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La connessione tra auto-compassione e maggiore benessere psicologico e cognitivo – Ricerca

Analisi recenti della psicologia positiva hanno dimostrato un’importante connessione tra auto-compassione (self-compassion) e maggiore benessere psicologico e cognitivo.

Luciano Cavallo School of Psychology, University of East London

 

L’autocompassione migliora il benessere dei dipendenti

Un programma di formazione online é a disposizione gratuitamente nel ramo della tesi sottostante.

L’obiettivo è di esaminare come l’allenamento quotidiano di 5 – 10 minuti di autocompassione possa migliorare il benessere dei dipendenti. Auto-compassione si riferisce ad un atteggiamento positivo nei confronti della propria persona in situazioni di vita difficili. Questo tratto di personalità ha dimostrato di essere un efficace fattore protettivo che ha portato ad una maggiore capacità di recupero emotivo e benessere.

Informazioni dettagliate sul progetto di ricerca sono disponibili su http://www.applied-positive-psychology.ch/ fino al 15 Aprile 2018 in lingua inglese e tedesco usando la scala del benessere di Dr. Ryff (SPW; Ryff & Singer, 1998) come anche la scala di autocompassione SCS di Dr. Neff (Neff, 2003). Il sito web non contiene elementi pubblicitari e il contenuto del sito web è strutturato in modo semplice.

La Sindrome Premestruale: riflessione sulla relazione con i disturbi affettivi

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte gravi e disabilitanti.

Federica Bonazzi – Gianfranco Marchesi

 

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione.

Introduzione

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. Si stima che la percentuale di donne in età fertile afflitta in modo serio da questo disturbo vari dal 2% al 10%, mentre la percentuale di donne che riferisce sintomi più lievi oscilla, a seconda degli studi, dal 30% all’80%. (Beni et al., 2000 ).

Le superstizioni, le credenze religiose e mitiche hanno attraversato i secoli portando con sé il concetto che la donna è impura, pericolosa ed imprevedibile a scadenze mensili, concetto che può in parte spiegare perché, fino a non molto tempo fa, i disturbi che le donne esperivano prima della mestruazione siano stati del tutto ignorati dalla scienza e trascurati dalla donna stessa.(Beni et al., 2000 ). È stato nel corso del XX secolo che, dapprima con una definizione generica di “tensione premestruale” e successivamente con l’adozione del termine “Sindrome Premestruale“, che questi sintomi hanno via via acquisito una propria dignità nosografica. Nel 1987 la Sindrome Premestruale è diventata una categoria diagnostica a sé stante ed è stata introdotta nella sezione dei “Disturbi Depressivi Non Altrimenti Specificati” della III Edizione Rivisitata del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III-R) e ridefinita come “Disturbo Disforico della Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) nel tentativo di standardizzarne i criteri diagnostici che, nel corso degli anni, avevano abbracciato un elevatissimo numero di sintomi (APA, 1987). Attualmente, il DSM-IV-TR (APA, 2000), rifacendosi alla PMS, parla di “Premenstrual Dysphoric Disorder” e lo include in appendice B “Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi”.

Sindrome Premestruale: cenni storici

Per molto tempo le donne sono state abituate a ritenere i disturbi derivanti dalla Sindrome Premestruale (PMS) come un’inevitabile sofferenza facente parte della vita, dell’essere donna e, di conseguenza, si sono considerate tenute ad accettarli senza porvi alcun rimedio. Sin dall’antichità, le modificazioni somatopsichiche associate a questa fase del ciclo mestruale sono state fonte di pregiudizio; già nella “Storia Naturale” di Plinio si legge infatti che le donne in età fertile venivano considerate impure e causa di danni alle coltivazioni, ai frutteti, agli animali domestici e che erano ritenute incapaci di controllare i propri impulsi a causa dell’effetto delle oscillazioni ormonali sulla psiche.

Fu Robert I. Frank che, nel 1931, riferendosi alla “tensione premestruale” descrisse un quadro clinico vero e proprio caratterizzato da sintomi sia fisici che psichici. Egli collegò questi disturbi alla fase luteinica del ciclo e li attribuì alla ritenzione, nell’organismo femminile, di ormoni sessuali che aveva rinvenuto in quantità inferiori alla norma nelle urine nelle donne in fase premestruale.

Il termine di “Sindrome Premestruale” è stato introdotto nel 1953 da Greene e Dalton e ad essa sono stati attribuiti, da allora, più di 150 sintomi che vanno ad abbracciare ambiti multidisciplinari: dalla ginecologia all’endocrinologia, dalla dermatologia alla neuropsichiatria. Nella sua accezione più ampia la Sindrome Premestruale può essere definita come “la ricorrenza ciclica, nella fase luteinica del ciclo mestruale, di una combinazione di disagio fisico, psicologico e/o di cambiamenti comportamentali di gravità sufficiente a condurre ad un deterioramento delle relazioni interpersonali e/o ad un’interferenza con le attività normali” (Reid R.L., 1985).

Sulla Sindrome premestruale sono fiorite successivamente le più varie ipotesi interpretative e terapeutiche. D’altro canto, il suo impatto sociale crescente è dimostrato dal riconoscimento che tale categoria diagnostica ha assunto sul lavoro (come fattore di assenteismo) ed in ambito giuridico (essendo utilizzata sia nelle cause di divorzio ed affidamento di minori, sia, come attenuante, nei processi per atti criminali, da rapine ad omicidi).

Ipotesi Diagnostica

Nonostante i numerosi tentativi di inquadrare nosograficamente la Sindrome Premestruale, le controversie non sono state facilmente superate e, nel 1983, si è costituito un gruppo di studio americano per definire uniformemente i criteri temporali e clinici dei disturbi psichici ad essa associati. Nel 1988 la Sindrome Premestruale è stata inclusa dall’American Psychiatric Association nel DSM-III-R e rinominata “Disturbo Disforico di Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) (APA, 1987). Attualmente, lo stesso gruppo di studio ha modificato ulteriormente il nome del LLPDD che, nel DSM-IV TR, è definito come “Disturbo Disforico Premestruale” (PMDD) ed è compreso, come esempio di disturbo depressivo, tra le patologie che richiedono un ulteriore studio. Nell’ultima versione, rispetto a quella precedente, sono state aggiunte, tra i sintomi, la “sensazione soggettiva di essere senza controllo” e, tra i criteri diagnostici, l’esistenza di un periodo senza sintomi che corrisponde alla settimana successiva alle mestruazioni (APA, 1994). A tutt’oggi, anche se la diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale è stata inclusa nel DSM-IV, sono veramente pochi gli articoli pubblicati che utilizzano questi criteri; la maggior parte di essi si rifà ancora a criteri generali di Sindrome Premestruale.

Il DSM-IV TR stabilisce che, per porre diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale, ci devono essere almeno cinque sintomi uno dei quali deve essere di ordine psichico fra umore depresso, ansia intensa, labilità affettiva, irritabilità e perdita di interesse per le attività abituali. I sintomi devono insorgere nel corso della settimana antecedente la comparsa delle mestruazioni ed iniziare a diminuire pochi giorni dopo l’inizio delle mestruazioni stesse. La durata di tali disturbi può variare pertanto da qualche giorno fino a due settimane. I sintomi cessano poi con la comparsa del ciclo mensile o poco dopo, per lasciare spazio ad un intervallo completamente libero da sintomi. Questi disturbi sono pertanto strettamente correlati al ciclo mestruale e, secondo questo criterio, la diagnosi può essere formulata allorquando la sintomatologia riferita retrospettivamente dalla donna si ripresenta regolarmente nella maggior parte dei cicli per diversi anni e viene confermata da valutazioni prospettiche durante almeno due cicli sintomatici. La diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale richiede, inoltre, che il disturbo non sia l’esacerbazione di una patologia psichiatrica preesistente quale Disturbo Depressivo Maggiore, o Disturbo di Panico, Disturbo Distimico, o un Disturbo di Personalità, né possa essere attribuito ad una condizione medica o ginecologica (endometriosi, fibromi, menopausa o anomalie endocrine) sottostante.

Cenni fisiologici

Nelle donne in età fertile la mestruazione indica sia il culmine che il rinnovamento di un ritmo neuroendocrino mensile estremamente complesso, che ha come fine ultimo la liberazione di un ovulo e la predisposizione dell’ambiente uterino ad accogliere e a consentire l’instaurarsi di una gravidanza. Il ciclo mestruale si suddivide in due parti: la fase follicolare e la fase luteinica. La fase follicolare, che corrisponde alla prima metà del ciclo ed inizia con la mestruazione, è caratterizzata dalla maturazione di numerosi follicoli ovarici sotto l’influenza degli ormoni follicolo-stimolante e luteinizzante.

Da questo gruppo di follicoli, uno solo emerge, a metà della fase follicolare, come dominante (o graafiano) e come principale fonte di secrezione di estradiolo nella fase follicolare tardiva. Dopo l’ondata di secrezione di gonadotropine della fase preovulatoria, ha luogo l’ovulazione che segnala l’inizio della seconda parte del ciclo mestruale, la fase luteinica. Ciò che resta dell’ovulo non fecondato è il corpo luteo che, secernendo estradiolo e progesterone, determina il picco di tali ormoni che si osserva 5-8 giorni dopo il picco delle gonadotropine (Vaitukaitis e Coll., 1984).

La Sindrome Premestruale può esordire a qualunque età dopo la prima mestruazione, ma l’età media riconosciuta in diversi studi è di 26 anni. Con il tempo, verosimilmente a causa delle continue oscillazioni ormonali, la sintomatologia tende a peggiorare e a protrarsi per un periodo di tempo via via maggiore. Le donne che riferiscono con minore frequenza disturbi da Sindrome Premestruale sono infatti quelle che sono state esposte di meno alle suddette fluttuazioni grazie ad un numero maggiore di gravidanze o all’assunzione di contraccettivi orali. L’isterectomia senza l’asportazione delle ovaie non allevia i sintomi premestruali più marcati, la cui comparsa può essere documentata dalle modificazioni dell’escrezione urinaria degli steroidi sessuali ( Beni et al., 2000).

Ipotesi Eziologiche

È opinione ormai accettata che la Sindrome Premestruale sia dovuta ad una concomitanza di diversi fattori, socioculturali, psicologici e biologici che, agendo sinergicamente, ne determinano il quadro clinico.

Fattori socioculturali

Come già accennato nell’introduzione di questo lavoro, le credenze, gli atteggiamenti culturali e religiosi radicati nei confronti delle mestruazioni, hanno ancora oggi importanza determinando, nella maggior parte delle donne, una predisposizione negativa a questa fase del ciclo riproduttivo (Monechi, 2004). In un’indagine su come le mestruazioni vengono percepite dalla donna stessa, si è evidenziato come esse siano ritenute un evento comunque negativo durante il quale il sesso femminile esperisce sintomi fisici e psichici, la cui entità viene sovente sopravvalutata. Nella Sindrome Premestruale, inoltre, accade quanto si è visto accadere anche nella menopausa: l’esperienza materna di queste fasi del ciclo riproduttivo influisce in modo determinante sull’atteggiamento che avrà la figlia. Così, se una madre ha vissuto in modo traumatico ed imbarazzato il proprio menarca e non ha preparato adeguatamente la figlia, oppure se ha contribuito ad assecondare la vergogna e le limitazioni del comportamento che spesso vi vengono associate, la stessa figlia sarà più propensa a mettere in atto gli stessi atteggiamenti negativi. Non meno importante è, per una donna, il ruolo del proprio compagno nel confermare il rifiuto delle mestruazioni trattandole alla stregua di una malattia (Beni et al., 2000).

Fattori Psicologici

In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. Alcuni, infatti, riscontrano un disagio più accentuato in chi non accetta il ruolo femminile tradizionale; altri riferiscono che questa sintomatologia è maggiore nelle donne più tradizionaliste e conservative.

Generalmente, le donne con Sindrome Premestruale sono comunque più dubbiose, più apprensive ed emotivamente instabili, con poca autostima, poca fiducia in se stesse ed un forte bisogno di conferme da parte degli altri. Secondo uno studio del 1989 di Harrison e coll., se è possibile isolare un preciso gruppo di donne che risponde ai criteri del DSM per la Sindrome Premestruale, coloro le quali richiedono aiuto e trattamento per disturbi attribuiti alla Sindrome Premestruale, sono ad alto rischio per uno o più disturbi psichiatrici concomitanti e dovrebbero essere valutate attentamente.

Molto spesso la Sindrome Premestruale viene associata alla presenza di fattori stressanti concomitanti e ciò va a sostegno di una genesi prevalentemente psicologica del disturbo. Tuttavia alcuni Autori (Trunnel e coll., 1988), confrontando un gruppo di donne affette da Sindrome Premestruale con un gruppo di controllo, non hanno trovato che le prime attribuivano sentimenti negativi a particolari eventi biologici né che avevano, verso tali eventi, atteggiamenti particolari. Questa scoperta conferma l’esistenza di un disturbo specifico della fase luteinica, il quale si sviluppa su di una base libera da malattie psichiatriche ed è in contrasto con le teorie psicologiche e socioculturali fin qui esposte.

Fattori biologici

Le teorie che hanno cercato di spiegare l’origine biologica dei disturbi psico-fisici in corso di Sindrome Premestruale sono molteplici e, verosimilmente, tale sindrome non presenta un meccanismo eziopatogenetico univoco.

Tra le ipotesi più accreditate vi è quella che attribuisce importanza agli steroidi gonadici, estradiolo e progesterone, le cui oscillazioni regolano il ciclo mestruale. Già Frank (1931) imputava i disturbi in fase premestruale ad un eccesso di estrogeni e, sulla base di questa teoria, egli trattava le donne affette da Sindrome Premestruale con ovariectomia o con l’applicazione di radiazioni sulle gonadi femminili allo scopo di ridurre l’entità della loro secrezione. Tuttavia, la seconda metà del ciclo mestruale è caratterizzata da un declino del livello degli ormoni sessuali, pertanto questa teoria non può essere confermata. Ciononostante, la clinica sottolinea una stretta correlazione tra sintomatologia e fasi del ciclo riproduttivo ed è ormai accreditata l’azione di estrogeni e progesterone sul tono dell’umore: i primi lo migliorano in fase preovulatoria mentre il secondo ha un’azione sedativa e lievemente depressogena.

Tale correlazione potrebbe riguardare un effetto ritardato degli steroidi sessuali sul ricambio, nei centri ipotalamici, dei neurotrasmettitori. Questi, infatti, modulano gli ormoni riproduttivi e potrebbero indurre i sintomi di una sindrome premestruale o anche influire sui centri di controllo dell’umore e del comportamento. Altre ipotesi sulle disfunzioni endocrine, riguardano un deficit di progesterone in tarda fase luteinica, un alterato rapporto estrogeni/progesterone o un’alterazione del suo metabolismo. I livelli più bassi di progesterone riscontrati in alcune donne affette da Sindrome Premestruale, riflettono un’alterata funzionalità del corpo luteo che insorge a causa del suo mancato sviluppo. Una secrezione inadeguata di progesterone in fase luteinica, dovuta a difetti di secrezione, metabolizzazione, escrezione e ad interazione con altre sostanze (alcune prostaglandine favoriscono la luteolisi e quindi riducono la secrezione di progesterone), è stata associata con un livello di soglia del dolore più basso in alcune donne, le stesse che traggono beneficio dalla terapia con progestinici. Anche un eccesso di testosterone è stato correlato alla Sindrome Premestruale, ma i risultati dei vari studi non sono stati univoci (Beni et al., 2000).

Un’alterazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, con un eccesso di quest’ultimo e conseguente maggior riassorbimento di sodio, e quindi ritenzione idrica, è stata chiamata in causa nella sintomatologia della Sindrome Premestruale, considerando il fatto che molte donne lamentano proprio ritenzione idrica e gonfiore come disturbi principali. Le variazioni dell’umore potrebbero essere dovute all’influenza che questo asse ormonale ha sui neurotrasmettitori cerebrali. La fluttuazione dei livelli di estradiolo è risultata correlata alle vampate di calore, all’umore depresso e alla mancanza di sonno.

Si è anche considerata l’influenza della prolattina, i cui livelli sono più alti nelle donne affette da Sindrome Premestruale, come fattore eziopatogenetico in questo disturbo. Tale ormone, oltre ad avere un’azione diretta sulla mammella, a carico della quale molte donne lamentano disturbi in corso di Sindrome Premestruale, agisce anche sulle ovaie, causando un’alterazione del corpo luteo con conseguente deficit di progesterone (Beni et al., 2000).

Secondo l’ipotesi che imputa la Sindrome Premestruale all’azione dei neuropeptidi centrali, le donne affette da Sindrome Premestruale avrebbero un’alterata secrezione ed un’ipersensibilità alle beta-endorfine, le quali hanno un effetto stimolante su prolattina ed inibente sulle gonadotropine, ed ai peptidi alfa-MSH, subordinati alla secrezione ciclica di steroidi ovarici, nel corso della fase luteinica del ciclo. In queste donne la secrezione di beta-endorfine, più bassa, agirebbe, in fase luteinica, sulla modulazione del tono dell’umore, sul comportamento e sulle interazioni neurotrasmettitoriali a livello ipotalamoipofisario (Beni et al., 2000).

Altri fattori eziopatogenetici di ordine biologico indicati per spiegare la Sindrome Premestruale, sono la ridotta disponibilità di vitamina B6 ed un deficit di prostaglandine: la prima è un importante cofattore nella trasformazione metabolica di acidi aminici ed è coinvolta nella decarbossilazione del 5-idrossitriptofano a 5-idrossitriptamina e dopamina; le seconde agiscono causando vasodilatazione e ritenzione idrica durante il ciclo mestruale (Beni et al., 2000).

Tra le ipotesi biochimiche cui si è prestata recentemente maggiore attenzione per spiegare la Sindrome Premestruale, c’è quella delle alterazioni del sistema serotoninergico (Halbreich e Tworek, 1993) che, come è noto, è coinvolto nella percezione del dolore, nella depressione, nell’assunzione di cibo e nel comportamento aggressivo. Ricerche effettuate in vitro su piastrine (le quali hanno diverse analogie biochimiche e farmacologiche con i terminali pre-sinaptici contenenti serotonina) per valutare alterazioni ciclo-correlate della serotonina, hanno dimostrato un’influenza in senso inibitorio degli steroidi sessuali su queste con una riduzione della ricaptazione di serotonina ed un suo ridotto livello ematico. La maggior parte degli studi ha riscontrato una riduzione della ricaptazione della serotonina limitata alla fase luteinica, secondo alcuni Autori a causa di un ridotto numero di trasportatori di membrana per la serotonina o di un’alterazione del gradiente ionico transmembrana (Ashby et al., 1988). Inoltre, dal momento che le modificazioni di ricaptazione della serotonina da parte delle piastrine sono contemporanee alla sintomatologia, è possibile che siano ad essa causalmente correlate. È stato anche visto che la somministrazione di agonisti serotoninergici induce un’elevazione del tono dell’umore; per contro, la somministrazione di sostanze che diminuiscono l’attività della serotonina, provoca irritabilità ed evitamento sociale, sintomi che ritroviamo nella Sindrome Premestruale. Queste medesime alterazioni vengono trovate anche in altri pazienti psichiatrici, nei depressi e nei maniaco-depressivi, aspetto che giustifica ancor di più la correlazione fra serotonina e sintomatologia nella Sindrome Premestruale (Bhatia et al., 2002).

Alcuni ricercatoi hanno anche studiato altri neurotrasmettitori: Parry et al.,(1989) in un loro lavoro su dopamina e noradrenalina, hanno evidenziato come, nel liquido cefalo-rachidiano, i livelli del metabolita MetossiIdrossiFenilGlicole (MHPG) siano significativamente più elevati nella fase luteinica di pazienti affette da Sindrome Premestruale rispetto a controlli sani, suggerendo un ruolo del sistema noradrenergico in questa sindrome. Un ruolo non bene definito potrebbe essere attribuito anche all’Acido Gamma-Aminobutirrico (GABA), i cui livelli sono più bassi, in particolare in fase luteinica, nelle donne con Sindrome Premestruale.

