Punizioni: tra efficacia e rischi
Quando si parla di punizione, in psicologia si fa riferimento all’uso di conseguenze negative per ridurre un comportamento indesiderato. L’obiettivo è quello di formare un’associazione tra il comportamento messo in atto e le conseguenze negative che ne derivano. Una volta creata questa associazione, la speranza è che il comportamento abbia meno probabilità di verificarsi (Jean-Richard-Dit-Bressel et al., 2018).
Nel redimere i comportamenti indesiderati dei bambini, i genitori adottano classicamente una varietà di punizioni, tra cui:
- rimproveri verbali;
- time-out, una procedura di allontanamento dei bambini dal contesto in cui si trovano, per un breve arco di tempo;
- costo della risposta, ovvero “multe” e sottrazione di privilegi (es. proibire di guardare la tv per un giorno o togliere alcuni gettoni guadagnati in un sistema quotidiano di ricompense);
- ipercorrezione, far eseguire al bambino, in modo prolungato nel tempo, un comportamento collegato a quello che si desidera eliminare (es. “Se non metti in ordine i tuoi giochi, sistemerai i tuoi e quelli di tua sorella”);
- punizioni fisiche (ad es. sculacciate), definite dal Consiglio dell’Unione Europea una violazione del diritto fondamentale alla dignità umana e all’integrità fisica dei bambini.
Una mole crescente di studi dimostra che non tutte le punizioni sono efficaci, alcune sono addirittura dannose, e altre sono utili soltanto se eseguite correttamente.
Perché le punizioni fisiche non funzionano
Punizioni corporali come schiaffeggiare e sculacciare i bambini sono dannose e inefficaci. Inoltre, nel lungo termine, sono collegate a effetti negativi a livello comportamentale, emotivo e psicosociale. A dichiararlo sono in molti. Nel 2019, l’American Psychological Association ha affermato che “la disciplina fisica non è efficace nel raggiungere gli obiettivi a lungo termine dei genitori di ridurre il comportamento aggressivo e provocatorio nei bambini, o di promuovere un comportamento regolato e socialmente competente nei bambini”. La Società Italiana di Pediatria, l’Associazione Nazionale dei Pedagogisti Italiani e Save the Children da anni sono impegnate in prima linea in campagne e iniziative di ricerca per dire no alle punizioni corporali sui bambini. In molti Paesi europei, il ricorso alle punizioni fisiche nei confronti dei bambini, anche nel nucleo familiare, è vietato dalla legge.
La punizione fisica può funzionare momentaneamente nel fermare un comportamento problematico, in quanto i bambini temono di essere picchiati, ma non funziona nel lungo termine e funge da modello per la riproposizione di successivi comportamenti aggressivi nei bambini (APA, 2012). Una delle situazioni tipiche in cui i genitori ricorrono alla punizione fisica è quando i loro figli manifestano aggressività, come picchiare un altro bambino, o comportamenti antisociali, come mentire o rubare. I genitori tendono a utilizzare la punizione corporale per esprimere la loro forte disapprovazione per il comportamento aggressivo e antisociale dei figli, ma lo fanno ignorando che la punizione corporale ha maggiori probabilità di aumentare piuttosto che diminuire questi comportamenti. L’ironia è che più la punizione fisica è efficace nel fermare immediatamente l’aggressività, più è probabile che i bambini stessi usino la forza fisica per ottenere ciò che vogliono in futuro (Gershoff, 2010). Vari studi hanno rilevato che l’uso di punizioni corporali da parte dei genitori è significativamente correlato, nel lungo termine, a minore conformità alle norme sociali e familiari e minore interiorizzazione dei valori morali positivi proposti dai genitori (ibidem). Inoltre, non avendo interiorizzato le ragioni per comportarsi in modo prosociale, i bambini non hanno motivo di comportarsi in modo appropriato quando i loro genitori non sono lì a fornire una ragione esterna (la forza fisica) per farlo.
Punire fisicamente un bambino, oltre che inficiare la relazione genitori-figli, può innescare reazioni psicologiche e fisiologiche dannose: dolore, tristezza, paura, rabbia, senso di colpa e di minaccia, ma anche l’iper-attivazione di circuiti neurali che processano la gestione del pericolo e dello stress. Ne consegue un’elevata reattività ormonale allo stress, con un sovraccarico del sistema nervoso, cardiovascolare, nutrizionale e cambiamenti nella struttura e nel funzionamento del cervello.
