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Quanto conta un tocco delicato per non sentirsi esclusi?

Uno studio pubblicato recentemente su Scientific Reports da un gruppo di ricercatori dell’ University College di Londra, indaga il diverso impatto di un tocco affettuoso o di uno neutro nel ridurre l’ esclusione sociale.

 

Tutti i mammiferi presentano il bisogno innato di prossimità, di attaccamento e di appartenenza che garantisce loro la sopravvivenza. Nonostante il nostro mondo sociale stia diventando sempre più visivo e digitale, il potere delle relazioni e del contatto umano resta di capitale importanza. Le esperienze di vita che conducono alla rottura di legami sociali, infatti, si configurano tra le più dolorose.

Uno studio pubblicato recentemente su Scientific Reports da un gruppo di ricercatori dell’ University College di Londra, indaga il diverso impatto di un tocco affettuoso o di uno neutro nel ridurre l’ esclusione sociale. In letteratura si riscontrano solo altre tre ricerche sul tema, anche se esse considerano come fattori cuscinetto dell’ esclusione sociale la presenza di un amico, di un peluche o di messaggi di testo supportivi.

Nello studio sopracitato il paradigma sperimentale, invece, era costituito dal cosiddetto “Cyberball task” (Williams, Cheung,  & Choi, W,  2000), con cui in precedenza erano già state registrate reazioni negative in risposta all’ostracismo a livello affettivo, cognitivo e fisiologico (Williams, 2009). Il compito prevedeva che il campione di 84 donne in salute giocassero a palla virtualmente con altri due giocatori.

Le partecipanti lanciavano e ricevevano la palla più volte e poi dovevano compilare un questionario che conteneva domande riguardanti i bisogni di appartenenza, l’ autostima e il controllo.

In una seconda fase di gioco, dopo aver eseguito un paio di passaggi, inaspettatamente non ricevevano più la palla determinando in loro un senso di esclusione sociale. A questo punto venivano bendate e il loro braccio sinistro era toccato con una spazzola morbida e setosa in due modalità: lenta o veloce. Infine, completavano lo stesso questionario fornito loro in precedenza per confrontare i risultati con la propria baseline.

I risultati mostravano che solo il tocco lento riduceva la negatività generata dall’ esclusione sociale indotta dal gioco, anche se nessun tipo di tocco era sufficiente ad eliminare del tutto gli effetti negativi dovuti all’ esclusione.

Tale studio di rivela particolarmente interessante perché per la prima volta dimostra come il supporto sociale passi semplicemente attraverso un minimo instante di contatto affettivo. Ricerche future dovrebbero indagare il meccanismo neurofisiologico alla base, per esempio considerando una specifica codifica cerebrale del contatto pelle a pelle, e come questi effetti emersi possano variare in funzione della temperatura corporea.

 

Siamo tutti completamente fuori di noi (2015) di Karen Joy Fowler – Recensione del libro

Siamo tutti completamente fuori di noi di Karen Joy Fowler è un libro che parla di attaccamento, perdita, colpa, perdono di sé e degli altri. Un ventaglio di sentimenti che ruotano intorno ad un legame fraterno molto particolare.

 

La particolarità e l’interesse proprie di questo romanzo non riguardano unicamente la tematica affrontata ma anche la modalità di narrazione. E’ un libro ad incastro, come una bambola matrioska, dove ad ogni livello il lettore non solo resta sorpreso dall’evolversi della trama ma entra anche in contatto con stati emotivi ogni volta diversi tra loro, in un crescendo di intensità.

Siamo tutti completamente fuori di noi di Karen Joy Fowler può essere descritto come un libro che parla di relazioni di attaccamento, di elaborazione del lutto (lutto inteso come separazione e perdita più che di morte in senso stretto), di colpa, di perdono di sé e degli altri.

Siamo tutti completamente fuori di noi di Karen Joy Fowler – La trama

La trama della storia di Siamo tutti completamente fuori di noi parte dal centro perché, come spiegherà la protagonista, quando si hanno tante cose da dire e non sappiamo da quale partire, allora è preferibile cominciare dal cuore delle cose. All’inizio del romanzo incontriamo quindi Rosemary Cooke, la protagonista, durante il periodo del college. E’ una ragazza normale ma per certi aspetti un po’ strana: presenta difficoltà ad entrare in relazione con gli altri, non è in grado di mantenere le giuste distanze fisiche né di seguire le regole della conversazione e, per questo, fin da piccola è stata derisa dai compagni di classe. A distanza di molti anni Rosemary sta ancora affrontando la perdita di sua sorella gemella Fern, avvenuta quando avevano 5 anni.

La narrazione procede in prima persona; Rosemary fin da subito divide la sua vita in due parti: prima e dopo la scomparsa di sua sorella: un prima felice e un dopo vuoto e triste. Non è in grado di spiegare completamente i sentimenti che prova poiché gli eventi, così come lei li rievoca, sono in realtà distorti. Ricorda solo che una estate viene mandata dai nonni e al suo ritorno la sorella è scomparsa, lasciando un vuoto incolmabile nella famiglia e distruggendone i legami interni.

Nessuno le spiega cosa sia accaduto, Fern è un argomento tabù in casa, il clima è pesante e carico di emotività inespressa. In questa prima fase di Siamo tutti completamente fuori di noi, Karen Joy Fowler descrive il modo in cui ogni membro della famiglia affronta la perdita ovviamente da solo poiché manca una elaborazione del lutto condivisa. La madre sviluppa sintomi depressivi che la portano a trascurare i figli; il padre si rinchiude in se stesso e annebbia la consapevolezza ricorrendo all’alcool; il fratello di Rosemary manifesta apertamente rabbia e risentimento verso la famiglia fino poi ad andarsene via di casa durante l’adolescenza.

A questo punto si scopre l’aspetto saliente e di maggiore interesse della trama: Fern, la sorella di Rosemary, è in realtà uno scimpanzé. Il padre, psicologo e ricercatore all’università, sulla scia di altri esperimenti di allevamento di scimpanzé per studiare lo sviluppo del linguaggio (vedi gli studi della famiglia Kellogg negli anni ‘30), decide insieme alla moglie di allevare Fern e Rosemary in parallelo nello stesso identico modo, come sorelle gemelle.

Le modalità di cura avvengono non solo adeguando Fern alla sorella umana (pannolino, vestiti, letture della buona notte) ma anche viceversa (Rosemary poteva mangiare solo quello che poteva andare bene alla sorella, non si visitano luoghi e nazioni se non è possibile far viaggiare Fern, e così via), senza iniquità. Le descrizioni dei momenti condivisi dalle due sorelle evidenziano un legame di attaccamento reciproco ma anche di empatia notevole e unico: anche Fern  “comunica” più volte quanto percepisca la sorella simile a sé e diversa dagli altri esseri umani che la circondano. E sarà proprio questa sensazione di essere simili e diversi dagli altri che farà sentire sempre fuori luogo Rosemary dai suoi coetanei e che amplificherà il vuoto lasciato dalla scomparsa di Fern dalla sua vita.

Il mistero sulla scomparsa di Fern, che è il cuore del romanzo Siamo tutti completamente fuori di noi, porta ad un crescendo di stati emotivi. Dal senso di vuoto e perdita per i fratelli si passa al rancore di Rosemary verso i genitori,  persone indegne che hanno riservato a suo parere un trattamento diverso alle due figlie, liberandosi con leggerezza di una di loro. La narrazione si dipana ulteriormente attraverso l’esplorazione dei vissuti emotivi e memorie distorte, fino poi scoprire l’amara verità: la colpa non è da ricercarsi negli altri ma dentro di sé, e sarà molto difficile riuscire a perdonare se stessi e i propri errori.

Il rapporto tra età ed emozioni positive: l’effetto buonumore nell’anziano

Perché invecchiando siamo più felici? Secondo la teoria della selettività socio-emozionale (Carstensen, 1991, 1993, 1995, 1998; Carstensen, Gross, & Fung, 1997), all’aumentare dell’età, le emozioni vengono regolate in maniera diversa rispetto alle età precedenti. La maggiore consapevolezza che il tempo a disposizione è limitato, così come il bagaglio di esperienza personale, motiverebbero l’ anziano a dare priorità alla ricerca di emozioni positivesignificati positivi da attribuire agli avvenimenti, rielaborando le vicende negative della propria vita in chiave positiva, e restringendo le relazioni interpersonali solo a quelle emotivamente significative.

 

L’effetto buonumore nell’ anziano: nella terza età si va alla ricerca di emozioni positive

L’elemento chiave in questa teoria è rappresentato dalla prospettiva temporale, che nell’ anziano è percepita come ridotta ed induce la persona ad avere una motivazione volta al raggiungimento di emozioni positive, investendo nelle cose sicure e assaporando gli aspetti positivi della vita.

L’ anziano investe sempre più le proprie risorse in attività per le quali può avere riscontri positivi sicuri, e non sperimentare fallimenti. L’effetto buonumore legato all’età si osserva però solo in quei casi in cui le persone anziane posseggono sufficienti risorse cognitive che le mettono in grado di regolare le proprie emozioni attraverso strategie efficaci.

Secondo la teoria proposta da Carstensen, gli obiettivi sociali dell’uomo ruoterebbero intorno a due categorie generali, quelle legate all’acquisizione di conoscenze e quella legata alla regolazione delle emozioni. Quando il tempo è percepito come “aperto”, gli obiettivi prioritari sono quelli di conoscenza. Al contrario, quando il tempo è percepito come “limitato”, si assisterebbe ad una focalizzazione sugli obiettivi di natura emotiva.

L’associazione tra tempo rimasto ed età cronologica spiega le differenze età- relate negli obiettivi sociali. Tuttavia, gli autori spiegano che la percezione del tempo è flessibile e gli obiettivi sociali cambiano sia nelle persone più giovani che in quelle più anziane quando vengono imposti dei vincoli di tempo. Col trascorrere degli anni, le persone diventano sempre più consapevoli che il tempo si sta in qualche modo “esaurendo”. Alcuni contatti sociali superficiali vengono sentiti come banali, a differenza dei legami più stretti, e delle relazioni instaurate da tempo. Attività sgradevoli o semplicemente prive di significato vengono evitate e la persona si concentra sul presente piuttosto che sul futuro o sul passato.

Si può ben pensare che questa selettività abbia quindi delle conseguenze ed implicazioni molto importanti per la nostra società, che assiste ad un incremento considerevole della popolazione anziana.

I presupposti filosofici della mediazione umanistico-trasformativa

La mediazione dei conflitti può essere definita come una pratica, e proprio dalla problematizzazione del concetto di prassi si può analizzare che tipo di prassi sia. 

Maurizio D’Alessandro, Alberto Quattrocolo – Estratto dell’articolo “La prassi della mediazione del conflitto” di prossima pubblicazione

 

Mediazione dei conflitti tra prassi e produzione

La mediazione dei conflitti può essere definita come una pratica, e proprio dalla problematizzazione del concetto di prassi si può analizzare che tipo di prassi sia. A partire dagli anni sessanta del Novecento si è assistito, in campo filosofico, ad un rinnovato interesse per la categoria di azione in seguito a quella «crisi dei fondamenti» in cui sembravano versare le scienze sociali ed alla nuova «esigenza di fondazione» proveniente delle etiche applicate.

La discussione verte sulla divisione operata da Aristotele tra scienze teoretiche, scienze pratiche e scienze poietiche. Come è noto, mentre le scienze teoretiche quali la teologia e la matematica hanno per oggetto «il necessario», le scienze pratiche come l’etica e la politica hanno per oggetto il «per lo più». L’apparente minor grado di precisione di tali discipline non assume alcun significato di minor grado di scientificità, ma indica semplicemente l’esser conforme alla natura dello stesso oggetto indagato.

L’introduzione, operata da Aristotele, tra due campi apparentemente affini come la prassi e la produzione, permette di distinguere i due ambiti e definire meglio gli statuti delle due forme di sapere: il fare produttivo mira alla realizzazione di oggetti, che al termine dell’azione sono presenti nel mondo come cose (res) e per i quali viene utilizzata una razionalità tecnica-procedurale, che è ripetibile e che può essere insegnata; l’agire propriamente detto, invece, ha in se stesso il proprio fine che non è limitato da oggetti, non segue una procedura ripetibile (o almeno non sempre e per ogni caso) ed è di difficile insegnamento.

Lo sforzo aristotelico di definire l’ambito della prassi una scienza, anche se del «per lo più», può essere ascrivibile al tentativo di mediare tra quello che potremo definire il prassismo dei politici e l’impianto meramente teorico dei sofisti.

L’azione non è né una scienza né una tecnica

Ne consegue, seguendo l’argomentazione, che l’azione non soggiace a regole prestabilite, universali, necessarie e riproducibili, come accade per il fare produttivo.

La necessità di mettere alla prova i concetti espressi fino ad ora ci spinge a definire meglio alcune procedure della «mediazione dei conflitti».

Mediazione e “soddisfazione” della persona

Alcune concezioni della mediazione dei conflitti, che possono essere ricondotte a quella impostazione che viene definita del «problem solving», pongono come fine la «risoluzione del conflitto». Le procedure utilizzate sono atte, dunque, ad intervenire all’interno del contenzioso (conflitto) con la finalità di giungere ad una conciliazione o ad una riappacificazione, in tali pratiche solo chi funge da medium nel conflitto si frappone tra i due contendenti in qualità di arbitro, giudice che distribuisce torti ma, al di là della questione della congruenza tra il metodo e i risultati attesi, la domanda che più ci sta a cuore è: i vissuti dei due contendenti trovano spazio ed ascolto in questo modello? Si può parlare di una «soddisfazione» dei soggetti coinvolti nel conflitto?

