L’alimentazione è un requisito imprescindibile per la sopravvivenza di ogni essere vivente; eppure, l’atto del mangiare ha assunto nel corso della nostra evoluzione molteplici significati, superando la semplice funzione di nutrimento per la macchina-corpo.
Possiamo citare, ad esempio, la dimensione sociale, che entra in gioco nel momento conviviale della condivisione dei pasti nel quotidiano familiare oppure come rituale comunitario durante le festività, il significato simbolico di accudimento secondo il quale cucinare per qualcuno è un gesto che esprime affetto, vicinanza, intimità, o ancora può essere visto come un “farmaco emotivo”; si pensi ad esempio al comfort food, ovvero quei cibi ai quali ciascuno di noi si rivolge per coccolarsi nei momenti di sconforto. Eppure, il cibo può essere anche un elemento di disuguaglianza sociale: secondo il Rapporto annuale 2019 della FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations) nel mondo vi sono infatti circa 800 milioni di persone denutrite (1 su 9), di cui 513,9 milioni in Asia e 256,1 milioni in Africa, con più di 49 milioni di bambini sotto i cinque anni in stato di deperimento; al contempo, 672 milioni di individui vivono una condizione di obesità (1 su 8) e sono nel mondo 338 milioni i bambini e adolescenti in sovrappeso.
Ad oggi l’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile ed è considerata una delle principali criticità nella salute pubblica del XXI secolo (Barness et al., 2007), “pesando” sulle spese sanitarie nazionali in una percentuale tra il 4 e il 10% del totale annuale (Allender & Rayner, 2007; Tsai et al., 2010) e alimentando un commercio di prodotti mirati alla perdita di peso che solo negli Stati Uniti ha superato i 72 miliardi di dollari nel 2018: mantenere il peso forma nelle cosiddette “società del benessere” sembra essere più difficile che mai.
Il comportamento appetitivo rivolto al cibo è quindi un complesso processo multifattoriale, che coinvolge emozioni, aspetti psicologici, fisiologici, ambientali, ma soprattutto sensoriali; in particolare il gusto e l’olfatto, ovvero i sensi chimici, sono i mezzi attraverso cui apprezziamo le proprietà organolettiche dei diversi cibi, contribuendo allo sviluppo di preferenze e di idiosincrasie alimentari. Tuttavia, gli studi che si sono proposti di indagare il rapporto tra questi sensi e lo sviluppo di una condizione di sovrappeso si sono rivelati inconcludenti, sia per quanto riguarda gli adulti che per i bambini. Alcune ricerche sembrano rintracciare una minore sensibilità ai gusti (dolce, salato, aspro, amaro, umami) negli individui sovrappeso o obesi rispetto agli individui normopeso (Proserpio et al., 2016; Sartor et al., 2011; per i bambini Feeney et al, 2017; Overberg et al., 2012), altre hanno riscontrato l’inverso (Hardikar et al., 2017; Pasquet et al., 2007), altre ancora non hanno riscontrato alcun effetto (Thompson et al., 1976; Grinker et al., 1972). Altrettanto controversi sono i risultati degli studi che hanno indagato il ruolo dell’olfatto. Anche in questo caso alcuni risultati sostengono la tesi di una minore acuità olfattiva negli individui sovrappeso o obesi rispetto alla controparte normopeso (Fernandez-Aranda et al., 2016; Fernandez-Garcia et al., 2017; Skrandies & Zschieschang, 2015; per i bambini Obrebowski et al, 2000), altre che riscontrano invece una maggiore sensibilità olfattiva (Patel et al., 2015; Stafford & Welbeck, 2011), in particolare verso l’odore del cioccolato (Stafford & Whittle, 2015), altri ancora non hanno riferito alcuna differenza a fronte di diversi BMI (Trellakis et al., 2011).
Alcuni ricercatori hanno tuttavia suggerito come sia importante distinguere infanzia e adolescenza nella ricerca rivolta ai sensi chimici, in quanto i profondi cambiamenti ormonali che avvengono in questa fase di sviluppo possono influenzare in maniera determinante la percezione del gusto e degli odori (Martin et al., 2009; Loper et al., 2015).
Herz e colleghi (2020) hanno di recente condotto una ricerca coinvolgendo solo adolescenti tra i 12 e i 16 anni e sottoponendoli a dei test di sensibilità olfattiva e gustativa mediante l’utilizzo di apposite strisce create in laboratorio e denominate “sniffin’ sticks” e “tasting sticks” (Burghart GmbH, Wedel, Germany), contenenti degli agenti chimici in diverse concentrazioni che vengono interpretati come i gusti principali (dolce, salato, amare, aspro) o sapori di uso comune (es. cannella, limone, menta) se posti sulla lingua e come sentori di odori più o meno spiccati, se annusate. L’obbiettivo era quello di testare non soltanto la capacità di discriminazione tra diversi gusti, ma anche la soglia di sensibilità, motivo per cui è stato impiegato il PROP (6-n-propylthiouracil), che consente di distinguere tra non-taster, normal-taster e i cosiddetti super-taster.
Gli adolescenti con un BMI più alto, e quindi più sovrappeso, hanno riportato in media una soglia olfattiva inferiore, risultando quindi più sensibili; questo risultava particolarmente vero per gli adolescenti in età più precoce rispetto a quelli che volgevano al fine del loro sviluppo. Gli autori sottolineano a questo punto come nelle ricerche precedenti che avevano ottenuto risultati contrari, si fosse impiegato una versione precedente delle sniffin’ stick: questa informazione diventa particolarmente rilevante poiché l’agente utilizzato vedeva il coinvolgimento del sistema trigeminale, che raccoglie le componenti nocicettive, di calore e tattili legate agli odori, riflettendo quindi potenzialmente una minore suscettibilità trigeminale e non una minore sensibilità olfattiva. A supportare questa ipotesi vi è lo studio di Stafford e Whittle (2015) sulla maggiore sensibilità all’odore del cioccolato, aroma che infatti non attiva il sistema trigeminale. Ipotizzando una maggiore sensibilità verso odori che mancano di questa componente, tipicamente gli aromi dei cibi dolci, questo motiverebbe un comportamento appetitivo verso cibi altamente calorici; conversamente una minore sensibilità trigeminale, attivata dai cibi salati o saporiti, li renderebbe di gusto meno intenso, potenzialmente promuovendone un maggiore consumo per raggiungere la sazietà.
Riguardo al gusto, gli autori non hanno riscontrato effetti significativi. Tuttavia, la suggestione di una componente trigeminale che possa coinvolgere anche questo tipo di esplorazione è supportata dal fatto che le tasting stick utilizzate non permettono di valutare tale effetto. L’utilizzo ad esempio di capsaicina, l’elemento del piccante negli alimenti, potrebbe fornire un mezzo per testare questa ipotesi in studi futuri.