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2° Summit Internazionale – Behavior Analysis e Autism in Higher Education: Advances e Opportunities, Stoccolma – Report

Si è tenuto nei giorni scorsi a Stoccolma il Secondo Summit su ABA, autismo ed educazione superiore. Il Summit ha visto la partecipazione di studiosi di analisi del comportamento di vari Paesi europei: Grecia, Regno Unito, Islanda, Norvegia e Svezia, e di chi scrive in rappresentanza dell’Italia.

 

Autismo e analisi comportamentale

Erano presenti alcuni colleghi di università statunitensi, Shahla Alai Rosales, James Todd, Samuel Odom e Gail McGee, oltre a Jim Carr, CEO del Behavior Analyst Certification Board, l’agenzia che ha sede negli Stati Uniti e certifica la formazione degli analisti del comportamento che lavorano nel campo dei trattamenti per l’autismo, accompagnato da Neil Martin, Responsabile dell’International Development del BACB.

Obiettivo del Summit era riunire ricercatori e studiosi internazionali per dibattere alcune questioni relative all’istruzione universitaria in riferimento all’analisi comportamentale e alla sua relazione con l’autismo, prendere in considerazione orientamenti in politica sanitaria e formare nuove partnership internazionali.

Data la familiarità dei partecipanti con i temi trattati, ogni presentatore ha potuto entrare direttamente in medias res, evidenziando tre o quattro questioni centrali che sono servite a promuovere una discussione produttiva tra tutti i partecipanti. I documenti, una volta redatti, saranno pubblicati su un numero speciale dell’European Journal of Behaviour Analysis.

2° Summit Internazionale su Analisi del Comportamento e autismo - Report

Che cosa è emerso dal Summit?

Due cose principalmente: una differenza radicale tra Stati Uniti e Unione Europea, e una sostanziale omogeneità tra paesi del Nord e del Sud Europa per quanto concerne i servizi per le persone con autismo e la formazione degli operatori per questi servizi.

In altre parole, abbiamo verificato una convergenza generale sulla tipologia di trattamenti comportamentali intensivi e precoci, necessari ed efficaci per l’autismo, pur applicati con modalità che presentano accenti differenti in termini di caratteristiche dei programmi: ad esempio modelli più direttivi e strutturati accanto a modelli più naturali ed ecologici. Negli Stati Uniti, tuttavia, manca un sistema di welfare paragonabile a quello presente nella maggioranza degli stati europei: pertanto il ruolo di diagnosi e cura, svolto in UE dai nostri diversi Servizi Sanitari Nazionali è prevalentemente assicurato da professionisti forniti e pagati da assicurazioni private, oppure da centri specializzati, finanziati da enti privati o dai singoli Stati.

Ricordiamo, en passant, che la necessità di garantire la preparazione professionale degli Analisti del Comportamento, nata pionieristicamente negli anni ’70, ma sviluppata a livello nazionale, grazie al prezioso lavoro di Jerry Shook, a cavallo della fine del secolo, nasce proprio su richiesta delle assicurazioni, che com’è noto, prima di scucire un dollaro, vogliono essere certe di pagare per qualcosa di realmente efficace. Del resto bisogna ricordare che erano rimaste scottate non molti anni prima dalla vicenda dei trattamenti psicoterapeutici psicoanalitici, lunghi, costosi e dimostratisi privi di efficacia.

Una profonda differenza esiste tra USA e UE per quanto riguarda la formazione universitaria degli Analisti del Comportamento. In nessun Paese europeo, almeno fra quelli presenti al Summit, ma mi sento di poter generalizzare l’affermazione anche agli assenti, c’è un riconoscimento formale del profilo dell’Analista del Comportamento, e conseguentemente della Certificazione del BACB. L’analisi del comportamento, come accade da noi in Italia, è insegnata all’interno di poche università e sotto mentite spoglie, all’interno del corso di Psicologia Generale. Non esiste una laurea in Analisi del comportamento, non esiste un profilo professionale di analista del comportamento a livello sanitario o socio sanitario.

Conseguentemente anche la certificazione BCBA non possiede un valore legale/formale. Per colmare questo vuoto è stata fondata SIACsa, la Società Italiana degli Analisti del Comportamento in campo sperimentale e applicato, che pubblica un registro di professionisti che hanno ottenuto una formazione professionale di alto livello, valutata e garantita da un Board Internazionale.
Esistono Master, universitari e non, che rilasciano diplomi, anch’essi privi di valore legale/formale, quindi valutabili esclusivamente sul piano della qualità della preparazione professionale che forniscono: ricordiamo che in Italia il termine Master è una sorta di catch-it-all che designa molte, troppe cose. Ma su questo argomento torneremo presto in un prossimo articolo.

L’ultima informazione che riporto da Stoccolma è che la rivista The Behavior Analyst, organo dell’Associazione per l’Analisi del Comportamento, non esiste più. È stata sostituita da Perspectives on Behavior Science An Official Journal of the Association for Behavior Analysis International. Il tempo ci dirà se questo cambio di titolo implica anche una differente linea editoriale. Di sicuro non c’è più spazio per “we few, we happy few” (S. Hayes, corrispondenza personale), e non è più tempo per l’arrogante scientismo che caratterizza alcuni sedicenti scienziati comportamentisti da noi altri.

Femminicidio: la psicologia di un delitto. Tratti personologici di vittima e carnefice.

Vi è una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima

Bulgarelli Alessandra, Lai Elisa – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

L’origine del termine Femminicidio

Il termine Femminicidio è un neologismo attestato solo da pochi anni che fa riferimento alla violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.

Come “omicidio di una donna in quanto donna” appare il violento e brutalissimo retaggio di una cultura patriarcale arcaica, in cui la donna è vista come proprietà dell’uomo (MacNish,1827). Vi è dunque una differenza sostanziale tra il generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”, e il femminicidio che si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima (Barbagli, 2013). La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress. In letteratura, sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

Sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti.

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) é una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime, continuamente concentrate su come sopravvivere in una situazione cronica di fortissimo stress, cercano di controllare il loro ambiente per evitare almeno le violenze più gravi. La loro attività di strategizing (trovare strategie) le induce così a concentrarsi sulla bontà del loro carnefice piuttosto che sulla brutalità. La vittima arriva a convincersi di dover stare con il carnefice al fine di proteggere i figli e i parenti dalla violenza, fino ad arrivare a pensare che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele (Reale, 2011).
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS), individuata dagli studi di Leonore Walker (Walker, 2007) è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, e una terza fase di cosiddetta “luna di miele”. Quest’ultima fase “amorosa” di sollievo in realtà amplifica il disagio creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare (Walker, 2007). La Walker afferma che tale sindrome è comune tra le donne gravemente abusate: tra gli elementi che rendono estremamente complesso il loro quadro è il non esaurimento della speranza che il partner cambi, la dipendenza economica dal partner, la convinzione di poter gestire un equilibrio familiare tra un un’esplosione di violenza e la successiva, la paura di rimanere sola, la perdita di autostima, uno stato di depressione o la perdita dell’energia psicologica necessaria a iniziare una nuova vita (Danna, 2007).

Identikit psicologico delle vittime di femminicidio

Tracciando un identikit psicologico delle vittime di femminicidio, si è osservato (Baldry, 2006) come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. In passato si parlava di vis grata puellis (Betsos, 2009) in particolare in materia di violenza sessuale, o di “destino anatomico” che impone l’umiliazione alla donna.

Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa” (De Pasquali, 2009). Secondo questa ricostruzione, chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile. Uno studio sperimentale condotto da Martin Seligman nel 1967 (Musumeci, 2012) ha dimostrato che il cane che viene rinchiuso in una gabbia e a cui viene somministrata una scossa elettrica, dopo ripetuti tentativi di fuggire sempre frustrati dal fatto che la gabbia non consente all’animale la fuga, rinunceranno a cercare di sottrarsi anche una volta che venga loro mostrato che la gabbia è stata aperta. Gli esseri umani si comportano in modo analogo, l’addestramento alla rinuncia e la rassegnazione potrebbe essere simile. Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza (che sfocia spesso in femminicidio) c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico” (Betsos, 2009). Si tratta di un termine impiegato nella letteratura per descrivere un legame potente e distruttivo che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti o tra bambini e i loro genitori (Dutton & Painter,1981). Esso permette di descrivere dunque certe situazioni in cui i forti legami emotivi che si possono formare tra le vittime e i loro oppressori risultano in una complessa serie di relazioni abusanti, quali ad esempio la Sindrome di Stoccolma. Le condizioni necessarie quindi al verificarsi di un vincolo traumatico sono due: il fatto che una delle persone coinvolta nella relazione abbia una posizione di dominio sull’altra, e che il livello di abuso compaia e scompaia cronicamente. Il rapporto cioè è caratterizzato da periodi di comportamenti partecipativi e affettuosi da parte del partner dominante, alternati ad episodi di abuso intenso, che possono poi sfociare in casi di femminicidio.