Indubbiamente, tra le donne affette dalla sindrome, si può riscontrare l’alterazione di uno o più sistemi ormonali o neurotrasmettitoriali sopracitati, ma rimane da determinare se queste siano primarie o secondarie alla sindrome stessa. Inoltre, non è chiaro se le teorie sopra citate siano significative per la genesi della forma più severa della sindrome premestruale, e quali di esse siano rilevanti ai fini della comprensione delle variazioni del tono dell’umore (Beni et al., 2000).

Relazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi

L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione (Bhatia et al., 2002). Il fatto stesso che i sintomi più spesso riferiti siano prevalentemente di ordine psichico, affettivi in particolare (depressione, disforia, irritabilità, ansia), ha fatto propendere per l’esistenza di una correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi psichiatrici specifici. Nonostante il DSM-IV-TR sottolinei la possibilità di fare diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale solo quando non vi sono altri disturbi psichiatrici sottostanti, molte donne che richiedono una cura per disturbi premestruali gravi hanno un sottostante disturbo psichiatrico non diagnosticato, o sono già in cura per un altro disturbo di questo tipo. La donna che lamenta disturbi premestruali, e che per questi cerca aiuto, va pertanto attentamente valutata al fine di distinguere chi ha modificazioni severe del tono dell’umore e del comportamento in fase luteinica da chi ha invece in atto uno o più disturbi mentali tali da necessitare di una valutazione diagnostica completa ed una cura adeguata.

Diversi studi hanno valutato il rapporto tra disturbi dell’umore e Sindrome Premestruale ma i loro risultati, avendo adottato criteri diagnostici differenti e spesso basati sulla valutazione retrospettiva della sindrome premestruale, non sono sempre univoci. Fra le indagini che hanno utilizzato criteri uniformi, quattro (vedi in DeJong e coll., 1985) hanno riscontrato una prevalenza di “depressione premestruale” in circa il 65% delle donne con patologia depressiva, valore significativamente più elevato di quello rinvenuto nei controlli o nelle donne con altra patologia psichiatrica.

Se è di frequente riscontro clinico un peggioramento della sintomatologia premestruale nelle donne affette da depressione maggiore, può sembrare che quelle affette da entrambi i disturbi abbiano un peggioramento della sintomatologia depressiva in fase premestruale. In realtà si è visto che, in alcune donne, i disturbi da Sindrome Premestruale persistono nonostante l’impiego di un trattamento efficace che porta alla risoluzione dei sintomi depressivi (Yonkers e coll., 1992). Ciò va a sostegno della concomitanza di due disturbi separati piuttosto che di un peggioramento di un episodio depressivo già in atto. Un’ulteriore conferma a questa teoria viene da studi biochimici sulle variazioni circadiane della secrezione endogena di cortisolo, ormone che rappresenta un indice di depressione endogena (Mortola e coll., 1989). Dal confronto tra donne affette da Sindrome Premestruale, donne appartenenti a un gruppo di controllo asintomatico e donne affette da depressione maggiore, si evince che la secrezione giornaliera di cortisolo è sovrapponibile nei primi due gruppi, mentre nel terzo raggiunge picchi più elevati e, caratteristicamente, non va incontro ad un periodo di quiescenza tra le ore 18.00 e le 24.00. Le pazienti con Sindrome Premestruale presentano in fase luteinica, sulla base della valutazione psicometrica effettuata, un livello di tensione, rabbia, confusione e perdita di energia sovrapponibile a quello riferito dalle pazienti depresse. Il grado di depressione delle prime risulta sì elevato nella stessa fase del ciclo, e significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo, tuttavia è sempre inferiore a quanto si riscontra in caso di Depressione Maggiore. La Sindrome Premestruale e la Depressione Maggiore risultano pertanto due entità cliniche distinte sulla base delle misurazioni biochimiche effettuate. Ciò può essere dovuto a differenze nella patofisiologia delle due sindromi o al fatto che i cambiamenti a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si rinvengono nella Depressione, richiedono un periodo di tempo più lungo per manifestarsi rispetto alla durata di un episodio affettivo in corso di Sindrome Premestruale (Beni et al., 2000).

Halbreich ed Endicott, in un lavoro non pubblicato del 1983, hanno riscontrato una diagnosi lifetime di depressione maggiore nel 57-100% delle donne che riferivano una PMS. Secondo uno studio svolto da DeJong e coll.( 1985 ), le donne che riferivano una sintomatologia premestruale affettiva che non veniva confermata da valutazioni quotidiane, avevano un alto tasso (58%) di patologia depressiva. Quelle che, invece, confermavano la loro PMS con gli stessi criteri, avevano una percentuale di disturbi dell’umore più bassa rispetto alle prime, ma sempre piuttosto elevata (30%). Graze e coll. (1986) hanno riscontrato che il 37% delle pazienti affette da PMS da loro seguite, sviluppava un episodio di depressione in un periodo di tempo medio di circa 3 anni.

Le ipotesi che si possono azzardare sulla relazione tra le due sintomatologie, depressiva e premestruale, vanno da una sensibilizzazione, provocata dalla Sindrome Premestruale, a stimoli che, in donne geneticamente predisposte, potrebbero slatentizzare lo sviluppo ed il decorso di un episodio affettivo maggiore, ad un disturbo affettivo ciclo-correlato determinato da un disturbo dell’umore precocemente insorto.

Oltre alla conferma della correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi, alcuni studi hanno valutato il legame con altre patologie psichiatriche, riscontrando una incidenza di disturbi di personalità (di asse II secondo il DSM-IV TR), intorno al 10%, valore che non si discosta molto da quello rinvenuto in campioni costituiti da popolazione generale. Il disturbo di personalità più frequentemente rappresentato è quello evitante (Pearlstein et al., 1997). Secondo alcuni Autori, che hanno trovato la presenza del disturbo di personalità evitante solo nel gruppo di età superiore ai 30 anni, la spiegazione a questo riscontro potrebbe essere che le donne affette da Disturbo Disforico Premestruale sviluppino, con l’andare del tempo, questi tratti del carattere come particolare modo di reagire ai cambiamenti correlati al loro ciclo mestruale (De Ronchi et al., 1999).

Alcuni studi hanno valutato campioni costituiti da gemelli per verificare se la sintomatologia da Sindrome Premestruale è ereditaria. In effetti, si è riscontrata una modesta ereditabilità di tale sindrome ed una sua lieve dipendenza dall’ambiente familiare (Kendler e coll., 1998). Secondo questi studi, i processi biologici geneticamente determinati che influenzano la Sindrome Premestruale, sono debolmente correlati a quelli che influenzano il rischio di depressione maggiore. Inoltre, i sintomi premestruali sembrano avere una stretta correlazione eziologica con le caratteristiche stabili nel tempo della depressione.

Sintomi Fisici

Sebbene i criteri dei diversi DSM prendano in considerazione solo i sintomi psichici, la maggior parte dei clinici considera i sintomi fisici altrettanto importanti per la diagnosi (Morrison, 1997). I sintomi che si presentano con maggior frequenza sono:

  • Dolore e tensione al seno;
  • Aumento di peso di qualche chilo che può essere percepito come “ un’esplosione” dell’addome o un gonfiore alle caviglie (edema);
  • Il sonno e l’appetito possono aumentare o diminuire rispetto al solito;
  • Presenza di cefalee e dolori ai muscoli o alle articolazioni.

Contrariamente a quello che si crede generalmente, il dolore associato alle mestruazioni (dismenorrea) non è considerato un sintomo della Sindrome Premestruale. Qualunque siano i sintomi della paziente, questi compaiono e scompaiono regolarmente con “il periodo del mese” che caratterizza la Sindrome Premestruale. Tipicamente, i sintomi iniziano circa una settimana prima delle mestruazioni e scompaiono una volta che il flusso inizia realmente, anche se le variazioni individuali possono essere molteplici (Morrison, 1997).

Sintomi Psichici

Le donne che soffrono di Sindrome Premestruale spesso lamentano stanchezza; viene riferita frequentemente anche una sensazione soggettiva di ansia e depressione.Altri disturbi dell’umore includono irritabilità o collera, improvvise crisi di pianto e un’eccessiva sensibilità all’eventualità di essere rifiutate. Se ai problemi relativi al sonno e all’appetito menzionati in precedenza si sommano anche minore energia, problemi di concentrazione, perdita di interessi per attività solitamente piacevoli, si capisce perché venga spesso erroneamente formulata una diagnosi di disturbo dell’umore.
Un altro errore clinico da evitare è il seguente: una paziente che soffre di un vero disturbo dell’umore o d’ansia, che peggiora intorno al periodo delle mestruazioni, non dovrebbe essere diagnosticata come Sindrome Premestruale, senza che prima non siano stati trattati con successo i disturbi dell’umore (Morrison, 1997).

Il rischio suicidario nei pazienti con anoressia nervosa

Il suicidio è una delle principali cause di morte tra le persone con anoressia nervosa: dal 3 al 20% dei pazienti con questo disturbo dell’alimentazione tentano il suicidio nell’arco della propria vita, mentre in una percentuale compresa tra 1 e 5,3% lo portano a termine (Franko et al., 2006).
Secondo Sullivan, rappresenta la seconda causa di morte per anoressia nervosa dopo le complicazioni del disturbo alimentare (Sullivan, P.F., 1995).

Anoressia nervosa e rischio di suicidio: la presenza di sintomi ansiosi e depressivi e impulsività

Nelle persone con questa patologia non sono solamente i sintomi depressivi a incidere nel tentativo di suicidio, ma anche i tratti ansiosi e l’impulsività.

Tra i vari disturbi del comportamento alimentare (DCA) vi sono differenze relative alla frequenza dei tentativi di suicidio, sono infatti molto più comuni tra i pazienti con anoressia nervosa rispetto a quelli con bulimia nervosa (Franko et al., 2006). I risultati confermano che una parte sostanziale di persone con anoressia nervosa tenta il suicidio rischiando effettivamente di perdere la vita. I clinici che si occupano di DCA per tutta la durata del trattamento dovrebbero porre attenzione non solo al rischio suicidario, ma anche alla presenza di comorbilità tra vari disturbi come, ad esempio, depressione, abuso di sostanze o impulsività. Come è noto, non tutti i tentativi di suicidio sono realmente finalizzati a porre fine alla vita; tra i pazienti con anoressia nervosa l’intenzione di morire durante un tentativo di suicidio si riscontra nel 78,3% dei casi, di questi, il 56,5% pensava che sarebbe morto.

Gli studi dimostrano che chi tenta il suicidio presenta, oltre a eventuali sintomi depressivi, una o più delle seguenti psicopatologie: disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, abuso di sostanze o dipendenza, disturbi di personalità del cluster B e, infine, disturbi del controllo degli impulsi tra cui autolesionismo, furto e taccheggio. Queste persone sono anche caratterizzate da bassa autodeterminazione, numerosi evitamenti e alti livelli d’impulsività come dimostrato dai punteggi più elevati sulla sottoscala cognitiva della Barrett Impulsivity Scale. Emerge inoltre una maggiore gravità dei sintomi del disturbo secondo la Yale-Brown-Cornell Eating Disorder Scale rispetto a coloro che non avevano tentato il suicidio. Questi profili di comorbilità e di caratteristiche di personalità riguardano una percentuale piuttosto alta di coloro che hanno riferito che il loro tentativo era stato impulsivo anziché premeditato.

Tra le persone che pensano di uccidersi il 25,4% agisce con una premeditazione accurata, il 25,4% con una premeditazione moderata e ben il 49,2% d’impulso. Mediamente fra coloro che tentano il suicidio solo la metà viene ricoverata in ospedale: il 46,4%. Alla domanda in merito ad altri eventuali disturbi al momento del tentato suicidio, l’81,2%. riferisce che il tentativo si era verificato durante un episodio depressivo, il 17,4% riporta abuso di alcol al momento del gesto, l’8,7% dichiara di abusare di sostanze e il 5,8% fa invece riferimento ad altre patologie. Dallo studio che ha riportato questi dati non sono emerse segnalazioni di disturbo bipolare o psicosi (Franko et al., 2006). Tra le persone che soffrono di anoressia e che hanno tentato il suicidio almeno una volta, l’87,1% ha sofferto di depressione maggiore nel corso della vita: questo implica in loro un rischio quattro volte maggiore di togliersi effettivamente la vita (Bulik et al., 1999).

La lotta contro lo stigma del suicidio è centrale ed essenziale ai fini di un’efficace attività di prevenzione suicidaria in quanto questo gesto si alimenta di pregiudizi che costituiscono l’ostacolo più forte nel trattare i comportamenti autolesivi (Erlangsen et al., 2011).

Fiabe e successo scolastico: quando le lezioni iniziano dai libri di racconti

Una nuova ricerca dell’Università californiana Riverside rivela differenti temi narrativi nei libri di racconti per l’infanzia cinesi e americani in linea con lo stile scolastico impartito nei due Paesi. È un dato ormai conosciuto e confermato da diversi studi quello secondo cui il livello scolastico asiatico sia superiore rispetto a quello americano. La recente ricerca della psicologa Cecilia Cheung mostra il possibile collegamento tra racconti narrativi e performance scolastica.

 

I diversi contenuti delle fiabe nelle culture americana e asiatica

Il team californiano ha notato che i libri di racconti cinesi celebrano i comportamenti associati all’apprendimento e al duro lavoro mentre i libri di narrativa degli Stati Uniti pongono maggiore enfasi sull’autostima e la competenza sociale.

Cheung ha affermato “I valori che vengono generalmente comunicati nelle fiabe cinesi sono orientati alla realizzazione, al rispetto per gli altri (in particolare degli anziani), all’umiltà e all’importanza di sopportare le difficoltà. Nei racconti americani invece i protagonisti sono spesso ritratti come aventi un interesse e una forza unici in un determinato dominio e i temi tendono ad essere edificanti“.

Per lo studio Cheung ha confrontato libri di racconti americani con quelli cinesi, la ricercatrice ha selezionato 380 libri per bambini, dai 3 agli 11 anni, raccomandati dai Ministeri dell’Istruzione dei rispettivi paesi. La ricerca ha considerato tre aspetti fondamentali dell’apprendimento: le credenze (intese come opinioni sulla natura dell’intelligenza), le cognizioni riguardo la motivazione (ad esempio la determinazione) e il comportamento (ovvero lo sforzo impiegato e il superamento delle difficoltà).

Un esempio di fiaba cinese selezionata per la ricerca è rappresentata dal titolo “A Cat That Eats Letters” (letteralmente “Il gatto che mangia le lettere”). La storia narra di un gatto affamato di lettere scritte in malo modo cosicché ogni volta che il bambino produce una lettera troppo grande, piccola, inclinata o con tratti mancanti il gatto se la mangia, l’unico modo per fermare l’abbuffata del felino è che il bambino scriva attentamente e si eserciti tutti i giorni diventando un abile scrittore.

Al contrario un tipico racconto americano è “The Jar of Happiness” (letteralmente “Il barattolo della felicità”) che racconta la storia di una bambina impegnata nel creare una pozione magica per la felicità in un barattolo che sciaguratamente perde; il lieto fine nasce dalla consapevolezza della bimba che la felicità non può derivare dal vasetto ma piuttosto dai nuovi amici incontrati durante l’avventura.

Le fiabe stabiliscono i valori importanti per le diverse culture

In conclusione Cheung ha affermato che il punto di forza della ricerca è l’aver considerato il ruolo di “artefatti culturali” come i libri di fiabe sostenendo che i libri di racconti svolgano un ruolo chiave nello stabilire i valori che possono aiutare a determinare il successo scolastico.

La psicologa ha concluso affermando “L’esposizione a materiali di lettura che sottolineano l’importanza delle qualità legate all’apprendimento, come ad esempio lo sforzo e la perseveranza, può portare i bambini a valutare in misura maggiore tali qualità come importanti“.

La disfunzione erettile è un segnale d’allarme per un’eventuale malattia cardiovascolare precoce

Raramente viene data attenzione al legame tra la disfunzione erettile e le malattie cardiovascolari, eppure un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Vascular Medicine, ne sottolinea l’importanza.

 

Le malattie cardiovascolari e la disfunzione erettile

Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in tutto il mondo. Oltre al controllo della pressione arteriosa, al controllo del peso, ad una buona dieta abbinata ad esercizio fisico e alla cessazione dell’abitudine del fumo, l’individuazione precoce di un’eventuale malattia cardiovascolare può essere utile nella prevenzione di ictus e infarti.

I fattori di rischio sia per le patologie cardiovascolari sia per la disfunzione erettile sono simili. Tra questi si annoverano l’età avanzata, l’obesità del soggetto ed il diabete.

La disfunzione erettile diviene di per sé un efficace e semplice marker della malattia cardiovascolare subclinica, in quanto permette ai giovani uomini, che hanno solitamente meno probabilità di sottoporsi ad una valutazione del rischio cardiovascolare, di prenotare una visita specialistica. Spesso, infatti, giovani uomini a rischio non vengono considerati tali a causa della loro giovane età.

Uno studio sul legame tra disfunzione erettile e malattie cardiovascolari

Gli autori dello studio hanno condotto una review sistematica ed una meta-analisi di ventotto studi che si sono occupati di esaminare il legame tra disturbi dell’erezione e le misure di malattie cardiovascolari precoci.

In seguito a questa analisi gli autori hanno riportato un’associazione tra disfunzione erettile e la compromissione della funzione endoteliale (indicatore della capacità di rilassamento dei vasi sanguigni, manifestazione precoce dello sviluppo di una malattia vascolare) ed un aumento dello spessore mediale intimale carotideo (manifestazione precoce di aterosclerosi).
Infine, gli autori hanno notato come non sia emersa un’associazione tra disfunzione erettile ed il livello del calcio dell’arteria coronaria, a causa di un numero limitato di studi con dimensioni di campione limitate. Per questo motivo invitano i ricercatori a concentrarsi su quest’area di indagine.

Lo studio viene accompagnato dalle parole dei ricercatori Naomi Hamburg e Matt Kluge della Boston University: “La presenza di una disfunzione erettile preannuncia un rischio più elevato di futuri eventi cardiovascolari, in particolare negli uomini che sono a rischio intermedio o basso, e ciò può rappresentare un’opportunità per l’intensificazione delle strategie di prevenzione del rischio cardiovascolare”.
La ricerca, in questo verso, si impegnerà a determinare l’impatto clinico dello screening, la valutazione ed il trattamento appropriati nei casi di disfunzione erettile.

Siamo davvero così razionali come crediamo? L’irrazionalità nei processi decisionali

Possiamo definire la razionalità come la capacità di scegliere tra più alternative ciò che permette il massimo guadagno personale con la minima perdita; la capacità riflessiva che ci distingue come esseri umani ci permette di richiamare alla mente concetti ed immagini che ci consentono di creare dei collegamenti tra la situazione attuale e i suoi possibili sviluppi, permettendoci di modulare il nostro comportamento nel tentativo di raggiungere i nostri obiettivi.

Alessia Brugaletta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Qual capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle sue facoltà! Quale espressione ammirabile e commovente nel suo volto, nel suo gesto! Un angelo allorchè opera! Un Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! Re degli animali!…
(William Shakespere, Amleto, atto 2 scena 2)

 

Difficilmente qualcuno potrebbe essere migliore di William Shakespere nel descrivere ciò che il senso comune ci suggerisce fermamente: la capacità di pensare e la nostra razionalità sono qualcosa che ci rende unici e che reputiamo pressoché infallibile. Infatti pur scontrandoci quotidianamente con la difficoltà che questo complesso compito cognitivo ci crea siamo, nonostante tutto, abbastanza fiduciosi della sua efficienza.

Cercando di delineare i contorni di quel che comunemente chiamiamo razionalità, la possiamo definire come la capacità di scegliere tra più alternative ciò che permette il massimo guadagno personale con la minima perdita.

La capacità riflessiva che ci distingue come esseri umani ci permette di richiamare alla mente concetti ed immagini che ci consentono di creare dei collegamenti tra la situazione attuale e i suoi possibili sviluppi, permettendoci di modulare il nostro comportamento nel tentativo di raggiungere i nostri obiettivi.

