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Metacognition Oriented Social Skills Training: prove di efficacia da un trial clinico randomizzato in Spagna. Funzionano meglio dei Social Skills Training tradizionali.

Il Metacognition Oriented Social Skills Training (MOSST) è stato ideato a partire dalla definizione di metacognizione  e dalla manualizzazione della Terapia metacognitiva interpersonale.

 

Il Metacognition Oriented Social Skills Training (MOSST) è stato ideato da Paolo Ottavi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale a partire dalla definizione di metacognizione di Semerari e colleghi (1999) e dalla manualizzazione della Terapia metacognitiva interpersonale formulata in Dimaggio et al. (2013) Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità (Raffaello Cortina).

Il Metacognition Oriented Social Skills Training si inserisce in una serie di progetti fatti al Centro TMI volti a sviluppare modelli clinici formalizzati, manualizzati, verificabili empiricamente e che si prestino alla disseminazione internazionale. È un trattamento in gruppo per la schizofrenia in cui gli elementi di promozione di social skills sono supportati da un lavoro volto a riflettere sui processi interpersonali e ad agire guidati da una migliore comprensione degli stati mentali, i propri e quelli degli altri. L’idea è che la performance sociale migliori e lo faccia più stabilmente se i pazienti agiscono guidati da una comprensione mentalistica delle azioni che compiono e non dalla semplice adattività dei nuovi comportamenti messi in atto. Il lavoro in gruppo nel Metacognition Oriented Social Skills Training passa da una costante attenzione alla relazione terapeutica e i terapeuti costantemente metacomunicano, ovvero riflettono apertamente sulle relazioni che si sviluppano in seduta.

Metacognition Oriented Social Skills Training e Social Skills Training a confronto

Un gruppo di colleghi spagnoli guidati da Felix Inchausti dell’Università di Navarra ha condotto un trial clinico randomizzato in cui il Metacognition Oriented Social Skills Training è stato confrontato con i classici Social Skills Training. I risultati dello studio hanno mostrato una netta superiorità del Metacognition Oriented Social Skills Training. Nel MOSST sono stati coinvolti 36 pazienti, contro i 33 dei Social Skills Training. La superiorità riguardava gli outcome primari, ovvero  per funzionamento occupazionale e sociale, performance sociale, riduzione di comportamenti disturbanti e aggressivi. Ci sono stati anche effetti superiori in sintomi di ansia e depressione. La metacognizione è migliorata significativamente solo nel gruppo MOSST. I risultati hanno retto al follow-up a 6 mesi. Sia il Metacognition Oriented Social Skills Training che i Social Skills Training hanno migliorato i sintomi positivi e negativi allo stesso livello.

Rimarchiamo come in una recentissima meta-analisi (Turner et al., 2017) sono emersi come un trattamento efficace per sintomi negativi e sintomatologia generale. L’effetto per i sintomi negativi era della stessa magnitudine di quello della CBT sui sintomi positivi. Quindi il Metacognition Oriented Social Skills Training ha dimostrato una netta superiorità su un trattamento già ampiamento testato e di provata – sia pure limitata in ampiezza – efficacia.

Da notare che nel gruppo MOSST c’è stato un solo drop-out (3%), che è un risultato abbastanza rimarchervole. Sicuramente ha aiutato che i pazienti venissero da aree rurali e quindi fossero portati al servizio da familiari o da bus dedicati. Ma comunque hanno aderito, il fattore facilità del trasporto non poteva spiegare un tale livello di aderenza da solo. Dal punto di vista soggettivo dei pazienti, tutti i 35 che hanno completato il Metacognition Oriented Social Skills Training lo hanno descritto come: utile, generalizzabile alla vita reale, raccomandabile ad altri, piacevole. La descrizione soggettiva della piacevolezza del programma è una conferma della validità della filosofia alla base della Terapia Metacognitiva Interpersonale, dove cerchiamo di promuovere nei pazienti la speranza di raggiungere dei desideri soggettivamente importanti in un clima che cerca di essere leggero, volto all’esplorazione e alla curiosità sugli stati mentali e sul mondo.

Yoga orientato alla consapevolezza per ridurre i comportamenti rischiosi

Seguire dei programmi di yoga orientati alla consapevolezza contribuisce allo sviluppo di stili di coping positivi e riduce i comportamenti rischiosi.

 

Vivere eventi stressanti può indurre comportamenti a rischio

Jacinda Dariotis, ricercatrice dell’Università di Cincinnati, Ohio, si interessa da anni dell’insegnamento della regolazione di pensieri ed emozioni dei giovani a rischio, ovvero di quei giovani che hanno vissuto stress, come ad esempio esposizioni a violenza.

Innanzitutto è stato dimostrato che vi è un collegamento tra stressor precoci e comportamenti a rischio, in particolare gli eventi di vita stressanti vissuti dai giovani predicono comportamenti di abuso di sostanze, comportamenti sessuali a rischio e condotte delinquenziali.

I primi risultati sono stati presentati alla conferenza dell’American Public Health Association, ad Atlanta.

Lo studio è stato condotto su un gruppo eterogeneo di giovani tra i 18 ed i 24 anni.

Sono state raccolte informazioni attraverso interviste e questionari, sono stati considerati aspetti legati alla struttura e alla funzionalità cerebrale, attraverso studi di neuroimaging, sono stati inoltre raccolti campioni di urina per valutare l’utilizzo o meno di droghe ed infine sono stati misurati i livelli ormonali di testosterone.

Il testosterone è stato considerato importante nello studio in quanto è un ormone particolarmente influente nei comportamenti dominanti e aggressivi. Eppure alti livelli di testosterone non sono negativi di per sé, possono anche essere incanalati verso una sana competizione sportiva, ad esempio.

Lo yoga riduce la messa in atto di comportamenti rischiosi derivanti da eventi stressanti

In una prima fase di osservazione è emerso come alcuni soggetti abbiano stili di coping positivi, autogenerati oppure appresi, che possono rivelarsi protettivi rispetto agli stressor precoci.

Taluni giovani che hanno subito eventi di vita stressanti e che hanno frequentato corsi di yoga meditativo e consapevole hanno mostrato stili di coping positivi innanzi agli stressor, evitando la messa in atto di comportamenti rischiosi, perché si dimostrano in grado di pensare a cose migliori rispetto ai brutti eventi accaduti loro.

Questi soggetti hanno il doppio delle possibilità di evitare comportamenti a rischio.

Così, in base a quanto notato e osservato, una seconda parte dello studio ha predisposto dei programmi settimanali di yoga orientato alla consapevolezza per i giovani partecipanti allo studio. Ai soggetti è stato insegnato come prendere il controllo del proprio respiro, delle proprie emozioni e ciò li ha aiutati a sviluppare abilità di coping a lungo termine più sane delle precedenti di cui disponevano.

Dato il basso costo ed il facile adattamento a differenti popolazioni, sarebbe importante inserire tali programmi per migliorare le capacità di coping dei soggetti più vulnerabili e canalizzare efficacemente le loro capacità. Un effetto positivo secondario, rispetto al loro benessere, sarebbe la riduzione di arresti e recidive.

Ascoltare con tutti i sensi: Riflessioni sull’ascolto pluri-sensoriale in psicoterapia

Recuperando le riflessioni offerte da Resnik (2005) circa l’importanza dell’ascoltare “con tutti i sensi” il paziente e ciò che accade dentro la relaziona psicoterapica, ritengo che sia molto stimolante poter pensare all’ascolto come ad una traccia musicale che per essere udita trova canali espressivi spesso alternativi e/o complementari al canale uditivo, e che dunque permettono l’attivazione di diversi centri sensoriali: olfatto, tatto, vista. Canali ricettivi ed espressivi che passano attraverso il delicato rapporto che esiste tra corpo e psiche.

 

Già Freud aveva considerato il corpo come una cerniera tra lo psichico e la materia fisica, qualcosa che il soggetto è, ma anche qualcosa che il soggetto guarda, tocca, odora, ammira o disprezza. In tal senso, il corpo diviene tetro comunicativo principale, un corpo che parla e che a volte svolge le operazioni conflittuali proprie della psiche, come nelle manifestazioni psicosomatiche.

L’ascolto del corpo e del livello comunicazionale non verbale, pertanto, appare un canale di comprensione centrale tanto quanto quello verbale, poiché i due livelli condividono e generano, sin dalla nascita del soggetto e della sua soggettività, la dimensione psichica; del concetto di sé corporeo non a caso si sono occupati diversi autori, che a partire dai contributi di Winnicott relativi alle funzioni di holding e handling materno (1965), hanno colto il nesso profondo che esiste tra corpo-psiche e intersoggettività.

La fondazione del corpo è legata all’intersoggettività, e l’insediamento della mente nel corpo viaggia attraverso di essa (Panizza, 2008), poiché è attraverso lo scambio comunicativo, l’ascolto multisensoriale reciproco, che si pongono le basi per l’interiorizzazione di un modello intrapsichico che permette il transito tra sé come soggetto che riflette e sé come oggetto su cui riflette, favorendo così l’integrazione mente-corpo. Resnik pone l’accento su un aspetto centrale relativo al discorso sul corpo “L’Io psichico ha un suo habitat che è il corpo, e il corpo è un corpo vissuto nella misura in cui è abitato dalla psiche”, ma la dimensione di vitalità a cui l’autore fa riferimento, quando parla dei pazienti in analisi, ritengo che debba nutrirsi e venire ulteriormente rigenerata attraverso l’incontro con la mente-corpo dell’analista che a sua volta deve essere altrettanto viva e disponibile all’ascolto multisensoriale del paziente. La comunicazione è intersoggettiva, e questo è un assunto che la scuola psicoanalitica moderna ha avvalorato e ormai ha fatto proprio come concetto di base, ma ciò che oggi necessita di ulteriore attenzione è l’idea che anche l’ascolto sia intersoggettivo, nelle sue diverse forme espressive; l’odore del paziente, a cui Bion ha dedicato alcune raffinate riflessioni, riprese nel testo da Resnik (2009), non può non prescindere dall’odore che lo stesso analista emette e sul quale il paziente può fantasticare, e lo stesso vale per i suoni, le smorfie, i movimenti corporali, al loro rapidità o lentezza, etc…un paziente dunque non più “ingenuo” ma capace anche egli di respirare continuamente i movimenti dell’analista (Panizza, 2008)

A tal proposito, è possibile ampliare la riflessione sull’ascolto analitico, mettendo in luce i diversi canali di ascolto, alternativi allo sguardo, che il setting da lettino attiva tanto nel paziente quanto nell’analista, seppur non si può non tenere conto di una grossa asimmetria, ovvero il paziente non vede l’analista mentre l’analista guarda il paziente, e ancora il paziente sa di essere visto dall’analista che a sua volta sa di non essere visto dal paziente. Cosa rimane dunque al paziente? L’udito e le sensazioni olfattive e cenestesiche, che permettono l’attivarsi di meccanismi associativi, regressivi e stati di rêverie che si intrecciano a quelli propri dell’analista generando un campo terzo (Ogden, 1997) nel quale gli stessi canali di ricezione e comprensione subisco delle trasformazioni che danno avvio al processo analitico.

Il matrimonio può ridurre il rischio di sviluppare la demenza

I risultati di uno studio di meta-analisi pubblicato online sul Journal of Neurology Neurosurgery & Psychiatry, dimostrano che i single e le persone vedove risultano avere un rischio superiore di sviluppare demenza.

 

Il rischio di demenza nelle persone sposate e single

L’indagine è basata sui dati ottenuti da 15 studi pertinenti l’argomento, pubblicati sino al 2016. Le ricerche esaminate indagano il potenziale ruolo dello stato civile sul rischio di sviluppare la demenza e hanno coinvolto più di 800 mila partecipanti provenienti da Europa, Nord e Sud America e Asia.

Il campione esaminato è composto da soggetti sposati, i quali rappresentano tra il 28% e l’80% dei partecipanti, da persone rimaste vedove che sono all’incirca tra l’8% e il 48% mentre i divorziati rappresentano tra lo 0 e il 16% dei partecipanti e i single tra lo 0 e il 32% del campione.

L’analisi dei dati ha mostrato che, rispetto alle persone sposate, i single presentano il 42% di probabilità in più di sviluppare la demenza, indipendentemente dall’età e dal sesso. I ricercatori suggeriscono che parte di questo rischio potrebbe essere attribuibile al fatto che le persone sole godano di una minore salute fisica. Studi più recenti indicano al contrario una probabilità del 24%, il dato suggerisce una diminuzione del rischio nel tempo apparentemente senza un chiaro motivo.

I vedovi hanno una probabilità del 20% circa di sviluppare demenza rispetto ai soggetti coniugati sebbene la forza di questa associazione sia leggermente indebolita se si considera il livello di istruzione. La possibile spiegazione offerta circa quest’evidenza è quella secondo la quale il lutto porta a un aumento dei livelli di stress percepito, i quali a loro volta vengono associati ad un’alterata segnalazione nervosa e a una diminuita abilità cognitiva.

Nessuna associazione di questo tipo è stata invece riscontrata negli individui divorziati anche se questo, chiariscono i ricercatori, potrebbe essere in parte dovuto al minor numero di persone appartenenti a questo status incluso nel campione.

