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Nuove scoperte sull’ apprendimento della paura a livello cerebrale

Il nostro cervello si sviluppa a partire da un programma genetico che in interazione con i fattori ambientali consente l’evoluzione e lo sviluppo dell’individuo: i nostri comportamenti non sono soltanto il frutto di un processo biologicamente determinato, ma possono essere modificati attraverso l’ apprendimento.

 

Per esempio, cosa accade nel cervello quando si apprende che il fuoco scotta e ci si può bruciare? Seguendo la visione canonica dell’ apprendimento condizionato alla paura, si tratterebbe di un’associazione tra stimolo sensoriale e percezione della minaccia.

Tale associazione avviene nell’amigdala laterale (LA). La letteratura, infatti, dimostra che il flusso di informazioni scorre dall’amigdala laterale a quella centrale (Herry and Johansen, 2014; LeDoux, 2007; Wilensky et al., 2006), che fungono rispettivamente da input e output. Ricerche recenti, però, hanno dimostrato che anche l’amigdala centrale (CeA) è indispensabile per l’ apprendimento condizionato alla paura (Ciocchi et al., 2010; Goosens and Maren, 2003; Li et al., 2013; Penzo et al., 2014; Penzo et al., 2015; Wilensky et al., 2006; Yu et al., 2016), poiché è implicata in funzioni cognitive, come l’ attenzione (Calu et al., 2010; Lee et al., 2011; Roesch et al., 2012), fondamentali per l’apprendimento.

Uno studio condotto dal team del Cold Spring Harbor Laboratory e pubblicato su Nature Neuroscience ha indagato la relazione tra le due parti dell’amigdala dei ratti attraverso una serie di esperimenti. I primi hanno dimostrato, attraverso una proteina fluorescente che registrava quando le cellule erano attive, che la risposta aversiva iniziava nell’amigdala centrale e poi veniva in quella nell’amigdala laterale. Altri esperimenti invece prevedevano il blocco dell’attività di un insieme di neuroni nell’amigdala centrale, chiamato proteina chinasi C delta (PKC-delta). Quando i topi erano sottoposti a scossa elettrica, l’attività nell’amigdala laterale era attenuata. Ciò dimostrava che l’ottica convenzionale, secondo cui l’attività aveva inizio nell’amigdala laterale, non era corretta.

Infine, un’ultima serie di esperimenti prevedeva di creare ricordi negativi artificiali nei ratti usando l’optogenetica, ovvero impiegando impulsi di luce laser per attivare neuroni specifici, in questo caso i neuroni PKC delta dell’amigdala centrale. In questo modo i ricercatori creavano un ricordo di un disagio mai sperimentato. I topi erano collocati in una gabbia con due stanze. Quelli che avevano ricevuto la stimolazione ricordavano il disagio e lo associavano al luogo in cui lo avevano vissuto, cioè una delle due camere. Successivamente veniva data loro la libertà di muoversi ma tutti evitavano il posto associato al disagio, anche dopo alcuni giorni.

In conclusione questi esperimenti evidenziano che i neuroni PKC-delta svolgono un ruolo importante nel trasmettere informazioni aversive dall’amigdala centrale a quella laterale. Tutti questi dati nel complesso sono significativi perché potrebbero dare avvio alla ricerca di nuove modalità di trattamento per i disturbi d’ansia e post-traumatici (PTSD), caratterizzati da ricordi paurosi frutto di associazioni.

KiVa, il programma anti-bullismo. Prove di efficacia anche in Italia

KiVa è portato avanti nelle scuole e agisce su due fronti, quello della prevenzione, che coinvolge tutti gli studenti senza distinzione, e quello dell’intervento, che agisce specificamente sugli studenti coinvolti in precedenti situazioni di bullismo.

 

Caratteristiche e diffusione del fenomeno del bullismo

Il bullismo può essere definito come la manifestazione di comportamenti aggressivi perpetuati nel tempo ai danni di una persona che non è in grado di difendersi (Olweus, 1999). Spesso le vittime di bullismo vanno incontro a problemi di diverso tipo, come bassa autostima e disadattamento psicosociale, depressione e ansia, fino ad arrivare nei casi più gravi a comportamenti di autolesionismo (Card, 2003). I rischi legati al bullismo però non riguardano solo le vittime. Ragazze e ragazzi che mettono in atto prevaricazioni e vessazioni nei confronti di coetanei sono spesso più inclini all’abuso di alcol e sostanze e alla partecipazione in atti criminali (Barker et al., 2008; Selkie et al., 2015; Valdebenito et al., 2015).

Il bullismo in Italia è un fenomeno purtroppo molto diffuso e in continua crescita tra i giovani. Da un rapporto Istat del 2014 emerge un dato preoccupante: più del 50% dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni è stato oggetto di offese e/o comportamenti violenti da parte di coetanei nel corso dell’anno precedente. La prevalenza è maggiore tra i ragazzi di 11-13 anni (22,5%) rispetto alla fascia d’età di 14-17 anni (17,9%), ed è maggiore tra le ragazze (20,9%) rispetto ai coetanei maschi (18,8%). Il cyberbullismo rappresenta un’ ulteriore preoccupante manifestazione di tale fenomeno. Circa il 6% dei ragazzi che possiedono un cellulare o fanno uso di Internet, ha subìto atti di bullismo tramite chat, social network, email o sms.

Il programma KiVa contro il bullismo

Cosa fare per contrastare il fenomeno? Nello scenario internazionale sono stati promossi molteplici programmi di intervento. Uno studio di meta-analisi ha analizzato l’efficacia di 44 programmi anti-bullismo, evidenziando complessivamente una riduzione del fenomeno tra il 20 e il 23% dei casi (Ttofi e Farrington, 2011). Tra questi, il programma KiVa (acronimo di “Kiusaamista Vastaan”, ovvero “contro il bullismo”), ideato presso l’Università di Turku in Finlandia (Kärnä et al., 2011), ha mostrato rilevanti risultati in termini di efficacia. Incoraggiati da tale riscontro, molti altri Paesi hanno deciso di adottare questo modello, compresa l’Italia.

Recentemente le due studiose Nocentini e Menesini dell’Università di Firenze, hanno pubblicato i risultati della loro ricerca-intervento basata proprio sul programma KiVa (2016).

Il programma KiVa in breve:
KiVa è portato avanti nelle scuole e agisce su due fronti, quello della prevenzione, che coinvolge tutti gli studenti senza distinzione, e quello dell’intervento, che agisce specificamente sugli studenti coinvolti in precedenti situazioni di bullismo.

L’aspetto distintivo di questo programma è che agisce non solo sui protagonisti del fenomeno (bulli e vittime), ma anche su tutti coloro che assistono e che con il loro comportamento (o non comportamento) rinforzano il susseguirsi delle vessazioni. L’assenza di rinforzo per atti di questo tipo toglie linfa vitale al bullo, in quanto, venendo meno il consenso e il sostegno sociale, si sente isolato nelle sue intenzioni e scoraggiato a proseguire i suoi atti di bullismo.

Le attività portate avanti nelle classi sono mirate ad incrementare l’empatia e l’autoefficacia di chi assiste ad atti di bullismo, in modo da fornire supporto alla vittima più che sostegno al bullo. La finalità è creare all’interno della scuola la consapevolezza che il bullismo rappresenti un comportamento inaccettabile, che coinvolge tutti.

Lo studio italiano

Tra gli obiettivi principali, le studiose hanno voluto: a) verificare se il programma fosse efficace nel ridurre il fenomeno del bullismo; b) testare se il programma fosse in grado di aumentare l’attitudine al non intraprendere azioni di bullismo e di facilitare l’atteggiamento protettivo e l’empatia nei confronti delle vittime.

Lo studio ha coinvolto 13 scuole della regione Toscana, precisamente a Firenze, Siena e Lucca, di cui 7 sono state assegnate alla condizione sperimentale (attuazione di KiVa) e 6 alla condizione di controllo (non attuazione di KiVa). Lo studio ha coinvolto un totale di oltre 2000 studenti di 8 e 10 anni.

Il programma è stato implementato nel contesto italiano durante un intero anno scolastico. Sono state apportate alcune modifiche, dovute principalmente a differenze culturali e linguistiche, ma l’impianto generale è rimasto invariato. Si sono svolte complessivamente 10 lezioni da 90 minuti ciascuna, ad opera delle stesse insegnanti delle classi. Durante le lezioni venivano svolte attività che miravano ad aumentare la consapevolezza rispetto all’importanza del ruolo di chi assiste a eventi di bullismo, a stimolare l’empatia verso le vittime e a fornire agli studenti strategie sicure a sostegno e difesa delle vittime di bullismo. Tra i metodi utilizzati vi erano la discussione, il lavoro di gruppo, i giochi di ruolo e la visione di filmati. Il programma ha incluso anche i genitori dei ragazzi, fornendo loro una guida informativa riguardo il bullismo e il programma KiVa. Venivano forniti anche consigli utili per poter riconoscere segnali importanti nei loro figli, riconducibili a condotte di bullismo (come bullo o come vittima).

I risultati dello studio mostrano che il programma ha avuto efficacia nel ridurre il fenomeno del bullismo tra gli studenti che hanno partecipato. Per entrambe le fasce d’età, 8 e 10 anni, KiVa ha permesso una riduzione del bullismo e un incremento dell’empatia e dell’attitudine a sostenere la vittima, contrariamente a quanto riportato nelle scuole dove non era stato condotto il KiVa. Il risultato è stato più evidente per gli studenti di 8 anni rispetto a quelli più grandi. Complessivamente, il programma ha permesso una riduzione del bullismo del 51% tra i partecipanti di 8 anni e del 42% per quelli di 10. Questo risultato è in linea con quello riportato dallo studio originario condotto in Finlandia (Kärnä et al., 2013; Kärnä et al., 2011).
Complessivamente, questo studio mostra come il programma di intervento KiVa sia efficace nel sensibilizzare i ragazzi sul problema del bullismo. Agire su quella “zona grigia”, rappresentata da indifferenti o complici, sembra costituire un elemento fondamentale nel contrasto del fenomeno.

Life, Animated (2017) un film per provare a guardare il mondo con gli occhi di chi soffre di autismo – Recensione

Come gli eroi della Disney hanno permesso a Owen di comunicare con il mondo: Life, animated è un film sull’autismo per provare a guardare il mondo con gli occhi di chi soffre di autismo. Un film che apre la mente di tutti!

 

Dopo il bestseller Life, Animated: a story of sidekicks, heroes, and autism, scritto dal padre, Ron Susskind, vincitore del premio Pulitzer, la storia di Owen diventa un film per opera del regista premio Oscar Roger Ross.

Owen conosce tutti i film della produzione Walt Disney, conosce le caratteristiche dei personaggi, il significato delle storie e tutte le battute; assumendo le voci dei suoi eroi Owen riesce a suo modo a comunicare con gli altri e a comprendere il mondo esterno a lui.

Life, animated: la trama

La trama di Life, animated è la storia vera del precorso di Owen, che a tre anni ha iniziato a mostrare i primi sintomi del proprio autismo, il padre racconta di un bambino che come gli altri cresceva e giocava, ma ad un certo punto è scomparso: si è chiuso nel suo mondo non parlava più anzi il suo sviluppo sembrava regredire.

Ed ecco i primi consulti medici specialistici che conducono alla diagnosi di disturbo dello spettro autistico. La reazione dei genitori di Owen? Senso d’impotenza, tristezza e paura.

Questi sono i vissuti che i genitori spesso sperimentano, quando si confrontano con la diagnosi di disabilità del proprio bambino. In un istante s’infrangono sogni per un futuro sereno e ricco del proprio bambino, si può essere sopraffatti da domande del tipo: “Sarò in grado di affrontare tutto questo? Riuscirò ad aiutarlo? C’è una cura? Come farà quando sarà grande? Potrà essere felice?”.

Penso che un libro e un film come Life, Animated possa essere uno spunto di fiducia per le famiglie che affrontano il tema dell’ autismo e della disabilità in generale.

La domanda – si chiede Ron Suskind – è:

Un libro come quello che abbiamo scritto e ora un film, ci avrebbero aiutato quindici anni fa, quando a Owen fu diagnosticato l’ autismo? Quando avevamo solo paura, eravamo confusi ed era un vero inferno, non sapendo quello a cui stavamo assistendo né cosa fare.”

Naturalmente la risposta è “sì”.

Owen – racconta il padre – era rimasto in silenzio per anni, era considerato uno scarto della società e ritenuto inguaribile, mi dicevano ‘Non farti illusioni. Potrebbe non parlare mai più. Probabilmente dovrai ricoverarlo”.

Inaspettatamente Owen Suskind riappare nelle vesti dei personaggi Disney che gli permettono di far emergere il suo mondo interiore.

La visione del mondo di Owen

La sua visione del mondo è straordinaria perché è libera dalle molte convenzioni sociali il cui scopo primario è limitare il comportamento e frenare la spontaneità. E questo per me è un concetto fresco e nuovo. Ciò che Owen ha fatto semplicemente vivendo la sua vita immerso in miti e favole è stato trovare un modo per interpretare e comprendere il mondo e la condizione umana. Quindi con il Gobbo di Notre Dame intuisce la condizione di chi è emarginato perché diverso e nella diversità trova la propria identità e valore; con Peter Pan comprende la fatica e la paura nel crescere e diventare grandi e poi ancora nella Sirenetta scopre il desiderio di trasgressione e la spinta all’autonomia e all’emancipazione.

Il film Life, Animated ci permette di entrare nella testa di Owen e comprendere dal suo stesso punto di vista, come sono le persone e le cose e personalmente mi ha permesso di capire ancora meglio la frase che spesso i bambini con autismo con i quali lavoro spesso mi dicono: “a scuola…fuori dalla mia testa il mondo è una Jungla!

Troppo spesso il mondo dei neurotipici guarda con timore e diffidenza le persone che escono dai confini della convenzionalità, tuttavia il mondo non è dei neurotipici!

Interessante è il punto di vista anche del fratello di Owen che improvvisamente perde il compagno di giochi, e la possibilità di condividere esperienze e avventure, fino a che anche lui grazie a Peter Pan e molti altri ritrova il contatto con il fratello.

Il senso di responsabilità, di cura e di protezione contraddistingueranno il percorso di vita del fratello.

Life, animated è un film per tutti: adulti e ragazzi, genitori e operatori. Un commovente film sulla fiducia, un film sulla diversità come opportunità.

Un consiglio: se ne avete l’opportunità guardate la versione originale in lingua inglese per non perdere la voce originale di Owen.

Cosa si nasconde dietro il perverso?

Ciò che costituisce l’ essenza della perversione, clinicamente intesa, non è costituito da un atto o da una fantasia, ma dal significato degli stessi in rapporto alla propria persona e alle altre persone, alla organizzazione di base della personalità. Nella perversione propriamente detta, centrali sono la rigidità degli atti e delle fantasie, l’erotizzazione degli stessi, la scissione dell’Io, la perdita della percezione del proprio corpo come parte del Sé, l’idealizzazione delle difese perverse e il continuo tentativo di sedurre le parti sane della personalità e di trasformare gli altri, compreso l’eventuale terapeuta, in oggetti di una rappresentazione interna.

 

Oggi, che idea precisa si ha del perverso? La risposta che spesso viene attribuita al perverso è: colui che è volto al male, che è incline ad azioni malvagie.

Ma chi è il perverso? Il perverso è quel soggetto che sviluppa una distruttività nei confronti dei suoi simili attraverso pensieri e azioni di carattere maligno.

La perversione secondo il modello freudiano

Nel modello Freudiano la perversione è descritta come parte della pulsione e componente essenziale ai fini dello sviluppo psicosessuale. Nel libro “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905), Freud classifica le varie forme patologiche della perversione sessuale distinguendole in aberrazioni riguardanti la meta (esibizionismo, voyerismo, sadismo e masochismo) e aberrazioni riguardanti l’oggetto sessuale (omosessualità, pedofilia, zoofilia). Descrive inoltre le diverse pulsioni parziali, corrispondenti a diverse zone erogene, le quali si sottometteranno in seguito (a conclusione del processo di sviluppo psicosessuale) al primato genitale.

Il fallimento di questo processo determina un conflitto che può essere di due tipi: nevrotico o perverso. Da qui la nevrosi, diventa il negativo della perversione. Per S. Freud, la perversione fa parte dello sviluppo psicosessuale normale, ma dalla pubertà in avanti può assumere una forma patologica a seconda di quanto il nuovo scopo sessuale (perversione) si allontani dalla normalità.

S. Freud, ha più volte dimostrato che un ruolo importante per la formazione di sintomi perversi, sono i meccanismi della fissazione e della regressione libidica, nel determinare il raggiungimento del piacere sessuale attraverso istinti parziali con oggetti parziali.

La caratteristica fisiologica della vita sessuale infantile è l’autoerotismo che viene utilizzato per dare soddisfazioni a pulsioni parziali e indipendenti tra loro. Il risultato finale dello sviluppo affettivo è riflesso nella vita sessuale adulta, dove il piacere è raggiunto attraverso la soddisfazione delle pulsioni genitali tramite la presenza di un oggetto sessuale esterno.

Fattori di tipo costituzionali (interni) o tipo ambientali (esterni) possono influenzare il normale sviluppo della vita sessuale infantile, e consente che ogni fase raggiunta diventi un punto di fissazione libidica. L’individuo, essendo fortemente incline dopo la pubertà a regredire allo stadio di fissazione, sarà impedito nel raggiungimento dell’unificazione degli istinti parziali e delle attività con cui soddisfarli. La comparsa dei sintomi perversi in età adulta sarà uno degli effetti prodotti dall’alterato processo di crescita psicosessuale.

Nei perversi, l’esistenza di una disposizione costituzionale molto arrendevole alla soddisfazione degli istinti sessuali perversi poliformi (disposizione polimorfamente perversa) è una delle cause interne responsabili della deviazione dello sviluppo della sessualità.
Si tratta di soggetti, inclini anche in età adulta a ricercare il piacere mediante la soddisfazione di impulsi parziali mostrando scarsa resistenza agli eccessi sessuali normalmente imposta dalla morale ed etica.

La perversione secondo Khan

M. Khan (1979), psicoanalista inglese, osserva che la qualità della relazione madre-bambino, vissute dalla prima infanzia è uno degli elementi ambientali che assume il peso nel condizionare negativamente lo sviluppo psicosessuale.