Ognuno di noi infatti, tutti i giorni è alle prese con tantissime decisioni da prendere tra varie opzioni possibili. Alcune di queste possono avere conseguenze limitate nel tempo e di solito l’esito riguarda solo la persona che effettua la scelta (decidere cosa mangiare per cena o se andare a lavoro in autobus oppure prendere la bicicletta, scelta più faticosa ma certamente più salutare); altre invece possono avere effetti, positivi o negativi, a lungo termine e magari coinvolgere non solo chi effettua la scelta ma anche altre persone che con lui si relazionano (scegliere di cominciare una scuola di specializzazione quadriennale, per esempio)

La razionalità umana, come agisca e che obiettivi si prefigga, è stata oggetto d’interesse fin da tempi antichi; Platone ed Aristotele per primi hanno cercato di delineare i suoi modi di operare. A loro si deve la descrizione dei processi induttivi e deduttivi di acquisizione della conoscenza; questa, secondo Aristotele, potrebbe procedere in due direzioni: partendo dall’osservazione di dati sensibili del particolare per poi risalire attraverso un procedimento logico ad una regola universale (procedimento induttivo); o viceversa partendo da regole universali, colte tramite l’intuizione, per discendere attraverso il ragionamento sillogistico al particolare. Così è nato l’interesse per la consequenzialità logica che è alla base del metodo scientifico e che spesso è considerata l’unica via del ragionamento umano.

La visione ereditata da filosofi classici e fatta propria dell’economia, prevede un essere umano capace di effettuare un’analisi costi/benefici delle varie opzioni di scelta e di ragionare su questi seguendo la logica formale. I differenti scenari sarebbero considerati uno alla volta e, avendo in mente i propri obiettivi da raggiungere, la logica condurrebbe alla soluzione migliore tra quelle disponibili. Le emozioni e i sentimenti sono a lungo stati considerati degli intrusi che intralciano il fluire del ragionamento logico; anche il senso comune infatti tramanda la convinzione che in alcune circostanze l’emozione possa distruggere il ragionamento (la raccomandazione non essere una testa calda ci fa capire immediatamente come l’emozione non sia una componente gradita del ragionamento).

Tuttavia la logica formale da sola non appare una soluzione soddisfacente per spiegare il funzionamento della mente degli individui; la razionalità così descritta richiederebbe un tempo troppo lungo che non si conforma a quella che è l’esperienza soggettiva. Solo in rari casi una scelta difficile viene studiata analiticamente facendo una lista dettagliata dei pro e dei contro mentre spesso gli esseri umani prendono decisioni in minuti o in un tempo anche più breve.

Neuroscienze e decision making

La razionalità ed il ragionamento umano hanno continuato ad essere oggetto d’interesse anche in anni decisamente più recenti rispetto a quando se ne sono occupati Platone & Co. L’avvento delle neuroscienze con l’interesse per le differenti funzioni cognitive e, ove possibile, con l’individuazione dello specifico substrato neurale che sottende la funzione stessa; ha permesso una visione più dettagliata di cosa voglia dire ragionare e che specifiche operazioni siamo in grado di compiere durante questo complicato compito.

Le funzioni esecutive sono un insieme di abilità cognitive che consentono di affrontare situazioni nuove e complesse e di adattarsi all’ambiente. Sovraintendono tutte le altre funzioni cognitive che quindi sono implicate nel loro funzionamento; così attenzione, linguaggio e memoria vengono regolate con il fine di migliorare l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Implicano la capacità di prendere decisioni, pianificare obiettivi e strategie considerando gli effetti a breve e lungo termine.

I processi cognitivi complessi che sono richiesti nelle funzioni esecutive sono mediati dall’attività di una specifica area della corteccia cerebrale, la corteccia frontale. Questa è una delle parti evolutivamente più recenti del cervello umano che possiede numerose connessioni con il resto dell’encefalo; connessioni sia con il resto della corteccia cerebrale che con le strutture sottocorticali, in questo modo integra informazioni provenienti dall’ambiente esterno ed interno all’organismo. A livello funzionale questo si traduce nella capacità di connettere informazioni somato-sensoriali con processi di programmazione di azioni motorie e di utilizzo di concetti; di monitoraggio delle conseguenze del proprio comportamento oltre che la modulazione delle informazioni emozionali. Con il termine decision making nel campo delle neuroscienze si intendono un particolare gruppo di funzioni esecutive, quelle connesse alla capacità decisionale, che ha il fine di effettuare scelte vantaggiose per il raggiungimento dei propri obiettivi.

La connessione che questo intero processo possiede con il mondo esterno e con gli altri (adattamento alle circostanze) fa sì che molte delle scelte coinvolte nel processo di decision making maturano nell’interazione tra più individui. Il contesto sociale modula il processo decisionale e ne articola maggiormente la struttura, in questo modo può avvenire la sottomissione degli obiettivi personali alle regole culturalmente condivise che governano le interazioni della vita reale.

Disfunzioni a questo livello di attività celebrale provocano modificazioni del comportamento che possono manifestarsi anche in assenza di compromissioni negli altri domini cognitivi. Gli individui divengono così incapaci di regolare il proprio comportamento in risposta alle esperienze precedenti oltre a poter manifestare ciò che è stato descritto come sociopatia acquisita (complessa condizione responsabile di cambiamenti di personalità che Blumer e Benson già nel 1975 descrivevano come di tipo “pseudopsicopatico”).

Il ruolo delle emozioni

Antonio Damasio (1994) introduce emozioni e sentimenti all’interno di questa complicata equazione che ha come risultato il ragionamento e la capacità di prendere decisioni. Quando la razionalità è all’opera si creano nella nostra mente degli scenari di esiti e risposte possibili che si susseguono sotto forma di immagini successive; non si tratta di un processo che avviene in un “ambiente mentale” nuovo ma che si costruisce su di un repertorio di immagini e situazioni derivanti dall’esperienza. Alcune delle alternative di scelta così create condurranno ad un esito negativo. Questi scenari saranno accompagnati da spiacevoli sensazioni, prevalentemente fisiche, derivate dall’emozione associata al possibile esito negativo (per esempio una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco). Questa sensazione corporea spiacevole forza l’attenzione sul possibile esito negativo; in questo modo assume il ruolo di segnale d’allarme che induce ad escludere quella particolare alternativa di scelta. Questo meccanismo è stato definito marcatore somatico proprio per sottolineare il suo legame con il corpo, pur includendo sia sensazioni viscerali che non viscerali, che il suo ruolo di segnalazione della valenza di una determinata scelta.

I marcatori somatici, che per inciso possono avere anche una valenza positiva (è così marcare come desiderabile una alternativa di scelta che conduce ad un esito positivo), vengono acquisiti attraverso l’esperienza, in un processo di apprendimento continuo che dura per tutta la vita ma che indubbiamente vive un periodo critico durante l’infanzia e l’adolescenza, periodo della vita in cui convinzioni sociali e norme etiche vengono interiorizzate dall’individuo ed interagiscono con il sistema delle preferenze personali nel determinare la qualità delle interazioni con l’ambiente.

Non bisogna però immaginare il marcatore somatico come una specie di pilota automatico che manovra tutte le nostre scelte; Damasio ce lo presenta invece come un tornello per una rapida selezione delle alternative di scelta da includere in una successiva analisi costi/benefici. Prima ancora di iniziare a ragionare sul problema infatti il marcatore somatico ci permetterebbe di abbandonare immediatamente delle alternative di scelta e così ridurre il numero di opzioni da includere in un processo deduttivo di ragionamento.

La regione cerebrale in cui risiede il sistema dei marcatori somatici è la corteccia prefrontale, in particolare nella sua regione orbito-ventro-mediale. Qui sarebbero categorizzate le esperienze di vita in base a criteri di rilevanza personale. Nella categorizzazione dell’esperienza saranno incluse, oltre alle informazioni percettive provenienti dal mondo esterno, anche preferenze personali e conoscenze riguardo lo stato corporeo. Si formeranno così complesse memorie di eventi che legano gli avvenimenti, e quindi anche l’esito delle azioni compiute, con emozioni e sentimenti, e relativa attivazione fisiologica. Questo legame stabilitosi, tra le scelte effettuate e lo stato di attivazione fisica, verrebbe riattivato ogni qual volta l’individuo si trova a dover fronteggiare uno scenario simile.

Sorprendentemente la comprensione del meccanismo sotteso ai marcatori somatici ha permesso di osservare cosa succederebbe se le nostre facoltà di ragionamento fossero così fredde, e quindi emotivamente spoglie, come il senso comune ci suggerisce. Pazienti con lesioni acquisite dei lobi prefrontali sono descritti da Damasio come miopi rispetto al futuro; sono individui incapaci di modificare il proprio comportamento, e quindi le proprie scelte durante il ragionamento, in base a previsioni di possibili esiti; pur essendo comunque in grado di riconoscerne a posteriori il valore come positivo o negativo. Il loro comportamento appare come guidato solo dalla ricerca di una gratificazione immediata; tendenza che negli individui normali solitamente è mediata e posta sotto controllo dalla capacità di immaginare e lasciarsi guidare (attraverso il funzionamento del sistema di marcatura somatica) da obiettivi a lungo termine, anche se questi richiedono impegno e fatica nel presente.

Il sistema di marcatura somatica insomma si comporta come una bussola che ci indica la scelta da perseguire, in base ad un’attivazione corporea immediata associata a ciò che immaginiamo, e che abbiamo appreso dalle esperienze di vita precedenti, come scenario futuro e possibile esito.

Un punto di vista differente: Dan Ariely e l’irrazionalità

La razionalità e la capacità di prendere decisioni, come ho più volte ripetuto nei paragrafi precedenti, sono processi estremamente complessi che vengono continuamente influenzati sia da altri processi cognitivi (come l’attenzione o la capacità di mantenere in memoria più informazioni e di operare su di esse) che da aspetti emotivi e derivanti dal contesto sociale. Trovandoci così di fronte a quella che sembra delinearsi come l’attività cognitiva più complessa che l’essere umano sia in grado di fare; siamo davvero così sicuri che fluisca sempre seguendo le rigide regole della logica? Del resto, per quel che riguarda la maggior parte dei domini cognitivi, non fatichiamo a trovare delle circostanze che ci dimostrano la nostra fallibilità; pensiamo a quel che succede al nostro sistema visivo e percettivo quando osserviamo un’illusione come questa:

Razionalita nei processi decisionali le scelte sono sempre fatte con logica - tavolo Shepard

Immagine: Turning the tables Roger N. Shepard (1990)

Nonostante sia un’immagine con cui molte persone hanno già avuto a che fare, e io ribadisca che le dimensioni dei due tavoli sono identiche, osservando l’immagine non possiamo fare a meno di ricascare nell’illusione di dimensioni differenti. Nonostante siano in nostro possesso tutte le informazioni necessarie per svelare l’illusione, il nostro sistema percettivo viene sistematicamente ingannato; possiamo immaginare che qualcosa di analogo possa avvenire anche in altri domini cognitivi ed in particolare nel processo di decision making?

Dan Ariely ci racconta un nuovo punto di vista riguardo la razionalità umana. L’immagine dell’essere umano come orgoglio di Platone ed Aristotele viene sistematicamente ma umoristicamente distrutta nel suo libro “Predictably Irrational” (2008). Partendo dal campo dell’economia comportamentale (che si occupa di studiare l’effetto di fattori psicologici, cognitivi e sociali nelle decisioni finanziarie e delle conseguenze di queste sul mercato) Ariely ci dimostra come in realtà le decisioni che prendiamo spesso non sono affatto razionali, conducendoci a scelte svantaggiose per i nostri interessi; inoltre questo tipo di irrazionalità si verifica sistematicamente rendendo il nostro comportamento prevedibile.

Razionalità: l’importanza della relatività

L’essere umano non possiede un termometro interno che rivela il valore, in termini di desiderabilità, di un oggetto o più in generale di una scelta; ci muoviamo invece più agilmente nel valutarne il valore in relazione a delle alternative. Così, per esempio, non siamo in grado di scegliere un televisore o una bicicletta da comprare in termini assoluti ma invece siamo ferrati nell’individuare il nostro oggetto dei desideri dopo aver fatto un giro per negozi o su internet per raccogliere informazioni e paragonare i vari modelli disponibili in base alle caratteristiche che possiedono (costo, qualità dell’immagine del televisore o tipo di cambio delle marce per la bicicletta). In aggiunta, non solo compariamo le nostre alternative di scelta, ma nel fare ciò tendiamo a concentrarci su alternative che risultano facilmente confrontabili ed evitiamo invece i confronti più difficili. In questo modo le nostre scelte possono essere facilmente manipolate soprattutto in ambito commerciale attraverso ciò che ci viene proposto come alternative. Per mettere in evidenza l’influenza che questo tipo di ragionamento irrazionale ha nelle nostre scelte Ariely ha condotto una serie di esperimenti utilizzando materiale di scelta differente.

L’introduzione di un “esca” (un’alternativa di scelta simile ma palesemente inferiore ad una delle altre alternative) è in grado di influenzare la distribuzione delle preferenze anche se ovviamente, considerata la sua evidente inferiorità, l’esca in nessun caso viene direttamente scelta dai partecipanti agli esperimenti. Questo tipo di influenza avviene in modo sistematico ogni qual volta ci troviamo a dover scegliere tra delle alternative sia che si tratti di che televisore comprare che di quale persona troviamo più attraente. Infatti Ariely, utilizzando foto dell’equivalente dell’MIT di Brad Pitt e George Clooney ha fatto scegliere a più di 600 persone con quale sarebbero uscite; l’introduzione di un’esca (una versione leggermente imbruttita di Clooney o di Pitt ottenuta modificando le immagini in modo da diradare i capelli o deformare la simmetria del volto) anche in questo caso è stata in grado di influenzare le preferenze. In particolare se la scelta era da effettuare tra Pitt, Cooney e Clooney- (l’esca), la sola presenza dell’esca fa apparire Clooney superiore e più desiderabile non solo del Cooney imbruttito ma addirittura di Pitt. Trasportando questi risultati nella vita quotidiana, le nostre scelte d’acquisto possono essere facilmente manipolate per esempio tramite la selezione di quali articoli introdurre in un volantino pubblicitario; oltre ovviamente a farci domandare perché la nostra amica ha scelto proprio noi come compagnia per una serata di rimorchio (saremo mica la sua esca!).

Necessità di coerenza e ancoraggio alle esperienze precedenti

La ricerca di coerenza e costanza è un tratto distintivo dell’essere umano che ci aiuta a comprendere ed interpretare il mondo intorno a noi; le scelte che effettuiamo durante il primo approccio con un oggetto serviranno da ancora per le valutazioni future necessarie durante le esposizioni successive. L’aspetto irrazionale è che questo meccanismo di coerenza agisce anche quando la nostra ancora (e quindi ciò che è successo e cosa abbiamo scelto durante la nostra prima esposizione ad una situazione) è arbitraria. Così il primo prezzo che accettiamo di pagare per un bene, che si tratti di una pizza o un corso di formazione, anche se durante questo primo contatto potremmo considerarlo come occasionale o eccessivo condizionerà quanto saremo disposti a pagare in futuro in situazioni simili. Divenire consapevoli di questa coerenza arbitraria che guida i nostri comportamenti potrebbe aiutarci a dare un peso differente alle prime scelte che facciamo durante il primo approccio con una situazione.

Conclusioni

Nonostante sia molto confortante la convinzione di possedere una consapevolezza sempre funzionante ed infallibile che guida il nostro comportamento, soprattutto per quel che riguarda il comportamento di scelta, la conclusione che possiamo trarre riguardo la razionalità umana è che anche questa possa incappare in errori di valutazione. Mentre infatti siamo a conoscenza della possibilità di commettere errori in altre funzioni cognitive, come l’attenzione, la memoria o il linguaggio, consideriamo la razionalità come un processo regolatore perfetto. Abbandonare questa illusione ed imparare a riconoscere gli errori sistematici che la razionalità commette ci permetterebbe maggiore consapevolezza riguardo ciò che effettivamente ci guida durante le nostre scelte e forse permetterebbe di affrontare il disagio psicologico in un ottica differente. Riconoscere l’irrazionalità di un pensiero disfunzionale (arduo compito in terapia) sarebbe infatti indubbiamente più facile se fosse condivisa l’idea generale che il ragionamento umano non sia infallibile.

Aggressività reattiva e proattiva e i fattori genetico-ambientali

I risultati mostrano come all’età di sei anni, entrambi i tipi di aggressività proattiva e reattiva, condividano quasi totalmente gli stessi fattori genetici; nonostante ciò, il comportamento aggressivo, nella maggior parte dei casi, diminuisce con la crescita. E questa diminuzione dell’aggressività tra i 6 ed i 12 anni è dovuta a fattori ambientali, piuttosto che a fattori genetici.

 

L’aggressività proattiva e reattiva

Stéphane Paquin, dottorando di ricerca presso l’Université de Montréal, ha condotto uno studio psicosociale sul comportamento aggressivo di 555 serie di gemelli.

In particolare, il ricercatore si è concentrato sui comportamenti aggressivi proattivi e reattivi. L’ aggressività proattiva è una forma di aggressività contraddistinta da comportamenti fisici e verbali intesi a dominare o ottenere un vantaggio personale a scapito degli altri. Invece, l’ aggressività reattiva è quel tipo di aggressività contraddistinta da una risposta difensiva innanzi ad una minaccia percepita.

L’influenza dei fattori genetici e ambientali sull’ aggressività proattiva e reattiva

I risultati mostrano come all’età di sei anni, entrambi i tipi di aggressività proattiva e reattiva, condividano quasi totalmente gli stessi fattori genetici; nonostante ciò il comportamento aggressivo nella maggior parte dei casi diminuisce con la crescita. E questa diminuzione dell’aggressività tra i 6 ed i 12 anni è dovuta a fattori ambientali, piuttosto che a fattori genetici.

L’aggressività è una parte fondamentale dello sviluppo psicologico e sociale di un bambino. Successivamente, quando un bambino cresce, impara a gestire le proprie emozioni, comunicare con gli altri e affrontare i conflitti. In questo modo, durante lo sviluppo e l’età adulta, le persone saranno in grado di incanalare i propri impulsi aggressivi.

Dei 555 gruppi di gemelli partecipanti allo studio, 223 sono monozigoti e 332 eterozigoti. Questa duplice tipologia di gruppi di gemelli ha permesso di determinare se le differenze individuali osservate fossero dovute a fattori genetici o ambientali.
I comportamenti aggressivi sono stati valutati e documentati dagli insegnanti dei bambini all’età di 6,7,9, 10 e 12 anni.

I risultati ottenuti mostrano l’importanza di sviluppare diversi metodi di prevenzione dell’ aggressività proattiva e reattiva, in particolare offrendo sostegno alle famiglie e fornendo interventi nelle scuole.

Il ricercatore Paquin ha, inoltre, aggiunto “I nostri risultati confermano anche quelli di altri studi, dimostrando che i programmi progettati per prevenire l’aggressività reattiva dovrebbero concentrarsi sulla riduzione delle esperienze di vittimizzazione, mentre quelli destinati a contrastare l’aggressività proattiva dovrebbero essere basati sullo sviluppo di valori pro-sociali“.

Resilienza: l’elisir di “buona” vita

In ambito psicologico, il termine “resilienza” viene utilizzato per indicare la capacità di far fronte ad eventi traumatici o situazioni stressanti, riducendone i possibili effetti collaterali.

Asia Calderini, Federica Parisi, Giulia Lelli

 

Ogni bambino è unico, così come è unica la sua risposta ad esperienze avverse (ACE Adverse Childhood Experience): mentre alcuni sembrano adattarsi perfettamente a esse, altri non riescono ad affrontarle e superarle, con conseguenze negative sul piano psicologico e comportamentale. Tale variabilità può essere spiegata dalla peculiare resilienza che caratterizza ogni singolo individuo.

In ambito psicologico, il termine “resilienza” viene utilizzato per indicare la capacità di far fronte ad eventi traumatici o situazioni stressanti, riducendone i possibili effetti collaterali.