Il matrimonio riduce il rischio della demenza

Un’analisi dei dati più dettagliata condotta sulle evidenze ottenute ha confermato la minor probabilità di sviluppare il disturbo per i soggetti sposati riflettendo così “la robustezza dei risultati”. Gli autori specificano però che non è possibile trarre conclusioni certe circa la causalità in quanto le scoperte si basano esclusivamente su studi osservazionali e correlazionali; inoltre è necessario considerare alcuni limiti degli studi esaminati ad esempio la mancanza di informazioni relative alla durata della vedovanza o del divorzio.
I ricercatori hanno formulato diverse ipotesi per spiegare i risultati ottenuti, prima fra tutte l’idea secondo la quale il matrimonio potrebbe aiutare entrambi i partner ad avere stili di vita più salutari svolgendo più esercizio fisico, seguendo una dieta sana e riducendo l’uso di alcol e sigarette, tutti elementi questi associati a un minor rischio di demenza.

Christopher Chen, della National University di Singapore e Vincent Mok, della Chinese University di Hong Kong suggeriscono l’aggiunta dello stato civile alla lista dei fattori di rischio modificabili per la demenza e dichiarano “La sfida maggiore ora è rappresentata dal trovare un modo per tradurre questa scoperta in efficaci mezzi di prevenzione della demenza. L’esistenza di fattori di rischio potenzialmente modificabili non significa certo che la demenza possa essere facilmente prevenuta tuttavia alla luce dei risultati ottenuti e delle sempre nuove scoperte riguardanti programmi di salute pubblica e biomedica è necessario trovare metodi per destigmatizzare questo disturbo e creare comunità terapeutiche incentrate sui pazienti affetti da demenza”.

“Neuropsicantria Infantile” di Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli: il nuovo libro-cd

“Neuropsicantria Infantile” raccoglie diciassette canzoni sui disturbi psicologici e relazionali dei bambini, scritte con la perizia cantautorale di chi sa plasmare parole e musica unendo precisione clinica, poesia e leggerezza. Ad ogni traccia corrisponde un capitolo del libro dal titolo omonimo, scritto da alcuni colleghi dei due psicosongwriters.

Ma la vera intuizione, da parte di Palmieri e di Grassilli, è che la musica, meglio, la canzone, sia un mezzo fantastico, a poco prezzo, per creare empatia, per suscitare partecipazione: sono pronto a scommettere che queste canzoni, orecchiabili, a volte persino ballabili, riuscirebbero a muovere emozioni anche in chi non fosse particolarmente interessato ad indagare la condizione esistenziale propria ed altrui

(Francesco Guccini)

Neuropsicantria infantile: la musica come tecnica terapeutica

Non elogiate il pensiero che è sempre più raro / non indicate per loro una via conosciuta, / ma se proprio volete, insegnate soltanto / la magia della vita” cantava Giorgio Gaber nel suo ultimo disco “Io non mi sento italiano”. E non è un caso che Gaspare Palmieri (in arte Gappa psichiatra e cantautore) e Cristian Grassilli (psicoterapeuta, musicoterapeuta e cantautore) abbiano scelto questa citazione in apertura del libro che completa il nuovo disco “Neuropsicantria Infantile” a nome Psicantria.

Oltre a pubblicare dischi, Psicantria è anche un’associazione culturale che promuove l’uso della canzone come tecnica terapeutica in ambito psichiatrico e organizza laboratori di musicoterapia, workshop, convegni, concerti psicoeducativi.

“Neuropsicantria Infantile” raccoglie diciassette canzoni sui disturbi psicologici e relazionali dei bambini, scritte con la perizia cantautorale di chi sa plasmare parole e musica unendo precisione clinica, poesia e leggerezza. Ad ogni traccia corrisponde un capitolo del libro dal titolo omonimo, scritto da alcuni colleghi dei due psicosongwriters.

Dopo aver già pubblicato due lavori dedicati al mondo degli adulti (“Psicantria – manuale di psicopatologia cantata”, 2011, e “Psicantria della vita quotidiana”, 2014) ed essere stati i coautori di una canzone nell’ultimo disco di Francesco Guccini (“Notti”), Palmieri e Grassilli raccontano questa volta storie – che a tratti commuovono e a tratti fanno sorridere – di malattia e di guarigione, di cura e presa in carico, di collaborazione e di lavoro di equipe, dove i protagonisti sono figli e nipoti coinvolti nelle più svariate situazioni. La maggior parte dei brani è rivolta agli adulti, mentre tre pezzi conclusivi (“Mondo meraviglia”, “Dario il veterinario”, “Il babbone pasticcione”) sono rivolti ai bambini. Ogni traccia però, spiegano i due, “ha una funzione psicoeducativa in quanto veicola, attraverso il racconto musicato, concetti e informazioni legati alla sfera psicologica e relazionale.” “Ad oggi il 15/20% della popolazione tra 0 e18 anni manifesta un qualche tipo di difficoltà di carattere psicopatologico e di questi solo il 10/15% viene preso in cura da servizi pubblici e privati. Il restante rimane impigliato in modo vario nella sua condizione psicopatologica”. “Neuropsicantria Infantile” apre un varco su queste situazioni, “in modo che queste persone risultino più ‘simpatiche’ e venga scalfito il muro dell’indifferenza e il segno negativo con cui a volte vengono bollate le persone con problematiche psichiche.”

Neuropsicantria infantile (VIDEO):

I temi psicologici trattati nelle canzoni di Psicantria

L’ispirazione è tutta rivolta al cantautorato più classico di De Andrè, Capossela, Gaber, Guccini, dedicando grande attenzione ai testi, vista anche la delicatezza di certi temi, come l’autismo (“Il mio fratellino”) e l’abuso (“Orco zio”). Non mancano però canzoni più ironiche (“Pinocchio DSA”, “Stornello della separansione”, “Ninna nanna dei contrari”) che aiutano a sdrammatizzare situazioni complesse e a trattare tematiche delicate con leggerezza, magari sfatando il mito del genitore perfetto (“Il Babbone pasticcione”) o suggerendo che Pinocchio non era un somaro ma un alunno con difficoltà di apprendimento (“Pinocchio DSA”).

I generi si muovono dal folk al pop, passando per la musica araba e africana, gli stornelli romani di “Stornello Della Separansione”, la bossa nova, le ballad pianoforte e archi, il blues di una “Maternity Blues” che è anche il nome di una patologia che può colpire le neomamme, o ancora il rock di “Simone Tartaglione” scritta insieme al cantautore e logopedista Alberto Bertoli.

“Neuropsicantria Infantile” è anche il titolo del primo singolo tratto dal disco, una divertente filastrocca che cita l’intramontabile Vecchia Fattoria. Il brano anticipa la coralità delle tracce successive, che hanno come protagonisti le figure che ruotano attorno al bambino nel contesto famigliare, scolastico e sanitario. A parlare è il bambino stesso (come in “Dario il veterinario”, che vede la partecipazione del Coro Euridicinni di Bologna), talvolta un’insegnante, una sorella, un genitore: l’effetto è quello di un disco a più voci, un autentico concept album dove non prevalgono mai i tecnicismi clinici ma l’umanità di chi, bambino o genitore, ha bisogno di una strada da percorrere per vivere meglio.

Una strada che magari passa anche da una bella canzone: “Negli occhi di un bambino ti perdi e ricordi il tuo passato, / ti chiedi che cosa sia rimasto del bimbo che sei stato“.

La copertina e il progetto grafico

Nel progetto grafico – spiegano Gaspare e Cristian – abbiamo utilizzato un’immagine del fumettista modenese Clod (già collaboratore di Bonvi) integrata a disegni realizzati dalle classi dell’Istituto Madre Maria Mazzarello di Firenze, che nell’ambito di un laboratorio condotto da un’insegnante hanno ascoltato la canzone del CD ‘Mondo meraviglia’ e successivamente hanno realizzato scritti e disegni sul tema dello ‘stupore’ infantile, descrivendo che cosa li sorprendesse del mondo.”

Live

Lo spettacolo live è per certi versi ispirato al teatro canzone. L’esecuzione dei brani in formazione unplugged o con la band è preceduta da un dialogo tra noi due, che a tratti prende la forma di sketch teatrali sul tema del brano. Negli ultimi sette anni ci siamo esibiti in oltre duecento concerti in tutta Italia, prevalentemente in teatri, scuole, università, convegni scientifici, feste di associazioni legate alla salute mentale.”

 

Ascolta il disco in streaming qui

L’attenzione non è mai troppa: Applicazione dell’Attention Training Technique per migliorare la performance sportiva

Nello sport, gli atleti esperiscono pensieri ed emozioni intrusivi che possono ostacolarli nella performance, impedendogli di raggiungere gli obiettivi sperati. L’ attention training technique dovrebbe aiutare gli atleti a raggiungere lo stato di detached mindfulness, concentrandosi così sugli stimoli importanti per la loro performance e non considerando pensieri intrusivi distraenti come emozioni e pensieri negativi (Moen & Firing, 2015).

Elena Mazzieri, Open School Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Le difficoltà dell’atleta di alto livello

Essere atleta di alto livello non è un mestiere affatto semplice. Comunemente si pensa che per essere un buon atleta bisogna avere talento, allenarsi quotidianamente e avere delle adeguate capacità mentali. Ma che significa adeguate capacità mentali? Noi tutti sappiamo che anche in quello che sembra un banalissimo gesto atletico, come ad esempio calciare la palla o colpire con la mazza una pallina da golf, si nasconde dietro fatica, sudore, ripetizioni su ripetizioni affinché il gesto diventi perfetto e automatico. È risaputo, infatti, che la quantità di tempo speso ad esercitarsi quotidianamente sia fondamentale per trasformare il talento di un atleta in risultati sportivi (Ericsson et al., 1993). Questo però a volte non basta. Tutti noi abbiamo praticato sport da piccoli, e i nostri allenatori ci ripetevano sempre di porre attenzione a quello che stavamo facendo. Da ex giocatrice (con scarsi risultati, lo devo ammettere) di pallavolo, ricordo con particolare antipatia quando, in partita, l’allenatore ci diceva di concentrarci sulla partita, sulla palla, e di ignorare tutto il resto: il sorriso di sfida delle avversarie, gli spalti pieni di amici e parenti venuti a fare il tifo, il fidanzato di turno che ti guarda e tu non riesci a pensare ad altro se non alla pessima figura che farai sbagliando anche la prossima palla. “State attente!” ci diceva. Sembrava facile…

In realtà proprio tutti i torti il povero allenatore non li aveva. Soprattutto a livelli ben più alti di quelli in cui giocavo io, gli atleti sono costantemente esposti ad una varietà di stimoli, spesso in rapido cambiamento, che richiedono uno sforzo attentivo elevato e continuativo (Faubert, 2013), al punto da poter supporre che siano proprio queste risorse attentive, ed in particolare l’abilità di controllarle, una delle condizioni necessarie, assieme alla pratica costante, per ottenere un miglioramento nella performance sportiva (Csikszentmihalyi, 1990; Perna et al., 2003; Faubert & Sidebottom, 2012) e, perché no, il raggiungimento di ottimi risultati nello sport.

La deliberate practice: l’importanza dell’attenzione nello sport

Alcuni autori sono arrivati a parlare di “deliberate practice” (Ericsson at al., 1993), vale a dire un tipo di allenamento che richiede, oltre al duro lavoro, un’attenzione intensa e costante. Per capirci meglio, se uno sciatore si allena per molte ore ma non pone adeguata attenzione a ciò che sta facendo, non si può parlare di deliberate practice, cosa invece possibile nel momento in cui lo stesso sciatore si concentra su specifici aspetti della performance che deve migliorare, come ad esempio aumentare la forza (Moen & Firing, 2015). Se quindi, per sviluppare competenza nello sport, l’elemento chiave è proprio la deliberate practice, parte essenziale di questa è il focus attentivo (Ericsson, 2009).

A voler dar ragione ai poveri allenatori che nel mondo incitano i propri atleti ad essere concentrati ed attenti, diversi studi scientifici hanno dimostrato come per avere successo nello sport siano fondamentali le abilità di usare consapevolmente le risorse attentive dell’atleta (Bernier et al., 2009; Kaufman et al., 2009; Kee & Wang, 2008; Moen & Firing, 2015). Su un punto, però, noi atleti di bassa leva non ci sbagliavamo: non è urlandoci di stare attenti che si risolve la situazione!

Per aiutare sia allenatori che atleti, nel campo della psicologia dello sport, sono stati messi a punto diversi programmi per incrementare le risorse attentive degli atleti (Faubert & Sidebottom, 2012). Tradizionalmente vengono utilizzati interventi come l’imagery, il self-talk e il goal setting (Weinberg & Gould, 2011), che hanno lo scopo di aiutare a controllare i fattori mentali interni negativi che possono influenzare la performance dell’atleta (Gardner & Moore, 2006). Sebbene siano tuttora ampiamente utilizzati, questi interventi in realtà non fanno altro che aumentare gli stati negativi stessi, dal momento che preparano gli atleti a ricercare questi fenomeni (Wegner, 1994). Così facendo, l’atleta esegue una sorta di scansione degli stati interiori che rende le emozioni e i pensieri negativi più consapevoli, distraendosi dal compito del momento ed influenzando negativamente la performance sportiva (Bertollo et al., 2009). In poche parole, continuandoci ad urlare di stare attente e di ignorare la folla sugli spalti, il nostro caro allenatore non faceva altro che renderci ben più presente che lì accanto a noi c’erano persone a guardarci e giudicarci, innescando tutta una serie di pensieri negativi (“cosa penserà di me se sbaglio di nuovo?”) che non facevano altro che peggiorare la nostra già scarsa performance in partita.