Per rispondere a tali domande occorrerebbe intendersi sul significato del termine «soddisfazione». Probabilmente, sotto un certo profilo, la risposta è affermativa, se la controversia si è chiusa con un accordo che ha fatto venire meno le ragioni razionali e comportamentali della lite. L’aspetto critico, secondo noi, sta nel valutare se si sono risolte anche le ragioni di natura “non razionale” alla base del conflitto, cioè quegli elementi cognitivi ed emotivi che hanno reso necessario agli attori del conflitto il ricorso ad un professionista esterno per la gestione del loro rapporto e la soluzione della contesa.

Il modello “umanistico-trasformativo”: la libertà

Il «modello trasformativo» di mediazione dei conflitti rappresenta il tentativo di dare risposta ad altre esigenze che vengono tralasciate dai modelli che si rifanno al concetto di giustizia.

In conseguenza di ciò, il fondamento della mediazione “trasformativa” diventa la libertà dei due soggetti coinvolti nel contenzioso, e ciò rende possibile lo svincolarsi di tale pratica da dettami tecnico-produttivi. La mediazione trasformativa dei conflitti, infatti, utilizza alcune tecniche senza però essere essa stessa una tecnica. Poiché la prassi della mediazione dei conflitti non è descrivibile in termini scientifico-procedurali, essa può essere considerata una forma di prassi nel senso espresso e non un fare produttivo.

Il modello “umanistico-trasformativo”: il riconoscimento

Torniamo, dunque, a quel “quid” mancante, cui si faceva cenno più sopra in relazione ad un conflitto in cui a seguito dell’intervento di terzi le ragioni del contrasto sono state eliminate: l’uomo in quanto «animale sociale» o «animale culturale» (secondo una nozione dell’antropologia filosofica) non agisce solo per soddisfare i propri bisogni primari, ma è caratterizzato anche dall’esigenza culturale, tutt’altro che secondaria, di essere riconosciuto; un bisogno che è anche un’esigenza psicologica fondamentale per la costruzione, l’integrazione, l’evoluzione e il mantenimento dell’identità del singolo e del gruppo. La mancata soddisfazione del bisogno di riconoscimento, d’altra parte, è spesso (per non dire sempre) uno dei fattori alla base dell’innescarsi di un conflitto; e d’altra parte è visceralmente connesso con il sentirsi compresi, ancor più che capiti.

Proprio il «bisogno di riconoscimento» è il secondo presupposto della impostazione trasformativa della mediazione dei conflitti: libertà e riconoscimento costituiscono le due strutture fondamentali di tale prassi ed in quanto tali la rendono possibile. È da queste due strutture fondanti che trae origine conseguentemente la dimensione dell’ascolto.

Sentiti e domande aperte come strumenti dell’ascolto e della mediazione

In ragione di ciò, l’ascolto del mediatore, che si esplica attraverso i sentiti e le domande è volto a ristabilire una «comunicazione non distorta» e a rompere la bidimensionalità in cui i due soggetti coinvolti si sono reciprocamente appiattiti. Il mediatore, sotto questo profilo, si ritrae da se stesso e, nell’accantonamento di sé in quanto soggetto pensante e giudicante (cioè di soggetto portatore di principi e di valori e incline ad affermarli di fronte ad un fatto di cui è testimone), svolge la funzione essenziale di diventare specchio non distorcente, che, nel riflettere i vissuti dei contendenti, restituisce loro tridimensionalità. Il sentito e la domanda svolgono un ruolo decisivo nella riuscita della mediazione trasformativa, poiché il sentito «nomina» il vissuto dandogli corpo e forma, e soprattutto permette alla persona (che è anche, ma non solo, confliggente) di sentirsi riconosciuta e di riconoscersi, mentre la domanda, se posta nel modo corretto, concorre insieme al sentito a svolgere una funzione di «apertura» e di attribuzione di significati ai fatti, ai comportamenti, alle percezioni e alle rappresentazioni coinvolte dalla tempesta del conflitto e lambite dal mare delle relazione.

Nell’espressione del sentito i soggetti, quindi, si percepiscono riconosciuti; la domanda, invece, deve avere la struttura della «domanda aprente» che è caratterizzata dalla dotta ignoranza; dice Hans Georg Gadamer:

Chi crede di sapere di più non è capace di domandare. Per essere capaci di domandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di non sapere. […] Domandare significa porre in questione, proprio in ciò consiste il carattere aperto dell’oggetto della domanda; esso è aperto in quanto la risposta non è ancora stabilita.

Il fine della mediazione

Sta ai mediatori restituire ai soggetti tale libertà, da cui l’interazione conflittuale li ha tenuti lontani, relegandola nell’ambito dei non-detti e più in generale dell’inesprimibile. Ed è la mancata espressione, la mancata comunicazione di questo carico, ciò che residua come una lacuna e come un generatore di sgomenta sofferenza, allorché il conflitto è gestito ponendo attenzione solo al risultato e non al processo.

La dialettica della mediazione, allora, presuppone, tenuto fermo il fondamento della libertà, che il fine di tale azione non sia, come è già stato detto, prestabilito; lo scopo non è più quello della riappacificazione o della risoluzione del contenzioso ma quello del ristabilimento di una comunicazione non distorta, la quale è il presupposto affinché le persone protagoniste del conflitto possano, se lo vogliono e se ce la fanno, restituire «umanità» all’altro.

Se il dialogo viene ripristinato e la bidimensionalità dei soggetti del contenzioso viene decostruita i due contendenti:

Giungono entrambi a collocarsi nella verità dell’oggetto, ed è questo che li unisce in una nuova comunanza. Il comprendersi nel dialogo non è un puro mettere tutto in gioco per far trionfare il proprio punto di vista, ma un trasformarsi in ciò che si ha in comune, trasformazione nella quale non si resta quelli che si era (ivi, pag. 437).

Da qui il significato profondo dell’aggettivo “trasformativa” che definisce tale modello di mediazione dei conflitti. Al termine di un simile percorso, infatti, piccole e grandi trasformazioni si sono compiute: ad esempio, a livello della rappresentazione che si ha dell’altro e di se stessi in rapporto a lui.

Vivere nei pressi di uno spazio verde migliora la qualità della vita

Vivere vicino a parchi e aree verdi aiuta a vivere meglio. In un nuovo studio, condotto in Germania, si collega il luogo di residenza allo stato di benessere della persona.

 

Gli effetti benefici del vivere in prossimità di ambienti naturali

Rumori, inquinamento, ritmi frenetici e mancanza di coesione sociale sembrano essere tra i fattori che mettono a rischio la salute mentale di chi vive in città. Non mancano, infatti, gli studi che dimostrano che vivere in città aumenti i livelli di stress e il rischio di soffrire di disturbi mentali.

Uno studio condotto dai ricercatori del Max Planck Institute for Human Development di Berlino ha rivelato le caratteristiche di questo fenomeno. Secondo un team di ricerca capeggiato dallo psicologo Simone Kuhn, il vivere in prossimità di ambienti naturali sarebbe legato ad una migliore funzionalità dell’amigdala, struttura del cervello che lavora nei momenti di stress.

Allo studio hanno partecipato 341 residenti berlinesi tra i 61 e gli 82 anni. Ai partecipanti è stato chiesto di effettuare un test di memoria e ragionamento e successivamente di sottoporsi a esami di risonanza magnetica per valutare la salute e la struttura delle aree che processano lo stress. I dati delle scansioni sono poi stati incrociati con i luoghi di residenza dei soggetti e il numero di volte che si recavano in aree verdi.

I ricercatori hanno così scoperto una relazione tra l’ambiente di residenza e la salute mentale; gli abitanti della città con maggior accesso a grandi parchi avevano più probabilità di mostrare una struttura cerebrale più sana, quindi, erano più in grado di affrontare lo stress. I risultati sono stati confermati anche dopo aver tenuto conto di altri fattori come l’educazione e il reddito che non hanno influito con rilevanza statistica sull’esito della prova.

Una precedente ricerca condotta dalla statunitense Harvard T.H. Chan School of Public Health su donne che vivono fuori città aveva già ampiamente dimostrato che vivere a contatto con la natura ha effetti benefici sulla loro salute mentale e sul loro benessere. Inoltre, hanno un tasso di mortalità fino al 12% inferiore rispetto alle donne che vivono più lontano dalla natura. In uno studio britannico del 2016 è risultato che semplicemente avere delle piante in ufficio aiuta a migliorare il benessere e la produttività dei dipendenti di quasi il 15%.

Con le stime che prevedono oltre il 70% della popolazione mondiale risiedente in ambienti urbani entro il 2050, bisognerà indagare gli effetti non solo fisici ma anche psicologici del distacco dell’uomo dall’ambiente naturale.

Come si è visto, sempre più studi stanno portando alla luce l’importanza del legame tra uomo e natura. Questi risultati potrebbero quindi essere molto importanti ai fini della pianificazione strutturale delle città, nonostante la necessità di ulteriori conferme necessarie a supporto della tesi dimostrata nel presente studio di ricerca.

Sono comunque necessari più studi longitudinali per accumulare prove a supporto di questa tesi.

Le rivendicazioni e i movimenti sociali dei nostri giorni: come si spiegano?

È il bello della democrazia, il fatto che tutto si mantenga nei limiti della civiltà dei modi e dei comportamenti, ma è anche un suo ingannevole incantamento. Ci si lascia andare a decisioni gravissime convinti che tutto sarà privo di pericoli e di conflitti. La natura non violenta del confronto democratico è ottimale per gestire il cambiamento nelle abitudini sociali, come a esempio l’evoluzione del rapporto tra uomo e donna negli ultimi cento anni, dalle suffragette allo scandalo di Harvey Weinstein. Questa efficienza tuttavia non è facilmente applicabile a conflitti tra stati o a tentativi di secessione.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli pubblicato su Linkiesta il 28/10/2017

 

L’illusione di sicurezza e le rivendicazioni sociali dei nostri giorni

Una strana illusione di superficiale sicurezza accompagna il crescere dei rancori e delle rivendicazioni sociali degli ultimi anni. Nelle interviste a passanti casuali dopo la Brexit molti elettori inglesi favorevoli al “leave” sembravano increduli delle conseguenze pratiche della loro scelta, quasi sbalorditi che la loro idiosincrasia personale si fosse realizzata in un evento fin troppo reale. Oggi la questione della Catalogna oscilla tra rischio di reale lesione violenta dell’unità politica della Spagna –con tutte le implicazioni di ordine pubblico e militari del caso- e sensazione che si tratti della solita tempesta in un bicchier d’acqua, dell’ultima manifestazione di un malcontento di piazza fine a se stesso e privo di sviluppo pratico.

Al contrario, nel referendum del Kurdistan gli attori sembrano consapevoli delle conseguenze politiche, legali e militari dell’atto -gli eserciti si schierano- mentre in Europa atti gravidi di effetti storici sembrano sempre esprimersi in una maniera attutita, priva di conseguenze davvero rischiose. Rivoluzioni pacifiche nel migliore dei casi, altre volte eventi privi di sostanza.

È il bello della democrazia, il fatto che tutto si mantenga nei limiti della civiltà dei modi e dei comportamenti, ma è anche un suo ingannevole incantamento. Ci si lascia andare a decisioni gravissime convinti che tutto sarà privo di pericoli e di conflitti. La natura non violenta del confronto democratico è ottimale per gestire il cambiamento nelle abitudini sociali, come a esempio l’evoluzione del rapporto tra uomo e donna negli ultimi cento anni, dalle suffragette allo scandalo di Harvey Weinstein. Questa efficienza tuttavia non è facilmente applicabile a conflitti tra stati o a tentativi di secessione.

Le conseguenze psicologiche di questa illusoria sensazione di sicurezza può essere la tendenza a ragionare solo in termini di astratta giustizia e di diritti da assicurare seduta stante. Il che va bene, se però si unisce anche a un ragionamento concreto sui percorsi da imboccare per ottenerli questi diritti, e sugli inevitabili costi ed effetti collaterali negativi che qualunque cambiamento implica. Invece la sensazione è che si inneschino eventi potenzialmente giganteschi con la leggerezza con la quale si gioca alla playstation. Ci sono videogiochi in cui è possibile, prima di cena, gestire imperi millenari e partire alla conquista del mondo. Dopodiché si può anche chiudere la serata soddisfatti. Promuovere la separazione dall’Europa o dalla Spagna con lo stesso spirito svagato forse è meno consigliabile.

Il senso di pretesa come stato psicologico disfunzionale del narcisismo e il malessere sociale

Ragionare in termini semplicistici non è solo un segnale di stupidità. È anche una posizione verso il mondo, uno stato psicologico disfunzionale che non a caso è alla radice di molti disturbi. Il senso di pretesa, il cosiddetto “entitlement” per cui le cose ci sembrano dovute e –appunto- pretendiamo che esse ci siano subito, qui e ora solo perché è giusto, è alla base del narcisismo.

