Genitorialità
La genitorialità (dal latino genitor-genitoris, ovvero colui che genera o ha generato) si riferisce al processo di crescita ed educazione dei figli, con particolare riferimento al supporto e alla promozione dello sviluppo fisico, emotivo, mentale e sociale di un bambino (Brooks, 2012). La genitorialità può accompagnare la prole dalla nascita fino all’età adulta e si basa su specifici atteggiamenti, conoscenze, competenze, credenze e comportamenti dei genitori in relazione allo sviluppo dei loro figli.
La genitorialità può essere indipendente dal legame di sangue. Alcuni autori, infatti, suggeriscono l’esistenza di una genitorialità biologica, connessa ai processi di procreazione e gestazione della prole, e una genitorialità sociale, legata alle dimensioni di cura, protezione, educazione e socializzazione di figli non biologici, come nel caso dell’adozione o dell’affido (Barudy & Dantagnan, 2005; 2010). La genitorialità può variare ampiamente tra i nuclei familiari, con contesti socioculturali che svolgono un ruolo importante nel plasmare le relazioni familiari e le pratiche di educazione dei figli.
Funzioni della genitorialità
Secondo le Accademie Nazionali delle Scienze degli Stati Uniti (2016), la genitorialità può influenzare quattro domini di sviluppo dei bambini di tutte le età, esercitando su di esse funzioni di protezione e promozione.
Salute fisica e sicurezza
La genitorialità deve assicurare cure che soddisfino gli standard normativi per la crescita e lo sviluppo fisico, garantendo la sopravvivenza e la protezione dei bambini da lesioni e maltrattamenti fisici, psicologici o sessuali. Salute fisica e sicurezza sono fondamentali per raggiungere le altre funzioni descritte di seguito.
Competenza emotiva e comportamentale
I bambini necessitano di cure che promuovano la loro salute mentale e il loro benessere in generale, alimentando un senso positivo di sé, così come la capacità di affrontare situazioni stressanti, regolare le emozioni, superare le paure e accettare delusioni e frustrazioni (National Academies of Sciences, 2016). La genitorialità, infatti, rappresenta una risorsa essenziale per i bambini nell’apprendimento della gestione delle emozioni, dell’adattamento e della gestione del comportamento. Il supporto dei genitori può contribuire a ridurre il rischio di comportamenti interiorizzanti, come quelli associati ad ansia e depressione, in grado di compromettere l’adattamento dei bambini e la capacità di funzionare bene a casa, a scuola e nella comunità più ampia (Osofsky & Fitzgerald, 2000). Al contrario, sintomi come paura estrema, impotenza, disperazione, apatia, depressione e ritiro possono essere associati a cure genitoriali inadeguate.
Competenza sociale
I bambini che possiedono adeguate competenze sociali di base sono in grado di sviluppare e mantenere relazioni positive con i coetanei e gli adulti (Semrud-Clikeman, 2007). Le competenze sociali di base includono una gamma di comportamenti prosociali, come empatia e interesse per i sentimenti degli altri, cooperazione, condivisione e empatia, tutti positivamente associati al successo dei bambini sia a scuola che in contesti non accademici, e possono essere promossi attraverso la genitorialità (Durlak et al., 2011 ; Fantuzzo et al., 2007).
Competenza cognitiva
Si tratta di abilità e capacità necessarie a ogni età o fase di sviluppo, per ottenere successo a scuola e nel mondo in generale. Comprende abilità nel linguaggio e nella comunicazione, nella lettura, scrittura, calcolo e risoluzione dei problemi (National Academies of Sciences, 2016). I bambini traggono beneficio da ambienti stimolanti e di supporto in cui sviluppare tali abilità (Gottfried, 2013).