Egli, partendo dal concetto di “oggetto transizionale” di D.Winnicott (1951) e dal ruolo svolto dall’erotizzazione delle pulsioni sessuali parziali di S.Freud (1905), formula il concetto di “oggetto interno composito”, per spiegare la realtà interna del pervertito derivata dalla relazione oggettuale primaria, da cui scaturisce la futura modalità di entrare in rapporto con gli oggetti della sua esistenza. Quindi, l’oggetto interno composito, svolge un ruolo normalmente assunto dall’oggetto transizionale nella formazione del mondo intrapsichico dell’individuo e del suo modo di entrare in contatto con la realtà esterna. L’oggetto transizionale è qualcosa di esterno, e resta all’esterno come un’entità in sé, pur essendo sottoposta all’onnipotenza immaginativa psichica dell’esperienza infantile. Questo stadio primitivo dello sviluppo, è reso possibile dalla speciale capacità della madre di adattarsi ai bisogni del piccolo, permettendogli l’illusione che quanto egli crei esista realmente.

Nella realtà sperimentata da un potenziale perverso, tutti questi fattori sono rovesciati. Egli, deve affrontare fin dall’inizio cure materne non adattate. La madre si prodiga intensamente alla cura del bambino, ma in modo impersonale.
Il bambino è considerato dalla madre come una “cosa di propria creazione”, non una persona in formazione, con propri diritti. A causa di questo comportamento materno, il bambino inizia molto prematuramente, a percepire che ciò che è la madre, che lo investe pulsionalmente e di tutto il proprio affetto, non è lui come persona globale, ma solo gli aspetti di lui (le funzioni dell’Io e l’Io corporeo).
Nel periodo seguente, il bambino interiorizza il Sé, come una “cosa” creata dalla madre. Queste esperienze deformano l’Io del bambino impedendone uno sviluppo integrato.

M. Khan, osserva che l’Io perverso sarà il risultato di un collage: lo sviluppo delle funzioni dell’Io e quello istintuale procedono parallelamente e distintamente in assenza dell’investimento della parte emotiva esperienziale. Questa tipologia di soggetti, si relazionerà con gli altri, oltre che per appagare i propri bisogni pulsionali, non per amare ed essere amati, ma per trovare un tipo di partecipazione che trasformerà quanto è estraneo al proprio Io in qualcosa di collegato con l’Io.

A causa della delusione primaria sperimentata, nel perverso il rapporto con l’altro sarà finalizzato sempre a ricercare uno stato di illusoria unità, in cui l’altro comprenda, compatisca, e appaghi tutti i bisogni del proprio Io e tutte le proprie tensioni istintuali. Cosi la dipendenza oggettuale si traduce nel costringere l’oggetto ad adattarsi.

L’altro, sarà qualcuno che, seconda la realtà intrapsichica del perverso, dovrà essere acquiescente al punto tale da essere ridotto a cosa inanimata e realizzare con lui una vera e propria identificazione. Da qui la necessità del perverso, di realizzare l’oggetto interno composito in sostituzione di un oggetto transizionale. L’oggetto interno composito, a differenza di quello transizionale, è qualcosa di intrapsichico, e da ciò deriva una continua pressione interna che va esternata, con l’evento sessuale.

Il funzionamento psichico del perverso

J. Bergeret (1996), psicoanalista francese, che si è occupato degli stati –limite, asserisce che ogni forma di patologia perversa, ha una forma di organizzazione di personalità di tipo stato-limite, definendole tali personalità “astrutturazioni” e collegandole in una categoria nosografica intermedia tra quella nevrotica e quella psicotica.

Egli, propone il termine di “perversità” al posto di quello di “perversione”; la perversità si riferisce alla patologia del carattere, somigliante alla personalità nevrotica per livello di maturità ma con caratteristiche di fragilità narcisistica, inducendo il soggetto a un massiccio uso di difese, per scongiurare lo scompenso psichico, al contrario della perversione che ha una struttura di personalità organizzata in modo perverso e analoga a quella psicotica, sia dalla solidale struttura che nell’assetto difensivo.

J.Bergeret, considera il dinamismo perverso una dimensione interiore, che non consiste nell’imporre al soggetto un comportamento piuttosto di un altro, ma essenzialmente nel condizionarlo dall’interno.
Paul-Claude Racamier, psicoanalista francese in “Il genio delle origini. Psicoanalisi e Psicosi” (1992), collega la perversione al disturbo narcisistico e pone all’ origine del disturbo narcisistico una perversione relazionale.

Sia il narcisista che il perverso negano la separatezza, trattano l’altro come oggetto da controllare. Le relazioni non sono tra soggetti, sono relazioni di potere. Il carattere narcisista viene posto in relazione al mancato riconoscimento infantile del bambino come soggetto, a processi intrusivi e di
appropriazione che distorcono lo sviluppo psico-affettivo e psicosessuale.

Parlando della perversione relazionale egli dice: “Non sessuale, non morale, non erotica, ma narcisistica”. Per Racamier il trionfo del perverso sull’oggetto è di tipo difensivo, serve a negare il bisogno di oggetti esterni e la dipendenza da essi, a trionfare sulle angosce di morte. Il “vuoto” viene posto negli altri, la difesa è dal dolore psichico collegato al lutto e al conflitto. L’importante è confondere, disorientare, tenere sotto scacco. Il coinvolgimento affettivo è evitato in quanto vissuto come minaccia all’integrità di un Sé precario, vanificazione delle pretese di autosufficienza.

Per Racaimer, il vero perverso, non agisce mai apertamente ma lo fa sempre in modo velato, subdolo e insidioso; la modalità con cui entra in contatto con la mente dell’altro è raffinata e poco trasparente. La migliore condotta del perverso, è quella manipolatoria, cioè dominare l’altro attraverso il controllo della sua autonomia morale e mediante la presenza dei suoi tratti narcisistici manifestati con la grandiosità. Il pensiero del perverso è basato sull’agire e sulla manipolazione.

Per l’autore, il pensiero del perverso mette in atto un vero e proprio dirottamento dell’intelligenza altrui, e lo fa trasmettendo il non pensiero. Se normalmente il pensiero permette la costruzione di collegamenti tra i contenuti logici, la creazioni di interferenze tra le idee, il pensiero perverso mira all’opposto e cioè opera solo per allentare e disconnettere i nessi logici. È un gioco della destrutturazione del pensiero, è l’antitesi del pensiero. Il perverso, in questo modo raggiunge l’obiettivo di infliggere una notevole sofferenza psicologica alla vittima.

Riassumendo ciò che costituisce l’ essenza della perversione, clinicamente intesa, non è costituito da un atto o da una fantasia, ma dal significato degli stessi in rapporto alla propria persona e alle altre persone, alla organizzazione di base della personalità. Nella perversione propriamente detta, centrali sono la rigidità degli atti e delle fantasie, l’erotizzazione degli stessi, la scissione dell’Io, la perdita della percezione del proprio corpo come parte del Sé, l’idealizzazione delle difese perverse e il continuo tentativo di sedurre le parti sane della personalità e di trasformare gli altri, compreso l’eventuale terapeuta, in oggetti di una rappresentazione interna.

Solo una minima parte di soggetti perversi richiedono il trattamento. Quando vi è richiesto significa che il livello dell’ansia, della depressione o dei sintomi ossessivi sono troppo elevati.

Può accadere, che richiedano l’intervento terapeutico sia per confermare a loro stessi e agli altri di essere malati, sia per far credere ai familiari di essere realmente intenzionati a compiere un percorso terapeutico.

Il cuore accusa il colpo dopo un trauma

I problemi cardiaci sono una tra le prime cause di mortalità (American Heart Association, 2008).
Cosa accade alle donne che hanno subito uno o più traumi? Se quest’ultime sono in menopausa la salute cardiaca è messa ancora più a dura prova.
A parlarne è la Società Nord Americana che si occupa di Menopausa (NAMS) durante l’incontro annuale, tenutosi a Philadelphia (USA) tra l’11 ed il 14 ottobre 2017.

I problemi cardiaci

Non solo cattive abitudini quali fumare, una cattiva alimentazione e lo scarso esercizio fisico possono contribuire all’ insorgere di problemi cardiaci, ma anche i fattori psicosociali possono divenire nemici primari della salute cardiaca.

In particolare, durante la menopausa e nel periodo successivo alla menopausa, i rischi per la salute vascolare aumentano, in seguito ad un naturale deterioramento dell’endotelio, il rivestimento interno del cuore e dei vasi sanguigni.

Le esperienze di vita traumatiche come fattori psicosociali

Secondo il manuale diagnostico dei disturbi mentali, un’esperienza è traumatica quando il soggetto ha sperimentato o assistito ad uno o ad una serie di eventi che hanno minacciato la sua o l’altrui sopravvivenza.
Nel presente studio vengono considerati come fattori psicosociali proprio i traumi vissuti dai soggetti. Nel dettaglio sono stati indagati incidenti automobilistici, disastri naturali, la morte di un figlio, essere vittime di violenze fisiche ed essere vittime di molestie sessuali.

Lo studio

Lo studio è stato condotto su 272 donne in peri e post menopausa. Le altre condizioni necessarie sono riassumibili in un discreto stile di vita, che comprende, ad esempio, il requisito che le donne non fossero fumatrici.

È stato così ipotizzato che un maggior numero di esperienze di vita traumatiche sia connesso ad una funzione endoteliale più scarsa, indipendentemente da altri fattori di rischio per la malattia cardiaca e indipendentemente da storie di abuso infantile.

I risultati ottenuti hanno confermato l’ipotesi dei ricercatori. È infatti emerso che le donne che avevano segnalato un maggior numero di esperienze traumatiche  (almeno tre) hanno riportato una funzione endoteliale più debole, la quale rende i soggetti più vulnerabili a livello cardiaco.

I risultati ottenuti da questo studio confermano pienamente l’importanza cruciale dei fattori psicosociali, in questo caso l’esposizione a più traumi, nell’aumento del rischio di sviluppare malattie cardiovascolari in una popolazione femminile di mezza età.

Per questo motivo, come riportato dal dr. Pinkerton, d’ora in poi risulta fondamentale che gli operatori sanitari, innanzi ad una donna di mezza età, anziché informarsi solamente sulla sua salute fisica, approfondiscano anche la sua storia di vita.

Come un cielo stellato: una ricerca UNISR sviluppa un sistema per rilevare l’attività sinaptica in vivo

Il risultato assomiglia ad un cielo stellato dove ogni stella indica una sinapsi del cervello e l’intensità luminosa il livello di attività di questa sinapsi”. Così il Prof. Antonio Malgaroli, Professore di Fisiologia e di Neuroscienze presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, commenta il metodo rivoluzionario che il suo gruppo di ricerca ha ideato e recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications. L’équipe di scienziati che ha svolto il lavoro è formata tra gli altri da Mattia Ferro, Jacopo Lamanna, Maddalena Ripamonti, Gabriella Racchetti e Vincenzo Zimarino.

 

Le problematiche delle tecniche “storiche”

La ricerca parte da una considerazione importante: tutto quello che vorremmo sapere sul cervello dipende dalle nostre ipotesi e conoscenze sul funzionamento di specifici circuiti cerebrali. Quando ricordiamo il viso di una persona, prendiamo una decisione impulsiva, se siamo depressi, quando percepiamo un suono, se mostriamo un comportamento fobico…da qualche parte nel nostro cervello uno o, molto spesso, più circuiti sinaptici si sono attivati. Purtroppo l’armamentario a disposizione per misurare l’attività di tali circuiti e correlare questa attività ad un determinato comportamento – umano e animale – è ancora molto povero. Esso comprende o metodiche molto precise ma poco informative sull’attività globale dei circuiti cerebrali (ad esempio quelle che ci permettono di registrare l’attività elettrica di una singola sinapsi), oppure metodi di misura a più basso ingrandimento, quali le tecniche di Brain Imaging, che purtroppo guardano ad eventi su scale temporali molto più lunghe e mancano della risoluzione spaziale necessaria per risolvere l’attività delle sinapsi. Non sapere dove vengono codificate le attività della mente e quali circuiti sinaptici partecipano è il più grosso limite metodologico che ostacola lo sviluppo delle neuroscienze e delle neuroscienze cognitive.

L’idea di un metodo rivoluzionario

La comunicazione tra cellule neuronali avviene a livello della sinapsi, un punto di contatto microscopico tra il neurone pre-sinaptico e quello post-sinaptico. Quando il neurone pre-sinaptico riceve un segnale elettrico, libera alla sinapsi un pacchetto di neurotrasmettitori al fine di inviare un messaggio al neurone post-sinaptico. Questi pacchetti di neurotrasmettitore sono contenuti nelle vescicole sinaptiche, piccoli organelli di forma sferica, la cui fusione con la membrana della sinapsi libera il neurotrasmettitore.   In questo modo il segnale elettrico può propagarsi tra neuroni, facendo viaggiare lo stimolo all’interno del circuito.

Figura 1

Fig.1: Una sinapsi ippocampale. I circuiti sinaptici dell’ippocampo – una specifica area del cervello – codificano le memorie degli episodi della nostra vita. Le tre frecce indicano tre vescicole all’interno del terminale pre-sinaptico pronte a liberare il neurotramettitore. A seguito di un segnale elettrico, queste vescicole sinaptiche si fonderanno con la membrana plasmatica rilasciando all’esterno le molecole di neurotrasmettitore e attivando la post-sinapsi. Il pannello a destra delimita i confini del terminale pre-sinaptico e della post-sinapsi; in arancione sono indicate le tre vescicole dalla forma tondeggiante. Gentile concessione del team di ricercatori.

Ma come osservare questi eventi di comunicazione su grande scala? Spiega il Prof. Malgaroli: “L’idea vincente è stata quella di colorare l’interno delle vescicole sinaptiche nell’attimo in cui esse liberano il neurotrasmettitore. In questo modo i circuiti che comunicano diventano visibili, con una intensità di colorazione che riflette il livello di attività del circuito sinaptico. La cosa più straordinaria è che questa metodica non solo è quantitativa ma funziona in vivo e quindi può essere usata per comprendere le basi del comportamento”.

Per raggiungere questo obiettivo, i ricercatori hanno disegnato a tavolino una molecola denominata SynaptoZip: “Abbiamo preso una proteina che normalmente si trova integrata nella membrana delle vescicole sinaptiche [in arancione nella Fig. 2, N.d.R.], cui abbiamo attaccato una proteina fluorescente [in verde] e un’esca [in viola]. Abbiamo inoltre creato per sintesi chimica un piccolo tracciante peptico, Synbond [in azzurro], che può essere colorato con un qualsivoglia colore fluorescente in grado di agganciarsi all’esca”. Al momento del segnale elettrico, se Synbond è presente esso viene catturato in modo estremamente efficace. “La novità è che per la prima volta nella storia si può misurare l’attività delle singole sinapsi appartenenti ad un qualsivoglia circuito cerebrale. È come se finalmente si potesse fotografare all’interno del cervello di un essere vivente l’attività dei circuiti sinaptici, e questo con una risoluzione altissima”.

Figura 2

Fig.2: La struttura di SynaptoZip, il misuratore di attività cerebrale. In arancione una molecola normalmente integrata nella membrana plasmatica delle vescicole sinaptiche; in verde GFP, una molecola fluorescente; in viola un piccolo peptide che funge da esca per il legante fluorescente Synbond (in azzurro). All’arrivo di un segnale elettrico, le vescicole sinaptiche espongono all’esterno l’esca e catturano Synbond, colorandosi.

Le applicazioni in ambito clinico

La grande novità di questo metodo è che rende possibile studiare i meccanismi di un qualunque comportamento animale o gli effetti di un trattamento farmacologico. “Abbiamo testato il costrutto nella corteccia visiva, valutando il grado e la distribuzione spaziale dell’attivazione sinaptica a seguito di impulsi luminosi applicati all’occhio dell’animale. Esperimenti simili sono stati condotti nella corteccia prefrontale, l’area decisionale per eccellenza, dove abbiamo riscontrato un livello di attività molto più elevato che nella corteccia visiva, presumibilmente legato alla numerosità delle operazioni cognitive che vengono svolte da questa regione corticale. Nella corteccia prefrontale abbiamo inoltre esplorato l’effetto duraturo causato da una singola iniezione di ketamina, oggi utilizzata in clinica come antidepressivo ad azione rapida, dimostrando che una singola dose di ketamina modifica l’attività di questi circuiti sinaptici, una modifica che permane almeno per una settimana dall’iniezione”.

Chiediamo infine al Prof. Malgaroli se esistano dei limiti a questa tecnica: “Al momento questa potentissima metodica non può essere applicata all’uomo, il suo impiego è limitato allo studio delle basi neurali del comportamento animale. Quindi, essa non permette ancora di affrontare alcune funzioni complesse quali il linguaggio, il ragionamento astratto, ma anche alcune patologie che sono esclusive dell’uomo. Si può però immaginare che a breve la nostra ricerca motiverà lo sviluppo di metodi analoghi che utilizzino molecole già presenti nel nostro cervello, e non richiedano modifiche di tipo genetico. Queste potrebbero essere facilmente applicate all’uomo e utilizzate per la diagnosi precoce di molteplici patologie neurologiche e psichiatriche. A nostro avviso le applicazioni future di questa tecnologia sono molto rilevanti e porteranno ad un grosso progresso nel campo delle neuroscienze”.

Figura 3

Fig.3: Una mappa di attività delle sinapsi della corteccia visiva attivate grazie all’esposizione dell’animale ad una serie di stimoli visivi. La gradazione di colori riflette il grado di attività di queste sinapsi nella corteccia visiva (Area V1, strato IV). Gentile concessione del team di ricercatori.

Figura 4

Fig. 4: Un esempio di un assone corticale. Il pannello in cima indica la posizione delle sinapsi (in verde) grazie alla presenza della proteina fluorescente GFP. Il pannello sotto è un’immagine dello stesso assone, con l’intensità della colorazione (in rosso) a dare un’indicazione dell’attività delle sinapsi. Gentile concessione del team di ricercatori.

 

 

Da internet allo smartphone, mai più senza! – Il fenomeno delle new addictions

Le nuove dipendenze o new addictions quali gioco d’azzardo, internet, sesso, lavoro, telefono cellulare e shopping compulsivo sembrerebbero malattie della postmodernità.

Francesca Cavaiani e Giorgia Cipriano – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Dalle sostanze alle attività lecite: come cambia il fenomeno delle dipendenze nel panorama delle new addictions

Nell’ultimo decennio i concetti di abuso e di dipendenza hanno subito una dilatazione notevole: mentre all’inizio si riferivano esclusivamente al consumo di sostanze come l’alcol e l’eroina, l’attuale spettro delle dipendenze include un gruppo multiforme di disturbi in cui l’ oggetto della dipendenza non è solo una sostanza, bensì un’attività lecita e socialmente accettata, se non addirittura incoraggiata.

Valleur e Matysiak (2004) hanno evidenziato come le nuove dipendenze o new addictions quali gioco d’azzardo, internet, sesso, lavoro, telefono cellulare e shopping compulsivo siano malattie della postmodernità.