Naturalmente anche questo è troppo semplice. Il malessere sociale che viviamo in questa epoca agitata non è imputabile a una causa psicologica e nemmeno è possibile sostenere il contrario. Tuttavia, i due concetti, sociale e psicologico, possono illuminarsi a vicenda. In psicoterapia, accanto al momento della vicinanza psicologica e dell’accoglimento si dà importanza anche a quello dell’appello alle risorse personali e all’impegno a rafforzare la propria capacità di sopportare la frustrazione, ad avere un rapporto realistico con il mondo e a esporsi coraggiosamente alle situazioni temute: parlare in pubblico, impegnarsi nei rapporti sociali, andare nei luoghi dove si prova ansia, controllare le proprie emozioni peggiori nei luoghi di lavoro: rabbia, invidia, rancore, gelosia. La previsione degli aspetti negativi e concreti fa parte della crescita psicologica. Aspettarsi che un cambiamento psicologico avvenga solo attraverso l’ascolto e la comprensione dei propri traumi è illusorio, sebbene oggi la teoria del trauma sembri tornare in voga, dopo che lo stesso Freud la aveva seppellita un secolo fa.

Nel campo politico e sociale questa nozione sembra scomparire, soprattutto nei cosiddetti movimenti populisti ma non solo. Ci si imbarca in avventure che lasciano perplessi, si pensa di poter rievocare stati e nazioni risalenti a epoche lontane, oggi la Catalogna o magari domani la Repubblica di Venezia, ritenendo di poter dirimere ogni ostacolo con una democratica stretta di mano tra amici. Vedremo cosa accadrà, vedremo come va a finire.

Guarire dalla depressione post partum. Indicazioni cliniche e psicoterapia (2017) – Recensione

Attraverso uno stile chiaro, l’autrice del manuale Guarire dalla depressione post partum fornisce un inquadramento teorico e diversi esempi pratici sulla psicopatologia perinatale e per questo costituisce un testo utile e consigliato sia per i clinici che per le donne che attraversano con qualche difficoltà il periodo del post partum.

 

Guarire dalla depressione post partum: quando l’arrivo di un bambino ci mette dinnanzi ai nostri limiti

Karen Kleiman, autrice del manuale Guarire dalla depressione post partum, lavora da più di 20 anni con pazienti affette da depressione post partum e ha fondato nel 1988 il Postpartum Stress Center in Pennsylvania. Attraverso uno stile chiaro, l’autrice fornisce un inquadramento teorico e diversi esempi pratici sulla psicopatologia perinatale e per questo costituisce un testo utile e consigliato sia per i clinici che per le donne che attraversano con qualche difficoltà il periodo del post partum.

La nostra società si basa sugli ideali della perfezione, dell’efficienza e dell’organizzazione, ma tali standard sono destinati a crollare quando nasce un bambino e ci si scontra con i propri limiti e le proprie fragilità. Questo può costituire uno dei motivi per cui può insorgere la depressione post partum, la quale è caratterizzata da diverse manifestazioni cliniche che possono variare per intensità, gravità, durata. Ma la Kleiman ci tiene a ribadire in tutto il manuale Guarire dalla depressione post partum che dalla depressione si può uscire e che “proprio come il bruco quando pensava che il mondo fosse finito diventò una farfalla”, così anche le mamme possono rinascere dopo un periodo di disperazione.

L’importanza di un ambiente di holding

Ciò che, in ambito terapeutico, può essere sostanziale è l’offrire alla donna sofferente di depressione, un ambiente di holding, di protezione e contenimento e porsi con una modalità molto simile a quella che la mamma utilizza con il proprio bambino:

Nei primi stadi dell’alleanza terapeutica, alla paziente andrebbero trasmessi messaggi corrispondenti a quelli che Winnicott considera essenziali nel rapporto tra la madre e il neonato: “Lei non è sola. Sa dove trovarmi. Mi faccia sapere se ha bisogno di qualsiasi cosa. Mi informi se è cambiato qualcosa”.

Questo consente di creare un’alleanza basata su intimità, fiducia e comunicazione e crea i presupposti per una buona terapia.

La Kleiman dedica molta attenzione alla presa in carico della paziente e in Guarire dalla depressione post partum descrive come procedere, le difficoltà, le resistenze e l’importanza di essere empatici e di dare voce alla depressione vissuta nello specifico da ciascuna donna. Sentirsi comprese e riconosciute diventa un aggancio fondamentale. Vengono descritti anche gli strumenti che possono funzionare e come impostare la prima telefonata e lo screening. Vengono anche fornite informazioni sull’assessment e sulle possibili terapie alternando continuamente la teoria con esempi pratici.

Successivamente, si entra nel vivo della patologia delle donne nel post partum e ci si sofferma in particolare sui pensieri spaventosi che possono comparire su di sé o sul bambino, sulle difficoltà legate all’allattamento, all’insonnia, alla relazione con il bambino, ai pensieri suicidari, alle manifestazioni psicotiche.

L’ultima parte di Guarire dalla depressione post partum è tutta dedicata al percorso di guarigione e a come è possibile accompagnare le donne che ne soffrono ad uscire dal dolore della depressione post partum e a come ricercare un senso e un insegnamento dalla sofferenza che possa essere utile per il presente e il futuro.

Il testo della Kleiman non costituisce un manuale di psicopatologia perinatale, ma fornisce, attraverso diversi esempi e riflessioni, spunti interessanti per approfondire la specificità della psicopatologia post partum.

Tutto passa dalla mente. A Palermo una giornata dedicata al benessere psicologico

Promuovere il benessere psicologico come valore fondante della qualità di vita, informando sul ruolo dello psicologo e della psicologia e sulle loro funzioni in direzione di un accresciuto benessere alla cittadinanza: questo l’obiettivo della Giornata Nazionale della psicologia, tenutasi il 10 Ottobre scorso e promossa dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli psicologi, in stretta collaborazione con i vari Ordini Regionali.

 

All’interno di tale iniziativa, giunta alla seconda Edizione, nella città di Palermo, momento centrale è stato il Convegno “Giornata del benessere psicologico: tutto passa dalla mente”, svoltosi lo scorso 13 Ottobre, occasione di dibattito tra esperti e di apertura al territorio, al fine di fornire stimoli di riflessione sul ruolo della psicologia e dello psicologo per la promozione della salute, da intendersi, secondo le indicazioni dell’OMS, come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente come l’assenza disagio o malattia.

Il benessere psicologico nei diversi contesti di vita

Il concetto di benessere coinvolge a vasto raggio una molteplicità di contesti di vita e la sua promozione risulta essenziale nell’ottica di garantire una crescita armonica da un punto di vista cognitivo, emotivo e sociale, in particolare in età evolutiva.

La questione del benessere deve interessare gli operatori e la società intera, alla luce del fatto che il numero di bambini e adolescenti con disagio psicologico, inclusi quelli con disturbi del comportamento alimentare, si aggira oggi intorno al 9%. Se prendiamo in esame il ruolo dello sport e dell’alimentazione nella promozione del benessere cognitivo e fisico dobbiamo necessariamente riferirci al ruolo benefico di alcuni cibi e dell’attività sportiva durante lo sviluppo – sottolinea Massimiliano Oliveri, professore ordinario di psicobiologia e psicologia fisiologica dell’Università di Palermo – Ecco che gli acidi grassi essenziali Omega 3 massimamente contenuti nel pesce favoriscono la sintesi di fattori di crescita, similmente l’esercizio fisico ha effetti benefici sulla plasticità sinaptica e sulla cognizione. Se indubbiamente questi due elementi influenzano la salute psichica e del cervello, non possiamo trascurare il ruolo delle opportunità culturali, come le frequentazioni o il cinema, che aumentano il volume delle aree cerebrali che controllano le funzioni esecutive, la memoria verbale e il linguaggio.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO LE IMMAGINI DEL CONVEGNO:

Relatori del Congresso di Palermo “Tutto passa dalla mente”

Relatori del Congresso di Palermo “Tutto passa dalla mente”

Altro ruolo fondamentale nella promozione del benessere psicologico è svolto dalla scuola, che, nella prospettiva di Maurizio Gentile, psicologo psicoterapeuta e coordinatore dell’Osservatorio sulla dispersione scolastica dell’Ufficio Scolastico Regionale della Sicilia:

Deve incentivare la crescita emotiva e relazionale degli alunni focalizzandosi sulla mente dei docenti e non esclusivamente sull’utilizzo massivo degli strumenti tecnologici. Ecco l’importanza della formazione dei docenti nella conduzione del gruppo classe e nel riconoscimento delle dinamiche affettive.

Il benessere psicologico nel dolore cronico: la pratica della mindfulness

Il benessere come obiettivo trasformativo, di evoluzione e cambiamento, a cui puntare anche nelle condizioni apparentemente più immutabili e disperate. Il riferimento va alla discriminante tra quello che posso guidare e cambiare e quello che devo semplicemente accettare, nella condizione della cronicità di quelle patologie che per loro natura non lasciano grandi margini di miglioramento, come le neoplasie, in riferimento alla pratica della Mindfulness.

Seguendo la pratica Mindfulness si impara gradualmente a rapportarsi con il dolore, in particolare il dolore cronico, invalidante e difficilmente eliminabile, nel modo più neutro possibile, attraverso un’osservazione non giudicante. Quando il dolore non è respinto o fatto oggetto di paura, attraverso la consapevolezza delle sensazioni, si inizia a sperimentare uno stato di benessere. Il segreto consiste nell’imparare ad accogliere il dolore con il respiro e a starci nel qui ed ora, prendendo ogni momento così come viene –  dice Simone Cheli, Docente dell’Università degli Studi di Firenze – Molteplici sono i vantaggi sperimentabili con la mindfulness: riduzione della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca, dei livelli di cortisolo e dei trigliceridi, tutti vantaggi che si sono dimostrati paragonabili a quelli degli antidepressivi, seguendo un trattamento di otto settimane.

Promozione di stili di vita improntati alla salute a partire dalla pratica dell’attività fisica e di uno stile alimentare equilibrato, da attuarsi il più precocemente possibile, insieme alla ricchezza degli stimoli di ordine affettivo, sociale e culturale, garanzie di benessere psicologico e della “giovinezza del cervello”: una sfida aperta per una psicologia efficace che voglia realmente definirsi al servizio della collettività e che adotti la filosofia delle iniziative efficaci come azioni sociali che poggiano sulla consapevolezza della salute come diritto negato.

La compulsione come costrutto dell’ alimentazione incontrollata

L’ alimentazione compulsiva è un costrutto transdiagnostico che è caratteristico di alcune condizioni di attenzione medica e psichiatrica come ad esempio l’obesità e i DCA (disturbi del comportamento alimentare).

Luisa Resta, OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

La compulsione come costrutto transdiagnostico

I comportamenti compulsivi possono essere definiti come delle condotte ripetute nonostante le conseguenze avverse ovvero dei comportamenti reiterati che risultano inappropriati in determinate situazioni. I soggetti con le compulsioni riconoscono spesso che il loro comportamento è dannoso, ma si sentono emotivamente costretti a metterlo in atto.

La compulsione affonda le sue radici nella sintomatologia tipica del disturbo ossessivo-compulsivo, nel discontrollo degli impulsi e nelle condotte di abuso di sostanze. Tuttavia il comportamento compulsivo è una caratteristica non solo dell’abuso di sostanze e delle dipendenze, ma anche di qualche disturbo alimentare, come il BED, o in alcune forme di obesità, come pure del costrutto della dipendenza da cibo.

Nelle dipendenze da sostanze la compulsione si manifesta come una spinta persistente ad usare le droghe e un’incapacità di controllarne l’uso; allo stesso modo le patologie legate al cibo sono caratterizzate da un bisogno smodato e incontrollabile di alimentarsi in modo eccessivo nonostante gli sforzi di tenere sotto controllo tale comportamento.

Gli attuali modelli di comprensione pongono l’attenzione su tre elementi in particolare:
1) l’alimentazione incontrollata come abitudine;
2) l’alimentazione come strategia disfunzionale per fronteggiare uno stato emotivo negativo;
3) l’alimentazione incontrollata nonostante le conseguenze avverse.

L’ alimentazione compulsiva è caratterizzata dai suddetti elementi che derivano da disfunzioni cerebrali nelle aree deputate all’apprendimento per ricompensa, ai processi emotivi e al controllo delle inibizioni. Disfunzioni dei sistemi relativi ai neurocircuiti (nello specifico, i gangli della base, l’amigdala estesa e la corteccia prefrontale) sembrano implicate in tali condotte patologiche di alimentazione.

L’alimentazione eccessiva è frutto di un’abitudine appresa

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre ricordare come la formazione di un’abitudine sia il risultato finale di un processo di apprendimento adattivo in cui le azioni volontarie diventano abituali attraverso meccanismi di rinforzo. Gli stimoli ambientali legati all’alimentazione, noti come rinforzi condizionati, possono aumentare in modo robusto il desiderio di mangiare anche in assenza di cibo in sé o in assenza di bisogni fisiologici legati alla fame. Attraverso ripetuti accoppiamenti di uno stimolo (stimolo condizionato) con il cibo (stimolo incondizionato), lo stimolo appreso diventa un incentivo saliente, provocando così intensi impulsi per ottenere la ricompensa associata e agisce anche come un rinforzo condizionato che contribuisce al mantenimento del desiderio di ricercare cibo, anche senza la presentazione degli alimenti.