Nel ciclo di comportamenti relazionali, attribuiti a legame traumatico, il “vittimizzatore” impone forti punizioni, poi dopo aver dato un rinforzo negativo, che censura il comportamento “irregolare” della vittima, dismette il comportamento punitivo e si sposta a gratificare la vittima con rinforzi positivi. Questo modello di punizioni e rinforzi positivi può costituire una forma particolarmente potente di double bind e legittimare così nella vittima la paura di essere feriti o uccisi come reazione a una qualche mancanza, a un qualche atto di sfida o di autonomia o a una non conformità alle regole imposte o previste.

I risultati delle ricerche e delle teorie di Donald Dutton e Susan Painter (Dutton & Painter, 2009) risultano convincenti per quanto riguarda il motivo per cui le donne rimangano in relazioni violente, relazioni il cui triste epilogo è spesso il femminicidio. I due autori hanno rivisitato molti studi e ricerche sull’argomento e sono giunti alla conclusione che l’elemento forte che spiega il permanere in una situazione di violenza è l’intermittenza dell’ abuso. Molte donne hanno infatti descritto con espressioni di soddisfazione e gratificazione i periodi di riconciliazione intercorsi tra i momenti di violenza. Questo modello si mostra in sé perverso, in quanto conduce inevitabilmente a ignorare il problema della violenza e a considerarlo un’eccezione, un momento di aberrazione del rapporto che rimane, nella percezione complessiva della donna, come positivo.

Per mantenere il sopravvento il carnefice manipola il comportamento della vittima e limita la sua libertà di scelta al fine di perpetuare lo squilibrio di potere. Qualsiasi minaccia all’equilibrio può essere controllata con un ciclo crescente di punizioni che vanno da intimidazioni a esplosioni vere e proprie di violenza. Il carnefice inoltre isola la vittima da altre fonti di sostegno, cosa che riduce la probabilità di individuazione dei comportamenti abusanti e la capacità di intervento su di essi; altera la capacità della vittima di ricevere un punto di vista diverso da quello dell’abusante rafforzando così il senso di dipendenza unilaterale (Dutton & Painter, 2009).

Gli effetti traumatici di tali relazioni violente possono includere la compromissione della capacità della vittima di una corretta autovalutazione delle risorse personali, portando a un senso di inadeguatezza e a una percezione di dipendenza dalla persona dominante.

Le vittime possono anche incontrare una serie di spiacevoli conseguenze sociali e legali nel rapporto con qualcuno che commette atti aggressivi, anche se esse stesse sono le destinatarie delle aggressioni. Molte spiegazioni teoriche come ad esempio alcune teorie psicodinamiche (Horowitz & Mardi, 2001) chiamano in gioco il concetto di masochismo (Millon, 2004), di coazione a ripetere (Freud,2006), per spiegare come determinate vittime colludano con gli atti di vittimizzazione, mostrando una propensione verso i rapporti abusivi e i legami traumatici. Alla base di queste teorie vi è la teoria dell’attaccamento insicuro (Bowlby, 2000) che si è determinato nella storia infantile e nelle relazioni con le figure parentali. Questo legame traumatico si configura come una sorta di «elastico, che nel tempo si estende lontano da chi abusa e, successivamente, torna indietro» (Magaraggia & Cherubini, 2013). Non appena l’effetto della reazione immediata del trauma si abbassa, la forza del legame traumatico si rivela attraverso sia l’incremento della focalizzazione degli aspetti positivi della relazione, sia in un successivo e improvviso cambiamento del punto di vista della donna sulla relazione: si altera infatti la memoria sugli abusi passati e la previsione del ripetersi degli abusi nel futuro.

Nella storia del legame traumatico troviamo un altro fattore essenziale alla sua formazione: la gradualità, ovvero l’incremento graduale degli eventi abusivi (Magaraggia & Cherubini, 2013). Questo incremento è simile «ad un lento veleno la cui portata lesiva non può essere percepita nell’immediatezza dei fatti. Esso coopera con una forma di adattamento, compatibile con la permanenza del rapporto più che con la fuga dal rapporto» (Millon,2004). Così nella storia di questo rapporto troviamo che, soprattutto all’inizio della relazione, gli eventi d’abuso non sono percepiti come un’anomalia e ad essi non viene attribuito inizialmente il carattere di gravità. Inoltre, gli atteggiamenti di contrizione da parte dell’uomo successivamente agli incidenti violenti operano al fine di rafforzare l’attaccamento affettivo in un momento in cui non vi è cognizione che l’abuso si ripeterà, si aggraverà e diventerà ineludibile. Il ripetersi di episodi di maggiore gravità tenderà poi a formare la convinzione nella donna che la violenza si ripresenterà a meno che non faccia qualcosa per prevenirla.

Il Profilo del Femminicida

Relativamente alle strutture di personalità dell’ uomo abusante e dell’ uomo che commette femminicidio molti criminologi (Dutton,1981) hanno sottolineato la presenza, in questo tipo di delitto, di criminogenesi e di strutture personologiche improntate a fattori quali la prepotenza, la possessività, la protervia magari compensatoria, forse dettata da panico di fronte alla prospettiva dell’abbandono, ma in ogni caso fondata sulla mancata considerazione dell’altro con i suoi diritti e le sue esigenze.

Elbow (Elbow, 1977) descrive l’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore: colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore: che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Colui che è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore: colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Questi soggetti devono compensare la propria modesta autostima, ma talora dimostrano veri e propri sintomi psicopatologici. Si tratta di dinamiche in cui il rapporto si gioca sul duplice piano della fusionalità e della relazione dominante/dominato. Il soggetto è coinvolto in un rapporto che ha assunto per lui significato totalizzante: l’altro è così importante o “invadente” da essere ormai parte della vita e dell’identità stessa dell’attore. Altri autori ancora (Killmartin,1977) ravvisano fra i mariti violenti soggetti con disturbi di personalità, individui cioè con una preciso quadro diagnostico psichiatrico, per alcuni dei quali la violenza in famiglia non è che uno degli aspetti di un più generale pattern violento, mentre per altri il comportamento abusante di “controllo e potere” si esplicita solo entro le mura domestiche.

Nel caso del disturbo di personalità si corre però il rischio della tautologia; i disturbi di personalità, infatti, si caratterizzano almeno in parte proprio perché chi ne è affetto si discosta dalla “norma” comportamentale e statistica, piuttosto che dalla “normalità” medica; si puo’ correre il rischio di effettuare una diagnosi di disturbo di personalità in presenza di delitti gravi.

Il DSM-5 fornisce la seguente definizione dei disturbi di personalità “La caratteristica essenziale di un Disturbo di Personalità è un modello costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo […]. La valutazione del funzionamento della personalità deve prendere in considerazione l’ambiente etnico, culturale e sociale dell’individuo” (DSM-5, 2014).

Isabella Betsos (Betsos, 2009) distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • I narcisisti, che hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro. Questi soggetti si nutrono dello sguardo altrui, e più che di amore necessitano di ammirazione e di attenzione continua. Nella coppia, sono dominatori e attraenti, e cercano di sottomettere e isolare la compagna. Il narcisista cerca la fusione e ha bisogno di fagocitare l’altro.
  • I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici. Essi soffrono di un disturbo di personalità caratterizzato principalmente da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, la messa in atto di azioni eteroaggressive; le persone con questo disturbo, infatti, non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, come ad esempio distruggere proprietà, truffare, rubare, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi, quali il mentire, il simulare, l’usare false identità, traendone profitto o piacere personale. Elemento distintivo del disturbo è, inoltre, lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni, per cui i soggetti con disturbo antisociale di personalità, dopo aver danneggiato qualcuno, possono restare emotivamente indifferenti o fornire spiegazioni superficiali dell’accaduto. Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività. La prevalenza del disturbo antisociale di personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e l’1% nelle femmine.
  • Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP): tale quadro psicopatologico è caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Gli individui con disturbo borderline della personalità possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione: possono, ad esempio, dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”. I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro venga catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti, allo stesso tempo più controllati e controllori, ma il controllo non è esercitato attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. “Nei perversi è l’invidia a guidare la scelta del partner. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino. E’ per questo che scelgono le loro vittime tra le persone piene di vita, come se cercassero di accaparrarsi un po’ della loro forza. Oppure possono scegliere la loro preda in funzione dei vantaggi materiali che può procurare.” (Hirigoyen, M. 2006).
  • Le personalità paranoiche, coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Costantemente sospettosi e diffidenti, temono complotti ai loro danni anche da parte del coniuge, e la loro gelosia talora sfocia nella patologia vera e propria. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa. Se minacciati di abbandono o abbandonati, nella migliore delle ipotesi metteranno in atto comportamenti di stalking senza però giungere all’uxoricidio.