Caretti e La Barbera definiscono il fenomeno delle new addictions come:

espressione di un disagio psichico profondo e di un malessere culturale vasto e pervasivo – e – seppur ogni forma sembra caratterizzarsi per degli aspetti specifici, esse nel loro insieme manifestano un desiderio di fuga e un’incapacità a tollerare il dolore mentale che porta, a volte quasi consapevolmente, a rinunciare all’uso del pensiero e della riflessività a favore di una scarica emozionale iterativa messa in atto con modalità progressivamente più compulsive”.

Le new addictions senza uso di sostanze potrebbero interessare un numero sempre maggiore di persone, considerando tale fenomeno come una dipendenza tout court e una vera e propria addiction, evidenziando sempre più la differenza tra Addiction e Dipendenza (Del Miglio e Corbelli, 2003).

Con il termine Dipendenza si intende una condizione in cui l’organismo ha bisogno di una determinata sostanza per funzionare e sviluppa una dipendenza fisico-chimica da essa. Il termine Addiction, invece, denota la dipendenza che spinge l’individuo alla ricerca dell’oggetto di dipendenza, senza il quale la sua esistenza diventa priva di significato: è dunque un coinvolgimento crescente e persistente della persona al punto che l’oggetto di dipendenza pervade i suoi pensieri ed il suo comportamento (Del Miglio, Couyoumdjian, Patrizi, 2005). Gli elementi fondamentali che caratterizzano una dipendenza e, in specifico, anche un’ addiction, sono due: non poter fare a meno di qualcosa o non poter rinunciare ad un comportamento senza sperimentare disagio e la centralità che assume il prodotto o comportamento nell’esistenza dell’individuo, la quale non ha più senso senza l’oggetto di dipendenza.

Esistono diversi tipi di new addictions in riferimento all’uso di internet, dei videogiochi, degli smartphone.

Le dipendenze sopra citate possono essere incluse nella categoria della dipendenza comportamentale (Lee, 2006) che può essere definita in questi termini:

un comportamento abituale e ripetitivo che incrementa il rischio di disturbi o che è associato a problemi personali o sociali; tale comportamento è percepito dal soggetto come perdita di controllo e con l’incapacità di smettere, nonostante i tentativi di interrompere o di ridurre la frequenza del comportamento problematico. I comportamenti sono caratterizzati da una gratificazione immediata (ricompensa a breve termine), spesso accompagnata da effetti negativi successivi (costi a lungo termine) (Marlatt, Baer, Donovan e Kivlahan, 1988).

Le new addictions e le addictions in generale (Griffith 1996, 1997) possono essere sia passive (es. televisione), sia attive (es. videogiochi), hanno le proprietà di induzione e di rinforzo, che possono favorire la tendenza alla dipendenza. Le dipendenze da prodotti tecnologici sono un sottoinsieme delle dipendenze comportamentali, con le seguenti componenti nucleari comuni:

  • Dominanza: l’attività in esame diventa la più importante nella vita del soggetto e domina i suoi pensieri, i suoi sentimenti ed il suo comportamento
  • Alterazione del tono dell’umore: esperienza soggettiva che segue l’inizio dell’attività in esame e che facilita il ricordo della stessa
  • Tolleranza: per ottenere i medesimi effetti iniziali è necessario aumentare l’attività in questione
  • Sintomi di astinenza: malessere psichico e/o fisico, che si esprime sotto forma di tremori, irritabilità, disforia, in seguito alla diminuzione drastica o all’interruzione improvvisa dell’attività
  • Conflitto: si esprime in forma intrapersonale o interpersonale e verte intorno all’attività in esame
  • Ricaduta: tendenza ripetuta al ritorno verso schemi precedenti dell’attività in questione, anche a distanza di molti anni di astinenza e di controllo.

Analizzeremo qui di seguito, la dipendenza da internet in generale ed in specifico la smartphone addiction, strettamente connessa alla prima.

La dipendenza da Internet

La dipendenza da Internet, al pari delle altre dipendenze comportamentali, si può definire come un disturbo del controllo dell’impulso che non implica un’intossicazione (Young. K .S. 1996a).

Young K.S. (1996b) definisce Internet dipendenti coloro che soddisfano 4 o più dei seguenti criteri nel corso di 12 mesi:

  • Essere mentalmente assorbito da Internet
  • Avvertire il bisogno di utilizzare Internet sempre più a lungo per sentirsi soddisfatto
  • Essere incapaci di controllare il proprio utilizzo della rete
  • Sentirsi inquieto o irritabile mentre si tenta di ridurre o interrompere l’utilizzo di Internet
  • Utilizzare Internet come mezzo per fuggire dai problemi o per alleviare il senso di abbandono, impotenza, colpa, ansia o depressione
  • Mentire ai familiari o agli amici per nascondere il proprio grado di interesse per la rete
  • Avere messo a repentaglio o aver rischiato di perdere una relazione significativa, il lavoro o opportunità di studio o di lavoro a causa di Internet
  • Tornare in rete anche dopo aver speso grandi somme di denaro per i collegamenti
  • Ritiro sociale quando si è off line (aumento di depressione e ansia)
  • Rimanere collegati più a lungo di quanto si era programmato all’inizio.

Due sono, in generale, i momenti evolutivi di una dipendenza ed essi valgono anche per l’ internet addiction: all’inizio il soggetto è convinto di potersi fermare da solo quando lo desidera e poi, successivamente, percepisce la propria impotenza di fronte all’oggetto della sua dipendenza. Nello specifico la dipendenza da internet si sviluppa secondo Young (1998) seguendo tre principali fasi:

  • Fase I, Coinvolgimento: vi è l’accesso alla realtà, con un senso di curiosità per essa
  • Fase II, Sostituzione: l’immersione profonda nella comunità di internet fa si che essa sostituisca ciò che non si ha nella propria vita. Le attività che precedentemente erano centrali non contano più, in quanto sono state sostituite da quelle trovate i rete.
  • Fase III, Fuga: ci si rivolge alla comunità di internet sempre più spesso e per periodi sempre più lunghi. Si è sviluppata la dipendenza. Si fugge dal mondo reale e dalla propria vita; la sofferenza emotiva viene placata dalle sensazioni provate in rete.

La dipendenza da smarthphone

Negli ultimi dieci anni lo sviluppo tecnologico degli smartphone ha prodotto un impatto sociale senza precedenti e, infatti, il loro massivo utilizzo può essere considerato una delle new addictions, una nuova forma di dipendenza tecnologica: la dipendenza da smartphone.

Attraverso gli smartphone si può accedere all’utilizzo di Internet ed in particolare all’utilizzo dei social network, infatti circa l’80% degli accessi ai social network avvengono tramite l’utilizzo dei cellulari (Kuss, Griffiths, 2017).

Quindi, le problematiche nell’utilizzo degli smartphone sono simili a quelle connesse all’ internet Addiction ovvero comportamento compulsivo, tolleranza, impatto sulla vita quotidiana, preferenza di relazioni virtuali rispetto alle relazioni reali, craving, pensiero pervasivo e ripetuti tentativi di smettere e a volte irregolarità nel ritmo circadiano (Lin, Lin, Lin, Lee, Lin Chiang, Chang, Yang & Kuo, 2017).

L’utilizzo di uno smartphone, di un tablet o di un computer è ormai indispensabile nella quotidianità perché strumento di facile impiego e, come tutte le tecnologiche, estremamente produttivo in quanto permette in tempi più brevi di effettuare un “lavoro” che nell’ordinario richiederebbe più tempo o più risorse. L’utilizzo, però, compulsivo di questi dispositivi, potrebbe interferire con la vita quotidiana causando un disagio clinicamente significativo o una compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre importanti aree. Diviene un disturbo quando non si interagisce più con le persone reali, ma si trascorre più tempo sui social media, sui giochi e comunque sugli smartphone controllando ripetutamente testi, mail, siti internet o applicazioni, creando conseguenze negative sulla qualità della vita. Secondo Suler (1999), ci si trova di fronte ad un problema significativo nel momento in cui la propria vita faccia a faccia si dissocia da quella virtuale, l’attività in rete diventa un mondo a parte e l’esame di realtà fallisce.

La dipendenza da smartphone è conosciuta come nomophobia ovvero la paura di essere senza cellulare: è però doveroso precisare che non è il telefono in sé che causa la compulsione ma i giochi, le applicazioni, i siti internet ecc.

La dipendenza da smartphone, come le altre new addictions, può comprendere diversi problemi di controllo dell’impulso, nella fattispecie in relazione a diversi aspetti come ad esempio: le relazioni virtuali, le compulsioni online, il sovraccarico di informazioni e la dipendenza da cybersex. Partendo dalla prima, ovvero dalle relazioni virtuali, si può affermare che è sempre più frequente osservare persone al ristorante o comunque in luoghi di incontro che sono fisicamente insieme senza però avere un’interazione, in quanto occupati con lo smarthphone. Questo è uno dei tanti esempi in cui questa dipendenza si estende a tal punto che gli amici virtuali e i social network passano in primo piano rispetto al qui ed ora e alle reali relazioni sociali. L’utilizzo compulsivo dello smartphone può inoltre causare problemi finanziari e di lavoro: il telefono può essere infatti utilizzato come dispositivo che consente il gioco d’azzardo, il commercio di azioni, lo shopping online. Mentre negli scorsi anni era possibile sviluppare queste dipendenze solo se fisicamente nei luoghi, oggi grazie ad internet, e più in generale allo smartphone, è possibile sviluppare questi tipi di new addictions ovunque anche a casa propria o al lavoro.

Con il termine dipendenza da sovraccarico di informazioni si intende la navigazione web compulsiva che comprende la visione di video, l’utilizzo delle app, il continuo controllo di notizie e così via: questo può portare a trascurare alcuni aspetti della vita, delle relazioni e del mondo reale. L’uso del telefonino per il cybersex è sempre più frequente soprattutto perché consente l’anonimato, ma ciò può avere un impatto negativo sulle relazioni intime in quanto favorisce fantasie che sono spesso infattibili nella vita reale.

Un altro comportamento legato all’utilizzo di internet è il cyberbullismo. Alcuni studi hanno dimostrato come l’uso frequente della tecnologia è associata con questa forma di bullismo. Juvonen e collaboratori (2008) dimostrano che gli studenti che utilizzano internet per almeno tre ore al giorno con l’utilizzo di applicazioni di messaggistica istantanea e uso della web cam, hanno maggiore probabilità di essere vittima di cyberbullismo. In un recente studio, Tsimtsiou e collaboratori (2017) hanno dimostrato che il cyberbullismo è associato con l’Internet addiction e con le ore spese online sul proprio smartphone.

Gli smartphone e Internet possono essere coinvolgenti perché il loro uso, proprio come l’uso di farmaci e alcool, può innescare il rilascio della dopamina a livello cerebrale e alterare l’umore. Inoltre, proprio come nell’uso di droghe e alcool, è possibile sviluppare rapidamente la tolleranza, cosicché è richiesto un aumento del numero di ore passate davanti allo schermo per ottenere la stessa ricompensa piacevole. In tal senso, alcuni studi condotti da Volkow e collaboratori (1997a; 1997b) hanno dimostrato che esistono delle reazioni di dipendenza nei confronti di sensazioni ed esperienze provocate da qualcosa che viene eseguito: la dipendenza da internet e la dipendenza da smartphone, quindi, si potrebbe spiegare come provocata da reazioni emotive e neurobiologiche che si ricavano dall’attività on line.

Per il trattamento della dipendenza da smartphone è consigliabile una terapia cognitivo comportamentale in grado di fornire metodi passo per passo che consentano un maggior controllo dello smartphone e dell’ uso di internet diminuendo i comportamenti compulsivi e modificando le percezioni che ognuno di noi ha sullo smartphone. La terapia può inoltre proporre modi più sani per fronteggiare le emozioni che la persona sente più scomode come lo stress, l’ansia, la noia o la depressione.

La scala per misurare la dipendenza da smartphone

L’aumento dell’utilizzo dei dispositivi elettronici e la possibilità dello sviluppo della conseguente dipendenza ha portato numerosi studiosi ad indagarne in modo qualitativo e quantitativo l’utilizzo.

Lo smartphone ha la possibilità di diventare un problema sociale prevalente poiché ha le caratteristiche della dipendenza come la tolleranza, il ritiro e la difficoltà di eseguire attività quotidiane o i disturbi del controllo dell’impulso. Kuss & Griffiths hanno menzionato la possibilità di una dipendenza da siti di social networking (SNS) attraverso il loro studio di social networking online e Park & ​​Lee hanno anche riferito che l’uso di smartphone potrebbe essere attribuito alla solitudine e alla depressione. La Cina ha segnalato i fattori di rischio psicologici della dipendenza dai siti di social network. Kwon, Dai-Jin, Hyun e Soo, nel loro studio “Smartphone Addiction Scale: Development and Validation of a Short Version for Adolescents” del 2013, hanno creato una scala efficiente per lo screening da dipendenza da smarthphone.

La Scala di Addiction Smartphone (SAS) è stata progettata per identificare il livello del rischio di dipendenza da smartphone: la scala infatti fornisce un valore cut off per valutare il livello di dipendenza. Questo questionario si è inoltre dimostrato valido e attendibile nel valutare l’efficacia o meno di un possibile trattamento.

In un precedente studio Kwon et al. hanno sviluppato e convalidato la SAS (Smartphone Addiction Scale), che consisteva di 33 domande e 6 punti, per valutare la dipendenza da smartphone utilizzando self-reporting. Sono stati considerati seguenti sei distinti fattori nel questionario. Tuttavia, vi sono limitazioni riguardo lo studio di validazione di questa scala poiché è stata somministrata a un campione non sufficientemente rappresentativo della popolazione. Inoltre, il rapporto tra maschi e femmine non era bilanciato, rendendo difficile anche un confronto di genere. Infine, il valore di cut-off non è stato suggerito per valutare il grado di dipendenza. La ricerca più recente di Kwon (2013) è stata progettata per sviluppare una scala di versione abbreviata per valutare il grado di dipendenza da smartphone negli adolescenti, includendo un valore di cut off a scopo diagnostico.

In conclusione, gli smartphone sono dispositivi popolari di facile utilizzo; in quanto tali, sarebbe utile poter applicare in più contesti strumenti di assessment per la prevenzione e la diagnosi precoce della dipendenza da smartphone, ormai una delle dipendenze più frequenti all’interno del fenomeno delle new addictions. Lo studio che ha messo appunto il questionario ha inoltre evidenziato che gli adolescenti sono più vulnerabili alla dipendenza da smartphone rispetto agli adulti: gli adolescenti, infatti, sono più propensi ai cambiamenti delle innovazioni tecnologiche. Di conseguenza è auspicabile introdurre e adottare misure preventive per individuare non solo chi soffre già di dipendenza da smartphone ma anche coloro che potrebbero sviluppare tale dipendenza.

L’empatia tra neuroscienze e aspetti applicativi – Report dal convegno “Empathy Neuroscience: Translational relevance to conflict trasformation”, Roma, 18 e 19 ottobre 2017

L’ empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, o, come afferma un proverbio inglese, di “camminare nelle loro scarpe”: riuscire a vedere il mondo con gli occhi del proprio interlocutore, senza per questo perdere la propria individualità.

 

Dell’importanza dell’ empatia si parla molto ultimamente, e non solo in ambito strettamente relazionale e/o clinico, ma anche su scala più ampia; il convegno organizzato da Fondazione Child si pone in questa scia. Nello specifico, studiosi provenienti da varie parti del mondo (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Israele, Palestina) e afferenti a vari ambiti di ricerca ed intervento (docenti universitari e ricercatori, psicologi, psicoterapeuti, insegnanti ed educatori) si sono dati appuntamento a Roma lo scorso 18 e 19 ottobre presso l’Istituto Nazionale di Sanità per confrontarsi  sull’ impatto concreto che l’ empatia ha nel contesto delle relazioni umane.

Due i principali temi presi in esame: l’importanza dell’ educazione all’ empatia, intesa come una modalità di stare in relazione che va insegnata e attivamente coltivata fin dall’infanzia; l’analisi di come l’ educazione all’ empatia venga concretamente utilizzata in uno scenario relazionale estremamente complesso, il conflitto israelo-palestinese, per far sì che le parti in causa riescano a individuare l’una le ragioni dell’altra, rispettando le reciproche identità e perseguendo una mediazione tra le istanze reciproche. L’ atteggiamento empatico viene insegnato ai bambini a titolo preventivo, per mostrare loro come sia possibile convivere pacificamente con l’alterità, che si tratti di alterità culturale, religiosa o di genere.

L’ empatia nella ricerca: i contributi dalle neuroscienze

Il convegno si apre con i saluti istituzionali del professore Ernesto Caffo, docente di Psichiatria dello Sviluppo presso l’università di Modena e Reggio Emilia, del professor Simon Baron-Cohen, docente di Psicopatologia dello sviluppo presso l’università di Cambridge e del prof. Fabio Lucidi, docente di Psicometria presso la facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma.

Il primo giorno di convegno è incentrato sugli aspetti legati alla ricerca sull’ empatia, attraverso il contributo offerto dalle neuroscienze; nel primo intervento il prof. Emile Bruneau, docente presso l’Università della Pennsylvania, propone una visione panoramica di come il costrutto di empatia è stato analizzato in ambito neuroscientifico, in modo da circoscrivere l’oggetto di studio.

Una distinzione importante da fare, che ha significative ricadute nel momento in cui dalla ricerca si passi alla parte applicativa, è quella tra la dimensione cognitiva e la dimensione emotiva dell’ empatia; per empatia cognitiva si intende il comprendere le ragioni dell’altra persona, il capire cosa le stia succedendo assumendone la prospettiva (perspective taking).

L’ empatia affettiva si identifica, invece, con il “sentire” quello che sente l’altra persona; il sentire può, a sua volta essere distinto in:

  • sentire quello che sente l’interlocutore (“feeling as”);
  • sentire in risposta a quello che sente l’altra persona (“feeling for”). Ad esempio, il mettersi in contatto con i vissuti emozionali connotati negativamente dell’interlocutore può generare un vissuto reattivo di stress, che in taluni casi può ripercuotersi negativamente sulla relazione e generare, paradossalmente, un atteggiamento non empatico o, addirittura, antiempatico, nell’altro interlocutore che si sente “sopraffatto” e non riesce a gestire adeguatamente l’immersione nel vissuto dell’altra persona.

L’ atteggiamento empatico ha, inoltre, dei limiti, nella misura in cui può essere viziato da bias cognitivi, che portano ad empatizzare in modo acritico con alcuni vissuti piuttosto che con altri, finendo col tradursi in una “empatia parrocchiale”, nel senso che l’ empatia fa da collante all’interno dei gruppi, cementando il senso di appartenenza, ma anche irrigidendo i confini tra il gruppo e il non-gruppo. Per quanto riguarda l’intervento nelle situazioni di conflitto, l’ empatia cognitiva risulta particolarmente utile nelle negoziazioni iniziali, mentre l’ empatia affettiva nelle negoziazioni successive.

