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Dal Basso in Alto (e Ritorno…) di La Rosa e Onofri (2017) – Recensione del libro

Dal Basso in Alto (e Ritorno…): Cecilia La Rosa e Antonio Onofri potrebbero avere scritto uno dei testi più rappresentativi e influenti degli ultimi anni del cognitivismo clinico italiano che fa capo alla SITCC, la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva; un libro che bene rappresenta quella che è ormai la direzione principale di questo ambiente scientifico e clinico dalla lunga storia e tradizione.

 

Dal Basso in Alto: un libro che descrive gli interventi clinici cognitivo-evoluzionisti più recenti

L’intento degli autori sembra quello non solo di fornire un quadro esaustivo degli interventi clinici di tipo corporeo e senso-motorio, ma anche di legarli strettamente al paradigma cognitivo-evoluzionista e traumatico elaborato negli anni da Gianni Liotti e dai suoi principali collaboratori, Benedetto Farina e Fabio Monticelli (Liotti e Farina, 2011; Liotti e Monticelli, 2014). Intento che riesce bene attraverso una disanima attenta dell’ancoraggio neuroscientifico del modello cognitivo-evoluzionista con le teorie Panksepp, Jackson e Porges, il tutto sotto l’egida olimpica di Pierre Janet, nume tutelare di questa corrente di pensiero clinico di importanza ormai sempre crescente.

Una volta inserita la chiave di volta teorica nell’incrocio tra neuroscienze e mente, le conseguenze cliniche di tipo motorio e sensoriale sono logiche, ed è qui che il libro di La Rosa e Onofri dà il suo meglio, spiegando dettagliatamente le procedure e gli interventi più efficaci e fruttuosi. Non si tratta però di sola tecnica, poiché il ventaglio clinico si inserisce in una concezione della mente coerente e convincente, la mente come stato intuitivo ed emotivo che a quel livello va regolata e curata.

I vari protocolli più in voga di quella corrente sono passati in rassegna, anche in questo caso non secondo una logica di accumulo ma seguendo un percorso che parte dall’EMDR, le tecniche di eye movement desesitization reprocessing, passa per gli interventi senso-motori e sfocia nella mindfulness, che svolge un po’ il ruolo, a quanto pare, di contenitore finale e superiore delle elaborazioni più corporee e motorie, a smentire chi pensa che nell’orientamento cognitivo-evoluzionista si tenga conto solo degli interventi bottom-up e non di quelli top-down. D’altro canto, non a caso il libro di La Rosa e Onofri si chiama: “ Dal Basso in Alto (e Ritorno…)“.

Particolare importanza riveste in questo testo il concetto di trauma, interpretato come esperienza psicopatologica per eccellenza e applicato ai veri scenari clinici con intelligenza e sensibilità cliniche. E se c’è il trauma c’è anche, inevitabilmente, la dissociazione, come non può essere altrimenti in un ambiente clinico e scientifico che legittimamente considera Pierre Janet e non Freud il più acuto esploratore dei misteri della sofferenza psichica.

Insomma, La Rosa e Onofri hanno prodotto qualcosa che mancava da sempre e che finalmente può soddisfare un bisogno psicoterapeutico crescente: il manuale clinico del paradigma cognitivo-evoluzionista finalmente pratico e capace di parlare alle necessità concrete e quotidiane degli psicoterapeuti.

Eiaculazione precoce: eziopatologia e trattamento cognitivo-comportamentale

L’ eiaculazione precoce (PE) è la disfunzione sessuale più comune tra gli uomini (Patrick et al., 2005). Alcuni professionisti della salute ritengono che sia l’argomento più discusso in medicina sessuale (Jannini & Porst, 2011). L’ eiaculazione precoce colpisce il 20-30% degli uomini ed è caratterizzata dalla perdita o dall’assenza di controllo eiaculatorio, accompagnata spesso da difficoltà interpersonali e stress (Patrick et al., 2005).

Andrea Goldoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Che cos’è l’ eiaculazione precoce?

L’ eiaculazione precoce incide su diversi aspetti della vita maschile, come soddisfazione sessuale, autostima sessuale, controllo eiaculatorio, livelli di stress interpersonale e relazioni sentimentali. E’ stata inoltre associata a una serie di effetti psicologici negativi quali ansia e depressione, riguardanti chi ne è affetto ma anche i partner (Rosen, Althof et al., 2008). L’ eiaculazione precoce può costituire un fattore significativo di stress all’interno della coppia, e causare un abbassamento della qualità di vita, dell’autostima, e dell’autoefficacia. Negli uomini single può influenzare negativamente la motivazione a cercare un partner.

La diagnosi di eiaculazione precoce rappresenta una sfida, in quanto molti professionisti della salute non possiedono informazioni sufficienti riguardo i criteri da utilizzare e le opzioni di trattamento (Brock et al., 2009). Inoltre parlare di eiaculazione precoce solleva la questione su quale sia effettivamente un tempo di eiaculazione adeguato.

Già nel 1917 Karl Abraham descriveva l’ eiaculazione rapida, da lui definita ejaculatio praecox. Durante le prime decadi del ventesimo secolo, l’ eiaculazione precoce era considerata, specialmente nella teoria psicoanalitica, come una nevrosi legata a conflitti inconsci, e veniva trattata attraverso l’analisi (Abraham, 1917; Stekel, 1927). Nel 1943, la visione totalmente psicologica di Adler venne messa in discussione da Bernhard Schapiro, un endocrinologo tedesco, che considerava l’ eiaculazione precoce come un disturbo psicosomatico, affermando che le eiaculazioni rapide erano causate da fattori sia biologici che psicologici. Inoltre propose per la prima volta la suddivisione del disturbo in due tipologie, Tipo B e Tipo A. Nel 1989 Godpodinoff rinominò le due tipologie come lifelong (primaria) e acquisita (secondaria).

Tipologie di eiaculazione precoce

L’ eiaculazione precoce primaria è una sindrome caratterizzata da un insieme di sintomi caratteristici, che includono un’eiaculazione rapida durante quasi ogni rapporto sessuale, in un tempo compreso tra 30 e 60 secondi nella maggior parte dei casi (80%) o tra 1 e 2 minuti (20%), con ogni o quasi ogni partner sessuale, e a partire dai primi rapporti sessuali. L’ eiaculazione precoce acquisita consiste in un’eiaculazione rapida che insorge durante il percorso di vita, spesso a carattere situazionale, a fronte di precedenti esperienze eiaculatorie normali. (Waldinger, 1998; McMahon, 2002).

Nella letteratura scientifica sono presenti diverse definizioni dell’ eiaculazione precoce, poiché non vi è un accordo univoco sulle sue caratteristiche. Al fine di migliorare il confronto tra i vari studi, Waldinger et al. hanno introdotto il parametro dello IELT, il tempo di latenza eiaculatoria intravaginale, definito come il tempo che trascorre tra l’immissione intravaginale e l’inizio dell’eiaculazione. Waldinger riporta che la maggior parte degli uomini che cercano attivamente trattamento per l’ eiaculazione precoce primaria, circa il 90%, eiacula entro un minuto di penetrazione. Ricerche e studi osservazionali di uomini affetti da eiaculazione precoce hanno dimostrato che IELT pari o inferiori a un minuto hanno una prevalenza di circa 2,5% all’interno della popolazione generale, ma una percentuale di uomini con IELT nella norma riferisce di essere affetta da eiaculazione precoce (Patrick et al, 2005; Waldinger et al, 2005a, 2009).

Per tenere conto di questa diversità, Waldinger e Schweitzer (2006b, 2008) hanno proposto una nuova classificazione dell’ eiaculazione precoce nella quale sono distinti quattro tipologie sulla base della durata dello IELT, della frequenza con cui vengono riferiti gli episodi e dei momenti di vita in cui avvengono. In aggiunta all’ eiaculazione precoce primaria e acquisita, questa classificazione include quella variabile e quella soggettiva. Gli uomini con eiaculazione precoce variabile sperimentano occasionalmente un’eiaculazione prematura. Ciò non deve essere considerato come un disturbo, ma come una naturale variazione del tempo di eiaculazione, normalmente presente negli uomini (Waldinger, 2013). Gli uomini con eiaculazione precoce soggettiva invece riferiscono di essere affetti da eiaculazione precoce mentre in realtà hanno un tempo di eiaculazione normale o addirittura più esteso del normale (Waldinger, 2013). Il riferire la presenza di eiaculazione precoce da parte di questi uomini è probabilmente legato a fattori psicologici e/o culturali. Le costanti eiaculazioni anticipate della eiaculazione precoce primaria suggerirebbero la presenza di una disfunzione neurobiologica sottostante, mentre l’ eiaculazione precoce acquisita sarebbe più legata a fattori medici e psicologici.

Serefoglu et al. (2010, 2011) hanno confermato l’esistenza di questi quattro sottotipi in un campione di uomini turchi. Recentemente, Zhang et al. (2013) e Gao et al. (2013) utilizzando una metodologia simile hanno riportato la presenza dei quattro sottotipi anche in un campione di uomini in Cina. In futuro, la ricerca continua su questa nuova classificazione potrebbe portare a una migliore conoscenza dell’ eiaculazione precoce e a definizioni più precise. (Waldinger & Schweitzer, 2008).

Definizione di eiaculazione precoce e sintomi

Ad oggi, una delle definizioni più utilizzate in ambito clinico è quella fornita dal DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013):

A. Una modalità persistente o ricorrente di eiaculazione che si verifica durante i rapporti sessuali, circa un minuto dopo la penetrazione vaginale e prima che l’uomo lo desideri.
Nota: Anche se la diagnosi di eiaculazione precoce può essere applicata a individui impegnati in attività sessuali non intravaginali, non sono stati stabiliti specifici criteri di durata per queste attività.
B. I sintomi dei Criterio A devono essere presenti come minimo per circa 6 mesi e devono essere provati in tutte o quasi tutte (circa il 75-100%) le occasioni di attività sessuale (in determinate circostanze situazionali o, se generalizzato, in ogni circostanza).
C. I sintomi del Criterio A causano nell’individuo un disagio clinicamente significativo.
D. La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un disturbo mentale non sessuale o come conseguenza di un grave disagio relazionale o di altri significativi fattori stressanti e non è attribuibile agli effetti di una sostanza/farmaco o di un’altra condizione medica.

Specificare se:
Permanente: Il disturbo è presente da quando l’individuo è diventato sessualmente attivo.
Acquisita: Il disturbo inizia dopo un periodo di funzionamento sessuale relativamente normale.

Specificare se:
Generalizzata: Non è limitato a determinati tipi di stimolazione, situazioni o partner.
Situazionale: Si verifica solo con certi tipi di stimolazione, situazioni o partner.

Specificare gravità attuale:
Lieve: l’eiaculazione si verifica entro circa 30-60 secondi dopo la penetrazione vaginale.
Moderato: l’eiaculazione si verifica entro circa 15-30 secondi dopo la penetrazione vaginale.
Grave: l’eiaculazione si verifica prima dell’attività sessuale, all’inizio dell’attività sessuale o entro circa 15 secondi circa dalla penetrazione vaginale.

Le possibili cause dell’eiaculazione precoce

Storicamente ci sono stati diversi tentativi di spiegare le cause dell’ eiaculazione precoce, attraverso teorie sia biologiche che psicologiche. Nel 1970 William Masters e Virginia Johnson, due sessuologi americani, hanno postulato che la eiaculazione precoce sia il risultato di un comportamento appreso, rigettando il punto di vista psicoanalitico di Adler e quello psicosomatico di Schapiro. Sostenevano che l’eiaculazione rapida fosse collegata ai primi rapporti sessuali, in quanto esperienze iniziali connotate da rapidità ed ansia e potevano condizionare gli uomini ad eiaculare velocemente. Non sono stati tuttavia effettuati studi che abbiano messo a confronto le prime esperienze di condizionamento fra uomini con eiaculazione precoce e uomini senza il disturbo, per cui non si può sapere se le esperienze di condizionamento sono specifiche per gli uomini con eiaculazione precoce.

Nel 1998, Waldinger et al. hanno postulato che l’ eiaculazione precoce primaria sia una disfunzione determinata neurobiologicamente e geneticamente, correlata a una ridotta neurotrasmissione serotoninergica e all’ipersensibilità e iposensibilità di specifici recettori 5-HT. Waldinger ha quindi respinto le precedenti ipotesi psicologiche e comportamentiste riguardanti l’eziologia e la patogenesi della eiaculazione precoce primaria. Studi recenti suggeriscono che in alcuni uomini variazioni neurobiologiche e genetiche potrebbero contribuire all’eziopatologia della eiaculazione precoce primaria, e che tale condizione potrebbe essere mantenuta e aggravata da fattori psicologici e ambientali (Janssen et al., 2009).

La eiaculazione precoce acquisita è dovuta generalmente ad ansia da prestazione sessuale (Hartmann et al, 2005), problemi psicologici o relazionali (Hartmann et al., 2005), disfunzione erettile (Laumann et al., 2005), occasionalmente prostatite (Screponi et al., 2001), ipertiroidismo (Carani et al., 2005) o ad astinenza e disintossicazione da farmaci prescritti (Adson e Kotljar, 2003) o consumati a scopo ricreativo (Peugh e Belenko, 2001). Gli uomini affetti da questa problematica sono generalmente anziani, hanno un indice di massa corporea (BMI) più elevato, ed hanno una maggiore incidenza di patologie in comorbilità rispetto agli uomini affetti da eiaculazione precoce primaria, variabile e soggettiva, come ipertensione, disturbo del desiderio sessuale, diabete mellito, prostatite cronica e disfunzione erettile.

L’ansia è stata indicata come causa da diversi autori ed è tuttora comunemente considerata come una delle cause più probabili, nonostante l’evidenza empirica a supporto sia piuttosto scarsa (Jern et al., 2009; Janssen et al., 2009). Diversi autori ipotizzano che l’ansia attivi il sistema nervoso simpatico e riduca la soglia di eiaculazione (Janssen et al., 2009).