Si ipotizza che il comportamento compulsivo possa riflettere un’ abitudine disadattiva di stimolo-risposta che precedentemente costituiva un comportamento flessibile e volontario. Le abitudini si formano attraverso un’azione rinforzata ripetuta finché l’associazione stimolo-risposta non interrompe lo scopo del comportamento (ad esempio la ricerca di un particolare alimento) come motivazione per eseguire l’azione.

Le abitudini possono essere considerate compulsive quando persistono nonostante la svalutazione, o una riduzione dell’efficacia del rinforzo. Nell’ alimentazione compulsiva, l’incapacità di adattare il comportamento alimentare in base al valore motivazionale del risultato può riflettere un’abitudine compulsiva. In talune ricerche è stato evidenziato come un comportamento compulsivo possa essere generato da un conflitto o una situazione stressante, successivamente tale condotta tende a caratterizzarsi per la sua natura compulsiva anche quando gli stimoli scatenanti sono assenti, plausibilmente anche a causa delle endorfine rilasciate nel cervello. In altre parole, una volta che tale comportamento si è radicato, si trae una sorta di euforico appagamento che produce assuefazione, paragonabile in tutto e per tutto alla dipendenza da sostanze. Alcuni studi hanno evidenziato nei soggetti con un disturbo da binge eating una particolare distorsione cognitiva quando si impegnano nell’apprendimento di un’abitudine rispetto ad altri tipi di apprendimento, il che sembrerebbe essere alla base dell’abitudine compulsiva come risposta appresa.

Il cibo come sollievo dalle emozioni negative

Mettere in atto un comportamento, come ad esempio ingerire grosse quantità di cibi gradevoli, allo scopo di alleviare uno stato emotivo negativo è un altro elemento importante che caratterizza l’ alimentazione compulsiva. Tale elemento si rintraccia ad esempio anche nella sintomatologia del disturbo ossessivo-compulsivo, caratterizzato da ansia e stress prima di commettere comportamenti compulsivi e sollievo conseguente all’esecuzione degli stessi.

Si ipotizzano due processi distinti, ma sovrapposti alla base di questo effetto negativo indotto dall’astensione comportamentale: diminuzione della ricompensa e maggiore stress. La funzione di ricompensa diminuita è caratterizzata da un’abituazione e dalla perdita di motivazione per le ricompense ordinarie. La sensazione negativa deriva anche dall’interessamento dei sistemi cerebrali legati allo stress che si ipotizza siano ripetutamente coinvolti in tale meccanismo, causando irritabilità e ansia. Pertanto, nel momento in cui un comportamento diviene compulsivo, si ipotizza uno spostamento dei fattori che l’hanno motivato: mentre inizialmente il comportamento è rinforzato positivamente, in seguito la compulsione potrebbe sorgere a partire dai meccanismi di rinforzo negativo, come il sollievo dalle emozioni negative a causa dell’astensione. I vissuti di disforia, ansia e irritabilità nel momento in cui la ricompensa (cibo) cercata non è disponibile caratterizzano i disturbi alimentari e possono portare ad un comportamento alimentare compulsivo.

Per quanto riguarda l’alimentazione, l’astinenza da certi cibi si configura come un nuovo equilibrio alimentare, comunemente chiamato dieta, che implica una riduzione delle calorie ingerite e/o un cambiamento di dosaggio energetico, passando da cibi altamente appetibili e proibiti ad un incremento di cibi più salutari. Numerosi studi hanno infatti evidenziato come la maggior parte dei soggetti obesi, a inizio dieta, provino sensazioni di irritabilità e ansia intense. Inoltre anche il passaggio da un equilibrio alimentare ricco di calorie ad uno meno calorico comporta un peggioramento del tono dell’umore e sintomi depressivi, e questi sono associati a loro volta con un’alimentazione eccessiva come strategia di gestione dello stress, riflettendo probabilmente un tentativo di automedicamento emotivo attraverso il comfort food. Tali risultati sembrano supportare l’ipotesi che la dieta possa peggiorare uno stato emotivo negativo, e che l’ alimentazione compulsiva possa essere mantenuta attraverso un meccanismo di rinforzo negativo.

Nei modelli sperimentali animali, l’accesso ripetuto e intermittente a un cibo gradevole porta a segni emozionali di ritiro spontaneo, come ansia, depressione e una maggiore reattività allo stress. Dopo l’esposizione ad una dieta ad alta percentuale di grassi, i ratti mostrano elevate soglie di ricompensa di stimolazione cerebrale. Un simile funzionamento ridotto del sistema di ricompensa è stato osservato anche nei ratti soggetti a obesità, prima dello sviluppo dell’obesità, indicando come il ridotto funzionamento del sistema della ricompensa costituisce allo stesso tempo sia un fattore di vulnerabilità che una conseguenza dell’eccessivo consumo di alimenti gradevoli.

Avere nuovamente accesso a dei cibi appetibili in seguito ad un periodo di privazione ne induce un consumo eccessivo e ciò a sua volta allevia il disagio causato da depressione e ansia. Le prove derivanti dai modelli animali suggeriscono fortemente che l’alimentazione patologica può contribuire all’emergere di uno stato emotivo negativo e che ottenere sollievo da ansia o stress può portare ad un’ alimentazione compulsiva.

Perdita di controllo e conseguenze negative dell’ alimentazione compulsiva

Infine, l’ultimo elemento caratteristico dell’ alimentazione compulsiva sembra essere la perdita di controllo, dovuta a deficit nei meccanismi deputati alla soppressione delle azioni inappropriate. Questi deficit probabilmente conferiscono vulnerabilità al comportamento di dipendenza e / o emergono da un uso persistente e prolungato di cibo altamente appetibile, e spingono i soggetti a procrastinare il comportamento disfunzionale anziché porvi fine. Ricerche sperimentali hanno mostrato come individui con disturbi del comportamento compulsivo mostrino una scarsa performance sui compiti relativi alle funzioni esecutive e al controllo inibitorio relativo al cibo, come limitare le risposte, inibire il craving o ritardare l’assunzione. Tali deficit sono associati ad un aumento di peso maggiore e ad una bassa risposta al trattamento per la perdita di peso.

Tale mancanza di controllo spesso persiste nonostante le complicanze fisiche, psicologiche e sociali che portano o esacerbano l’alimentazione incontrollata. Tali soggetti spesso soffrono a causa delle emozioni negative in seguito alle abbuffate, a causa di vissuti di vergogna, negazione e colpa. Quando queste conseguenze emotive e fisiche negative superano gli effetti desiderabili di un cibo gradevole, le persone spesso tentano di iniziare una dieta o di evitare di cedere all’impulso disfunzionale, sebbene poi ricadano spesso in abitudini alimentari scorrette e poco sane.

Nonostante la ricerca si stia interessando sempre più a tale argomento, occorrono ancora numerosi sforzi per una comprensione più profonda dei meccanismi sottostanti al comportamento alimentare compulsivo, non solo in un’ottica patogenetica ma per migliorare le prospettive di prevenzione e trattamento.

Onde cerebrali diverse per diversi tipi di apprendimento

Per la prima volta i ricercatori hanno identificato le caratteristiche neurali dell’ apprendimento implicito e dell’ apprendimento esplicito.

 

È ormai dimostrato che azioni quali guidare una moto e memorizzare le regole degli scacchi richiedano tipi diversi di apprendimento; ora però i ricercatori hanno distinto questi tipi di apprendimento sulla base delle onde cerebrali prodotte.

Earl Miller, professore di neuroscienze al Picower Institute for Learning and Memory e autore dell’articolo afferma:

Queste differenze nelle onde neurali potrebbero guidare gli scienziati nello studio della neurobiologia sottostante l’apprendimento di abilità motorie e di compiti cognitivi complessi. Il nostro obiettivo è quello di aiutare i soggetti con problemi di apprendimento e di memoria, potremmo infatti trovare un modo per stimolare il cervello umano ottimizzando così le tecniche di training per mitigare questi deficit.

Apprendimento implicito e apprendimento esplicito

Gli scienziati credevano esistesse un solo tipo di apprendimento fino a quando non si presentò il caso del famoso paziente Henry Molaison, meglio conosciuto come HM. A seguito di un’operazione che portò alla rimozione di parte del cervello, HM sviluppò una grave amnesia. Il paziente non ricordava ad esempio di aver mangiato qualche minuto prima ma era in grado di apprendere abilità motorie e di migliorarle nel tempo sebbene non avesse memoria di svolgere tali attività.

Il caso di HM e in generale dei pazienti amnesici ha svelato l’esistenza di due diverse tipologie di apprendimento: apprendimento implicito e apprendimento esplicito.

L’ apprendimento esplicito si potrebbe definire un apprendimento consapevole, in cui cioè l’individuo è cosciente di ciò che sta imparando, un esempio è la memorizzazione di un lungo passaggio all’interno di un libro. L’ apprendimento implicito al contrario, è definibile come “apprendimento delle abilità motorie” o “memoria muscolare”, in questo tipo di apprendimento non si ha accesso consapevole a ciò che si sta imparando, è il caso dell’imparare ad andare in bicicletta. Molte attività, quale ad esempio imparare a suonare un nuovo brano musicale, richiedono entrambi i tipi di apprendimento.

Cosa succede a livello cerebrale durante l’ apprendimento

Studiando il comportamento degli animali durante l’esecuzione di diversi compiti, i ricercatori hanno osservato come venissero impiegati i diversi tipi di apprendimento. La scoperta interessante è rappresentata dal fatto che questi tipi di comportamenti erano accompagnati da differenti pattern di onde cerebrali.

Cosa succede quindi quando impariamo qualcosa? Quando i neuroni si attivano, producono segnali elettrici che si combinano per formare onde cerebrali le quali oscillano a diverse frequenze. Durante i compiti di apprendimento esplicito si è verificato un aumento delle onde alfa2-beta (oscillanti a 10-30 hertz, tipiche degli stati di veglia) a seguito di una scelta corretta e una maggioranza di onde delta-theta (3-7 hertz, caratterizzanti gli stati di rilassamento o di sonno) dopo una scelta errata. Le onde alpa2-beta aumentavano durante l’esecuzione dei compiti espliciti per poi diminuire con il progredire dell’ apprendimento. I ricercatori hanno inoltre osservato la cosiddetta “negatività correlata agli eventi” (picchi di attività neurale in risposta a errori comportamentali) solo nei compiti che si pensava richiedessero apprendimento esplicito.

L’aumento di onde alfa2-beta nel cervello durante i compiti espliciti potrebbe riflettere la costruzione di un modello di apprendimento, il ritmo alfa-beta tornerebbe alla normalità solo in seguito alla costruzione di tale modello – spiega Miller.

Al contrario, nei compiti di apprendimento implicito i ritmi delta-theta aumentavano in concomitanza a risposte corrette e decrescevano durante l’ apprendimento. Miller ipotizza che questo pattern potrebbe riflettere la connessione neurale codificante l’abilità motoria durante l’ apprendimento.

I risultati dimostrano che esistono diversi meccanismi sottostanti l’ apprendimento, questo potrebbe essere sfruttato per migliorare le strategie di insegnamento durante l’ apprendimento di un compito. Individuando infatti il tipo di apprendimento che l’individuo sta utilizzando si potrebbe modificare e al tempo stesso potenziare il processo, se ad esempio l’individuo sfrutta l’ apprendimento implicito potremmo fornire feedback positivi in quanto sappiamo che tale tipo di apprendimento si basa su queste risposte.

Inoltre studi precedenti avevano dimostrato come alcune parti del cervello quali ad esempio l’ippocampo, fossero maggiormente coinvolte nell’ apprendimento esplicito mentre aree quali i gangli della base venissero utilizzate in quello implicito. Miller afferma invece che il presente studio identifica sovrapposizioni a livello strutturale in questi due sistemi, indicando che in parte questi condividono le stesse reti neurali.

Infine lo studio delle caratteristiche neurali potrebbe essere utile per identificare in fase precoce malattie quali l’ Alzheimer come afferma Roman Loonis studente del laboratorio di Miller e ricercatore dell’Istituto Picower:

Nell’Alzheimer si verificano cambiamenti nelle strategie di apprendimento: i soggetti affetti utilizzano l’ apprendimento implicito poiché il sistema di apprendimento esplicito risulta calante a causa della demenza, sintomo tipico di questo morbo.

 

Ortoressia come strategia di coping nei soggetti anoressici

Tutte queste considerazioni suggeriscono una forte sovrapposizione tra Anoressia e ortoressia rispetto a ciò che si pensava: l’ ortoressia potrebbe essere un potenziale sottotipo o variante dell’ anoressia, probabilmente una forma meno grave. Un approccio corrispondente è stato suggerito da Kinzl e al. (2006) che avanza l’ipotesi che l’ ortoressia possa essere la porta per un disturbo alimentare più grave come l’anoressia. Il loro studio valutava l’ ortoressia nei dietisti e ha mostrato un altro possibile effetto: l’ ortoressia potrebbe essere una strategia di coping per i soggetti anoressici.

Luisa Resta, OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

Definizione di ortoressia

Nel 1997, il medico americano Steven Bratman coniò il termine ortoressia nervosa come una combinazione delle parole di origine greca “orthos” (appropriato, giusto) e “orexis” (appetito) per indicare l’ossessione per uno stile alimentare sano e consapevole. Le altre caratteristiche del comportamento ortoressico son considerate le seguenti:
– preoccupazione mentale rivolta al mangiar sano;
– idee esagerate/prevalenti riguardanti gli effetti e i benefici salutogeni del cibo;
– una rigida aderenza alle regole alimentari auto-imposte.