Le solide basi della resilienza

Le principali risorse che sembrano giocare un ruolo di primo ordine nello sviluppo di questo processo protettivo possono essere raggruppate in due domini:

1. Caratteristiche individuali interne del bambino:
Autostima, auto-efficacia, self-regulation (ovvero la capacità di regolare o controllare le risposte sia emozionali che comportamentali), temperamento, abilità cognitive e intelligenza. In particolare, l’easy temperament (caratterizzato da adattamento alle nuove esperienze e situazioni, stato d’animo tendenzialmente positivo, espressione graduale delle emozioni e schemi ripetitivi nella routine) contribuisce ad uno sviluppo positivo, suscitando negli altri maggior grado di attenzione, supporto e incoraggiamento, e permette di gestire con più facilità gli eventi stressanti attraverso la messa in atto di strategie di coping più flessibili (Hornor, 2017; Sattler & Font, 2017; Traub & Boynton-Jarrett, 2017).

2. Caratteristiche della famiglia e della relazione genitore-figlio:
Interazioni familiari supportive, responsive e accoglienti, che si basano su frequenti manifestazioni d’affetto, incoraggiamento, aiuto e approvazione, mitigano gli effetti negativi dello stress, favorendo un tono dell’umore più elevato e di conseguenza un maggior numero di interazioni sociali positive; infatti, un attaccamento sicuro promuove le capacità adattive del bambino in seguito ad un’esperienza negativa subita durante la prima infanzia. Inoltre, anche uno stile di parenting autorevole, caratterizzato da supporto emotivo, chiare regole comportamentali e comunicazione bidirezionale, stimola lo sviluppo della resilienza nel bambino. (Bai & Repetti, 2015; Hornor, 2017; Traub & Boynton-Jarrett, 2017).

In aggiunta, uno stile genitoriale accogliente e attento ai bisogni del bambino può contribuire a uno sviluppo ottimale dell’asse HPA (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) che permette una risposta funzionale agli eventi stressanti esterni, agendo sui livelli del cortisolo. Interazioni familiari caratterizzate da supporto genitoriale, coinvolgimento emotivo, clima di accettazione e alti livelli di monitoraggio da parte del caregiver, favoriscono nel bambino alte concentrazioni di cortisolo durante la mattina e un declino più rapido dei suoi livelli durante l’arco della giornata; tale ritmo giornaliero riflette un buon funzionamento del sistema HPA. Dal momento che il cortisolo è implicato in un’ampia gamma di sistemi fisiologici umani, in particolare nella risposta allo stress, la disregolazione dell’attività dell’asse HPA è associata a numerose problematiche fisiche e mentali. Quindi, la normale secrezione di cortisolo può costituire un fattore di resilienza, mentre la disregolazione dell’asse HPA può segnalare una diminuita capacità di far fronte agli effetti nocivi delle avversità. Tutto ciò non solo in un’ottica a breve termine di risposta immediata ad uno stress, ma anche a lungo termine. Infatti, le interazioni familiari positive facilitano nel bambino risposte immediate di tipo adattivo a eventi stressanti e quest’ultime, a lungo termine, promuovono lo sviluppo di risorse interne, come la propensione ad esperire emozioni positive e il buon funzionamento del sistema HPA, che incrementano la resilienza. Quest’ultima può mitigare gli effetti delle esperienze negative precoci che possono alterare l’attività dell’asse HPA, influenzando il normale sviluppo dei circuiti cerebrali legati alla regolazione delle emozioni e del comportamento, minacciando la salute mentale e fisica del soggetto (Bai & Repetti, 2015).

Cosa predice la resilienza in età adulta?

Eventi stressanti di entità moderata come divorzio o separazione dei genitori, lutti in famiglia e cambi frequenti di abitazione e di scuola, sono associati ad alti livelli di resilienza in età adulta; al contrario, l’aver fronteggiato un elevato numero di malattie gravi durante l’infanzia predice una più bassa resilienza, poiché innesca nel soggetto la sensazione di vulnerabilità e suscettibilità sia ad altre malattie che ad altri eventi stressanti di vario genere (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh 2016).

Sviluppare un’elevata resilienza è funzionale per l’individuo in quanto in età adulta appare correlata a maggiore salute fisica e mentale, longevità, percezione soggettiva di benessere più elevata, minori livelli di ansia e depressione e vissuti di solitudine (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh 2016).

Quando lo stress può essere considerato “positivo”

Esperire stress ha effetti positivi quando promuove nel soggetto strategie di coping adattive ed è affiancato da un buon supporto sociale. In tali casi, infatti, fronteggiare uno stress promuove capacità di adattamento che permettono di imparare a gestire i successivi eventi negativi con una maggiore probabilità di successo (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh, 2016; Hornor, 2017).

Contrariamente a quanto si possa pensare, non è tanto la gravità del singolo evento stressante a determinare la portata delle conseguenze negative, quanto il suo protrarsi nel tempo (cronicità) e l’eventuale concomitanza con altri eventi stressanti minori (effetto cumulativo). Tuttavia, esperire stress durante l’infanzia può contribuire a formare la propria resilienza, riducendo il rischio di innescare risposte disfunzionali e disadattive di fronte agli stressor in età adulta (ipotesi dell’inoculazione) (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh, 2016; Hornor, 2017).

La promozione della resilienza

Promuovere la resilienza è un problema complesso che prevede interventi sia a macro- che a micro-livello. Gli interventi di macro-livello sono incentrati nell’ambito politico, economico e sociale per creare ambienti, atteggiamenti e comportamenti comunitari sicuri, di supporto e sani; essi forniscono la base per gli interventi di micro-livello rivolti alla comunità, alla famiglia e all’individuo (ad esempio, interventi di prevenzione primaria rispetto a esperienze infantili negative). Gli interventi di micro-livello, invece, si propongono di migliorare la cultura, le attitudini e le relazioni nelle comunità, scuole, gruppi di pari e famiglie concentrandosi sulla costruzione di abilità comunicative e valori che promuovono processi di sviluppo positivi. Questi interventi sono spesso rivolti alla sfera relazionale del bambino (ad esempio, rafforzare i rapporti con genitori, fratelli e altri parenti e gruppo dei pari) (Hornor, 2017).

Autostima e Ansia Sociale non hanno Orientamento Sessuale

La non completa accettazione da parte della società di un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale può influenzare i livelli di autostima e ansia sociale in un individuo?

Alessia Caltagirone, Chiara A. Di Lascio, Sarah Ghezzi

 

Introduzione

La domanda di ricerca è nata da una riflessione personale sul fatto che, nella società attuale, un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale non sia del tutto accettato e che questo possa portare a una mancata affermazione per l’identità di un individuo. Si è scelto di indagare i livelli di due costrutti quali autostima e ansia sociale e confrontarli all’interno dei due orientamenti sessuali presi in considerazione: omosessuale ed eterosessuale.

L’Identità: un concetto biologico, psicologico e sociale

Lo psicoanalista Erik Erikson ha apportato un grande contributo alla definizione del costrutto di identità, della quale, ogni individuo, è in continua ricerca. Erikson è il primo ad usare l’espressione “identità dell’Io” (Ego Identity), che distingue da “identità personale”. L’autore ci parla del sentimento cosciente di avere un’identità personale che si basa su due osservazioni simultanee: la prima, la percezione dell’essere se stessi e della continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio; la seconda invece, la percezione che gli altri riconoscano il nostro essere noi stessi e la nostra continuità. Per “identità dell’Io”, l’autore sostiene che questa non riguardi il mero atto dell’esistenza, ma la qualità dell’esistenza stessa (Ego quality of existence). Sulla base di queste affermazioni, Erikson giunge a definire il costrutto di identità come un fenomeno psicosociale articolato, staccandosi da quella che è la tradizione freudiana ortodossa che enfatizza la rilevanza della dotazione biologica individuale per lo sviluppo della persona. L’identità viene dunque concettualizzata e definita dall’autore, in modo interdisciplinare: la dotazione biologica, l’esperienza personale e l’ambiente culturale contribuiscono, insieme, a dare significato, forma e continuità all’esistenza unica di ciascuno (Kroger, 2004).

Orientamento, Ansia Sociale e Autostima

Uno degli aspetti peculiari presi in considerazione dalla nostra ricerca, che rimanda al senso d’ identità di una persona, è l’ orientamento sessuale. Secondo la definizione dell’American Psychological Association, questo si riferisce a un modello duraturo di attrazione di carattere emotivo, romantico e/o sessuale per uomini, donne o entrambi i sessi. Oltre che al senso di identità abbiamo anche un rimando all’adesione a una comunità di individui che condividono determinate disposizioni.

Caratteristica del disturbo di ansia sociale è la paura marcata e persistente di una situazione sociale, prevista o da affrontare, in cui si è esposti al giudizio degli altri. Secondo il DSM-5:

Nel disturbo d’ansia sociale (fobia sociale) l’individuo ha paura o è ansioso, oppure evita le interazioni sociali e le situazioni che coinvolgono la possibilità di essere esaminato. (…) L’ideazione cognitiva è di essere valutato negativamente dagli altri, essere imbarazzato, umiliato o rifiutato, oppure offendere gli altri (APA, 2014).

Alla base dell’ ansia sociale c’è una scarsa autostima (van Tuijl et al., 2014), la quale può essere definita come “insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994). Vi sono tre elementi fondamentali che ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima quali: la presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto-osservarsi e quindi di auto conoscersi; l’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di sé stessi; l’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi (Bascelli, 2008).

La scelta di questi due specifici costrutti psicologici è nata da una riflessione personale sul fatto che, nella società attuale, un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale non sia del tutto accettato e che questo possa portare a una mancata affermazione per l’identità di un individuo. Questo studio ha esaminato il grado dei costrutti sopracitati dei partecipanti, 57 soggetti divisi in due gruppi a seconda del rispettivo orientamento sessuale: omosessuale o eterosessuale.

La ricerca ha inoltre approfondito le differenze dei livelli dei costrutti sia tra le classi di genere, nei rispettivi orientamenti sessuali, sia prendendo in esame la variabile “coming out” all’interno della popolazione omosessuale. Ai volontari è stato chiesto di compilare un’anagrafica costruita ad hoc per la raccolta dei dati personali e dei test specifici, uno per la misurazione dell’ ansia sociale e uno per l’ autostima.

Risultati e Futuri Sviluppi

Utilizzando i dati ottenuti, sono state svolte delle analisi dalle quali è emerso che non sono riscontrabili differenze significative dei livelli dei costrutti all’interno dei due gruppi, sia prendendo in considerazione il genere sia il grado di relazione con le persone con cui è stato fatto il coming out.

In questo studio sono presenti dei limiti riguardanti il campionamento (di convenienza) e l’età dei soggetti.

In particolare, il tipo di campionamento da noi utilizzato ha garantito la sicurezza di trovare soggetti con orientamento sessuale di tipo omosessuale dichiarato e questa caratteristica non ha permesso di poter approfondire adeguatamente l’aspetto del coming out.

Sempre per quanto riguarda il campionamento, anche l’area geografica può essere considerata un limite, dato che la maggior parte dei soggetti attualmente abita in grandi città nelle quali si presuppone ci sia un maggior livello di accettazione nei confronti dell’omosessualità.

Infine, un altro limite riguarda l’età, in quanto per motivi consensuali sono stati presi in considerazione solo soggetti maggiorenni. L’ identità, infatti, inizia a strutturarsi in adolescenza e l’ orientamento sessuale, che ne costituisce una parte, potrebbe risultare un elemento di difficoltà per il soggetto tanto da incidere sui suoi livelli di autostima e ansia sociale. In età adulta, invece, l’ identità è maggiormente strutturata e il proprio orientamento sessuale potrebbe gravare meno sui livelli dei due costrutti.

Per questi aspetti sarebbe interessante poter replicare lo studio su un gruppo di provenienza geografica più estesa e di più giovane età, indagando se in adolescenza l’ orientamento sessuale correla con maggiore o minore livello di autostima e ansia sociale.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Lo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione

Un recente editoriale di un numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders (IJED) ha raccolto e reso disponibili ai lettori alcuni articoli recenti per fare il punto sullo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED).

 

Introduzione

Un recente editoriale di un numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders (IJED) pubblicato in occasione della 51a Convention Annuale dell’Association for Behavioral and Cognitive Therapies (ABCT) ha raccolto e reso disponibili ai lettori alcuni articoli recenti per fare il punto sullo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED). Qui di seguito riportiamo una sintesi dei principali punti affrontati da questo importante editoriale per farli conoscere ai clinici e ai pazienti italiani.

Perché è il momento giusto per considerare l’evidenza della CBT-ED

Nel 2017 il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) del Regno Unito ha pubblicato le nuove linee guida per i disturbi dell’alimentazione, in sostituzione delle precedenti indicazioni del 2004. Le NICE, che riflettono le nuove evidenze sostanziali emerse nel decennio precedente, si sono concentrate sui risultati di studi clinici controllati, ma hanno anche considerato l’esperienza degli utenti, dei familiari, dei ricercatori e dei medici.

Secondo gli editorialisti dell’IJED dalle linee guida NICE emergono due risultati fondamentali. Il primo è l’uso del nuovo termine “CBT-ED” che comprende le diverse forme di CBT basate sull’evidenza per i disturbi dell’alimentazione. Questo termine è stato usato per includere tutte le forme di CBT basate sull’evidenza (ma non tutte le forme di CBT), perché non vi c’è alcuna chiara evidenza che “brand” specifici della CBT basata sull’evidenza siano migliori di altri.

Il secondo risultato rilevante è che la CBT-ED è stata indicata dalle NICE come l’unico approccio raccomandato per la maggior parte dei casi adulti (cioè il gruppo non sottopeso), oltre ad aver dimostrato di essere un’opzione praticabile per il trattamento degli adulti sottopeso. Inoltre, la versione della CBT-ED per gli adolescenti, sviluppata dal gruppo di Villa Garda (Dalle Grave & Cooper, 2016), è stata raccomandata come alternativa al trattamento basato sulla famiglia. Gli editorialisti dell’IJED concludono che la CBT-ED è passata davanti a molte altre terapie ed è diventata un chiaro trattamento di scelta. Ora, affermano gli editorialisti, è il momento di implementare questa conoscenza.

Il contenuto del numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders

La CBT-ED funziona?

Partendo dall’evidenza che la CBT sia un trattamento efficace, la revisione sistematica di Hay (2013) fornisce una base chiara per concludere che la CBT-ED è un approccio efficace per trattare i disturbi dell’alimentazione in età adulta, come è stato concluso dalle NICE in modo ancora più fermo. Tuttavia, la revisione indica anche le direzioni che la ricerca futura dovrà affrontare e la necessità di migliorare la nostra comprensione su come affrontare la gestione del peso nei pazienti che hanno l’obesità in comorbilità con il disturbo dell’alimentazione.

Possiamo permetterci la CBT-ED?

Un aspetto che le NICE tengono in grande considerazione è il rapporto costo-efficacia, perché la terapia perfetta non è di grande aiuto se ha un costo che non può essere accessibile ai pazienti. Fortunatamente, il recente lavoro di Le, Hay, Wade, Touyz e Mihalopoulos (in press) affronta proprio questo punto, dimostrando che la CBT-ED è un trattamento economico per molti dei nostri pazienti. Sembra anche possibile ottenere buoni risultati con la CBT-ED somministrata in gruppo (Jones & Clausen, 2013; Wade, Byrne, & Allen, 2017). Infine, sempre con gli interventi a basso costo in mente, Chithambo e Huey (2017) hanno dimostrato la potenzialità della CBT-ED come strumento di prevenzione, fornendo risultati confrontabili con quelli degli interventi basati sulla dissonanza cognitiva.

Efficacia del mondo reale

Naturalmente, una domanda cruciale è: “Ma funziona nel mondo reale?” La revisione sistematica di Hay (2013) ha infatti considerato le prove basate su una serie di studi randomizzati controllati (RCT) eseguiti in setting di ricerca. Fortunatamente esistono prove che si possa utilizzare la CBT-ED nella nostra pratica clinica quotidiana ottenendo risultati molto simili a quelli degli RCT. Ciò è stato dimostrato da due lavori selezionati dal numero virtuale dell’IJED che hanno valutato la CBT-ED applicata nei servizi specialistico dei disturbi dell’alimentazione di Villa Garda (Calugi et al., 2016) e di un centro inglese (Waller et al., 2014).

Un’altra domanda da affrontare è: “La CBT-ED è troppo ristretta nel suo focus perché non affronta la gamma più ampia di problemi psicologici che i nostri pazienti sperimentano?”. Anche in questo caso alcuni lavori citati nel numero virtuale mostrano che la CBT-ED ha effetti molto ampi perché, oltre a migliorare la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, riduce l’ansia, la depressione e altre problematiche psicologiche. Inoltre la CBT-ED sembra avere un impatto positivo sulla qualità della vita maggiore di molte altre terapie (Linardon e Brennan, 2017).

Come funziona la CBT-ED?

Quando si implementa una terapia per i disturbi dell’alimentazione è importante essere consapevoli del suo meccanismo d’azione e di cosa funziona. Diversi lavori nel numero virtuale dell’IJED hanno affrontano questo punto fondamentale. Ad esempio, è accertato che l’esposizione più prevenzione della risposta è uno strumento chiave quando si tratta l’anoressia nervosa e l’immagine corporea negativa, come riportato da Steinglass et al. (2014) e da Trottier, Carter, MacDonald, McFarlane e Olmsted (2015), rispettivamente. Questa, inoltre, sembra poter essere applicata in modo più ampio ed efficace se si utilizzano le sue forme più contemporanee della tecnica terapeutica, come riportato dall’articolo di Reilly, Anderson, Gorrell, Schaumberg e Anderson (2017).

Un altro aspetto da tenere in considerazione sono i tempi del cambiamento. Molti terapeuti tendono a prendersela comoda all’inizio, cercando di educare il paziente sul suo disturbo e sul trattamento. Il lavoro di Raykos, Watson, Fursland, Byrne e Nathan (2013) dimostra però che il cambiamento precoce nella CBT-ED ha un impatto clinico sostanziale, una scoperta che è stata ampiamente replicata in altri centri e con altre terapie (Linardon, Brennan e de la Piedad Garcia, 2016; Vall & Wade, 2015). Questi dati indicano che la CBT-ED dovrebbe essere applicata in modo intensivo sin dall’inizio, poiché il cambiamento dopo 4-5 settimane di terapia è un fattore predittivo di esito.

Il cambiamento precoce dei sintomi ha un altro impatto, ma diverso nella CBT-ED rispetto ad altre terapie. Graves et al. (2017) hanno dimostrato, per esempio, che l’assunzione molto in voga tra i clinici secondo cui l’alleanza terapeutica precoce guidi il cambiamento terapeutico nei disturbi dell’alimentazione potrebbe essere vera per altre terapie, ma non lo è per la CBT-ED. In quest’ultima terapia, infatti, l’elemento precoce più efficace sembra essere il cambiamento precoce dei sintomi, che a sua volta si traduce nello sviluppo di una migliore alleanza terapeutica.

Conclusioni

Gli editorialisti concludono focalizzando l’attenzione dei lettori sull’origine internazionali degli articoli inclusi nel numero virtuale dell’IJED che riflettono lo stato della nostra scienza clinica sullo stato della CBT-ED. Gli articoli infatti sono il frutto del lavoro di equipe di ricerca che provengono dall’Australia, dal Canada, dalla Danimarca, dall’Italia, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti d’America. Anche se questa non è stata una scelta strategica, gli editorialisti si augurano che i lettori condividano la loro opinione che questo numero virtuale dell’IJED rifletta la vera natura internazionale del giornale.

Gli articoli del numero virtuale dell’IJED si possono scaricare cliccando qui.

Quando la realtà diventa un’opinione. Fake news: che cosa sono e come prevenirle

Nelle ultime settimane, editorialisti ed esponenti delle diverse fazioni politiche italiane hanno preso posizioni differenti rispetto al fenomeno delle fake news, chi minimizzando, chi sottolineando il pericolo per la democrazia. Qui si cercherà di comprendere meglio cosa sono le fake news, perché sono un fenomeno così diffuso e quali sono i pericoli per la salute pubblica derivanti dalla loro diffusione.

Articolo di Paolo Moderato e Massimo Cesareo

IULM & IESCUM

 

La cronaca di fine anno ha portato l’attenzione su uno dei fenomeni di maggiore attualità degli ultimi tempi: le fake news o – più gergalmente – bufale. Il fenomeno è diventato dilagante in gran parte grazie alla diffusione sempre più massiccia delle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT) e in particolare al crescente uso, spesso parossistico, dei social network.