Effetti dell’eiaculazione precoce sulla coppia e sulla qualità di vita

Le disfunzioni sessuali femminili presenti nella partner (come anorgasmia, desiderio sessuale ipoattivo, avversione sessuale, disturbi dell’eccitazione sessuale, e disturbi da dolore sessuale, come il vaginismo, potrebbero essere correlati alla eiaculazione precoce acquisita (Dogan e Dogan, 2008).

L’ eiaculazione precoce infatti può riguardare non solo chi né è affetto, ma anche il/la partner. Nel momento in cui una coppia affronta la eiaculazione precoce la situazione viene definita asincrona (Jannini & Porst, 2011, p.301). Una coppia asincrona può fare sesso anche molto frequentemente, ma la qualità del rapporto è assente o ridotta. Il partner non affetto da eiaculazione precoce può sentirsi deluso o irritato dal fatto che l’altro raggiunga l’orgasmo molto prima. E’ come se non ci fosse sincronizzazione, e questo crea una situazione frustrante per la coppia. Se la qualità del sesso è scarsa a causa dell’eiaculazione precoce, il partner che ne è affetto potrebbe sperimentare emozioni negative, che potrebbero portare a una risposta fisica sfavorevole. Così come in molte disfunzioni sessuali, è il significato che viene conferito al disturbo a poter influenzare il rapporto di coppia (Graziottin et al, 2011, p.306).

Nel momento in cui i significati attribuiti al disturbo portano a rabbia e delusione, sorgono conflitti di coppia che creano un senso di separazione sessuale tra i due partner.

Gli studi che hanno messo a confronto gli uomini affetti da eiaculazione precoce con quelli che non hanno il disturbo hanno mostrato una differenza marcata nella qualità di vita tra i due gruppi. In uno di questi studi, sono stati scelti 1,587 uomini affetti e non affetti da eiaculazione precoce e sono state poste loro domande riguardanti la loro vita personale e il senso generale di soddisfazione di vita. Per valutare accuratamente gli uomini, è stato impiegato un test chiamato Premature Ejaculation Profile (PEP). Gli uomini affetti da eiaculazione precoce hanno riportato un livello maggiore di stress, bassa autostima, livelli ridotti di funzionamento sessuale e un livello ridotto di qualità di vita (Graziottin et al., 2011, p.305). Gli uomini single possono essere influenzati dai sentimenti di imbarazzo legati al disturbo, tanto da rinunciare al corteggiamento. Il disturbo ha un impatto considerevole sulla vita degli uomini, che hanno una probabilità più alta di sviluppare una disfunzione erettile a causa delle emozioni di vergogna.

Graziottin et al. (2011) hanno indagato le differenze presenti in donne legate a un partner affetto da eiaculazione precoce rispetto a donne legate a uomini privi del disturbo. Il desiderio sessuale, la lubrificazione e gli orgasmi erano significativamente peggiori nelle donne legate a un partner con eiaculazione precoce, e il 52% di loro ha riportato problemi di orgasmo, mentre per le donne legate a un partner senza disturbo la percentuale è stata del 23%.

Il trattamento dell’eiaculazione precoce: un approccio cognitivo-comportamentale

Del 20-30% di uomini affetti da eiaculazione precoce, solo il 1-12% ha riferito di aver ricevuto trattamento (Patrick et al., 2005, p.359). Cercare un trattamento può rappresentare fonte di imbarazzo e le opzioni di trattamento potrebbero non essere chiare. Sono presenti forme di trattamento basate sui farmaci, sulla psicoterapia, o su una combinazione delle due cose (Steggall, Fowler, & Pryce, 2008, p.365).

Rowland et al. (2010) affermano che una delle opzioni migliori sia quella di abbinare la terapia farmacologica a una psicoterapia, e che quest’ultima sia l’intervento d’elezione per le forme di eiaculazione precoce naturale e soggettiva.

La terapia cognitivo-comportamentale è uno degli approcci più utilizzati per il trattamento dei disturbi sessuali, anche per l’eiaculazione precoce (Mohammadi et al., 2013). Il trattamento di questo disturbo comprende tre componenti generali: (a) la componente educazionale, nella quale si affrontano argomenti come anatomia e fisiologia sessuale, orgasmo ed eiaculazione, il ruolo dell’ansia, i meccanismi di condizionamento e il meccanismo di funzionamento dell’ eiaculazione precoce. Viene generalmente condotta in presenza del/della partner; (b) la componente comportamentale, che comprende l’apprendimento e l’applicazione di tecniche come lo squeeze, lo start-stop e il rilassamento; (c) la componente cognitiva, che riguarda l’esplorazione e la modifica delle cognizioni che possono predisporre al disturbo, oltre che costituire fattori precipitanti e di mantenimento, come le credenze che generano ansia.

La componente educazionale può includere informazioni sulla prevalenza della eiaculazione precoce e sullo IELT medio nella popolazione generale al fine di correggere false credenze e miti legati al disturbo. Inoltre può comprendere informazioni riguardanti varie attività sessuali appaganti alternative al coito, in modo da estendere il repertorio sessuale della coppia, assieme a strategie per affrontare l’evitamento dell’attività sessuale e l’indisponibilità al dialogo con il/la partner relativo a tematiche sessuali. Queste strategie educative sono studiate per fornire motivazione al trattamento farmacologico, ridurre l’ansia da prestazione, e attuare una prima modifica degli schemi sessuali maladattivi.

Una delle tecniche comportamentali più utilizzate nel trattamento dell’eiaculazione precoce è quella dello squeeze, o compressione (Masters e Johnson, 1970). Durante l’autostimolazione, nel momento in cui l’eiaculazione sembra inevitabile, viene applicata una pressione sotto il glande attraverso il pollice, l’indice e il medio. Tale operazione inibisce l’eiaculazione e dovrebbe essere ripetuta diverse volte prima di lasciarsi andare all’orgasmo.

In un secondo momento può essere applicata durante la stimolazione da parte del/della partner. Rappresenta uno step nell’apprendimento del controllo eiaculatorio, che successivamente può essere ulteriormente affinato tramite la tecnica dello stop-start (Seman, 1956). Tale tecnica consiste nel fermarsi e ritirare il pene durante il coito, nel momento in cui l’uomo percepisce di essere prossimo all’eiaculazione e di non poter più controllare il riflesso eiaculatorio. Il rapporto viene ripreso quando sente di aver recuperato completamente il controllo.

Per quanto riguarda la componente cognitiva, le osservazioni cliniche e i modelli teorici enfatizzano l’importanza delle strutture cognitive centrali (schemi o credenze centrali) sui processi sessuali disfunzionali (Carey, Wincze e Meisler, 1993; McCarthy, 1986; Rosen, Leiblum e Spector, 1994; Sbrocco e Barlow, 1996). Il modello cognitivo-affettivo di Barlow (1986) postula che l’interazione tra l’arousal del sistema nervoso autonomo (attivazione simpatica) e le interferenze cognitive svolga un ruolo centrale nel determinare risposte sessuali funzionali e disfunzionali.

Sbrocco e Barlow (1996) e Wiegel, Scepowski e Barlow (2007) hanno ulteriormente sviluppato il modello originale, affermando che la vulnerabilità degli schemi è una delle componenti principali implicate nelle disfunzioni sessuali. Sbrocco e Barlow (1996) ipotizzano che gli individui affetti da una disfunzione sessuale abbiano solitamente un insieme di credenze sessuali irrealistiche e inaccurate e assumano un atteggiamento rigido e inflessibile. Nel momento in cui questi standard di riferimento elevati e irrazionali non sono soddisfatti possono sorgere implicazioni personali catastrofiche, che facilitano lo sviluppo di una visione di sé negativa (self-schema negativo) e predispongono l’individuo allo sviluppo di difficoltà sessuali. La ristrutturazione di tali schemi negativi può portare a miglioramenti nelle disfunzioni, a un atteggiamento più positivo nei confronti del sesso, a maggiore piacere sessuale e a un miglioramento della relazione di coppia.

Il bullismo subito durante lo sviluppo è un fattore di rischio per la salute mentale in adolescenza

In un recentissimo studio condotto presso l’Università Canadese McGill (Montréal), dal gruppo di ricerca esperto di comportamenti suicidari guidato dalla dottoressa Marie-Claude Geoffroy, è emerso che il rischio di sviluppare problemi legati alla salute mentale è doppio negli adolescenti che hanno subito atti di bullismo da parte dei pari durante lo sviluppo.

 

Gli effetti sulla salute mentale e fisica della violenza subita

Lo studio ha esaminato i dati del Quebec Longitudinal Study of Child Development (QLSCD) di 1363 bambini nati nel 1997/1998 e seguiti fino all’età di quindici anni. Al giorno d’oggi questa analisi longitudinale è alla quarta fase e si occupa di indagare vari aspetti, tra i quali le relazioni affettive, i comportamenti a rischio, la motivazione scolastica e l’aspirazione professionale, la violenza ed il bullismo subiti e perpetrati, la salute mentale e quella fisica (Istitut de la statistique Québec, 2002, 2010, 2015).

Nel dettaglio, lo studio della dottoressa Geoffroy, partendo dai dati del Quebec Longitudinal Study, si è focalizzata sulla salute mentale dei ragazzi e sull’autodenuncia di vittimizzazione subita da parte dei pari (dai 6 ai 13 anni), categorizzata successivamente dai ricercatori in tre range di vittimizzazione: assente/bassa, moderata e grave.

I risultati mostrano come chi ha subito una grave vittimizzazione ha il doppio delle probabilità di riportare sintomi depressivi o forme depressive conclamate e tre volte tanto la probabilità di riportare sintomi ansiosi, rispetto a coloro che hanno subito bassa vittimizzazione o nulla. Il dato più rilevante è che, sempre in rapporto ai ragazzi che hanno subito bassa o nulla vittimizzazione, coloro che hanno subito grave vittimizzazione hanno quasi quattro volte tanto la probabilità di tentare il suicidio o di presentare pensieri suicidari.
Invece, i soggetti che avevano subito moderata vittimizzazione non riportavano un rischio maggiore di problemi legati alla salute mentale.

Questo studio è un’ulteriore conferma del fatto che la prevenzione di una grave vittimizzazione, tramite iniziative anti-bullismo, è importante per il benessere psicologico di molti soggetti. I dati infatti parlano di percentuali che si aggirano intorno al 60% di soggetti che denunciano di subire atti di bullismo da parte dei pari nei primi anni di scuola. La percentuale si abbassa con il passare degli anni ed i soggetti che lamentano grave vittimizzazione continuano ad essere bullizzati fino alle scuole superiori.
Dato che questi atti di bullismo sembrano, per la maggior parte dei casi, verificarsi già dai primi anni di scolarizzazione, gli interventi di prevenzione sarebbero utili come interventi pre-scolastici.

Entrate e uscite dalla depressione: gli schemi maladattivi sottostanti

La depressione non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade. Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

 

Ti svegli e già la vita non ha senso. Alzarsi costa fatica. Un senso di stanchezza, fatica, sfiducia nel futuro. Il mondo è enorme, incombente e tu non hai le forze per affrontarlo. Vorresti restare a letto. A volte lo fai, al diavolo tutto, lasciatemi stare, io non ce la faccio. E tanti altri sintomi correlati: dormire poco o dormire troppo. Un senso di irrequietezza, agitazione, a volte brutti pensieri: vorrei farla finita.
Questa è, in estrema sintesi, la depressione, il male oscuro, il male del secolo, una roba pesante ad avercela.

Il mondo degli psichiatri e degli psicoterapeuti ci ragiona su tanto, ci sono molti modi di affrontarla psicoterapeuticamente e farmacologicamente, è ragionevole essere ottimisti: la depressione si cura. Magari ritorna, ma le ricadute si possono prevenire o possono essere affrontare prontamente e il loro impatto alla fine è limitato.

Il clinico sveglio però sa una cosa: la depressione non è una malattia a sé stante. Sì, ci sono persone che hanno un’alterazione biologica del tono dell’umore, che tende verso il basso. Loro sì, hanno la depressione. Ma non vi fate ingannare. Quando leggete sui giornali che tizio ha fatto questo e quest’altro perché aveva la depressione non è vero. E soprattutto, se vi diagnosticano la depressione… un attimo! La depressione, dicevo, non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade.
Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Come funziona il meccanismo?

Andiamo direttamente con un esempio.
Desidero essere apprezzato. Dentro di me penso di valere poco. Prevedo che gli altri mi giudicheranno. Questo mi dà ansia nell’attesa del giudizio, vergogna se mi espongo all’occhio critico, tristezza dopo che rimango a fare i conti con il mio scarso valore. Rinuncio a espormi, perdo occasioni di fare progressi, si restringe la vita sociale. La vita perde sapore, significato. Mi deprimo. Un quadro del genere, per esempio lo trovate nel disturbo evitante di personalità.

Desidero essere amato. Penso di meritarlo poco e di non essere in grado di sostenere da solo la mia debolezza. Prevedo che l’altro sarà indisponibile o mi abbandonerà. Quando sento l’abbandono mi sento solo, sperduto, l’idea di non essere amabile è confermata. Mi butto giù. Perdo iniziativa, mi paralizzo. Mi deprimo.
Un quadro del genere lo trovate per esempio nel disturbo dipendente di personalità.

Desidero sicurezza. Penso di essere vulnerabile, fragile, feribile. Prevedo che gli altri saranno ostili, minacciosi, umilianti, mi inganneranno, mi schiacceranno. Se vedo segni di aggressione, e li vedo facilmente anche se non ci sono, perché sono sempre in guardia, mi metto in difesa. A volte attacco, ma soprattutto mi chiudo, mi ritiro, mi isolo. Prendo le distanze dal mondo, vivo nel bunker, allarmato isolato. Mi deprimo.
Un quadro del genere è tipico delle personalità paranoidi.

Potrei continuare. È chiara l’idea? Per curare la depressione, nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscere e trattare il disturbo di personalità sottostante. In questo modo la cura va alla radice e si prevengono le ricadute. E si previene il rischio di interruzione precoce del trattamento.
Se si cura solo la costellazione di sintomi, sempre che ci si riesca, è facile che il problema appaia ancora. E noi clinici attenti vogliamo mirare all’esito migliore possibile.