Sebbene non inserita all’interno dell’ultima edizione del Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), di recente l’ ortoressia nervosa è stata oggetto di ricerche scientifiche che hanno stimolato il dibattito internazionale circa l’opportunità o meno di annoverare questo disturbo all’interno della nosografia ufficiale del mondo psichiatrico.

A tal proposito, Moroze e al. (2015) hanno proposto una classificazione dell’ ortoressia nella sottocategoria del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, un fenomeno che insorge nei primi dieci anni di vita, caratterizzato dall’evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo (es. odore, colore, consistenza..), che di per se non è rappresentativo dell’ ortoressia.

Al di là di tali considerazioni, rimane poco chiaro il modo in cui il comportamento ortoressico si distanzia dall’ anoressia. Bratman aveva sottinteso una stretta relazione con l’ Anoressia Nervosa quando coniò il termine “ortoressia”. Nondimeno, egli assunse il desiderio di essere magri come pure la perdita di peso intenzionale, come irrilevanti nei soggetti ortoressici.

Correlati psicologici e comportamenti simili nell’ ortoressia e nei disturbi alimentari

  • La focalizzazione cognitiva sulla nutrizione

Analizzando dettagliatamente il concetto teorico del comportamento ortoressico, emergono numerose similitudini con i tipici comportamenti alimentari disfunzionali, in particolare con l’ Anoressia. In entrambe si ravvisa una predominante focalizzazione cognitiva sulla nutrizione: i cibi non vengono scelti in base alla sensazione di fame, sazietà o alle preferenze individuali, bensì secondo una valutazione cognitiva riguardante il loro contenuto calorico o i loro presunti effetti benefici e dannosi sulla salute. La selezione rigida e la progressiva riduzione dei cibi “consentiti” prevalgono sia nell’ Anoressia che nell’ ortoressia, come pure il perfezionismo, l’ansia, il bisogno di controllo, la rigidità dei comportamenti e i rituali legati alla preparazione dei cibi. Al di fuori dei pasti, una considerevole quantità di tempo viene spesa nella pianificazione e nella realizzazione dei pasti quotidiani al fine di riuscire a prestare attenzione ai pensieri rispetto a ciò che sarà mangiato, alla raccolta di informazioni nei confronti di ciascun ingrediente, alla preparazione degli ingredienti, e infine all’assunzione del cibo.
Finora si è pensato che l’assenza di una perdita di peso significativa e intenzionale discriminava tra ortoressia e gli altri disturbi dell’alimentazione; inoltre, la sindrome ortoressica non sembra includere alcuna forma di distorsione dell’immagine corporea. Tuttavia, studi recenti giungono ad una diversa conclusione in riferimento alle correlazioni trovate tra l’ ortoressia e la spinta alla magrezza (comportamento che interferisce con l’aumento di peso) – ossia la principale caratteristica dell’ anoressia – e il perfezionismo.

  • Ortoressia e insoddisfazione corporea

Inoltre, i soggetti ortoressici mostrano una percezione e una valutazione distorte del loro corpo. Uno studio recente suggerisce che le donne con un elevato e marcato comportamento ortoressico sono meno soddisfatte e accettano meno il loro corpo rispetto a quelle con un livello inferiore di pratiche ortoressiche. Risultati simili sono stati trovati anche da Brytek – Matera e al. (2015), indicando una correlazione tra sintomi ortoressici e il rapporto non sano tra sé e il proprio corpo. Pertanto, le difficoltà nella percezione e nell’accettazione del corpo sembrano giocare un importante ruolo nell’ ortoressia, che pone maggiore enfasi sulla stretta relazione tra ortoressia e sintomi di altri disturbi dell’alimentazione.

  • Credenze disfunzionali alla base della restrizione di cibo

Sia l’ ortoressia che l’ anoressia nervosa condividono la restrizione del consumo di cibo, che nell’ anoressia è dovuta ad un’intensa paura di ingrassare, mentre nell’ ortoressia è causata da paure legate al cibo poco salutare secondo le credenze personali. Per la diagnosi di Anoressia la perdita di peso deve essere presente – a differenza dell’ ortoressia, in cui la perdita di peso non è considerata un sintomo centrale del potenziale disturbo. Mentre nell’ ortoressia le idee prevalenti si focalizzano sui benefici della nutrizione e i potenziali benefici del cibo sulla salute, nei soggetti anoressici i pensieri disfunzionali sono associati con un disturbo dell’ immagine corporea. È anche possibile che il disturbo dell’immagine corporea sia presente anche nell’ ortoressia (es. riguardante un corpo sano piuttosto che un corpo magro) e le idee sopravvalutate riguardanti i benefici del cibo si ritrovino anche nell’ anoressia (es. le paure relative al contenuto di grassi dei cibi).

Ortoressia come strategia di coping nell’ anoressia nervosa

Tutte queste considerazioni suggeriscono una forte sovrapposizione tra Anoressia e ortoressia rispetto a ciò che si pensava: l’ ortoressia potrebbe essere un potenziale sottotipo o variante dell’ anoressia, probabilmente una forma meno grave. Un approccio corrispondente è stato suggerito da Kinzl e al. (2006) che avanza l’ipotesi che l’ ortoressia possa essere la porta per un disturbo alimentare più grave come l’anoressia. Il loro studio valutava l’ ortoressia nei dietisti e ha mostrato un altro possibile effetto: l’ ortoressia potrebbe essere una strategia di coping per i soggetti anoressici.

In letteratura, tra gli studi che hanno esaminato la relazione tra questi due disturbi legati all’alimentazione, Barthels e al. (2017) trovano una correlazione di .53 tra ortoressia e spinta alla magrezza, e una correlazione pari a .27 con l’insoddisfazione corporea, come le due principali caratteristiche dell’ anoressia. Inoltre, Segura-Garcia e al. mostrano che il 28% dei pazienti con AN o BN presentano una sintomatologia ortoressica, con una tendenza ad aumentare tali sintomi nel 58% dei casi dopo il trattamento.

Gramaglia e al. (2017) hanno confrontato un campione di soggetti con diagnosi di anoressia e condotte ortoressiche con un gruppo di controllo, da cui si evince che i pazienti con un comportamento ortoressico pronunciato hanno punteggi più alti nella sottoscala dell’autocelebrazione, suggerendo come siano più in grado di sentirsi attraenti e di beneficiare dal mettere in mostra il proprio corpo. Sorprendentemente, i timori ipocondriaci non sembrano giocare un ruolo significativo riguardo alla presenza delle tendenze ortoressiche nei pazienti alimentari.

I risultati maggiormente degni di nota sono il raggiungimento dei bisogni psicologici di base in ambito di dieta e alimentazione. I pazienti con evidenti comportamenti ortoressici sono maggiormente soddisfatti in termini di competenza ed autonomia. Supponendo che tutti i pazienti ricevano un trattamento dietetico paragonabile, questi risultati suggeriscono che i pazienti con un comportamento ortoressico più pronunciato sembrano sentirsi maggiormente autonomi e competenti mentre imparano a mangiare in modo più normale. Ciò potrebbe suggerire che il comportamento alimentare ortoressico serve come strategia di coping per i pazienti con un comportamento alimentare anoressico. Tale ipotesi è supportata dai risultati della ricerca di Segura-Marcia e al. (2015) che indicavano come l’ ortoressia fosse associata, a livello clinico, all’aumento dei sintomi di un disturbo alimentare e un passaggio verso forme meno gravi di disturbi alimentari.

Inoltre, è emerso come i sintomi ortoressici aumentino nel triennio successivo al trattamento, mentre gli indicatori per un disturbo alimentare (AN, BN) tendono a diminuire, sottolineando la possibilità che l’ ortoressia sia usata come strategia di coping dai soggetti anoressici.
La sensazione di avere autocontrollo, specialmente sull’assunzione di cibo, costituisce un rinforzo importante nello sviluppo e nel mantenimento del disturbo alimentare anoressico; gli individui anoressici affermano che il senso di autonomia è fortemente legato al loro desiderio di guarire dal disturbo alimentare.

Il comportamento alimentare ortoressico potrebbe essere un modo più salutare per controllare l’assunzione di cibo e per spostare la propria attenzione dai cibi a basso contenuto di calorie ai cibi sani, con conseguente maggiore varietà di alimenti consentiti per chi soffre di anoressia e minor pericolo di perdere peso. I risultati delle frequenze relative al consumo alimentare sostengono questo presupposto: a prescindere dal contenuto di calorie, gli individui anoressici con numerosi comportamenti ortoressici mangiano più cibi sani.

Cambiare la strategia di selezione dei prodotti alimentari e insegnare ai pazienti anoressici ad aumentare la varietà di alimenti consentiti è un obiettivo importante del trattamento, suggerendo come il comportamento alimentare ortoressico possa aiutare gli individui anoressici ad uscire dal loro disturbo alimentare.

Dal momento che l’ anoressia è ancora difficile da trattare e ha un alto tasso di mortalità nel corso della vita, considerare il comportamento alimentare ortoressico come un piccolo mattoncino nell’andamento progressivo del trattamento psicoterapeutico potrebbe essere un nuovo approccio promettente e un complemento al trattamento allo stato dell’arte. Spostare l’attenzione su alimenti sani e minimizzare l’attenzione per il contenuto delle calorie potrebbe essere un primo passo nel recupero dall’ anoressia. Tuttavia, va tenuto in considerazione che i pazienti esaminati da Gramaglia e colleghi non presentano punteggi bassi sulle sottoscale correlate al comportamento alimentare disfunzionale; probabilmente il mancato recupero dal loro disturbo alimentare riflette il fatto che le modifiche comportamentali richiedono del tempo. Ciò suggerisce un nuovo indirizzo per gli studi in tal senso, cioè la valutazione del comportamento alimentare ortoressico in fase di trattamento e con diverse misurazioni di follow-up per indagare tali condotte alimentari nel tempo.

I paesaggi nella psiche, la psiche nei paesaggi – Recensione al libro Mindscapes (2017) di V. Lingiardi

Lingiardi in Mindscapes parla a viaggiatori, psicoterapeuti, poeti e giardinieri. Tutti uniti in un cammino che ha tre tappe: avvolgersi nell’ambiente, condividerlo con chi ci è vicino, cambiare.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 09/10/2017 su Il Corriere della Sera

 

La mente senza un momento di requie cercherà di dominare la realtà, di asservirla. La realtà opporrà resistenza, rifiuterà di piegarsi, imporrà alla mente di flettersi. È uno scontro di prepotenze, una partita della quale non sarà mai giocato il punto decisivo. Il pragmatista è fiero nel suo vedere fatti, per lui una strada è una sequenza di riferimenti utili: meccanico, panificio, lavanderia, bar. Il pragmatista crede che la sua mente, fedele fotografa del concreto, controlli la realtà. Il pensatore vede oppressione politica nei cartelloni pubblicitari, alienazione nei nonluoghi, tentacoli neri che escono dai tombini. Il pensatore si convince che la sua mente è più interessante di una realtà che si rifiuta di corteggiare, ama solo ciò che si illude di avere creato e si annoia del mondo.

Mindscapes di Vittorio Lingiardi: la psiche immersa nei paesaggi

È un conflitto inutile alla radice. Senza quello scontro con muri, spigoli, sapori e scottature, la mente non esiste. Senza la mente esistono solo vibrazioni, pesi e frequenze. Il libro Mindscapes, di Vittorio Lingiardi, sta lì in mezzo. Scenari della mente: “paesaggi raccolti nella psiche e psiche immersa nei paesaggi”. Squarci di immaginazione che per me sono atti di onestà, in cui la mente ammette di inventare un mondo oltre, nel quale può nuotare, volare, correre.

Si tratta di guardare l’universo intorno con occhi diversi e scoprire che non è semplicemente al di là della nostra pelle, ma è parte dell’animo. Che la nostra stessa essenza è nello scambio con la patina ferrosa che circonda la fabbrica, con la duna mediterranea e con la sensazione dell’acqua sorgiva, fredda che si mischia all’acqua salmastra, calda, e a ogni bracciata incontriamo un diverso grado di trasparenza e noi cambiamo ogni attimo, sorpresi e divertiti dai salti di temperatura.

Lingiardi in Mindscapes parla a viaggiatori, psicoterapeuti, poeti e giardinieri. Tutti uniti in un cammino che ha tre tappe: avvolgersi nell’ambiente, condividerlo con chi ci è vicino, cambiare. Sono forme di fuga, uscite dal mondo – ricordate Elémire Zolla? – atti silenziosamente creativi. Da psicoterapeuta so cosa dice Lingiardi in Mindscapes: creiamo con il paziente un paesaggio mentale condiviso, un film che questi non era riuscito a completare, e ne incurviamo la trama, scriviamo un finale nuovo. Ora abitiamo la nuova storia e poi ci strofiniamo le braccia per sentire la pelle di nuovo liscia dopo che abbiamo lavato via la salsedine.

Mindscapes malati, vite bloccate, paralizzate dalla paura, l’uomo descritto nel libro che ha paura delle malattie sessuali e sogna montagne radioattive, il medico paranoico che non ha relazioni e sogna paesaggi metafisici inanimati, treni che non prenderà mai. La donna forse abusata che oggi è grassa e vergognosa. I suoi mindscapes sono bambine nella bara e “ippopotami incastonati nelle rocce”. Prigioni della mente.