I successivi interventi del prof. Ahmad Abu-Akel, docente presso l’università di Losanna, del prof. Salvatore Maria Aglioti, docente di Neuroscienze cognitive presso l’università di Roma La Sapienza, e del prof. Bhishmadev Chakrabarti, docente presso l’università di Reading, proseguono nell’illustrare e confrontare i risultati di una serie di studi sull’ empatia, realizzati in ambito neuroscientifico. Le relazioni vertono sul nesso, analizzato attraverso tecniche di neuro imagining, tra la percezione del dolore (ad esempio vedere che una persona viene punta da un ago) e l’ empatia (immaginare come ci si sentisse se ci si trovasse nella stessa situazione), e su come sia possibile mettere a punto, partendo dai risultati degli studi, degli strumenti che aiutino a intervenire nelle situazioni di conflitto.

Gli interventi a seguire della prof. ssa Theresa Betancourt, ricercatrice presso l’università  di Harvard, e del prof. James F. Leckman, docente di Psichiatria dello sviluppo presso l’università di Yale, mettono in luce ulteriori elementi  illustrando, rispettivamente, i risultati di una serie di studi condotti sui bambini soldato in Sierra Leone (in particolare riguardo l’impatto dei traumi di guerra sullo sviluppo psicologico) e i vantaggi della promozione delle abilità empatiche sin dall’infanzia, nell’ottica di favorire un adeguato sviluppo emotivo e cognitivo.

L’ empatia e le esperienze in ambito israelo-palestinese

Il secondo giorno di convegno è incentrato sulla parte applicativa e sullo story telling: vengono proposte, dai numerosi relatori, tantissime esperienze, maturate sul campo, in cui educatori che operano in zone di conflitto raccontano le attività che attuano per promuovere l’ empatia, intesa come un’abilità trasversale, che si trasmette anche attraverso l’insegnamento di altre nozioni.

Si avvicendano numerose testimonianze di educatori ed educatrici che operano in ambito israelo-palestinese e che fanno i conti quotidianamente con la concreta difficoltà di fronteggiare i conflitti, elaborando e trasmettendo modalità alternative di entrare in relazione. Un esempio, tra i tanti proposti, è un film realizzato nell’ambito di un progetto che coinvolgeva soggetti israeliani e palestinesi, “Two sided story”,di cui viene proiettato il trailer (ndr: di seguito inserito nell’articolo). Viene mostrato come dall’iniziale diffidenza ed ostilità, si arrivi a non vedere più l’altro come il diverso e il nemico, riuscendo a coglierne l’essenza di persona portatrice di una storia speculare alla propria.

GUARDA IL TRAILER DEL FILM “TWO SIDED STORY”: 

In conclusione, l’ empatia rappresenta sia un oggetto di studio che una concreta risorsa che permette di intervenire sulle dinamiche di conflitto, sia in fase di negoziazione che a titolo preventivo.

Dall’adozione in poi… – L’esperienza di un servizio che prende in carico le famiglie adottanti

La seguente trattazione mira a raccontare la nostra esperienza (nel periodo 2014-2015) relativamente a quanto succede dall’ adozione in poi. La storia di un servizio che ha ri-preso in carico le famiglie adottanti, nel loro processo genitoriale.

 

Ri-preso nel senso di un’accoglienza in uno spazio dedicato, specifico e sensibile a questa condizione.

Siamo partiti dall’attuale fotografia familiare, per poi connetterci alle radici della decisione dell’ adozione e proiettarci di fronte a noi, nel percorso evolutivo, aprendo uno spazio di ascolto e dialogo reciproco, che ci auguriamo si incrementi nel tempo.

Si tratta di famiglie a vari stadi del percorso, da situazioni di neo adozione, a situazioni ormai strutturate negli anni, ciascuna con bisogni specifici individuali e specifiche fasi evolutive, nonché adottive.

Adozione: linee guida regionali e intenti della presa in carico delle famiglie

Il progetto pensato e strutturato nel corso del tempo dagli operatori della Val di Cornia, in special modo dagli operatori che si occupano di adozione e affidamento a tutti i livelli, nasce sotto lo stimolo delle linee guida della regione Toscana, che norma la valutazione delle coppie aspiranti all’ adozione nazionale e/o internazionale, ma sottolinea anche la necessità di supportare e seguire le coppie che abbiano ricevuto l’idoneità adottiva e che effettivamente abbiano acquisito questo status genitoriale, attraverso l’arrivo di uno o più bambini.

Il proseguimento del contatto con le famiglie, successivo all’abbinamento, è necessario almeno per due ordini di motivi.

Il primo è insito nel processo stesso. Al momento della richiesta adottiva infatti, la coppia è sottoposta ad una serie di accertamenti, di natura legale, sanitaria, sociale e psicologica. Fra queste in particolare, l’indagine psico-sociale viene vissuta con eccessiva pressione, un processo invasivo, “indagatorio”. Ci si sente rimescolati, “giudicati”, messi sotto esame e questo spesso rompe il legame di fiducia con i servizi stessi.

Le coppie pensano sovente che si tratti di un procedimento che potrebbe avere altri toni e livelli, se non addirittura evitato.

E’ necessario quindi rimarginare questa incrinatura, eliminando il vissuto di giudizio e pressione, aggiungendo l’elemento supportivo e strumentale, in un’ottica di fiducia reciproca.

L’altra motivazione che spiega il senso della componente valutativa, riguarda la natura della genitorialità adottiva in sé. Le famiglie non hanno percezione degli elementi emotivi, psicologici, sociali e culturali che dovranno affrontare con i loro futuri figli. La valutazione iniziale, come il corso preparatorio ed il sostegno ad ogni tappa difficile, è fondamentale per poter affrontare le mille complessità della situazione e per evitare la dolorosa esperienza del fallimento dell’ adozione. Dolorosa e traumatica sia per genitori che per i bambini.

Non dobbiamo dimenticarci che, in caso di affido e adozione, si parla di bambini, dal neonato all’adolescente, che hanno vissuto l’esperienza fondamentale del rifiuto e dell’ abbandono della famiglia originaria. Spesso si aggiunge una realtà prenatale costituita da trascuratezza e/o abuso di sostanze, scarsa igiene, malnutrizione, sforzi fisici, tutti fattori che determinano ritardi nello sviluppo, crisi di astinenza, crisi respiratorie, malattie metaboliche, infettive, difficoltà di vario tipo (Baldini, 2009).

Sicuramente non sperimentano il contatto precoce col corpo della madre, tanto meno con quello del padre. La loro primaria esperienza è di solitudine e freddezza.

Dopo la nascita, molti di loro passano da una realtà ad un’altra, facendo l’esperienza più o meno lunga di uno o più istituti, che per quanto buoni, e non sempre è così, non potranno mai offrire lo spazio psico-emotivo di un nucleo familiare caldo.

Non di rado poi nella famiglia originaria, questi bambini subiscono maltrattamenti, violenza subita e/o assistita, abusi e soprusi di ogni genere, che minano profondamente la fiducia in sé e nelle figure di attaccamento.

Sono bambini dunque, che per quanto piccoli, arrivano già con un bagaglio lungo, pesante e costituito da assenze significative.

Le coppie adottanti o aspiranti tali, recriminano spesso la realtà genitoriale in genere, riportando situazioni in cui le famiglie naturali non sono buone famiglie, trovando ingiusta l’indagine rivolta solo a loro, come elemento discriminante. Si sentono messi in discussione a priori.

Nel corso di quest’anno trascorso insieme alle famiglie che hanno affrontato un percorso di adozione, abbiamo discusso e riflettuto molto su questo tema e credo che ancora ci sia da riflettere.

Hanno ragione queste coppie, la genitorialità è un processo difficile, difficile per tutti gli individui non solo per i genitori adottivi, che si acquisisce e si modifica nel tempo. E’ anche una gran risorsa, è il nostro futuro, perché le nuove generazioni rappresentano il futuro, il frutto dell’operato individuale ma anche dell’operato di tutto il contesto sociale. I bambini sono responsabilità e patrimonio di tutta la società.

Crediamo fortemente che come individui, ma anche come istituzioni pubbliche (sanitarie, socio-sanitarie, educative, scolastiche, ecc.) si debba investire molto più e ad un più elevato livello qualitativo sulla genitorialità. Sulla genitorialità in genere, non necessariamente su una genitorialità carente o disfunzionale.

Un progetto di promozione al benessere e di arricchimento ad ampio raggio, costituirebbe un’ottica assai più funzionale di quella riparativa o preventiva (che si focalizza comunque su un problema).

Questo è un processo necessario, ma graduale nel tempo, che probabilmente procede per scalini e sicuramente uno step fondamentale è costituito dall’impegno verso la genitorialità delle famiglie adottive.

Non necessariamente si tratta di situazioni problematiche, ma di uno spazio dedicato, disponibile ad accogliere eventuali difficoltà, ma di fondo uno spazio per affrontare con strategie ottimali, in un clima di serenità e fiducia, la situazione familiare, fase per fase, negli elementi peculiari della realtà specifica e in quelli comuni della realtà genitoriale in genere.

A casa con il bambino

La riflessione parte dalla profonda consapevolezza che il processo di adozione sia un processo in divenire, non un punto d’arrivo e non si esaurisce con l’acquisizione dell’idoneità, successiva alla valutazione dei servizi Sanitari e di Giustizia Minorile, né si esaurisce con l’abbinamento, tanto meno con l’arrivo effettivo del piccolo nella casa dei suoi nuovi genitori.

L’arrivo a casa in realtà introduce una nuova fase evolutiva. Il bambino/a o i bambini e i rispettivi genitori, devono cominciare a “riconoscersi”, come figure familiari, figure di riferimento e di attaccamento reciproco. Devono imparare a riconoscersi.

Riconoscersi è un processo successivo dell’ adozione e più articolato del conoscersi. La conoscenza può avvenire anche velocemente e può essere veicolata dal fare quotidianamente una serie di cose, dal gestire e condividere spazio, tempo, esperienze.

Il bambino viene introdotto nel proprio-spazio familiare-intimo, gli si predispone uno spazio tutto per sé, si condividono spazi comuni, oggetti, abitudini. Il proprio tempo, pensato in due, diventa un tempo che deve includere un terzo (o più).

Nell’usuale processo genitoriale, quando nasce un figlio, l’ordine precedente si sconvolge naturalmente, nonostante costituisca un processo in parte preparato e voluto. Eppure pur sempre un processo nuovo, che ci trova impreparati. Ma il piccolo è in fasce, per cui i genitori hanno modo di inserirlo in modo graduale, anche in base ai propri tempi, modi, capacità, risorse emotive.

Pensiamo ad un figlio adottivo che non è quasi mai in fasce, che ha un suo pensiero, abitudini, una sua storia, esperienze totalmente diverse, un’altra famiglia alle spalle, spesso due (quella naturale e quella dell’istituzione). Ancora più complesso quando si tratta dell’ adozione di un bambino che parla un’altra lingua, mangia un altro cibo e ha vissuto in un ambiente naturale-culturale-sociale completamente diverso (es. villaggio africano, cambogiano, paese indiano, peruviano, ecc.).

Il conoscersi spesso parte già con delle difficoltà oggettive, veicolate dai medium comunicativi che non sono gli stessi.

Rimane il linguaggio dei gesti, il corpo ed il comportamento.

Ma anche questo linguaggio, è connotato culturalmente e ancora di più, psicologicamente. Pensiamo ad un abbraccio, che potremmo valutare come strumento comunicativo universale, in realtà se abbiamo di fronte un bambino che nel contatto con i genitori ha ricevuto solo violenza fisica o non ha sperimentato in alcun modo questa sensazione (es. nel caso del progetto “mamma segreta”), il contatto affettivo, l’abbraccio può costituire una realtà sconosciuta e temuta. E’ il caso dei bambini oppositivi, che resistono all’abbraccio e al contatto, lo rifiutano talvolta in modo anche violento. Per cui, anche i primi contatti sono veri e propri campi di esplorazione sconosciuta.

Nel processo di conoscenza, i genitori adottivi devono veramente mettere in campo tutta una serie di risorse, capacità ad ogni livello, una grande capacità di tolleranza, di flessibilità e accoglienza.

Spesso le coppie, subiscono “violenza” da parte dei piccoli arrivati, capita che il loro spazio debba essere totalmente stravolto e talvolta venga anche distrutto fisicamente. I bambini adottati, nella loro disperata e disperante angoscia, spesso mettono in atto condotte violente e distruttive, aggrediscono cose e persone, feriscono psicologicamente. Mi vengono in mente due esempi: una bambina cilena che ancora in Cile con i nuovi genitori, si è buttata in terra, in mezzo alla strada urlando e sbattendo pugni e calci, oppure il ragazzino indiano che ha freddato la madre dicendo “Voi mi avete comprato”.

Questi genitori dunque, si ritrovano a conoscere e connaturare qualcuno, che sembra “non accogliere la loro accoglienza”. Spesso la loro disponibilità viene continuamente frustrata, svalutata, resa vana.

Per molte coppie è un processo iniziale veramente stressante. Per talune lo è per molti anni o per sempre (come il caso di bambini che non si adattano mai o che hanno gravi handicap).

Se pensiamo poi all’ adozione di più bambini contemporaneamente, di solito fratelli, le cose si complicano ulteriormente. Al loro interno si crea un patto fraterno, che spesso fa muro nei confronti della coppia genitoriale e impedisce ai rispettivi membri, decisioni autonome. Si sperimenta una piccola famiglia dentro la famiglia. Quando il patto fra pari viene meno poi, si innescano gelosie e meccanismi assai potenti, che mirano ad ottimizzare l’attenzione esclusiva degli adulti. L’equilibrio familiare viene costantemente minato dal suo interno.

Questa descrizione per sommi capi e generalizzata, vuole essere esemplificativa dell’estrema articolazione e complessità dello specifico processo di conoscenza, primo passo per un avvicinamento reciproco.

L’incontro effettivo con il piccolo, diverso da noi, avviene unicamente grazie alla capacità di sintonizzarsi ad un livello emotivo profondo, che permette di ri-conoscersi, di sentire la stessa cosa, nonostante una storia diversa, un linguaggio diverso, una cultura totalmente lontana. Se si è capaci di stare nello “stesso sentire”, ci si incomincia ad “appartenere”, a creare un nucleo di appartenenza.

Il riconoscimento è un processo che richiede la sovrapposizione dell’altro rispetto alle orme inconsce, createsi fin dalla nascita, rispetto a ciò che riteniamo “familiare”, una sorta di binario che ci conduce nella modalità relazionale propria. Questa sovrapposizione si crea grazie alla conoscenza che crea elementi comuni, spazi di comunicazione, di condivisione di spazio-tempo, modi di dire, ma soprattutto grazie ad un sentire comune che ci fa appartenere e riconoscere con fiducia, senza vivere l’altro pericoloso o estraneo.

Sia la conoscenza che il riconoscimento sono processi che possono avvenire in tempi relativamente brevi, in tempi lunghi, talvolta in tempi che non si esauriscono mai. Alcuni genitori continuano a dire che non sanno cosa i propri figli hanno vissuto, nel loro paese d’origine. Questa non conoscenza, è come una mancata appartenenza di un pezzo della loro vita. Manca una parte che spesso spiega e rende ragione di quanto loro sono e di quanto potrebbero essere. C’è un vuoto, non facile da significare.

Il processo di riconoscimento ha un suo tempo ed una logica in tutte le relazioni genitori-figli, quelle adottive presentano elementi aggiuntivi e articolati che rendo il tutto più difficile e penoso, in gran parte dei casi.

La qualità dell’attaccamento primario di questi bambini, spesso è caratterizzato da assenza, violenza, maltrattamento, ne consegue una risposta relazionale costituita da evitamento, insicurezza, angoscia, elementi assai complessi e distruttivi, che complicano l’avvicinamento da parte dell’adulto che li accoglie.

Per raggiungere una buona relazione, il bambino deve modificare e correggere il suo binario inconscio che conduce agli altri ed il genitore deve trovare la chiave d’accesso per questa possibilità.

Probabilmente non è possibile modificare quel binario primario, ma una buona relazione, può creare binari paralleli e alternativi.

Il progetto nella sua attuazione

La traduzione del progetto e delle linee guida regionali all’interno del nostro servizio, si è articolato in un iniziale censimento delle cartelle, relative alle coppie in varie fasi, da quelle in attesa di abbinamento adottivo a quelle che hanno adottato da anni.

Le coppie sono state suddivise poi in gruppi, secondo un criterio soggettivo di significanza. Si è creato un primo gruppo di genitori con figli da 0 a 11 anni circa, un gruppo di genitori con figli adolescenti ed un gruppo di genitori che hanno già ottenuto l’idoneità e sono in attesa di abbinamento.

Ciascuna coppia è stata invitata ad un colloquio congiunto con una psicologa e un’assistente sociale, di 90 minuti circa.

La coppia psicologa-assistente sociale era diversa da quella del processo valutativo iniziale. Scelta che si è rivelata importante nella fase iniziale.

Sono poi seguiti gli incontri di gruppo mensile, di confronto sulla genitorialità. Si sono creati due gruppi di 10 coppie ciascuno, di genitori con figli preadolescenti, un gruppo di genitori con figli adolescenti. Successivamente è nata l’esigenza di un gruppo di ragazzi adolescenti e un gruppo di bambini in età scolare (6-10 anni).

I colloqui singoli avevano lo scopo di conoscere le coppie rispetto alla realtà attuale. Si è scelto volutamente di arrivare al colloquio senza aver letto le storie e le relazioni valutative iniziali, lasciando tutto lo spazio di accoglienza e di conoscenza reciproca.

E’ stato un incontro di conoscenza che ha fornito le basi per il processo di ri-conoscimento successivo. Uno spazio con l’obiettivo di ricreare fiducia e riappacificazione con i servizi. Da una parte infatti, le coppie hanno vissuto il processo valutativo come spazio di giudizio ingiustificato, dall’altro si sono poi sentiti abbandonati nelle fasi successive, durante la costruzione della genitorialità.

A tal proposito è importante tener presente che gli operatori che hanno compiuto la valutazione, hanno sempre offerto la loro disponibilità in qualunque fase del processo successivo. Di fatto, quasi mai i genitori hanno accolto tale disponibilità. Quindi, nonostante l’offerta dei servizi, il processo valutativo ha forse innescano processi interni di inadeguatezza e genitorialità mancata, creando una frattura ed una condizione di solitudine da parte delle famiglie.