Freud o l’interpretazione dei sogni – Recensione dello spettacolo al Teatro Piccolo di Milano

Se è vero che siamo fatti della stessa natura dei sogni, quali sogni avranno attraversato la mente del temerario che per primo si è avventurato in quei territori sconosciuti e insidiosi?

 

Sulla scia di questa domanda Federico Tiezzi si spinge per affrontare l’ardua scommessa di portare in scena l’indicibile e l’irrappresentabile, il mondo onirico e il suo esploratore sommo, Sigmund Freud, pioniere di quel “dangerous method” capace di scardinare le porte più segrete e blindate pur di arrivare all’origine della sofferenza dell’anima.

Come raccontare tutto questo a teatro? La sfida congiunta di Tiezzi e del drammaturgo Stefano Massini, artefici al Piccolo Teatro Strehler dell’affascinante “Freud o l’interpretazione dei sogni” (repliche fino all’11 marzo), è duplice. Da un lato dare corporeità e umanità a quei primi grandi sognatori di cui Freud poco ci dice, ma a cui tanto deve in quanto fornitori di quella “materia prima” necessaria a edificare la sua scienza rivoluzionaria. Dall’altro, il tener conto del percorso ardimentoso che lui stesso ha da affrontare per inoltrarsi nei limacciosi meandri della psiche.

Memore dell’intuizione di Jung, “solo chi è ferito può curare“, Tiezzi affianca nello spettacolo il racconto e l’analisi dei sogni dei pazienti a quelli del loro sommo indagatore. Che riflettendosi nello specchio oscuro del transfert conosce e riconosce nevrosi e pulsioni inconfessabili e inconfessate, da codificare e incastrare con perizia sperimentale in un rebus enigmatico.

Nei severi panni di Sigmund Freud, Fabrizio Gifuni restituisce l’animo tormentato di un uomo di scienza alle prese con il dubbio, di un medico che procede per tentativi, dilaniato da conflitti, turbamenti, sensi di colpa. Tanto da arrivare talora, vedi gli incontri con il paziente Ludwing R. (Marco Foschi) o con la signora Elga K. (Sandra Toffolatti, a veri match, degni di un ring. Da cui anche lui, il Grande Mago dell’anima, ne esce con le ossa rotte, uomo in crisi tra uomini in crisi di una Bella Époque ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Il valzer di silhouettes che apre lo spettacolo evoca il fascino crepuscolare di un’Austria Infelix, dove la lieta malinconia degli Strauss cede già il passo alle ambigue luminescenze di “Verklärte Nacht” di Schoenberg, composta nel 1899, stesso anno in cui Freud scrive la sua “Interpretazione dei sogni“.

Quella Notte Trasfigurata pervasa da ossessioni di eros e di morte, diventa sulla scena lo spazio delle visioni, degli incubi, delle allucinazioni. Dalle tante porte che lo scandiscono, entrano lucertoloni verdastri, vagoni ferroviari affollati di ragazzi d’oro, cortei funebri che trascinano bare traballanti, incapaci di trovare una via d’uscita… E Freud stesso si ritrova tra loro, Edipo nudo, angosciato di non riuscire a seppellire suo padre.

Come angosciati e nudi sono gli uomini e le donne che bussano a quello studio affollato di tappeti e preziose statuette antiche, approdo estremo di un patire inconsolato, dove si arriva per interrogare l’oracolo. Talora la risposta salvifica arriva, talora no. L’acume di Freud coglie nel segno, ma non sempre medica le pene. Capire non basta a consolare. A volte chi soffre si sente solo una pedina di un gioco dell’indagine dove a vincere è solo il banco. E allora Tessa W. (Elena Ghiaurov) accusa lo “stregone” di usare il loro dolore per mettere a punto le sue teorie.

Un girotondo di esistenze perdute, talora ritrovate, talora smarrite per sempre. Un lungo viaggio dentro la testa di Freud, nel cuore di tenebra dell’io, del teatro, di un’Europa in disperata ricerca di una nuova identità.

Giuseppina Manin

Freud o l’interpretazione dei sogni – Teaser (VIDEO):

 

Diversamente sano: Liberi di essere folli (2018) – Recensione del libro e intervista all’autore 

Diversamente Sano destruttura, infrangendo gli apparati teorici, il concetto di patologia mentale. Tutto ha origine da una domanda pungente: “Siamo proprio sicuri che quello che viene da tutti considerato come comportamento Patologico non sia in realtà una forma di potenzialità inespressa?

 

Una domanda che guida Antonio Cerasa, neuroscienziato e ricercatore CNR, vincitore del premio per la Divulgazione Scientifica “Giancarlo Dosi” 2017,  lungo questo nuovo ed interessante lavoro.

Le voci del libro Diversamente Sano siedono allo stesso tavolo, e sono quelle di un Neuroscienziato, uno Psicologo, uno Psichiatra ed un Sociologo. Insieme, per discutere in una nuova ottica (quella della psicologia positiva) di alcune tra le più moderne e particolari patologie della mente: ortoressia, fobia sociale, dipendenza affettiva, dipendenza patologica da internet, incontinenza emotiva, sindrome di Pollyanna.

Esplorando comportamenti considerati patologici, i 4 commensali si impegnano a ricercarne l’essenza, spogliando l’osservazione e le indagini interpretative dalle eccessive sovrastrutture teoriche di una società egodistonica, che tende a produrre costantemente distorsioni. Frustrazione, ricerca incessante di un’idea che armonizzi i bisogni individuali, insoddisfazione profonda: queste le caratteristiche della società contemporanea, nella quale i disturbi mentali crescono e si diversificano con una rapidità che inibisce l’efficacia delle classificazioni e che assottiglia, sfuma o ingloba i confini tra ciò che si ritiene “sano” e ciò che invece viene definito “malato”.

Saranno proprio i 4 ad ipotizzare l’esistenza ed a lanciarsi nella ricerca di un punto di EgoSintonia, sia nella malattia mentale che tra le proprie competenze e conoscenze; un confine, un tratto sottile nel quale normalità, psicopatologia e malattia psichiatrica si incontrano e che – se focalizzato – può permettere alla persona di vivere con maggior libertà la propria particolare attitudine.

Un lavoro decisamente ambizioso, Diversamente Sano, che consente di reinterpretare – e di porgere al lettore -ciascun comportamento in una nuova veste, anche alla luce delle ultime scoperte delle neuroscienze cognitive e delle ultime evidenze sociologiche ed epidemiologiche.

Un libro “estremo”, provocatorio, acuto, che rischia di farsi amare o detestare. Che sa parlare di confini e prova coraggiosamente a valicarli, che si radica nel contesto sociale contemporaneo per poterlo trascendere, che si impernia sulla psicopatologia per superarla: alla ricerca di una egosintonia smarrita, lungo il viaggio narrativo saranno le voci di 6 pazienti (immaginari?) a testimoniare la propria modalità di raggiungerla, attraverso il racconto della loro vita.

Diversamente Sano – Intervista all’autore Antonio Cerasa

Intervistatrice: Dottor Cerasa, come nasce questo libro?

 Dr. Antonio Cerasa: Diversamente Sano nasce da una semplice considerazione statistica. In branche mediche come la neurologia e la psichiatria, la ricerca scientifica da oltre 30 anni ha investito centinaia di miliardi di euro principalmente per la caratterizzazione biologica dei sintomi clinici. Questo sforzo mondiale ha prodotto un’enorme conoscenza, senza tuttavia contribuire sensibilmente al miglioramento della salute mentale dei pazienti. Diversamente Sano adotta il mood della corrente scientifica Americana “Psicologia Positiva”, per proporre un nuovo punto di vista in cui, accanto alla caratterizzazione biologica dei sintomi, si ritiene indispensabile un lavoro specialistico di potenziamento delle specifiche virtù e le capacità del paziente, poiché queste ultime possono contribuire a migliorare la qualità della vita e la riduzione dei sintomi.

Intervistatrice: Dunque un lavoro che appare provocatorio, oltre che decisamente interessante. Ci racconta quale aspetto di Diversamente Sano, a suo avviso, lo rende ulteriormente originale?

Dr. Antonio Cerasa: Il tratto distintivo di Diversamente Sano, rispetto alle migliaia di libri che parlano della malattia psichica, è che il saggio non è scritto in prima persona dall’autore, ma si sviluppa lungo più piani narrativi. La regia della comunicazione letteraria viene comunque lasciata ai pazienti, alle loro storie di vita, alle loro strategie di adattamento. Il piano (o meglio, tavolo) comunicativo dei  4 “commensali clinici” li vedrà invece offrire i rispettivi punti di vista e quindi le differenti competenze e lenti focali di osservazione, che tenderanno poi a convergere – con l’aiuto dei pazienti – nella ricerca comune dell’egosintonia.

Psicologia dello sport: ambiti e metodologie di intervento – Un seminario informativo a Palermo

Di queste profonde connessioni si occupa la Psicologia dello sport e dell’esercizio fisico, ambito scientifico che richiede allo psicologo una specifica professionalità e formazione, e che l’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana stimola e promuove attraverso l’istituzione di un apposito Tavolo tecnico, i cui risultati sono stati diffusi tra gli addetti ai lavori in occasione dell’incontro svoltosi a Palermo lo scorso 18 gennaio, nella sede del Coni.

 

Psicologia dello sport: le connessioni tra mente e corpo

Mens sana in corpore sano, recita una famosa frase, a enfatizzare lo stretto legame tra mente e corpo e il loro reciproco influenzamento in termini di salute (o malattia).
L’impatto positivo della mente sulla salute del corpo e, di converso, l’impatto positivo per un corpo “da tenere in forma”, da “allenare”, con cui “gareggiare” di una mente parimenti “allenata”, in grado di trainarlo verso obiettivi di successo.

Di queste profonde connessioni si occupa la Psicologia dello sport e dell’esercizio fisico, ambito scientifico che richiede allo psicologo una specifica professionalità e formazione, e che l’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana stimola e promuove attraverso l’istituzione di un apposito Tavolo tecnico, i cui risultati sono stati diffusi tra gli addetti ai lavori in occasione dell’incontro svoltosi a Palermo lo scorso 18 gennaio, nella sede del Coni.

Psicologia dello sport: seminario a Palermo

Il ruolo dello psicologo dello sport

Questo incontro si svolge a un anno e mezzo dall’istituzione del tavolo tecnico di Psicologia dello sport (TTPS) dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana (OPRS) fortemente voluto dal Presidente dell’OPRS Fulvio Giardina e che vede la partecipazione, tra gli altri del Coni nazionale– commenta Graziella Zitelli, Coordinatrice del Tavolo Tecnico di Psicologia dello sport e Consigliere OPRS – L’esigenza forte da cui nasce il Tavolo è di chiarire le competenze specifiche dello psicologo dello sport, da distinguere da altri professionisti che utilizzano competenze non psicologiche (ad esempio allenatori che svolgono impropriamente il ruolo di mental coach). Il nostro obiettivo è tutelare, da un lato, la professione e dall’altro il cliente e il suo benessere. Oggi la presenza dello psicologo definisce peraltro una squadra di qualità: la Federazione Italiana Gioco Calcio stabilisce che, per potersi definire squadra di calcio d’élite, una squadra deve prevedere quattro incontri con uno psicologo durante l’anno sportivo. Insomma, lo psicologo che si occupa di sport non può permettersi di improvvisare e deve essere a conoscenza degli spazi lavorativi che questo ambito apre, finalità principali di questo incontro informativo”.

E sulle specifiche competenze della figura dello psicologo, così come sui suoi confini, apre i lavori Fulvio Giardina, sottolineando che “lo sport coinvolge tutti, senza limiti di età, e che lo psicologo è chiamato a riconoscere i propri limiti, poiché non è un allenatore, e a programmare e valutare l’intervento sportivo”.

Approfondendo gli ambiti di applicazione propri della psicologia dello sport l’incontro ha quindi indagato le quattro aree di interesse per la disciplina, attraverso le relazioni dei componenti del Tavolo Tecnico.

Quando si pensa allo psicologo dello sport immediatamente si pensa al mental training; non negando l’importanza della componente mentale nella prestazione, tuttavia le aree di applicazione della psicologia dello sport sono varie – sottolinea Monica Monaco, psicologo, componente del TTPS – Tra queste è da ricordare la prevenzione, per esempio dei drop out dovuti alla demotivazione; esiste poi l’area della formazione, da rivolgere allo staff tecnico, ai dirigenti, o, nel caso di bambini, l’informazione indirizzata ai genitori. Per quanto riguarda infine l’intervento sulla prestazione, questa utilizza diverse tecniche psicologiche di potenziamento dell’atleta, senza perdere di vista il gioco di squadra”.

Prestazione dell’atleta e vittoria del gruppo come binomio indissolubile, a cui lo psicologo deve mirare, nel contempo massimizzando le risorse dell’atleta e analizzandone la personalità.

L’interesse della squadra è certamente prioritario, benché l’atleta debba trovare spazi per esprimersi – spiega Gabriele Grasso, psicologo, componente del TTPS – Ecco perché lo psicologo deve osservare scientificamente sia le relazioni all’interno della squadra sia tra gruppi, come tra la squadra e lo staff tecnico, al fine di modulare le variabili che influenzano la prestazione, come la gestione della leadership, che permette ai giocatori di raggiungere obiettivi condivisi e accrescere il senso di appartenenza alla squadra.”

Riguardo invece alle tecniche di mental training esse mirano a rafforzare le abilità che un giocatore deve possedere per effettuare una buona prestazione, come l’attenzione e la concentrazione sull’obiettivo, il controllo dell’arousal, la corretta gestione delle emozioni e le capacità di recupero dagli errori – continua Giuseppe Saia, psicologo, componente del TTPS – Tra queste si ricorda il training autogeno, le tecniche di respirazione e l’imagery, ovvero la visualizzazione del gesto in immaginazione, che facilita la messa in atto dello stesso”.

La mente quindi, come “guida” per prestazioni fisiche ottimali, ma anche come “cura” per il corpo, poiché la mente accelera il recupero fisico, anche dopo gravi infortuni, secondo quanto studiato dalla psicotraumatologia, altro ambito di interesse per lo psicologo dello sport.

