e un concomitante potenziamento di sentimenti quali il senso di integrazione e di appartenenza, che hanno, senza dubbio, implicazioni sull’ autostima dell’emittente.

L’emittente durante l’emissione del comportamento prosociale, esperisce sia l’autonomia personale di scelta del comportamento e l’assunzione di responsabilità, che l’efficacia nel vagliare i bisogni dell’altro.

L’ azione prosociale si reifica in specifici comportamenti che rappresentano dei target d’intervento a livello educativo, per citarne alcuni: aiuto fisico e verbale, conforto e sostegno verbale, conferma e valorizzazione positiva dell’altro, ascolto empatico, solidarietà, generosità e altruismo (Bortone, 2007).

Lo sviluppo del comportamento prosociale dall’infanzia all’età adulta

Lo sviluppo del comportamento prosociale inizia nei primi anni di vita e continua fino all’età adulta ed è influenzato da molti fattori che ne modellano la forma, la direzione e l’ampiezza (Vecchione & Picconi, 2006).

Alcuni autori (Burleson, 1994), sono concordi nell’assegnare un ruolo fondamentale alla matrice biologica e alla maturazione del sistema nervoso, nello sviluppo del comportamento prosociale. Nelle diverse fasi evolutive, la propensione alla prosocialità, è soggetta a una serie di mutamenti, che potrebbero essere causati da fattori ambientali, i quali intervengono nei processi di crescita e di maturazione tipici dello sviluppo, diversificando il percorso di vita di ogni singolo soggetto (Ibidem).

Lo studio dello sviluppo della prosocialità è stato affrontato in studi longitudinali, in quanto ritenuti migliori, rispetto agli studi trasversali. Negli studi trasversali i soggetti, di età diversa, sono nati in periodi differenti, appartengono a coorti diverse, esposte a differenti stimolazioni, quindi il loro comportamento potrebbe essere influenzato non solo dalla variabile età ma anche da una serie di variabili legate al contesto socio-culturale di appartenenza, cioè alla variabile tempo (Pedon, 1995).

All’interno degli studi longitudinali invece, è possibile mantenere separato l’effetto della variabile tempo da quella della variabile età. Nelle ricerche longitudinali, un particolare comportamento viene misurato più volte ad intervalli regolari su un singolo gruppo di coetanei, tale metodo di misurazione permette di conoscere e studiare con maggior chiarezza i cambiamenti che interessano uno specifico ambito dello sviluppo (Ibidem).

La maggior parte degli studi (Brownwll & Carriger, 1990; Hay, Castle, Davies, Demetriou & Stimson, 1999; Rheingold H. L., Hay & West, 1976; Zahn-Waxler, Radke-Yarrow, Wagner & Chapman, 1992) che si sono occupati dello sviluppo del comportamento prosociale si sono focalizzati sul primo periodo di vita del bambino che, insieme all’età prescolare, risulta quella più soggetta a modificazione a livello biologico, cognitivo ed affettivo.

I primi segnali di attenzione che il neonato emette nei confronti degli altri, sono presenti sin dai primi mesi di vita, in questa fase emerge una forma primitiva di prosocialità che si manifesta in modo generalizzato, sottoforma di rudimentali tentativi di consolazione dell’altro come ad esempio offerta di cibo. Questa tendenza spinge il bambino a comunicare con gli altri e ad interessarsi alle attività delle persone che si trovano nel suo ambiente (Hay, 1994).

A partire dal secondo anno di vita questa tendenza, che inizialmente veniva messa in atto in modo indifferenziato, diventa sempre più differenziata e consapevole (Vecchione & Picconi, 2006).

È proprio in questo periodo che inizia a svilupparsi l’avvicinamento alla prospettiva degli altri, e la capacità di ricezione dei loro bisogni, a seguito dell’assimilazione di nuove esperienze e situazioni, capacità che aumenta in funzione all’età del bambino, grazie all’acquisizione del concetto di “altro” (Zahn-Waxler et al., 1992).