Quello che poi mandava letteralmente fuori di testa il nostro povero allenatore, era che mentre in partita non riuscivamo a fare un punto nemmeno se le avversarie restavano immobili, durante gli allenamenti facevamo azioni da far invidia a Mila e Shiro. Lui continuava a sostenere che in partita non eravamo abbastanza attente e concentrate, e forse, di nuovo, stava dicendo la cosa giusta.

Durante gli allenamenti non c’erano avversarie, spettatori, amici, parenti e quant’altro che potevano distrarci. Ci concedevamo di sbagliare con più tranquillità, tanto non c’era in gioco la partita o il campionato. Proprio questa mancanza di pensieri intrusivi negativi ci permetteva di giocare con la piena consapevolezza di quanto stavamo facendo. In uno stile un po’ mindfulness, che decisamente mancava durante la partita.

Va da sé che questo è soltanto un esempio dei possibili pensieri intrusivi negativi che possono inficiare la performance sportiva. Non per tutti gli atleti la presenza degli spettatori è un elemento di disturbo, anzi… Molto spesso, specialmente ad alti livelli, il pubblico esalta l’atleta spingendolo a dare il meglio di sé. Quello che può essere fonte di distrazione per uno, non lo è necessariamente per un altro atleta, e gli esempi che potremmo fare sono potenzialmente infiniti. Per semplicità, continueremo con questo esempio.

L’ efficacia degli interventi di mindfulness nello sport

Partendo dal presupposto della scarsa efficacia degli interventi tradizionali, si è iniziato a pensare che potrebbe essere più benefico per gli atleti sviluppare capacità che comportino la consapevolezza e accettazione del momento presente (Gardner & Moore, 2006; Kaufman et al., 2009). Questo cambiamento di paradigma rappresenta la base dei nuovi interventi in psicologia dello sport fondati sulla Mindfulness.

La Mindfulness è stata definita come un porre attenzione di proposito, nel momento presente, senza giudicare (Brown & Ryan, 2003; Kabat-Zinn, 1994). Le tecniche basate sulla mindfulness richiedono di accettare e osservare gli stati interni che si provano nel presente senza giudicarli. In questo modo l’atleta si distanzia dai propri pensieri ed emozioni assumendo la prospettiva di un osservatore esterno (Jekauc et al., 2017). Proprio questa prospettiva evita che l’atleta venga invaso dai propri pensieri e sentimenti, permettendogli di decidere in maniera cosciente se seguire e perdersi nei propri pensieri o focalizzarsi su qualcos’altro. Usando questa tecnica, l’atleta guadagna stabilità emotiva e impara a mantenere l’attenzione su quello che sta accadendo in quel momento (Jekauc et al., 2017), ottimizzando la performance sportiva.

L’abilità di usare l’attenzione come uno strumento per porre sotto la lente d’ingrandimento specifici aspetti dell’esperienza dell’atleta, consente di non perdersi in informazioni superflue e di concentrarsi sugli stimoli ottimali alla performance (Csikszentmihalyi, 1990; Wadlinger & Isaacowitz, 2011). Va da sé, quindi, che diventa essenziale l’abilità dell’atleta di dirigere l’attenzione verso quelli che sono gli aspetti più rilevanti per ottenere un’adeguata prestazione (Csikszentmihalyi, 1990; Ericsson et al., 1993).

La teoria metacognitiva: la Cognitive Attentional Syndrome e l’ Attention Training Technique

Ritornando per un attimo alla teoria metacognitiva, questa ipotizza che ad essere responsabile dei disturbi psicologici è lo stile di pensiero chiamato Cognitive Attentional Syndrome (CAS) (Wells, 2009). Questo stile di pensiero è collegato a metacognizioni interne che controllano il pensiero e l’attenzione, e bloccano l’individuo in un pattern persistente di pensieri negativi difficili da controllare. I pensieri automatici negativi fanno da trigger, quindi, ad una reazione maladattiva, la CAS appunto, la quale contribuisce a sviluppare emozioni negative come ansia e depressione (Wells, 2009).

Per essere più chiari, nel momento in cui, durante la nostra partita di pallavolo, il solito allenatore ci dice di non guardare gli spettatori e di concentrarci solo sulla partita, quasi inevitabilmente non riusciamo a pensare ad altro se non a chi ci guarda dagli spalti, focalizzandoci sul pensiero intrusivo “cosa penserà di me se sbaglierò di nuovo?” e, ruminando su questo, aumenta sempre di più la sensazione di ansia. In questo modo la performance sportiva andrà costantemente a peggiorare, anche perché la nostra attenzione resterà focalizzata sul pensiero intrusivo e su stimoli esterni (nel nostro caso, le persone sedute sugli spalti) anziché essere concentrata sul gioco e sul gesto atletico.

Sulla base della CAS, è stato sviluppato l’ Attention Training Technique (ATT), il cui scopo è quello di aiutare i partecipanti a sviluppare l’abilità di spostare la propria attenzione dagli stimoli emotivi a stimoli neutri, attraverso l’uso di compiti uditivi. (Wells, 1990; Wells, 2005).

Nell’ Attention Training Technique originale, i partecipanti devono in un primo momento concentrarsi e mantenere la propria attenzione su uno stimolo ambientale, come ad esempio il ticchettio dell’orologio, tentando di non farsi distrarre da altri suoni o pensieri. Wells (1990) definisce questo esercizio “attenzione selettiva”. In seguito i partecipanti devono selettivamente spostare la propria attenzione su suoni più remoti che aumentano l’interferenza acustica (ad esempio, il rumore del traffico, il suono delle campane di una chiesa, e così via) e spostare alternativamente l’attenzione su questi due suoni, esercizio chiamato “cambio di attenzione” (Wells, 1990).

Lo scopo del training è di seguire le istruzioni attentive date indipendentemente da cosa può o non può essere sentito nel corpo e nella mente dei partecipanti. Gli eventi interni dovrebbero essere trattati come fonti aggiuntive di rumori ai quali non deve essere dato ascolto. Lo scopo non è evitare o sopprimere pensieri ed emozioni, ma lasciargli occupare il proprio spazio interno senza dar loro peso. (Nassif & Wells, 2013). Wells e Matthews (1994) definiscono questo tipo di esperienza “detached mindfulness”, vale a dire un tipo di consapevolezza degli eventi interni, come pensieri ed emozioni, ma senza un’analisi concettuale ed una risposta diretta ad uno scopo (Wells, 2005). In questo stato i pensieri sono come degli oggetti presenti nella mente separati dalla realtà.

L’ Attention Training Technique nello sport

Questo funziona in ambito clinico, ma nello sport? Applicare l’ Attention Training Technique come intervento sostituivo ai tradizionali che, come abbiamo visto, non sembrano produrre i risultati sperati, potrebbe migliorare la performance sportiva? Teoricamente sì. Nello sport, infatti, gli atleti esperiscono pensieri ed emozioni intrusivi che possono ostacolarli nella performance sportiva, impedendogli di raggiungere gli obiettivi sperati. L’attention training technique dovrebbe aiutare gli atleti a raggiungere lo stato di detached mindfulness, concentrandosi così sugli stimoli importanti per la loro performance e non considerando pensieri intrusivi distraenti come emozioni e pensieri negativi (Moen & Firing, 2015). Mi spiego meglio. In linea teorica, se avessimo praticato l’ Attention Training Technique, il pensiero “cosa penserà di me se sbaglierò di nuovo?” sarebbe rimasto nella nostra mente di giovani giocatrici di pallavolo senza essere giudicato o senza ruminarci sopra. Saremmo rimaste concentrate sul gesto atletico del momento e forse, dico forse, una o due partite saremmo riuscite a vincerle.

Dal punto di vista teorico, quindi, la cosa sembrerebbe funzionare. Sarà così anche praticamente?
Dalle ricerche in ambito scientifico, emerge che relativamente pochi sono stati gli studi che hanno applicato l’ Attention Training Technique nello sport. Tra questi emergono quelli svolti dal gruppo di ricerca di Moen et al. (2015, 2016). Nel loro primo lavoro, lo scopo era proprio quello di verificare come l’ Attention Training Technique influenzasse l’esperienza nello sport in un gruppo di giovani atleti norvegesi. Il programma che hanno implementato ha avuto la durata di 12 settimane, durante le quali gli atleti dovevano ascoltare, per almeno 5 volte la settimana, un file audio di circa 12 minuti. Lo scopo era quello di diminuire il focus attentivo interiore e di aumentare il controllo attentivo esecutivo (Fisher & Wells, 2009). Ogni tre settimane, veniva svota una sessione di gruppo in cui si discuteva l’andamento del progetto. Dallo studio è emerso che l’ Attention Training Technique influenza l’abilità degli atleti di passare da uno stato in cui la mente divaga liberamente ad uno stato in cui viene preso il controllo esecutivo della propria attenzione. Una volta che gli atleti hanno esperito di avere un controllo esecutivo della propria attenzione, diventano capaci di spostare l’attenzione su elementi chiave che permette loro di agire consapevolmente sul contesto che li circonda. In questo modo, quindi, diventano capaci di capire se stessi ad un livello più profondo e di migliorare la propria autostima (Moen et al., 2015).

Gli stessi autori, un anno dopo, hanno approfondito lo studio con strumenti ed ipotesi più solide, supponendo che l’ Attention Training Technique fosse in grado di ridurre lo stress e di migliorare le performance sportive di un gruppo di giovani atleti. Anche in questo caso, l’ Attention Training Technique è stato svolto tramite un file audio di 12 minuti da ascoltare per almeno 5 volte alla settimana (Moen et al., 2016). Come nella ricerca precedente, ogni tre settimane veniva condotta una sessione di gruppo con lo scopo di stimolare riflessioni sulle influenze che l’ Attention Training Technique potrebbe avere in ambito sportivo o nella vita di tutti i giorni (Moen et al., 2016).

Dai risultati emerge che, a seguito dell’ Attention Training Technique, il livello di stress percepito negli atleti è diminuito, così come sono migliorate le performance in ambito sportivo (Moen et al., 2016). Uno degli effetti principale dell’ Attention Training Technique riguarda la capacità degli atleti di imparare a spostare l’attenzione dai pensieri intrusivi interni (CAS) a stimoli benefici, come ad esempio informazioni più neutrali (Papageorgiou & Wells, 2000; Papageorgiou & Wells, 1998), Siegle et al., 2007; Wells, 1990, 2005; Wells et al., 1997), riducendo così l’ansia e la ruminazione. Nello specifico, la riduzione a seguito dell’ Attention Training Technique del livello percepito di stress è dovuta, probabilmente, al fatto che l’ Attention Training Technique è in grado di interrompere la CAS, aiutando così gli atleti a rafforzare la consapevolezza del proprio controllo sui processi attentivi (Callinan et al., 2015; Yilmaz et al., 2011).

Tramite l’ Attention Training Technique, gli atleti vengono allenati ad accettare i pensieri e le emozioni che possono comparire durante l’allenamento e la performance sportiva, così da prevenire il processamento concettuale (cioè l’analisi che permette di dare significato alle informazioni) o le strategie dirette allo scopo di rimuovere o evitare pensieri e emozioni. L’abilità degli atleti di accettare questi pensieri ed emozioni potenzialmente disturbanti è influenzata dalla loro capacità di metaconsapevolezza, influenzata anch’essa dall’ Attention Training Technique. Se non sono consapevoli delle loro esperienze interiori, infatti, gli atleti non possono accettare i pensieri ed emozioni disturbanti ed evitare l’analisi concettuale o le strategie dirette ad uno scopo (Moen et al., 2016). Questo dovrebbe essere uno strumento benefico per prevenire lo stress, dal momento che impedisce la possibile elaborazione di pensieri e sentimenti spiacevoli quali l’ansia e la ruminazione (Wells, 2009), facilitando così il cambio del focus attentivo verso l’obiettivo desiderato (Marks, 2008).

Tramite l’ Attention Training Technique, i giovani atleti partecipanti alla ricerca condotta da Moen et al., (2016) sono riusciti a migliorare l’abilità di dirigere la propria attenzione in maniera selettiva su obiettivi efficaci a poter esprimere il proprio reale potenziale e migliorare la performance. La capacità di focalizzare la propria attenzione in specifici aspetti della performance dell’atleta, come si diceva prima, è un elemento essenziale dell’allenamento. Inoltre, l’attenzione è essenziale per selezionare le informazioni più importanti così che la memoria di lavoro conservi queste informazioni in modo accessibile (Fougnie, 2008). In questo modo, l’informazione più importante per il compito da svolgere in quel momento è accessibile nella memoria di lavoro così che sia possibile eseguire automaticamente il potenziale intrinseco (Gucciardi & Dimmock, 2008).

Alla luce di questi risultati, è possibile ipotizzare che l’ Attention Training Technique rappresenti uno strumento importante per migliorare la perfomance sportiva, proprio perché va a potenziare quelle “capacità mentali” di cui si accennava poco fa e che, prima, ci erano un po’ oscure. Ora sappiamo che un grande atleta deve essere in grado di orientare in maniera consapevole la propria attenzione senza lasciarsi sopraffare da pensieri intrusivi negativi che andrebbero ad inficiare la performance. E per fare questo, sembra ottimale l’utilizzo dell’ Attention Training Technique, sebbene siano necessari ulteriori ricerche ed approfondimenti.
Insomma, il nostro allenatore non aveva poi tutti i torti; se non stai attenta, il punto lo segnerà l’avversaria.