La mente favorisce la guarigione, ma è vero anche che la ostacola, così la tensione nervosa agisce fisicamente anche su un arto dichiarato sano dal medico dopo un infortunio, e inoltre favorisce gli infortuni stessi– precisa Graziella Zitelli – A tal proposito le tecniche di respirazione risultano molto utili a prevenire gli infortuni”.

Un interesse per la prestazione, la cura, la valorizzazione del benessere psicofisico, delle aree funzionanti della persona che la Psicologia dello Sport rivolge a tutte le fasce di età e a tutte le condizioni psicofisiche (minori, anziani, disabili), attingendo alle nozioni della psicologia evolutiva, della psicogeriatria e dell’handicap, in stretta collaborazione con un team di professionisti come medici dello sport e nutrizionisti.

Una disciplina variegata che guarda alla prestazione, alla consapevolezza del movimento, al potenziamento delle parti sane del corpo, al gioco quale forma di piacere individuale ed espressione di appartenenza e di identità.

Un videogioco che aiuta a riflettere sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro

Il laboratorio “the Imagination, Computation and Expression” del Massachusetts Istitute of Technology, sezione “Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory, sotto la supervisione del professor Harrell, ha realizzato un nuovo videogioco chiamato Grayscale, per sensibilizzare i giocatori al problema del sessismo, delle molestie sessuali e tentativi di violenza sul luogo di lavoro sulla scia del recente movimento #MeToo.

 

Un videogioco sul sessismo e il mobbing sul posto di lavoro

Dal recente scandalo Wenstein che prometteva ruoli e fama alle giovani e inesperte attrici in cambio di favori e prestazioni sessuali, fino alle dichiarazioni delle attrici francesi come Catherine Deneuve sulla libertà degli uomini di poter corteggiare il genere femminile senza per questo essere etichettati come molestatori o peggio, hanno portato alla ribalta diverse problematiche relative ai rapporti uomo-donna, in particolare sul posto di lavoro.

Il laboratorio di tecnologia e intelligenza artificiale del Massachusset Istitute of Technology (MIT) ha recentemente perfezionato un videogioco, chiamato Grayscale, per simulare e quindi di conseguenza favorire la riflessione su situazioni di molestie sessuali, mobbing e iniquità di trattamento tra il genere maschile e femminile sul luogo di lavoro.

Il giocatore si trova a dover ricoprire il ruolo di impiegato per un’importante e prestigiosa società, la Grayscale dove però tutto è sui toni del grigio sia dal punto di vista dei rapporti con i colleghi sia dell’ambiente di lavoro.
Nello specifico il giocatore è un impiegato delle risorse umane che si interfaccia con il personale della società tramite messaggi e email.
Durante una mattinata di lavoro, riceve dei messaggi da parte di alcuni colleghi che gli segnalano, senza che ci sia alcuna ombra di dubbio, la presenza in ufficio di differenti atteggiamenti di sessismo, secondo il modello sociale di Fiscke e Glick (1996).

Nel loro modello sociale, Fiscke e Glick (1996) facevano riferimento alla nozione di sessismo ambivalente, che fa da quadro teorico al videogioco Grayscale, specificandone due tipi: uno “ostile”, una forma particolare e efferata di sessismo esplicito caratterizzato da discriminazione di genere e pesanti molestie sessuali, e un altro detto “benevolo”, più sottile e apparentemente positivo per il genere femminile, costituito dall’ errata credenza maschile per la quale è necessario aiutare la donna ritenuta non in grado o abbastanza brava da sola di occuparsi di “cose maschili” come aggiustare computer o amministrare un ufficio.

Quest’ultima forma anch’essa è oppressiva e discriminante perché fondata sulla credenza tale per cui il genere femminile sia poco adatto ad assumere ruoli di comando, di successo ma più esperto nell’occuparsi invece di “faccende emotive o di famiglia”.
Come impiegato alle risorse umane, il giocatore si trova a dover risolvere alcune questioni, a volte sottili di sessismo “benevolo”, riguardanti gli impiegati della società come il fatto che alcuni di loro si lamentano per la temperatura troppo bassa dei loro uffici o si lamentano e criticano l’abbigliamento di altri.

In particolare nell’email ricevuta, alcuni colleghi lamentano l’abbigliamento improprio e non adeguato alla politica della società di alcune colleghe: “le scrivo per segnalare che alcune donne si presentano sul posto di lavoro con un abbigliamento poco consono”.
A questo punto il “giocatore impiegato” deve stabilire se questo commento dei colleghi circa l’abbigliamento di alcune donne sia da approfondire perché effettivamente inappropriato e poco professionale o se invece gli sia stato segnalato in quanto potrebbe essere fonte di distrazione per alcuni colleghi uomini al lavoro.
Il giocatore, a questo punto, si trova a decidere se invitare tutti gli appartenenti alla società a seguire dettami del “dress code” previsti dalla società oppure avvisare le colleghe segnalate che qualcuno non ha gradito un loro modo di vestire che potrebbe fungere da distrazione per gli uomini.
Sulla base di alcuni messaggi, egli pertanto deve decidere se inviare email a tutto il personale o solo alle colleghe segnalate esibendo così una forma di sessismo “benevolo” chiedendo alle donne di vestirsi in modo diverso per non attrarre sguardi indiscreti.

Uno degli scopi del videogioco è di immergere il più possibile il giocatore all’interno della situazione e di riflettere sul fatto che spesso in questi casi non è sempre facile prendere una decisione in quanto ci si trova a dover anche prevedere le possibili conseguenze di ogni propria azione e scelta all’interno di un contesto professionale in cui sono coinvolte diverse persone sia di genere maschile che femminile.

È bene sottolineare che il giocatore dovrà prendere una decisione sulla base di commenti fatti da altri e non supportati da alcuna prova, considerando nel dettaglio se questi sono stati fatti sulla base di credenze sessiste da parte degli uomini o realmente le colleghe hanno violato le regole del “dress code” professionale.
È bene credere a tali commenti o indagare personalmente nel dettaglio la vicenda prima di inviare delle email senza all’inizio considerare i feedback degli altri colleghi?

L’idea innovativa del MIT è quella di costruire, sfruttando le moderne tecnologie e informatica e partendo da modelli delle scienze cognitive-sociali, degli strumenti utili e a portata di tutti, come i videogiochi, per aiutare le persone a interfacciarsi con le problematiche interpersonali più spinose e sottili, senza sfociare nell’opinione o nei pregiudizi comuni ma trovandosi ad impersonare un ruolo decisionale in ambito professionale.
In aggiunta a ciò è stato possibile per i ricercatori anche comprendere i processi decisionali dei soggetti partecipanti al gioco, come categorizzano e quali strategie di problem-solving applicano in questi contesti.

Mindfulness e carcere – Spunti di riflessione da Le mie prigioni di Silvio Pellico

Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria. Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico

Matteo Kettmaier – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Introduzione: i benefici della mindfulness

Con il termine mindfulness si intende uno stato mentale di attenzione consapevole tramite il quale giungere a un stato di lucidità maggiore riguardo i propri stati interni e l’ambiente circoscritto in relazione ad esso.

Originariamente mutuato da una tradizione meditativa buddista detta vipassana, nella pratica si traduce in una forma di meditazione, inizialmente guidata, che con l’esercizio la persona può attuare da sola. Numerosi sono i benefici della mindfulness, tanto da essere stata formalizzata in specifici protocolli clinici, oltre che aver trovato applicazione praticamente in tutti i campi di intervento psicologico.

Attualmente esiste una bibliografia sterminata al riguardo, in cui la mindfulness viene proposta come strumento per l’incremento dell’attenzione e del benessere emotivo in infanzia e in adolescenza, per la prevenzione delle ricadute nelle patologie da dipendenza, per affrontare la gravidanza, per la gestione della rabbia, per la gestione dello stress, per il benessere nella vita di coppia, oltre che, nella sua applicazione clinica, per la gestione di disturbi depressivi e ansiosi.

Ciò che propone la mindfulness è di rendere la persona maggiormente presente nel “qui ed ora” aumentando la capacità di distinguere tra emozione e pensiero e comprendere profondamente le relazioni che intercorrono tra queste due dimensioni della vita psichica. Così facendo è possibile scoprire, o riscoprire, le proprie risorse interne con le quali far fronte alle difficoltà quotidiane nonché a situazioni di disagio mentale più profonde.

L’applicazione della minduflness in carcere

Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria.

Attualmente è stato proposto un progetto di intervento presso la casa circondariale di San Vittore a Milano. Tale progetto si propone di intervenire sullo stress e sul malessere insiti nella condizione di deprivazione della libertà al quale spesso si aggiungono fattori aggravanti quali: il sovraffollamento delle celle, la scarsità di attività praticabili, la condizione di incertezza riguardo ad eventuali ricorsi legali o richieste specifiche di assistenza. Va inoltre tenuto presente quanto spesso i rei provengano da situazioni di marcato disagio sociale e famigliare che, anche in soggetti che non presentano conclamati tratti di personalità antisociale, non permettono uno sviluppo socialmente adeguato delle capacità metacognitive e di lettura dei propri stati interni.

Un altro interessante documento sull’utilità della pratica meditativa in un carcere indiano è il documentario “Doing time doing Vipassana” reperibile cliccando qui.

La condizione-limite della reclusione carceraria si configura al contempo come una delle più difficili da accettare e una di quelle in cui è maggiormente necessaria la capacità di vivere e accettare il momento presente in quanto il pensiero costante della futura scarcerazione rischia di essere ulteriore fonte di frustrazione. Anche riguardo alla riduzione del rischio di recidiva la mindfulness può rivelarsi un eccellente strumento per la reintegrazione civica laddove associata a interventi specifici di riabilitazione.

Il ritorno nel mondo esterno, infatti, rischia di tradursi nel reinserimento in tessuti sociali criminosi qualora non sia stato effettuato un lavoro sulla motivazione del cambiamento e la consapevolezza dei meccanismi interni ed esterni risoltisi nel reato. Nel caso in cui tale rischio non sussista, colui che esce dal carcere si troverà comunque ad affrontare una realtà mutata con tutta la frustrazione che ne può derivare.

I prinicipi della mindfulness nell’opera di Silvio Pellico

Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico, scrittore e patriota ad oggi parzialmente dimenticato. Nella sua opera più nota, Le mie prigioni, egli racconta la propria esperienza umana e spirituale durante il periodo di carcerazione presso la prigione dei Piombi di Venezia e la fortezza austriaca di Spielberg. Tale esperienza portò Silvio Pellico ad una profonda attività riflessiva segnata dalla riscoperta della fede cristiana.

Tra le righe di questo percorso esistenziale possiamo leggere un invito alla consapevolezza e all’accettazione del presente che richiama i principi della mindfulness.

Vediamo questo percorso nelle parole dell’autore:

Prima della mindfulness

In quell’assenza totale di distrazioni, l’affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile. (pag. 8)

In questo passaggio possiamo leggere la sofferenza del prigioniero nel momento in cui il suo pensiero è rivolto ad una realtà esterna sulla quale non può avere controllo. La “forza incredibile” del pensiero dei familiari sofferenti viene descritta quasi come un pensiero intrusivo, un’immagine vivida e dolorosa di una situazione riguardo alla quale non è possibile operare in alcun modo. Recentemente carcerato, Silvio Pellico brancola ancora in una confusione spirituale nella quale la risoluzione della sofferenza psichica sembra essere la “distrazione”. Come leggiamo nel passo seguente tale soluzione non è efficace.

Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria, e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch’io lo faceva pensando meno a que’ versi che a’ casi miei. (pag. 18)

Tramite l’esercizio mnemonico c’è il tentativo di rimuovere i pensieri. Uno dei principi della mindfulness è proprio l’impossibilità di rimuoverli o sostituirli laddove ciò su cui si può operare è l’attenzione rivolta ad essi e la loro  interazione dinamica e reciproca sul tono dell’umore generale. L’esercizio è “macchinale”, occupa soltanto una parte del vissuto psichico lasciando libera la parte emotiva che rinforza in maniera biunivoca i pensieri dei “casi” riguardanti il dolore dei famigliari, l’incertezza del destino proprio e dei compagni dell’associazione dei “Federati” e la miseria della condizione attuale.

Religione e consapevolezza

La svolta positiva avviene con la ri-scoperta della religiosità che, nella specifica realtà della reclusione, non si presenta tanto nel suo aspetto precettistico quanto in quello di risorsa mentale, fede nella presenza di una realtà ultraterrena.

L’intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me (pag. 19)

Letto con la lente di un agnostico psicologismo, la presenza di Dio ci si presenta come “presenza a se stesso”, non una fuga maniacale dalla realtà che neghi le difficoltà presenti, bensì una capacità di stare nel momento, per quanto esso sia orribile. Tutto ciò è ancora più esplicito nel passo seguente:

Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d’un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita. Io in meno d’un mese avea pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa, il mio partito. (pag.21)

Nelle parole del poeta piemontese troviamo espresse alla perfezione la scoperta della “dimensione dell’essere” contrapposta alla “dimensione del fare” la quale, completamente inibita dalle circostanze, non può che essere foriera di sofferenza. Tramite l’accettazione dell’impossibilità di usufruire delle “gioie del mondo” è possibile lavorare sulla “coscienza” e trovare un equilibrio, non perfetto, ma sufficientemente confortevole alla sopportazione. Il “vivere libero” rimane preferibile ma il continuo pensiero rivolto ad esso è doloroso, produce una dissonanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere o meglio, che si vorrebbe che fosse. Si potrebbe citare al riguardo anche il celebre passo dell’Amleto shakespeariano:

Amleto: Oh Dio! Io potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re di un spazio infinito… se non fosse che faccio brutti sogni.

Guildestern: I quali sogni sono appunto ambizione: infatti la sostanza stessa degli ambiziosi non è altro che l’ombra di un sogno.