Costanzo (Costanzo, 2003) individua nella gelosia il movente dell’ uxoricidio e del femminicidio, distingue una “gelosia di tipo competitivo” di quei soggetti che soffrono per aver perduto l’oggetto d’amore ma insieme sentono la perdita come una diminuzione della propria autostima, per i quali l’amore si fonda sulla dipendenza, e che sono incapaci di amore autentico perché tesi al soddisfacimento dei propri bisogni narcisistici, da un secondo tipo di uxoricidi per «gelosia di tipo proiettivo», i quali riversano sul coniuge i propri desideri non riconosciuti di infedeltà. Una terza forma di gelosia, segnata da una patologia vera e propria, è quella del coniuge gravato da delirio di gelosia, spesso accompagnata da cronico alcolismo (Costanzo, 2003).

Tra i fenomeni psicopatologici dell’etilismo cronico sono tipici i deliri di gelosia, cioè convincimenti erronei sull’infedeltà del partner, facilitati anche dalla diminuita efficienza sessuale: tale delirio risulta anche favorito dall’atteggiamento di rifiuto che generalmente si manifesta in famiglia nei confronti dell’etilista sia da parte del coniuge e dagli altri membri della famiglia (Ponti & Betsos, 2014).

Una possibile spinta motivazionale ai delitti contro la partner e al femminicidio potrebbe essere ricercata quindi nell’insicurezza sessuale: si tratta di delitti d’impeto che non riuscendo a sostenere un rapporto sessuale, uccidono la partner femminile e nel contempo distruggono quel simulacro angoscioso che rappresenta, per loro, il fallimento (Ponti & Betsos, 2014).

L’abuso di alcol è citato come fattore criminogenetico in generale e in particolare correlato alla violenza di coppia (Ponti & Betsos, 2014): il bere porta a sovrastimare l’ostilità e le minacce altrui, e questo a sua volta favorisce condotte aggressive. L’attribuzione di episodi violenti a stati di ebbrezza appare una tecnica di neutralizzazione, e anche il consumo di alcol non è che un sintomo, come la violenza, non un fattore casuale.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità, della gravità delle violenze, Monroe e Stuart (Monroe & Stuart, 2004) descrivono:

  • un aggressore dominante-narcisista: per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente: che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali: caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

Distinzione non molto dissimile, proposta da Dixon e Browne (Baldry & Roia, 2003), è quella tra i violenti solo in famiglia, che risultano essere i meno gravati da disturbi psicopatologici; i disforici-borderline, segnati da sintomi patologici e in particolare da ansia, depressione, estrema labilità emotiva; e i generalmente disforici-antisociali che si configurano come i più violenti di tutti, caratterizzati da precedenti penali e abuso di sostanze ed eredi di quadri familiari violenti. Mentre per i primi la violenza è soprattutto di tipo espressivo, scaturisce cioè da emotività non controllata, per i disforici-borderline e i violenti-antisociali si tratta di violenza “strumentale”, dettata da specifiche finalità e premeditata.

Dixon e Browne sostengono che circa il 25% dei maltrattanti è costituito di violenti solo in famiglia, ma anche il 25% è costituito da violenti/antisociali, e alla terza categoria, i borderline/disforici, apparterrebbe il restante 25%. Questi tipi si differenzierebbero anche rispetto ad altri fattori, alcuni dei quali culturali, come il livello di violenza subita o a cui si è assistito durante l’infanzia, l’impulsività, la presenza o l’assenza di atteggiamenti che supportano o giustificano la violenza.

Statistiche italiane sul femminicidio

Per lo specifico quadro italiano, l’Istat informa (www.istat.it) che il partner violento è un soggetto fisicamente violento anche al di fuori della famiglia (35,6%), verbalmente violento anche al di là delle mura domestiche (25,7%). Inoltre nel 2006 il 74% degli autori di violenza era in partner o l’ex-partner della vittima, nel 2007 il 58% degli autori sono in partner o l’ex partner, nel 2008 il 54%, mentre nel 2009 il 63%, nel 2010 il 54% fino ad arrivare al dato rilevato lo scorso anno: il 65% degli autori è ora legato alla vittima da un rapporto sentimentale.

La correlazione tra l’uso degli smartphone e la felicità tra gli adolescenti

Uno studio californiano, condotto presso la San Diego State University, dal professore e psicologo Jean Twenge e dai suoi colleghi, ha indagato il collegamento tra il benessere degli adolescenti americani ed il tempo che passano sullo smartphone.

 

Gli adolescenti che usano di più gli smartphone sono meno felici

Twenge è autore del libro “iGen: perché oggi i ragazzi Super-connessi crescono meno felici e completamente impreparati per l’età adulta” (2017), un manuale sull’argomento social, adolescenza e infelicità.

L’autore ha iniziato questo tipo di studi rafforzato dalla letteratura che – per quanto cita l’autore- mostra un calo dell’autostima e della felicità dei giovani dopo il 2012, anno in cui la percentuale di americani che possedevano uno smartphone è salito oltre il 50%. Infatti, in seguito a questa diffusione massiva degli smartphone è stato registrato un declino delle attività sociali dirette ed un calo della qualità del sonno.

I ricercatori si sono serviti dei dati emersi da uno studio nazionale (americano) longitudinale (Monitoring the Future, MtF) (Johnston et al., 2016), in cui venivano indagati i seguenti aspetti: utilizzo di smartphone, tablet e computer, utilizzo di droghe e alcool e diversi altri aspetti. Partendo da questi dati Twenge e colleghi si sono basati su topic quali il tempo trascorso al cellulare, tablet e computer, il livello di felicità dei ragazzi e le loro interazioni sociali senza mediazione di social e smartphone.

È emerso che gli adolescenti americani più dediti all’utilizzo dello smartphone (giocando ai videogame e facendo uso dei social media) erano più infelici di quegli altri adolescenti che investivano il loro tempo in attività che non coinvolgevano l’utilizzo di cellulari, quali sport, lettura di riviste e interazioni sociali faccia a faccia, uscendo a giocare/chiacchierare con gli amici. I ricercatori credono che sia il tempo dedicato all’utilizzo degli smartphone a fare la differenza: gli adolescenti che hanno riportato maggiori livelli di benessere e felicità hanno dichiarato di utilizzare i digital media per meno di un’ora al giorno.

Non è l’astinenza da smartphone a determinare la felicità, ma indubbiamente l’infelicità aumenta costantemente all’aumentare del tempo passato davanti allo schermo.

In conclusione, citiamo le parole dell’autore: “Punta a non spendere più di due ore al giorno sui media digitali e cerca di aumentare la quantità di tempo che trascorri vedendo gli amici faccia a faccia e facendo esercizio fisico – due attività collegate in modo affidabile a una maggiore felicità“.

Le nuove frontiere della ricerca sulla Malattia di Huntington

Una nuova ricerca della Rockefeller University, mostra che le anomalie neurali della Malattia di Huntington, diagnosticata tipicamente verso i 40 anni, sono evidenti già in fase embrionale. La scoperta appare di estrema importanza in quanto potrebbe fornire nuove evidenze riguardo questa malattia fatale che interferisce con la normale funzionalità neurale.

 

La malattia di Huntington potrebbe avere origine nelle prime fasi dello sviluppo

La maggior parte delle persone affette dalla Malattia di Huntington mostrano i primi sintomi in età adulta: il campanello d’allarme è rappresentato da movimenti a scatti seguito, con l’avanzare della malattia, dalla comparsa della demenza sintomo tipico presente in questi pazienti.

La nuova ricerca suggerisce che questi sintomi potrebbero essere una manifestazione tardiva della malattia, che avrebbe origine precocemente addirittura nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Il team di ricercatori, ricreando cellule staminali embrionali umane, ha potuto osservare anomalie precoci a livello dei neuroni coinvolti nella malattia di Huntington; nell’articolo pubblicato su Development è stato descritto il modo in cui queste cellule formano grandi strutture anomale che non erano mai state osservate né associate precedentemente alla malattia.

La nostra ricerca suggerisce che l’incipit della malattia di Huntington si verifichi subito dopo la fecondazione. Questo comporta, ovviamente, delle conseguenze durante l’arco di vita in quanto la malattia si verifica decenni dopo la nascita, quando i sintomi si manifestano” ha detto Brivanlou, uno degli autori dello studio. La Còrea di Huntington è una delle poche malattie che presenta una causa genetica ben precisa: il 100% delle persone che presentano la mutazione del gene Huntington (HTT) svilupperà poi la malattia. La mutazione, che avviene a livello del DNA, fa sì che il gene responsabile produca una proteina più lunga del normale con sequenze ripetitive anomale. La ricerca sulla Malattia di Huntington ha finora utilizzato la sperimentazione animale, tuttavia gli scienziati non sono in grado di spiegare la funzione che il gene HTT svolge normalmente né tanto meno come la sua mutazione infici il funzionamento cerebrale.