Ambulatorio di cardiologia pediatrica: un cuore che può rinascere

In cardiologia pediatrica si riscontra spesso un’inibizione degli stati emozionali: proprio in questo contesto prevalgono delle condotte inibitorie nei confronti delle emozioni dei bambini e delle loro famiglie.

Sofia Tavella, Lorella Cartia, Marialuisa Macedone, Beatrice Plini, Elisabetta Masciotta       

 

Il contesto ospedaliero, anche in età pediatrica, rappresenta oggi una realtà ben conosciuta, da qualcuno solo per una breve parentesi, da qualcun altro per periodi più lunghi, in fasi di vita differenti e ad intervalli più o meno frequenti e regolari.

In queste circostanze le strutture ospedaliere, ed in particolare gli ambulatori, pur nel loro caos e nella loro confusione interna, diventano un luogo carico di significati disparati: dal punto di vista dei genitori e degli adulti di riferimento essi costituiscono il primo ambiente simbolico e prepotentemente reale in cui prendere coscienza della malattia e di tutto ciò che comporta in termini di interruzione della quotidianità, percezione della fragilità umana e minaccia di una progettualità che coinvolge inevitabilmente tutto il sistema che gravita intorno al bambino, specie se molto piccolo, con le relative emozioni di paura, rabbia, impotenza spesso non sufficientemente elaborate; dal punto di vista del bambino “malato”, invece, la soggettività del contesto e della propria condizione di malattia di frequente passa attraverso gli occhi dei grandi e del loro modo personale ed emotivo di leggere gli accadimenti per cui non è infrequente che l’ansia o la paura del bambino siano quelle, non contenute e proiettate, dell’adulto di riferimento.

In accordo con quanto sostenuto da Stern (1987), tutto ciò che dà forma alla relazione fra madre e bambino, per esempio il tono della voce, le espressioni del viso o i movimenti corporei e che si ripetono con una certa continuità nel tempo contribuisce a formare le modalità di relazioni stabili, coerenti e ricorrenti che il bambino impara a riconoscere e su cui inizia a strutturare un modello di relazione coerente con l’altro e di continuità del sé.

Quando, invece, il genitore o il familiare riesce a gestire le proprie ansie non proiettandole sul bambino e ponendosi come risorsa per lui, ecco che l’ambulatorio può diventare anche un contesto ludico, ri-creativo, persino rassicurante in cui sperimentare, anche nei momenti a volte interminabili di attesa, esperienze positive che, pur agendo nell’hic et nunc, possano sostituirsi alle sensazioni negative di una condizione oggettiva di malattia. E allora anche lo spazio ambulatoriale può offrire per i grandi un’occasione di scambio dialettico o di sfogo, e per i piccoli uno spazio di contenimento, di supporto o di benessere, attraverso il disegno, la scelta dei colori, o il gioco.

Come sostiene M. Klein (1932), il gioco rappresenta nel bambino, il corrispettivo delle libere associazioni per l’adulto. Infatti, è proprio attraverso il gioco che i bambini danno forma alla propria realtà ed esprimono tutti i loro conflitti inconsci, le fantasie, desideri, o paure interne, molto più che con il linguaggio.

I correlati psicologici negli ambulatori di cardiologia pediatrica

Rispetto all’esperienza di ospedalizzazione e di lungodegenza che si riscontra nei reparti di patologie gravi come quello di oncologia pediatrica, il cui clima emotivo è prevalentemente permeato da un’angoscia di morte che può assumere i connotati della derealizzazione (che minaccia i progetti e il futuro), della depersonalizzazione (che comporta uno squilibrio psichico) e della destrutturazione (che mette a repentaglio il mito della salute), nell’ambulatorio di cardiologia pediatrica l’angoscia di morte non sembra giocare un ruolo attivo.

Può sembrare paradossale, ma proprio in cardiologia pediatrica in cui ci si prende cura di una patologia più o meno grave che da un momento all’altro potrebbe far perdere la vita, le angosce di morte sembrano svanire per lasciare spazio ad altri stati emozionali, o meglio all’inibizione degli stessi. Infatti, proprio in questo contesto prevalgono delle condotte di inibizione nei confronti degli stati emotivi dei bambini e delle loro famiglie.

Se consideriamo metaforicamente il cuore come il luogo della salute e dei nostri affetti, osserviamo che le patologie cardiache aprono nei genitori una profonda ferita narcisistica poiché esse contrastano con l’immagine idealizzata e perfetta della procreazione.

Ad uno stato iniziale di confusione e di forte disorientamento in seguito alla diagnosi, si accompagna un senso di impotenza e di colpa nei genitori, da cui deriva molto spesso una modalità di relazione basata sulla compiacenza e sull’obbedienza nei confronti del bambino malato.

Tale modalità rischia di compromettere il legame di attaccamento. Infatti, lo stesso Bowlby (1988) sottolinea come la qualità del legame dipenda dal modo in cui la madre (il genitore) risponde alle richieste di attaccamento. È proprio quando il bambino è in pericolo che dovrebbe essere visibile ed attivarsi il legame di attaccamento. Egli utilizza il termine di sensibilità materna per indicare le risposte che il bambino riceve dalla madre che per essere considerate ottimali devono essere immediate ed adeguate, ovvero devono comprendere il riconoscimento del bisogno del bambino sotteso a quel tipo di comportamento di attaccamento.

La realtà ambulatoriale in cardiologia pediatrica permette di confrontarsi con una molteplicità di situazioni e, allo stesso tempo, di poter sperimentare l’unicità di ogni bambino e l’esclusività del rapporto che si viene a creare attraverso e aldilà della malattia sia con i principali punti di riferimento che con gli operatori che incontra. I volontari del progetto “Al servizio dei bambini”, fondato dall’associazione Alma Salus nel 2007, offrono il loro contributo per sostenere i piccoli pazienti dell’ambulatorio di cardiologia pediatrica e le loro famiglie.

I pazienti in cardiologia pediatrica: il caso del piccolo Matteo

Matteo, 5 anni, è nato con una malformazione cardiaca, operato alla nascita si sottopone oggi a controlli periodici (ECG e visita cardiologica) all’ambulatorio di cardiologia pediatrica, divenuto per lui un ambiente quasi familiare. Viene accompagnato da entrambi i genitori ma solo la madre si ferma a raccontare le fasi iniziali della loro vicenda, dalla scoperta della diagnosi precoce all’intervento, includendone i grandi sensi di colpa che hanno accompagnato tutto il percorso e presenti soprattutto in lei. Oggi tali emozioni sembrano aver trovato uno spazio di accettazione e di elaborazione, come dimostra il desiderio di condividere tale esperienza, lasciando due genitori un po’ stanchi per un cammino lungo e faticoso ma dove l’ ansia non sembra più dominante come una volta. Essa sembra, infatti, aver ceduto il posto ad una forte consapevolezza che si traduce in una presenza costante che diventa risorsa al servizio della famiglia.

Ciò permette allo stesso Matteo di giocare oggi serenamente, familiarizzando anche con gli altri bambini in sala d’attesa dell’ambulatorio di cardiologia pediatrica, facendo anche da “ufficio informazioni” per i passanti che cercano un reparto specifico, dimostrando di essere ormai di casa. È proprio la presenza solida e puntuale dei genitori che permette al bambino di potersi aprire con gli operatori costruendo un clima di fiducia e di vicinanza anche attraverso il gioco simbolico. In un contesto come quello ospedaliero, il gioco simbolico assolve ad importanti funzioni come quella riparatoria e anticipatoria (Winnicott, 2006): il bambino si prepara a qualcosa di problematico o cerca di abbassare il livello ansioso dopo che l’evento problematico è avvenuto (pensiamo alla paura per la prima visita). Inoltre, il gioco simbolico permette al bambino di rappresentare la realtà, soprattutto imitandola, e di dominarla difendendosi dalla realtà “vera” fatta di divieti e regole.

Il dono della neuroplasticità: come si modifica il cervello

Il cervello e le sue interconnessioni strutturali si modificano durante il corso di tutta la nostra esistenza. La capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza prende il nome di neuroplasticità.

Laura Vacchini

Daniel Siegel: il benessere mentale deriva da una mente in equilibrio

Ci si sente disgregati, a disagio, sbilanciati, manca equilibrio e siamo pervasi da un qualche tipo di malessere. Cosa ci sta succedendo? Secondo Daniel J. Siegel, professore di psichiatria di fama internazionale presso la facoltà di medicina dell’UCLA e fondatore della neurobiologia interpersonale, è semplicemente un problema di integrazione. Capiamo meglio di cosa si tratta.

La neurobiologia interpersonale è una disciplina che approfondisce, con un approccio congiunto di scienze apparentemente slegate tra loro, lo sviluppo di conoscenze applicabili alla vita personale con l’obiettivo di raggiungere e mantenere il benessere individuale.

Secondo l’approccio promosso da Daniel J. Siegel, il benessere mentale arriva quando grazie ad una mente in equilibrio siamo in grado di instaurare relazioni empatiche e gratificanti. L’impianto teorico di riferimento è articolato e si basa sul concetto di mente come parte di un sistema interconnesso dove l’influenza reciproca produce ordine e unità.

L’autore rappresenta il benessere attraverso un triangolo ai cui vertici troviamo tre entità interdipendenti: cervello, mente e relazioni. Il cervello o encefalo, ovvero la parte del corpo racchiusa nella scatola cranica, è parte integrante del nostro sistema nervoso, è interconnesso con l’intero organismo ed è il luogo fisico di smistamento di ogni tipo di input che coinvolga il nostro corpo.

La neuroplasticità: la capacità del cervello di modificarsi in base all’esperienza

Nella neurobiologia interpersonale il termine cervello è utilizzato per indicare tutti i meccanismi neuronali che generano flussi di energia e informazioni che attraversano il corpo grazie al sistema nervoso. Il triangolo rappresenta il processo di interconnessione fra le parti, connessione che avviene grazie al movimento dei flussi di energia e di informazioni all’interno del sistema. Le parti di questo insieme si alimentano reciprocamente: il cervello è il luogo fisico dove si genera l’informazione e la mente funge da regolatore dei flussi informativi. Una mente ben integrata è sana e resiliente e consente di sviluppare output a loro volta in grado di generare equilibrio attraverso relazioni comunicative con l’ambiente esterno. La relazione è quindi il mezzo attraverso il quale avviene lo scambio di energia: connessioni e relazioni empatiche producono senso di gratificazione e a loro volta stimolano una vita mentale interiore sempre più coerente. Se c’è integrazione tra tutte le parti, questo sistema risulta armonico e flessibile, se l’integrazione è parziale o assente si manifestano rigidità e caos. In entrambi i casi, le implicazioni nella nostra vita sono notevoli.

Il cervello e le sue interconnessioni strutturali si modificano durante il corso di tutta la nostra esistenza. La capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza prende il nome di neuroplasticità.

Il cervello funziona come una totalità in cui tutte le sue parti sono interconnesse come una ragnatela di processi. Un cambiamento strutturale può comportare la creazione o il rafforzamento di connessioni tra neuroni già esistenti oppure la crescita di nuovi neuroni producendo effettivi mutamenti.

Come avviene tutto ciò? L’esperienza attiva, come ad esempio l’attenzione focalizzata, determina l’eccitazione dei neuroni, i quali a loro volta possono portare all’attivazione dei geni rendendo possibile il verificarsi di trasformazioni a livello di struttura; funge da fattore abilitante alla crescita e al cambiamento effettivo e produce un concreto rinnovamento a tutto il sistema.

Neuroplasticità e psicoterapia

Prendiamo in esame il contesto psicoterapico. L’attenzione focalizzata, il pensare coscientemente, l’investigare in una relazione aiuta a rimodellare, in qualsiasi momento della nostra vita, le connessioni cerebrali consentendo di portare integrazione all’interno del nostro sistema “cervello – mente – relazioni e producendo effetti concreti.

La neuroplasticità offre notevoli vantaggi ma altrettanti svantaggi dati dal fatto che anche le esperienze negative possono modificare la struttura del cervello.

A questo proposito esaminiamo gli effetti che l’ansia può avere sul nostro sistema cerebrale e di conseguenza sui nostri pensieri e comportamenti. L’ansia di per sé rappresenta la naturale risposta alla percezione di pericolo e minaccia, è una risposta adattiva alla paura e ha lo scopo di preservare l’incolumità dell’individuo. Tuttavia, quando diventa particolarmente intensa, può generare condotte disadattive che possono limitare fortemente il funzionamento psichico e sociale dell’individuo. I sintomi sono irrequietezza, affaticamento, irritabilità, tensione muscolare, alterazioni del sonno, difficoltà di concentrazione e vuoti di memoria. Questa sintomatologia, e il conseguente disagio soggettivo che si produce, genera caos nel sistema “cervello – mente – relazioni” producendo un malessere che condiziona l’individuo nella sua totalità.