Lo sviluppo di capacità cognitive, come ad esempio il decentramento dell’io e l’assunzione di ruolo, svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo della condotta prosociale, in quanto stimolano la percezione e la consapevolezza degli altri, e quindi la valutazione di motivazioni e sentimenti diversi dai propri (De Beni, 1998).

Le motivazioni all’aiuto si associano ai processi di ragionamento morale caratteristici di questa fase dello sviluppo. Nei primi anni di vita il bambino non è consapevole degli standard e delle norme che regolano la vita sociale, e la moralità viene controllata soprattutto dall’esterno. La decisione di prestare aiuto scaturisce dall’obbedienza alle figure autoritarie (come ad esempio genitori ed insegnanti), deriva da richieste esplicite, viene regolata dal timore di ricevere una punizione o può scaturire da motivazioni edonistiche e strumentali al raggiungimento di fini personali (Vecchione & Picconi, 2006).

Si può quindi affermare che, nei primi anni di vita, il comportamento sociale ha una relazione di segno positivo con l’età (Staub, 1970).

Come affermano Bryan e London (1970):

E’ abbastanza chiaro come la generosità incrementi con l’età almeno nel corso dei primi anni di vita (pp. 206-207).

Risultati analoghi sono emersi per numerose forme e manifestazioni di aiuto e di prosocialità, ma non è possibile comunque generalizzare questo fenomeno a tutte le situazioni e a tutti i contesti di ricerca.

Risulta meno chiara la traiettoria di sviluppo della prosocialità nel periodo scolare, e i risultati delle ricerche effettuate sono in parte contradditori.

Secondo alcuni autori, in questo periodo ci sarebbe un aumento nella predisposizione all’ azione prosociale (Fabes, Carlo, Kupanoff & Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996).

Altri autori, invece sostengono che, una volta portati a compimento i processi più elementari di maturazione cognitiva sia più difficile rintracciare uno schema stabile e generalizzabile.

A conferma di tale ipotesi, vi sono gli studi di Green e Schneider (1974), questi autori sostengono che una volta che il bambino ha sviluppato la capacità cognitiva di riconoscere ed apprezzare i bisogni degli altri, ed ha appreso le prescrizioni dettate dalle norme sociali, la propensione all’aiuto viene dettata soprattutto dalle contingenze ambientali o dalle disposizioni individuali.

All’origine di tale variabilità ci potrebbe essere l’utilizzo di metodologie di tipo trasversale o di metodologie che si sono limitate alla rilevazione di due sole osservazioni nel tempo, che risultano insufficienti per capire in modo chiaro la traiettoria di sviluppo (Rogosa & Villet, 1985).

Anche le diverse fonti di valutazione utilizzate e i diversi tipi di informazioni raccolte potrebbero essere fonte di variabilità. Nel caso vengano usati questionari di autovalutazione, il soggetto stesso fornisce informazioni relative al proprio comportamento, nel caso invece vengano utilizzati questionari di eterovalutazione, i giudizi provengono da altre persone che sono a contatto con il bambino. Parecchi studi hanno sottolineato che spesso è presente un disaccordo tra differenti fonti e valutatori (Gagnon, Vitaro & Tremblay, 1992; Nantel-Vivier et al., 2003; Offord et al., 1996; Sines, 1988), e ciò può essere all’origine dei risultati controversi a cui hanno portato alcune ricerche che utilizzavano diversi tipi di fonti.

Oltre a questi fattori che causano variabilità è importante sottolineare il fatto che il comportamento prosociale in sé è un concetto ampio e multisfaccettato, all’interno del quale possono essere contemplati comportamenti diversi, che nonostante siano correlati gli uni con gli altri (Dlugokinski & Firestone, 1973; 1974; Rusthon, 1980), è opportuno specificare che i loro nessi possono modificarsi al variare dell’età dei bambini (Hay, 1994; Jackson & Tisak, 2001) ed essere ulteriormente influenzati da variabili cognitive o situazionali.