Sospettando che la malattia si presenti in modo diverso negli esseri umani, i cui cervelli sono molto più complessi degli animali, i ricercatori hanno posto l’attenzione sulle cellule. Utilizzando la CRISP (una tecnica di modificazione del DNA cellulare) gli scienziati sono stati in grado di creare una serie di cellule staminali embrionali identiche a quelle originali tranne che per il numero di ripetizioni presenti alle estremità dei geni HTT, responsabili della malattia. Il team ha scoperto che, mentre nel processo di divisione cellulare in genere ciascuna cellula conserva un solo nucleo, in alcune delle cellule mutate erano presenti fino a 12 nuclei. Questo ingigantimento influenzava la neurogenesi, ovvero la generazione di nuovi neuroni: più la mutazione cellulare presentava ripetizioni, più si osservavano neuroni multinucleati.

La necessità di trattamenti differenti nella malattia di Huntington

I trattamenti oggi impiegati per la cura della malattia di Huntington si focalizzano principalmente sul blocco dell’attività della proteina mutata HTT supponendo che la iper-attivazione di tale proteina provochi la morte cellulare; il lavoro del team newyorkese però volge verso una via opposta avanzando l’idea secondo la quale la causa sarebbe la mancanza di attività della proteina in questione. Per testare questa ipotesi, i ricercatori hanno creato linee cellulari in cui la HTT era completamente assente: queste cellule sono risultate essere molto simili a quelle coinvolte nella Còrea di Huntington confermando l’idea che sia la mancanza della proteina e non un eccesso di essa, a causare la malattia.

Alla luce di ciò, i risultati appaiono alquanto significativi in quanto evidenziano l’inefficienza e la dannosità dei trattamenti esistenti e la possibilità di svilupparne di nuovi. Le evidenze trovate possono essere un’utile risorsa per studiare ulteriormente le dinamiche cellulari e molecolari coinvolte non solo nella Malattia di Huntington ma anche nelle altre malattie neurodegenerative umane. Brivanlou ha concluso “Il nostro lavoro ipotizza un aspetto evolutivo della patologia mai considerato prima d’ora: la Còrea di Huntington potrebbe essere non solo una malattia neurodegenerativa ma anche una malattia del neurosviluppo”.

Quantum mind: un libro sulla fisica quantistica e le scoperte nella psicologia moderna

Quantum mind è un libro con un intento ardito; quello che si prefigge di fare l’ autore non è un compito facile ma nel complesso ci riesce molto bene. Il titolo, molto evocativo, rimanda immediatamente al tema che in questo lungo trattato (più di 500 pagine), viene affrontato e cioè una complessa disquisizione sulle implicazioni della fisica quantistica e le sue recenti scoperte nella psicologia moderna.

 

I temi della fisica quantistica e della spiritualità in Quantum mind

L’ autore Arnold Mindell ha conseguito un Master in Fisica al Massachussets Institute of Technology (MIT) di Cambridge e ha insegnato fisica nei corsi di “processwork” a Portland, Londra e Zurigo; inoltre nutre un profondo interesse per la psicologia e per lo sciamanesimo. E’ grazie alle esperienze fatte con le pratiche sciamaniche in diverse parti del mondo che giunge alle riflessioni esposte in Quantum mind.

Tutto il libro è un viaggio attraverso concetti molto complessi soprattutto per chi non è del campo inerenti la fisica quantistica, la matematica quantistica, lo sciamanesimo, la psicologia e la spiritualità. Il lettore che non ha esperienza di questi temi potrebbe sentirsi spaventato, ma qui risiede il bello di questo testo, tutti gli argomenti sono trattati in una maniera estremamente semplice, ricca di esempi che aiutano la comprensione, di esercizi che aiutano a fare piccole esperienze per poter saggiare le argomentazioni esposte. Nel libro vi è spazio anche per il lettore più curioso che necessita di approfondimenti tecnici su concetti matematici e fisici con molti rimandi nelle note ad argomenti più specifici.

Fisica, matematica e psicologia

Il Focus di Quantum Mind si concentra essenzialmente sul dimostrare come la fisica e la matematica che sembrano poter spiegare ogni fenomeno, in realtà sono in grado di descrivere solo una piccola parte della realtà, queste due discipline per poter trascendere il limiti della realtà materiale e spiegare fenomeni altrimenti incomprensibili necessitano della psicologia.

Al termine psicologia nel testo viene dato un senso molto lato indicando i peculiari aspetti dell’ esperienza umana costituita da emozioni, percezione, spiritualità, simbolismo etc.. A detta dell’ autore solo restituendo valore a quest’ultima e operando una congiunzione tra le due discipline possiamo comprendere fenomeni complessi appartenenti alla fisica quantistica e a esperienze spirituali profonde. Questa dualità non è mai esistita nella cultura dello sciamanesimo che dai suoi albori non ha mai operato una distinzione tra mondo materiale e spirituale e che quindi detiene comprensioni profonde che oggi la fisica dei quanti ci restituisce in termini scientifici.

Come si intuisce, il tema è ampio e complesso ma estremamente affascinante poiché in linea con un pensiero psicologico che sempre più si fa largo nella letteratura scientifica attuale. Rimando al fortunato lettore di questo testo l’ approfondimento sul tema. Mi limito a precisare ulteriormente che questo è un testo che affronta argomenti complessi, attraverso speculazioni scientifiche intente a operare una visione unificata dell’essere umano, utilizzando teoremi, formule e numeri.

Quantum Mind può essere un ottimo primo approccio al mondo della fisica quantistica e all’utilizzo di questa per approfondire la scienza dell’ essere umano.

L’universalità della musica e delle sue funzioni

Ogni cultura ama la musica e il canto e la musica assolve molti scopi diversi: accompagnare una danza, consolare un bambino o esprimere amore. Lo dimostra un nuovo studio sperimentale che supporta l’ipotesi di una universalità del linguaggio musicale come veicolo di emozioni.

 

L’universalità della musica

La musica è un linguaggio universale. Lo si sente ripetere spesso, perché i successi musicali travalicano le frontiere spesso senza bisogno di tradurre il testo e soprattutto perché in molte occasioni capita di verificare che le emozioni suscitate da un brano non dipendono dalla cultura in cui è stato prodotto.

L’affermazione è stata verificata in modo più preciso da un nuovo studio sperimentale pubblicato su “Current Biology” da Samuel Mehr della Harvard University e colleghi. I risultati della ricerca infatti dimostrano che esistono alcune strutture musicali intrinsecamente correlate alle emozioni che possono essere percepite da persone di culture molto diverse tra loro dopo aver ascoltato soltanto un brano molto breve.

Nell’esperimento, gli autori hanno chiesto a 750 utenti di Internet di 60 paesi di ascoltare brevi brani musicali, ciascuno della durata di 14 secondi. I brani sono stati selezionati in modo pseudo casuale e provenivano da un’ampia gamma di aree geografiche, in modo da rappresentare una vasta gamma di culture umane. Dopo l’ascolto di ogni brano, i partecipanti hanno risposto a sei domande su come percepivano la funzione di ciascun brano musicale secondo una scala di sei punti. In particolare, dovevano valutare se i brani fossero adatti per ballare, tranquillizzare un bebè, guarire una ferita, esprimere amore, esprimere un sentimento di lutto o raccontare una storia. In totale, i partecipanti hanno ascoltato più di 26.000 brani e fornito oltre 150.000 voti. I dati hanno dimostrato che, in media, l’idea dei partecipanti sulle canzoni corrispondeva alla sua funzione originale, anche se i soggetti non erano familiari e non conoscevano il brano precedentemente. Ciò dimostrerebbe secondo i ricercatori che esistono strutture musicali, che indipendentemente dalla cultura di riferimento vengono percepite e interpretate in modo universale in riferimento a una loro possibile funzione.

Un dato curioso è la relazione emersa tra ninne nanne e musica da ballo. “Non solo i partecipanti sono riusciti a identificare le canzoni adatte per queste funzioni meglio delle altre, ma le loro caratteristiche musicali sembrano opposte per molti aspetti”, ha spiegato Mehr. “Le canzoni ballabili generalmente avevano un ritmo più rapido, erano più complesse dal punto di vista ritmico e melodico ed erano percepite come più gioiose e più eccitanti, mentre le ninne nanne erano percepite come più tristi e meno eccitanti”.

Lo stress cronico in gravidanza porterebbe allo sviluppo della depressione post partum

Un recente studio cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

 

La depressione post partum ha conseguenze importanti, in particolare sulla relazione mamma-bambino. Per questo motivo è fondamentale un intervento tempestivo ai primi segnali. A maggior ragione acquista grande importanza la prevenzione, con sempre più attenzione al periodo della gravidanza. Infatti, recenti studi hanno dimostrato che la depressione post partum può fare la sua comparsa già dal periodo della gestazione, come indicato anche dalle ultime modifiche del manuale diagnostico per i disturbi mentali (DSM V) dove tra i sottotipi del disturbo depressivo dell’umore rientra anche il disturbo depressivo a esordio nel peripartum, sostituendo la precedente dicitura di post partum.