Questo ambito dedicato, ha assunto la funzione di ricucire lo strappo e di creare uno spazio continuativo di comprensione e di condivisione dell’intero percorso, che va dalla domanda adottiva all’arrivo del bambino, per tutte le fasi successive.

Le tematiche affrontate, sia nel colloquio individuale che nel contesto di gruppo, hanno riguardato aspetti comuni a tutti i genitori e aspetti specifici della condizione adottiva.

Fra queste: il conflitto fra sentirsi genitori comuni-speciali, con tutto quello che comporta essere speciali, la difficile gestione del proprio ruolo rispetto ai genitori naturali e alla storia pregressa del proprio figlio, la difficile gestione di crisi emotive e i comportamenti provocatorie dei figli, le angosce abbandoniche, la compartecipazione con la famiglia allargata (nonni, zii, ecc.), la relazione con l’eventuale presenza di figli naturali, le tematiche relative all’integrazione razziale, l’inserimento scolastico con le difficoltà linguistiche, ecc.

Il percorso di gruppo, rappresentato da uno spazio di due ore, con cadenza mensile, ha costituito prima di tutto il contenitore dove si è creato il “nucleo familiare allargato”, culla per questo nuovo rapporto istituzionale-genitoriale, in senso normativo e affettivo. Il gruppo ha assunto il ruolo di contesto di accoglienza, condivisione e discussione rispetto alla qualità relazionale ma anche alle tematiche su citate, in presenza e condivisione con altri genitori in situazioni analoghe e degli esperti che hanno creato la struttura contenitivo-protettivo, in termini concreti, psicologici, sociali ed emotivi.

Questo percorso si è avvalso, sia della condivisione attraverso il dialogo, sia della condivisione attraverso l’elaborazione grafico-simbolica. Si sono cioè approntati dei lavori mutuati dalla teoria e tecnica gestaltica, nonché da quelli dell’arte terapia, atti a far emergere una capacità creativa-elaborativa di tematiche inconsce. Strumenti utilizzati nel gruppo intero o in sotto gruppi.

I prodotti emersi, hanno avuto un duplice effetto. Da una parte quello di rafforzare e approfondire la conoscenza degli altri genitori, attraverso un clima giocoso. Dall’altra di svelare la propria capacità “generativa”. Ciascun membro in relazione agli altri, attraverso tecniche giocose, che impiegano strumenti non verbali, ha stupito se stesso e gli altri, nei prodotti emersi e nella loro significanza.

L’ adozione è un processo di abbondanza, è un dono reciproco, per il bambino accolto e per il genitore che ha modo di recuperare la propria ferita sulla capacità generativa. E lo strumento simbolico, unito alla verbalizzazione, ha un grande valore riparativo (Basile G., 2006).

I bambini e i ragazzi stessi, all’interno del gruppo di pari, possono trovare e ritrovare un senso e un’origine comune alla propria storia. Il senso di condivisione e di appartenenza può essere anche in questo caso, mediato sapientemente con tecniche strumentali manipolative, come la creta, il colore e la carta di vario genere e formato. Mezzi trasformativi-trasformati in clima ludico, che nella nostra esperienza hanno assunto ruolo di espressione, proiezione e recupero di tematiche individuali, nonché recupero di esperienze perse.

Ci auguriamo che questo percorso parallelo di genitorialità e filiazione possa proseguire costruttivamente trasformandosi in base alle necessità, creando nuove possibilità di riconoscimento ed incontro.

Nel nostro immaginario, andando oltre con i possibili sviluppi, i gruppi potrebbero per esempio allargarsi alle generazioni precedenti, ai nonni, anch’essi coinvolti direttamente nel percorso adottivo e indirettamente come modelli pregressi di genitorialità.

Spesso, l’ adozione costituisce un atto non condiviso o uno spazio dove si rinnovano i precedenti conflitti genitori-figli ed il passaggio alla funzione successiva, ovvero essere genitori di genitori che adottano un bambino non è semplice e lineare. Se per i genitori, approcciarsi ad un bambino diverso (per storia, razza, cultura, lingua) può essere difficile, per i nonni può esserlo ancora di più, innescando talvolta reazioni anche di opposizione e rifiuto.

E forse, riflettendo sul meta-processo, tornando indietro da dove siamo partiti, da noi come servizio che abbiamo offerto uno spazio dedicato, arriviamo alle famiglie adottive come nuclei socio-affettivi che offrono uno spazio-tempo-amore dedicato a sé e ai propri figli, di cui sono genitori a tutti gli effetti.

Dopo quanto detto e sperimentato, concludiamo rinnovando l’importanza di un processo di accompagnamento, che come la genitorialità, non può esaurirsi nel tempo e nello spazio limitato di un inizio, ma deve proseguire costruttivamente ed evolutivamente, allargandosi in tutte le dimensioni (famiglia allargata, scuola, socialità, attività sportive, ecc.).

L’altruismo costa caro: gli individui pro-sociali, dinnanzi a un’iniquità, attivano pattern cerebrali simil-depressivi

Il nuovo studio di Tanaka e colleghi, pubblicato su Nature Human Behavior, ha messo in luce che un pattern di risposta neurale nell’amigdala e nell’ippocampo, in seguito a una situazione di iniquità verificatasi durante un processo di decision-making economico, può predire indici depressivi sia presenti che futuri.

 

In particolare esso mostra che l’attivazione dell’amigdala, evocata dall’iniquità, produce nei soggetti pro-sociali ovvero soggetti più disposti al sacrificio per gli altri, una risposta emotiva negativa simile alla depressione.

Nonostante l’aumento dell’ iniquità economica nella società, la nostra spinta ad aiutare e a condividere con chi è meno fortunato di noi varia notevolmente tra gli individui.

Alcuni che potremmo definire “individualisti” tendono infatti a prendere decisioni e a mettere in atto comportamenti egoistici che mirano solo a massimizzare i guadagni per se stessi mentre ci sono altri, maggiormente pro-sociali, che al contrario sono disposti al sacrificio e si mostrano volenterosi nei confronti degli altri con il fine di promuovere l’equità sociale.

In particolare quest’ultimi mostrano un’ineguagliabile capacità di spendere tempo ed energie per altri anche a costo di se stessi.

Tuttavia questa profonda preoccupazione empatica per chi è in svantaggio, manifestata dagli individui pro-sociali, è stata osservata allo stesso modo nelle manifestazioni depressive ma clinicamente non rilevanti.

Come si potrebbe spiegare questo relazione tra manifestazioni simil-depressive e la preoccupazione per l’eguaglianza sociale tra gli individui?

Recentemente Tanaka e colleghi (2017) hanno approfondito tale argomento focalizzandosi in particolare sui meccanismi neurali che sottendono l’ iniquità sociale e la sua relazione con gli indici depressivi, misurati tramite il Beck Depression Inventory (Beck, 1996), in una popolazione non patologica (Tanaka et al., 2017), composta da 343 soggetti dividi in due gruppi “pro-sociali” e “individualisti”.

Lo studio ha misurato: gli indici depressivi al momento dell’esperimento e un anno dopo; la sensibilità all’ iniquità tramite l’Ultimatum game (Güth et al, 1987) mentre i soggetti erano sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI); infine il loro orientamento sociale con un compito comportamentale (Tanaka et al., 2017).

Nell’Ultimatum Game, i “proposers” fanno una serie di offerte riguardo a come ripartire una somma di denaro (es. 500 €) a dei “responders” che a questo punto possono decidere se accettare o rifiutare ogni offerta fatta loro.

Se i “responder” accettano l’offerta, il denaro viene distribuito come quanto stabilito dai “proposers”, in caso di rifiuto invece nessuno dei giocatori riceve il denaro.

Le proposte fatte dai “proposers”: possono essere eque (ognuno riceve metà della somma 250/250 €), b) inique ma svantaggiose per loro (i “responders” ricevono più dei “proposers”) e c) inique ma vantaggiose per loro (“proposers” ricevono di più dei “responders”).

Il tutto è avvenuto mentre i soggetti erano nello scanner e i soggetti via via erano sia “proposers” che “responders”

In questo studio i soggetti che tendevano a minimizzare la differenza nella ricompensa e a promuovere l’equità sono stati definiti “pro-sociali” in quanto hanno esibito un maggior rifiuto di offerte inique rispetto ad altri soggetti detti “individualisti”, che al contrario si sono mostrati maggiormente egoisti e che, nonostante l’ iniquità, accettavano comunque l’offerta.

Un’interessante questione è stata se l’ iniquità nell’offerta, cioè se una grossa differenza nella ripartizione della ricompensa tra se stessi e l’altro, potesse essere rappresentata diversamente a livello dei circuiti cerebrali come una funzione dell’orientamento dei valori sociali dei soggetti (iniquità vs equità economica).

Gli autori, impiegando metodi basati su pattern di analisi multivoxel (MVPA), sono riusciti a identificare differenze tra le diverse condizioni sperimentali in termini di pattern di attività neurale in specifiche regioni cerebrali.

In particolare lo studio, per le tre condizioni, ha identificato il coinvolgimento dell’amigdala e dell’ippocampo, due strutture mediali dei lobi temporali, che sono risultate cruciali anche per i disturbi dell’umore, tra cui la depressione, e per lo stress.

Dallo studio di Tanaka e colleghi (2017) è emerso che le risposte neurali nell’amigdala e nell’ippocampo evocate dall’ iniquità durante il decision-making economico, nella prima condizione (svantaggio per il sé), di fatto prediceva indici depressivi, che venivano misurati dai punteggi nel BDI, attuali e futuri negli individui sia pro-sociali che individualisti.

Nella seconda condizione (vantaggio per il sé) invece, le risposte neurali dell’amigdala e dell’ippocampo sembravano predire indici depressivi soltanto nei soggetti pro-sociali ma non negli individualisti.

Per quanto detto finora, sembrerebbe che nell’essere pro-sociali ci siano dei costi: infatti nella quando ci offrono e accettiamo una ricompensa svantaggiosa in cui è presente una perdita economica, rispondiamo con un umore negativo simile alla depressione sia che siamo di orientamento pro-sociale che individualista.

Se invece tendiamo ad avere un orientamento pro-sociale e accettiamo una condizione iniqua ma di maggior vantaggio per noi, rimaniamo comunque più colpiti rispetto a soggetti individualisti nell’accettare un guadagno maggiore e ci sentiamo in colpa.

Questo studio risulta interessante non solo per aver dimostrato che nell’essere pro-sociali ci sono dei costi in termini di umore negativo ma soprattutto per aver evidenziato come questa sensibilità all’ iniquità economica coinvolga di fatto due strutture cerebrali cruciali per la depressione, dimostrando così una relazione tra pattern neurali-umore-decision making.

Gli autori hanno ipotizzato infatti che questa relazione tra la sensibilità all’ iniquità durante la presa di decisione in campo economico, evocata dalla risposta neurale nell’amigdala e nell’ippocampo e gli indici depressivi sia in parte dovuta anche al coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che sovrintende alla secrezione dell’ormone dello stress, il cortisolo, precursore degli episodi depressivi (Tanaka et al., 2017).

Altri studi inoltre hanno sottolineato come questa relazione tra pattern neurali, umore e decision-making sia confermata anche da misurazioni fisiologiche delle emozioni: in particolare uno studio di Moretti e Di Pellegrino (2010) ha dimostrato come rifiutare un’offerta iniqua nell’Ultimatum game fosse associato ad un aumento non solo della conduttanza cutanea ma anche della percezione soggettiva di un’emozione negativa, il disgusto.

Tuttavia lo studio non chiarisce fino a che punto l’ iniquità percepita induca un’attività neurale correlata con un’attivazione negativa, né se queste temporanee emozioni negative possano aiutare a comprendere la relazione tra pattern neurali e umore e né se la depressione possa essere predetta da risposte neurali che evocano simili percezioni di iniquità (rifiuto da parte di un amore, dilemmi morali che coinvolgono colpa o conflitto morale).

Le Smart drugs – Introduzione alla psicologia

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Smart drugs: che cosa sono

Le smart drugs sono sostanze psicoattive perfettamente legali e capaci di incrementare le capacità di apprendimento e di memoria. Con il termine smart drugs, però, ci si riferisce a una serie di prodotti, tra cui medicinali veri e propri, estratti vegetali e integratori alimentari prodotti principalmente in maniera artigianale.

Il nome scientifico è nootropi, derivante dal latino ed è composto da nous, cioè intelletto, e tropein, ovvero cambiare, e significa sostanze intelligenti. Il loro scopo è aumentare, o alterare, le capacità cognitive di chi li assume, potenziando il rilascio di agenti neurochimici. Tale miglioramento si manifesta implementando l’apporto di ossigeno al cervello e stimolando la crescita delle cellule nervose. Quindi, le smart drugs, o droghe furbe, sono quei composti, sia di origine naturale sia sintetica, contenenti principi attivi con presunte o accertate proprietà psicoattive.

Storia delle smart drugs

Le smart drugs derivano dalla medicina alternativa/etnica, che consiglia l’uso di sostanze vegetali ricavate da erbe e piante già al centro di riti tradizionali e usanze celebrative, come adiuvanti di alcuni funzioni cognitive. I popoli primitivi conoscevano bene i pericoli di queste sostanze e non a caso le consideravano sacre, termine che deriva dal latino dove sacer significa ciò da cui si deve stare lontano.

Negli anni ‘90 il termine Smart Drugs si diffuse negli Stati Uniti per definire alcuni farmaci usati in medicina per attivare alcune funzioni cognitive deterioratesi durante la senescenza.

Nel 1991, fu pubblicato il libro “Smart Drugs and Nutrients”, da parte di Ward Dean, un gerontologo americano, e dal giornalista John Morgenthaler in cui si descrivevano una serie di sostanze nootropiche, in grado di risvegliare ricordi dimenticati, di aumentare il quoziente di intelligenza e la potenza sessuale, come ad esempio il piracetam o la lecitina. Ad oggi, negli Stati Uniti le Smart Drugs rappresentano una serie di sostanze farmacologicamente attive, che comprendono anche gli steroidi, in grado di agire sulla performance generale dell’individuo.

A fine anni ´90 in Europa arriva la moda studentesca dell’uso di sostanze naturali o sintetiche vendibili legalmente con presunte indicazioni di efficacia sulla concentrazione e sulla memoria o con proprietà psicoattive. Attualmente, non esiste una terminologia univoca sul termine Smart Drugs, si parla, dunque, di droghe vegetali, etniche, etnobotaniche, naturali, biodroghe, etc.

Inoltre, per alcuni il termine Smart Drugs indica una serie di bevande energetiche o pastiglie stimolanti, simulanti l’effetto dell’ecstasy, che assicurano risultati eccitanti pur rimanendo nella legalità, come la caffeina, il ginseng, etc.

Smart shop

Gli Smart Shop sono negozi presenti in diverse nazioni europee, da una quindicina d’anni, specializzati nella vendita di particolari prodotti erboristici diversi per origine o formulazione. Gli Smart Shop, in Italia sono circa un centinaio, vendono non solo Smart Drugs di origine naturale e sintetica, ma anche prodotti destinati alla coltivazione di piante (soprattutto funghi e canapa) e prodotti accessori destinati ad ottimizzare l’effetto derivato dall’assunzione di sostanze fumabili (cartine, filtri, pipe, bong, vaporizzatori).

Inoltre, un vasto mercato è sancito dalla vendita online, dove è possibile acquistare smart drugs di ogni tipo.

Classificazione delle smart drugs

Le smart drugs si classificano rispetto alle modalità di consumo o per classi chimico-fisiche. Tra i prodotti in commercio si trovano pillole, gocce, bevande, oppure decotti ed infusi da preparare, oltre che misture concentrate, i cui effetti possono essere diversi a seconda del prodotto ingerito. In generale, si possono distinguere i prodotti caffeinici, efedrinici, afrodisiaci e eco-drug.

1.     Prodotti caffeinici

La caffeina è un alcaloide naturale presente nelle piante di caffè, cacao, tè, cola, guaranà e mate, che svolge un’azione stimolante sul sistema nervoso centrale. Sul mercato sono numerose le bevande che contengono caffeina e taurina (Energy drink), il cui consumo talvolta è associato anche all’alcol. La caffeina è una delle sostanze psicoattive più diffuse e l’uso prolungato comporta tolleranza e dipendenza e assuefazione.

2.     Prodotti efedrinici

L’efedrina è un alcaloide naturale presente nelle piante dell’Ephedra, con una struttura chimica molto simile a quella delle metamfetamine. Viene utilizzata in numerosi integratori alimentari commercializzati per perdere peso o migliorare le prestazioni atletiche, oppure associata ad altri prodotti contenenti caffeina per ottenere preparati dagli effetti eccitanti. L’efedrina agisce sul sistema nervoso simpatico provocando eccitazione e provoca stati di ansia e confusione, irrequietezza, insonnia e, in casi estremi, stati psicotici, attacchi cardiaci e ictus. La Food and Drug Administration (FDA), sulla base dei dati scientifici relativi alla farmacologia dell’efedrina e agli effetti avversi riportati a seguito dell’assunzione di integratori dietetici a base di questa sostanza, ha deciso di proibire la commercializzazione di tutti i prodotti che contengono derivati dell’efedrina.

3.     Afrodisiaci

Esistono erbe e estratti vegetali con effetti psicoattivi cui sono attribuite proprietà afrodisiache, come nel caso della Damiana (Turnera aphrodisiaca Urban), una pianta originaria dell’America centrale e dell’Africa. Gli estratti della pianta sono utilizzati per la preparazione di composti naturali e afrodisiaci. Altre sostanze vegetali psicoattive cui sono attribuite proprietà afrodisiache sono l’Acanthea virilis, il Lepidium mejenii e la Corynenthe yohimbee.

4.     Eco-drug

Gli eco-drug sono sostanze psicoattive di origine naturale (vegetale), non sintetizzate in laboratorio. L’uso di questi prodotti fa riferimento all’antropologia e alla medicina tradizionale, riabilitando e riproponendo sostanze vegetali ricavate da erbe e piante al centro di riti e cerimonie di culture passate. Tuttavia l’utilizzo abituale di questi prodotti espone i consumatori a conseguenze psicofisiche. A esempio alla Salvia Divinorum, potente allucinogeno naturale la cui assunzione può provocare allucinazioni, distorsioni delle percezioni sensoriali, di spazio e tempo, perdita di contatto con la realtà, depressione e fenomeni di dissociazione, è stata inserita, recentemente, nelle tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope di cui al DPR 309/90.