Nonostante sia la punizione corporale socialmente più accettata, la sculacciata, ad esempio, è associata allo sviluppo di un funzionamento cerebrale atipico, paragonabile a quello comune negli abusi fisici più gravi (Smith, 2006; Cuartas et al., 2022). Ulteriori conseguenze delle punizioni fisiche, sia immediate che a lungo termine, possono essere (OMS, 2021):
- danni fisici diretti di varia intensità
- problemi di salute mentale (ansia, depressione, disperazione, bassa autostima, autolesionismo, tentativi di suicidio, dipendenze, instabilità emotiva sino all’età adulta)
- compromissione dello sviluppo cognitivo e socio-emotivo, in particolare nella regolazione delle emozioni e nella risoluzione dei conflitti
- impatto sul percorso scolastico, tra cui abbandono scolastico, minor successo scolastico e lavorativo
- maggior rischio di comportamenti antisociali e aggressivi da adulti.
Il time-out funziona?
Definiamo il time-out. Il time-out è un allontanamento temporaneo del bambino dal contesto in cui avviene il comportamento problematico. Un time-out ben implementato avviene nel contesto di una relazione genitoriale calorosa e di supporto, che include un alto livello di attenzione genitoriale positiva, come elogi specifici per il comportamento appropriato del bambino (ad esempio, “Ottimo lavoro di preparazione dello zaino!”, “batti cinque”, abbracci, ecc). Questa attenzione genitoriale positiva aumenta la probabilità che il comportamento positivo del bambino si verifichi di nuovo, incrementando anche l’approvazione dei genitori e l’autostima del bambino (Barkley & Benton, 2016). I time-out di best practice includono una successione di step:
- un avvertimento verbalizzato (es. “Se continui a picchiare il fratellino dovrò farti fermare per qualche minuto”)
- una motivazione verbalizzata (es. “Hai continuato a picchiare il tuo fratellino, quindi adesso ti fermerai su questa sedia finché non sarai più calmo per giocare”)
- il posizionamento in un luogo sicuro (es. una sedia) e privo di rinforzi ambientali (come giocattoli, tv o altre persone in casa)
- una breve durata (in genere circa 3 minuti per i bambini fra 3 e 7 anni)
- il ritorno sulla sedia in caso di fuga
- la ripetizione della richiesta originale del genitore.
I time-out sono una strategia popolare e di comprovata efficacia (Woodfield et al., 2021), raccomandata persino dall’American Academy of Pediatrics (2024). Tuttavia, articoli comparsi su riviste e quotidiani popolari hanno suscitato controversie rispetto alla possibilità che i time-out contribuiscano alla disregolazione emotiva, non insegnino ai bambini a tollerare la sofferenza, li isolino quando più hanno bisogno del supporto degli adulti e ri-traumatizzino i bambini vittime di abusi (Siegel & Bryson, 2014). Inoltre, esiste una preoccupazione sul fatto che i time-out possano non essere implementati correttamente dai genitori e portare a un uso inappropriato e coercitivo del time-out stesso (James, 2020).
Per arginare la possibilità di un uso improprio del time-out da parte dei genitori, è essenziale che i genitori abbiano a disposizione una serie di abilità e tecniche comportamentali da utilizzare quando il loro bambino mostra comportamenti difficili. Alcuni input potrebbero essere: lodare il comportamento positivo mentre si verifica, impostare delle routine con compiti, attività e responsabilità per ogni componente della famiglia (“Il papà pulisce il pavimento, mentre tu rimetti in ordine i tuoi giochi”), spiegare le conseguenze delle azioni e farle accadere in maniera contingente (“Se non lavi le mani, non potrai sederti a tavola con noi”), adottare un time-out anche per i genitori, in caso di frustrazione e rabbia eccessiva per i comportamenti del bambino. Il temporaneo allontanamento dell’adulto da una situazione stressante, lasciando la stanza per qualche minuto dopo aver messo in sicurezza l’ambiente, consente di recuperare calma e lucidità: questo aiuta il genitore a modellare il comportamento che vorrebbe vedere in suo figlio. Non è realistico, infatti, aspettarsi che i bambini regolino autonomamente le proprie emozioni, se gli adulti non mostrano buone strategie di gestione dello stress.
Quando le punizioni funzionano
Favorire l’apprendimento di determinate abitudini salutari e pratiche comportamentali positive nei nostri bambini richiede coerenza a lungo termine negli adulti, ma anche chiarezza. In particolare:
- stabiliamo quali comportamenti sottoporre al time-out o ad altre punizioni (non fisiche) in generale
- utilizziamo con parsimonia, non per ogni infrazione minore, le punizioni
- diamo ai bambini l’opportunità di correggere il loro comportamento quando rientrano da un time-out, dopo un rimprovero verbale o in seguito a una sottrazione di privilegi
- costruiamo un clima familiare non verbalmente minaccioso e aggressivo, ma fiducioso, ricco di attenzioni e positivo.
Importante è sottolineare che, senza lodi, ricompense e rinforzi per i comportamenti positivi messi in atto dai bambini, le punizioni per i comportamenti negativi hanno le armi spuntate (Barkley, Benton, 2016).