Depressione post partum e stress in gravidanza

La depressione post partum colpisce circa il 10-15% delle mamme e sono numerose le ricerche che si sono occupate di individuare l’associazione tra questo disturbo e alcuni fattori di rischio, come precedenti disturbi psichiatrici, precedenti aborti, ansia e stress in gravidanza, e lo sviluppo dei sintomi della depressione post partum.

Un recente studio svolto dall’Università di Granada in Spagna, coordinato dalla professoressa Maria Isabel Peralta-Ramirez, ha però fatto un passo in più. Ha infatti cercato di stabilire un’associazione tra la depressione post partum e lo stress in gravidanza, ma a differenza di altri studi oltre alle variabili sociodemografiche, ostetriche e psicologiche ha indagato una variabile biologica dello stress: i livelli di cortisolo accumulati nel capello durante i tre trimestri della gravidanza.

I soggetti reclutati per lo studio sono state future mamme che hanno volontariamente partecipato allo studio, provenienti da tre centri sanitari e da un ospedale generale, mentre svolgevano le visite prenatali di routine. In totale il campione ha incluso 44 donne in gravidanza, seguite longitudinalmente durante i tre diversi trimestri e nel post partum. Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: un gruppo con sintomi di depressione post partum, con un punteggio pari o superiore a 10 all’EPDS (Edinburgh Postnatal Depression Scale), e un gruppo senza sintomi depressivi. Sono state escluse dallo studio donne con patologie prima o durante la gravidanza e gravidanze con malattia di Cushing, asma, farmaci steroidei, diabete o condizioni che potessero influenzare il livello di cortisolo.

Le variabili indagate dallo studio sono state:

  • dati socio demografici;
  • misure biologiche;
  • stress materno percepito;
  • sintomi psicopatologici;
  • stress specifico per la gravidanza;
  • depressione post partum.

La misurazione delle misure biologiche mirava a individuare l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attraverso i livelli di cortisolo dei capelli. I segmenti di capelli prelevati sono stati di circa 3 cm: considerando un tasso di crescita medio di 1 cm al mese, 3 cm indicavano il tasso di cortisolo depositato nei tre mesi precedenti.

Lo stress psicologico delle mamme è stato rilevato tramite il Perceived Stress Scale (PSS), che indaga lo stress percepito nel mese precedente. È stato inoltre utilizzato il Prenatal Distress Questionnaire (PDQ) per indagare lo stress specifico per il periodo della gravidanza, rispetto a problemi medici, sintomi fisici, cambiamenti corporei, travaglio, parto, le relazioni e la salute del bambino.

I sintomi psicopatologici invece sono stati indagati attraverso la scala SCL-90-R. Lo strumento valuta 9 dimensioni: somatizzazione, ossessione compulsione, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ostilità, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo. L’EPDS è stato utilizzato per la valutazione dei sintomi della depressione post partum.

Le batterie di test self-report sono state somministrate alle donne nel primo, secondo e terzo trimestre e nel post partum, durante gli incontri di routine nei quali le donne hanno incontrato medici e ostetriche.

Cosa è emerso dallo studio

Come ci si poteva aspettare, il gruppo di donne con i sintomi della depressione post partum ha riportato punteggi maggiori all’EPDS (M= 13,50) rispetto al gruppo senza sintomi di depressione post partum (M= 4,75). È emersa un’associazione tra i sintomi della depressione post partum e lo stress in gravidanza. In particolare, sebbene i livelli di stress specifico per la gravidanza fossero più alti tra le donne con depressione post partum in tutti e tre i trimestri, solo nell’ultimo trimestre sono emerse differenze significative tra i due gruppi.

Rispetto ai sintomi psicopatologici, il gruppo di donne con depressione postnatale ha mostrato punteggi superiori in tutte le sottoscale dell’SCL-90-R durante i tre trimestri di gravidanza. Nello specifico queste mamme avevano punteggi clinici (superiori a 70) nelle sottoscale di somatizzazione, ansia fobica e psicoticismo nel primo trimestre; ansia fobica durante il secondo e terzo trimestre; somatizzazione, ossessione compulsione, ideazione paranoide e psicoticismo nel terzo trimestre. Tra i due gruppi di mamme invece le differenze significative sono emerse in particolare durante il primo trimestre per la sottoscala somatizzazione e durante il secondo trimestre per le sottoscale di somatizzazione, depressione e ansia (Tab.1).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - Tab1

Tab. 1: differenze medie dello stress e dei sintomi psicopatologici con gli effetti di interazione tra gruppi e trimestri

 

Il risultato più interessante però è stata l’associazione tra i livelli di cortisolo dei capelli e i sintomi della depressione post partum. È emerso infatti che il gruppo di mamme con i sintomi della depressione postnatale aveva livelli più alti di cortisolo dei capelli durante tutti e tre i trimestri. Le analisi hanno inoltre permesso di vedere come i livelli di cortisolo nei capelli potevano prevedere il 21,7% della varianza dei sintomi depressivi nel post partum, nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Considerazioni cliniche

Lo scopo dello studio era quello di individuare le variabili sociodemografiche, ostetriche, psicologiche e ormonali per prevedere i sintomi della depressione post partum. Mettendo a confronto un gruppo di mamme con sintomi di depressione post partum e un gruppo di mamme senza sintomi sono state individuate differenze significative, interessanti dal punto di vista clinico. Nello specifico le mamme che hanno manifestato sintomi di depressione post partum hanno anche riportato valori più alti di stress in gravidanza, stress percepito, sintomi psicopatologici e livelli di cortisolo durante i tre trimestri di gravidanza.

Le discrepanze tra i due gruppi rispetto alle variabili psicopatologiche hanno evidenziato che durante il primo trimestre sono emerse significative differenze rispetto alla sottoscala somatizzazione della SCL-90-R. Nel secondo trimestre le differenze hanno coinvolto le sottoscale di somatizzazione, ossessione compulsione, depressione e ansia. Per questi motivi sono emerse correlazioni anche tra le sottoscale di ansia e somatizzazione della SCL-90-R nei primi due trimestri di gravidanza con l’EPDS. Questi risultati sono andati a confermare altri studi della letteratura che hanno individuato la correlazione tra sintomi psicopatologici della SCL-90-R e la depressione post partum.

Lo studio ha individuato differenze sostanziali tra i due gruppi durante il secondo trimestre di gestazione anche rispetto allo stress specifico della gravidanza. Entrambe le misure dello stress (PDQ e PSS) sono state utilizzate nella valutazione dei livelli di stress durante la gravidanza, ma tra le due misure il PDQ è quello che è risultato più significativo, ma è anche quello che offre l’opportunità di valutare preoccupazioni legate alla gravidanza. Può essere quindi considerato un valore di stress più specifico per questo periodo di cambiamento per la donne e un migliore predittore di eventuali esiti negativi nel post partum.

Le misure biochimiche, cioè i livelli di cortisolo dei capelli, rappresentano invece i livelli di stress cronico, perché indagavano lo stress accumulato nei tre mesi precedenti, rilevati a cadenza trimestrale per tutta la gravidanza. I risultati dello studio mostrano come i livelli di cortisolo nel gruppo con sintomi di depressione post partum sono scesi dal primo al secondo trimestre ma sono saliti dal secondo al terzo trimestre, creando una forma a U se tracciati su un grafico, a differenza del del gruppo senza sintomi depressivi in cui la crescita di cortisolo è stata costante (Tab. 2).

Stress in gravidanza associato allo sviluppo di depressione post partum - Psicologia - tab. 2

Tab. 2: differenze dei  livelli di cortisolo dei capelli tra donne con depressione post partum e donne senza depressione post partum

 

Questo è stato il primo studio a riportare i livelli di cortisolo nei capelli durante tutta la gravidanza in un gruppo di donne con sintomi di depressione post partum, comparandoli a quelli ottenuti da un gruppo di donne senza sintomi ed è la novità che potrebbe far nascere nuove ricerche per utilizzare misure biologiche in ottica preventiva.

Quello che è emerso è che i livelli di cortisolo dei capelli erano più alti in tutti i trimestri nel gruppo con sintomi di depressione postpartum rispetto al gruppo senza sintomi ed erano significativamente differenti nel primo e nel terzo trimestre. Inoltre alti livelli di stress cronico in gravidanza nel primo e nell’ultimo trimestre sono risultati correlati alla depressione post partum e possono così essere utilizzati come indici predittivi della psicopatologia postnatale.

Conclusioni

In sintesi lo studio ha rilevato che alti livelli di stress in gravidanza sono associati ai sintomi della depressione postpartum. Nello specifico ha rilevato che la depressione post partum è correlata a:

  • sintomi psicopatologici nel primo e nel secondo trimestre di gravidanza;
  • elevato stress specifico della gravidanza nel secondo trimestre di gravidanza;
  • alti livelli di cortisolo (stress cronico) nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza.