 

Inoltre, si possono suddividere anche in base agli effetti psicofisici che producono e in base ai componenti organici che stimolano e attivano. Quindi, si individuano le seguenti categorie:

  • I nootropi colinergici sono composti chimici che esercitano sull’organismo effetti simili a quelli esercitati dall’acetilcolina; in base al loro meccanismo d’azione si distinguono colinergici ad azione diretta, interagenti con i recettori di acetilcolina, e colinergici ad azione indiretta; più noti come anticolinesterasici, questi colinergici agiscono impedendo la distruzione dell’acetilcolina tramite il blocco delle colinesterasi. Fra i colinergici più noti ricordiamo l’acetil-L-carnitina, la colina, il piracetam e il pramiracetam.
  • I nootropi dopaminergici sono sostanze che mimano l’azione della dopamina. Fra le sostanze nootrope appartenenti a questa categoria ricordiamo l’L-dopa, la fenilalanina e la tirosina.
  • I nootropi serotoninergici sono sostanze che mimano gli effetti del neurotrasmettitore serotonina. Per questo, molte di esse sono utilizzate nel trattamento della depressione; fra i nootropi più noti ricordiamo triptofano, 5-HTP e griffonia.

Le smart drug ad azione antidepressiva, ansiolitica, adattogena e stabilizzatrice dell’umore sono moltissime. Tra i nootropi più noti di questa categoria si ricordano il litio, la carbamazepina, il valproato di sodio e il gabapentin. Infine, fra le smart drug stimolanti, attivanti e toniche si ricordano la caffeina, la nicergolina, la nicotina, la cocaina e le anfetamine.

Gli effetti delle smart drugs

Gli effetti delle smart drug collaterali più frequenti sono: nausea, vomito, ansia, palpitazioni e in alcuni casi anche crisi epilettiche, episodi psicotici, sintomi da astinenza. Nonostante le informazioni in merito agli effetti farmacologici (tossicità, farmacocinetica, farmacodinamica) e alle conseguenze psicofisiche delle smart drug siano limitate, è ormai appurata la loro capacità di indurre dipendenza.

Nel dettaglio alcuni effetti specifici:

–       Cannabis sintetica (per esempio la “Spice”): panico e ansia, paranoia, difficoltà respiratorie, sudorazione, dolore toracico, allucinazioni, agitazione;

–       Catinoni sintetici (come il Metilone e i Sali da bagno/Ivory Wave/Mefedrone/MCAT): agitazione e psicosi, tachicardia, ipertensione, convulsioni. Ma anche danni al sistema nervoso centrale, alle vie respiratorie superiori e bronchiali, al sistema cardiovascolare e morte;

–       Fenetilamine (come PMMA, 2C Series, D-Series): allucinazioni gravi e ischemie, convulsioni e insufficienza epatica e renale, ipertermia e morte;

–       Fenciclidina (PCP): problemi neurologici, alterazioni della coscienza, disturbi psichiatrici e comportamenti violenti;

–       Piperazine (per esempio BZP, TFMPP, MBZP): convulsioni tossiche, acidosi respiratoria ipertermia rabdomiolisi. insufficienza renale, convulsioni e morte;

–       Khat: deficit dell’attenzione, euforia, aumento della temperatura, anoressia, tachicardia e aumento della pressione;

–       Ketamina: tachicardia, dolore addominale, vertigine; e poi danni alla vescica; ipertensione; edema polmonare; compromette lo stato di coscienza e del ricordo;

–       Salvia Divinorum: stati di psicosi duraturi;

–       Triptamine: irrequietezza, agitazione e dolori gastro-intestinali, tensione muscolare.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Anoressia nervosa, abuso sessuale nell’infanzia ed esiti della terapia cognitivo comportamentale intensiva 

Il ruolo dell’ abuso sessuale nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione è stato ampiamente studiato, portando spesso a risultati contrastanti. Per fare maggior chiarezza un’ équipe di professionisti ha deciso di valutare gli esiti a breve e lungo termine dei pazienti con anoressia nervosa (con e senza una storia riportata di abuso sessuale nell’infanzia), sottoposti a terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E).

 

Il ruolo dell’ abuso sessuale nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione

Il ruolo dell’ abuso sessuale come fattore di rischio nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione è stato ampiamente studiato negli anni, portando spesso a risultati contrastanti. Alcuni studi hanno mostrato come l’ abuso sessuale sia associato ad una più grave psicopatologia nei disturbi dell’alimentazione, altri invece hanno mostrato un legame tra la presenza di una storia di abuso sessuale e un aumento nella gravità di sintomi di ansia, di depressione e sintomi ossessivo-compulsivi. Di recente sono state pubblicate delle revisioni sistematiche che hanno suggerito che l’ abuso sessuale non sia tanto un fattore di rischio specifico per i disturbi dell’alimentazione, quanto un fattore di rischio potenziale per l’insorgere di malattie psichiatriche in generale.

Un’altra questione non ancora chiara, è quale sia il rapporto tra la presenza di una storia di abuso sessuale precedente all’esordio del disturbo dell’alimentazione e l’esito del trattamento. Infatti, negli studi condotti fino ad ora, sono stati applicati differenti approcci e trattamenti e considerate diverse variabili di esito. Tutto ciò ha portato a risultati contrastanti ed ha impedito di trarre conclusioni solide. Inoltre, resta da chiarire se sia necessario affrontare specificatamente l’ abuso sessuale durante il trattamento del disturbo dell’alimentazione oppure no. Infatti, mentre in alcuni studi era stato dimostrato come una pregressa storia di abuso sessuale avesse influenzato l’esito del trattamento in pazienti con diagnosi di disturbo dell’alimentazione, in altri non è stata trovata alcuna associazione tra queste due variabili.

Anoressia nervosa e storie di abuso sessuale: gli effetti della CBT-E

Per cercare di dare maggior chiarezza su questi aspetti, un gruppo di clinici e ricercatori italiani dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale di Villa Garda ha deciso di valutare gli esiti a breve e lungo termine dei pazienti con anoressia nervosa con e senza una storia riportata di abuso sessuale nell’infanzia. Entrambi i gruppi di pazienti sono stati trattati con la versione ospedaliera della terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E), un trattamento che si concentra sui meccanismi che mantengono la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, ma che non si dedica ad affrontare direttamente l’ abuso sessuale.

La terapia prevedeva un periodo di 13 settimane di ricovero seguito da 7 settimane di day-hospital. Per tutti i pazienti sono stati registrati l’indice di massa corporea (BMI) e i punteggi ricavati dall’intervista Eating Disorder Examination (EDE), dal Brief Symptom Inventory (BSI) e dal Work and Social Adjustment Scale (WSAS) prima e dopo il trattamento e nei follow-up a 6 e 12 mesi dalla fine del ricovero.

Sono stati reclutati in totale 81 pazienti: 20 (24,7%) hanno riportato di aver subìto abusi sessuali nell’infanzia prima dell’insorgenza dell’ anoressia nervosa, mentre 61 (75,3%) non hanno riportato alcuna storia di abuso. Per valutare la storia di abuso sessuale che era avvenuto prima dell’insorgere del disturbo alimentare è stata utilizzata un’intervista sviluppata da Welch e Fairburn (1994). Per “abuso sessuale” è stato considerato qualsiasi tipo di esperienza sessuale non consensuale, che implicasse o un contatto fisico diretto, o l’aver subìto un’esposizione indecente, o l’essere stato toccato/stato costretto a toccare l’altra persona in qualsiasi modo sessuale. Quando i pazienti riferivano di aver vissuto almeno una di queste esperienze prima dell’inizio del loro disturbo dell’alimentazione e prima dell’età di 18 anni, si riteneva che avessero sperimentato un abuso sessuale nell’infanzia.

In questo studio sono stati confermati i buoni esiti del trattamento ospedaliero già dimostrati in studi precedenti. Inoltre, dai risultati non sono emerse differenze tra i due gruppi in termini di incremento dell’indice di massa corporea, della psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione (EDE), di quella generale (BSI) e della funzionalità lavorativa e sociale (WSAS), dimostrando che non c’è alcuna associazione significativa tra una storia pregressa di abuso sessuale e l’esito del trattamento.

Tali risultati hanno importanti implicazioni cliniche: in primo luogo, si è visto che i pazienti con diagnosi di anoressia nervosa con una storia riportata di abuso sessuale traggono beneficio dal trattamento specifico per il disturbo dell’alimentazione. Inoltre, il fatto di aver subìto un abuso sessuale nell’infanzia sembra non interferire con la CBT-E ospedaliera. Queste conclusioni confermano da un lato l’importanza di riconoscere la presenza di una storia di abuso e delle sue conseguenze, dall’altro dimostrano anche che non è necessario affrontare direttamente questo aspetto durante il trattamento per il disturbo alimentare. Dati tali risultati, sarebbe interessante in futuro valutare l’impatto di altri tipi di abuso sui trattamenti validati per i disturbi dell’alimentazione e prendere in considerazione anche pazienti con altre diagnosi di disturbi alimentari.

Come le temperature estreme influiscono sugli arbitri e sui giocatori di calcio durante le partite

Negli ultimi tempi la ricerca ha fatto molti progressi nell’ambito dello studio dell’ adattamento psicofisiologico dell’organismo umano alle condizioni ambientali più estreme. L’attività fisica, svolta all’aperto, deve adattarsi alle varie temperature e l’ adattamento psicofisiologico non deve inficiare la capacità di decidere.

 

Negli ultimi tempi la ricerca ha fatto molti progressi nell’ambito dello studio dell’ adattamento psicofisiologico dell’organismo umano alle condizioni ambientali più estreme. L’attività fisica, svolta all’aperto, deve adattarsi alle varie temperature e questo adattamento non deve inficiare la capacità di decidere. Questo è particolarmente importante nel gioco del calcio, nel quale i giocatori sono chiamati a disputare partite e i direttori di gara ad arbitrarle, che si svolgono con temperature estreme. Queste condizioni climatiche incidono negativamente sulle performance fisiche e cognitive degli atleti e degli arbitri. Il decremeto è probabilmente imputabile al fatto che avvengono dei processi fisiologici di adattamento corporeo che hanno delle ripercussioni negative sulle prestazioni, inclusa la capacità decisionale.

Keywords: temperature estreme, adattamento, giocatori, arbitri, performance cognitive

 

Temperature estreme e adattamento psicofisiologico

Negli ultimi tempi la ricerca ha fatto molti progressi nell’ambito dello studio dell’ adattamento psicofisiologico dell’organismo umano alle condizioni ambientali più estreme. L’attività fisica, svolta all’aperto, deve adattarsi alle varie temperature e l’ adattamento psicofisiologico non deve inficiare la capacità di decidere (Gaoua e al., 2017), come avviene, per esempio, nei soggetti che lavorano nell’edilizia, nella polizia, nel corpo dei vigili del fuoco, nell’esercito, nell’emergenza medica e nello sport agonistico. Tali professionalità sono spesso costrette ad esercitare i loro compiti in condizioni ambientali estreme e dalla loro capacità di adattamento psicofisiologico dipende il prendere la decisione giusta, che si rivela come la più proficua in quel momento (Gaoua e al., 2017).

L’attività fisica svolta in condizioni estreme determina una condizione di stress sia fisiologico che psicologico (Racinais e al., 2016).

Infatti, l’esposizione alle temperature estreme ha un notevole impatto sia sulle performance fisiche che su quelle cognitive (Racinais e al., 2008). Per esempio, le temperature molto basse diminuiscono la memoria e l’attenzione sostenuta (Gaoua e al., 2011). Inoltre, le variazioni estreme della temperatura corporea inficiano le performance cognitive più complesse (Gaoua e al., 2012). In aggiunta, le alte temperature incrementano l’impulsività e, quindi, ipotecano negativamente la capacità di decidere razionalmente (Gaoua e al., 2011).

Influenza delle temperature estreme sui giocatori e gli arbitri di calcio

Da questo punto di vista, i giocatori di calcio sono stati quelli finora più analizzati. A livello europeo, le squadre di calcio sono impegnate in competizioni che sono disputate con temperature che hanno un range molto vasto. Si va da una media di -5° dei campi di calcio della Norvegia ad oltre 30° di quelli della Spagna (Taylor e al., 2014).

Inoltre, per facilitare la partecipazione di tutte le squadre, i tornei internazionali di calcio, come ad esempio la coppa del mondo, sono disputati nei mesi estivi, durante i quali le temperature subiscono un notevole incremento e, soprattutto, aumenta il tasso di umidità. In questi match, disputati in condizioni climatiche particolari, i giocatori modificano le loro performance sportive con la finalità di mantenere comunque alto il gioco e di risentirne il meno possibile a livello fisico (Racinais e al., 2012). Anche in condizioni ambientali estreme è richiesta al calciatore una lucidità mentale che gli possa consentire di seguire le varie azioni di gioco e, soprattutto, di prendere le giuste decisioni dal punto di vista tattico (Catteral e al., 1993).

Lo stesso discorso vale per gli arbitri del gioco del calcio: infatti, essi, come i giocatori, devono correre nei diversi settori del campo e seguire attentamente le varie azioni di gioco per scoprire le eventuali infrazioni (Weston e al., 2011).

Come il giocatore, l’arbitro copre, durante i novanta minuti della partita, una distanza che va dai 7,5 agli 11,5 Km (Costa e al., 2013). Inoltre, gli arbitri che dirigono le partite di calcio di alto livello (tornei nazionali della massima divisione, tornei continentali e mondiali) trascorrono il 42% del tempo del match a correre con un’elevata intensità, che va dai 18 ai 24 Km orari (Castagna e al., 2007).

In aggiunta a questo intenso lavoro fisico, all’arbitro è richiesta un’elevata capacità cognitiva che si estrinseca nel prendere le decisioni durante la partita. Secondo Helsen e Bultynch (2004) ogni arbitro decide con una media di 137 decisioni per partita, ovvero decide fino 3-4 volte per ogni minuto di gioco. Queste decisioni il più delle volte si rivelano corrette, ma possono anche essere sbagliate.

Una ricerca di Van Meerbeck e al. (1987) rivela che la percentuale di errori decisionali può andare dall’11 al 35% delle decisioni prese. Gli errori fatti dall’arbitro, secondo la ricerca menzionata, sono egualmente distribuiti nel corso della partita, per cui si può ipotizzare che siano indipendenti dalla fatica fisica provata dal direttore di gara, ma imputabili presumibilmente ad altri fattori. Le decisioni che l’arbitro deve prendere sono prevalentemente influenzate dall’accuratezza delle informazioni che egli è in grado di ricevere nel corso della gara. L’esperienza incrementa la percentuale di informazioni esatte che egli è in grado di trarre dalle azioni di gioco (de Oliveira e al., 2014).

Frequentemente la stanchezza fisica provata e le pressioni psicologiche ricevute possono indurre l’arbitro a non raggiungere tempestivamente il luogo del campo dove si svolge un azione di gioco e questo può determinare una maggiore vulnerabilità dal punto di vista decisionale (de Oliveira e al., 2014).

Secondo una ricerca di Pilcher e al. (2002), la percentuale di decisioni errate prese dall’arbitro aumenta quando la partita viene disputata in condizioni climatiche di freddo (5°) rispetto a quando è disputata in un clima temperato (22,5°).

In ultima analisi, le temperature estreme incidono negativamente sulle performance fisiche e cognitive dei giocatori e degli arbitri. Questo decremeto è probabilmente imputabile al fatto che avvengono dei processi di adattamento psicofisiologico e corporeo che hanno delle ripercussioni negative sulle prestazioni, inclusa la capacità decisionale (Gaoua e al., 2012).

Un’analisi critica del processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari

Al primo Aprile sono passati due anni, e sempre due anni ci erano voluti perché la legge che sanciva la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) trovasse effettivamente attuazione e ancora due anni ci sono voluti perché tale questione, per lungo tempo agli onori della cronaca, venisse fondamentalmente dimenticata. 

Raffaele Polin – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Per qualche tempo perfino nei telegiornali in prima serata capitava di vedere un servizio sulla “chiusura degli OPG” e di sentir riecheggiare le parole di Giorgio Napolitano che li definiva “estremo orrore”.

Poi l’attuazione della legge 81: gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiudono, ogni regione deve impegnarsi a prendersi carico dei propri pazienti psichiatrico-forensi, e così inizia la corsa alla costruzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), con le fisiologiche differenze regionali in termini di tempistiche ed efficienza. Qualche protesta da parte dei movimenti (Antigone e StopOPG su tutti…) che da anni chiedevano l’abolizione dei manicomi giudiziari ma che non si ritenevano soddisfatti della riforma, e poi l’oblio. Di come il cambiamento sia avvenuto, di come si sia gestita la costruzione prima e la messa a regime poi delle REMS, di come molti pazienti psichiatrico-forensi non fossero compresi nel disegno di riforma e siano quindi di fatto rimasti in carcere… di tutto questo si è saputo molto poco.

Avendo vissuto dall’interno questa trasformazione storica (al tempo svolgevo il tirocinio universitario presso l’ Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia) ed essendo ormai passati due anni da tale momento, ho ritenuto interessante ripercorrere il cammino che ha portato alla chiusura e proporre qualche riflessione a riguardo.

Chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari: breve excursus storico

La riforma che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha un antecedente, ben più noto, studiato ed emulato in vari paesi d’Europa; una rivoluzione culturale quasi più che una semplice riforma. Una sfida che ha reso la psichiatria italiana famosa nel mondo, che rappresenta la manifestazione migliore dell’avanguardismo culturale di cui ogni tanto il nostro paese è capace. Una legge che sotto alcuni aspetti ha peccato di eccessiva ideologizzazione, che per l’impeto e la fretta di essere portata a compimento ha dimenticato di considerare alcune delle conseguenze che la chiusura dei manicomi avrebbe avuto sulla vita dei pazienti e sulla società, che può essere ampiamente criticata nel caso se ne considerino gli aspetti meramente pratici, ma di cui non può essere messa in discussione l’originalità e la profondità intellettuale che ne ha fondato le premesse.

Una legge che, nonostante lui stesso ne abbia preso le distanze in alcuni momenti, ha un nome e un cognome: Franco Basaglia. La Legge Basaglia, o più propriamente Legge 180, fu approvata in parlamento il 13 Maggio nel 1978, in fretta e in anticipo rispetto alla complessiva legge sanitaria che istituì il Sistema Sanitario Nazionale e che vedrà la luce alla fine dello stesso anno. Dal punto di vista legislativo il passaggio era netto, dall’obiettivo di cura-custodia della legge che risaliva al 1904 alla negazione dell’equivalenza malattia mentale-pericolosità sociale (Basaglia, 1968).

Al contrario della grande rivoluzione che riguardava i manicomi, l’effetto sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari fu completamente assente. Essendo strutture controllate dal Ministero di Grazia e Giustizia e non da quello della Sanità come i manicomi civili, si ritrovarono in un vulnus che può essere letto, a seconda delle interpretazioni, come grave lacuna, opportunismo politico, incapacità di affrontare un problema complesso, calcolata dimenticanza o semplice contingenza. Fatto sta che la riforma riguardava la sanità, non la giustizia. Fondamentalmente si è compiuta una scissione che è stata definito un “paradosso italiano”, ovvero una situazione in cui per decenni hanno convissuto uno dei sistemi di assistenza psichiatrica territoriale tra i più radicali e avanzati del panorama internazionale e un sistema psichiatrico-forense di impianto ottocentesco (Andreoli, 2002).