Allora si riprenda a dipingere paesaggi, a viverli insieme a chi ci è caro. L’amata, l’amico, i figli. L’autore del libro Mindscapes, Vittorio Lingiardi, terapeuta-giardiniere, mi porta a casa di Monet, Giverny. Ci sono stato con Eleonora, è un giardino, tutto il paese è un giardino e quando verso il mio caffè sul vassoio Eleonora ride. Subito sono a Memphis, la main street nel mio ricordo è un giardino fiorito e io con i miei colleghi sto creando qualcosa. Lingiardi va a Sud, che per lui è “piante di capperi sulle rovine, Mediterraneo”. Il mio Sud è con Eleonora a Bonifacio, quel fiordo vertiginoso di calcare bianco nel quale si accuccia il porto, mentre la falesia a picco fronteggia il mare possente. E poi falesie più miti a Torre Sant’Andrea in Salento, tra i cui archi è facile nuotare. Un Sud di olivi, vigna, fichidindia, cocci di birra e cespugli di origano e spiaggia chiara e il tutto genera interrogativi rivolti alle dune e loro non rispondono mai davvero.

Mio padre abbatté un pino nel giardino dalla casa al mare. Ora, aiutato da un cumulo di pigne secche, ne brucia il ceppo. Un fuoco lentissimo, invisibile sotto le ceneri. Si crea un piccolo cratere che manda volute di fumo per giorni. Mio figlio, non ancora adolescente, lo guarda spesso. Mi siedo vicino a lui sui gradini. Bello? Bello. Cosa vedi? Non lo so, come un vulcano. È bello avere un minivulcano, emana un’energia primigenia da cui si sprigiona il mistero della terra. Mio figlio e io, incursori nell’altrove, ci guardiamo e scrolliamo le spalle, perché di quella fonte non conosciamo l’origine.

Il narcisismo digitale: il Sè ideale enfatizzato attraverso i social network

Narcisismo digitale: Nel mondo virtuale, la dimensione del Sé ideale sembra essere predominante, l’individuo può facilmente enfatizzare proprie caratteristiche o omettere informazioni riguardanti la propria persona, in modo da veicolare un’immagine di sé positiva. I social network, e Facebook in particolare, costituiscono contesti ideali per l’espressione della sottodimensione del sé ideale, definita come “Sé ideale desiderato”, riconducibile all’identità che un soggetto vorrebbe affermare, date le giuste circostanze.

 

Che cos’è il narcisismo?

Il termine narcisismo a seconda dei vari contesti può assumere diversi significati se utilizzato ad esempio per descrivere un concetto psicoanalitico, un disturbo mentale, un problema sociale o più semplicemente un tratto di personalità. Nella maggior parte dei casi, comunque, quando parliamo di narcisismo ci riferiamo al sano amor proprio.

La società moderna incoraggia l’individualità a discapito dei legami reali di comunità; la notorietà è ritenuta più importante della dignità e come coniato da Cesareo e Vaccarini, (2012) siamo ufficialmente entrati “nell’era del narcisismo” e non da meno con il termine narcisismo oggi oltre le sopracitate definizioni si può aggiungere quella del “narcisismo digitale“.

Il narcisismo digitale

Interessante è l’analisi che si può attuare osservando l’uso dei selfie e dei vari social network volgendo l’attenzione sul rapporto narcisismo-autostima-insicurezza.

Rogers definisce l’autostima come il complesso di valutazioni che ogni individuo ha sul proprio concetto di , quest’ultimo inteso come l’insieme organizzato di elementi, come percezioni e credenze, attraverso i quali il soggetto descrive se stesso.

Si differenziano le dimensioni del “Sè attuale”, ovvero la percezione delle proprie reali caratteristiche e degli attributi che si ritiene effettivamente di possedere, e del “Sé ideale”, consistente invece nella rappresentazione di quelle caratteristiche che si vorrebbero idealmente possedere. La congruenza o la discrepanza tra tali dimensioni del Sé costituisce un fondamentale indicatore del livello di autostima dell’individuo: maggiore è la coerenza tra il Sé attuale e il Sé ideale, maggiore sarà il grado di autostima percepito; di contro, maggiore è la loro discrepanza, minore sarà il grado di autostima percepito.

Nel mondo virtuale, la dimensione del Sé ideale sembra essere predominante, l’individuo può facilmente enfatizzare proprie caratteristiche o omettere informazioni riguardanti la propria persona, in modo da veicolare un’immagine di sé positiva. I social network, e Facebook in particolare, costituiscono contesti ideali per l’espressione della sottodimensione del sé ideale, definita come “Sé ideale desiderato”, riconducibile all’identità che un soggetto vorrebbe affermare, date le giuste circostanze.

Oltre questo, diversi studi hanno analizzato come l’utilizzo di Facebook sia in grado di influenzare l’autostima attraverso due principali spiegazioni:

– la “Poor get Rich Hypotesis”, nota anche come Social Compensation Hypotesis, secondo la quale Facebook consentirebbe ai soggetti introversi e con basso livello di autostima di compensare la carenza di abilità interattive mediante opportunità di comunicazioni online, ovviando i problemi attinenti all’ansia sociale generati dalle tradizionali interazioni vis à vis;

– la “Rich get Richer Hypotesys”, secondo la quale invece Facebook rappresenterebbe per i soggetti estroversi e con un elevato livello di autostima un’ulteriore opportunità attraverso la quale potere interagire e comunicare con l’altro.
Gli stili di personalità risultano accomunati da una tendenza al controllo strategico delle informazioni riguardanti sé, al fine di veicolare immagini positive di sé e ciò è correlato al bisogno di modulare positivamente la propria autostima e soprattutto ad esorcizzare la propria insicurezza.

Quel che rimane è che veicolare un’ immagine di sé positiva non è comunque “essere”, per quanto si voglia fingere ad un certo punto dal virtuale si arriverà all’incontro reale e non ci saranno citazioni o filtri che tengano, il contenuto è sempre più importate del contenitore.

Lo stress può essere dannoso come una cattiva alimentazione

Lo stress può essere responsabile di cambiamenti specifici nella microbiologia intestinale delle donne, simili a quelli dovuti a una dieta ad alto contenuto di grassi.

 

Gli effetti dello stress

In un nuovo articolo pubblicato in Nature Scientific Reports, la professoressa Laura Bridgewater di microbiologia e biologia molecolare, ha scoperto che quando i topi femmine vengono esposti allo stress, i loro microrganismi vitali per la salute digestiva e metabolica si modificano, come se i topi mangiassero cibi ad alto contenuto di grassi.

La Bridgewater e i suoi collaboratori per giungere a questa conclusione hanno esposto per 8 settimane un gruppo di topi, sia di sesso maschile che di sesso femminile, ad una dieta ad alto contenuto di grassi. Dopo 16 settimane, gli stessi topi sono stati esposti a lieve stress per 18 giorni.
I ricercatori hanno poi estratto il DNA microbico prima e dopo l’esposizione a stress per verificare la microbiologia intestinale. Inoltre è stato misurato anche il livello di ansia rispetto alla dieta al alto contenuto di grassi.

Gli studiosi hanno trovato differenze interessanti tra i generi: i topi maschi hanno mostrato maggiore ansia rispetto alla dieta ed hanno anche dimostrato una diminuzione dell’attività in risposta allo stress.

Tuttavia è stato dimostrato che solo nei topi femmine lo stress ha causato un cambiamento nella microbiologia intestinale, come se questi avessero assunto una dieta ad alto contenuto di grassi.

Lo studio è stato eseguito solo sugli animali, ma i ricercatori ritengono che ci possano essere delle implicazioni significative sugli esseri umani.
Nella società le donne tendono ad avere tassi più alti di depressione e ansia legati allo stress” aggiunge la Bridgewater.

Questo studio suggerisce che una possibile fonte di discrepanza di genere possono essere i diversi modi in cui la microbiologia intestinale risponde allo stress.

Le sinapsi: che cosa sono e le tipologie

La sinapsi è un collegamento tra due neuroni che consente la comunicazione tra gli stessi attraverso la propagazione dell’impulso nervoso da una regione cerebrale all’altra. Quindi, in una sinapsi un terminale assonico neurale pre-sinaptico comunica a un neurone bersaglio post-sinaptico una informazione attraverso un impulso nervoso o corrente elettrica.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il termine sinapsi, o giunzione sinaptica, deriva dal greco ed è composta da σύν (con) e da ἅπτειν (toccare), ovvero connettere. La sinapsi è un collegamento tra due neuroni che consente la comunicazione tra gli stessi attraverso la propagazione dell’impulso nervoso da una regione cerebrale all’altra. Quindi, in una sinapsi un terminale assonico neurale pre-sinaptico comunica a un neurone bersaglio post-sinaptico una informazione attraverso un impulso nervoso o corrente elettrica.
In relazione agli elementi neuronali che entrano in gioco con le sinapsi, è possibile individuare diversi tipi di sinapsi.

Sinapsi tra neuroni o interneuroniche

Le sinapsi interneuroiniche possono formarsi tra diversi elementi neuronali e una determinata zona postsinaptica. Proprio in base a quest’ultima possono essere individuati diversi tipi di sinapsi:
– asso-dendritiche, se la regione post sinaptica è caratterizzata da dendriti;
– asso-somatiche, nel caso in cui la regione post sinaptica sia caratterizzata da una regione somatica;
– asso-assoniche, quando comunica con un altro assone.

In prossimità delle sinapsi le ramificazioni assoniche perdono il rivestimento mielinico e si rigonfiano nei cosiddetti bottoni terminali o bottoni sinaptici. Il numero di sinapsi che un solo neurone può creare sono molteplici e alcune di queste sono di tipo eccitatorio, in cui le specializzazioni di membrana sul lato post-sinaptico sono più dense che sul lato pre-sinaptico, sono dette asimmetriche o sinapsi del I tipo di Gray, e altre di tipo inibitorio, in cui le specializzazioni di membrana hanno uno spessore simile e sono dette simmetriche o sinapsi del II tipo di Gray.

Le sinapsi inibitorie esercitano un potente controllo sulla risposta di un neurone.

Il principio fisico dell’inibizione consiste nell’afflusso di ioni cloro con carica negativa nel neurone post sinaptico, e consiste, in sostanza, in un flusso di corrente negativa uscente. L’azione di una sinapsi inibitoria contribuisce all’integrazione sinaptica in cui i potenziali inibitori possono essere sottratti da quelli eccitatori, facendo in modo che il neurone post-sinaptico inneschi meno facilmente i potenziali d’azione.

Inoltre, le giunzioni sinaptiche che si trovano tra gli assoni dei motoneuroni del midollo spinale e dei muscoli scheletrici sono chiamate giunzioni neuromuscolari. Normalmente un potenziale d’azione nell’assone di un motoneurone stimola sempre un potenziale d’azione nella cellula muscolare che innerva. La trasmissione sinaptica è affidabile ed è dovuta in buona parte alle specializzazioni strutturali delle giunzioni pre- e post-sinaptiche. La terminazione pre-sinaptica contiene un gran numero di zone attive e al contrario quella post-sinaptica, chiamata anche placca motrice, racchiude una serie di piccole pieghe, dove si ammassano i recettori per i neurotrasmettitori, allineate con le zone attive. In questo modo, è possibile che una grande quantità di molecole di neurotrasmettitore sia rilasciata su una superficie provvista di chemiocettori.

Sinapsi chimiche e sinapsi elettriche

Dal punto di vista funzionale, ovvero in base al tipo di segnale trasmesso dalla cellula pre-sinaptica a quella post-sinaptica, è possibile individuare due tipi di sinapsi: le sinapsi elettriche e le sinapsi chimiche.

Nelle sinapsi elettriche la propagazione dell’impulso nervoso è estremamente veloce, grazie al passaggio diretto di corrente da una cellula all’altra. Questo è dovuto alla vicinanza o alla continuità citoplasmatica tra la cellula pre-sinaptica e post-sinaptica, e alla presenza di strutture specializzate, il gap junction o giunzioni comunicanti, che si lasciano attraversare dall’onda di depolarizzazione del potenziale d’azione, adducendo una bassissima resistenza. La comunicazione è determinata da correnti ioniche ed è generalmente bidirezionale. Tutto questo consente di sincronizzare le risposte di diverse popolazioni neuroniche e ottenere un’attivazione massiva e molto rapida. Le giunzioni comunicanti appaiono molto comuni all’interno di una grande varietà di cellule non nervose, incluse le glia, le cellule epiteliali, le cellule dei muscoli lisci e di quello cardiaco ed alcune cellule ghiandolari. Esse si ritrovano frequentemente anche nei neuroni agli stadi embrionali precoci e permettono alle cellule vicine di condividere segnali sia elettrici che chimici, i quali possono coadiuvare alla crescita e maturazione.