Amleto: Il sogno stesso non è altro che un’ombra. (pag 135)

Se nella finzione teatrale il pensiero diventa manifestazione di fantasmi che si presentano ai sensi per reclamare vendetta, nelle memorie di Silvio Pellico esso è groviglio di emozioni dolorose legate da un feroce e totalizzante senso di impotenza. La risoluzione interiore avviene nel segno di un’esperienza della religiosità come risorsa che infonde un senso di autoefficacia anche laddove quasi ogni agentività è impedita:

Il mio impegno di acquistare una calma costante non movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto dall’apparirmi brutta, indegna dell’uomo, l’inquietudine. Una mente agitata non ragiona più: avvolta fra un turbine irresistibile d’idee esagerate, si forma una logica sciocca, furibonda, maligna: è in uno stato assolutamente antifilosofico, anticristiano. (pag. 49)

Non ancora mindfulness

Nonostante la scoperta di una strategia di coping adeguata, Silvio Pellico soffrirà ancora di ricadute in stati depressivi e ansiosi.

Di particolare interesse, ai fini del nostro discorso, quello che lui reputa la minaccia più grande alla ricerca della serenità nello spazio della cella, un’insidia così perniciosa da ispirargli pensieri di suicidio: le zanzare.

[…] il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n’era coperto, e l’ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra e facienti un ronzio infernale. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si dee avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre  veramente assai e di corpo e di spirito. Allorché, veduto simile flagello, ne conobbi la gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione di suicidio mi prese, e talvolta temei d’impazzare (pag 77)

Nella pratica della mindfulness è centrale il lavoro sul corpo: mediante la pratica del bodyscan ed esercizi di focalizzazione sul respiro, la meditazione porta ad una riconnessione con il proprio organismo come sede di sensazioni capaci di rivelare l’emozione del momento. La persecuzione delle zanzare nei confronti del carcerato che, ricordiamolo, giunge a pensieri coerenti con i principi della mindfulness ma non mette effettivamente in pratica il protocollo vero e proprio, ha un effetto talmente scompensante da indurre una disperazione così intollerabile da indurre pensieri disgreganti.

In questo paragrafo possiamo vedere la fragilità di una modalità di pensiero assimilabile alla mindfulness alla quale è mancato il fondamentale lavoro di integrazione delle esperienza somatiche, emotive e di pensiero. Nei casi di applicazione della mindfulness a pazienti sofferenti di dolore cronico il focus sull’aspetto di accettazione della condizione di sofferenza è centrale, Silvio Pellico arriva ad accettare la privazione della libertà mediante un lavoro di riflessione individuale che tralascia però la dimensione del corpo. Quando questo viene attaccato egli sembra non trovare le risorse per farvi fronte e l’intera struttura mentale sembra crollare verso la disgregazione definitiva della follia o la risoluzione suicidiaria.

Conclusioni

Sarebbe una forzatura vedere in Silvio Pellico un autentico precursore della mindfulness, come detto sopra, Le mie prigioni presenta un percorso di consapevolezza che giunge a concepire l’importanza dell’attenzione consapevole e della capacità di vivere nel momento presente ma senza il fondamentale lavoro sulla dimensione corporale.

E’ interessante, comunque, tenere presente il suo contributo come esempio di trait d’union tra tradizione occidentale cristiana e quelle filosofie orientali incentrate sulla disidentificazione di corpo-emozione-pensiero alle quali la mindfulness è ispirata.

La testimonianza di Silvio Pellico è ricca di spunti di riflessione attualissimi che spaziano in vari campi della dimensione pubblica e privata dell’esistenza. Uno di questi, che potrebbe trovare un’applicazione pratica, è quello della salute mentale nelle carceri. Tanto da un punto di vista strettamente umano, quanto da un punto di vista pragmatico, Pellico ci offre una chiave per affrontare il problema della condizione carceraria e della riabilitazione con tutti i limiti insiti nella cultura di riferimento della sua epoca.

Oggi, abbiamo i mezzi per progettare interventi strutturati e tra questi la mindfulness potrebbe dare dei risultati.

Amare la matematica rende i bambini più bravi?

La ricerca condotta su bambini delle scuole elementari, dai ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford, ha scoperto che un approccio positivo alla matematica migliora la funzionalità dell’ippocampo (il centro cerebrale della memoria) durante l’esecuzione di compiti numerici.

 

L’interesse per la matematica correla con performance scolastiche migliori

Gli insegnanti hanno riscontrato da sempre performance migliori nei bambini che mostravano un maggior interesse per la matematica e che nel contempo si percepivano come abili matematici, tuttavia non era chiaro se questo fosse dovuto semplicemente a un’intelligenza superiore o ci fosse un’altra spiegazione.
Il nuovo studio ha mostrato una correlazione tra atteggiamento propositivo e prestazioni matematiche migliori da parte dei bambini, al netto del QI (quoziente intellettivo) e di altri possibili fattori interferenti.

L’atteggiamento è davvero importante, sulla base dei nostri dati un orientamento positivo nei confronti della matematica è importante tanto quanto il quoziente intellettivo” ha detto Lang Chen, autore principale dello studio.

Precedentemente alla ricerca, gli studiosi ipotizzavano che i centri di ricompensa presente nel cervello guidassero lo stretto legame esistente tra atteggiamento individuale e successo scolastico, in altre parole: individui con atteggiamenti migliori nei confronti dello studio erano più abili come studenti in quanto giudicavano l’attività gratificante o motivante. Sorprendentemente lo studio ha mostrato invece che il forte interesse per la disciplina e la percezione di essere capaci generavano maggiori abilità mnestiche e un coinvolgimento più efficiente delle capacità di risoluzione dei problemi.

I ricercatori hanno somministrato una serie di questionari a 240 bambini con un’età compresa tra i 7 e i 10 anni raccogliendo informazioni riguardo dati demografici, QI, capacità di lettura e di memoria di lavoro. L’abilità matematica dei bambini è stata misurata utilizzando prove riguardanti la conoscenza dei fatti aritmetici e la capacità di risolvere problemi. I bambini hanno anche risposto a domande circa il loro atteggiamento e interesse nei confronti della matematica e delle altre materie e riguardo la percezione delle loro abilità matematiche. Ai genitori è stato chiesto di descrivere le caratteristiche comportamentali ed emotive dei figli e il loro livello di ansia generale e specifica durante l’esecuzione dei compiti matematici.

I risultati mostrano che le prestazioni matematiche sono correlate ad un atteggiamento positivo nei confronti della disciplina anche dopo aver controllato statisticamente il QI, la memoria di lavoro, l’ansia generale e specifica e l’atteggiamento generale nei confronti dello studio. In linea generale il team ha potuto affermare che i bambini con un approccio negativo nei confronti della matematica raramente ottenevano buoni risultati nella materia, mentre quelli con atteggiamenti fortemente positivi ottenevano una serie di risultati gratificanti.

Avere un interesse per la matematica agisce sulla memoria e il sistema di apprendimento

Dall’analisi delle scansioni cerebrali, ottenute dalla risonanza magnetica (MRI) di parte del campione, gli scienziati hanno scoperto che quando un bambino risolveva un problema matematico, il suo atteggiamento positivo era correlato all’attivazione dell’ippocampo, un importante centro di memoria e apprendimento del cervello. Nessuna relazione si è invece osservata tra l’attivazione dei centri di ricompensa del cervello, tra cui l’amigdala e lo striato ventrale, e un approccio positivo del bambino. Le immagini MRI ottenute suggeriscono che l’ippocampo media il legame tra atteggiamento positivo e recupero efficiente dei fatti aritmetici dalla memoria, che a sua volta è associato a migliori capacità di problem solving.

Ritengo che sia davvero importante e interessante pensare che avere un atteggiamento positivo agisce direttamente sulla memoria e sul sistema di apprendimento. Alla luce dei dati, riteniamo che la relazione tra atteggiamento positivo e performance matematiche sia reciproca e bidirezionale: un buon atteggiamento apre le porte a risultati elevati, i quali aumentano la motivazione favorendo un atteggiamento ancora più positivo. In questo modo si crea un circolo di apprendimento” ha detto Chen.

I risultati potrebbero fornire una nuova strada per migliorare il processo di apprendimento e il rendimento scolastico come affermato da Menon, autore senior dello studio: “Il nostro nuovo lavoro suggerisce che le credenze dei bambini sulle discipline scolastiche e la loro percezione di auto-efficacia potrebbero essere utilizzate per apprendere con un approccio diverso e magari più efficace. Questi risultati appaiono importanti anche per i docenti e gli insegnanti, che dovrebbero mirare a trasmettere agli alunni la passione per la loro disciplina instillando nei bambini la convinzione di poter essere bravi in quel campo, promuovendo così nell’alunno un atteggiamento positivo e favorendo il processo di apprendimento”.

L’utilizzo del biofeedback per fronteggiare una crisi lavorativa

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress dovuto a situazioni di crisi lavorativa.

Mariapia Ghedina

 

Cosa si intende con crisi lavorativa

La crisi lavorativa è un avvenimento esogeno o endogeno, improvviso e complesso, di tale virulenza da rischiare di pregiudicare la business continuity di un’azienda. Uno dei possibili esempi di una crisi lavorativa riguarda gli investimenti sbagliati in cui vengono assunte decisioni sottostimando i rischi e andando quindi in contro a conseguenze nefaste.

L’approccio “classico” degli anni 1980-2000 porta a considerare la crisi aziendale come un “male inevitabile ma necessario”, che assicura la selezione darwiniana delle organizzazioni.

Quando si verifica una crisi lavorativa, al fine di contrastare un eventuale crollo, diviene necessaria una grande tempestività nella risposta operativa e nella gestione dei flussi di comunicazione interni all’organizzazione.

Il ruolo del crisis manager

Alla fine del secolo scorso nasce negli Stati Uniti la figura professionale definita “Crisis Manager”, sempre più diffusa anche in Italia, che si occupa di gestire le situazioni delicate e complesse che si possono creare nelle aziende. Uno dei suoi ruoli principali riguarda la gestione dei rapporti con i media e il contenimento dell’effetto nefasto che una “perturbazione” può avere sulla credibilità aziendale.

Questa figura professionale deve garantire la massima flessibilità d’orario in modo da poter intervenire immediatamente qualora sia necessario.

Non esiste un percorso formativo unico per il crisis manager: può essersi istruito nell’ambito dell’ingegneria, della comunicazione o del management; tuttavia l’esperienza acquisita sul campo è in molti casi più importante del percorso di studi. Un crisis manager deve avere una grande capacità di adattamento, essere un bravo leader e avere ottime abilità di decisionali.

La crescita aziendale è fortemente legata ai tipi di crisi che il crisis manager si troverà a gestire e alle strategie utilizzate per reagire a tali emergenze.

Quando all’interno di un’organizzazione si verifica un’emergenza, le responsabilità che ricadono sul crisis manager, sommate alla rapidità necessaria per intervenire e per prendere decisioni, implicano livelli di stress altissimi.

Training di biofeedback per crisis manager

La ricerca scientifica svolta da Janka e Al. ha indagato l’efficacia di un training di biofeedback rivolto a un gruppo di crisis manager per la gestione dello stress. In questo studio è stata monitorata l’attività elettrodermica durante esercizi finalizzati all’acquisizione del controllo dell’attivazione simpatica, sia in condizioni di riposo, sia durante l’esposizione a fattori di stress visivi, acustici e cognitivi somiglianti alle reali situazioni di crisi. Il programma comprendeva nove sessioni di quarantacinque minuti per sei settimane.

Il training di biofeedback utilizzato si è dimostrato utile per prevenire l’overarousal autonoma nei momenti più difficili e nel facilitare il ritorno allo stato di attivazione di partenza. Si tratta di una tecnica che permette di aumentare la capacità allostatica, portando a conservare o riguadagnare l’equilibrio interno dell’organismo, anche quando le sfide situazionali sono estreme.

Il controllo della propria psicoattivazione appreso grazie al biofeedback non solo può ridurre il livello di stress soggettivo, ma anche la vulnerabilità alle malattie legate allo stress; può inoltre limitare il declino delle prestazioni professionali, garantire un’adeguata prontezza in caso d’imprevisti e migliorare la gestione del rischio.

Nelle interviste non strutturate condotte al termine del training, la maggior parte dei partecipanti ha dichiarato che l’obiettivo di diminuire lo stress era stato effettivamente raggiunto e che in numerose situazioni della quotidianità aveva utilizzato la modalità di rilassamento appresa.

Tramite la scala dello stress percepito, è stato inoltre valutato lo stress soggettivo: è diminuito in modo stabile e significativo nei manager che hanno ricevuto le nove sessioni di biofeedback. Tale cambiamento è rimasto stabile al follow-up avvenuto due mesi dopo il training.

I risultati indicano quindi che l’utilizzo del biofeedback nella gestione delle crisi lavorative è un metodo efficace per diminuire i livelli di stress, per contrastare la diminuzione delle proprie capacità e per prevenire le patologie connesse allo stress stesso oltre che, naturalmente, per fronteggiare le difficoltà aziendali.

Si può pertanto concludere che il biofeedback può costituire un metodo utile da inserire nei programmi di gestione dello stress rivolti ai crisis manager.

Piccoli crimini coniugali (2017) – Cinema e Psicologia

Piccoli crimini coniugali è un film del 2017 diretto da Alex Infascelli, tratto dalla’omonima piece teatrale di Éric-Emmanuel Schmitt, interpretato da Sergio Castellitto e Margherita Buy.

 

Piccoli crimini coniugali – La trama

A seguito di un incidente domestico Elia (Sergio Castellitto), scrittore di gialli, perde la memoria. La moglie (Margerita Buy) cerca di fargliela tornare. Ricostruisce la vita con lui, ma la verità non è mai quello che sembra. Il film Piccoli crimini coniugali è un gioco al massacro tra i due. Chiusi nella loro casa si confrontano e si scontrano, celebrano una redde rationem della loro vita insieme costruito sul parlato. Emergono molte ombre e pochi ricordi di affetti e tenerezze scambiate.

La supposta mancanza della memoria (Castellitto spaesato, sembra non ricordare nulla: né della casa, né del matrimonio, né di se stesso e neanche dell’opinione che la consorte ha di lui) interroga per rievocare, per ricostruire significati di comodo che vengono sgretolati dall’emergere di pensieri ed emozioni che affiorano dai più intimi recessi dell’animo dei protagonisti. I due sprofondano, si inabissano per far riemergere una danza armonica di coppia che si è trasformata nel tempo, con il passare degli anni, in un vorticoso avvinghiarsi su menzogne, colpe, verità soggettive, accuse reciproche e violenze. Lui non ha perso la memoria, lei lo ha colpito mentre era seduto sulla sua scrivania assorto nelle sue letture. Via via che si svela l’accaduto si manifestano le crepe e la narrazione si apre alle dinamiche di coppia.