Attaccamento e studi sulla genitorialità
Dai suoi inizi fino a oggi, la teoria dell’attaccamento ha rappresentato uno degli approcci teorici più importanti nello studio del legame tra genitori e figli. Da Sigmund Freud (1925) ad altri rinomati esponenti della psicoanalisi, come Melanie Klein (1929), René Spitz (1945) e Donald Winnicott (1957), innumerevoli sono stati i contributi riguardanti la relazione tra qualità dell’attaccamento e sviluppo infantile. Pioniere nello studio dell’attaccamento fu John Bowlby (1969), il cui approccio etologico alla genitorialità gettò le basi per molti studi successivi sulla cura dei bambini. Bowlby (1969, 1973) propose che il legame tra madre e figlio fosse il risultato di un insieme di modelli comportamentali, in parte pre-programmati, che si sviluppano durante i primi mesi di vita e consentono la costruzione dell’attaccamento mamma-bambino. Per Bowlby (1988), questa relazione può essere intesa come un bisogno biologico e relazionale del bambino di cercare sicurezza e conforto in un adulto significativo in condizioni di stress.
La ricerca sottolinea la capacità del neonato di interagire socialmente con la madre, e di questa di essere consapevole del tentativo di interazione sociale del neonato e di rispondere di conseguenza ai bisogni del bambino. Ricordiamo lo studio di Mary Ainsworth (1969) sulla Strange Situation e gli studi di altri importanti ricercatori (Schaeffer, 1965; Winnicott, 1974, citato in Bowlby, 1988).
Successivamente, Main e Weston (1981) hanno ampliato il lavoro di Ainsworth osservando i bambini nella loro relazione prima con la madre e alcuni mesi dopo con il padre, scoprendo che i modelli di attaccamento alle madri e ai padri erano molto simili. Tuttavia, l’analisi individuale ha mostrato che ogni bambino può sviluppare una relazione sicura con la madre ma non con il padre, e viceversa. Recentemente, la teoria dell’attaccamento si è evoluta in uno dei modelli teorici centrali dello sviluppo infantile. Lo sviluppo di una relazione di attaccamento sicuro richiede comportamenti di cura e protezione da parte dei genitori, consentendo al bambino di soddisfare i propri requisiti di affetto e sicurezza primaria, al fine di rispondere in modo appropriato ai segnali socio-affettivi dei propri caregiver. In questa linea, le interazioni diadiche emergenti (madre-bambino) e le triadi (incluso il padre) diventano centrali per il funzionamento neuropsicologico del bambino (Hughes, 2004).
Stili genitoriali
Lo stile genitoriale è definito come l’insieme di atteggiamenti e comportamenti che i genitori adottano nella crescita e nell’educazione dei figli, uniti al clima emotivo in cui i comportamenti dei genitori vengono espressi (Darling & Steinberg, 1993). Studi sulle relazioni genitori-figli hanno messo in luce il legame tra differenti stili genitoriali e differenti traiettorie di sviluppo nei bambini, in ambito cognitivo, motorio, linguistico, emotivo, nella salute mentale, nelle relazioni sociali con i pari e nelle future relazioni adulte (Lanjekar et al., 2022; Chuibin & Fakhra, 2022; Beyarslan & Uzer, 2022).
Un filone di studi suggerisce che le esperienze personali dei genitori quando erano bambini possono avere un impatto sulle loro successive pratiche di educazione dei figli (Madden et al., 2015). Le ricerche stimano, infatti, una trasmissione dello stile genitoriale del 35-45% alla generazione successiva (Belsky et al., 2009).
Le ricerche sulla genitorialità di Maccoby e Martin (1983) e di Baumrind (1991) hanno delineato quattro principali tipologie di stili genitoriali.
Stile genitoriale autoritario
I genitori comunicano in modo unidirezionale, con regole rigide che il bambino deve seguire senza possibilità di negoziazione. Di solito, tali regole vengono spiegate di rado e i genitori sviluppano aspettative elevate, come profitto scolastico eccellente, alta collaborazione negli impegni e nelle regole familiari (ad es. rispettare sempre l’orario di rientro a casa). I bambini spesso mostrano un comportamento ben educato, ma possono presentare elevata aggressività, o al contrario timidezza, scarse competenze sociali, scarsa autonomia, tendenza a mentire, difficoltà nel prendere decisioni e un più elevato rischio di ansia e depressione (Masud et al., 2019).