Alla luce del dono della neuroplasticità e della flessibilità di un sistema che non smette mai di apprendere, una circostanza di malessere mentale e disagio non deve farci perdere d’animo. Ognuno di noi, riflettendo sul proprio vissuto, può prendere coscienza del fatto che siamo un sistema in continua trasformazione, tutto ciò avviene già naturalmente, senza controllo alcuno da parte nostra. Averne coscienza è invece il primo passo per intraprendere un cammino di sano apprendimento. Anche un piccolo intervento attivo all’interno del nostro complesso sistema può fare grandi cose: rompendo un circolo vizioso e ripristinando il fluire dell’energia, gli esiti saranno inaspettati.

Le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani adulti – Aspetti che prescindono da genere e orientamento sessuale

Il gruppo di ricerca fluIDsex (Greta Riboli, Irene Gargano, Mattia Nese, Lorena Lo Bianco e Valentina Orlandi) negli scorsi mesi ha lanciato un survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia. In questo articolo verrà presentata una prima parte dei risultati ottenuti.

 

I soggetti che hanno risposto al survey sono stati 440, di cui 274 persone di genere femminile e 166 di genere maschile; 125 persone omosessuali e 315 persone eterosessuali.

L’età dei soggetti è tra i 19 ed i 25 anni (media 22,14 e deviazione standard 3,2).

Nella maggior parte delle risposte agli item del questionario non si sono verificate differenze significative nel gruppo femminile rispetto a quello maschile e nel gruppo eterosessuale rispetto a quello omosessuale. I risultati generali rispecchiavano l’andamento dei risultati specifici delle sottocategorie di genere e di orientamento. Questo può essere dovuto al fatto che i soggetti che hanno compilato il survey vivono in ambienti in cui vi è o ci si avvicina ad una parità tra i generi: come hanno rilevato Peterson e Hyde (2011), quando vi è discrepanza tra i generi i comportamenti ed i pensieri legati alla sessualità di uomini e donne si differenziano molto, invece quando vi è parità le differenze si assottigliano.

Nel presente articolo verranno riportati unicamente i risultati maggiormente significativi ed i punteggi estremi emersi.

Aspetti che prescindono dal genere e dall’orientamento sessuale

Sesso, affetto e relazioni

Per il 73,3% del nostro gruppo di giovani l’attrazione sessuale è un requisito fondamentale per avviare una relazione ed il 70,4% di essi preferisce e non ha difficoltà ad avere un partner sessuale stabile piuttosto che imbattersi in relazioni sessuali con partner differenti.

In tema di “avere occhi solo per il proprio partner”, in egual misura c’è chi trova impossibile provare attrazione per qualcun altro oltre al proprio partner, chi ritiene che dipenda dalle persone coinvolte e chi spesso prova attrazione per qualcuno al di fuori della propria relazione. Da quanto emerso sembrano esserci delle persone più propense all’interesse verso altri mentre si è impegnati in una relazione monogama con qualcuno e di conseguenza più propensi al tradimento e ciò può essere dovuto al fatto che l’infedeltà sembra dipendere da un’influenza genetica (Garcia et al., 2010).

Gli amici di letto sono coloro che hanno relazioni sessuali, senza che vi sia un rapporto sentimentale di coppia tra loro. Questi rapporti sono contraddistinti da assenza di gelosia, flessibilità e spensieratezza, e per questi motivi sono difficili da mantenere (Bisson et Levine, 2009). Anche nel nostro studio è emerso che la maggior parte dei giovani, il 65,1%, ha difficoltà nel mantenere una relazione puramente sessuale, senza sfociare nel coinvolgimento affettivo.

Masturbazione e mind wandering

Il 63,3% dei ragazzi che ha partecipato allo studio, a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale, dichiara di masturbarsi regolarmente. E solo il 10% distribuito regolarmente per genere e orientamento dichiara di non farlo mai.

Allo stesso modo alla maggior parte dei giovani (75,3%) capita di fantasticare sul sesso regolarmente, mentre solo il 3% dichiara di farlo raramente.

Orgasmo

Anche in questo caso i punteggi riportati sono generali, ed estremi, in quanto gli andamenti delle risposte sono risultate omogenee nei rispondenti a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale.

Il fatto che non siano emerse differenze porta ad una novità nel comune pensare, in quanto, conseguentemente ad un’anatomia e da una funzionalità differente, l’orgasmo e la soddisfazione sessuale si è soliti ritenere che vengano vissuti in modo differente da maschi e femmine. Il 39,2% riconosce il raggiungimento dell’orgasmo come componente essenziale dell’appagamento sessuale, mentre il 49,5% non riconosce l’orgasmo come componente essenziale dell’appagamento sessuale. Eppure, quasi tutti i partecipanti allo studio (il 97,5%) riportano di sentirsi soddisfatti quando il proprio partner ha raggiunto l’orgasmo.

Quanto emerso (ovvero che la quasi totalità del gruppo dei giovani universitari del nord Italia dichiara di sentirsi appagato quando il partner ha raggiunto l’orgasmo, ma che solo il 39,2% riconosce il raggiungimento dell’orgasmo come parte essenziale del proprio soddisfacimento sessuale) può essere colto in funzione di una sorta di forma raffinata e più complessa di potere sull’altro, per la quale il benessere altrui dipende dal soggetto e la soddisfazione altrui diventa più gratificante della propria.

Fino ad oggi, un aspetto simile, è stato per lo più ritenuto prettamente femminile. La donna per andare incontro ai bisogni sessuali del partner maschile, anche in assenza di desiderio proprio, accettava il rapporto sessuale, per amore ed in cambio di un ruolo preciso, nel quale sentirsi forse anche desiderata (aspetto probabilmente più importante del desiderare stesso). Eppure nei nostri risultati non vi è differenza tra donne e uomini, entrambi sembrano esser per lo più appagati dal raggiungimento dell’orgasmo da parte del partner, in confronto al proprio. Inoltre mentre il 53,3% dei soggetti ritiene importante raggiungere l’orgasmo durante un rapporto sessuale con la persona con cui si ha una relazione stabile, solamente un 38,9% lo ritiene altrettanto importante nel caso in cui il rapporto sessuale in oggetto sia occasionale.

Abitudini sessuali e affettive nei giovani adulti i dati di una recente ricerca - IMM1

Imm. 1 – Quanto è ritenuto importante l’orgasmo nei rapporti con un partner stabile

Abitudini sessuali e affettive nei giovani adulti i dati di una recente ricerca - IMM2

Imm. 2 – Quanto è ritenuto importante l’orgasmo nei rapporti con un partner occasionale

Un primo dato interessante sta nell’assenza di differenza tra gruppo maschile e gruppo femminile nei comportamenti relativi al sesso occasionale. Fa parte del senso comune considerare il sesso occasionale come un interesse più circoscritto al genere maschile. A questa tendenza è sempre stata data una motivazione di tipo ormonale: è il testosterone a guidare gli uomini nella ricerca del sesso occasionale. Invece, diversi studi, tra cui quelli condotti da una ricercatrice australiana (Fine, 2017), hanno evidenziato come la preferenza maschile per il sesso occasionale sia legata a motivazioni sociali: a prescindere dal genere, le persone possono essere ugualmente attratte dal sesso occasionale, ma le donne collegano il sesso occasionale a maggiori rischi, tra cui quello di essere violentate. Qualche anno prima, invece, un gruppo di ricerca Norvegese (Grøntvedt & Kennair, 2013), aveva già precisato che non è affatto una questione culturale, quanto i postumi di un rapporto occasionale: le donne, nella maggior parte dei casi, si pentono del rapporto sessuale, mentre gli uomini no.

Nel dettaglio, per approfondire meglio le motivazioni che risiedono dietro la differenza di importanza del raggiungimento dell’orgasmo in un rapporto stabile piuttosto che in uno occasionale, sarebbe interessante indagare cosa un rapporto sessuale con un partner stabile e cosa un rapporto sessuale con un partner occasionale rappresentano per la popolazione.

Chemsex

Per quanto riguarda il chemsex, argomento da noi già affrontato in un precedente articolo, le risposte dei giovani universitari sono chiare: l’83% non fa mai uso di sostanze psicotrope durante rapporti sessuali. E solamente l’1% dichiara di aderire al chemsex, ovvero al sesso sotto l’effetto di droghe e di utilizzarle come unica modalità per avere rapporti sessuali. A differenza dei dati riscontrati precedentemente, nel gruppo studiato non vi è differenza tra sotto-gruppo omosessuale e sotto-gruppo eterosessuale.

Futuri sviluppi

Da questi dati emergono una serie di abitudini e comportamenti più o meno diffusi. Considerando il gruppo specifico (giovani studenti universitari del nord Italia) come non esemplificativo di tutti i giovani adulti, lo studio potrà procedere verso una maggiore generalizzazione dei risultati.

Nella maggior parte dei casi le differenze non sembrano dipendere tanto dalle variabili di genere e/o orientamento sessuale, per questo motivo in successivi studi si tenderà a voler riconfermare lo stesso andamento, oltre ad esplorare gli andamenti di variabili legate all’istruzione e alla città di origine e residenza.

Sarà inoltre possibile sottoporre a dimostrazione scientifica alcune ipotesi emerse in base alle abitudini riscontrate attraverso il survey.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il futuro della ricerca: modelli cerebrali 3D per studiare il sistema nervoso e sviluppare delle cure per le malattie neurologiche

Il Houston Methodist Research Institute sta creando modelli cerebrali tridimensionali da cellule staminali umane che potrebbero aiutare i ricercatori a riparare il sistema nervoso in seguito a una malattia o a una lesione cerebrale.

 

Il gruppo di ricerca del neuroscienziato Robert Krencik sta sviluppando un metodo per dare vita, in tempi sempre minori, a dei mini cervelli che offriranno la possibilità di analizzare gli effetti dei farmaci e studiare le cause delle malattie neurologiche.

Ciò avverrà finalmente in modo più rapido e in innovativo rispetto al passato.

Krencik ha affermato:

Ciò che facevamo in laboratorio non rispecchiava in modo preciso il funzionamento dei neuroni all’interno del cervello umano ma da quando abbiamo organizzato le cellule in modo sistematico, queste hanno cambiato radicalmente la loro morfologia, la loro forma e la loro dimensione. Ora sembrano cellule che si potrebbero osservare all’interno del cervello, abbiamo così la possibilità di studiarle in un ambiente molto più naturale – Il ricercatore continua – Normalmente la crescita di questi mini cervelli richiede mesi e anni per svilupparsi ma le nuove tecniche permettono di pre-maturare le cellule separatamente e successivamente combinarle tra loro, in questo modo già in poche settimane esse sono in grado di formare interazioni mature.

La scoperta appare di estrema importanza poiché normalmente le cellule fatte crescere in laboratorio nelle tradizionali colture vengono poste su una piastra e manipolate dagli scienziati che così facendo influenzano le loro naturali interazioni, ciò porta all’incapacità di riprodurre la crescita evolutiva delle cellule cerebrali ottenendo così cellule dall’aspetto semplicistico e immature. Nel cervello umano tuttavia queste cellule hanno un aspetto molto complesso e interagiscono in modo articolato tra loro e l’ambiente circostante, è per questa ragione che le nuove tecnologie focalizzate sui sistemi di coltura 3D appaiono così importanti.

Il laboratorio di Krencik si è concentrato su particolari tipi di cellule a forma di stella chiamate astrociti in quanto questi risultano svolgere un ruolo chiave nella connessione interneurale. Gli astrociti infatti influenzano la numerosità e la forza delle connessioni tra i neuroni all’interno del cervello e del midollo spinale e sono tra i fattori responsabili della maggior parte delle malattie neuronali.

Il team americano è il primo a sviluppare modelli cerebrali contenenti astrociti che permettono una maturazione accelerata sia di quest’ultimi che dei neuroni ad essi circostanti. Il merito del neuroscienziato è quello di aver progettato per la prima volta questi mini cervelli bioingegnerizzati ed aver coniato il termine “asteroidi” per distinguerli da altri tipi di colture di sfere 3D conosciute come “organoidi”. Gli “asteroidi” di Krencik contengono specifiche popolazioni di astrociti mentre gli “organoidi” possiedono numeri e tipi indefiniti di cellule.

Utilizzando il nostro sistema, possiamo generare astrociti maturi e farli interagire intimamente con i neuroni in misura maggiore rispetto a prima – ha detto Krencik – A differenza di altre cellule nel cervello e nel resto del corpo, gli astrociti hanno proprietà uniche negli esseri umani: si ritiene che siano in parte responsabili delle funzioni cognitive e possano anche essere alla base di malattie umane quali l’Alzheimer e i disordini dello spettro autistico.

Il ricercatore intende utilizzare questi “asteroidi” per creare circuiti neurali funzionali che gli scienziati possano manipolare sperimentalmente al fine di sviluppare trattamenti di cura per le malattie. Krencik afferma di poter produrre cellule staminali pluripotenti indotte, comunemente definite cellule iPS (Induced Pluripotent Stem Cell), da qualsiasi malattia o paziente e quindi creare mini cervelli per studiare il processo patologico. L’obiettivo prefissato entro circa cinque anni è quello di utilizzare il modello ideato per condurre studi clinici che permettano di migliorare o rigenerare il sistema nervoso alterato dei pazienti.

 

Linguaggio interiore: quale associazione con le copie efferenti?

Per il nostro cervello, parlare a noi stessi nelle nostre teste potrebbe risultare fondamentale tanto quanto parlare dei nostri pensieri ad alta voce.