Soprattutto nel periodo di transizione dall’infanzia all’adolescenza, la relazione con l’età dipende dalla specifica forma di comportamento che viene indagata e dal modo in cui essa viene operazionalizzata, in quanto questo periodo è caratterizzato da una maggiore sofisticazione cognitiva e dall’arricchimento del repertorio comportamentale dell’individuo.

Non è quindi possibile tracciare un’unica traiettoria di sviluppo e ritenerla come universalmente valida e generalizzabile a tutti i soggetti appartenenti alla popolazione (Vecchione & Picconi, 2006).

Comportamento prosociale: differenze di genere

Rispetto alle differenze di genere, a primo acchito, adottando una concezione stereotipica dei ruoli di genere, viene spontaneo considerare le femmine come maggiormente sensibili, empatiche e prosociali rispetto ai maschi, che vengono considerati più individualisti, e orientati al successo personale (Broverman, Broverman, Clarkson, Rosenkrantz & Vogel, 1970; Spence, Helmreich & Stapp, 1974).

Nonostante ciò, i risultati di numerose ricerche empiriche, sono in parte contrastanti (Carlo, Roesch, Knight & Koller, 2001; Moore & Eisenberg, 1984; Radke-Yarrow et al., 1983; Whiting & Edwards, 1973).

Sono emerse differenze relative al genere, nella frequenza con cui gli atti prosociali vengono messi in atto, relativamente alle situazioni e ai contesti in cui i comportamenti vengono agiti (Eisenberg & Fabes, 1998), alla specifica tipologia di comportamento messo in atto e alle motivazioni che spingono il soggetto ad agire in modo prosociale.

Nella maggior parte degli studi, in cui è emersa una differenza relativa al genere, essa tende a manifestarsi nella direzione di una maggiore frequenza nella messa in atto di comportamenti prosociali da parte di soggetti di sesso femminile (Fabes & Eisenberg, 1996), infatti nelle relazioni tra pari, le ragazze tendono a condividere le proprie cose con gli altri e a cooperare, più di quanto non facciano i ragazzi, i quali mettono in atto un maggior numero di comportamenti coercitivi (Burford, Foley, Rollins, Rosario, 1996).

Per quanto riguarda la specifica tipologia di comportamento prosociale messo in atto, tra i soggetti di sesso maschile, sono maggiormente diffuse forme più edonistiche di comportamento morale, dettate dai rinforzi provenienti dall’ambiente, ed uno stile più aggressivo nella risoluzione dei problemi (Rhys & Bear, 1997; Eberly & Montemayor, 1998).

Relativamente al contesto, mentre le donne tendono a mettere in atto comportamenti altruistici soprattutto all’interno delle relazioni famigliari e in relazioni di lunga durata in cui un partner o un amico necessitano di aiuto o supporto, gli uomini tendono a prestare il loro aiuto agli altri quando la situazione richiede azioni rapide e decise o quando qualcuno necessità di un chiaro aiuto essendo in serio pericolo .

Mentre alcuni studi hanno messo in evidenza una differenza tra i due sessi, altre ricerche non hanno rilevato differenze particolarmente rilevanti, di conseguenza non si può concludere che le femmine siano maggiormente prosociali rispetto ai maschi.

La discordanza tra i risultati, potrebbe in parte essere attribuita agli impianti metodologici utilizzati, alle caratteristiche del campione e alla potenza degli strumenti utilizzati.

Inoltre, poiché le differenze di genere nella predisposizione al comportamento prosociale possono essere ascritte al processo di socializzazione che caratterizza i due sessi (Mussen & Eisenberg, 1977), è plausibile che tali differenze emergano con maggior chiarezza a partire dalla tarda infanzia, nel momento in cui inizia il processo di socializzazione (Belansky & Boggiano, 1994; Bussey & Bandura, 1999).