Nelle ultime settimane, editorialisti ed esponenti delle diverse fazioni politiche italiane hanno preso posizioni differenti rispetto al fenomeno, chi minimizzando, chi sottolineando il pericolo per la democrazia. Non ce ne occuperemo qui, ma rimandiamo il lettore interessato a tale disamina a un recente post pubblicato sull’ “Huffington Post”.

Qui si cercherà solo di comprendere meglio cosa sono le fake news, perché sono un fenomeno così diffuso e quali sono i pericoli per la salute pubblica derivanti dalla loro diffusione.

Cosa sono le fake news?

È definita tale ogni notizia inventata, menzognera, priva di qualsivoglia fondamento empirico ed evidenza che ne confermi la veridicità. Tale caratteristica distingue le fake news da un’altra categoria di informazioni, anch’esse estremamente diffuse e con un grande impatto sulle scelte individuali, ovvero tutte quelle notizie che – pur essendo corrette da un punto di vista formale – cioè non contengono falsità, sono più o meno intenzionalmente formulate in modo incompleto o decontestualizzato in modo tale da orientare le scelte individuali in certe direzioni. Ne sono un tipico esempio le riprese di eventi politici artatamente montate ed editate per la messa in onda.

Le fake news possono variare nella forma con la quale si presentano. Si passa da slogan evocativi a immagini d’impatto, ma molto più spesso si tratta di mix esplosivi di entrambi. Anche il contenuto delle fake news può variare notevolmente. Spesso fanno riferimento a diversi ambiti, da quello politico a quello sociale ed etico, andando a intercettare malcontento popolare su tematiche di attualità che suscitano forti reazioni di rabbia o indignazione. La recente vicenda dei sacchetti biodegradabili da 2 cent è solo l’ultimo, tristemente ridicolo, esempio.

Si tratta spesso di notizie acchiappa-click, nella migliore ipotesi genuinamente fondate su opinioni personali, nella peggiore – assai più spesso – intenzionalmente costruite per rafforzare idee che le persone già hanno rispetto a determinate tematiche, o per crearne di nuove, contribuendo ad alimentare teorie complottistiche e reazioni antisistema. Chi pubblica fake news spesso trae profitto dalla loro condivisione e, per questo motivo, le struttura in modo tale da far sì che si diffondano in breve tempo a livello capillare.

Come si diffondono?

Le dinamiche interne dei social e la loro stessa struttura orizzontale favoriscono tale meccanismo. All’interno dei social network, esiste uno scarso controllo sui contenuti delle notizie immesse e la loro condivisione richiede un basso costo da parte degli utenti, in termini di tempo e di energie.

Tale fenomeno attecchisce su un terreno fertile nel nostro Paese, che ha la percentuale minima di laureati in tutta l’Unione Europea, una forte tradizione antiscientifica e il più basso numero di lettori di libri e giornali. In Italia, inoltre, più del 40% della popolazione è classificata come analfabeta funzionale, ovvero – pur essendo tecnicamente capace di leggere e scrivere – risulta incapace di comprendere ciò che legge. La vicenda dei già citati sacchetti dimostra anche difficoltà a far di conto, moltiplicazioni semplici intendiamo, ed equivalenze elementari (1€=100 cent).

Questo aiuta a comprendere come mai le fake news si diffondano in maniera così rapida sebbene siano, di norma, relativamente semplici da smascherare per una persona di media cultura.

Quali sono i meccanismi psicologici che favoriscono la diffusione delle fake news?

Il fenomeno delle fake news poggia su meccanismi psicologici ben noti agli studiosi del comportamento e dei quali siamo tutti, più o meno consapevolmente, vittime.

Un supporto nella comprensione di tali meccanismi ce lo fornisce la Behavioral Economics, disciplina diffusasi con particolare vigore a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso – grazie al lavoro di due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia nel 2002 – e che ha recentemente tratto nuova linfa grazie al riconoscimento ottenuto da Richard Thaler, vincitore anch’egli del Premio Nobel per l’Economia solo poche settimane fa.

La Behavioral Economics studia i processi decisionali messi in atto dalle persone nel momento in cui devono prendere decisioni e compiere scelte, in modo particolare in condizioni di incertezza.

A tal proposito può essere utile riprendere il pensiero di Daniel Kahneman, che nel suo libro “Pensieri Lenti e Veloci” (2012) descrive in modo metaforico due sistemi che convivono nel nostro cervello, definiti Sistema 1 e Sistema 2.

Il primo è un sistema automatico, molto veloce ma poco preciso, utile per prendere decisioni rapide. Il secondo è invece un sistema riflessivo, molto accurato ma relativamente lento e “pigro”, deputato al controllo delle informazioni.

Nella maggior parte dei casi i due sistemi lavorano in sinergia e in modo ottimale. Le informazioni in entrata vengono rapidamente elaborate dal Sistema 1 e – qualora palesemente errate o incoerenti con l’esperienza pregressa – rielaborate in modo più dettagliato dal Sistema 2. Tuttavia in alcune occasioni i due sistemi entrano in conflitto.

Riportando tale metaforica distinzione nella realtà quotidiana, è possibile constatare come in molte occasioni le persone valutino – per semplicità o necessità – in maniera veloce e automatica le informazioni in loro possesso. Tali rapide valutazioni, definite euristiche, hanno avuto una funzione adattativa per la nostra specie e tuttavia possono portare talvolta a scelte sistematicamente distorte, ovvero bias.

Durante la loro lunga e proficua collaborazione, Kahneman e Tversky hanno cercato di mappare quelle che sono le principali euristiche e i bias che influenzano le scelte.

In che modo questi meccanismi favoriscono la diffusione delle fake news?

Prendiamo come esempio quello che viene definito bias di conferma. La letteratura mostra come le persone tendano a cercare informazioni che confermino le proprie ipotesi iniziali su determinate tematiche. Ciò significa che, se le idee di partenza risultano distorte, tenderanno a trovare conferma. È facile comprendere come, nell’era digitale, chi sviluppa per diverse ragioni opinioni contrastanti con la realtà dei fatti – per esperienza personale, per senso comune, per appartenenza a un gruppo – troverà con molta facilità conferma nel web. Nell’era dei big data, peraltro, le nostre ricerche vengono costantemente analizzate e ci vengono suggerite notizie in linea con queste ultime. Si crea, in tal modo, un circolo vizioso che si autoalimenta: pertanto, più cerchiamo conferma di una nostra opinione, più troveremo notizie che la confermano. Inoltre, si favorisce lo sviluppo di sacche di disinformazione dalle quali è difficile uscire senza un controllo esterno.

Purtroppo, questo è solo un esempio che aiuta a comprendere come le fake news possano proliferare. Esistono infatti molti altri meccanismi simili che ne favoriscono la diffusione e la possibilità di condividere con pochi click le informazioni presenti sui social fa sì che il controllo del Sistema 2 venga facilmente bypassato e che il Sistema 1 prenda il sopravvento.

Quali sono i pericoli nella diffusione di fake news?

La diffusione di fake news può avere un impatto fondamentale sull’opinione pubblica e sulle scelte individuali, con ripercussioni inevitabili sul benessere individuale e collettivo. È chiaro come tale problema diventi di indiscussa priorità quando il pericolo della loro diffusione può avere un impatto sulla salute pubblica.

Alcuni esempi possono esserci utili per comprendere la portata del problema: pensiamo alle ultime evoluzioni in tema di vaccinazioni.

Da un lato c’è chi diffonde dati fondati su evidenze scientifiche, come Roberto Burioni – Ordinario di Microbiologia e Virologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – che da mesi si batte per promuovere una corretta informazione su tale tematica mostrando come l’impatto dei vaccini sia stato e sia tuttora di fondamentale importanza per debellare malattie ed epidemie fatali fino a pochi decenni fa.

Dall’altro una schiera di antagonisti, irragionevoli detrattori dei vaccini, composta da sedicenti scienziati, sedicenti giornalisti, millantatori vari convinti, in modo più o meno genuino, della loro pericolosità per la salute individuale.

Gli antivax esistono dal giorno dopo che sono stati scoperti e utilizzati i vaccini come ben spiega Andrea Grignolio nel suo “Chi ha paura dei vaccini” (2016): ma si trattava di piccole minoranze, che rimanevano chiuse nel loro piccolo mondo delirante.

Oggi, invece, ci sono strumenti di propagazione molto efficienti, grazie ai quali è possibile diffondere informazioni, del tutto prive di fondamento empirico, che seminano e ingenerano dubbi, che trovano terreno fertile nella popolazione, non solo nella sopracitata categoria di analfabeti funzionali. Di fatto, il recente obbligo di vaccinazione imposto per tutelare la salute pubblica ha provocato forti reazioni in questa seconda schiera e diverse persone hanno deciso di non far seguire ai propri figli la profilassi vaccinale, mettendo allo stesso tempo in pericolo la salute dei loro stessi figli e ancor più quella di coloro per i quali i vaccini rappresentano realmente un rischio e che per tale ragione non possono vaccinarsi, pur volendo.

Un altro caso in cui le fake news si traducono in un pericolo in termini di salute pubblica riguarda le medicine cosiddette alternative: “Metodo Hamer”, “Metodo Di Bella”, “Metodo Stamina”, “Medicina omeopatica”. Si tratta di sedicenti metodi di cura alternativi alla medicina occidentale basata su evidenze scientifiche, privi di validità, come dimostra anche la recentissima scomparsa di Sofia, la bambina farfalla simbolo e vittima dell’inefficacia della cura proposta da Vannoni e sostenuta da una popolare trasmissione televisiva.

Purtroppo, la proposta di tali cure attecchisce sulle persone vulnerabili, come è chi comprensibilmente soffre vedendo i propri cari provati da gravi malattie e spera di trovare in tali metodi una scialuppa di salvataggio destinata purtroppo a portarli a picco. Posta al vaglio della conferma scientifica, l’efficacia di tali metodi non ha trovato alcun supporto. Tuttavia, complici alcuni programmi televisivi che troppo spesso sulla sofferenza costruiscono la propria audience, questi metodi si sono diffusi con conseguenze disastrose, in diversi casi fatali per chi ne ha usufruito.

Un discorso simile può esser fatto per l’omeopatia, un trattamento da molti considerato alla stregua della medicina, sebbene non esistano prove della sua efficacia se non quella derivante dall’effetto placebo, effetto che può essere ottenuto gratuitamente senza ricorrere a prodotti costosi. Il pericolo, anche in questo caso, è quello del loro utilizzo in situazioni che richiedono invece un intervento medico tempestivo, per scongiurare fatali complicazioni, come nel caso del piccolo Francesco, il bambino di Ancona curato con prodotti omeopatici per un’otite e purtroppo deceduto, con grandi sofferenze, a causa delle complicazioni derivanti dall’infiammazione.

Come prevenirle?

Non sempre e non tutti i media del nostro paese offrono spazi a scienziati e ricercatori competenti in precisi ambiti, affinché possano condividere con gli utenti i risultati dei loro studi. Peraltro, accade sovente di veder ospiti dello stesso show televisivo scienziati e personaggi del mondo dello spettacolo, impegnati a dibattere – sullo stesso piano – su temi delicati: cure mediche, vaccinazioni, regimi alimentari, ecc. Il cocktail creato dagli scarsi strumenti culturali di quella fetta di popolazione analfabeta funzionale che assiste agli show e dall’intenzionale diffusione di contenuti non provenienti da fonti competenti, unito alla volontà di ottenere ampia audience, si rivela il substrato ideale per la proliferazione di fake news.

Le scienze del comportamento da anni lavorano per sviluppare strumenti utili per favorire pratiche funzionali al benessere individuale e collettivo. Una delle caratteristiche dei bias descritti dalla Behavioral Economics è la loro sistematicità. Sono dunque ricorrenti in certe situazioni ed è pertanto possibile prevenirli o contrastarne gli effetti.

Il Nudge – programma di policy pubbliche, sviluppatosi negli anni 2000 grazie al lavoro di Cass Sunstein, amministratore dell’Office of Information and Regulatory Affairs (OIRA), dal 2009 al 2012, durante l’Amministrazione di Barack Obama, e dal sopracitato Richard Thaler – si muove proprio in questa direzione. L’obiettivo degli interventi di nudging è quello di sviluppare strumenti utili per favorire il benessere e ridurre comportamenti problematici, senza l’utilizzo di punizioni o incentivi economici.

Per contrastare la diffusione delle fake news è possibile agire su più leve. Innanzitutto sarebbe utile comprendere più a fondo quali bias siano coinvolti nella loro diffusione. In tal modo, sarebbe possibile semplificarne il processo di riconoscimento da parte degli individui rendendole più facilmente smascherabili anche da chi purtroppo non ha conoscenze sufficienti per farlo. Sarebbe, inoltre, utile e necessario creare meccanismi che rendano più costoso in termini di tempo ed energie la condivisione delle stesse rendendo meno diretto il passaggio tra la lettura di una notizia e la sua condivisione. La psicologia, quella seria, avrebbe molto da dire e da fare.

Le malattie infettive attraverso le opere degli artisti

Fin dall’antichità, la Malattia Infettiva è stata interpretata come un segno divino, una punizione inflitta all’uomo come castigo per le colpe commesse.
I richiami al tema si moltiplicano in campo letterario, dove gli autori lo interpretano in rapporto alla società e alla vita.

 

La malattia infettiva rappresentata nelle opere letterarie

Uno scorcio interessante della peste che colpì Milano nel 1600 lo ritroviamo, ad esempio, in tre capitoli dei Promessi sposi da Alessandro Manzoni. Nelle pagine del grande romanziere lombardo il morbo è qualcosa di ancestrale, di irreversibile, che giunge a punire e condannare un’intera comunità.

Ne La Peste, Albert Camus utilizza invece lo spunto del male per analizzare la condizione di solitudine, di abbandono, di morte interiore dell’individuo nel vivere sociale. Se andiamo indietro di qualche secolo, ci tocca la rappresentazione poetica e straziante della tubercolosi compiuta da Alexandre Dumas figlio, nel dipingere il personaggio di Marguerite Gautier de La dama delle camelie.
Ma torniamo al Novecento con Franz Kafka, con l’angoscia della sue Metamorfosi, un fenomeno che modifica il corpo, stravolgendolo, piagandolo con le sue stimmate; o ancora con La Montagna incantata di Thomas Mann, altro capolavoro inarrivabile nel descrivere la condizione dei toccati dal morbo, all’interno della produttività del tempo.
Soffermiamoci su alcuni artisti che in epoca contemporanea hanno raccontato la malattia, mettendola al centro delle proprie opere.

La malattia infettiva rappresentata da Kafka

Franz Kafka nasce a Praga da ebrei tedeschi. La famiglia è di cultura germanica, ma l’appartenenza al ghetto la esclude dal rapporto con la minoranza tedesca di Praga. Il padre è un uomo tirannico ed autoritario: “di fronte all’intolleranza e alla tirannia dei miei genitori, vivo nella mia famiglia più estraneo di uno straniero”.

Kafka si sentirà sempre doppiamente straniero: nella sua famiglia e nella sua città. Quando si laurea in Giurisprudenza, si manifestano i primi segni della tubercolosi polmonare che sarà causa della morte prematura all’età di quarantuno anni.
Assunto da un istituto locale, si occupa di Assicurazioni per Infortuni sul Lavoro, impiego che gli consentirà di avere spazi da dedicare alla scrittura.

I sintomi che gli avvelenano la vita sono: insonnia, acufeni, astenia e disturbi neurovegetativi. Dopo pochi anni è costretto al ricovero presso una casa di cura specializzata in malattie del sistema nervoso e patologie polmonari.
E’ tormentato da cefalee e profonda depressione, al punto da sfiorare il suicidio. Descrive la prima volta che la malattia tubercolare gli procura un’emottisi:
Le 4 del mattino. Mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere la luce. E così comincia. E pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente se non l’avevo aperta. Ecco, dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi.

Lo scrittore definisce la sua condizione una “malattia spirituale“, giacché è qualcosa che tocca in profondità la sua dimensione esistenziale, e probabilmente anche il nodo nevralgico del rapporto stesso con la scrittura e l’arte.

Cinque anni prima aveva conosciuto Felice Baver con la quale aveva intrattenuto una fitta corrispondenza. Ma presto incontrerà Julia Wolryeck, lasciata dopo qualche mese per Milena Lesenka. I suoi amori sono il riflesso di una grande vulnerabilità.
Kafka ha paura di perdere la libertà ma nello stesso tempo di rimanere solo e soccombere alla morte. Intanto, la tubercolosi si aggrava, con la comparsa di febbre elevata e tosse. Viene ricoverato a Vienna ma il processo tubercolare ha ormai invaso anche la laringe. Le condizioni generali sono talmente compromesse che Kafka muore dopo pochi mesi.

Il rapporto tra la vita di Kafka e l’opera è strettissimo.
Lo scrittore è figlio di ebrei inseriti in ambiente germanico, quindi in parte staccati dalle tradizioni originarie e sostanzialmente non accettati.
In secondo luogo, pesa nello sviluppo caratteriale del giovane il rapporto con la famiglia, specialmente con il padre raccontato mirabilmente in Lettera al padre.

Si è detto che nella sua opera la malattia mentale è ben rappresentata, a discapito del risvolto fisico. Niente di più sbagliato. L’approccio ai romanzi di Kafka non può prescindere da un’indagine accurata dei suoi mali fisici. L’autore non chiama mai per nome il suo male, quasi volesse staccarlo da una contingenza reale, concreta, per farlo diventare qualcosa di metafisico.

E anche se non si parla mai di tubercolosi, l’intera opera è la traduzione del senso di estraneità rispetto al mondo esterno, del desiderio e al tempo stesso dell’impossibilità di vivere la vita quotidiana come chiunque e di partecipare al godimento delle relazioni.
Emerge il problema del corpo come elemento estraneo da sé, una condizione che nel racconto Metamorfosi condanna il protagonista a mutarsi in un orribile insetto.

Gregor, il protagonista del racconto, è un malato cronico, e la sorella che si prende cura di lui viene designata col termine di “schwester” che indica anche “infermiera”.

Il parallelismo con l’autore è quasi immediato; nel racconto è possibile, infatti, notare i mutamenti che una grave malattia induce nel corpo, con le conseguenti difficoltà nell’espletare le attività quotidiane, le paure nel rapporto con gli altri, nella vita sociale ed affettiva, la consapevolezza di essere divenuto “un parassita” agli occhi degli altri. Alla condizione fisica avvertita come ripugnante si sommano sensi di colpa e vergogna per il proprio stato, per l’intensa astenia e l’impossibilità di mantenere la famiglia.
Spezzati i rapporti familiari, perduto il lavoro e costretto a vivere rinchiuso e nascosto, il protagonista è votato alla morte.

L’angoscia e la sofferenza nelle opere di Munch

Gli spettri della parola e dell’angoscia di questo autore diventano, invece, nell’arte di Edvard Munch figure terrificanti, simili a sonnambuli dai tratti di cadavere.
Munch ha saputo estrarre dal suo tormentato flusso interiore forme e fantasmi di foggia precisa: persone e ambienti che come ombre o aloni si dileguano dall’orizzonte, e che sebbene esistenti versano in condizioni di evidente agonia.
Il pittore nasce in Norvegia, è il secondogenito di 5 figli. La madre muore precocemente di tubercolosi, il padre vive da recluso per il precipitare di un disturbo depressivo con ossessioni religiose.

Nel 1885 ha ventidue anni e per la prima volta, sfruttando una borsa di studio, si allontana dalla Norvegia per visitare Anversa e Parigi. Nasce in quel modo un’erranza senza fine che lo condurrà a viaggiare da una nazione all’altra ma anche a dividersi in patria tra più residenze pur di allontanarsi dalla capitale Oslo. Lì lo incalza la sensazione intollerabile di essere perseguitato dagli altri. La stessa inquietudine caratterizzerà le sue vicende amorose, caratterizzate da un’alternanza di legami e rotture, fiducia e disperazione (da “La mente spiegata da Edvard Munch” di M. Alessandrini).
Scrive a 77 anni: «Ho vissuto perlopiù senza dimora, sentendomi braccato, a causa dell’atteggiamento aggressivo ed irresponsabile di molti. Ho dovuto spostarmi da un luogo all’altro per trovare un po’ di pace […] l’ho già detto in precedenza – io vivo in carrozze ferroviarie e nella mia automobile».