Stile genitoriale autorevole
È caratterizzato da una relazione stretta e affettuosa tra genitori e figli. I genitori stabiliscono aspettative e linee guida chiare e spiegano il ragionamento alla base delle loro azioni disciplinari. Utilizzano strategie educative come strumento di supporto piuttosto che come punizione. La comunicazione genitori-figli è aperta, frequente e appropriata. La genitorialità autorevole promuove fiducia, autocontrollo comportamentale e autoregolazione emotiva nei bambini (Masud et al., 2019; Morris et al., 2007). Tale stile è associato a risultati scolastici e accademici migliori (Pong et al., 2010; Lanjekar et al., 2022).
Stile genitoriale permissivo
I genitori permissivi sono tipicamente affettuosi e amorevoli, spesso hanno aspettative minime per i loro figli. Impongono poche regole e mantengono una comunicazione aperta, consentendo ai loro figli di gestire le situazioni in modo indipendente. Le misure disciplinari sono di solito poco frequenti, poiché i genitori permissivi spesso assumono un ruolo più di amici che di figure autorevoli. Regole limitate possono portare i bambini a sviluppare abitudini alimentari malsane, aumentando il rischio di obesità e altri problemi di salute a lungo termine (Lopez et al., 2018). I figli possono sviluppare buona autostima e discrete capacità sociali, ma mostrarsi impulsivi, esigenti, egocentrici e con difficoltà nell’autoregolazione emotiva e nell’autocontrollo comportamentale (Leeman et al., 2014).
Stile genitoriale non coinvolto
I genitori concedono ai figli un alto grado di libertà, in genere adottando un approccio non invasivo. Sebbene possano soddisfare i bisogni di base dei loro figli, rimangono emotivamente distaccati e disimpegnati dalla loro vita. Mantengono una comunicazione limitata con i loro figli, fornendo un’educazione minima e avendo poche, se non nessuna, aspettative. I figli possono essere più autosufficienti rispetto a quelli cresciuti con altri stili genitoriali, ma possono sperimentare difficoltà con la regolazione emotiva, mostrare strategie di coping meno efficaci, affrontare sfide accademiche con minore successo e avere difficoltà a mantenere o coltivare relazioni sociali (Kuppens & Ceulemans, 2019; Nijhof & Engels, 2007).
Rischi della genitorialità: burnout e depressione post partum
Le psicologhe dell’Università Cattolica di Louvain Isabelle Roskam e Moira Mikolajczak hanno introdotto (2015) la nozione di burnout genitoriale, definito come uno stato di esaurimento cronico legato all’essere genitori. Il burnout genitoriale può causare sensi di colpa e vergogna, distacco emotivo dai figli, fantasie di fuga, sensazione di sopraffazione e rimorso rispetto al ruolo genitoriale. Tra i fattori di rischio associati al burnout genitoriale vi sono: ideali genitoriali eccessivamente elevati, perfezionismo genitoriale, mancanza di reti di supporto familiari o di altro tipo, partner non collaboranti e distribuzione iniqua delle faccende domestiche e genitoriali (Schaffner, 2024). Il burnout genitoriale non colpisce solo i genitori, ma ha un impatto significativo anche sul benessere dei bambini, ed è più diffuso nei paesi occidentali caratterizzato da un elevato individualismo (Roskam et al., 2024).
La depressione postpartum è un disturbo dell’umore che si verifica durante il periodo postnatale, con una prevalenza globale dal 10% al 20% (Ceriani Cernadas J.M., 2020), in grado di raggiungere il 26% nelle adolescenti e nelle madri sole, in condizioni di basso status sociale, basso livello di istruzione e scarso supporto sociale. I sintomi comprendono: umore depresso o labile, ansia, irritabilità, sensazione di sopraffazione, disturbi del sonno e dell’alimentazione, difficoltà di concentrazione, affaticamento, senso di colpa o di inutilità e, in alcuni casi, pensieri suicidari. La depressione post partum può essere diagnosticata anche nei padri, con una percentuale che oscilla tra il 4 e il 25% (Andling et al., 2015)
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