Tra amore e rancore

Un rinfacciarsi di responsabilità, disconnessioni, maltrattamenti, trascuratezze, mancati riconoscimenti, uno spaccato della quotidiana vita di coppia che si snoda tra amore e rancore, tra perdono e colpa, tra insoddisfazioni e attrazioni, tra frustrazioni, delusioni, promesse non mantenute e rinunce.

Cosa tiene insieme, qual è il collante di una coppia logora da anni caratterizzati da tali dinamiche?

Il ricordo dell’innamoramento, la rievocazione di quel tempo perduto, così bello, così straniante, in cui non c’è memoria ma solo presente, un tempo eterno che sembra farci volare sopra il mondo, sospesi come in un famoso quadro di Chagall. Il confronto contundente, l’aggressività e la violenza dell’età matura si dissolve nel ricordo nostalgico dell’incontro e dell’innamoramento, di questo momento unico e irripetibile.

Un film crudo, Piccoli Crimini Coniugali, finanche cinico, in cui ci si può identificare e ci si può rispecchiare nell’uno e nell’altro protagonista di volta in volta, sicuramente un film che ci fa riflettere sulle dinamiche di coppia e ci interroga sul nostro modo di relazionarci.

 

PICCOLI CRIMINI CONIUGALI – Il trailer del film:

La corteccia visiva – Introduzione alla Psicologia

Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Visione e corteccia visiva

Negli esseri umani la visione è il senso più sviluppato, infatti gran parte delle aree cerebrali sono implicate nel riconoscimento e nella codifica degli stimoli visivi.

Gli stimoli visivi sono raccolti da aree della corteccia occipitale in base a caratteristiche diverse. Gli stimoli visivi provengono dalle retine dei due occhi, dove sono situati i recettori visivi: i coni, implicati nella ricezione della luce diurna e i bastoncelli, imputati alla luce notturna. Tali stimoli sono trasmessi da ciascun nervo ottico fino al cervello, dove si trasformano in immagini in movimento, multicolori, riconoscibili e rievocabili dalla memoria. Le immagini sono decodificate inizialmente dal talamo e poi inviate alla corteccia visiva primaria o V1. Oltre all’area V1 primaria, vi sono aree secondarie che tramite l’area V2 ricevono e decodificano specifiche caratteristiche degli stimoli.

Il cervello consente di vedere gli oggetti come sono realmente malgrado le deformazioni dovute alla prospettiva, alla distanza o ad altri fattori: la nostra mente integra le informazioni con la memoria, con le immagini corrette già incontrate nell’arco della vita. E i continui movimenti degli occhi sono indispensabili per ottenere una percezione attendibile della profondità, garantendo il perdurare dell’immagine. La vista, dunque, è molto più di una sommatoria d’informazioni raccolte dagli occhi, essa richiede un patrimonio di informazioni precedentemente acquisito anche attraverso altri organi di senso.

Struttura della corteccia visiva

La corteccia visiva primaria (V1), è nota anche come koniocortex o corteccia striata, è localizzata attorno e nella scissura calcarina del lobo occipitale. L’area V1 è altamente specializzata nel processamento dell’informazione riguardante la forma e la collocazione di oggetti statici o in movimento nel campo visivo.

La corteccia visiva primaria è anatomicamente equivalente alla diciassettesima area di Brodmann, (BA17). Le aree visive secondarie (V2-V3-V4) o extra-striate sono formate dall’area di Brodmann 18 e dall’area di Brodmann 19. Esiste una corteccia visiva per ogni emisfero cerebrale. La corteccia visiva dell’emisfero sinistro riceve segnali riguardanti il campo visivo di destra, e la corteccia visiva di destra riceve l’informazione proveniente dal campo visivo di sinistra.

L’area V1

L’area V1 di ogni emisfero riceve informazioni direttamente dal proprio nucleo genicolato laterale ipsilaterale. Le proprietà di risposta della maggior parte dei neuroni, man mano che si procede nello studio di V1 cambiano notevolmente, dalla sensibilità a barre, o linee, di diverso orientamento, o in movimento in diverse direzioni, e la specializzazione nel colore. Inoltre l’organizzazione in moduli e colonne che si ripetono, sembra essere una configurazione comune a tutte le aree visive corticali e sembra essere funzionale per rappresentare uno stimolo multidimensionale su una regione della corteccia dibimensionale. Le connessioni che si stabiliscono all’interno di V1 trasformano le informazioni in modo tale che la maggior parte delle cellule degli strati più esterni rispondono in modo più selettivo a stimoli nettamente più complessi.

L’area V2

L’area V2, nota anche come corteccia pre-striata, è la seconda area principale nella corteccia visiva e la prima regione all’interno dell’area associativa visiva. Riceve informazioni dall’area V1, sia dirette sia tramite il pulvinar, e invia forti connessioni alla V3, V4 e V5.

Anatomicamente, la V2 è divisa in quattro quadranti, che forniscono una mappa completa del campo visivo. Funzionalmente, la V2 ha molte proprietà in comune con la V1. Molti dei neuroni di quest’area sono regolati da caratteristiche visive semplici come l’orientamento, la frequenza spaziale, le dimensioni, il colore e la forma. Le cellule in V2 rispondono anche a varie caratteristiche complesse, come l’orientamento di contorni illusori e la disparità binoculare.

L’area V3

L’area V3 si trova di fronte alla V2 e si assume possa avere due o tre suddivisioni funzionali aventi diverse connessioni con differenti aree. La V3 dorsale è normalmente considerata come parte della corrente dorsale e riceve input dalla V2 e dall’area V1. Essa proietta alla corteccia parietale posteriore e può essere anatomicamente localizzata nell’area di Brodmann 19. La V3 ventrale, invece, ha connessioni più deboli con l’area V1, ma proietta informazioni alla corteccia temporale inferiore. Le V3 è deputata alla percezione della forma degli oggetti in movimento.

L’area V4 e V5

L’area V4 è una delle aree visive nella corteccia extrastriata. Essa è localizzata, nelle scimmie, anteriormente alla V2 e posteriormente all’area inferotemporale posteriore (PIT). Comprende almeno quattro regioni: V4 dorsale sinistra e destra e V4 ventrale sinistra e destra. Non è ancora conosciuta l’anatomia della V4 negli umani.

La V4 è la terza area corticale nel sistema ventrale, che riceve segnali dalla V2, invia connessioni alla PIT, impulsi alla V1, specialmente dall’area centrale. Inoltre ha deboli connessioni con la V5 e la circonvoluzione prelunata dorsale (DP).

L’area V5 è essenziale per elaborare informazioni relativa il movimento, mentre la V4 è deputata soprattutto ai colori, codificati secondo meccanismi di opposizione cromatica.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologi: perché la formazione di ASPIC fa la differenza

Edoardo Giusti: “nella nostra scuola mettiamo al centro la ricerca scientifica insieme a molta pratica e orientamento al lavoro”

A.S.P.I.C., Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità, è un ampio gruppo fondato nel 1988 da Edoardo Giusti e Claudia Montanari, che attraverso le sue diverse consociate si occupa di diversi ambiti: psicologia (Aspic Psicologia), psicoterapia (Scuola di Specializzazione), counseling dell’età adulta e dell’età evolutiva (Scuola Superiore del Counselling, Università Popolare del counselling, Aspic per la Scuola), orientamento scolastico e professionale (Aspic Studenti), servizi per l’occupazione (Aspic Lavoro). Cuore di tutte le attività c’è la ricerca scientifica (Aspic Arsa). La sua offerta formativa è ampia.

 

Scuola di specializzazione in psicoterapia pluralistica integrata: ultimi giorni per iscriversi.

Il Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia Pluralistica Integrata offerto da Aspic offre una formazione basata sulla ricerca scientifica applicata a prova di evidenza e sul metamodello ASPIC ARSA. La scuola consente di conseguire il titolo di psicoterapeuta per trattamenti in setting individuale e di gruppo e, contemporaneamente, acquisire competenze specialistiche in psicologia clinica di comunità per interventi di salutogenesi, formazione, sviluppo ed empowerment nei gruppi, nelle organizzazioni, nelle comunità. “Quella di Aspicracconta Edoardo Giusti, fondatore di Aspic – è una scuola che offre insieme ricerca e molta pratica clinica, un training personale anche nel luogo di appartenenza, nuove prospettive di carriera, competenze utili nel mercato, affinità del modello alle proprie attitudini e caratteristiche personali, prestigio della scuola”.

Ci sono ancora alcuni posti disponibili per l’anno accademico 2018, che avrà inizio il 24 febbraio 2018 e si svolgerà in 10 weekend mensili durante l’anno. L’iscrizione si può effettuare anche durante l’abilitazione professionale, purché il titolo sia conseguito entro la prima sessione utile dall’inizio effettivo del corso. La specializzazione può essere svolta per il 50% nella propria sede di appartenenza. Sono disponibili alcune borse di studio parziali, la possibilità di svolgere delle collaborazioni professionali remunerate durante il ciclo formativo e la pubblicazione delle tesi più meritevoli.

Per informazioni:

ASPIC – Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica di Comunità e Psicoterapia Umanistica Integrata

Via Vittore Carpaccio, 32 – 00147 Roma

Tel. 065413513 – 065926770 – Tel./fax 065926763

Sito web: www.scuolaspecializzazionepsicoterapia.it – link al sito

Master in counseling psicologico e tecniche di coaching

Il Master annuale intensivo teorico-esperienziale, riservato esclusivamente a Psicologi, a laureandi e laureati in Psicologia (laurea triennale o specialistica/magistrale), fornisce le competenze e gli strumenti operativi fondamentali per la gestione di una relazione d’aiuto, dall’assessment iniziale alla conclusione dell’intervento di sostegno, basata sull’efficacia relazionale qualitativa.

Inizio corso (II Edizione): 27-28 gennaio 2018, sede: Roma.

Per info: tel. 06.51435434 – e-mail: [email protected]

Sito: www.aspicpsicologia.org – link al sito

ASPIC per la Scuola – Via Macinghi Strozzi, 42/A

Per saperne di più: link al sito

Corso gratuito di preparazione all’esame di stato professione psicologo – sessione di giugno 2018 a Roma e presso sedi    

Il Corso intende fornire strumenti, metodi e strategie di approccio all’Esame di Stato per una preparazione mirata e approfondita, ritagliata sulle peculiarità di ciascuna prova (include: teoria e didattica, esercitazioni pratiche e condivisione in gruppo, follow-up).

I partecipanti al Corso possono effettuare 3 colloqui gratuiti di orientamento ed empowerment per lo sviluppo professionale (info tel. 347 9289119).

Corso attivato anche presso le sedi territoriali autonome ASPIC in altre città (può essere prevista una quota di iscrizione).

Inizio corso: 23 febbraio 2018 (6 lezioni per un totale di 18 ore)

Sede: Roma – ASPIC Via Vittore Carpaccio, 32

Per info: tel. 347.9289119 – tel. 338.3953153 – [email protected]                                                

L’Identità biculturale: una risorsa per la creatività e il benessere psicologico

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui con identità biculturale, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010).

Giulia Loverde, Open School Studi Cognitivi di Modena

 

La migrazione è uno degli argomenti di attualità maggiormente discussi degli ultimi anni. L’opinione pubblica si sta formando pareri diversi su ciò che la stampa e il mondo politico riportano sull’argomento e i fenomeni di discriminazione e marginalizzazione degli immigrati stanno diventando sempre più numerosi e allarmanti. È altrettanto vero che un numero sempre maggiore di individui è esposto a più stimoli culturali, grazie alle nuove tecnologie e ad un contatto maggiore con culture diverse. Ma cosa sostiene la ricerca scientifica? E quali sono i risvolti per l’identità?

La migrazione è un fenomeno complesso che coinvolge diversi aspetti ed è indagabile a vari livelli. Inoltre numerosi studi affermano che il contesto in cui si realizza riveste un ruolo importante nel processo. La branca della psicologia che studia questi fenomeni è la psicologia sociale mentre, in un’ottica orientata all’individuo, ha fornito il suo contributo anche la psicologia clinica. Ma cosa accade quando un individuo migra dal suo paese verso un paese ospitante o più semplicemente è esposto a stimoli di carattere cross-culturale?

L’acculturazione e i suoi esiti

Vari fattori entrano in gioco in questo cambiamento che, non è solo uno spostamento fisico/di luogo, ma ha conseguenze psicologiche e relazionali. Sia gli individui migranti che gli individui ospitanti, hanno aspettative, credenze, valori diversi e compiono valutazioni su se stessi e sugli altri contribuendo alla creazione di differenti dinamiche tra i gruppi e differenti esiti per gli individui.

Quando in psicologia sociale si parla di acculturazione ci si riferisce a quel fenomeno che si verifica quando individui e gruppi di culture differenti si trovano in una condizione continuativa di contatto ravvicinato, con conseguenti cambiamenti negli schemi culturali originali di uno o di entrambi i gruppi da un lato, e cambiamenti per gli individui che ne fanno parte, dall’altro (Redfield, Linton e Herskovits, 1936). È importante notare che la natura del processo è bidirezionale: i cambiamenti avvengono sia per la cultura ospitante che riceve la migrazione, sia per la cultura di origine dei soggetti migranti (Berry, Sam, 1997). Oltre al livello collettivo riconosciamo un livello individuale: i processi di acculturazione implicano, infatti, trasformazioni non solo nelle culture dei gruppi che si confrontano, ma anche cambiamenti che riguardano la sfera psicologica degli individui (Graves, 1967).