Misure di sicurezza e pericolosità sociale

Si è già anticipato che le importanti conquiste fatte grazie alla Legge 180 non hanno toccato se non molto tangenzialmente la realtà della psichiatria forense. Il punto è stato proprio che la vetta più alta toccata da Basaglia, convincere il mondo che il matto non è di per sé anche pericoloso, era effettivamente di molto più difficile riuscita nel momento in cui l’oggetto del discorso diventava proprio il “matto criminale”. E infatti la pericolosità sociale è a tutt’oggi il perno intorno a cui ruota la perizia e quindi il destino di un autore di reato riconosciuto infermo/seminfermo di mente. Prima di andare a vedere meglio come siano andate le cose credo quindi sia necessario fare un po’ di chiarezza sulle diverse posizioni giuridiche che ogni autore di reato può assumere, e in particolare spendere due parole sul costrutto di Misura di Sicurezza; è infatti sulla base di questo statuto, che a sua volta poggia sul concetto di pericolosità sociale, che si può distinguere ad esempio tra “internati” e “detenuti” e quindi comprendere da chi sarà composta la popolazione che, una volta fuoriuscita dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, andrà ad abitare le REMS.

ll sito del Ministero di Giustizia recita così:

Le misure di sicurezza sono sanzioni che si applicano nei confronti di autori di reato considerati socialmente pericolosi allo scopo di prevenirne il pericolo di recidiva. Si distinguono dalla pena in quanto:

  • scaturiscono da un giudizio di pericolosità e non di responsabilità – infatti si applicano anche ad autori di reato non imputabili – e di probabilità di recidiva futura.
  • non hanno funzione retributiva, ma solo una funzione rieducativa del reo.

Queste misure sono caratterizzate dall’indeterminatezza del loro termine in quanto legate alla prognosi di pericolosità

È fin da subito evidente come il problema sia inestricabilmente legato al concetto stesso di pericolosità sociale. Sulla pericolosità sociale sono state spese tante parole, sono sorti dibattiti accesissimi, e diversi autorevoli psichiatri e illustri uomini di legge si sono impegnati per un suo superamento, senza però mai riuscire a proporre un’alternativa soddisfacente. La mancata revisione del codice penale sull’applicazione delle misure di sicurezza, che rimangono competenza dell’autorità giudiziaria sebbene sia il personale medico a svolgerle nella loro pragmatica, evidenzia la confusione che la legge 81 non è riuscita a risolvere (Zanalda, Mencacci, 2013). Riassumendo al massimo, si possono individuare almeno due aspetti della pericolosità sociale macroscopicamente criticabili se non apertamente inaccettabili. Innanzitutto il fatto che non sia possibile produrre dati empiricamente e scientificamente solidi per certificare che un soggetto in futuro commetterà di nuovo reato, la valutazione di pericolosità sociale è in larga parte soggettiva e arbitraria. Le parole di Ferracuti in questo senso sono illuminanti:

La previsione di recidiva, ossia il giudizio di pericolosità sociale, viene ad essere fondato su elementi quali la personalità del reo, la natura del crimine, le modalità dello stesso, la gravità, progressione e consapevolezza di malattia. Questi parametri, di per sé, hanno scarso riscontro scientifico rispetto ad una possibilità di recidiva, che dovrebbe oltretutto essere previsione di recidiva specifica del fatto in esame. Ovviamente uno schizofrenico paranoide con personalità pre-morbosa di tipo antisociale è un soggetto che ha notevoli possibilità di essere valutato come socialmente pericoloso; tuttavia la valutazione dovrebbe essere effettuata solo sulla sua patologia mentale che ha dato luogo alla non imputabilità. Nel momento in cui si utilizza anche un criterio personologico si apre la strada a valutazioni che possono essere basate su stereotipi e pregiudizi. Per la predizione di comportamenti a lungo termine fattori attuariali e non certo psicopatologici hanno molte più probabilità di successo di previsione. (CriManScri, 2015)

L’altro tema per cui la pericolosità sociale è stata aspramente criticata è lo spazio che lascia alla possibilità che si verifichi quella situazione che nel tempo è stata definita “ergastolo bianco”. Su questa problematica hanno posto l’accento ampiamente tutti quei movimenti che reclamavano a gran voce la chiusura dei manicomi criminali. Per una più approfondita trattazione del tema rimando all’ormai celebre documentario-manifesto che Francesco Cordio ha realizzato per conto della Commissione d’inchiesta condotta dal Sen. Marino “Ergastolo bianco-O.P.G., dove vive l’uomo”. Doveroso sottolineare come con la legge 81 (la legge con cui sono stati chiusi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari) sia stata introdotta un’importante modifica stabilendo che “le misure di sicurezza detentive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”.

Ad ogni modo, dopo tanti dibattiti al riguardo, anche dopo la legge 81, è ancora la pericolosità sociale a determinare il futuro dei pazienti psichiatrico forensi, che diventano “internati” proprio quando in sede di processo il magistrato abbia decretato che il rischio di recidiva è consistente, che qualsiasi altra misura non sia adeguata a far fronte alla pericolosità del soggetto e che quindi si prevede il ricovero in REMS.

Se ciò non avviene e non si attribuisce quindi una misura di sicurezza al reo, il soggetto intraprende l’iter detentivo normale ed è per questo chiamato “detenuto”, senza togliere il fatto che possa comunque presentare disturbi psichiatrici. I detenuti possono essere distinti in tre macrocategorie: coloro la cui malattia mentale è sopraggiunta in carcere (art. 148 c.p.), i minorati psichici (art. 111 DPR 230/2000) e coloro per i quali l’infermita psichica debba essere accertata per un periodo di osservazione non superiore ai 30 giorni (art. 112 DPR 230/2000) (Ferracuti, Biondi, 2015).

La nascita della legge 81 e la nascita delle REMS

L’inizio del processo di deistituzionalizzazione prende il via ufficialmente col Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 1 Aprile 2008. Esso è governato da un principio, quello di territorialità, che ne influenza fortemente la direzione e che in particolare produce due importanti effetti (Cimino, 2014): la creazione delle “Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere”  (i cosiddetti “repartini”, sezioni di istituti penitenziari normali appositamente dedicati all’accoglienza di categorie di detenuti con problematiche di natura psichiatrica) e la differenziazione delle Misure di Sicurezza (tra misure detentive e non detentive). L’obiettivo fondamentalmente è quindi quello di iniziare a svuotare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e la modalità, in linea con la prima grande riforma psichiatrica di origine basagliana, è quella di riportare il maggior numero possibile di pazienti sul territorio; o nei casi in cui ciò non sia possibile nelle carceri ordinarie.

Nel frattempo le regioni si assumono la responsabilità della gestione sanitaria degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e cominciano a prevedere una prima distribuzione degli pazienti in modo che ogni istituto sia la sede per ricoveri di internati delle regioni limitrofe, così da stabilire rapporti di collaborazione preliminari per ulteriori fasi di avvicinamento degli soggetti alle realtà geografiche di provenienza.

È in questo scenario che irrompe l’inchiesta parlamentare condotta da Ignazio Marino e che susciterà tanto scalpore trasformando una situazione ai più completamente sconosciuta in un caso mediatico di una certa rilevanza. Nel 2011, nell’ambito di una inchiesta sul funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale, una commissione parlamentare visita i sei manicomi criminali presenti sul territorio nazionale mettendo in luce tutte le enormi criticità che li contraddistinguono. Non è di sicuro mia intenzione criticare l’inchiesta condotta né tantomeno il cambiamento, doveroso, e il processo di deistituzionalizzazione, sacrosanto; mi sembra altresì corretto indurre una riflessione sulla strumentalizzazione politica dell’esposizione pubblica che tale caso ha finito per assumere.

Così, sotto la pressione di una situazione che ogni giorno di più diventava politicamente imbarazzante e anzi prometteva sempiterna gloria a chiunque fosse riuscito a liberarsi di quell’ “estremo orrore” per sempre, si vara una legge “Disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari” con la quale si stabilisce un’apodittica data di chiusura, il 1 Febbraio 2013. In realtà i punti oscuri rimasti irrisolti, e senza i quali pensare a un’effettiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari diventa difficile, sono diversi e piuttosto strutturali e il risultato è che la data di chiusura verrà posposta per ben due volte; nel Marzo 2013 si differisce una prima volta la data al 1 aprile 2014, e successivamente di nuovo al 1 Aprile 2015: si era fissata una scadenza decisamente troppo ravvicinata.

Poco più di due anni fa quindi la legge 81 trova finalmente attuazione, e coloro che hanno una misura di sicurezza detentiva devono uscire dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed essere trasferiti nella REMS della Regione di competenza. A regime le REMS saranno trenta, per un totale di circa seicento posti disponibili, e si tratta in tutti i casi di strutture residenziali socio-sanitarie di piccole dimensioni; l’intenzione è stata quella di creare piccole residenze il cui obiettivo principale fosse quello di curare e non di recludere o punire. Il direttore è un medico psichiatra e l’equipe di lavoro è composta da personale di esclusiva pertinenza sanitaria e anche la costruzione e gestione delle strutture è in mano al Sistema Sanitario Nazionale. Per ogni paziente internato è definito, entro 45 giorni dal suo ingresso, un Progetto Terapeutico-Riabilitativo Personalizzato (PTRI) che deve essere controllato e aggiornato periodicamente. Le intenzioni sono ottime, e si può difficilmente trovarsi in disaccordo col fatto che la nuova legge, “oltre gli interventi strutturali, preveda attività volte progressivamente a incrementare la realizzazione dei percorsi terapeutico-riabilitativi, definendo prioritariamente tempi certi e impegni precisi per la dimissione di tutte le persone internate per le quali l’autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza della pericolosità sociale, con l’obbligo per le Aziende Sanitarie Locali di presa in carico all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi individuali (PTRI) che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento sociale”. (Decreto Legge 25 Marzo 2013, n. 24)

Il problema è che la normativa che vincola la maggior parte dei fondi sulla realizzazione delle strutture non ha individuato specifiche risorse per il potenziamento dei DSM, sui quali ricade la maggior parte dell’onere di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Inoltre recentemente è stato approvato in Senato con il voto di fiducia al Governo Gentiloni un nuovo decreto legge sulla giustizia che rischia di vanificare gran parte del lavoro fatto in questi anni: di fatto si stabilisce che nelle REMS non andranno solo coloro per i quali è stata accertata l’infermità mentale al momento del reato, ma anche coloro per i quali l’infermità sia sopraggiunta in carcere (i “148”) e quelli in osservazione. Usando le parole di Marino: “con questo decreto legge si torna di fatto alla vecchia logica in cui tutti i rei con problemi di disturbi mentali finiranno nelle REMS, che diventeranno rapidamente sovraffollate e ingestibili; ovvero si tornerà ai vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari. L’auspicio è che alla Camera e in un sussulto di responsabilità modifichino quanto fatto al Senato”. (Marino, 2017).

Considerazioni conclusive:

Personalmente ritengo che qualunque riforma, a maggior ragione se di tale portata, darà sempre spazio a polemiche e critiche, ci sarà sempre qualche aspetto che poteva essere affrontato meglio o che qualcuno avrebbe portato avanti in maniera diversa. Davanti a un tale cambiamento è evidente che non tutti potranno essere uniti nell’essere soddisfatti senza riserva alcuna di come esso sia avvenuto e degli effetti che produrrà. Anche perché, se è sempre vero che demolire è più facile che costruire, viviamo in un momento storico in cui la pars destruens affascina l’opinione pubblica molto più della pars costruens. Vorrei quindi provare a non soffermarmi sulle pur numerose e legittime critiche, “situazionali” mi verrebbe da dire, che possono essere mosse riguardo al processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e limitarmi a proporre una considerazione di ordine generale che mette in luce quello che a parer mio è stato un errore strutturale che ha influenzato negativamente tutto il processo.

Ribadisco, a costo di risultare ripetitivo, che ritengo l’inchiesta svolta dalla commissione parlamentare un evento straordinario, che ha dato alla psichiatria forense uno scossone talmente violento da non poter essere ignorato fornendo così l’input necessario a un cambiamento di cui non si poteva più fare a meno; ha sbattuto in faccia a tutti noi gli orrori di cui gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari si erano macchiati e ci ha resi consapevoli del fatto che fosse impensabile andare avanti in quella direzione. Proprio per questo motivo trovo sia un peccato che tale denuncia non abbia dato vita a un dialogo costruttivo e maturo ma si sia presto trasformata in una guerra ideologica tra vecchio ordinamento e nuovo corso, con entrambi gli schieramenti arroccati a sostenere rigidamente la versione più radicale e fanatica di entrambe le prospettive (“dopo due mesi di Rems scapperà il primo morto e capiranno perché esistevano gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la contenzione” – “No opg! No rems! No psichiatria!”). Lo schierarsi aprioristicamente “contro” tutto ciò che ricordava lontanamente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non ha permesso di discernere criticamente il marcio da ciò che invece poteva rappresentare una risorsa, e così si è buttato via tutto indistintamente.

È un peccato ad esempio che tutti coloro che hanno prestato servizio per anni nei servizi di psichiatria forense non siano stati minimamente interpellati in fase di dismissione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e costruzione delle REMS. Possibile che gli unici ad aver avuto a che fare con questa categoria così particolare di pazienti negli ultimi 30 anni non siano stati interrogati sulle caratteristiche che secondo loro doveva avere la struttura che li avrebbe ospitati e in generale il processo di cura che li avrebbe visti coinvolti? o riguardo difficoltà che erano state riscontrate e su come sarebbe stato possibile secondo loro superarle sfruttando il cambiamento in atto? Da un momento all’altro è partita la caccia alle streghe: chiunque avesse lavorato in un Ospedali Psichiatrici Giudiziari era colluso con un sistema che per anni aveva torturato i pazienti, e qualunque preoccupazione per la sicurezza (tema che non può non essere posto nel momento in cui si sta parlando di soggetti autori di reato…) era vista come sadico tentativo di coercizione; la psichiatria stessa veniva fatta convergere, quasi fosse assimilabile ad un Treno ad Alta Velocità, in quell’insieme di elementi che negli ultimi anni i movimenti “NO” hanno combattuto.

Infine ci tengo quantomeno ad abbozzare e mettere sul tavolo un discorso che però merita delle riflessioni ulteriori una trattazione a parte, quello sulle Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere. Entro il 30 Giugno 2012 infatti in ciascuna regione è stata resa obbligatoria per legge l’attivazione, in almeno uno degli Istituti Penitenziari del proprio territorio, di una specifica sezione per la tutela intramuraria della salute mentale delle persone ivi ristrette. Queste articolazioni dovrebbero concorrere operativamente al superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, poiché garantiscono l’espletamento negli Istituti ordinari delle osservazioni per l’accertamento delle infermità psichiche e previene l’invio in Ospedali Psichiatrici Giudiziari o in CCC nei casi di persone con infermità psichica sopravvenuta nel corso della misura detentiva o condannate a pena diminuita per vizio parziale di mente (fondamentalmente di tutti i detenuti…). Uso volontariamente i verbi al condizionale perché in realtà la realizzazione di tali sezioni speciali è ancora solo un utopia in molte regioni italiane.

Personalmente sono convinto che se si devono trovare delle problematiche e muovere delle critiche al processo di deistituzionalizzazione nel suo complesso, allora è proprio a tali Articolazioni che bisogna guardare. Mentre la situazione per il paziente internato è cambiata radicalmente con la riforma, per i detenuti la questione è rimasta fondamentalmente invariata; e il confine che separa una situazione dall’altra, se si considera la questione da una prospettiva psicopatologica, è spesso piuttosto labile.

Di nuovo, più di 35 anni dopo la legge Basaglia che lasciò fuori i “folli rei” dal disegno di riforma, si ha l’impressione che un problema piuttosto evidente sia stato (volontariamente?) dimenticato per manifesta incapacità ad affrontarlo.

Pensieri e azioni: uno studio rivela nuovi dettagli sulla loro relazione nel disturbo ossessivo compulsivo

Gli autori di tale studio si propongono di indagare la relazione di diversi meccanismi di funzionamento cognitivo, come l’elaborazione di informazioni e l’uso di queste per la pianificazione e il controllo delle proprie azioni. In altri termini, l’obiettivo è studiare il processo di decision-making per comprendere se le credenze e le informazioni provenienti dall’ambiente, dove si verificano continui e improvvisi cambiamenti e il controllo delle proprie azioni siano accessibili ed elaborate in maniera parallela o indipendente fra loro, sia nei soggetti normali che in quelli con DOC.

 

La computational psychiatry: un nuovo campo interdisciplinare

Di recente, nasce un nuovo campo interdisciplinare su cui poter fare affidamento: la computational psychiatry, unione delle conoscenze in ambito psichiatrico, informatico e ingegneristico. L’obiettivo che essa si pone è quello di conoscere e gestire i diversi livelli di complessità e le tipologie di dati multiformi che interessano la mente umana.

Essa consta di due approcci complementari: il primo basato sui dati, “data driven”; il secondo basato sulla teoria, “theory driven” (Maia, 2015). L’approccio data-driven applica il metodo del machine-learning per l’elaborazione di una grande mole di dati per ottimizzare e riorganizzare lo studio delle patologie, predire o migliorare il trattamento. L’approccio theory-driven usa modelli che provano a verificare delle ipotesi, con l’obiettivo di esplicitare e approfondire a più livelli di analisi le tipologie di meccanismi sottostanti.

La computational psychiatry per lo studio del disturbo ossessivo compulsivo

A tal proposito vi è un nuovo studio (Vaghi et al. 2017) che si è avvalso della computational psychiatry per osservare alcuni fenomeni sottostanti il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Negli anni si sono sviluppati diversi studi sulle origini e gli sviluppi del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Alcuni studiosi ritengono che una possibile origine del DOC derivi da forme di comportamenti specie-specifici non più regolati dai normali meccanismi di controllo a causa di una disfunzione cerebrale (Wise & Rapaport, 1988), altri suppongono che i comportamenti legati a tale disturbo siano delle evoluzioni patologiche di una naturale tendenza comportamentale a sviluppare e praticare rituali sociali (Fiske & Haslam, 1997).

Gli autori di tale studio, invece, si propongono di indagare la relazione di diversi meccanismi di funzionamento cognitivo, come l’elaborazione di informazioni e l’uso di queste per la pianificazione e il controllo delle proprie azioni. In altri termini, l’obiettivo è studiare il processo di decision-making per comprendere se le credenze e le informazioni provenienti dall’ambiente, dove si verificano continui e improvvisi cambiamenti e il controllo delle proprie azioni siano accessibili ed elaborate in maniera parallela o indipendente fra loro, sia nei soggetti normali che in quelli con DOC.