Poiché i livelli di cortisolo dei capelli utilizzati dallo studio riflettono i livelli di stress nei tre mesi precedenti il prelievo del campione, si può affermare che il periodo di preconcezione e il secondo trimestre di gravidanza sono periodi particolarmente sensibili rispetto allo sviluppo dei sintomi della depressione postpartum, confermando quanto riportato da precedenti studi.

A questo proposito sembrerebbe opportuno svolgere interventi di screening efficaci rispetto allo stress in gravidanza per ridurre al minimo esiti psicopatologici avversi nel post partum.

Unendo i risultati del presente studio a quelli della recente letteratura, si evince che non solo già dalla gravidanza possano emergere segnali importanti associati alla depressione post partum, ma che le future madri possono sviluppare in gravidanza oltre alla depressione anche sintomi ansiosi e con maggior frequenza rispetto a quelli depressivi. Valutare la salute psicologica già nel periodo perinatale permetterebbe quindi agli operatori sanitari di prendere decisioni adeguate di intervento e fornire un prezioso aiuto nel sostegno della maternità.

Buprenorfina: dalla terapia del dolore al trattamento della dipendenza da oppiacei – Introduzione alla Psicologia

La buprenorfina è un farmaco semisintetico appartenente alla classe degli analgesici oppioidi. Si tratta di un derivato dalla tebaina, alcaloide derivato dal papavero da oppio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La buprenorfina utilizza i recettori oppioidi e agisce sulle vie del dolore inducendo analgesia e altri effetti sul sistema nervoso centrale simili a quelli prodotti della morfina. Essa è utilizzata come terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei durante un percorso di un trattamento medico e psicologico

Storia del farmaco

Fu sviluppata alla fine degli anni Settanta nel tentativo di individuare un analgesico che non producesse assuefazione.

Nel 1978 fu brevettata e introdotta in Gran Bretagna con il nome commerciale di Temgesic. Negli anni ’80 ci furono i primi episodi in cui si denunciava l’assunzione di buprenorfina per via endovenosa e il suo abuso da parte di persone dipendenti da eroina.

Negli anni ’90 fu sviluppato il Subutex, brevettato per la prima volta in Francia per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Successivamente, nel 1999, la buprenorfina fu introdotta nel Regno Unito, nel 2000 in Germania e in Australia.

A tutt’oggi è presente in 30 paesi, e il Subutex è utilizzato in 17 paesi europei.

Di cosa si tratta

La buprenorfina deve essere prescritta da un medico del Servizio per le tossicodipendenze, che segue il paziente per il periodo della somministrazione. La buprenorfina è disponibile per la somministrazione orale, come compresse sublinguali, per la somministrazione parenterale, sotto forma di soluzione iniettabile e per la somministrazione topica, attraverso il cerotto transdermico.

Solitamente, si predilige la somministrazione sublinguale, via più efficace e sicura per la somministrazione di questo farmaco. Infatti, l’assorbimento per via orale è ostacolata dalla metabolizzazione di almeno l’80% della dose somministrata durante il primo passaggio epatico; invece, la via sublinguale ha un assorbimento che raggiunge l’80% con biodisponibilità assoluta del 30-50%. Il metabolismo è principalmente epatico attraverso meccanismi di glucuronazione e dealchilazione.

Trattamento attraverso buprenorfina

L’utilizzo della buprenorfina è indicato per il trattamento del dolore, sia acuto, sia cronico, da moderato a severo e di diversa origine e natura, compreso il dolore causato da patologie neoplastiche. Inoltre, la buprenorfina è utilizzata nei programmi di disassuefazione dagli oppioidi in adulti e adolescenti con più di 15 anni di età.

La dose di farmaco deve essere stabilita dal medico. Di solito, si inizia la terapia con piccole quantità di farmaco che gradualmente saranno aumentate dal medico fino al raggiungimento del dosaggio ottimale.

Effetti della buprenorfina

La buprenorfina è un oppioide avente effetti molto simili alla morfina, compresa sedazione, senso di nausea, depressione respiratoria, ma non comporta l’intensa sensazione di benessere iniziale simile all’eroina, il cosiddetto flash.

Inoltre, alti dosaggi del farmaco inducono cambiamenti duraturi nella dipendenza da varie droghe d’abuso e nella fase iniziale del trattamento sostitutivo sembra essere tollerata meglio del metadone, soprattutto in coloro che sono privi di una forte spinta motivazionale (Davids E, et al. Eur Neuropsychopharmacol 2004). La buprenorfina esercita anche una azione antidepressiva attraverso il blocco della disforia generata dalla stimolazione del recettore kspecifici e per questo è utile nel trattamento dei tossicodipendenti con diverse comorbidità psichiatrica.

Effetti collaterali

La maggior parte degli effetti indesiderati del farmaco sono: stitichezza, mal di testa, senso di affaticamento, insonnia e sonnolenza, nausea, inappetenza. Generalmente la sintomatologia iniziale è maggiormente letargica con sedazione, sonnolenza, cefalea, nausea e vomito, astenia, ansia. Così come accade per altri oppioidi la buprenorfina può essere oggetto di uso improprio o abuso. La dipendenza o astinenza da buprenorfina si manifesta con una sintomatologia dolorosa molto più intensa e persistente rispetto a quella dell’astinenza da eroina.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le implicazioni strutturali e psicopatologiche degli eventi stressanti infantili e recenti nei disturbi dell’umore

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale.

Aggio Veronica, Croci Martina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Gli eventi traumatici, sia infantili che recenti, rivestono un ruolo particolarmente importante nello studio della psicopatologia e dei disturbi psichiatrici in generale. Difatti, è noto a tutti come l’aver subito eventi avversi, anche di differente natura (es. neglect, abuso fisico, verbale), ha un notevole impatto sul benessere fisico e psichico. Poiché tali esperienze avverse includono una varietà di eventi, dai traumi più comunemente noti come maltrattamenti e abusi fino alla povertà e a condizioni di neglect psico-fisico, è naturale immaginare come la percentuale di persone che abbia dovuto esperire tali esperienze precocemente sia abbastanza alto. I dati stimano un’incidenza dei traumi sessuali che arriva fino al 34,1% in Italia (Castelli,2015): se includiamo dunque tutte le possibili tipologie di trauma i numeri diventano ancora più alti. Diversi studi hanno riportato come questi eventi avversi, in particolare se esperiti nei primi anni dello sviluppo, quindi durante l’infanzia, si correlino con un aumentato rischio di sviluppo di diverse patologie organiche, cosa meno scontata rispetto all’essere dei fattori predisponenti per problemi psicologici e patologie psichiatriche.

La recente psichiatria riconosce l’esistenza di una vulnerabilità biologica, ovvero l’insieme di fattori genetici ed ereditari, unita ad una vulnerabilità psicologica e sociale, intesa come la presenza di eventi di vita traumatici e l’ambiente circostante, familiare e sociale. Per questa ragione si parla di un modello bio-psico-sociale per quanto riguarda lo sviluppo di aspetti psicopatologici (Fassino et al., 2007).

Trauma psicologico

Tra gli eventi negativi che un soggetto può esperire nella propria vita il trauma occupa un posto prominente. Il trauma è definito come un’esperienza minacciosa per la vita o l’integrità fisica o psichica di un soggetto, vissuta in modo estremamente intenso in ambito emozionale dal soggetto stesso. L’ultima versione del “Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders” (DSM-5) specifica ulteriormente che il trauma è tale quando sussiste l’esposizione a rischio di morte reale, non solo percepito, o parimenti di grave lesione o violenza sessuale. Tale esperienza è considerata traumatica sia quando vissuta in prima persona sia indirettamente, ancor più se l’evento determina un’esposizione ripetuta o intensa (DSM-5, 2014). La caratteristica che si osserva con maggiore frequenza nel soggetto traumatizzato è la percezione dell’evento come una “frattura”, tale per cui il soggetto è in grado di segnalare un “prima” e un “dopo” nella propria vita con molta precisione. Ulteriormente, il soggetto vive l’esperienza traumatica in modo tanto intenso e negativo in ambito emotivo da impedire alla persona che la sperimenta di condurre la propria vita o percepire se stesso nello stesso modo in cui accadeva prima dell’evento (Onofri et al., 2016).

Eventi di vita negativi e psicopatologia

Gli eventi di vita negativi (es. traumi, lutti) sarebbero infatti da considerare fattori aspecifici (Felitti & Anda 2010) che potrebbero incrementare la possibilità di comparsa di qualsiasi malattia, oppure influenzarne sia il decorso che la prognosi, oppure, provocarne ricadute. L’aumento di questa probabilità può valere sia per sia per i disturbi d’ansia, sia per schizofrenia e disturbo bipolare, considerati gravi patologie psichiatriche ritenute conseguenti ad una marcata vulnerabilità biologica.