L’intera vicenda di questo artista è pervasa di paura e rabbia. Con la sua arte ha reso evidenti schemi mentali e meccanismi patologici esponendoli a nudo, e consegnando le sue confessioni al Diario ci ha mostrato le dinamiche di sviluppi traumatici:
«Malattia, pazzia e morte sono gli angeli neri che hanno attorniato la mia culla. Mia madre è morta prematuramente – da lei ho ereditato i semi della tisi. Mio padre è stato ossessivamente religioso – sfiorando la follia. Per generazioni e generazioni è stato questo il fato della sua famiglia. Gli angeli del terrore – dolore e morte – mi sono rimasti accanto dal giorno della nascita. Mi hanno seguito mentre giocavo – mi hanno seguito ovunque. Mi hanno seguito nel sole di primavera e nello splendore dell’estate».

Più volte il pittore racconta di come sia nata in lui l’idea dell’Urlo, il suo dipinto celebre che rappresenta il manifestarsi di un attacco di panico: «Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come fiamme coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura».

I cieli rosso sangue del dipinto ci ricollegano immediatamente ai traumi del pittore, tra cui quello del sangue è sicuramente il più significativo. Diversi fenomeni emorragici costellano la sua esistenza. Nell’infanzia il suo apparato respiratorio è sede di processi asmatici costringendolo a casa, dove riceve le visite di pochi amici. Subito dopo, agli esordi dell’adolescenza, compaiono emottisi e la sopravvivenza cade sotto la minaccia della tubercolosi: «Ricordo una vigilia di Natale all’età di 13 anni. Giacevo a letto – stillando sangue dalla bocca – la febbre infuriava nel mio corpo – dentro di me ribolliva il terrore. Credevo fosse giunto il momento in cui sarei stato giudicato – e che avrei subito una condanna per l’eternità».

L’artista dipinge esperienze private e personali, facendo della propria vita la sostanza in cui attingere e da tramutare in arte. E’ quanto accade nell’eseguire La Bambina Malata, il dipinto- rievocazione della perdita della sorellina, la piccola Sophie, un anno più grande del pittore e uccisa dalla tubercolosi a soli quindici anni.

Munch lo dipinge in occasione di un viaggio a Parigi nel 1855 e lo espone l’anno seguente ma l’opera costituisce da subito l’innesco di una serie di scandali. All’annuale Salone d’Autunno di Oslo, l’aspetto “non finito” e la “trasfigurazione dell’immagine”, sollevano critiche e derisioni.
Il pittore considera quel quadro uno dei suoi ”dipinti dell’anima” e sulla scorta del filosofo Kierkegaard identifica nella propria vicenda esistenziale, l’unico strumento tramite cui creare arte. Spiega infatti che, intrapreso il lavoro, gli accadde a più riprese di piangere e nell’impossibilità di contenersi, decise di trasfondere in immagine anche il pianto, raffigurando l’effetto prodotto dalle lacrime sul proprio sguardo. «Mi rendevo conto che le mie stesse ciglia contribuivano all’impressione che avevo dell’immagine. Nel dipinto vi ho fatto riferimento sotto forma di ombre».
Lui stesso precisa: «Ho dipinto impressioni dell’infanzia, confusi ricordi di quei tempi».

Munch, quasi fosse un terapeuta esperto, addestrato alla Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci fornisce la chiave per comprendere i suoi vissuti traumatici rappresentando episodi narrativi localizzati nel tempo e nello spazio, e riportando i dettagli dell’esperienza soggettiva vissuta. Così accade che nei suoi dipinti le tracce emotive possiedano la stessa natura dei sogni, rivestendo sensazioni a vortice, gorghi sinestetici che danno una parvenza di realtà ma sono riproduzioni di memorie soggettive: «Dipingendo i colori, le linee e le forme che riattingevo da un’epoca mossa dall’emozione, ero in grado come un fonografo di riaccendere quel preciso stato d’animo emotivo».
«Per La bambina malata… sono stato ovviamente condizionato dalle mie esperienze infantili e familiari […] Io credo che nessuno dei pittori contemporanei abbia sperimentato l’agonia del letto di morte cosi da vicino come è accaduto a me da piccolo. […] La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto con il mondo. Si potrebbe anche considerarlo egoismo. Comunque sia, ho sempre pensato che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a far luce nella loro ricerca di verità».

Cambiano i secoli e cambiano i volti delle malattie infettive ma non cambia l’impatto che queste hanno sulla vita dei singoli individui e su intere comunità.

La malattia nelle opere di Pier Vittorio Tondelli

Pier Vittorio Tondelli nasce nel 1955 a Correggio.
Proviene da una famiglia della provincia italiana.
Il suo primo libro Altri libertini, pubblicato da Feltrinelli nel gennaio del 1980 è processato da un magistrato per “atti di oscenità”.
Esso viene definito “opera luridamente blasfema” e lo scandalo è enorme, facendo del libro un vero e proprio caso letterario. Tondelli diventa non soltanto un nome della letteratura, ma anche un simbolo della condizione omosessuale, che racconta senza falsi pudori, con un realismo e un’intensità che commuovono.

Il giovane Pier Vittorio incomincia a leggere alla biblioteca di Correggio, frequenta il liceo classico e milita in associazioni cattoliche. Poi si iscrive al Dams di Bologna, negli anni in cui vi insegnava Umberto Eco.
Con l’uscita di “altri libertini”, Tondelli diventa il riferimento di tutta una generazione, colui che ha avuto il coraggio di dar voce alla “fauna” di alternativi da sempre ai margini della cultura e del pensiero: femministe, donne sole, travestiti, tossici. Figure alle quali conferisce forza e dignità, che fin lì non avevano mai avuto accesso al mondo della letteratura.

E’ senza dubbio il primo autore contemporaneo a calare nella scrittura autobiografia, reportage e sociologia, fornendo una fotografia lucida della realtà e nuda da ogni pregiudizio. La costruzione letteraria del giovane Tondelli è fortemente definita, ostenta una gergalità bukowskiana, una fisicità rock tendente alla spettacolarizzazione, e contiene riferimenti a Kerouac.
Dopo qualche anno, ci sembra di assistere ad un paradosso. Lo scrittore, che aveva dimostrato una piena sicurezza in se stesso e nel proprio uso della narrativa, sembra smarrirsi dichiarando il suo desiderio di scrivere solo per dieci, venti persone al massimo, comunicando con chi è davvero in grado di comprenderlo.

Leggendo il suo romanzo successivo, Camere separate, si scopre il suo vero carattere di persona timida, portata all’introspezione, con una forte vena mistico-religiosa, e un gran bisogno di riservatezza e quiete.
Con il senno di poi, capiremo che Camere separate è un romanzo intimo, d’addio, un faccia a faccia con la morte incombente, un puzzle di tessere emotive in cui è Tondelli stesso a parlare.

Il libro contiene pagine di straordinaria bellezza e gioielli di introspezione sulla convivenza con l’Aids e con l’idea della morte, senza che tuttavia esse vengano mai nominate espressamente.
In un passaggio rivelatore di Camere separate, Thomas dice a Leo (l’alter ego di Tondelli): «Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena».

Le modalità stesse della sua fine, l’insistenza della famiglia nel negare che lo scrittore sia morto a causa della malattia, confermano una volta di più la difficoltà che l’autore ebbe nel render pubblico un “privato” percepito come “scandaloso”.
Ma non si tratta di un caso unico. Intorno all’Aids il tabù fu pressoché universale, e così come già detto dallo scrittore Dall’Orto, ufficialmente Michel Foucault muore di “setticemia del sistema nervoso”, Baldwin di “tumore alla pelle”, Giuseppe Caputo di tumore “alle ossa”. Nel caso di Tondelli, secondo quanto inizialmente dichiarato, lo scrittore sarebbe morto di “polmonite bilaterale”.
La sua scomparsa sembra ancora ricordarci che l’Aids non è una malattia come tante, ma qualcosa di simile a una stimmate, che uccide non soltanto fisicamente, ma con l’isolamento e il silenzio.

 

Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) e trance dissociativa da videoterminale

Il Gioco d’Azzardo Patologico, al pari delle altre forme di addiction, è considerato l’espressione di un disagio psichico profondo che ha bisogno di essere ascoltato e decodificato. Anche se ciascuna tipologia di addiction ha aspetti specifici, definiti e particolari, tutte hanno in comune il desiderio di fuga dalla realtà ritenuta come inaccettabile e dall’incapacità di gestire e tollerare la sofferenza psichica che ne deriva.

Tropea Francesca – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione: uno sguardo al fenomeno del Gioco d’Azzardo Patologico

 Nell’ultimo decennio, accanto allo sviluppo delle nuove tecnologie, c’è il rischio nei soggetti con maggiori vulnerabilità di sviluppare una forma di dipendenza molto simile alla dipendenza da sostanze (soprattutto quelle ad alto rischio di Craving come la cocaina o alcol) a causa di un’estensione di quello che prima era semplicemente il Gioco d’Azzardo: il Gambling on-line.

Attualmente il Gioco d’Azzardo Patologico – (GAP) è considerato, insieme ad altre dipendenze quali la dipendenza dal sesso, dal lavoro eccessivo (Workhaolic), da Internet, etc. una forma di dipendenza comportamentale o New Addiction.

Il termine inglese “addiction” deriva dal termine latino addictus. Il termine emerse inizialmente in ambito scientifico per descrivere una condizione di dipendenza fisica e mentale indotta dall’uso di droghe. Attualmente il termine indica uno stato di “dipendenza patologica” da distinguere dalla dependance: per dipendenza patologica o addiction, si intende una condizione generale in cui è contingente la dipendenza psicologica da una sostanza, da un comportamento o da un oggetto senza la quale il soggetto sperimenta sintomi fisiologici d’astinenza. Per dependance, si intende la dipendenza fisica o chimica tale per cui è lo stesso organismo che, una volta assuefatto, necessita della sostanza per funzionare.

Il Gioco d’Azzardo Patologico, al pari delle altre forme di addiction, è considerato l’espressione di un disagio psichico profondo che ha bisogno di essere ascoltato e decodificato. Anche se ciascuna tipologia di addiction ha aspetti specifici, definiti e particolari, tutte hanno in comune il desiderio di fuga dalla realtà ritenuta come inaccettabile e dall’incapacità di gestire e tollerare la sofferenza psichica che ne deriva. A volte, gli individui che sperimento questa sofferenza, rinunciano più o meno consapevolmente alla capacità di riflettere, pensare criticamente e abbandonarsi ad uno stato di forte euforia e momentanea piacevolezza ricercati sempre più frequentemente e per un tempo maggiore attraverso la ricerca compulsiva del comportamento patologico (craving). Il Gioco d’Azzardo, se viene utilizzato a lungo per scopo compensatorio o per fuga, porta chi ne usufruisce a diventare “vittima del gioco”. Le vittime designate sarebbero individui che vengono risucchiati in un vortice di pensieri ossessivi legati al gioco con relativa messa in atto di comportamenti (compulsione) e dai quali non riescono più ad uscire. Tutti possono esserne coinvolti, adolescenti, perlopiù tramite il Gioco d’Azzardo on-line, i più anziani che, annoiati dalla solita routine e a volte emarginati dalla vita attiva della società, spendono i risparmi di una vita al Gioco del Lotto e alle Slot- Machines.

Il Gioco d’Azzardo Patologico influenza il modo di vedere la realtà, distorcendo in maniera più o meno grave l’esperienza della persona che ne è vittima. Il principio di realtà viene meno in quanto l’attrazione e il bisogno di soddisfare l’impulso a giocare diviene progressivamente più intenso, tale da comportare una totale perdita di controllo ed è finalizzato a perseguire il comportamento ormai abitudinario e ripetitivo, anche in presenza di ostacoli e pericoli contingenti (Guerreschi, 2016).

Tuttavia va fatta una precisazione: il Gioco d’Azzardo Patologico si distingue in modo netto dal Gioco d’Azzardo socialmente accettato come ad esempio il Gioco d’Azzardo professionistico. Quest’ultimo infatti non provoca ritiro sociale, dura per un tempo determinato e con perdite proporzionate alle possibilità economiche dell’individuo coinvolto, non provoca danni fisici, psicologici e interpersonali (Serpelloni, 2013).

Le conseguenze psico-fisiche e sociali del Gioco d’Azzardo Patologico

Il Gioco d’Azzardo Patologico è una dipendenza patologica, oltre ad essere una vera e propria malattia, in quanto va a soddisfare tutti e quattro i criteri necessari affinché sia considerata tale: si presentano alterazioni del normale funzionamento fisiologico e psichico dell’organismo, crea un certo grado di sofferenza fisica e psichica; risulta derivante da un insieme di fattori eziopatogenetici; ha un’evidenza fenomenica -cioè è costituita da segni e sintomi identificabili-, necessita di un intervento in quanto essendo un “processo patologico” che tende ad avere un evoluzione negativa richiede una specifica diagnosi, cura e monitoraggio costante.

Le attività che contraddistinguono il giocatore d’azzardo patologico implicano il rischio di perdere qualcosa di valore in base al risultato di un evento in cui la probabilità di vincere o perdere è determinata dal caso. Le modalità di gioco possono essere individuali e sociali ma ogni attività di gioco ha caratteristiche peculiari che possono aumentare o diminuire i fattori di rischio e che possono influire sullo sviluppo delle problematiche associate alla patologia stessa, sul contesto sociale e interpersonale (Jon, E. Grant Marc N. Potenza., 2010)

Il Gioco d’Azzardo Patologico provoca ingenti danni a livello fisico e mentale ed esperienze di dissociazione e alienazione che possono diventare un meccanismo difensivo quasi automatico del dipendente da utilizzare per far fronte anche alle più piccole sofferenze che potrebbero presentarsi nella vita di tutti i giorni. Esso, così come le altre addictions, può modificare l’umore e le sensazioni e spesso, purtroppo, questo ne diventa lo scopo principale. Esso, infatti, non si insidia casualmente nella vita delle persone, ma è una risposta disfunzionale a eventi stressanti della vita o a periodi critici dello sviluppo in cui ci si può sentire sopraffatti da sensazioni ed emozioni intense o ingestibili.

Nella società odierna, con l’avvento delle nuove tecnologie, si assiste in generale ad un rimodellamento della logica e dei processi di pensiero: l’uomo, a causa dell’enorme e improvviso sviluppo delle tecnologie, si è trovato ad essere soggetto passivo di queste anche se illusoriamente convinto di esserne parte attiva. L’uso indiscriminato della rete per giocare on-line ne è un esempio, esso infatti induce spesso negli individui la perdita della capacità critica, danneggia la capacità di attenzione verso determinati stimoli sensoriali e incide negativamente anche sulla capacità di riflessione e concentrazione.

La trance dissociativa nel decorso sintomatologico del Gioco d’Azzardo Patologico

Molte ricerche rilevanti in questo ambito sono state svolte da Cantelmi che, insieme ai suoi collaboratori, nel 2000 iniziò a parlare per la prima volta di quella che viene definita “Internet Related Psychopathology”.

Egli spiegò le psicopatologie ricollegabili all’uso eccessivo e prolungato di Internet attraverso un modello che presume una realtà virtuale caratterizzata dal crescente sviluppo del grado di dipendenza da essa. Infatti il cervello, più è connesso più ha bisogno di rimanere connesso. Alla base di ciò vi è un meccanismo neuro-biologico chiamato di “potenziamento a lungo termine”, cardine del funzionamento di tutte le dipendenze in cui un circuito neuronale più viene stimolato e più viene rinforzato e ha bisogno di essere “nutrito”.

Successivamente, lo psichiatra Caretti (2000) introdusse per la prima volta il concetto di Trance Dissociativa da Videoterminale, descrivendola come “uno stato involontario di trance legato alla dipendenza patologica del computer e caratterizzato da un’alterazione temporanea marcata dello stato di coscienza oppure perdita del senso abituale dell’identità personale con rimpiazzamento o no di un’identità alternativa che influenza e dissolve l’identità abituale”. Egli ne individua tre stadi evolutivi costituiti da: una fase di dipendenza caratterizzata dalla simbiosi ed una sorta di rapporto fusionale con l’oggetto virtuale, la presenza di una relazione ossessivo-compulsiva con il computer, confusione e sostituzione della realtà virtuale con quella vera verso cui il soggetto attua tendenze fobiche; fase della regressione caratterizzata dalla sostituzione di relazioni reali con quelle immaginarie; infine la fase della dissociazione in cui è presente una consistente fragilità dei confini del sé, una diffusione del senso di identità in identità virtuali, depersonalizzazione, esperienze sensoriali bizzarre e percezioni particolari dovute alla perdita dei confini spazio-temporali tipiche del cyberspazio, tendenza all’alienazione, derealizzazione e fuga dalla realtà fino ad un ritorno ad una condizione di normalità accompagnata da amnesia.

Inoltre durante quest’ultima fase di trance si possono riscontrare, attraverso l’uso dell’EEG, un’alterazione dello stato di coscienza molto simile a quella del sonno e contemporaneamente delle onde elettroencefaliche tipiche dello stato di veglia (Lambiase, 2014).

La Trance dissociativa può essere uno dei sintomi più gravi, dal punto di vista psichico, che si può sviluppare nel giocatore d’azzardo patologico che trascorre un periodo di tempo prolungato davanti al monitor di un computer o slot-machine. Viene menzionato dal DSM-IV come Disturbo da Trance Dissociativa è descritto come uno stato involontario di trance non corrispondente e non previsto dalla normale cultura a cui l’individuo appartiene. La trance dissociativa causa un disagio grave notevole ed è perlopiù conseguente all’immersione in una realtà virtuale dovuta all’uso prolungato di video-games, Pc e Slot- machines tipici nella dipendenza da Internet e Gioco d’azzardo Compulsivo.

I sintomi comuni della trance dissociativa sono la derealizzazione e la depersonalizzazione, l’alterazione marcata e momentanea dello stato di coscienza, la perdita del senso d’identità che può essere sostituita, demolita o influenzata da un’altra identità alternativa.

Alcuni studiosi ritengono che ci siano determinate condizioni ambientali che favorirebbero la comparsa dei fenomeni dissociativi, come il basso livello di presenza sociale e ritiro autistico e la sempre maggiore complessità della realtà virtuale in cui il soggetto è immerso.

La relazione terapeutica “complicata”: alcuni casi clinici

 Le conseguenze causate dal trascorrere gran parte del tempo di fronte ad un monitor possono, inoltre, incidere sul rapporto tra paziente e terapeuta in caso di un eventuale trattamento. A tal proposito i casi clinici descritti da Lingiardi (2008), descrivono l’impatto che ha il cyberspazio nella relazione analitica. In tal senso Lingiardi presenta due storie analitiche: la prima storia descrive il caso di una paziente che, ad un certo momento dell’analisi inizia ad inviare e-mail al terapeuta, quasi a voler costruire un setting terapeutico parallelo. Lingiardi descrive il fatto che, la relazione tra terapeuta e paziente, abbia subito una sorta di “irruzione” da e-mail le quali hanno superato i confini della relazione stessa. Il secondo caso riportato riguarda, invece, il caso di un ragazzo venticinquenne affetto da personalità schizoide, il quale utilizza il cyberspazio come “cura” dalla sofferenza. Egli sentirebbe il bisogno di crearsi dei momenti di dissociazione dalla realtà in quanto questi sono vissuti dallo stesso come dei momenti di “pace immobile”, che possono assumere progressivamente le caratteristiche di una trance dissociativa. Il paziente descrive questo momento come “un momento di stop dalla realtà” e la sensazione di avere “l’anima sospesa”, uno stato fra sonno e veglia. In quest’ottica, è possibile notare come il ragazzo, utilizzi il computer come un tentativo di vivere in un oggetto non umano e di proteggere sé stesso dall’angoscia e dalla sofferenza, creandosi una sorta di ambiente protetto attraverso una madre meccanica. Se nel primo caso, la ragazza utilizza la tecnologia per comunicare con il terapeuta e la dipendenza si manifesta palesemente, nel secondo caso lo spazio virtuale viene completamente dissociato e per anni rimane immutato dal percorso terapeutico. Tuttavia, come afferma Lingiardi, in entrambi i pazienti il computer diventa uno strumento per regolare le emozioni e la terapia consiste nel dare a tale strumento un significato relazionale, facilitando così nel paziente, lo spostamento da un uso compulsivo ad un uso diverso e strumentale (Lingiardi , 2008).