 

 

Per il nostro cervello, parlare a noi stessi nelle nostre teste potrebbe risultare fondamentale tanto quanto parlare dei nostri pensieri ad alta voce. Nuove ricerche hanno dimostrato l’importanza di questa affermazione attraverso risultati che potrebbero avere forti implicazioni in malattie mentali come la schizofrenia.

Il professore associato Thomas Whitford, dell’ Università di Sydney, e primo autore dello studio, afferma che sentire le voci nasce dall’anormalità del linguaggio interiore presentato dalle persone affette da gravi patologie legate alla sfera del pensiero.

Ricerche precedenti suggeriscono che quando ci prepariamo a parlare ad alta voce, il nostro cervello crea una copia delle istruzioni che vengono inviate alle nostre labbra, bocca e corde vocali. Questa copia, definita copia efferente, è inviata alla regione del cervello che elabora il suono e definisce la sua riproduzione. Questo processo consente al cervello di discriminare tra i suoni prevedibili, prodotti da noi stessi, e i suoni meno prevedibili prodotti da altre persone.

La copia efferente smorza la risposta del cervello alle vocalizzazioni autogenerate, dando meno risorse mentali a questi suoni, perché sono più prevedibili – dice il professore associato Whitford. – Questo è il motivo per cui se strofino la pianta del piede il cervello preannuncia la sensazione che sentirò e non risponderà con forza a questo, ma se qualcun altro strofina inaspettatamente la stessa parte la risposta sensoriale che ne consegue sarà imprevedibile.

Lo studio, pubblicato sulla rivista eLife, si proponeva di determinare se il discorso interiore – un processo mentale interno – suscitasse una copia efferente simile a quella associata alla produzione di parole pronunciate.

Il team di ricerca ha sviluppato un metodo per misurare l’azione puramente mentale del linguaggio interiore. Nello specifico, il loro studio composto da 42 partecipanti sani ha valutato il grado in cui i suoni immaginati interferivano con l’attività cerebrale provocata dai suoni reali, usando l’elettroencefalogramma (EEG).

I ricercatori hanno scoperto che, proprio come per il parlato, semplicemente immaginando di produrre un suono si riduceva l’attività cerebrale che si verificava quando le persone simultaneamente sentivano quel suono.

Fornendo un modo per misurare direttamente e con precisione l’effetto del discorso interiore sul cervello, questa ricerca apre la porta a comprendere come il linguaggio interiore potrebbe essere diverso nelle persone con malattie psicotiche come la schizofrenia – afferma Whitford. – Tutti sentiamo voci nelle nostre teste, forse il problema sorge quando il nostro cervello non è in grado di dire che siamo noi a produrle.

 

 

Askis Onlus: in Sicilia un’associazione a sostegno della sindrome di Klinefelter

ASKIS Onlus è un’associazione di livello nazionale con referenti in varie regioni d’Italia, gestita da pazienti e medici endocrinologi che mettono a disposizione tutta la loro competenza per la cura e la salute dei pazienti affetti dalla sindrome di Klinefelter.

La sindrome di Klinefelter

Malattie rare: sindromi che, per l’esiguità della presenza nella popolazione generale (con una stima che l’Unione Europea fa di 5 casi su 10.000 persone) risultano a oggi una sfida tutta aperta per la diagnosi e la terapia.

Malattie invalidanti sul piano fisico, cognitivo, emotivo e relazionale, che richiedono, alla luce della complessità dell’individuazione e della scarsità della ricerca medico-scientifica, le forze congiunte di Associazioni, Istituti di ricerca, Ospedali e territorio.

E’ questo il caso della Sindrome di Klinefelter che interessa un neonato maschio su 1000 e che in Sicilia vede la presenza attiva dell’Associazione Sindrome Klinefelter Italiana Sicilia (ASKIS) che dal 2012 a Palermo si adopera per ridare dignità ai pazienti e alle loro famiglie, in collaborazione con il Servizio Sanitario Nazionale e realtà ospedaliere come l’Unità di Endocrinologia dell’Ospedale Cervello del capoluogo siciliano.

Askis Onlus

La sindrome di Klinefelter (SK) interessa solo il sesso maschile e ha una prevalenza stimata, mai del tutto confermata, di 1 persona affetta ogni 1000 nati; perciò statisticamente non è poi così rara anche se è ancora poco diagnosticata e poco conosciuta. La SK è una delle più comuni forme di aneuploidia, ovvero di anomalia nel numero dei cromosomi. Normalmente le persone di sesso maschile possiedono 46 cromosomi compresa una coppia di cromosomi sessuali, X e Y; le persone con questa sindrome hanno invece almeno un cromosoma sessuale X in più rispetto al normale corredo XY e un numero complessivo di 47 o più cromosomi – spiega Vincenzo Graffeo, Presidente Nazionale ASKIS Onlus, Pazienti con Sindrome di KlinefelterTale anomalia può comportare alcuni disturbi, tra i quali altezza superiore alla media, tendenza all’obesità e allo sviluppo di mammelle (ginecomastia), testicoli di dimensioni ridotte (ipogonadismo) e alcune piccole disabilità neuromotorie, come le difficoltà nello sviluppo del linguaggio o un andamento lievemente goffo. In età adulta il sintomo principale è la ridotta o assente fertilità per carenza/assenza di spermatozoi, anche la tanto temuta sterilità può oggi essere affrontata con incoraggianti probabilità di successo. In tutti i casi si tratta di condizioni ben curabili sia con i farmaci, a base di testosterone che devono essere assunti per tutta la vita, che con opportune modifiche dello stile di vita”.

E riguardo alle problematiche di carattere prettamente psicologico?

Bisogna qui distinguere soggetti dal corredo cromosomico 48 xxxxy o che comunque posseggono più di due cromosomi x o y. Questi pazienti infatti presentano forti problematiche psicologiche, come iperattività, irritabilità, immaturità e problemi di socializzazione, oltre che ritardo del linguaggio. Questo conduce a una vita travagliata per pazienti e famiglie per i problemi assistenziali che si pongono e per la scarsità della ricerca”.

Una condizione complessa che, grazie alla diagnosi precoce, è oggi possibile prevedere e gestire, non senza criticità.
Oggi, grazie al sempre più frequente ricorso alla diagnosi pre-natale, è cresciuta la probabilità del riconoscimento della sindrome durante la vita fetale; una diagnosi così precoce pone però problemi di comunicazione e accettazione da parte dei genitori. Ai genitori va espresso con chiarezza quali potranno essere i problemi che i loro figli potrebbero presentare, come disabilità motorie, linguistiche, di apprendimento e probabilità fondata di non poter procreare. Accanto a queste potenziali difficoltà va però detto con altrettanta chiarezza che essi potranno frequentare con profitto i percorsi scolastici talvolta fino alla laurea, svolgere attività sportive, mantenere rapporti affettivi regolari e avere un’attività sessuale comunque del tutto normale. Tuttavia, alcune coppie davanti alla diagnosi di sindrome di Klinefelter, potrebbero essere spaventate per il futuro del loro figlio e voler persino ricorrere all’interruzione di gravidanza motivata non da dati oggettivi, ma soprattutto dalla non conoscenza di questa sindrome – aggiunge Graffeo”.

L’associazione Askis Onlus

Ecco che informazione, sostegno e cura si intrecciano, e diventano, nell’esperienza di ASKIS, il cardine delle attività dell’Associazione.

Le attività nella regione Sicilia sono tante, ma non sono limitate alla sola Sicilia. ASKIS Onlus è un’associazione di livello nazionale con referenti in varie regioni d’Italia, gestita da pazienti e medici endocrinologi che mettono a disposizione tutta la loro competenza per la cura e la salute dei pazienti. La grande novità che oggi possiamo vantare è la realizzazione di un network di informazione digitale dove un gruppo di medici, pazienti e famiglie interagiscono attraverso whatsapp, scambiando dubbi, informazioni e prospettive nella cura. Inoltre Askis ha il compito di garantire alle future mamme una corretta informazione sulla sindrome per fare in modo di non ricorrere all’aborto, nato dalla disinformazione veicolata su Internet, che definirei serbatoio di informazione spazzatura. La nostra Associazione viene definita Associazione del futuro perché è stata la prima a raggiungere obiettivi mirati di sostegno alle famiglie e ai pazienti stessi in Italia e nel mondo – conclude Graffeo – e perciò definita la grande famiglia. Tra le altre attività, Askis onlus gode di un protocollo d’intesa con la clinica Andros per dare la possibilità ai pazienti di oggi di portare avanti la gravidanza con i propri gameti e di questo non possiamo che essere orgogliosi, per il bene dei pazienti e dei futuri nati”.

Disturbo di ansia sociale: dalla diagnosi al trattamento – A Palermo un seminario di studi

Paura intensa del giudizio altrui nelle situazioni sociali, con conseguente evitamento della maggior parte delle comuni attività sociali (parlare in pubblico, esprimere la propria opinione in gruppo) e compromissione globale del funzionamento della persona: questi i tratti caratteristici del Disturbo di ansia sociale, oggetto del seminario che si è tenuto a Palermo lo scorso 30 Novembre presso l’Istituto Gabriele Buccola (IGB), Scuola di Psicoterapia Cognitiva.

 

Il disturbo di ansia sociale: il continuum dalla timidezza al disturbo evitante di personalità

Un evento denso di contenuti, che ha approfondito gli aspetti nosografici, etiopatogenetici e terapeutici di un disturbo a esordio precoce, decorso cronico e con frequenti associazioni con una varietà di disturbi come la depressione e l’abuso di sostanze.

Il disturbo di ansia sociale si pone lungo un continuum ingravescente che parte dalla timidezza come tratto normale di personalità fino al Disturbo Evitante di personalità – spiega Andrea Gragnani, psicologo psicoterapeuta a Roma, Docente IGB e fondatore dell’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo Compulsivo (AIDOC) – Mi voglio qui riferire in particolare alla timidezza patologica come paura eccessiva dell’estraneo che può considerarsi un precursore del Disturbo di ansia sociale se non riconosciuta in tempo”.

Riguardo alla diagnosi differenziale con il Disturbo Evitante di Personalità (DevP) – continua il docente – appare necessaria una corretta distinzione dei due disturbi. Nel disturbo evitante le prime difficoltà sociali sembrano legate più che all’ansia e a esperienze di alienazione dal mondo, con esordio intorno alla prima infanzia, laddove nel Disturbo di ansia sociale l’esordio delle prime difficoltà sociali avviene intorno ai 13 anni”.

Le credenze alla base del disturbo di ansia sociale

Qual è allora, da una prospettiva strettamente cognitiva, il nucleo centrale delle credenze intorno alle quali il Disturbo di ansia sociale si costruisce e mantiene?

La caratteristica centrale del Disturbo di ansia sociale è il timore di manifestare sintomi di ansia, imbarazzo e vergogna che saranno valutati inevitabilmente dagli altri come incapacità o debolezza di carattere, il che può avere un risvolto pratico in occasioni specifiche, come un colloquio di lavoro. Il giudizio degli altri è cruciale nello sviluppo dell’ansia, in quanto esso è il metro della propria autostima. Insomma, l’obiettivo del soggetto è fare bella figura, uno scopo che l’individuo sente minacciato dall’ansia che si presenterà immancabilmente se egli metterà in atto il comportamento problematico, come parlare in pubblico”.

Ansia e vergogna, due cardini del disturbo, a cui si associa un ulteriore aspetto problematico, noto come matavergogna.

La vergogna, insieme all’ansia, segnala all’esterno la consapevolezza del soggetto delle proprie incapacità e debolezze di carattere, del suo essere estremamente dipendente dal giudizio degli altri, che lo ritengono “non in grado di”, da cui il passaggio successivo alla metavergogna, ovvero al provare vergogna della propria vergogna, con un’esplosione vegetativa di tachicardia, tremore, rossore, malessere gastrointestinale, contrazioni muscolari, attivamente evitati con l’uso massiccio dell’evitamento”.

Un problema invalidante che getta le sue radici in fattori di ordine interno ed esterno; nel primo caso, si ricorda il temperamento timido come fattore di rischio per lo sviluppo del Disturbo di ansia sociale e uno stile cognitivo che attribuisce elevato valore al giudizio negativo degli altri, mentre tra i fattori esterni notevole influenza hanno le problematiche familiari a carattere psicopatologico e uno stile educativo improntato all’utilizzo della vergogna.

Un disturbo che comporta notevoli costi sociali, economici e individuali, resistente alla diagnosi e perciò spesso trattato tardivamente.
I pazienti con Disturbo di ansia sociale chiedono raramente aiuto per paura del giudizio altrui, incluso il clinico, e se lo fanno in media saranno passati dieci o quindici anni dall’esordio della malattia – precisa Gragnani – Ecco che la terapia si pone l’obiettivo di modificare la rappresentazione interna di vulnerabilità del soggetto attraverso una ristrutturazione cognitiva dei pensieri ansiogeni (essere scemo, fare una brutta figura) e la loro sostituzione con pensieri più funzionali. Accanto alle strategie più propriamente cognitive si affiancano strategie di tipo comportamentale, quali l’esposizione graduale alle situazioni temute, la conseguente disattivazione dell’evitamento esperienziale quale comportamento protettivo, e l’addestramento al padroneggiamento di abilità relative al contatto oculare, alla voce e alla postura. E’ poi utile abbinare training di rilassamento e respirazione per controllare i sintomi fisici dell’ansia e addestrare il soggetto a sviluppare migliori abilità sociali attraverso role-playing e training specifici svolti in gruppo, anche in vista della gestione delle ricadute nel tempo del disturbo”.