Mindfulness e sport: lasciar andare e…vincere!

La mindfulness sta diventando una pratica sempre più diffusa in ogni ambito, da quello clinico a quello aziendale passando anche per la psicologia dello sport.

 

Gli atleti nell’affrontare una gara mettono in atto una serie di strategie psicologiche per gestire lo stress determinato dalla competizione (emozioni negative, paura di sbagliare/perdere, pensieri disfunzionali che possono influenzare negativamente la loro performance). In aggiunta ci possono essere alcune caratteristiche di personalità o l’adozione di stili di coping evitanti o, ancora, elementi psicopatologici, che possono peggiorare ulteriormente la prestazione (Birrer, 2012).

Fino a qualche anno fa all’interno della psicologia dello sport veniva utilizzato un programma di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) per potenziare l’autocontrollo rispetto a pensieri ed emozioni che avrebbero potuto inibire la performance (Moore, 2009)

Gli studi più recenti invece hanno cercato di introdurre un programma basato sulla mindfulness e sull’accettazione.

Nel 2012 Birrer e i suoi collaboratori, hanno cercato di elaborare un modello che spiegasse la maggiore efficacia della Mindfulness rispetto al programma tradizionale, sulla base della letteratura sulla Mindfulness e gli studi sulla psicologia dello sport.

La pratica mindfulness

Ma innanzitutto, cos’è la mindfulness? La parola mindfulness, in italiano consapevolezza, traduce il termine Vipassana, il nome in lingua pali di un’antica tecnica di meditazione buddista. E’ stato John Kabat Zinn, un biologo molecolare statunitense a ideare nel 1979 un protocollo scientifico (Mindfulness based-stress reduction) a partire dalle antiche tecniche della presenza mentale, protocollo la cui efficacia è stata confermata in termini sperimentali e ampliata in diversi ambiti.

La pratica mindfulness va distinta da quella che è stata definita come dispositional Mindfulness (DM) perché la prima indica un metodo che va coltivato, mentre la seconda indica la tendenza a “Essere mindfulness” una propensione innata  alla consapevolezza intenzionale, ovvero l’ essere consapevoli dei propri pensieri e sentimenti nel momento presente.

Gli atleti con maggior pratica Mindfulness ed elevata dispositional Mindfulness migliorano il livello di strumenti psicologici richiesti attraverso diversi meccanismi che agirebbero come mediatori tra la mindfulness e la performance finale.

In particolare si tratta di:

  • Attenzione “nuda”: la Mindfulness migliora l’attenzione e le abilità percettive e cognitive. Gli atleti si distraggono di meno, sono più capaci di controllare la loro attenzione, di concentrarsi e di direzionare l’azione sull’obiettivo. Se l’attenzione non si disperde su contenuti irrilevanti, c’è una maggior lucidità e quindi efficacia nell’ottenere il risultato migliore.
  • Attitudine: atteggiamento della pratica di consapevolezza (accettazione, non giudicante, apertura, rispetto di sé e non reattività). la pratica della consapevolezza aumenta l’accettazione esperienziale (Hayes et al., 1999). Gli atleti accettano una discrepanza di prestazioni (prestazioni inaspettate e prestazioni inattese) non mettendo in atto delle risposte reattive che incidano sulle loro abilità motorie.
  • Chiarimenti dei valori: la pratica di consapevolezza porta a una chiarificazione dei valori personali (Shapiro et al., 2006). Gli atleti potrebbero identificare i conflitti tra i loro valori personali e il loro comportamento nel raggiungimento di un risultato o nella soddisfazione di un bisogno.
  • Autoregolazione e regolazione delle emozioni negative. Gli atleti possono diventare più capaci a gestire la rabbia, la paura e altre emozioni negative. La regolazione dell’arousal, le capacità di coping, la comunicazione e la capacità di leadership migliorerebbero con la Mindfulness.
  • Chiarezza circa la propria vita interiore: la Mindfulness insegna a vedere con chiarezza i nostri movimenti interiori e a essere meno reattivi in presenza di emozioni negative. Una migliore consapevolezza ha un effetto positivo sullo sviluppo personale e sulla vita, sul sé così come sulla capacità di comunicazione, di coping e di leadership.
  • Esposizione: la pratica incide sull’esposizione in particolare permette di rimanere in contatto con le esperienze spiacevoli senza evitarle. In termini sportivi, significa che gli atleti possono essere maggiormente in grado di gestire un momento stressante o spiacevole durante una gara o durante l’allenamento.
  • Flessibilità cognitiva, emotiva e comportamentale:l’adattamento e flessibilità nel rispondere all’ambiente come risultato della MD  permette il consolidamento dello sviluppo personale e degli strumenti di comunicazione e leadership.
  • Non-attaccamento: ovvero la credenza che ciascuno di noi possa essere felice è indipendente dall’ottenere risultati positivi, questo è il risultato della pratica Mindfulness.
  • Minore rimuginio: la Mindfulness riduce il rimuginino o la sensazione di incontrollabilità del rimuginino.