Un altro interessante studio è stato effettuato in America da Snodgrass e altri (2011) sulla trance dissociativa nei giocatori abituali di video-games attraverso interviste ed indagini statistiche: essi comunemente riferiscono di raggiungere degli stati dissociativi così profondi a tal punto da estraniarsi completamente dalla realtà, sentirsi i veri personaggi e agire verosimilmente nel gioco virtuale. Il particolare interessante dello studio è l’identificazione emotiva con i personaggi proiettati sullo schermo e come questa identificazione porti, come riferito dai campioni dello studio, ad uno stato di benessere mentale attraverso il raggiungimento di  un “rilassamento psichico” e uno “stress positivo” ma nello stesso tempo a esperienze che inducono dipendenza e danni psicologici gravi (Snodgrass, Lacy, Francois Dengah, Fagan, Most, 2011).

Social network e salute psicologica: meglio postare o star soli? Gli effetti positivi del microblogging su chi soffre di ansia sociale

Il vantaggio del microblogging sta nel poter condividere dei messaggi con un vasto pubblico, senza imporre conversazioni che potrebbero risultare indesiderate. Per questo motivo, i commenti che si ricevono, vengono vissuti come dimostrazioni di supporto più spontanee, rispetto a richieste di ascolto esplicite, quali quelle che si farebbero telefonando o incontrando un amico.

 

Il microblogging è quel fenomeno per il quale si condividono su social network, come ad esempio Facebook o Twitter, degli status.

Spesso le persone condividono dei post quando vivono una brutta giornata, quando, ad esempio, ricevono una cattiva notizia in seguito ad una visita medica, quando discutono con il proprio datore di lavoro, oppure quando litigano con i propri genitori o con i propri partner e così via. Condividere degli status di questo tipo permette loro di ridurre le emozioni negative provate, ripristinando così uno stato di benessere.

Come mai vengono prediletti i social network per comunicare queste notizie ed abbassare la soglia di malessere, piuttosto che chiamare o incontrare un amico? Il vantaggio del microblogging sta nel poter condividere dei messaggi con un vasto pubblico, senza imporre a persone precise delle conversazioni che questi potrebbero ritenere indesiderate. Per questo motivo, le risposte che si ricevono, sotto forma di commenti ai post, vengono vissute come dimostrazioni di supporto più spontanee, rispetto a richieste di ascolto esplicite, quali quelle che si farebbero telefonando o incontrando un amico.

Microblogging e ansia sociale

Lo studio condotto da Buechel ha esplorato quali persone sono più predisposte a servirsi del microblogging anziché delle interazioni di persona. Nel fare questo, nel suo studio sperimentale ha diviso le persone in due gruppi, ai soggetti del primo gruppo è stata mostrata una clip tratta dal film “Il silenzio degli Innocenti”, mentre il gruppo di controllo ha guardato un filmato con immagini dello spazio.

Al termine delle proiezioni a tutti i soggetti è stato domandato come avrebbero preferito comunicare ciò che avevano visto e provato in seguito alla visione, scegliendo tra le seguenti opzioni: microblogging, di persona o tramite messaggio privato online diretto ad una persona specifica. Infine è stato somministrato a tutti i soggetti un questionario sull’ ansia sociale.

In questo disegno sperimentale la ricercatrice ha considerato le conseguenze della visione della clip tratta dal film “Il silenzio degli Innocenti” come un’esperienza negativa. Partendo da questo presupposto e dai risultati ottenuti è emerso come i soggetti che hanno sperimentato emozioni negative (in seguito alla visione della clip) e che hanno ottenuti alti livelli al questionario per l’ ansia sociale hanno mostrato maggiori probabilità di servirsi del microblogging per comunicare il proprio stato emotivo negativo.

Invece, coloro che hanno ottenuto punteggi bassi alla scala per la valutazione dell’ ansia sociale hanno mostrato di esser più portati ad utilizzare l’interazione faccia a faccia o il messaggio diretto per condividere i propri stati negativi.

Nonostante diversi studi riportano come l’interazione faccia a faccia rimanga una forma più ideale di comunicazione (Baym et al. 2004, Trepte et al. 2017), il microblogging si rivela un canale di comunicazione utile a tamponare le emozioni negative di coloro che altrimenti si ritroverebbero a gestirle da soli.

Lo stress in polizia: le strategie di coping e le differenze di ruolo e di genere

Stress in polizia: Come evidenziato dalla ricerca di Cesana (2005), a seguito dell’interazione interpersonale frequente con cittadini/utenti, questa tipologia di lavoro ha le caratteristiche della ‘professione d’aiuto – HCP’ (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali…), ne condivide l’esposizione alla sofferenza umana ed alle situazioni problematiche sia economiche e sia umane, anche con episodi di violenza. Le ricerche di Gächter et al. (2009) e Collins e Gibbs (2003) sottolineano che l’esposizione ad eventi traumatici, alla violenza e sofferenza, sia un fattore di stress in polizia.

 

Lo stress in polizia

La normativa sulla sicurezza sui posti di lavoro in vigore in Italia (Decreto Legislativo 81/08 aggiornato a maggio 2017) dichiara che, a partire dal gennaio 2011, è obbligatorio per le aziende italiane effettuare la valutazione dello Stress Lavoro Correlato.
Gli operatori delle forze dell’ordine rientrano tra le categorie professionali con maggior rischio di incorrere all’esposizione di eventi stressanti.

Come evidenziato dalla ricerca di Cesana (2005), a seguito dell’interazione interpersonale frequente con cittadini/utenti, questa tipologia di lavoro ha le caratteristiche della ‘professione d’aiuto – HCP’ (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali…), ne condivide l’esposizione alla sofferenza umana ed alle situazioni problematiche sia economiche e sia umane, anche con episodi di violenza. Le ricerche di Gächter et al. (2009) e Collins e Gibbs (2003) sottolineano che l’esposizione ad eventi traumatici, alla violenza e sofferenza, sia un fattore di stress in polizia. A questi fattori si affianca anche il rischio di incolumità propria e dei propri colleghi. I disturbi derivanti dall’esposizione ad un evento traumatico sono classificati nel DSM-IV come Disturbo d’Ansia, e la soddisfazione del criterio A del Disturbo di stress Post-Traumatico.

Gli stressor sono riconducibili sia ai conflitti interpersonali (ostilità nei rapporti con superiori e colleghi, supporto inadeguato delle autorità di vigilanza) (Shane, 2010) sia al livello del carico di lavoro dichiarato inaccettabile rispetto alla turnazione, agli straordinari eccessivi, al sovraccarico lavorativo, alle condizioni insufficienti di lavoro e alle interazioni costanti con il pubblico.

Le conseguenze dello stress lavoro correlato possono essere sia di tipo psicologico sia di tipo fisico. Tra i disturbi fisici più frequenti emerge il disturbo del sonno, con conseguenze direttamente imputabili all’organizzazione del lavoro all’interno del dipartimento di appartenenza (stanchezza sul lavoro, difficoltà dell’attenzione prolungata, ecc).

Tra i disturbi di tipo psicologico, sono stati identificati sintomi ansiogeni e depressivi (Morash et al., 2006). Tra i disturbi di tipo fisico, dai dati provenienti da indagini svolte negli USA si evidenzia come gli operatori delle forze dell’ordine dichiarino una incidenza superiore rispetto ad altri lavoratori di disturbi cardiovascolari e gastrointestinali.
Gli operatori delle forze dell’ordine che sperimentano le varie tipologie di stress evidenziate possono chiedere la modifica dei turni di lavoro, sono spesso assenti dal lavoro, sono colpiti da burnout, sono insoddisfatti del proprio lavoro e, a causa dello scarso impegno da parte dell’organizzazione nell’affrontare i disagi dei dipendenti, chiedono il prepensionamento e, sul piano comportamentale, possono manifestare il desiderio di divorziare dal coniuge; nei casi estremi di sofferenza il soggetto potrebbe essere motivato a mettere in atto condotte autolesive o anticonservative (Morash et al., 2006).

Alcuni autori, tra cui Neylan et al (2002), correlano i disturbi del sonno con gli aspetti organizzativi che possono determinare l’esposizione ad uno stress cronico, il quale dipenderebbe da variabili organizzative (es. relazioni con i superiori, condizioni di lavoro), dalle relazioni con le istituzioni (es. magistratura), dal sistema legale, l’opinione pubblica e la stampa.

La ricerca di Garbarino et al. effettuata nel 2013 ha analizzato le condizioni di sofferenza negli appartenenti alle forze dell’ordine con sintomi di depressione, ansia e burnout: i risultati hanno mostrato come gli stressors organizzativi siano associati a livelli più elevati di sintomi depressivi. Suresh et al. (2013) hanno rilevato che i principali fattori di stress sono correlati alla sensazione di essere sempre in servizio, al minor tempo da dedicare alla famiglia, alle pressioni politiche al di fuori del dipartimento di polizia, al salario e alle strutture inadeguati. Tutti questi stressor sono attribuibili all’organizzazione. Curiosamente, l’esposizione al trauma (ad es. soccorrere i feriti in un incidente automobilistico) come fonte di stress implicava una minore percezione di stress (operativo) rispetto alle fonti che comportano stress organizzativo.

Stressor organizzativi in polizia

Secondo Alexander et al (1993), in questa categoria rientrano gli stressor che si originano nel contesto di lavoro: in letteratura emerge che i fattori maggiormente stressanti sono le condizioni di lavoro (carenza di personale e/o risorse inadeguate ad esempio), i rapporti con i superiori e i colleghi (es. mancanza di comunicazione), le relazioni con l’ambiente esterno (es. immagine delle forze dell’ordine, rapporto con i cittadini, senso di efficacia dell’intervento).
Tra gli stressor organizzativi particolarmente problematici per il poliziotto, Pietrantoni et al (2003), indicano la gestione dei turni, il sostegno sociale inadeguato, le norme e i valori che caratterizzano la cultura organizzativa e il clima di genere.

Stressor operativi in polizia

Si riferiscono agli eventi critici legati al lavoro operativo del poliziotto: aggressioni, uccisione e ferimento di terzi, situazioni a rischio di morte, suicidio di un collega, situazioni con rischio di contaminazione biologica (es. HIV), sequestri, presa di ostaggi e barricamenti, interventi nei casi di stupro, violenze e abusi.

Le strategie di coping contro lo stress in polizia

Particolarmente interessanti sono le modalità di fronteggiamento messe in atto dagli operatori delle forze dell’ordine durante le situazioni stressanti; in genere le strategie di coping si categorizzano in base all’attenzione posta sulla risoluzione del problema, alla regolazione delle emozioni emergenti dalla situazione stressante e sulla ricerca del supporto sociale (informativo, materiale, emotivo).
In letteratura, Mazzola et al. (2011) e Pietrantoni (1999) sostengono che le strategie di coping utilizzate possono essere dicotomizzate in adattive e disadattive.

Lo scopo delle strategie di coping adattive è di ottenere supporto sociale e familiare, condividere l’esperienza con gli altri soggetti, il fronteggiamento attivo degli stressor e la reinterpretazione positiva della situazione; mentre tra gli scopi delle strategie di coping disadattive emerge l’intenzione di evitare il problema, l’eccessiva manifestazione delle emozioni e utilizzare modalità autodistruttive per ridurre lo stress, come l’abuso di sigarette o alcol o evitare amici e familiari. He et al. (2005) hanno sostenuto come l’uso delle strategie di coping disadattive contribuisca ad aumentare lo stress in polizia fino a renderlo cronico.

Stress in polizia: differenze di ruolo

Come è stato indicato precedentemente, nelle ricerche svolte presso i dipartimenti di polizia, emerge che gli agenti di polizia sono esposti a stress acuto e cronico durante le ore di lavoro, con conseguenze sul piano del benessere fisico e psicologico.

All’interno della struttura organizzativa spesso ruolo ed aspettative non coincidono. In specifici ruoli è necessario inserire una persona con preciso atteggiamento orientato all’obiettivo e al compito (come ad esempio rafforzare la conformità con il codice della strada); non sorprende che le aspettative di ruolo genere dipendente rispetto alle donne possano determinare un’errata valutazione delle intenzioni operative di esse, bias che trova sostegno dall’errata credenza che le poliziotte utilizzino un approccio orientato alla relazione in maniera solidale, cercando invero di comprendere e soddisfare i bisogni di persone che hanno agito in maniera contraria al codice vigente (come ad esempio soprassedere ad un reato quando è stato commesso in caso di emergenza).

Come descritto da Eagly et al. (2005), l’incongruenza percepita tra genere e ruolo conduce alla formazione di elementi di pregiudizio: il primo elemento conduce a soppesare diversamente le donne nei ruoli considerati tipicamente adatti agli uomini (come nel caso delle forze di polizia); un ulteriore pregiudizio porta a ritenere che quando una donna poliziotto assume comportamenti autorevoli / manageriali (controllo e leadership), questi vengono presi in considerazione in misura minore rispetto a quando promulgato da un collega uomo. Tale incongruenza genera maggiore angoscia nelle donne rispetto agli uomini (Turk et al, 2013).
Riguardo gli anni di servizio, gli agenti con maggior esperienza riportano un minor livello di stress rispetto ai giovani poliziotti, questo si verifica probabilmente in quanto la maggior esperienza sul campo determina l’acquisizione di molte strategie di coping e maggior abilità nel fronteggiare gli eventi traumatici (Lucas et al, 2012; Magnavita et al, 2013).

Stress in polizia: differenze di genere

Le ricerche hanno evidenziato che nelle organizzazioni di lavoro, le donne sono sensibili alla sofferenza (Thoits, 2013) correlata alla vulnerabilità biologica e sociale oltre che una maggiore tendenza alla depressione (Eagly e Wood, 2013).
Riguardo al genere, Berg e collaboratori (2005), riportano che le donne in polizia esprimono maggiori livelli di stress percepito rispetto ai colleghi uomini, nonostante i poliziotti maschi abbiano una maggior esposizione sul campo ad incidenti gravi.
È interessante notare che i poliziotti che sentono di avere il sostegno da parte dei colleghi considerino il loro lavoro meno stressante (He et al., 2002). È importante soprattutto per le donne, poiché i problemi sul posto di lavoro sono frequentemente associati ad atteggiamenti di rifiuto da parte dei colleghi (Morash et al., 2006).

Stress in polizia: differenze di settore

L’appartenenza ad uno specifico settore all’interno dei dipartimenti, incide sulla percezione dello stress; come sostiene Abdollahi (2002), gli operatori incaricati di pattugliare le strade e coloro a cui è richiesto di intervenire nei casi di violenza, risultano essere maggiormente vulnerabili allo stress dei colleghi che lavorano in settori diversi.

Ricerca in Italia sullo stress in polizia

Nel 2011 il gruppo di ricerca guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha attivato un progetto di ricerca per valutare l’impatto dello stress lavoro-correlato presso la polizia municipale operante in una città del nord d’Italia. Un questionario autosomministrato è stato distribuito in tutti i distretti presenti sul territorio cittadino, raggiungendo 1840 poliziotti urbani; il 34% dei questionari è stato compilato e consegnato ai ricercatori, i quali hanno assicurato la massima privacy e anonimato dei soggetti coinvolti.

Il campione è costituito dalle forze operanti attivamente sul territorio, come i poliziotti operanti su strada che vigilano affinché siano rispettate le leggi (es. codice della strada, aspetti amministrativi e burocratici delle attività commerciali), chi interviene direttamente in caso di assalto, gli investigatori oltre ai soggetti che lavorano all’interno dei distretti, i quali hanno ruoli amministrativi o direttivi e responsabilità.
I risultati mostrano che le donne con ruoli operativi sul campo (infrazioni al codice della strada, TSO, ecc) presentano maggiore vulnerabilità verso gli stressor sia operativi e sia organizzativi; maggiori livelli di stress sono stati rilevati tra le donne sottufficiali, ufficiali e poliziotti di pattuglia rispetto ai colleghi maschi operanti negli stessi ruoli.

Gli ufficiali maschi mostrano tratti di ansia che influenzano la percezione delle difficoltà professionali, mentre gli agenti di pattuglia risultano essere maggiormente esposti agli stressor operativi.

Da notare come i sottufficiali maschi e gli agenti di pattuglia di ambo i generi mostrano disagio sia organizzativo sia operativo. Questo risultato ottenuto dal gruppo di ricerca di Torino è interessante in quanto differisce dalle ricerche internazionali (Suresh RS, Anantharaman RN, Angusamy A, Ganesan J., 2013) in cui gli stressor organizzativi sono la fonte principale di disagio.

Tra gli stressors organizzativi, sia uomini sia donne includono la mancanza di competenza, superficialità e inflessibilità delle regole, mentre per quanto riguarda i fattori di stress operativi, le lamentele sono orientate alla sensazione di delegittimazione del loro lavoro da parte degli utenti.
Interessante notare che emergono alcune differenze rispetto alla natura della percezione del pregiudizio: le donne colgono preclusione nei loro confronti come aspetto che sorge dal terreno della mancanza di rispetto per il proprio operato (ad esempio continue richieste di conferma di informazioni che sono già state ricevute), gli uomini invece imputano tale pregiudizio all’interno della cornice di inefficienza del sistema sociale, mancanza di regole e legislazione adeguata.

Le donne esprimono inoltre la difficoltà di gestire le emozioni legate all’inadeguatezza o all’assenza di risposte per le quali si sentono responsabili, sviluppando vissuti di impotenza nel rispondere in modo adeguato alle richieste del pubblico. Così appaiono più fragili a causa delle aspettative di genere sul posto di lavoro, dell’assenza di un network di sostegno interno all’organizzazione, del non riconoscimento delle abilità professionali che permetterebbe loro di essere valutate in linea con i loro colleghi.

Dall’analisi delle strategie di coping messe in atto dal campione studiato, emerge che i dirigenti di genere maschile ed i sottufficiali di genere femminile presentano vulnerabilità agli stressor organizzativi ed operativi; mentre i primi adottano la religione come strategia di coping allo scopo di ridurre il disagio, le donne sottufficiali utilizzano strategie di sfogo attive e di distrazione per ridurre lo stress.

Gli ufficiali uomini utilizzano uno spettro di strategie di coping adattative (come ad esempio la pianificazione, il supporto strumentale, la riformulazione positiva ed il buon umore), che induce la riduzione del rischio di sofferenza psicologica generale (vedi Elliott e Guy, 1993), e che può quindi essere considerato come un fattore protettivo verso lo stress in polizia sia organizzativo e sia operativo. Tra le strategie di coping disadattive contro lo stress in polizia maggiormente dichiarate, emergono principalmente quelle associate ad evitare problemi e l’auto-colpevolizzazione.

Le strategie di coping usate dalle agenti di pattuglia si inseriscono nella ricerca di supporto emotivo e strumentale, mentre gli uomini con lo stesso ruolo utilizzano comprensione e positività nell’interpretazione critica dei problemi.
Le strategie di coping maladattive delle donne sono espresse attraverso il corpo (correlazione tra auto-distrazione e problemi legati alla fatica e alle preoccupazioni).
Sia gli uomini che le donne presentano autocriticità, la loro valutazione del proprio operato e del contesto in cui lavorano sono filtrate dal pessimismo e auto-biasimo, con livelli più alti di somatizzazione nelle donne.
Infatti, come evidenziato da Burke e Mikkelsen (2006) e Bowler et al. (2010), gli agenti di pattuglia presentano maggior rischio di disagio psicologico.

Un elemento interessante si evince nella ricerca effettuata a Genova durante il G8 del 2001 su 290 agenti del VI Reparto Mobile, Garbarino S. et al. (2012) sostengono che le attività quotidiane sono molto più stressanti rispetto alle attività antisommossa effettuate durante il G8, fatto dovuto alla adeguata formazione per l’evento, presenza di supporto psico-sociale e per l’organizzazione della manifestazione stessa. Dall’analisi si evince che lo stress elevato potrebbe essere prevenuto da una adeguata pianificazione degli eventi ad alto rischio e dall’impiego tattico delle contromisure antisommossa.