Tra gli eventi di vita infantili avversi vengono incluse tutte quelle esperienze vissute all’interno del contesto familiare prima della maggiore età tra cui l’abuso sia fisico che psicologico ricorrente, la presenza di una persona dipendente da sostanze stupefacenti o da alcool, la trascuratezza fisica ed emotiva (Felitti, 2013).

Nell’ultimo decennio, numerosi studi hanno portato diverse prove a favore dell’ipotesi che una precoce esposizione a degli eventi di vita stressanti, quali l’abuso sessuale e il neglect, si associ ad un marcato aumento della vulnerabilità per i disturbi psichiatrici tra cui la depressione maggiore, il disturbo bipolare, il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’abuso di alcol e sostanze, ed altre patologie organiche in età adulta, quali l’emicrania, l’obesità, patologie cardiovascolari ed il diabete. Gli eventi avversi infantili, rivestono un ruolo particolarmente importante, ed includono: l’abuso fisico e psicologico, il neglect, l’abuso alcolico e di sostanze da parte dei genitori, le violenze in ambito domestico, l’abuso sessuale, la separazione dal genitore e altre forme di perdita genitoriale. Diversi studi hanno dimostrato come l’aver sperimentato questi eventi aumenti il rischio di sviluppare stati depressivi, riducendo l’età di insorgenza, aumentando il tasso e la gravità dei tentativi di suicidio e riducendo il tasso di risposta agli psicofarmaci (Nemeroff, 2016). Gli eventi stressanti sono in grado di influenzare sia la salute psicofisica, quanto l’espressione, in età avanzata, di alcuni geni legati all’infiammazione (Levine, 2015), risultando in implicazioni a livello globale per l’individuo.

Gli effetti degli eventi stressanti a livello cerebrale

Gli eventi stressanti che avvengono precocemente nella vita sono rilevanti per la successiva psicopatologia anche perché vanno ad impattare su strutture cerebrali ancora in fase di sviluppo e maturazione (Calabrese, 2009). In base al momento in cui vengono esperiti, le strutture cerebrali coinvolte possono essere diverse: il fornice, il genu e lo splenio del corpo calloso e il fascicolo longitudinale superiore sono i fasci di sostanza bianca che completano per primi la propria maturazione e sono quelli maggiormente coinvolti negli studi MRI (Lebel, 2012).

A livello cerebrale, studi di risonanza magnetica hanno mostrato una generale riduzione dei volumi di materia grigia ed una ridotta integrità della sostanza bianca nei soggetti sani che avevano esperito degli eventi stressanti durante l’infanzia (Lim, 2014). Studi di MRI su bambini che erano stati cresciuti in orfanotrofio prima di essere adottati, mostrano una ridotta anisotropia frazionaria (FA, i.e., indice di integrità della sostanza bianca) rispetto a dei bambini non precedentemente istituzionalizzati in diversi fasci di sostanza bianca, fra cui il fascicolo uncincato, arcuato e il fascicolo longitudinale superiore bilateralmente (Govidan, 2010). I soggetti che hanno subito delle violenze verbali durante l’infanzia mostrano una ridotta FA a livello del fascicolo arcuato, del giro temporale superiore, del cingolo, dell’ippocampo e del fornice (Choi, 2009).

Non tutti gli eventi stessanti hanno però ricadute negative sulla persona: l’impatto che essi esercitano sugli aspetti psicobiologici dell’individuo dipendono dal periodo di vita in cui avvengono e dalla loro gravità. Gli eventi stressanti che avvengono durante la tarda infanzia ed adolescenza, se sono di entità moderata, promuovono lo sviluppo della regolazione dell’arousal e della resilienza, a superare meglio stress legati al lavoro e alla sfera sociale in età adulta (Gunnar 2009).

Le implicazioni degli eventi stressanti sui disturbi dell’umore

Nei pazienti affetti da disturbo dell’umore (i.e., depressione maggiore ricorrente, disturbo bipolare di tipo I e II), lo stress rappresenta il principale fattore precipitante, influenzando l’onset e l’andamento della patologia e promuovendo l’insorgenza di nuovi episodi depressivi sia immediatamente dopo l’evento stressante che anni dopo (Assari, 2016; Hayashi, 2015). Gli studi neuroimaging su pazienti unipolari e bipolari riportano un’alterazione diffusa a livello strutturale, concernente sia la volumetria di materia grigia che l’integrità della sostanza bianca. In un campione italiano di pazienti affetti da disturbo bipolare, è stata riportata una ridotta diffusività assiale (AD; i.e., rappresentativa della diffusività delle molecole di acqua parallelamente all’asse delle fibre) in molteplici fasci di sostanza bianca, tra cui il corpo calloso, la corona radiata, la radiazione talamica, il fascicolo longitudinale superiore, il fascicolo fronto-occipitale inferiore e il fascicolo uncinato (Benedetti, 2014). Nei soggetti unipolari gli ACE si associano ad una riduzione dei volumi di materia grigia a livello dell’ippocampo (Opel, 2014). In un campione di soggetti unipolari e bipolari, i soggetti che avevano esperito dei ACE risultavano deficitari in diversi domini cognitivi, mentre quei pazienti che non avevano esperito degli ACE in età infantile non mostrano delle differenze significative rispetto ai volontari sani, ciò dimostrando un effetto di moderazione degli ACE rispetto alle funzioni cognitive (Poletti, 2016).

 

Passione romantica e possibilità di scegliere e cambiare il proprio partner

Gli americani sono più appassionati dei giapponesi verso i propri partner, come mai? Perché vivono in un ambiente sociale in cui le persone hanno una più elevata mobilità relazionale, ovvero la libertà di scegliere il partner e successivamente lasciarlo e sceglierne un altro.

 

Lo studio è stato condotto in Giappone, dal dottorando di ricerca Junko Yamada e dal professor Masaki Yuki, della Hokkaido University.

L’ipotesi di ricerca ha trovato origine nell’evidenza emersa da studi precedenti a questo, in cui era appunto emerso che le persone del Nord America fossero più appassionate delle persone dell’Asia orientale (come giapponesi e cinesi). Eppure, ai ricercatori questo risultato sembrò incoerente con la teoria secondo cui gli americani degli USA sono individualisti e indipendenti, mentre gli orientali collettivisti e interdipendenti l’un l’altro.

Gli studiosi ipotizzano allora che sia la mobilità relazionale a determinare questa differenza passionale: gli americani vivono in una società con un’elevata mobilità relazionale, in cui le persone hanno una maggiore libertà di scelta di cambiare partner. Così i partner americani, in generale, possono sentirsi costantemente esposti al rischio di essere traditi e di essere circondati da rivali.

Sebbene la monogamia sia ancora la forma più comune nella società occidentale contemporanea, le relazioni romantiche a lungo termine devono affrontare un problema di conflitto tra mantenimento dell’impegno relazionale e la possibile ricerca di un partner alternativo.

In questo scenario la passione può essere considerata come un comportamento strategico volto alla rassicurazione dell’attuale partner. Così in Giappone, dove le relazioni sono più stabili a causa di una bassa mobilità relazionale, le persone sperimentano meno emozioni connesse alla possibilità di essere tradite o rifiutate e di conseguenza il comportamento passionale viene svuotato di un proprio ruolo strategico.

Lo studio: la mobilità relazionale in Occidente e Oriente

I ricercatori dell’Hokkaido University hanno intervistato 154 americani eterosessuali (78 uomini e 76 donne) e 103 giapponesi eterosessuali (65 uomini e 38 donne).

I partecipanti hanno risposto ad un questionario sulla mobilità relazionale romantica, uno sulla passione verso il partner ed un ultimo questionario sui comportamenti di impegno relazionali-romantici.

I risultati

Dai risultati è emerso che gli americani sono significativamente più appassionati nei confronti del proprio partner, rispetto ai giapponesi. Inoltre, dallo studio è emerso che più una persona è passionale e più aumenta la probabilità che il soggetto abbandoni volontariamente relazioni con altre persone del genere opposto.

Il gruppo americano ed il gruppo giapponese hanno mostrato differenze dal punto di vista del comportamento adattivo.

Il ricercatore Masaki Yuki ha commentato i risultati nel seguente modo:

Il nostro studio ha dimostrato l’importanza di considerare fattori socio-ecologici quando si studia il comportamento di accoppiamento umano. Inoltre, è stato dimostrato che un partner è più appassionato quando si ha più libertà di scelta. Tuttavia, ulteriori studi che coinvolgono altre nazionalità e background culturali andranno condotti prima di poter generalizzare i nostri risultati.

 


La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’amore può essere eterno? Un video emozionante del regista Michele Pastrello

Il benessere di un partner continua ad essere influenzato dall’altro anche dopo la morte di uno dei due, con la stessa intensità di quando era in vita.” Parola di Kyle Bourassa, il ricercatore dell’università dell’Arizona che ha pubblicato uno studio su Psychological Science a proposito dell’ amore che dura per sempre.