Questi meccanismi vanno quindi  a influenzare una serie di abilità utilizzate dagli atleti tra cui le abilità di coping, motivazionali, gestione del dolore, abilità attentive, legate all’arousal, percettive, cognitive, motorie e comunicative. La riduzione del rimuginio sembra essere quello che produce effetti su una quantità maggiore di abilità.

La performance ad alti livelli

Per dimostrare l’efficacia degli interventi di Mindfulness sugli atleti bisogna però comprendere meglio cosa sia la performance ad alti livelli per la psicologia dello sport.

Essa può essere compromessa da alcuni fattori psicologici (non necessariamente patologici). Tra gli altri, gli inibitori della performance includono anche le aspettative irrealistiche spesso determinate da una personalità perfezionistica o problematica, ansia da competizione, timore di sbagliare, tensione percepita, comportamenti evitanti, problemi relazionali, difficoltà di vita….tutti questi elementi abbassano la performance.

Al contrario uno stato psicofisico caratterizzato da processi orientati all’obiettivo permettono una performance eccellente. Durante la gara gli atleti adottano una serie di comportamenti automatici in risposta a specifiche situazioni. Questo processo è chiamato adattamento alla discrepanza e consiste nell’automonitoraggio, nell’autovalutazone e nella scelta del comportamento migliore (più adattivo).

Uno degli effetti della mindfulness è proprio quello di modificare il modo con cui le persone si relazionano ai propri stati interni intesi come pensieri ed emozioni. Secondo la psicologia buddista, diminuisce la proliferazione mentale, cioè l’abituale reazione di attaccamento o avversione a quegli stati che possono essere giudicati come piacevoli, spiacevoli o  neutrali ( Grabovac, 2011).

Mindfulness e sport: come è possibile il connubio tra meditazione e prestazione sportiva?

Ma come si può mettere insieme la Mindfulness che si fonda sul l’accettazione del qui e ora con la prestazione sportiva?

Se attraverso la Mindfulness si cerca di liberarsi dal desiderio osservando gli attaccamenti, ciò può sembrare in contraddizione con l’atleta che vuole vincere la gara. È un paradosso che forse può essere spiegato dalle parole di un famoso tennista che perse in modo del tutto inaspettato, visto il vantaggio nell’ultimo set, durante una semifinale degli US Open. Il suo commento è stato: “ho pensato, è fatta. Prima di giocare l’ultimo match ball ero molto eccitato all’idea che le cose andassero così bene. 15’ dopo ho perso la partita. Perdere così è veramente deludente, anche perché avevo capito che il mio avversario aveva già rinunciato alla vittoria nella sua testa“.

Un altro nuotatore, dopo aver conseguito l’ennesimo record mondiale, ha affermato: “chi pensa di vincere ha già perso“.