Prevenzione dello stress in polizia

La ricerca effettuata in Italia dal gruppo di ricerca (Acquadro Maran, Zedda e Varetto, 2015) ha evidenziato l’importanza fondamentale della riflessione e dello sviluppo di interventi formativi con attenzione al genere e finalizzati a prevenire il fenomeno stress lavoro-correlato nel personale di polizia.

La direzione ha accolto i risultati ed è intervenuta offrendo gratuitamente agli operatori la possibilità di frequentare corsi sull’efficienza fisica (ad esempio tecniche di sicurezza) e sul benessere psicofisico (ad esempio yoga).

Di particolare rilievo è focalizzare l’attenzione all’interno di tutte le forze di polizia sulla variabile di genere nello sviluppo dei corsi di formazione; sia uomini e sia donne potrebbero beneficiare di programmi caratterizzati dalla valorizzazione di autoefficacia, mentre i programmi destinati ad affrontare gli aspetti emotivi sarebbero di beneficio per le donne ufficiali (come ad esempio il debriefing psicologico e la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma).
Come aspetto non secondario, dal punto di vista macroscopico, accrescere la capacità di affrontare lo stress in modo efficace conduce ad incrementare lo standard di servizio percepito dal pubblico.

Per concludere

In ultima analisi, dai risultati della ricerca effettuata in una forza di polizia municipale in una grande città del Nord Italia si evince che i corsi di formazione e il supporto rivolti agli operatori devono essere inseriti in un quadro in cui il genere, il ruolo e il tipo di lavoro in cui è coinvolto il personale sono aspetti da prendere in considerazione per la strutturazione di programmi preventivi o di intervento sui fattori di stress che caratterizzano il lavoro quotidiano della polizia stessa. Inoltre, i corsi di formazione ed i programmi di supporto potrebbero essere strumenti utili ed efficaci per prevenire il disagio prima che esso emerga dallo sfondo dei vissuti come figura di stress cronico.

A supporto di tale affermazione, una ricerca svolta da Bengt (2013) in Svezia su 85 ufficiali volontari dell’Accademia di Polizia Svedese in formazione, dimostra che nell’ottica dell’acquisizione di conoscenza, inserire moduli formativi per la gestione di eventi violenti ed inerenti al ruolo previene lo stress nei partecipanti. Emerge inoltre che i livelli di stress lavoro-correlato non raggiungono livelli elevati e come tale aspetto perduri nel tempo per un periodo successivo di 18 mesi in cui gli ufficiali operavano direttamente sul campo. Tale periodo è superiore a quello riscontrato dal gruppo di controllo in cui tale modulo formativo non era previsto. Lo studio è stato predisposto proponendo ai partecipanti un protocollo di training basato sull’immaginazione su tematiche relative a 10 scenari riguardanti situazioni concrete. Non solo si è ridotto l’impatto dell’esposizione allo stress, ma ha anche sviluppato maggior fiducia nelle proprie capacità.
Quindi l’esposizione a scenari di difficoltà reale durante la formazione del personale con la possibilità di elaborare i vissuti ed interiorizzare capacità di mastery, produce un beneficio concreto sulla salute psicofisica del poliziotto, con risvolti positivi anche sulla qualità del servizio e dell’organizzazione in generale.

Gli effetti psicologici dell’infertilità maschile

Psicologicamente l’ infertilità maschile e femminile crea una condizione che può essere definita come una “crisi di infertilità”. Tale stato provoca sensazioni di perdita di salute, perdita di autostima, sentimenti di lutto, depressione e di colpa. Creando condizioni sociali di isolamento e problemi nella vita lavorativa della persona.

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Salire su una montagna passo dopo passo con l’obiettivo di raggiungere la cima; vale a dire avere un figlio e quindi, una famiglia con un figlio

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’ infertilità maschile come l’incapacità di ottenere un concepimento dopo almeno dodici mesi di rapporti sessuali regolari con una donna fertile, senza utilizzare alcun metodo anticoncezionale.

Si parla di infertilità primaria quando l’ uomo non ha mai indotto una gravidanza mentre si parla di infertilità secondaria quando l’uomo ha già indotto una gravidanza.

Psicologicamente l’ infertilità crea una condizione che può essere definita come una “crisi di infertilità”. Tale stato provoca sensazioni di perdita di salute, perdita di autostima, sentimenti di lutto, depressione e di colpa. Creando condizioni sociali di isolamento e problemi nella vita lavorativa della persona.

Infertilità maschile: i vissuti psicologici dell’uomo che non può avere figli

Ma cosa prova emotivamente l’uomo di fronte a una diagnosi di infertilità?

È diffusa ormai la convinzione nella nostra società moderna che per l’uomo la sessualità è sinonimo di virilità.

A tal proposito, la letteratura clinica sembra dedicare ampio spazio alle ripercussioni psicologiche dell’ infertilità femminile mentre l’esperienza vissuta dall’uomo della propria infertilità sembra essere trascurata a causa di una conoscenza limitata sull’ infertilità maschile poiché ci sono pochi studi che si occupano di questo problema.

Da alcuni studi si evince che l’ infertilità influenza negativamente la qualità della vita delle donne, ma i risultati degli studi sulla qualità della vita degli uomini non hanno mostrato la stessa concordanza.

Uno studio italiano sulla qualità della vita degli uomini prima del loro trattamento con FIV ( fecondazione in vitro) condotto da Ragni et al. (2005) non ha riportato differenze rispetto a un gruppo di controllo ma segni di depressione e ansia sono stati segnalati in uno studio brasiliano – canadese come principali fattori di previsione della qualità della vita negli uomini durante l’indagine di infertilità (Chachamovich JL, Chachamovich E, Ezer H, Cordova FP, Fleck MM, Knauth DR, Passos EP, 2010).

In alcuni studi si evidenzia che l’ infertilità maschile non influenza il benessere e la sofferenza psicologica degli uomini ma altri studi hanno riportato un maggiore senso di colpa e una bassa autostima rispetto agli uomini in coppia con diagnosi di infertilità.

Un senso di profondo dolore e di perdita è stato trovato tra gli uomini che non avevano biologicamente generato un bambino.

Nonostante le diverse ricerche condotte risulta esserci un’insufficiente conoscenza di come gli uomini con una severa diagnosi di infertilità maschile sperimentino la loro condizione.

A tal proposito, restringendo il campo sarebbe opportuno prendere in considerazione la ricerca condotta da  Webb RE e Daniluk JC (1999)  il cui scopo era quello di descrivere l’esperienza degli uomini riguardo la loro infertilità con azoospermia ostruttiva vale a dire con la presenza di un’ostruzione a livello della via seminale che impedisce agli spermatozoi di poter essere espulsi con il resto del liquido seminale, dopo il trattamento ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi) fallito nel sistema sanitario pubblico svedese.

Essere informati sull’assenza di spermatozoi nell’eiaculazione è stato descritto come il colpo più duro nella vita dell’uomo e la notizia peggiore che avessero mai ricevuto. Il senso di inadeguatezza provato dagli uomini si è rivelato molto prevalente in questa esperienza.

La possibilità della paternità biologica è stata percepita come inesistente e sono emersi sentimenti di impotenza e il sentirsi come diversi:

Non posso fare nulla al riguardo … Puoi agire parecchio su altre cose … Ma qui ero completamente impotente.”

Ha molto a che fare con gli stereotipi maschili e femminili … In qualche modo, se vuoi i bambini o no, è un segno della qualità maschile.”

Gannon et al. (2004) hanno riferito che l’ infertilità maschile è stata percepita come una minaccia per quel che riguarda le concezioni convenzionali della mascolinità. Vale a dire, gli uomini con problemi di infertilità si sentivano stigmatizzati e percepivano ciò come la perdita di mascolinità (Nachtigall RD, Becker G, Wozny M., 1992).

In uno studio fenomenologico delle coppie (Phipps SA., 1993) il desiderio di avere bambini biologici è stato descritto da Langdridge et al. (2000) come un bisogno di creare qualcosa che sia parte dell’uomo e della donna e che il risultato finale sia la realizzazione di una famiglia. Nello studio di Webb RE e Daniluk JC (1999) gli uomini hanno provato una sensazione di rimedio quando si è trovato sperma epididimo importante per la loro autostima e la speranza di diventare un padre biologico con il supporto delle tecniche di procreazione assistita (ART), è ricomparsa.

Un altro elemento centrale è la dimensione di responsabilità per il benessere del partner (Phipps SA, 1993): dallo studio è emerso che le reazioni degli uomini erano principalmente correlate alle reazioni delle donne piuttosto che considerare cosa significhi per loro personalmente.

Un’altra componente della condizione di infertilità emersa è stato lo sforzo di trovare soluzioni al problema, ovvero quello di creare una famiglia con bambini, simile a un progetto con un piano ben preciso da seguire. A tal fine, gli uomini avevano bisogno di conoscenze su diverse soluzioni alternative. La decisione, l’adozione o il ricorso a tecniche di procreazione assistita, non era facile e affermavano che indipendentemente dal modo in cui avevano scelto di avere figli questo doveva essere sperimentato da un lato come scelta.

Gli autori racchiudono lo studio dell’esperienza maschile di azoospermia servendosi di una metafora:

“salire su una montagna passo dopo passo con l’obiettivo di raggiungere la cima; vale a dire avere un figlio e quindi, una famiglia con un figlio”.

Dalle informazioni disponibili si evince che l’ infertilità ha un impatto sul funzionamento psicologico e sembra che l’esperienza dell’ infertilità maschile possa essere più o meno patogena in relazione ad una quantità di fattori individuali, cognitivi ed emotivi, medici e sociali.

In conclusione, gli effetti sul funzionamento psicologico sono quindi una complessa materia di studio influenzata da molte variabili che includono la durata dell’ infertilità, le procedure diagnostiche, il sesso dei soggetti, il fatto che l’ infertilità sia attribuita all’uomo o alla donna, la natura della diagnosi e la prognosi.

Come è stato dimostrato da Link (1986), l’ infertilità non può essere trattata al pari di ogni “malattia”, in quanto va a toccare l’essenza della femminilità e della mascolinità e l’intrusività fisica e psicologica che accompagna il trattamento può mettere in discussione l’immagine di sé e di dar luogo a squilibri emozionali e psicosociali. Ciò indica il fatto che la componente medica e quella psicologica non possono essere separate in quanto, una persona che vive un’esperienza di infertilità dovrà affrontare temi importanti quali quelli biologici, psicologici, sociali ed etici.

Un approccio più integrato alle cure dei pazienti si ritiene che aumenti i risultati positivi, che aumenti la soddisfazione del paziente e del team, e che riduca le reazioni psicologiche negative ed aiuti meglio i pazienti a concludere la loro esperienza (Covington et. al, 1999).

Lo scopo principale di qualsiasi sostegno psicologico è quello di assicurarsi che i pazienti comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità.

Differenze cerebrali nei bambini con sintomi ossessivo compulsivi subclinici

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori del Bellvitge Biomedical Research Institute (IDIBELL) e dell’Institute of Global Health of Barcelona (ISGlobal) i bambini con sintomi ossessivo compulsivi presenterebbero differenze anatomiche a livello cerebrale.

 

I sintomi subclinici del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) sono molto più comuni rispetto ai casi più gravi che necessitano di attenzione medica e psicologica. Il DOC vero e proprio interessa all’incirca tra l’1 e il 2% dei soggetti, i sintomi lievi invece possono essere presenti in quasi un terzo della popolazione.

Bambini con sintomi ossessivo compulsivi lievi: come si rilevano?

Questi sintomi possono includere ad esempio, pensieri ricorrenti circa il timore di contaminazione dopo essere stati a contatto con oggetti in luoghi pubblici oppure la paura di aver compiuto inavvertitamente un comportamento potenzialmente dannoso (come aver lasciato la porta di casa aperta dopo essere usciti) o ancora il bisogno di sistemare gli oggetti in perfetto ordine e simmetria. Queste paure sono spesso accompagnate da comportamenti compulsivi quali la pulizia ripetitiva o comportamenti organizzativi non necessari che per quanto il soggetto consideri eccessivi risultano incontrollabili. Sebbene la maggior parte di questi sintomi non interferisca con la vita quotidiana, in alcuni casi si può assistere alla comparsa di una condizione più grave che può sfociare nel disturbo vero e proprio.

Carles Soriano-Mas, autore principale dello studio, ha detto “L’infanzia è un periodo particolarmente sensibile per lo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi. È relativamente normale che i bambini allineino le scarpe in un certo modo o ripetano ad alta voce il numero di targa delle automobili, in una piccola percentuale di casi però questi sintomi possono essere indicatori di un potenziale rischio d’insorgenza del disturbo”.

Bambini con sintomi ossessivo compulsivi e le caratteristiche cerebrali

255 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni senza alcuna diagnosi di disturbo mentale hanno partecipato allo studio. Ai ragazzini è stato chiesto di rispondere a un questionario circa la presenza di lievi sintomi ossessivo compulsivi e di sottoporsi ad una risonanza magnetica strutturale. Questa particolare tecnica permette di esplorare in modo dettagliato l’anatomia cerebrale, in particolar modo i ricercatori hanno osservato con attenzione il lobo frontale (sede di processi quali la percezione, l’immaginazione, il pensiero, il giudizio e la decisione) e le aree ad esso connesse.

Confrontando i risultati del questionario con i dati della risonanza, si è visto che i diversi sintomi osservati per quanto lievi potrebbero essere associati a specifiche caratteristiche cerebrali” ha detto Soriano-Mas che ha continuato “è interessante notare che queste stesse caratteristiche anatomiche sono state osservate anche in pazienti con una diagnosi di DOC. Ovviamente è necessario considerare altri fattori di varia natura come ad esempio quelli sociali, educativi e il benessere generale per comprendere il perché in alcuni casi questi sintomi evolvano verso forme più gravi che richiedono interventi specifici”.

I risultati, pubblicati sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, suggeriscono che alcuni disturbi, incluso il DOC, potrebbero essere considerati una manifestazione estrema di alcune caratteristiche che spesso compaiono nella popolazione generale.
La scoperta potrebbe avere un impatto positivo sullo sviluppo di strategie di prevenzione a lungo termine per i diversi disturbi. L’anatomia del cervello potrebbe essere monitorata con maggiore attenzione in bambini ad alto rischio (come i figli di genitori con disturbi psichiatrici) in modo da stimare la probabilità di sviluppare una condizione patologica che potrebbe interferire con il normale sviluppo.

La Deep Brain Stimulation migliora le prospettive di vita per i malati di Parkinson

Un nuovo trattamento chiamato deep brain stimulation (DBS), letteralmente tradotto stimolazione cerebrale profonda, potrebbe prolungare la vita delle persone con malattia di Parkinson.

 

I ricercatori del Edward Hines, Jr. VA Hospital in Illinois hanno identificato che i pazienti che sono stati sottoposti alla stimolazione tramite un dispositivo impiantato a livello cerebrale, avevano un modesto vantaggio di sopravvivenza rispetto a quelli trattati solamente con i farmaci.

I risultati sono stati pubblicati il 18 novembre 2017 dalla rivista Movement Disorders. Precedenti studi hanno dimostrato che la deep brain stimulation può migliorare la funzione motoria nelle persone con la malattia di Parkinson. Il trattamento prevede l’installazione di elettrodi inseriti attraverso una operazione chirurgica in specifiche aree del cervello. Una batteria di generatore di impulsi – simile a quella usata nei pacemaker – viene impiantata anche sotto la clavicola o nell’addome. La batteria crea impulsi elettrici che gli elettrodi rilasciano al tessuto cerebrale.

La malattia di Parkinson, oltre i farmaci: quando ricorrere alla deep brain stimulation

La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Colpisce i neuroni nel cervello che producono dopamina. La sua causa è attualmente sconosciuta e finora non esiste una cura. Il morbo di Parkinson non è fatale, ma le complicazioni legate alla malattia spesso portano alla morte. I sintomi più comuni della malattia di Parkinson comprendono tremore, lentezza del movimento, rigidità degli arti e problemi di deambulazione ed equilibrio. Le persone con malattia di Parkinson hanno un’aspettativa di vita più breve rispetto a quelle senza malattia.

Mentre i farmaci possono gestire i sintomi della malattia, non è stato dimostrato come si possa migliorare la vita dei pazienti con Parkinson. Come spiega Weaver, i pazienti di solito subiscono un intervento di deep brain stimulation quando il farmaco non è più efficace.

L’intervento chirurgico può riportare i pazienti nel punto in cui si trovavano quando il farmaco era efficace, ovvero la DBS è in genere efficace quanto il farmaco – se il farmaco continuava a funzionare – afferma.

La dott.ssa Frances Weaver, autrice principale dello studio, ha spiegato il beneficio della deep brain stimulation:

Nel complesso, la chirurgia deep brain stimulation è stata considerata abbastanza positivamente sia dai pazienti che dagli operatori, soprattutto per l’ effetto immediato che questa ha sulla funzione motoria dei pazienti: la discinesia [movimenti muscolari involontari] si riduce notevolmente e il paziente può muoversi e fare movimenti che prima non era in grado di fare.

Mentre la deep brain stimulation sembrerebbe migliorare le funzioni motorie nei malati di Parkinson, rispetto ai pazienti che non la ricevono, esistono poche prove sul fatto che il trattamento abbia dei benefici sull’aspettativa di vita. Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 611 anziani con malattia di Parkinson a cui era stato impiantato il dispositivo di stimolazione cerebrale profonda. Successivamente, i ricercatori hanno confrontato i dati emersi da questo campione con i dati raccolti su 611 anziani con Parkinson ma senza il dispositivo e hanno scoperto che i pazienti trattati con la deep brain stimulation sono vissuti in media per 6,3 anni dopo l’intervento, contro i 5,7 anni per i pazienti senza il dispositivo DBS, una differenza di otto mesi.

I ricercatori avevano accoppiato ciascun paziente DBS con un paziente non-DBS clinicamente e demograficamente simile – per esempio, in termini di età e gravità dei sintomi – e monitorato la sopravvivenza dalla data in cui si è verificato l’intervento chirurgico per il gruppo DBS o che avrebbe potuto aver avuto luogo in maniera teorica per il gruppo non-DBS.

L’età media dei veterani nello studio era di 69 anni, sulla base della maggiore prevalenza di Parkinson tra le persone anziane. L’età più avanzata del gruppo di studio potrebbe aver portato a più morti per condizioni legate all’età, ma i ricercatori sottolineano che la maggior parte delle cause di morte per coloro che sono morti durante il periodo della ricerca erano legati alla malattia di Parkinson.

Mentre il margine di sopravvivenza nel gruppo con deep brain stimulation è risultato modesto, i ricercatori sottolineano che la qualità della vita è migliorata anche dopo la stimolazione, soprattutto perché il trattamento può aiutare a controllare i sintomi come i tremori e le rigidità.

Nonostante i risultati suggeriscono che la deep brain stimulation potrebbe migliorare i tassi di sopravvivenza per i pazienti con malattia di Parkinson, i ricercatori notano alcune limitazioni allo studio. Spiegano che è possibile che i pazienti con stimolazione cerebrale profonda fossero più sani delle loro controparti nel gruppo con solo farmaci. I pazienti con il dispositivo chirurgico impiantato avevano più probabilità di essere monitorati da vicino, quindi altre condizioni croniche sarebbero potute essere diagnosticate e trattate in maniera precoce. Inoltre, è da sottolineare che il campione dello studio era per lo più di sesso maschile, in quanto la maggior parte della popolazione anziana è in prevalenza maschile, il che significa che i risultati non possono essere generalizzati alle donne con malattia di Parkinson.

I ricercatori ritengono che sia necessaria una maggiore ricerca per stabilire se la deep brain stimulation possa prolungare l’aspettativa di vita nella malattia di Parkinson. Non è chiaro se il trattamento modifichi la malattia attuale, o semplicemente aiuti a controllare le condizioni correlate che possono ridurre la vita. Secondo Weaver, la migliore qualità della vita dopo la deep brain stimulation può migliorare la sopravvivenza. È anche possibile che il monitoraggio continuo richiesto con DBS implichi che i pazienti ricevano più cure mediche in generale, portando a cure migliori. Sono necessarie ulteriori ricerche per vedere quale effetto diretto ha la deep brain stimulation sulla neuroplasticità o la funzione cerebrale.

 

 

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