Christmas Blues: affrontare la “malinconia di Natale”

Il “Christmas blues“, o depressione Natalizia, è più frequente di quanto forse si creda. Paradossale, eppure, circondati da luci sfavillanti ed alberelli colorati, a molti capita di sentirsi profondamente tristi.

 

Depressione natalizia: differenze col disturbo affettivo stagionale

Una tristezza, quella da Christmas Blues, che va necessariamente distinta dal disturbo affettivo stagionale, descritto dal DSM5 come “Disturbo depressivo maggiore, ricorrente, con andamento stagionale”. Il DAS riguarda episodi depressivi importanti, aventi esordio stagionale (solitamente in autunno/inverno); non collegabili ad altri fattori stressanti (es. disoccupazione stagionale); con remissioni che avvengono tipicamente in un periodo dell’anno (frequentemente la primavera).

A differenza del disturbo stagionale, il Christmas bluesdepressione natalizia è direttamente collegata al periodo festivo: un vero e proprio “tour de force” di convenzioni sociali e festeggiamenti “obbligati” che, per alcuni, porta con sé ansia, insonnia, crisi di pianto, pensieri negativi, anedonia.

Va detto che, di per sé, i festeggiamenti natalizi comportano una serie di potenziali stressors: frequenti riunioni familiari (che possono tra l’altro coinvolgere persone che ci sono più o meno gradite); liste di regali da individuare ed acquistare (ed eventuali difficoltà economiche); diminuzione degli impegni lavorativi/scolastici in favore del tempo trascorso in famiglia, con conseguente acutizzazione della sofferenza e del senso di solitudine in coloro che affrontano il dolore per una perdita recente (la morte di una persona cara, una separazione o una crisi nell’ambito affettivo-relazionale, un problema legato alla salute) o stanno attraversando un grande cambiamento (ad esempio un trasferimento, un pensionamento, la perdita del lavoro); l’abituale inclinazione a “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (e quindi insoddisfazione e dolore laddove si senta di non aver conseguito i traguardi prestabiliti).

I concomitanti cambiamenti stagionali, quali la diminuzione delle ore di luce e della produzione di Serotonina, possono ulteriormente incidere sullo stato di tristezza della Christmas blues influenzando: umore, ritmo sonno-veglia, sessualità, memoria e altri ambiti associati al nostro benessere.

Come affrontare, dunque, la malinconia del Christmas blues?

Rivolgendosi rapidamente ad un professionista, in tutti i casi nei quali lo si ritenga utile. La consultazione di un esperto può rivelarsi decisiva, in particolare quando la remissione dal Christmas blues non avviene in maniera spontanea e il disturbo da depressione natalizia assume forme ingravescenti o fortemente limitanti.

Può essere d’aiuto attivare qualche strategia di fronteggiamento, quali ad esempio le seguenti:

  1. Allentare la pressione indotta dalle aspettative, dalle convenzioni sociali e dallo stress delle “mille cose da fare”:
    • Organizzarsi per tempo, per non ritrovarsi coinvolti nell’estenuante “corsa ai regali” dell’ultimo minuto; acquistare con criterio, pianificando le spese e stabilendo in anticipo un budget massimo adeguato alle possibilità. Secondo alcuni ricercatori (Kasser e Sheldon), lo shopping natalizio può infatti essere fonte di stress, malessere ed insoddisfazione;
    • Partecipare agli eventi sociali nel rispetto dei nostri “limiti”, imparando a “dire di no” agli appuntamenti con persone che sappiamo ci provocheranno profondo malumore, e cercando di aumentare, invece, gli incontri gradevoli.
  2. Accogliere le proprie emozioni: il fatto che in un clima festoso ci si senta tristi o malinconici non significa che siamo “sbagliati” o che ci dobbiamo sforzare per uniformarci al contesto. Al contrario, ascoltare la nostra tristezza e cogliere il significato del nostro Christmas blues può essere per noi prezioso. Forzarsi di apparire gioiosi per sentirsi “adeguati” comporta infatti un aumento del livello di stress; confidare a persone fidate il proprio stato d’animo, parlare della propria depressione natalizia invece, ci permetterà di sperimentare la condivisione, di lenire il senso di solitudine e di sviluppare resilienza.
  3. Abituarsi a “lasciar andare” i pensieri ricorrenti, abbandonando il rimuginìo sul passato o sui problemi della vita: il pensiero ricorsivo non contribuisce a risolvere i problemi, non aiuta a prendere decisioni, non lenisce l’ansia. Li mantiene, al contrario, continuamente vividi e presenti, col risultato di un aumento dei livelli di ansia e di una riduzione delle abilità di problem solving.
  4. Rimanere agganciati al “qui ed ora”: intorno a noi ci sono cose, emozioni, persone, situazioni, delle quali non riusciamo a godere appieno, se naufraghiamo nei pensieri del passato (e di ciò che abbiamo perduto) o nelle ansie per il futuro (e di quel che potrebbe succedere);
  5. Godere delle ore di luce: una passeggiata di almeno un’ora all’aria aperta, se il clima lo permette, ha effetti positivi sul nostro benessere psicofisico e aiuta a contrastare gli effetti del Christmas blues (al contrario della visione di trasmissioni televisive natalizie, che rischiano di accrescere la malinconia e la depressione natalizia)
  6. Mantenere un contatto con la propria quotidianità: può essere d’aiuto per non lasciarsi travolgere dai ritmi e dagli impegni fagocitanti connessi al periodo, che creano una distanza notevole dalla vita di tutti i giorni (ruoli, attività, impegni lavorativi) e possono acuire il senso di solitudine e di estraneazione tipico del Christmas blues;
  7. Prendersi cura di sé: dedicare del tempo ad attività piacevoli, alla cura del proprio corpo, alla lettura o al cinema, ai propri hobbies. Anche facendosi un piccolo regalo, nei limiti delle proprie possibilità, anziché – magari – attenderlo.
  8. Nutrire la propria flessibilità, ridimensionando l’importanza del periodo natalizio e provando a vivere le Feste non come una imposizione, ma come una scelta, da compiersi in modo coerente con i propri valori.

Un romanzo per parlare dell’autonomia delle donne: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood

Il racconto dell’ancella è un romanzo distopico ambientato in una città di fantasia, collocata in Nord America, che si svolge in un tempo indefinito ma moderno. A seguito dell’inquinamento atmosferico e di numerose guerre, l’assetto sociale moderno che tutti noi conosciamo vive un momento di profonda crisi. La produzione di cibo non contaminato è estremamente difficoltosa e, soprattutto, le scorie radioattive hanno causato il dilagarsi del fenomeno della sterilità mettendo, così, a rischio la continuazione della specie umana.

 

La cronaca attuale delle molestie sessuali di uomini di potere

In questi ultimi giorni sta avendo grande rilevanza la cronaca delle tantissime denunce di molestie sessuali perpetuate da uomini di potere su donne, spesso, conosciute e frequentate sul posto di lavoro.
Ho letto con interesse gli interventi sull’argomento pubblicati su questa rivista del dottor Roberto Lorenzini e della dottoressa Sandra Sassaroli. L’intervento di Sandra, soprattutto nella sua citazione finale della sociologa Camille Paglia, mi ha fatto pensare al libro scritto da Margaret Atwood nel 1985 ed intitolato Il racconto dell’ancella.
La Sassaroli, concludendo il suo articolo, afferma:
“Nulla ci è regalato e occorre, come dice Camille Paglia, non dimenticare che la giustizia non è data, ma dipende da chi la difende in ciascun momento, e quindi da ciascuno di noi”.

Il racconto dell’ancella

Il racconto dell’ ancella è un romanzo distopico ambientato in una città di fantasia, collocata in Nord America, che si svolge in un tempo indefinito ma moderno. A seguito dell’inquinamento atmosferico e di numerose guerre, l’assetto sociale moderno che tutti noi conosciamo vive un momento di profonda crisi. La produzione di cibo non contaminato è estremamente difficoltosa e, soprattutto, le scorie radioattive hanno causato il dilagarsi del fenomeno della sterilità mettendo, così, a rischio la continuazione della specie umana.

In questo contesto avviene una rivoluzione civile al seguito della quale il potere andrà in mano ad una organizzazione chiamata Gallad che darà vita ad un regime totalitario e fortemente teocratico di ispirazione biblica.
Il corpo delle donne, la loro libertà di espressione, la loro identità, viene commissariata per il bene della società, per ristabilire un ordine e per scongiurare l’estinzione della specie.

Tutto nella Repubblica di Gallaad è prestabilito a priori dal regime: i ruoli sociali, la vita privata, l’istruzione. L’identità e la libertà personale sono annullate e la stabilità del regime è mantenuta con la violenza fisica. Ma sono comunque le donne a pagarne il prezzo maggiore.

In questo clima angosciante, che pervade il lettore pagina dopo pagina, la protagonista, Difred, è la voce narrante che ci accompagna nella scoperta del suo mondo sociale ed interiore.

A Galaad le donne sono divise in caste: le Mogli (date in sposa a uomini di potere), le Marte (domestiche nelle case dei potenti), le Zie (le istitutrici) e le Ancelle. Queste ultime sono le uniche donne ancora fertili. Sono state scelte dopo accurate selezioni mediche, istruite al silenzio ed alla sottomissione con la forza della violenza e delle minacce. Le ancelle vengono assegnate agli uomini potenti (chiamati comandanti) per permettere loro, nei giorni di fertilità, di avere rapporti sessuali ai fini riproduttivi.

Difred è un’ancella e svela gli orrori, i soprusi ma anche le piccole ribellioni di queste donne (che prima avevano una vita normale: con mariti, figli, compagni o compagne, hobby e soddisfazioni professionali).
Numerosi flash back lungo il romanzo fanno intuire come la Repubblica di Gallaad avrebbe potuto essere evitata se i segnali antecedenti alla guerra civile fossero stati colti e non sottovalutati.

Nel romanzo le donne devono rinunciare a loro stesse ma anche gli uomini devono rinunciare a loro.
In questa società non c’è più spazio per il confronto e lo scontro, la collaborazione, la scoperta e la curiosità. E in queste assenze gli uomini, seppur in una posizione privilegiata, conoscono la solitudine.
Difred non rappresenta solo un monito per le donne, per esortarle a non dare mai per scontati i propri diritti civili e umani. E’ anche un messaggio di speranza. Lungo il suo racconto, infatti, si percepisce sempre la sua vitalità e la sua determinazione a salvarsi.

Ho letto questo libro un po’ di tempo fa, scovato tra gli scaffali di una libreria milanese. Dopo averlo letto ho deciso di eleggerlo a strumento per la mia pratica terapeutica. Ai miei pazienti, sia uomini che donne, consiglio spesso questa lettura per stimolare in loro la riscoperta del concetto di “persona”, aldilà delle differenze di genere, e condurli verso una assunzione di responsabilità personale e sociale.

Da pochi mesi, da questo bellissimo libro, è stata tratta una fortunata serie televisiva dal titolo The Handmaid’s Tale (titolo in lingua originale del libro).

Come apprende il nostro cervello? Adesso lo spiega un algoritmo

In un recente studio pubblicato su eLife, Blake Richards, ricercatore all’Università di Toronto in Canada, insieme ad altri colleghi, hanno creato un algoritmo che utilizza neuroni artificiali multi-compartimento, i quali potrebbero aiutare a capire come la neocorteccia ottimizza i processi neurali.

 

Il campo di ricerca dell’intelligenza artificiale

Da sempre e in diversi modi, molti scienziati hanno sempre provato a comprendere come gli esseri umani apprendano, comprovando molte conoscenze nel campo neuroscientifico. Negli ultimi anni molta enfasi è data all’intelligenza artificiale (AI), campo di ricerca informatico e, ormai, anche neuroscientifico, come nuovo strumento di riproduzione e simulazione dei processi neurali. In tale contesto si trova il campo del deep learning, appartenente al machine learning, il quale a sua volta è una disciplina che costituisce il campo dell’IA.

Il deep learning (o letteralmente tradotto: apprendimento approfondito) consente di creare dei modelli di calcolo composti da più livelli di elaborazione per apprendere le rappresentazioni di dati con più livelli di astrazione. Questi metodi hanno notevolmente migliorato lo stato dell’arte nel riconoscimento vocale, riconoscimento di oggetti visivi, rilevamento di oggetti e molti altri domini come la scoperta di farmaci e la genomica. In profondità l’apprendimento scopre una struttura complessa in grandi set di dati usando l’algoritmo di backpropagation (o letteralmente tradotto: retropropagazione) per indicare come una macchina dovrebbe cambiare i parametri interni che vengono utilizzati per calcolare la rappresentazione in ogni livello dalla rappresentazione nel livello precedente (LeCun, Bengio & Hinton, 2015).

Un algoritmo che riproduce i processi neurali

In un recente studio pubblicato su eLife, Blake Richards, ricercatore all’Università di Toronto in Canada, insieme ad altri colleghi, hanno creato un algoritmo che utilizza neuroni artificiali multi-compartimento, i quali potrebbero aiutare a capire come la neocorteccia ottimizza i processi neurali.

Questa idea di ricerca risale a diversi anni addietro quando pioneri dell’intelligenza artificiale come Geoffrey Hinton, fondatore del programma Learning in Machines & Brains cercarono, non solo di approfondire il campo dell’intelligenza artificiale, ma anche di capire come il cervello umano impara” dice il ricercatore Richards.