In queste affermazioni c’ è il punto di incontro tra lo sport e la Mindfulness: focalizzare l’attenzione sul momento presente accettando ciò che arriva in quel momento, senza fare previsioni su quello che accadrà. Stare lì con un’esperienza spiacevole o con un dolore fisico o con un pensiero che arriva o con l’eccitazione che travolge.

Stare lì. Accettare e lasciare andare senza aspettarsi nulla sul dopo.

A partire da questo modello, in una ricerca svedese del 2107 si cerca di fare un passo in più. In particolare si fa riferimento a due studi che indagano il rimuginio e la capacità di regolazione emotiva come mediatori tra la consapevolezza e l’uso di strategie di coping adeguate nello sport.

Si ipotizza che in un contesto sportivo la mindfulness non agisca direttamente sulla prestazione, ma attraverso altre variabili. In particolare la tesi di fondo è che l’ansia da competizione medi tra la naturale predisposizione alla mindfulness e la performance sportiva. Dunque, il risultato finale sembra essere influenzato indirettamente attraverso una riduzione del rimuginio, ovvero un pensiero negativo incontrollabile, ripetitivo e autocentrato, e un miglioramento della regolazione emotiva.

Quest’ultima non si riferisce tanto al controllo emotivo, quanto alla capacità di gestire, adattarsi e rispondere alle emozioni. Perché ciò avvenga occorre essere consapevoli, riconoscere e accettare le proprie emozioni. In secondo luogo occorre mettere in atto comportamenti finalizzati al risultato e inibire comportamenti impulsivi come risposta reattiva alle emozioni negative. Ciò comporta una certa flessibilità o uso di strategie appropriate per modulare l’intensità delle risposte emotive. Infine, occorre lavorare sull’accettazione degli stati negativi come facenti parte della vita.

Come si legano allora rimuginio, regolazione emotiva e mindfulness nello sport? In questi studi vengono esaminati 244 giovani atleti in uno studio trasversale e 65 nello studio longitudinale. Tutti vengono sottoposti a questionari sulla regolazione emotiva, rimuginio e sull’essere consapevoli. In entrambe le ricerche risulta che gli atleti con una predisposizone innata alla mindfulness avevano una maggiore capacità di comprendere i propri stati interni, una minore reattività, una maggiore capacità di autoregolazione in situazioni di stress e quindi una migliore performance.

D’altra parte negli anni 70 Gallwey aveva già introdotto l’utilità della meditazione o meglio della consapevolezza, nel miglioramento della gestione dello stress nello sport ispirandosi alla filosofia zen e alla psicologia umanistica. Gallwey nel “Il gioco interiore del tennis” parlava di due sfide: la partita con l’avversario e quella interiore con i propri stati, ovvero il dubbio su se stessi, l’insicurezza, l’ansia e il conseguente calo di concentrazione.

Già allora dunque il punto di partenza era proprio un miglioramento della consapevolezza con l’obiettivo di trovare il modo migliore per affrontare gli ostacoli interiori al raggiungimento del risultato.

Lo stesso Kabat Zinn nel 1985 aveva messo a punto un training di Mindfulness per gli atleti di canottaggio futuri olimpionici. I ricercatori hanno riferito che gli atleti avevano superato le aspettative dell’allenatore in riferimento sia all’esperienza che avevano sia per le abilità fisiche. Gli stessi atleti hanno affermato che la Mindfulness li aveva aiutati a svolgere al loro pieno potenziale. Tuttavia, nonostante i buoni risultati questo programma era stato accantonato nella psicologia dello sport per i due decenni successivi.

Negli ultimi dieci anni sono stati sviluppati dei programmi di training basati sulla Mindfulness e sono stati compiute una serie di ricerche sugli atleti per testarne l’efficacia in modo più rigoroso.

Insomma anche in questo ambito, imparare a stare fermi nella tempesta, qualunque forma essa prenda, ancorati al corpo e al respiro, sembra essere la direzione per poter affrontare le sfide che arrivano.

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