Nelle sinapsi chimiche, invece, la trasmissione dei segnali è affidata ad un mediatore chimico, detto neurotrasmettitore. Rispetto alle precedenti, tra cellula presinaptica e cellula postsinaptica esiste un punto di discontinuità strutturale che determina una separazione tra le due cellule ed è definito fessura sinaptica. Le sinapsi chimiche comprendono tre diverse strutture: la membrana presinaptica, la fessura sinaptica (o vallo sinaptico) e la membrana postsinaptica. Le sinapsi chimiche sono unidirezionali e presentano un certo ritardo nella trasmissione del segnale elettrico. Quindi, al sopraggiungere dell’impulso nervoso in prossimità del bottone sinaptico, le vescicole che esso contiene, ricche di messaggeri chimici o neurotrasmettitori, si fondono con la membrana cellulare liberando il proprio contenuto nella fessura sinaptica. I neurotrasmettitori sono, quindi, captati da specifici recettori posti sulla membrana post-sinaptica, e ne modificano la permeabilità al passaggio degli ioni. Si genera, in questo modo, un potenziale post-sinaptico depolarizzante (apertura dei canali ionici, con risultante eccitazione) oppure iperpolarizzante (chiusura dei canali ionici, con risultante inibizione).

Dopo aver trasmesso il segnale, il neurotrasmettitore è riassorbito dalla terminazione presinaptica o degradato da enzimi specifici presenti nella fessura della sinapsi. Sia i neurotrasmettitori che gli enzimi proteici necessari per il metabolismo devono essere sintetizzati dal soma, in quanto il terminale assonale che partecipa alla sinapsi non contiene gli organuli necessari alla sintesi proteica.
Molti terminali assonici contengono anche vescicole di dimensioni maggiori denominate granuli escretori e contenenti proteine solubili.

Le membrane pre e post sinaptiche

Nelle membrane pre e post sinaptiche si osservano numerosi accumuli di proteine che, nel loro insieme, sono chiamate specializzazioni di membrana.
Nel versante pre-sinaptico le proteine presenti entro il citoplasma del terminale assonico, insieme alla membrana stessa, rappresentano gli effettivi siti di rilascio del neurotrasmettitore e costituiscono le cosiddette zone attive.

La struttura proteica che attraversa la zona densa della membrana post-sinaptica è detta densità post-sinaptica e contiene i ricettori per il neurotrasmettitore, i quali convertono il segnale chimico intercellulare in segnale intracellulare, nella cellula post-sinaptica.

La modulazione del segnale di membrana

La membrana post-sinaptica risulta piena di molteplici canali trasmettitore-dipendenti e il numero di canali attivati durante la trasmissione sinaptica dipende dalla quantità di neurotrasmettitore liberato. L’unità elementare di neurotrasmettitore rilasciato equivale al contenuto di una singola vescicola sinaptica. La somma del potenziale d’azione eccitatorio è la forma più semplice di integrazione sinaptica presente nel sistema nervoso centrale.
Esistono due tipi di sommazione dei potenziali d’azione:
– spaziale che si ottiene nel momento in cui si sommano i potenziali d’azione generati contemporaneamente da molte sinapsi afferenti su un unico dendrite;
– temporale che invece si ha quando sono sommati i potenziali d’azione generati in rapida successione dalla stessa sinapsi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Adolescenti e mediazione parentale nell’utilizzo della Rete

Negli anni in cui i nativi digitali sono alla seconda generazione non si può non considerare come e quale impatto possa avere l’utilizzo di Internet su bambini e adolescenti; la letteratura fa una disamina delle principali strategie di mediazione parentale che i genitori possono impiegare per monitorare le attività dei figli durante l’ utilizzo di internet.

 

Secondo dati Audiweb aggiornati a Giugno 2017, 43 milioni di italiani dagli 11 ai 74 anni ha accesso a Internet da qualsiasi luogo o strumento, che sia da casa o in mobilità, da tablet o da pc.

Quello che ci viene mostrato è un quadro che definisce molto chiaramente come Internet sia uno strumento diffuso a 360° tra la popolazione, dai più piccoli alle casalinghe fino ad arrivare agli over 70. Pervasivo anche perché presente su differenti device, dagli smartphone alle smart tv fino ad arrivare alle console per videogiochi. Inoltre, i dati ci mostrano come per tutte queste categorie l’utilizzo sia in aumento rispetto ai dati dell’anno precedente. Quello che appare maggiormente esposto è il segmento di popolazione dei più giovani: gli studenti di scuole medie e superiori presentano un tasso di penetrazione superiore al 98%, per cui la quasi totalità dei giovani nella fascia 11-17 anni ha accesso e fa un abituale utilizzo di Internet; genere, città di appartenenza e area geografica non sono discriminanti.

Adolescenti e utilizzo di internet: i rischi per la salute mentale

Non passano inosservati i potenziali rischi che questa diffusione così capillare dell’ utilizzo di internet può comportare sulla salute mentale degli adolescenti. Come osservato da George e colleghi (2017) gli adolescenti passano molte ore al giorno connessi e diverse ipotesi sono state formulate su quanto questa iperconnessione possa fare da trigger o, viceversa, possa riflettere sintomi relativi alla salute mentale. Tanto tempo speso online può favorire fenomeni di isolamento sociale o depressione, quanto può invece essere espressione di problematiche pre-esistenti che trovano online il luogo in cui riflettersi ed esprimersi con maggiore chiarezza o dove, addirittura, possono essere esacerbate nel medio o lungo termine.

D’altro canto, la presenza online può essere legata a carenze in competenze sociali, carenze che si cerca di eludere attraverso l’utilizzo di comunicazione mediata dalle tecnologie. In questo quadro variegato, gli Autori riconoscono la possibilità di modelli in cui l’associazione fra tempo speso online e salute mentale può essere bidirezionale, per cui le attività online possono avere ricadute negative su adolescenti già a rischio ma, come lo studio stesso porta alla luce, possono anche portare a effetti positivi, come la riduzione di sintomi di ansia e depressione. Le analisi degli Autori mostrano una correlazione tra queste ultime e il tempo speso online: maggiore è il numero di ore connessi e minore è la presenza di sintomi depressivi o di ansia.

Quello che sottolineano gli Autori è che la presenza online ha avuto non solo un’impennata negli ultimi anni, dovuta perlopiù allo sviluppo di nuove tecnologie, ma anche una variazione nella tipologia di partecipazione che le tecnologie adesso richiedono e sollecitano: solo dieci anni fa quasi tutte le ricerche su queste tematiche erano orientate allo studio di tecnologie che potremmo definire di fruizione passiva (tv o videogiochi violenti) mentre adesso social media, giochi e attività on line prevedono l’interazione con altri, la condivisione e la partecipazione attiva a ciò che viene pubblicato e condiviso, portando gli utenti ad essere attori, e non solo spettatori, di ciò che avviene nel mondo virtuale.

Non si tratta di una implicazione da poco perché può dar luogo a due fenomeni: da un lato la mutua interazione tra utenti permette l’espressione e lo sviluppo di aspetti del sé, di relazioni in attività condivise e di modalità nuove di apprendimento e divertimento, dall’altro la connessione può includere la partecipazione di figure parentali (e adulte in generale) con una nuova funzione di mediazione e controllo rispetto a ciò che avviene nell’ambiente virtuale. Online i più piccoli e gli adolescenti possono essere esposti a rischi diretti, come cyberbulling, contenuti violenti, di natura pornografica o in generale non adatti, o rischi indiretti, come la diffusione di dati personali ad uso commerciale o di malintenzionati.

La mediazione parentale sull’ utilizzo di internet

L’analisi della letteratura (e.g. Collier et al., 2016; Symons et al., 2017) fa una disamina delle principali strategie di mediazione parentale che i genitori possono impiegare per monitorare le attività dei figli durante l’ utilizzo di internet.

Viene chiamata mediazione parentale attiva la spiegazione ed interpretazione dei contenuti da parte dei genitori: un commento sul comportamento di un personaggio, una domanda su come viene vista una situazione, una opinione su ciò che si fruisce, volti a sviluppare il pensiero critico nel ragazzo; la mediazione parentale restrittiva riguarda le limitazioni su tempo speso e contenuti cui i figli possono accedere, anche adoperando sussidi tecnologici che permettono di monitorare l’ utilizzo di internet e/o limitarne l’uso; infine, la mediazione tramite supervisione e co-utilizzo che consiste nel monitorare il figlio quando è connesso e/o utilizzare Internet insieme a lui.

Secondo la meta analisi condotta da Collier e colleghi (2016), la mediazione parentale ha un effetto di filtro su contenuti e di moderazione su eventuali outcome negativi. Gli Autori hanno analizzato 57 studi e preso in considerazione per ogni stile di mediazione parentale diverse variabili su cui la letteratura ha mostrato solido interesse: il tempo speso on line, in assoluto e relativo a specifici contenuti (aggressivo, educativo, ecc.), è quello che si è mostrato più significativamente legato alla mediazione parentale, seguito da comportamento aggressivo (verbale, fisico, relazionale), abuso di sostanze (alcol, tabacco, droghe) e infine da comportamenti legati alla sfera sessuale (sesso prematuro, promiscuità, ecc.).

Anche dal lavoro di Symons e colleghi (2017) emerge come la mediazione parentale può fare da ‘effetto cuscinetto’ rispetto a questi rischi. Nel loro studio gli Autori hanno indagato le strategie messe in campo da parte di genitori di adolescenti di 13-17 anni nel rapporto con l’ utilizzo di Internet. Le prime difficoltà avvertite dai genitori riguardano i confini e la sovrapposizione di diversi aspetti della vita dei propri figli, aspetti che contemporaneamente vengono messi in gioco anche nelle interazioni online. Se da un lato viene riconosciuta l’importanza e la centralità della vita online dei ragazzi, dall’altro le preoccupazioni riguardano come i ragazzi si comportano, quali informazioni rendono pubbliche, con quali persone si relazionano e cosa questo comporta per esempio in termini di reputazione o di distrazione dalle attività offline. D’altro canto vengono riconosciuti anche i benefici del mondo virtuale come strumento di apprendimento e supporto alle attività scolastiche e alle relazioni con i compagni.

La mediazione parentale avviene online ‘connettendosi’ agli account dei ragazzi e diventando ‘amici’ nei social network e offline adottando uno stile di comunicazione aperto al confronto e al dialogo su ciò che avviene online, accompagnato da uno stile genitoriale tendenzialmente disponibile e un clima educativo di apertura e comprensione.

Una delle difficoltà incontrate dai genitori è modellare le diverse strategie in base all’età: col passare degli anni la spinta all’autonomia è sempre più sentita dagli adolescenti quanto dai genitori che comprendono il bisogno di spazi in cui il ragazzo possa sentirsi indipendente e libero nell’esplorazione.

Come sottolineano gli Autori, le tipologie di mediazione parentale variano di efficacia man mano che il bambino diventa adolescente: modalità restrittive e coercitive vengono vissute come positive linee guida dai più piccoli, ma come obblighi dai più grandi. Questi ultimi vivono una fase dello sviluppo in cui l’autorità parentale non viene più riconosciuta come negli anni precedenti soprattutto su alcuni domini della sfera personale come le amicizie e, in generale, tutto ciò che è determinato e ha conseguenze che riguardano l’ adolescente nella sua individualità.

I media sono agenti di socializzazione quanto le figure parentali, agenti che veicolano credenze e comportamenti nel percorso di crescita dei piccoli come degli adolescenti. Negli anni delicati della formazione il supporto parentale aiuta a creare il frame attraverso il quale le esperienze vengono interpretate, l’autonomia viene consolidata assieme all’auto-regolazione e al senso critico e in cui vengono sperimentate esperienze decisive con i pari.

Compito di chi segue la crescita dei ragazzi è guidare verso un utilizzo consapevole dei mezzi digitali attraverso un percorso che va dal fissare regole e limitazioni sensate allo sviluppo di un senso critico che porti verso scelte consapevoli, mature e responsabili.

Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi (2017) – Recensione del libro

Il carcere è un luogo fuori dal mondo, un non-luogo che diventa contenitore del disagio, di ciò che la società tende a espellere, spesso senza interrogarsi troppo su quale davvero dovrebbe essere la sua funzione.

 

Ho lavorato in carcere per sette anni e quello che ho imparato a conoscere è un mondo molto diverso da quello che mi aspettavo di trovare quando, con una certa diffidenza, sono entrata la prima volta. Quello che ho scoperto è un mondo fatto innanzi tutto di persone: sembrerà banale ma stupisce camminare per quegli infiniti corridoi tetri e spogli e incontrare non carcerati e carcerieri ma persone come tutti noi alle prese con piccoli e grandi problemi del vivere di tutti i giorni.

Obiettivo e merito del volume Reclusi. Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi sono di dare accesso a una realtà troppo spesso esclusa dalla consapevolezza della società e relegata ai margini, ad icone stereotipiche o a notizia sensazionalistica solo quando qualche evento drammatico costringe il mondo a confrontarvisi.

Attraverso le pagine scritte da Lacatena e Lamarca, rispettivamente sociologa del Dipartimento Dipendenze Patologiche dell’ASL di Taranto e Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria della casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, emerge un quadro di vita quotidiana in cui tutta la schiera di vissuti umani è rappresentata. I detenuti e gli operatori che lavorano in carcere vivono ogni giorno confrontandosi con necessità che vanno dalle più banali legate alla sopravvivenza a quelle più squisitamente esistenziali, costretti a trovare una dimensione possibile in un contesto in cui la libertà di cui si viene privati non è solo quella di uscire dalle mura, ma riguarda quasi ogni decisione, ogni aspetto del vivere.

Gli autori cercano di far conoscere questo mondo “altro” con le sue complessità, le sue regole, il suo linguaggio e i suoi attori, andando oltre una visione semplicistica in cui il detenuto è concepito come pericoloso criminale o vittima del sistema.