I fattori in gioco nei processi di acculturazione sono vari e si distinguono in:
– collettivi: la condizione socio-economica del paese ospitante e quella del paese di origine, la situazione politica del proprio paese e di quella di arrivo, la lingua e la religione di entrambi i paesi coinvolti, gli atteggiamenti del paese ospitante verso la migrazione, il tipo di popolazione e i gruppi etnici presenti nel territorio ospitante, la rete sociale su cui il gruppo di acculturazione può contare nel contesto ospitante;
– individuali: le caratteristiche demografiche (sesso, titoli di studio, età) e culturali (la religione, la lingua), i fattori di natura psicologica (la motivazione che spinge alla migrazione, le aspettative riguardo al cambiamento), le strategie di coping utilizzate, le risorse individuali e sociali impiegate per affrontare il cambiamento, il grado di contatto con la cultura ospitante, il livello di mantenimento della propria cultura di origine, i livelli di discriminazione percepita, la percezione di vicinanza/lontananza con la cultura ospitante dalla cultura di origine.

La letteratura ha indagato gli effetti generati dalla diversa combinazione di questi fattori riscontrando che l’individuo può incorrere in: modificazioni comportamentali a seguito dell’apprendimento della nuova cultura (abitudini alimentari, apprendimento delle nuove norme sociali e linguistiche) o alla perdita della cultura di origine, e ai conflitti che possono generarsi tra i gruppi di culture diverse; processi di identificazione culturale (cambiamento di atteggiamento nei confronti della propria cultura etnica ed identificazione con la nuova cultura ospitante) ed anche difficoltà di adattamento psicologico e socio-culturale (conseguenze psicopatologiche: depressione, stress, disturbi psicotici, stress post-traumatico, scarsi livelli di autostima, difficoltà di integrazione e relazionali).

La letteratura e le ricerche si sono spesso concentrate sugli esiti negativi che questo processo può comportare, individuando i fattori che possono contribuire al malessere individuale, ai conflitti, allo stress da acculturazione e alle difficoltà di adattamento alla nuova cultura. Ma essere appartenenti a più culture diverse, ha solo riscontri negativi o potrebbe avere dei risvolti positivi per l’individuo? E quando, in questa condizione, si crea benessere per l’individuo?

Identità biculturale

Dal 1970, la migrazione internazionale è raddoppiata a livello mondiale. In aggiunta, le innovazioni tecnologiche hanno implementato la possibilità di costruire legami cross-culturali e di venire a contatto con diverse culture nel mondo mentre il numero delle famiglie e le coppie multiculturali è in crescita.

Il risultato di questa esposizione a stimoli cross-culturali è un largo aumento di individui biculturali, persone che hanno internalizzato almeno due culture. Gli individui biculturali non fanno necessariamente parte di minoranze etniche, ma sono per lo più immigrati, residenti temporanei, rifugiati o semplicemente individui esposti ad una seconda cultura oltre a quella di appartenenza, e le hanno interiorizzate entrambe (Benet-Martínez & Haritatos, 2005; Nguyen & Benet-Martínez, 2007, 2010). Un chiaro esempio di tali individui sono gli immigrati di seconda generazione, i figli delle famiglie migranti, i quali nati e vissuti nel paese ospitante per tutta la loro vita, sono stati esposti anche alla loro cultura di origine in famiglia o nei gruppi sociali. L’acquisizione di una mente multiculturale può avvenire, oggi più che mai, attraverso svariate e molteplici forme e modalità.

L’interiorizzazione di schemi culturali anche molto distanti e incongruenti tra loro avviene, infatti, con maggior frequenza e la consapevolezza e individualità della loro negoziazione dà origine ad ampie differenze interindividuali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007).
Gli individui biculturali sono in grado di abbracciare i valori sia della cultura ospitante che di quella di origine utilizzando strategie di coping di entrambe le culture e compiendo scambi interculturali positivi. È parte della loro identità l’accettazione di entrambe le culture che li aiuta a funzionare appropriatamente in contesti multiculturali.

La biculturalità, in letteratura è stata spesso studiata come la capacità di adottare la cultura ospitante e di mantenere al contempo la propria cultura di origine. Questo approccio non ha tuttavia considerato la differenza tra l’adozione dei comportamenti più tipici di una cultura e il reale senso di appartenenza nei confronti di essa e la variabilità, quindi, tra individui biculturali (Nguyen e Benet-Martínez, 2007; Schwartz e Unger, 2010).

I cambiamenti legati al processo di acculturazione si realizzano, infatti, con modalità differenti, in modo indipendente e in tempi diversi in vari ambiti della vita. (Navas et al., 2007; Nguyen e Benet-Martínez, 2007). Di conseguenza, essi possono generare esiti diversi, in termini di bi-culturalità a livello identitario.

Secondo Benet-Martínez e colleghi (2002; 2005; 2007), l’ identità biculturale è una miscela unica, in quanto personale, influenzata da vari fattori (contestuali, situazionali, socioculturali e individuali). La ricercatrice sostiene che l’espressione e il processo di identificazione dell’ identità biculturale possano essere armoniosi o conflittuali (Benet-Martínez e Haritatos, 2005) sottolineando l’importanza della modalità con cui gli individui biculturali sperimentano e organizzano i loro differenti e talvolta opposti orientamenti culturali. Lo sviluppo di un’armoniosa identità biculturale può essere una risorsa per l’individuo poiché determina modificazioni a livello cognitivo che migliorano la flessibilità di pensiero, il benessere e l’adattamento del soggetto in vari contesti (Chen e Benet-Martinez, 2008).

Benet-Martínez insieme ad altri autori, ha sviluppato nel 2002 il Bicultural Identity Integration (BII), una misura che permette di verificare se e come gli individui percepiscono la loro identità culturale: nello specifico se compatibile e integrata oppure difficile da integrare. Il BII non è un costrutto unitario, ma composto da due componenti. La prima riguarda il grado di conflittualità tra le due culture (cultural conflict), la seconda prende in considerazione la distanza percepita tra di esse (cultural distance; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). La prima componente esprime la soggettività dell’individuo poiché informa sugli elementi legati all’affettività dell’esperienza biculturale. La percezione di armonia tra le due culture può essere impedita dall’influenza negativa di fattori stressogeni sia personali (vulnerabilità, ruminazione e rigidità emotiva) sia esterni (discriminazioni, pressioni culturali, difficoltà linguistiche e relazionali)

La seconda componente individua invece la percezione di distanza tra le due culture. Quando i livelli di questa componente risultano essere elevati, l’individuo esperisce le due culture come non sovrapponibili, dissociate e distanti l’una dall’altra. Nello specifico la percezione di distanza sembra essere legata sia ad un atteggiamento di separazione dalla cultura ospitante e di mantenimento della propria cultura d’origine sia all’identificazione con la cultura ospitante ma non con quella d’origine. Per queste relazioni è stata associata a concetti di acculturazione più tradizionali: gli atteggiamenti e i comportamenti.

Attraverso la componente di distanza percepita è possibile che l’individuo adotti entrambe le culture, ma con la volontà di mantenerle separate. Inoltre, sembra che la percezione di distanza sia maggiore nei primi periodi della permanenza nel contesto ospitante, mentre si affievolirebbe con il passare del tempo. In uno studio del 2005 (Benet-Martínez e Haritatos), questa componente e gli anni di permanenza sul territorio sono infatti negativamente correlati.

Tra i fattori individuali che influenzano la percezione di distanza culturale, emerge una bassa apertura individuale che può motivare la bassa capacità di incamerare nuovi valori e stili di vita contemporaneamente. I fattori esterni che influiscono su tale componente sono: l’esperienza di isolamento culturale, le pressioni contestuali e lo stress derivato dalla scarsa abilità linguistica dell’idioma ospitante.

L’ identità biculturale ha quindi una componente più affettiva e un’altra componente più cognitiva. Entrambe sono influenzate da fattori diversi: è importante il ruolo dell’esperienza soggettiva percepita dall’individuo rispetto al contesto in cui è immerso e quindi le sue caratteristiche personologiche, cognitive, le strategie di coping, ma anche fattori esterni quali i livelli di discriminazione, gli atteggiamenti di acculturazione adottati e le esperienze relazionali nel contesto ospitante.

L’identità biculturale: perchè è una risorsa e quando si realizza

Lo sviluppo di un’ identità biculturale armoniosa, è importante per il soggetto perché gli permette di avere un maggiore benessere psicologico, livelli di autostima più elevata e di percepire una minore discriminazione soggettiva e livelli minori di stress.

La modalità con cui gli individui sviluppano l’ identità biculturale e la percepiscono è molto importante per il loro benessere e per le risorse che da essa possono derivare. Gli individui con un’ identità biculturale armoniosa e coesa, (bassa percezione di distanza e bassa percezione di conflittualità tra le culture) mostrano maggiore capacità ideativa, maggiore complessità cognitiva, minore discriminazione percepita, maggiore creatività, maggiori abilità linguistiche e maggiore apertura nelle relazioni sociali (Benet-Martinez e al., 2006; Huynh, Nguyen, Benet-Martínez, 2011). Questi esiti sono probabilmente legati alla capacità dell’individuo di accettare aspetti contradditori ma anche di utilizzare le abilità acquisite in modo funzionale al contesto in cui sono immersi.

Un aspetto molto interessante riguarda, infine, il ruolo del contesto. Alcuni risultati hanno evidenziato che gli individui inseriti in contesti multiculturali o in cui la biculturalità era apprezzata e considerata un valore, manifestavano un’ identità biculturale armoniosa e un maggiore benessere psicologico (Nguyen e Benet-Martinez, 2007). Come evidenziato inizialmente, le variabili collettive, legate al contesto in cui si realizza l’acculturazione, sono importanti e generano esiti individuali e di gruppo diversi. Per quanto riguarda il gruppo ospitante, come suggerito dalla teoria di Tajfel, è presente una paura nel gruppo ospitante che i migranti non si adattino alla società che li accoglie, ma che piuttosto creino un contesto culturale separato che minacci l’unità culturale del Paese nel suo complesso e di conseguenza l’identità culturale degli individui che si definiscono anche rispetto alla loro cultura originaria minacciata. Questa minaccia percepita e le possibili reazioni avverse delle persone della società ricevente la migrazione, possono contribuire alla diminuzione di integrazione dell’ identità biculturale in tali gruppi etnici nelle comunità in cui il loro numero è relativamente ridotto, conducendoli a separarsi dal contesto culturale maggioritario.

Gli individui multiculturali e il ruolo della psicoterapia

I temi trattati suggeriscono l’importanza dello sviluppo di una mente multiculturale in un’epoca di globalizzazione, dove la facilità di spostamento e il contatto tra culture diverse è sempre più all’ordine del giorno. Vari fenomeni di grande attualità come la sequenza di attentati che si stanno susseguendo in Europa e nel mondo, le difficoltà di integrazione che i migranti stanno sperimentando, sono alcuni dei fatti per cui una lettura attraverso una chiave scientifica, potrebbe essere d’aiuto per il loro inquadramento. L’aumento dell’accettazione di una società multiculturale ed un atteggiamento di apertura verso le altre culture, dovrebbero divenire degli obiettivi a cui tendere, sia per un benessere personale che sociale. I fenomeni di isolamento sociale e di radicalità vissuti negli ultimi anni dai migranti, potrebbero essere influenzati anche dal contesto ospitante che spinge verso l’abbandono della propria cultura d’origine dei migranti per l’assimilazione alla cultura ospitante, la quale a volte non rispetta una parte identitaria centrale dell’individuo per la definizione di sé: l’appartenenza etnica. Oltre alla riduzione dei fenomeni di marginalizzazione dei migranti e dei conflitti tra gruppi etnici, vi sono, come abbiamo visto, vantaggi individuali come ampliate capacità cognitive e maggiori abilità di ragionamento. Ciò può aiutare, ad esempio, in ambiti di lavoro multiculturali sempre più comuni oggigiorno (es. grandi aziende con sedi dislocate e dipendenti trasfertisti).

In questo scenario come può collocarsi la psicoterapia? Il ruolo degli schemi cognitivi nel processo di identificazione con l’ identità biculturale, è per l’individuo centrale. Oltre a ciò, variabili personologiche come l’apertura nelle relazioni, l’abilità nelle interazioni e la capacità di gestione dello stress ne influenzano fortemente gli esiti. Una psicoterapia potrebbe, pertanto, essere orientata ad aumentare la tolleranza alle contraddizioni e a sviluppare la capacità individuale di riconoscimento funzionale degli stimoli culturali all’interno del contesto, in modo da poter aiutare l’individuo ad attivare lo schema culturale più adatto in quella situazione.

La capacità di lettura degli eventi, l’accettazione che la propria identità abbia più sfaccettature e che un individuo possa definirsi attraverso una pluralità di modi e non solo attraverso un incasellamento statico, potrebbero essere alcune delle tematiche da affrontare con il terapeuta. Inoltre, potrebbe essere utile fare un’indagine approfondita sulle credenze che non permettono l’adattamento nel nuovo contesto e sugli schemi cognitivi che non aiutano il paziente in questo processo. Infine, un assessment sul tipo di attaccamento sviluppato con gli adulti di riferimento e sulle modalità di interazione apprese in famiglia, potrebbero ampliare lo scenario e dare spunti di lavoro a livello personologico per aiutare il paziente a fronteggiare il malessere provato.

Concludendo, l’acculturazione è un fenomeno contemporaneamente intrapersonale, interpersonale e influenzato dal contesto. Pertanto, ulteriori approfondimenti empirici sull’intervento dei vari fattori che modificano questo processo, fornirebbero una maggiore comprensione dell’identità culturale e dell’adattamento individuale necessaria in un’epoca mutevole e dinamica.

Omofobia interiorizzata: la paura dell’essere e nell’essere omosessuale

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984). Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Una società eterosessista

Ho tantissimi amici gay!”
Oh, io li adoro!”

In molti avremo sentito o pronunciato questo tipo di frasi, apparentemente del tutto innocue e dal sapore “liberale” ma che in realtà palesano quanto ancora la nostra sia una società permeata da eterosessismo.
Un eterosessismo che viene appreso ed acquisito fin dalla nascita.
E’ infatti fin dalle prime fasi di vita e dunque ancor prima della scoperta della propria identità sessuale che ha luogo l’acquisizione, mutuata dall’ ambiente circostante ed interiorizzata, delle convinzioni di base riguardo al sesso, ai ruoli di genere e all’omosessualità. Allevare ed educare un bambino significa quasi sempre allevare quello che sarà nella prospettiva dei responsabili della sua formazione di base – genitori, parenti, scuola- un adulto eterosessuale.