Nel 2000, Richards e Lillicrap, ricercatore presso DeepMind di Google, erano convinti che attraverso algoritmi basati sul deep learning si potesse individuare e ricreare qualcosa di realistico basato su come il cervello umano lavora; inoltre, a quel tempo, c’erano importanti sfide per testare l’idea e non era chiaro se il deep learning potesse raggiungere gli stessi livelli delle skills umane.

Attualmente, Richards e un numero di ricercatori stanno cercando un ponte che possa risolvere il gap tra le neuroscienze e l’AI. Questo lavoro si basa su recenti studi effettuati nel laboratorio di Yoshua Bengio, uno dei guru del “deep learning”, e su un algoritmo sviluppato da Lillicrap (2016) che non segue rigidamente alcune delle regole per la formazione delle reti neurali e per individuare un modo più biologicamente plausibile per addestrarle.

Combinando le intuizioni neurologiche con gli algoritmi esistenti, il team di Richards è stato in grado di creare un algoritmo migliore e più realistico per simulare come avviene l’apprendimento nel cervello.
Molti di questi neuroni sono modellati ad albero, con radici in profondità nel cervello e rami vicini alla superficie. Ciò che è interessante è che queste radici ricevono un insieme diverso di input rispetto ai rami che si trovano in cima all’albero” sostiene Richards.

Usando questa conoscenza sulla struttura dei neuroni, Richards e i suoi collaboratori hanno costruito un modello che riceve segnali in compartimenti segregati. Queste sezioni permettono di simulare i neuroni in differenti modelli per collaborare, raggiungendo il deep learning.

E’ soltanto una serie di simulazioni che ci potrebbe dire esattamente cosa sta facendo il nostro cervello, ma suggerisce abbastanza da giustificare un ulteriore esame sperimentale se il nostro cervello può usare lo stesso tipo di algoritmi che usano nell’intelligenza artificiale” continua Richards.

In altri termini, i neuroni di tale modello ricevono informazioni sensoriali e feedback di ordine superiore in compartimenti separati elettronicamente, come avviene per i neuroni piramidali neocorticali responsabili del pensiero di ordine superiore.
Inoltre, il lavoro mostra che certi neuroni dei mammiferi hanno la forma e le proprietà elettriche che sono adattabili per il deep learning e rappresenta attualmente il modo più biologicamente realistico di come il cervello reale potrebbe effettuare il deep learning.

I neuroni neocorticali ad albero sono solo uno dei molti tipi di cellule nel cervello e la ricerca futura dovrebbe modellare diverse cellule cerebrali ed esaminare come potrebbero interagire insieme per raggiungere un “apprendimento profondo”.

Se confermato, il legame tra forma neuronale e il deep learning potrebbe aiutarci a sviluppare migliori interfacce cervello-computer, permettendo alle persone di usare la loro attività cerebrale per controllare dispositivi come arti artificiali. Nonostante i progressi nell’informatica, siamo ancora superiori ai computer quando si tratta di apprendimento. Capire in che modo il nostro cervello mostra un apprendimento profondo potrebbe quindi aiutarci a sviluppare un’intelligenza artificiale migliore, più simile a quella umana in futuro” sostiene il neuroscienziato Richards.

Flusso sanguigno: alterato nel cervello dei neonati prematuri

Secondo un nuovo studio i neonati prematuri soffrono di un flusso sanguigno cerebrale alterato (CBF) nelle regioni chiave del cervello e ciò può contribuire all’insorgere delle complicazioni nella maturazione del cervello.

Lucia Marangia

 

Lo sviluppo del cervello fetale

Catherine Limperopoulos, PhD, autrice dello studio e Direttrice del Laboratorio Di Ricerca Di Sviluppo del Cervello al Sistema Nazionale della Salubrità dei Bambini, ha dimostrato che durante il terzo trimestre di gravidanza il cervello fetale subisce uno sprint di crescita rilevante. Durante questa fase, il flusso sanguigno cerebrale aumenta e fornisce l’ossigeno e i nutrienti, necessari per alimentare il normale sviluppo cerebrale e, di conseguenza, stimolare il processo di crescita.

La ricercatrice ha aggiunto che nel periodo di gravidanza a termine, queste strutture cerebrali critiche maturano all’interno dell’utero protettivo in cui il feto può sentire la madre e il suo battito cardiaco, che stimola un’ulteriore maturazione cerebrale. Per i bambini nati pre-termine, tuttavia, questo processo di maturazione essenziale avviene in ambienti spesso privati ​​di tali stimoli.

Il gruppo di ricerca ha utilizzato principalmente tecniche non invasive come il contrassegno e l’imaging a risonanza magnetica, che permette di tracciare il flusso di sangue nei cervelli degli infanti per dettagliare quali regioni ricevono i quantitativi sufficienti di sangue.

L’alterazione del flusso sanguigno nel cervello dei neonati prematuri

Nel seguente studio, i neonati nati pre-termine hanno mostrato un flusso cerebrale assoluto maggiore rispetto ai neonati nati a termine. All’interno delle regioni dell’insula (una regione critica predisposta ad avvertire emozione), della corteccia cingolata anteriore (una regione fondamentale nei processi cognitivi) e della corteccia uditiva (una regione coinvolta nell’elaborazione del suono) i neonati pre-termine hanno ricevuto un volume significativamente ridotto di sangue rispetto ai neonati nati a termine.

La ricerca ha incluso 98 infanti prematuri, nati fra Giugno 2012 e Dicembre 2015, con un peso inferiore ai 1.500 grammi. I neonati prematuri sono stati confrontati con 104 neonati nati a termine.

Bouyssi-Kobar, M.S., l’autore principale dello studio, ha affermato che, la continua maturazione del cervello del neonato può essere vista nel modello di distribuzione del flusso sanguigno cerebrale, con il maggior volume di sangue che viaggia verso il tronco cerebrale e la materia grigia profonda.
Grazie alla nitida risoluzione fornita dalle immagini ASL-MR, il seguente studio rileva che, oltre al tronco cerebrale e alla sostanza grigia profonda, l’insula e le aree del cervello responsabili delle funzioni sensoriali e motorie sono anche tra le regioni più ossigenate. Ciò evidenzia come lo sviluppo iniziale del cervello avvenga in queste regioni del cervello. Nei neonati pretermine, l’insula risulta essere particolarmente vulnerabile agli stress aggiuntivi della vita al di fuori del grembo materno.

Biblioterapia: quando letteratura e psicologia si incontrano

In ambito psicoterapeutico la biblioterapia si colloca all’interno della relazione terapeutica. Il libro diventa un luogo condiviso da paziente e terapeuta.

 

Che cos’è la biblioterapia

La Webster International nel 1961 ha definito la Biblioterapia come “l’utilizzo di un insieme di letture scelte quali strumenti terapeutici in medicina e psichiatria. E’ un mezzo per risolvere problemi personali grazie a una lettura guidata».

La biblioterapia ha diverse accezioni:
di AUTOAIUTO – uno strumento al di fuori del contesto terapeutico, di autocura e crescita personale;
di PSICOEDUCAZIONE – utilizzato soprattutto nelle scuole, offre percorsi di lettura guidata finalizzati al confronto su un tema e alla socializzazione per promuovere la crescita cognitiva e socio-affettiva;
di TERAPIA – utilizzato all’interno di un contesto psicoterapeutico.

Il primo ad introdurre la pratica di “prescrizione della lettura” ai pazienti, fu William Menninger.
Il dottor Menninger, psichiatra negli anni trenta del novecento presso l’omonima clinica Menninger in Kansas, cominciò ad indicare delle letture ai propri pazienti come supporto al trattamento di diversi disturbi psichiatrici. Il medico proponeva percorsi di lettura scelti e pensati appositamente per il singolo paziente e per il momento che stava vivendo.

Oggi la pratica della biblioterapia è diffusa nel mondo occidentale, soprattutto nei paesi anglosassoni.
In Inghilterra la Book Therapy è stata riconosciuta dal National Health Service (servizio sanitario inglese) come efficace ed indicata soprattutto per la cura dello stress psicologico. Per questo motivo esistono delle biblioteche con sede negli ospedali.

Deborah Fanner, dello Staff Library -Salisbury NHS Foundation Trust, e Christine Urquhart, del Department of Information Studies – Aberystwyth University, di Aberystwyth, hanno condotto nel 2008 una revisione di tutta la letteratura relativa alla pratica della biblioterapia. I risultati di tale lavoro hanno sottolineato l’efficacia della biblioterapia per diversi disagi psicologici (quali depressione, ansia generalizzata, stress) soprattutto se inserita all’interno di un percorso di psicoterapia. Risultano, invece, meno evidenti le prove di efficacia nei percorsi di sola libroterapia tenuti da persone non professioniste della salute mentale.

In ambito psicoterapeutico la biblioterapia si colloca all’interno della relazione terapeutica. Il libro diventa un luogo condiviso da paziente e terapeuta.
Esistono 2 diversi modi di utilizzare il libro all’interno della pratica terapeutica:
– Il biblio-coach, diffuso nella psicologia anglosassone, che ricorre a due tipologie di testi: i libri di psicologia divulgativa e i testi di self help.
– Un uso più «creativo» del libro, che ricorre alla letteratura e ai romanzi.

Letteratura e Psicologia

La letteratura, da moltissimi anni prima della nascita della psicologia, cerca di dare voce e di attribuire significato alla sofferenza psicologica. Attraverso il racconto di una storia, si indaga il vissuto emotivo e cognitivo dei personaggi e si delineano le conseguenze del loro sentire e agire.
Dunque, la letteratura offre vastissime possibilità di analisi e confronto rispetto alle emozioni e vicende umane.
Leggere un libro implica entrare in contatto con un mondo di emozioni intense. Stimola la riflessione grazie all’immedesimazione e al confronto con i personaggi, con i contesti e con le vicende che vivono.
Seguendo questa prospettiva, il ricorso ai casi letterari va compreso come l’utilizzo di uno spazio sperimentale all’interno del quale osservare le variazioni del racconto, i suoi personaggi e i loro vissuti. Rappresenta una sorta di laboratorio che permette di sperimentare e analizzare le svariate sfumature dell’emotività umana e le variegate declinazioni dell’identità.

Biblioterapia in Psicoterapia

Il compito della psicoterapia è quello di
– accogliere il dolore,
– aiutare il paziente a comprendere se stesso e ad essere consapevole del suo funzionamento generale nonché dei meccanismi che implicano il perdurare di questa sofferenza,
– accompagnare e stimolare un cambiamento che induca un nuovo modo di essere più funzionale.

La biblioterapia , in ogni fase di questo percorso, può essere un valido strumento del terapeuta.
Può aiutare chi legge a dare parole e un senso alla propria sofferenza. Può aiutare a rendere consapevole il lettore/paziente dei suoi meccanismi e di come agisce la sua sofferenza nella vita. Può essere uno stimolo al cambiamento e, infine, può essere uno stimolo per favorire una continua riflessione su di sé e per il mantenimento di uno stato di benessere.
Affinché la lettura abbia una funzione terapeutica, e sia un vera e propria tecnica terapeutica, questa deve essere guidata e proposta da uno psicoterapeuta.

La biblioterapia diventa, quindi, in mano del terapeuta, una tecnica per favorire l’introspezione nel paziente.
Il racconto permette di esporsi ad emozioni che magari riguardano da vicino ma che non si ha il coraggio di affrontare, proprio perché è più facile riconoscerle in qualcosa che è “altro da sé” piuttosto che su se stessi.
Il libro, dunque, è a tutti gli effetti uno strumento di cura.

Perché prescrivere un libro?

Un libro, anche lo stesso, può essere consigliato con diverse finalità:
– creare e/o rafforzare una buona relazione ed alleanza terapeutica;
– introdurre un argomento che si vuole affrontare in terapia;
– curare una particolare sintomatologia esponendo il paziente, in maniera guidata e controllata, alle proprie paure.

La finalità, in ogni caso, è quella di promuovere una maggiore consapevolezza di sé e spingere il paziente verso un cambiamento.
L’indicazione di lettura è, perciò, un vero e proprio homework.

Il contributo più importante del terapeuta consisterà, quindi, nelle scelte che saprà fare delle letture da proporre ai pazienti e nella capacità di accompagnare quest’ultimo, nel corso della lettura, nel processo di costruzione di significato.
Non ci sono libri «universali» che vanno bene per tutti i pazienti e che curano efficacemente un determinato disturbo. I libri possono fare anche male, va valutato in senso clinico quale lettura è indicata per ogni nostro paziente.

Ciononostante, in commercio, esistono diversi libri, che possono guidare il clinico nella scelta delle opere più significative e terapeutiche.
Ne costituiscono degli esempi il testo di Ferdinando Galassi, che propone sia libri sia film adatti alla “cura della mente”. Il testo di Régina Detambel, intitolato “I libri si prendono cura di noi. Per una biblioterapia creativa”. Oppure il famoso testo di Ella Berthoud e Susan Elderkin, edito dalla Sellerio, intitolato “Curarsi con i libri: Rimedi letterari per ogni malanno”.

In ogni caso, è sempre bene che il terapeuta legga in prima persona il libro che intende suggerire al paziente, per valutarne la sua funzione clinica. E per la scelta dei testi è sempre consigliabile seguire la propria curiosità, oltre che i consigli della letteratura in merito.

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