Lo strumento di cui si sono avvalsi i ricercatori è un modello matematico computerizzato che riesce a prevedere l’andamento del gioco e che, al contempo mostra sia le procedure messe in atto durante il gioco dai partecipanti sia un risultato statistico di come le variabili si possono correlare fra loro.

In merito alle ipotesi, se le credenze e informazioni sull’ambiente implicano un comportamento di controllo delle proprie azioni, dovrebbe essere impossibile separare le prime dalle seconde; se, invece, le credenze fossero processate in maniera indipendente, queste potrebbero essere utilizzate sia per guidare le azioni sia per indicare le tipologie e i livelli di credenze che si possiedono, definendo questa forma di funzionamento cognitivo come architettura “parallela”. Da quest’ultimo concetto emerge che in tale studio, oltre al particolare interesse clinico, vi è anche un interesse ad individuare architetture cognitive alternative (Vaghi et al. 2017).

I ricercatori hanno chiesto a due gruppi, il primo composto da soggetti con DOC e il secondo da soggetti normali, di effettuare diverse prove in un gioco computerizzato che richiedeva di catturare una pallina proveniente dal centro di un cerchio, per riprodurre un ambiente caratterizzato da continui e improvvisi cambiamenti.

Dall’osservazione di ciascuna prova si notava che i soggetti riuscivano ad incamerare l’informazione inerente l’andamento della pallina ma si notava, successivamente, una disgregazione nel rispondere a questa informazione visiva in maniera ottimale. In altre parole, i soggetti con DOC, nonostante acquisissero l’informazione visiva non riuscivano a monitorare un’azione preventiva al fine di catturare la pallina proveniente dal centro del cerchio (Vaghi et al. 2017).

I risultati emersi mostrano che il cervello elabora le informazioni indipendentemente dalla pianificazione delle azioni ma che, al contempo, le normali funzioni dipendono dalla relazione esistente fra i due.

Pare, quindi, che questo collegamento tra le informazioni provenienti dall’ambiente e le azioni sia in qualche modo interrotta all’interno delle persone con il DOC. Di conseguenza, ciò che loro fanno entra in conflitto con ciò che loro sanno. Questa informazione suggerisce che i comportamenti compulsivi siano una importante caratteristica piuttosto che una mera conseguenza delle ossessioni o un risultato di una credenza errata (Vaghi et al. 2017).

Batterer intervention programs: davvero efficaci nella lotta alla violenza domestica?

Da uno screening della letteratura recente (2010-2017), emergono evidenze empiriche controverse rispetto all’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica, o psicoeducativa, o di gestione del rischio su uomini maltrattanti. Sebbene siano state riscontrate evidenze rispetto alla riduzione della recidiva, stimata in termini di percentuali di riarresto, grazie all’intervento psicoterapeutico su uomini autori di violenza domestica, non ci sono risultati significativi a sostegno dei programmi sui maltrattanti nel ridurre la successiva vittimizzazione delle partner.

 

La violenza domestica e i quesiti sui programmi di intervento

La violenza all’interno della coppia (intimate partner violence, IPV) mina il benessere della vittima a livello mentale, fisico e sociale (Gracia, 2014). Secondo stime mondiali ad opera della World Health Organization, il 30% della popolazione femminile, su scala mondiale, è stata vittima di violenza domestica. Inoltre, 3/4 delle donne interessate ritengono che la violenza subita sia un fatto comune nel loro paese d’origine. Il dato corrobora l’ipotesi che le variabili contestuali portino le comunità locali a giustificare la violenza di genere, identificando la donna come colpevole ed istigatrice degli abusi e trattenendola dal cercare aiuto professionale o sporgere denuncia (Gracia, 2014). Secondo lo studio di Richards (2014), il 50% dei partner abusanti viene arrestato per violenza domestica entro 10 anni dalla prima incarcerazione.

La disinformazione, il disimpegno sociale e background culturali sfavorevoli, contribuiscono al radicamento sociale dell’IPV. Tuttavia, alcuni psicologi e sociologi considerano l’intervento incentrato sui maltrattanti stessi – Batterer Intervention Programs (BIPs)-, a confronto in una situazione gruppale, la chiave di volta al fine di contrastare la violenza domestica.

L’efficacia degli interventi rivolti ai maltrattanti

In tale ambito di ricerca e di intervento, tuttavia, è fondamentale porsi la seguente domanda: gli uomini abusanti all’interno della relazione di coppia possono davvero cambiare? E in tal caso, come? Quali sono i programmi di intervento, sui partner maltrattanti, più efficaci per contrastare la violenza domestica?

Il quesito è complesso e richiede di considerare il fenomeno multidimensionalmente, esaminando le principali evidenze statistiche presenti in letteratura ed esponendo le criticità ad oggi individuate all’interno della comunità scientifiche di riferimento.

Da uno screening della letteratura recente (2010-2017), emergono evidenze empiriche controverse rispetto all’efficacia di interventi di natura psicoterapeutica, o psicoeducativa, o di gestione del rischio su uomini maltrattanti. Sebbene siano state riscontrate evidenze rispetto alla riduzione della recidiva, stimata in termini di percentuali di riarresto, grazie all’intervento psicoterapeutico su uomini violenti (Hasisi, Shoham, Weisburd, Haviv, & Zelig, 2016), non ci sono risultati significativi a sostegno dei programmi sui maltrattanti nel ridurre la successiva vittimizzazione delle partner (Ellsberg, Arango, Morton, Gennari, Kiplesund, Contreras, & Watts, 2014). Tali interventi, secondo Ellsberg e collaboratori (2014), risultano infatti meno efficaci delle pratiche incentrate sulle donne vittime di violenza domestica.

Un altro problema rispetto alla stima dell’efficacia di programmi incentrati sui maltrattanti, è di tipo metodologico: nell’ambito della violenza domestica non esistono ancora linee guida internazionali e metodologie standardizzate per il monitoraggio e la valutazione dell’efficacia di interventi incentrati sugli uomini abusanti come destinatari diretti (Wojnicka, Scambor & Kraus, 2016; Lilley-Walker, Hester & Turner, 2016).

Inoltre, quantificare la riuscita di interventi psicoeducativi e psicoterapeutici, in termini unicamente di decrescita delle percentuali dei nuovi arresti, potrebbe essere fuorviante dal momento che reincarcerazione e recidiva non sono concettualmente e operazionalmente sovrapponibili. L’utilizzo di batterie di strumenti dedicati, è perciò essenziale per un assessment dei cambiamenti a livello comportamentale, emotivo e cognitivo al fine di comprendere l’effettivo cambiamento del maltrattante.

I test più comunemente usati, inclusi nel Toolkit dell’Unione Europea per la valutazione del cambiamento positivo negli interventi su maltrattanti sono self-report e interviste semistrutturate, come la Spousal Assoult Risk Assassment (Kropp et al., 2000), la Baratt Impulsiveness Scale ( Patton et al., 1995), la Toronto Alexityhmia Scale (Bagby et al., 1986), la Symptom Checklist-90-R (Derogatis, 1994). Questi strumenti possono essere sensibili a variabili culturali e di somministrazione dovute all’adattamento degli strumenti dalla lingua originale, o dare adito a bias di desiderabilità sociale e/o di abituazione dei soggetti agli item (qualora il programma preveda che la somministrazione sia ripetuta pre e post intervento). Alcuni test utilizzati internazionalmente per la valutazione del rischio di recidiva e comportamenti violenti, inoltre, come l’HKT-30, elaborato presso Università di Tilburg, non sono ancora stati validati su panorama italiano.

Un ulteriore fattore da considerare, per rispondere al quesito sull’efficacia di interventi incentrati sui maltrattanti, è legato al framework teorico da cui si osserva il fenomeno della violenza domestica: secondo Westmarland e Kelly (2016), l’operazionalizzazione eterogenea del costrutto influenza la concettualizzazione dell’efficacia stessa dell’intervento attuato. La prospettiva di orientamento femminista o modello Duluth (Pence & Paymar, 1993) spiega, ad esempio, la violenza domestica come derivato di modelli sociali patriarcali, suggerendo focus di intervento incentrati su variabili culturali, onde contrastare stereotipi di genere funzionali al radicamento della violenza domestica. Le prospettive neuropsicologica e delle tossicodipendenze, mirano invece a comprendere le cause soggettive alla base del fenomeno. Secondo lo studio di Carbajosa e collaboratori (2017), le differenze individuali predicono infatti la riuscita o meno del cambiamento del singolo maltrattante, che può essere classificato come responsivo o resistente all’intervento.

Per quanto riguarda le strategie di gestione del rischio di recidiva, Canada e Regno Unito hanno adattato la pratica dei Circles of Support And Accountability (COSA) non ancora praticata sul panorama italiano. Questa tipologia di intervento, basata sugli assunti della Social Club Theory (Sandri et al., 2016), implica l’inserimento dell’individuo in una rete sociale di volontari appositamente formati per affiancarlo in varie attività, favorendo il monitoraggio continuativo dei suoi comportamenti.

Gli uomini maltrattanti possono cambiare?

Conclusivamente, non esistono ad oggi dati sufficienti per asserire se gli individui maltrattanti possano cambiare e come si possa operazionalizzare e misurare tale cambiamento.

Da uno studio di Morrison (2017), consistente in una serie di interviste semi-strutturate a professionisti che lavorano nei BPS, Batterer Intervention Programs, sono emerse alcune aree tematiche utili a modellizzare interventi qualitativamente adeguati. In primo luogo, il gruppo di maltrattanti costituisce un catalizzatore di cambiamento in termini di confronto e condivisione. A livello di ampiezza, dallo studio di Morrison emerge che si riscontrano più facilmente gli esiti sperati, con gruppi piccoli, che non eccedano i quindici destinatari. La co-conduzione del gruppo, da parte di due facilitatori di sesso opposto, è descritta come un ulteriore elemento che favorisce l’efficacia dell’intervento, al fine di trasmettere ai maltrattanti la rappresentazione di interazioni uomo-donna non connotate da aggressività e violenza. I facilitatori, non possono improvvisare nella conduzione del gruppo di maltrattanti: sempre secondo i dati qualitativi di Morrison (2017), il personale deve essere qualificato tramite opportuni training di formazione dedicati al trattamento di individui maltrattanti dei quali poter fornire qualifiche in merito.

Infine, secondo Babcock e collaboratori (2016), un ulteriore problema inerente l’implementazione di interventi a contrasto della violenza domestica, in senso lato, è che una prospettiva eterocentrata, a livello di ricerca e intervento, rende difficile lo studio di interventi a favore del cambiamento con destinatari maltrattanti LGBT. L’eventualità di applicare tali interventi su maltrattanti omosessuali comporterebbe infatti una rinegoziazione del background teorico e culturale di partenza, di ridisegnare cioè il sedimentato concetto di violenza di coppia al di là di ruoli e stereotipi di genere.

Manuale di Psicologia generale dello sport (2017) – Recensione

Il manuale di psicologia generale dello sport, nasce dalla pluriennale esperienza di una docente impegnata tra Roma e Napoli, sia nella didattica che nella ricerca. Operando a favore di tanti studenti di Scienze Motorie, l’autrice ha voluto dare forma ad un volume capace di descrivere in maniera precisa e articolata la valenza dello sport in una cornice di stampo psicologico.

Margherita Sassi

 

Manuale di psicologia generale dello sport: un libro sullo stato dell’arte della psicologia dello sport

La psicologia dello sport è una disciplina relativamente giovane nel nostro Paese.

Il Manuale di psicologia generale dello sport scritto dalla prof.ssa Laura Mandolesi ed edito da Il Mulino, è un lavoro estremamente aggiornato, capace di considerare la complessità dello stato dell’arte e di fornire allo stesso tempo indicazioni puntuali e documentate.
Il manuale, nasce dalla pluriennale esperienza di una docente impegnata tra Roma e Napoli, sia nella didattica che nella ricerca. Operando a favore di tanti studenti di Scienze Motorie, l’autrice ha voluto dare forma ad un volume capace di descrivere in maniera precisa e articolata la valenza dello sport in una cornice di stampo psicologico.

Accanto alla presentazione delle principali teorie di riferimento, il manuale fornisce infatti suggerimenti operativi per le attività sul campo, prendendo in considerazione alunni, docenti, atleti e allenatori e finalizzando il progetto editoriale alla comprensione e alla realizzazione del benessere, sia dell’individuo che della collettività.

Che si parli di docenti o di allenatori, ciascuno, nello svolgere il proprio ruolo, necessita di una conoscenza scientifica, sia dei processi cerebrali legati all’azione che degli effetti del movimento sul benessere personale. E questo perché, indipendentemente dal tipo di attività, solo un’impostazione simile può offrire un valido supporto al naturale tentativo dell’individuo – alunno o atleta – di dare un senso a quello che accade, all’interno dell’ambiente in cui si muove.

Nel manuale di psicologia generale dello sport, l’autrice presta una cura meticolosa ai particolari, affrontando temi relativi sia all’età evolutiva che all’attività fisica adattata, e analogamente, dimostra una netta disponibilità nel tenere conto degli studenti di Scienze Motorie, offrendo indicazioni rassicuranti su come affrontare il lavoro del futuro, a partire dall’acquisizione di competenze multidisciplinari, ormai necessarie sul piano applicativo.

Il libro si occupa di questioni delicate e importanti legate al settore della salute e del movimento, compreso l’ingresso delle nuove tecnologie nel mondo dello sport e della ricerca.

Si tratta di argomenti a volte trascurati, ma che se ben compresi possono favorire importanti linee guida sia nel lavoro di prevenzione, attraverso l’informazione e la formazione, sia nella gestione di situazioni complesse, come possono essere quelle dell’eccellenza e della disabilità.

L’autrice sviscera con sincerità e competenza i fondamenti anatomo-fisiologici del sistema nervoso, delineando l’impostazione psicobiologica, che oltre a caratterizzare la prima parte del manuale basa la dissertazione sui processi cognitivi, attentamente contestualizzati nel panorama di riferimento. Nell’ultimo capitolo c’è anche spazio per focalizzare l’interesse su aspetti basilari e quindi di valore, quali la creatività, la sensibilità e la qualità in rapporto alla pratica sportiva; e così, nel trattare di benessere, di resilienza e di passione, è possibile rintracciare diversi spunti in base ai quali recuperare ed approfondire i fondamenti dello sport.

Nell’ambito di una corretta progressione didattica, l’autrice non solo frappone concetti chiave e nozioni scientifiche, ma riesce anche ad abbracciare una delle sfide contemporanee più ostiche, quella di promuovere una formazione altamente qualificata di chi si adopera nel settore motorio e sportivo.

La prospettiva di raggiungere obiettivi come quest’ultimo è quella che in effetti ha dato corpo al manuale, il primo nel suo genere su scala nazionale volto a rappresentare la complessità della sfida abbracciata.

LAURA MANDOLESI insegna Psicologia generale e dello sport nel corso di laurea triennale in Scienze Motorie e Neuroscienze dell’attività motoria nel corso di laurea magistrale in Scienze Motorie per la Prevenzione e il Benessere dell’Università degli Studi di Napoli «Parthenope». Svolge attività di ricerca presso la Fondazione Santa Lucia di Roma.

L’apparire è il nuovo essere: riflessioni su American Psycho

La ginnastica mattutina, il ‘Patty Winters Show’, il bigliettino da visita color bianco d’uovo, i migliori locali di Manhattan, gli outfit targati Gucci e D&G, le escort d’alto borgo e le prostitute di strada, le videocassette di genere pornografico, il ‘Late Night and David Letterman’, la cocaina, la musica di Phil Collins e Whitney Houston rappresentano il loop in cui è risucchiato il protagonista di American Psycho, Patrick Bateman.

 

E’ il classico yuppie della grande mela, vicepresidente di una grande società finanziaria di famiglia, proveniente da una delle più prestigiose università del paese; frequenta colleghi con cui è in continua competizione e ha una fidanzata che non ama e che abitualmente tradisce.

Ogni azione è atta a preservare il suo status sociale, è costantemente alla ricerca del bello con una maniacale attenzione al corpo, al cibo, all’abbigliamento: la spasmodica cura della propria immagine che però non sottende nulla. Di fatti l’affascinante e curato broker di Wall Street, all’imbrunire rivela la ferocia di uno spietato serial killer, le cui vittime sono barboni, bambini, animali, colleghi, prostitute, ex fidanzate. Tuttavia la psicopatia di Bateman non riserva soltanto l’omicidio; ma contempla anche pratiche di tortura, cannibalismo, lacerazioni e mutilazioni attraverso una accurata metodica che emerge in particolar modo dalla tipologia di scrittura dell’autore, capace di generare nausea e repulsione nei suoi confronti.

Le scelte stilistiche di Bret Easton Ellis, autore di American Psycho, sono estremamente crude – da mettere alla prova anche i più imperturbabili e impassibili – per riflettere le agonie del protagonista e la sua confusione mentale molto discutibile in termini morali. La maschera eccessivamente curata e ostentata di giorno viene meno al calare della sera lasciando il posto alle più profonde pulsioni, quelle più istintive e primordiali prive di una ratio di qualsiasi genere.

American Psycho: quello che conta è la superficie, solo la superficie

Bateman non è altro che il prodotto di una società malsana il cui diktat è l’eccesso di materialità e la sua ostentazione dove “quello che conta è la superficie, solo la superficie” e gli individui sono giudicati sulla base di ciò che posseggono, in nome del dio denaro. Il benessere elimina ogni forma di etica generando una disgregazione del proprio io e la conseguente incombenza di un vuoto esistenziale, in cui non c’è spazio per autentici legami e relazioni interpersonali. Il progresso conduce ad una depersonalizzazione in grado di rievocare la bestialità degli individui, quel tipo di impulsi capace di deturpare e smembrare con estrema lucidità quelli considerati altri, al di fuori del proprio status, de-umanizzati anch’essi e ridotti a manichini mutilati gettati nelle discariche in periferia. Il tutto viene sepolto e nascosto sotto un tappeto infinito di brand, multinazionali, marche, griffe, locali alla moda, droghe e idiozie dei talk show trasmessi in tv; mostrando tanti automi presi in trappola da un “blazer bleu marin con bottoni in finta tartaruga […] e cravatta di Hugo Boss in seta stampata”, gelatinati che camminano fianco a fianco al proprio assassino.

Routine, lusso sfrenato, superficialità, pulsioni e brutalità: American Psycho, lo specchio dell’America degli anni 80 in tutte le sue contraddizioni.

 

AMERICAN PSYCHO – IL TRAILER DEL FILM:

 

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