Il volume è organizzato in due parti: la prima narra cos’è il carcere, quali sono le sue dinamiche, la sua organizzazione anche in relazione a particolari categorie di detenuti, come sono strutturati gli istituti, chi lavora nel carcere e quali sono le peculiarità e criticità del mondo penitenziario. In questa prima parte vengono anche approfonditi alcuni temi critici legati a particolari categorie di detenuti: soggetti con una dipendenza da sostanze, donne e stranieri.

La seconda parte dell’opera dà invece voce ai protagonisti attraverso gli strumenti che hanno a disposizione: domandine, rapporti, reclami, lettere…

Tutto ciò che concerne la vita intramuraria, come il lavoro, l’istruzione e le attività culturali, sportive e ricreative, la sfera religiosa, gli spazi fisici, la salute fisica e psicologica, la necessità di coniugare bisogni e diritti delle persone recluse con le esigenze di ordine e sicurezza, fino al delicato tema dei legami affettivi e della sessualità negati, viene raccontato dagli autori e poi attraverso documenti scritti da detenuti e operatori alla prese con la difficile gestione della quotidianità in un ambiente come quello penitenziario.

Il volume, nei suoi ultimi capitoli, affronta poi il tema di come il carcere trova rappresentazione nel mondo esterno: non solo vengono proposti elenchi di film, opere d’arte e canzoni che in qualche modo raccontano il carcere, ma viene anche raccontata la progressiva attenzione che il giornalismo gli ha dedicato, anche nella sua dimensione deontologica nel trattare informazioni riguardanti persone che necessitano di una tutela privilegiata, come quelle private della libertà.

In appendice gli autori inseriscono alcuni interessanti documenti che illustrano ulteriormente il mondo “dentro”: un glossario che aiuta ad orientarsi nella vita del penitenziario attraverso il suo specifico linguaggio, una guida elaborata da alcune detenute del carcere di Rebibbia con espedienti utili alla vita quotidiana per fronteggiare l’indisponibilità di alcuni prodotti all’interno del carcere, la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” e il documento finale degli Stati Generali sull’esecuzione penale del 2016.

Un’opera del genere non può non partire da una riflessione sul ruolo del carcere nella società: il compito della giustizia non è la vendetta e il carcere non può e non deve essere concepito solo come punizione, ma soprattutto, come recita anche la nostra Costituzione, come occasione di rieducazione e reinserimento sociale, nel rispetto della dignità umana. E’ necessario prima di tutto occuparsi di persone e dei loro bisogni, anche in considerazione del fatto che un’ottica puramente coercitiva non è e storicamente non è mai stata efficace per affrontare e prevenire la devianza alle norme che reggono una società.

Cosa significa vivere in carcere e quali sono i suoi effetti sulle persone?

Nonostante sia il sistema più usato nel corso della storia per far fronte alla devianza, l’analisi sociologica ci illustra come da sempre il carcere non svolga un ruolo di deterrente dal commettere reati né abbia un reale potere rieducativo, ma al contrario tenda a produrre criminali ancora più incalliti, funzionando come vera e propria scuola di criminalità. L’effetto è, infatti, quello di “prigionizzare” i detenuti, spingendoli ad assumere tradizioni, modi e abitudini propri unicamente della cultura penitenziaria, nettamente separati e in contrasto con i modelli promossi nel mondo esterno.

Lacatena e Lamarca portano dati e considerazioni che sottolineano come solo attraverso un programma teso a ristabilire le capacità di interazione sociale, incentivando il lavoro e altre attività tese ad un processo di recupero e di empowerment della persona reclusa, favorendo le relazioni con l’esterno sarà possibile una piena rieducazione e risocializzazione. Altrimenti il carcere rimarrà un contenitore in cui gettare soprattutto piccoli delinquenti e persone provenienti da fasce più disagiate della popolazione con l’effetto di sedare le ansie e permettere, più che una reale sicurezza, la maggiore percezione della stessa da parte del mondo esterno.

Le politiche degli ultimi anni, con fasi altalenanti, hanno portato, infatti, ad una composizione particolare della popolazione detenuta, costituita da una significativa percentuale di stranieri e persone tossicodipendenti, contribuendo al problema del sovraffollamento.

Nonostante i dati reali non giustifichino eccessivi allarmismi e paure, di fatto esiste una discriminazione che deriva dalla povertà economica, sociale e culturale che spinge alla marginalità.

Gli stranieri sono puniti per reati meno gravi rispetto agli italiani, sono maggiormente sottoposti a custodia cautelare e hanno minore accesso a misure alternative. Allo stesso modo il ricorso alla pena detentiva è ancora troppo praticato per persone tossicodipendenti, nonostante sia stata introdotta ormai dagli anni ’80 la misura alternativa di affidamento in prova ai Servizi Sociali. Il senso di queste misure non è e non deve essere quello di uno sconto di pena o premio, ma di uno strumento di riabilitazione e rieducazione più idoneo per questi soggetti. Il carcere, inoltre, non rappresenta un deterrente per questo tipo di reati, anzi l’effetto criminogeno dell’ambiente penitenziario si combina alla diminuzione della sensibilità rispetto all’afflittività della pena, tanto che si registra un tasso del 68% di recidive, a fronte del 18% di chi ha usufruito di pene alternative. Per questo il maggior ricorso a misure alternative avrebbe indubbi vantaggi economici e di sicurezza per la società.

Gli spazi in carcere rappresentano una questione centrale e spinosa. Nel 2013 la “Sentenza Torreggiani” ha condannato l’Italia per la violazione dell’art.3 della Convenzione europea che stabilisce il divieto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti, imponendo un adeguamento delle strutture per far fronte in maniera idonea e sufficiente al problema del sovraffollamento. Nonostante nel corso degli anni successivi siano stati emanati provvedimenti e norme a tale proposito, di fatto non hanno ancora trovato piena attuazione e il sovraffollamento resta una seria difficoltà per la popolazione detenuta.

Non è solo una questione di metri quadri a disposizione: l’ambiente fisico e sociale ha un’enorme influenza su pensieri, sentimenti e percezioni. Gli spazi angusti, la convivenza forzata, le condizioni in termini di igiene, illuminazione, ecc. in cui i reclusi trascorrono la loro vita sono spesso all’origine di reazioni crescenti di collera, disagio, paura, infelicità che possono esitare in aggressività verso se stessi e gli altri.

Secondo gli autori “ridefinire l’architettura delle nostre carceri e contenere il più possibile il numero dei detenuti presenti al loro interno è una priorità ineludibile per ragioni umane e, non ultima, di spesa sanitaria” (p.240).

Le numerose criticità del sistema penitenziario emergono prepotentemente quando si considera la questione della salute fisica e mentale.

La vita della prigione, con i suoi spazi, la promiscuità, accentuata dal sovraffollamento, il più difficile accesso alle cure, la scarsa igiene, oltre alla privazione della libertà, comporta spesso gravi conseguenze per la salute dei detenuti. La detenzione è un evento altamente stressante che priva la persona di risorse basilari, generando vissuti di impotenza e mancanza di speranza per il futuro. L’ambiente carcerario può amplificare precedenti disagi fisici e psichici, orientandoli verso condotte autolesive, ma anche il solo trovarsi in tale contesto genera grandi sofferenze. Il carcere è un luogo che crea, infatti, rischio suicidario: la percentuale dei suicidi in carcere è di 12 volte superiore a quella della vita libera.

Nonostante dopo la “sentenza Torreggiani” qualcosa sia cambiato e da diversi anni sia stato istituito un servizio atto ad accogliere tutti i nuovi giunti per individuare più facilmente i detenuti a rischio, l’ambiente carcerario rappresenta una grande sfida per le capacità di adattamento di una persona e il corpo rischia di diventare l’unico elemento attraverso cui esercitare controllo contro il senso di impotenza e passività.

Ciò che gli autori del volume sottolineano con forza è la necessità di rafforzare l’intero sistema di ascolto e attenzione alle esigenze della persona detenuta. Non un criminale, non un recluso, non qualcuno da “gestire” per le sfide che comporta alle esigenze di ordine e sicurezza dell’organizzazione penitenziaria, ma una persona con sentimenti, pensieri, bisogni e fragilità.

Solo attraverso un maggiore ascolto orientato al bisogno, incentivando il lavoro e la percezione di utilità e riparazione attraverso la pena, coltivando le relazioni col mondo esterno e privilegiando le misure alternative alla detenzione sarà possibile mirare davvero alla rieducazione del reo, creando le condizioni di sicurezza per un rilascio alla vita libera. La pena, compresa la reclusione, può davvero essere occasione di riabilitazione, a patto però che non venga intesa come spazio in cui riversare ciò che la società non riesce ad integrare, ma come momento in cui permettere al condannato di intraprendere un processo di recupero, creando un ponte con il “dopo” e favorendo la reintegrazione a fine pena. Una simile prospettiva, che privilegia la reale efficacia alla spettacolarità della punizione, avrebbe indubbi vantaggi in termini di sicurezza e costi soprattutto per la società nel suo insieme.

Le crisi epilettiche infrequenti possono danneggiare la memoria

Un team di ricercatori rivela un meccanismo in grado di spiegare come anche le crisi epilettiche relativamente infrequenti possano portare a deficit cognitivi a lungo termine, mediante ricerche su modelli animali.

 

Le crisi epilettiche infrequenti possono indurre deficit cognitivi

Anche se è evidente che le crisi epilettiche siano correlate alla perdita di memoria e ad altri deficit cognitivi nei pazienti con malattia di Alzheimer, come ciò accada è qualcosa di misterioso. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine, un team di ricercatori rivela un meccanismo in grado di spiegare come anche le crisi relativamente infrequenti possano portare a disordini cognitivi a lungo termine in modelli animali. Una miglior comprensione di questo nuovo meccanismo può far pensare all’attuazione di strategie future capaci di ridurre i deficit cognitivi nella malattia di Alzheimer e in altre condizioni associate a crisi epilettiche.

L’autore Jeannie Chin, assistente di neuroscienze presso il Baylor College of Medicine, dichiara che è stato complesso capire come le crisi non frequenti possano portare a cambiamenti persistenti nella memoria nei pazienti con malattia di Alzheimer. Per risolvere questo enigma, hanno utilizzato un modello animale, in particolare un topo affetto dalla malattia di Alzheimer, concentrandosi sui cambiamenti genetici che avrebbero potuto innescare le crisi,  e molto probabilmente causare la conseguente perdita di memoria o altri deficit cognitivi.

I ricercatori hanno misurato i livelli di un certo numero di proteine coinvolte nella memoria e nell’apprendimento e hanno scoperto che i livelli della proteina deltaFosB aumentano notevolmente nell’ippocampo dei topi con malattia di Alzheimer che hanno crisi epilettiche.

Cosa causa i deficit cognitivi e di memoria dopo una crisi epilettica

In questo studio, i ricercatori hanno scoperto che dopo una crisi, la proteina deltaFosB rimane nell’ippocampo per un periodo insolitamente lungo; la sua emivita, il tempo necessario per ridurre del 50% la sua quantità, è di otto giorni. La maggior parte delle proteine ha un’emivita che è di uno o due giorni.

Poichè la deltaFosB è un fattore di trascrizione, cioè il suo compito è quello di regolare l’espressione di altre proteine, è possibile dedurre che l’aumento dei livelli di deltaFosB potrebbero essere responsabili della soppressione della produzione di proteine necessarie per l’apprendimento e per la memoria. Infatti, nello studio è stato riscontrato che quando i livelli del deltaFosB aumentano, quelli di altre proteine, come la calbindina, diminuiscono nel giro dentato dell’ippocampo. Da diverso tempo è noto che la calbindina è coinvolta nella malattia di Alzheimer e nell’epilessia, ma il suo meccanismo di regolazione è ancora sconosciuto. I ricercatori hanno ipotizzato che il deltaFosB potrebbe essere responsabile della regolazione della produzione della calbindina.

Ulteriori indagini sono a sostegno di questa ipotesi. Gli scienziati hanno dimostrato che la deltaFosB può legarsi al gene calbindina (Calb1) che sopprime l’espressione della proteina. Infatti, aumentando i livelli di calbindina nel giro dentato dell’ippocampo mediante inibizione della deltaFosB, si è verificato un miglioramento della memoria spaziale nel modello animale con malattia di Alzheimer. Viceversa, aumentando sperimentalmente i livelli di deltaFosB nei topi sani, l’espressione di calbindina è stata soppressa e la memoria degli animali si è deteriorata, dimostrando che deltaFosB e calbindina sono regolatori chiave della memoria.

Questa scoperta aiuta a capire come le crisi epilettiche poco frequenti possano avere effetti dannosi sulla memoria. La DeltaFosB ha un’emivita relativamente lunga, quindi anche quando le crisi sono rare, la proteina rimane nell’ippocampo per settimane agendo come un inibitore, riducendo la produzione di calbindina e di altre proteine, disregolando la conseguente attività cerebrale coinvolta nella memoria.

I ricercatori hanno trovato gli stessi cambiamenti dei livelli deltaFosB e calbindina nell’ippocampo dei pazienti affetti da Alzheimer e nel lobo temporale dei pazienti epilettici. Tuttavia, viene sottolineato come sia ancora troppo presto sapere con certezza se la regolazione di deltaFosB o di calbindina possa migliorare o prevenire i problemi di memoria o altri deficit cognitivi nelle persone con malattia di Alzheimer.

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