Molto prima di avere una reale comprensione di cosa significhi essere omosessuale, i bambini hanno ricevuto un set d’informazioni eterosessiste che vengono codificate nella convinzione che essere gay o lesbica sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune (Antonella Montano 2010).

Questi atteggiamenti, pregiudizi e opinioni discriminatorie sugli omosessuali, a volte casuali ma comunque denigratori, basati su falsi stereotipi, usati in modo non del tutto consapevole o per scherzo, sono in grado di fissarsi nella mente di un bambino o adolescente come convinzioni di base (core beliefs), in una fase di crescita in cui l’individuo ricerca l’integrazione in un mondo regolato da molteplici dettami a cui conformarsi.

L’ omofobia e il pregiudizio anti-gay ostacolano e mettono in pericolo la formazione di un adolescente sano capace di costruirsi un’identità affermativa adulta.
In una società fortemente eterosissista è difficile riconoscere e sviluppare un positivo orientamento sessuale e poterlo svelare normalmente agli altri.
I gay e le lesbiche provano molto spesso sentimenti negativi verso loro stessi, una volta entrati in contatto con il loro essere omosessuale.
Questo perché hanno interiorizzato che l’eterosessualità equivale alla normalità e dunque il loro orientamento sessuale diverso dalla norma li pone nella condizione di sentirsi “sbagliati”.

Soprattutto per i soggetti che si trovano ai primi stadi del processo di formazione d’identità omosessuale, la percezione di un ambiente familiare e sociale repressivo può portare ad interiorizzare pensieri e sentimenti negativi nei confronti dell’omosessualità. Tali vissuti possono esprimersi sul piano psicologico attraverso la vergogna, il senso di colpa, la bassa autostima e la scarsa accettazione di sé.

L’ omofobia interiorizzata

L’ omofobia interiorizzata è dunque una componente importante nel disagio vissuto quotidianamente da gay e lesbiche e gioca un ruolo cruciale come fattore patogeno, essendo determinante nell’insorgenza di diversi disturbi emotivi. Essa può incidere sia sull’evoluzione delle malattie fisiche e mentali, che sulle scelte di prevenzione e cura (Montano, 2000; Williamson, 2000; McGregor et al., 2001).

L’ omofobia interiorizzata nelle persone gay e lesbiche può portare dunque ad alcuni problemi specifici come:
– elevata percezione dello stigma sociale;
– difficoltà nel fare coming out;
– credenza che l’omosessualità sia sbagliata, da rinnegare e nascondere;
– non accettazione della propria omosessualità perché causa di ansia, angoscia e tensione interiore, colpa e vergogna;
– non accettazione della propria sessualità che può portare a gravi disturbi sessuali;
– aumento della propria autoesclusione sociale;
– aumento di depressione e ansia;
– aumento di abuso di stupefacenti e alcol.

Ovviamente in tali dinamiche hanno una influenza rilevante anche le variabili psicologiche personali come la vulnerabilità ai condizionamenti familiari e ambientali e le strategie individuali messe in atto.

L’ omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includere di routine l’assessment e il trattamento dell’ omofobia interiorizzata (Gonsiorek, 1982; Malyon, 1982; Montano, 2000; Stein & Cohen, 1984).
Ciò è vero soprattutto per le persone omosessuali più giovani (ma non solo) che potrebbero avere bisogno di maggiore supporto nello sviluppo della loro identità gay o lesbica.

Kahn (1991) sostiene che la risoluzione della formazione dell’identità omosessuale dipende dal superamento dell’ omofobia interiorizzata.
Shildo (1994) considera l’eliminazione dell’ omofobia interiorizzata come un importante obiettivo terapeutico e analizza le difficoltà nella concettualizzazione e misurazione di questa variabile. Inoltre, la riduzione dell’ omofobia interiorizzata può essere considerata un’importante misura del successo della terapia.

Come superare l’ omofobia interiorizzata

Per quanto riguarda il trattamento con clienti omosessuali, Sophie (1987) suggerisce delle strategie generali utili per affrontare e superare l’ omofobia interiorizzata. Ad esempio l’uso della ristrutturazione cognitiva, attraverso la quale il terapeuta può aiutare il cliente ad affrontare in modo positivo la sua difformità dai costrutti sociali dominanti, esplorando insieme tutti gli stereotipi e i falsi miti riferiti all’omosessualità (supportando la frequentazione di altri gay e lesbiche, intesa come ulteriore rinforzo al processo di ristrutturazione cognitiva).

E’ fondamentale inoltre promuovere un approccio neutrale all’identità omosessuale, inteso come apprendimento del fatto che essere gay o lesbiche è una delle possibilità date agli esseri umani, né preferibile né deprecabile rispetto all’essere eterosessuali.
Similmente, è utile lavorare sulla consapevolezza della propria identità sessuale, interpretata come modalità positiva per sentirsi parte di una comunità e non più individui isolati e oppressi (confrontarsi con altri gay e lesbiche rende il cliente meno vulnerabile e meno incline a sentirsi il solo a essere diverso e stigmatizzabile dalla società).

Il coming-out (dichiararsi apertamente, solo alla propria famiglia o all’intera cerchia delle conoscenze) è una strategia efficace per vincere l’ omofobia interiorizzata residua, un processo sicuramente difficile ma che una volta intrapreso rafforza l’autostima e fornisce lo stimolo per affrontare in modo costruttivo la rimodulazione della propria personalità.

In tale senso è importante promuovere l’abitudine all’omosessualità, cioè il raggiungimento della piena consapevolezza che l’omosessualità non è un fatto deprecabile o straordinario, ma solo uno dei modi di essere di una persona. L’orientamento sessuale infatti altro non è che una parte della nostra personalità che in alcun modo pregiudica il valore personale.

E’ solo attraverso il superamento delle assunzioni che fanno ritenere che l’omosessualità sia qualcosa di anormale e per questo censurabile, che i gay e le lesbiche possono dunque affrontare ed elaborare la loro omofobia interiorizzata.

Un software che analizza il linguaggio per predire la psicosi

Il linguaggio e la parola sono la fonte primaria di dati per gli psichiatri per diagnosticare e trattare i disturbi mentali. In un nuovo studio, i ricercatori (Corcoran et al.), usando un’analisi di elaborazione del linguaggio naturale sul computer, hanno mostrato che, tra i giovani di lingua inglese ad alto rischio di psicosi, la riduzione di base della coerenza semantica (il flusso di significato nella parola) e la complessità sintattica possono predire l’insorgenza della psicosi con una precisione elevata.

Uno strumento di analisi semantica del linguaggio dei pazienti con psicosi

Le analisi computerizzate del linguaggio sono state ottenute da diverse interviste con dei giovani a rischio in due differenti coorti – una a New York City con 34 partecipanti e l’altra a Los Angeles con 59 partecipanti – per i quali era nota l’insorgenza della psicosi entro i due anni successivi. La precisione delle analisi è stata di circa l’83%.

I ricercatori (Corcoran et al.) hanno identificato un classificatore vocale di apprendimento automatico, comprendente una minore coerenza semantica, una maggiore discrepanza in tale coerenza e un ridotto utilizzo di pronomi possessivi, con un’accuratezza dell’83% nel predire l’insorgenza della psicosi (intra-protocollo), invece, un’accuratezza incrociata di 79% della previsione di insorgenza della psicosi nella coorte di rischio originale (protocollo incrociato) e un’accuratezza del 72% nel discriminare il linguaggio di pazienti con psicosi di recente insorgenza da quelli di individui sani.
Ad ogni parola in ogni trascrizione è stata assegnato un vettore semantico; ogni parola è stata anche taggata rispetto alla sua funzione grammaticale.

L’algoritmo di apprendimento automatico classifica il discorso in base al fatto che sia caratteristico degli individui che svilupperanno la psicosi, al contrario di quelli che non lo faranno. In altri termini, l’algoritmo impara gli schemi sottostanti in un sottoinsieme di trascrizioni e poi in modo iterativo, prevedendo la classificazione (insorgenza di psicosi oppure no) in nuove trascrizioni non usate durante la fase di apprendimento.

Oltre all’analisi semantica del linguaggio e alla codifica di parti del discorso, il linguaggio può essere valutato anche rispetto ai logogrammi, alla prosodia, alla pragmatica, alla metaforicità e ai discorsi o alle conversazioni tra interlocutori. Analisi automatizzate del linguaggio naturale sono state utilizzate anche per caratterizzare altri disturbi del comportamento, tra cui ad esempio il morbo di Parkinson.

Considerati nel loro insieme, i risultati di questi studi supportano l’utilità e la validità dei metodi automatizzati di elaborazione del linguaggio naturale e suggeriscono che questa tecnologia ha il potenziale per migliorare la previsione dell’insorgenza della psicosi e di altri disturbi caratterizzati da disturbi della semantica e della sintassi. Più in generale, l’analisi linguistica automatizzata può essere un potente strumento in ambito neuropsichiatrico per diagnosi, prognosi e stime della risposta al trattamento.

La dieta MIND che rallenta il declino cognitivo

Alcuni ricercatori del Rush University Medical Center hanno creato una dieta, chiamata dieta MIND che può aiutare a rallentare notevolmente il declino cognitivo nei pazienti che hanno avuto un ictus, secondo una ricerca preliminare presentata il 25 gennaio all’Aternational Stroke Conference 2018 dell’American Stroke Association a Los Angeles. I risultati sono significativi perché i pazienti post-stroke hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale.

 

I benefici della dieta MIND

La dieta, nota come dieta MIND, è l’abbreviazione di Mediterranean DASH Diet Intervention per il Ritardo Neurodegenerativo. La dieta è un ibrido tra le diete mediterranee e DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension). Entrambe sono state utilizzate per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari come ipertensione, infarto e ictus.

“Gli alimenti che promuovono la salute del cervello, come verdura, bacche, pesce e olio d’oliva, sono inclusi nella dieta MIND“, ha detto il dottor Laurel J. Cherian, neurologo vascolare e assistente professore nel Dipartimento di Scienze Neurologiche di Rush. “Abbiamo scoperto che ha il potenziale per aiutare a rallentare il declino cognitivo nei sopravvissuti all’ictus“.

Lo studio ha valutato la funzione cognitiva dei sopravvissuti, monitorando le loro diete.

La coautrice dello studio Martha Clare Morris, ScD, nutrizionista di Rush, e i suoi colleghi hanno sviluppato la dieta MIND sulla base di informazioni ricavate da anni di ricerche su alimenti e sostanze nutritive che hanno effetti positivi e negativi sul funzionamento del cervello. La dieta è risultata utile riducendo il rischio di declino cognitivo negli anziani che hanno aderito. Anche le persone che aderivano con poca costanza hanno ridotto il rischio di declino cognitivo.

In cosa consiste la dieta MIND

Per aderire e beneficiare della dieta MIND, una persona avrebbe bisogno di mangiare almeno tre porzioni di cereali integrali, una verdura a foglia verde e un altro vegetale ogni giorno – insieme a un bicchiere di vino – snack quasi tutti i giorni a base di noci, mangiare fagioli ogni due giorni circa, mangiare pollame e frutti di bosco almeno due volte a settimana e pesce almeno una volta alla settimana. La dieta specifica limita inoltre l’assunzione di cibi malsani, limitando il burro a meno di 1, 1/2 cucchiaini al giorno e mangiando meno di cinque porzioni alla settimana di dolci e pasticcini e meno di una porzione alla settimana di formaggio grasso intero, e fritto o fast food.

Sono stato davvero incuriosito dai risultati di un precedente studio MIND, che ha dimostrato che le persone che erano più aderenti alla dieta MIND funzionavano cognitivamente come se fossero 7,5 anni più giovani del gruppo meno aderente“, ha detto Cherian. “Mi sono chiesto se quei risultati fossero validi per i sopravvissuti all’ictus, che hanno il doppio delle probabilità di sviluppare demenza rispetto alla popolazione generale“.

Dal 2004 al 2017, Cherian e colleghi hanno studiato 106 partecipanti al progetto Rush Memory and Ageing che hanno avuto una storia di ictus con conseguente declino cognitivo. Hanno valutato le persone nello studio ogni anno fino alla loro morte o alla conclusione dello studio e hanno monitorato le abitudini alimentari dei pazienti.
I ricercatori hanno raggruppato i partecipanti in coloro che erano altamente aderenti alla dieta MIND, moderatamente aderenti e meno aderenti. Hanno inoltre esaminato ulteriori fattori noti per influenzare le prestazioni cognitive, tra cui età, sesso, livello di istruzione, partecipazione ad attività cognitivamente stimolanti, attività fisica, fumo e predisposizioni genetiche.

I partecipanti allo studio le cui diete hanno ottenuto il punteggio più alto nel punteggio di dieta MIND hanno registrato un tasso di declino cognitivo sostanzialmente più lento rispetto a quelli che hanno ottenuto il punteggio più basso. L’effetto stimato della dieta è rimasto alto anche dopo aver preso in considerazione il livello di istruzione dei partecipanti e la partecipazione alle attività stimolanti dal punto di vista cognitivo e fisico.

Secondo Cherian, anche studi precedenti hanno scoperto che folati, vitamina E, acidi grassi omega-3, carotenoidi e flavonoidi sono associati a tassi più lenti di declino cognitivo, mentre sostanze come i grassi saturi e idrogenati sono state associate a un maggior rischio di demenza.

Il nostro studio suggerisce che se scegliamo i cibi giusti, potremmo essere in grado di proteggere i pazienti che hanno avuto un ictus dal declino cognitivo“. Cherian avverte, tuttavia, che lo studio è stato osservativo, con un numero relativamente piccolo di partecipanti, e le sue scoperte non possono essere interpretate in una relazione di causa-effetto.

Questo è uno studio preliminare che si spera possa essere confermato da altri studi”, dice. “Per ora, penso che ci siano abbastanza informazioni per incoraggiare i pazienti colpiti da ictus a vedere il cibo come uno strumento importante per ottimizzare il loro funzionamento cognitivo e cerebrale“.

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