Michele Pastrello

 

L’ amore eterno: un video di Michele Pastrello

L’ amore dunque oltrepassa le barriere del tempo? Il regista Michele Pastrello propone la sua riflessione nel nuovo video emozionale e introspettivo Nexŭs (dal latino, “legame”). Il video inizia con una citazione da una famosa opera di Wilde: “Se non ci metti troppo, t’aspetterò per tutta la vita.” Un uomo anziano, nella sua vecchia casa, il mattino si alza, si veste elegantemente ed ogni giorno si prende cura del ricordo di una persona. Di una donna. E delle tracce della sua presenza. Un amore ancora intatto, fatto di tatto, di olfatto, di gesti, di riti. E di attesa e di essenza.

Dal video Nexus

Nexŭs è un video che pone domande che riguardano tutti: cosa rimane dell’amore quando la persona amata non c’è più? Domande a cui anche la scienza cerca di dare delle risposte. Ci hanno provato gli studi della neuroscienziata Bianca P. Acevedo che, con macchine per la risonanza magnetica, ha registrato l’attività cerebrale di innamorati di fronte a una foto di un amore lontano; ed è recente lo studio su un gruppo di anziani vedovi ad opera del ricercatore Kyle Bourassa dell’università dell’Arizona, in cui si asserisce che “le persone alle quali teniamo continuano a influenzare la nostra vita anche dopo essere morte“.

GUARDA IL VIDEO:

Nexŭs mette in emozionanti immagini l’attesa di un uomo anziano che aspetta (inconsapevole) il giorno in cui forse rincontrerà la sua amata. E che, in questa sospensione rituale, continuerà ad amarla. Nexus riassume quanto asseriva il filosofo austriaco Martin Buber: “La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro cuore; al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del legame che ci unisce a loro, con ciò che in essi si manifesta come bellezza, sensazione di benessere, godimento“.

Nexus Michele Pastrello video

 

L’amore, per la scienza almeno, è qualcosa di oscuro, per la Fisica non è né definibile né misurabile. Ma per il rinomato psicologo Abraham Maslow, il vero amore è il Being Love, cioè l’amore per essenza dell’altro. Maslow, noto per la Piramide di Maslow (la teoria per la gerarchizzazione dei bisogni per l’essere umano), nel 1962 asseriva di fronte allo scetticismo sull’incontrovertibile importanza dell’amore nella vita: a nessuno verrebbe in mente di porre in dubbio l’affermazione che l’uomo ha bisogno di iodio o di vitamina C. Vi ricordo che le prove del fatto che si ha bisogno d’amore sono esattamente del medesimo tipo.

Girato dal regista veneto Michele Pastrello, il micromovie ha una ulteriore peculiarità: ad interpretare l’anziano protagonista è il padre del regista stesso. Si chiama Angelo, ha 82 anni e non ha mai recitato prima in vita sua. Ma forse, tra le mura della sua casa, non c’è così tanto da recitare. Solo da ricordare.

Dove si fa l’amore? E in che momento della giornata? – L’educazione sessuale e affettiva all’ultimo anno della scuola primaria

Nell’ educazione sessuale e affettiva, le conoscenze trasmesse e le abilità relazionali promosse sono differenziate per fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Introduzione: l’ educazione sessuale

L’ educazione sessuale è una materia di insegnamento obbligatoria nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea; fanno eccezione alcuni, tra cui l’Italia. Nell’ educazione sessuale e affettiva, le  conoscenze trasmesse e le abilità relazionali promosse sono differenziate per fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’ educazione sessuale e affettiva precoce è concepita come una forma di prevenzione primaria delle gravidanze indesiderate e delle malattie sessualmente trasmissibili. Inoltre, previene forme di sfruttamento, coercizione e abuso sessuale, esamina pregiuzi e stereotipi legati all’identità di genere, previene discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Il laboratorio di educazione sessuale e affettiva all’ultimo anno della scuola primaria

Questo articolo è scritto sulla base della mia esperienza del laboratorio di educazione sessuale e affettiva proposto agli alunni dell’ultimo anno della scuola primaria; essi sono nel pieno della preadolescenza, una fase di passaggio a livello psichico, fisico, concreto. Durante l’intero anno scolastico, i bambini si trasformano, ma non tutti allo stesso ritmo: è usuale vederli cambiare in ragazzini che somigliano a giraffe sgraziate, oppure osservare differenze accentuate di altezza e robustezza fisica. Non ci sono solo differenze tra compagni di una stessa classe, ma anche nel medesimo alunno si può generare una disarmonia tra la crescita psichica e fisica: ci sono bambini con teste infantili avvitate su corpi da preadolescenti o viceversa, minuti, gracili e maturi pensatori.

Il passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria rappresenta un grande salto verso un nuovo ambiente, che, in quanto sconosciuto, viene sovente fantasticato come minaccioso. Dall’essere i più grandi, saranno catapultati in un mondo in cui saranno i più piccoli, gli allievi più “terribilmente” vicini all’infanzia rispetto agli altri che sono già dei ragazzi. Inoltre, questo salto li costringe ad affrontare la separazione dal gruppo classe e dalla maestra, un’esperienza che, per alcuni di loro, può entrare in risonanza con la questione delle separazioni coniugali, che sono sempre più frequenti.

Per tutte queste ragioni, il laboratorio di educazione sessuale e affettiva è proposto all’ultimo anno della scuola primaria. L’obiettivo è di affrontare i temi relativi alla crescita e alla sessualità in chiave relazionale.

Il percorso si snoda lungo alcuni incontri, i cui temi ripercorrono la vita di ciascuno e il “mistero” delle sue origini.

Il laboratorio è preceduto da un incontro di presentazione ai genitori, il cui obiettivo è di scoprire se l’argomento è già stato affrontato a casa e in che modo, che tipo di domande hanno fatto i bambini, eventuali difficoltà dei genitori o suggerimenti su temi da affrontare.

I bambini possono anche fare domande in forma anonima, che troveranno una risposta nello spazio del laboratorio. Il titolo di questo articolo riporta proprio alcune di queste domande anonime.

Il punto di vista dei genitori: le loro preoccupazioni legate all’incipiente adolescenza dei figli

L’incontro di presentazione del laboratorio di educazione sessuale e affettiva rappresenta una buona occasione di confronto tra i conduttori degli incontri e i genitori, e tra i genitori stessi.

I presenti esprimono in modo più o meno esplicito i loro pensieri e le loro preoccupazioni, a seconda del loro carattere. Solitamente, la discussione si concentra sul passaggio alle scuole medie inferiori e sul problema del bullismo. Alcuni sembrano chiedersi se i loro figli sopravviveranno a tale cambiamento, tanto che non è più chiaro a chi appartengano le paure, se a loro o ai figli. I partecipanti che hanno figli maggiori rassicurano gli altri: è un passaggio faticoso, ma fattibile, che ognuno di noi ha superato.

Il tema del bullismo meriterebbe un discorso a parte; sebbene sia sempre esistito, i mezzi di comunicazione di massa attuali lo hanno reso un fenomeno molto più pervasivo nella vita delle giovani vittime. Se un tempo ci si trovava a disagio o in difficoltà nella propria classe, era possibile ritagliarsi spazi completamente diversi e separati (attività sportive, ricreative, parrocchiali) in cui incontrare altri gruppi di coetanei con cui stare bene. Oggi, grazie al cellulare e ai social network, le derisioni o i commenti seguono i ragazzi dappertutto e a qualsiasi ora, senza pause e spesso senza filtri, purtroppo.

Altre questioni che i genitori suggeriscono di affrontare sono domande da parte dei figli sul cambiamento e sulla crescita puberale, sui rapporti amicali o amorosi con i coetanei.

Negli ultimi due o tre anni, c’è sempre qualche genitore che chiede di trattare, nel corso del laboratorio di educazione sessuale e affettiva, il rischio di adescamento sui social network da parte di pedofili e di ragionare con i loro figli sull’invio tramite cellulare di messaggi, immagini o video dal contenuto intimo/erotico.

Inoltre, alcuni genitori ritengono un importante oggetto di discussione gli eventi di cronaca come il femminicidio, la prostituzione minorile, oppure questioni politiche e valoriali come l’omosessualità e le pari opportunità. E’ impossibile tenere lontane le orecchie appuntite dei bambini dal telegiornale o dalle discussioni tra gli adulti e dunque le domande su tali argomenti sono (per fortuna) inevitabili; anzi, assolutamente non vanno ignorate, pena la generazione di una grande confusione nella testa dei bambini.

Il punto di vista dei figli: le domande anonime dei bambini su pubertà e sessualità

Molte delle domande scritte in forma anonima riguardano il modo in cui avviene il concepimento, la vita del bambino in gestazione e nel primo periodo dopo la nascita. Questioni attinenti e frequentemente poste sono la contraccezione, l’interruzione di gravidanza, le gravidanze gemellari, le malformazioni del feto ed eventuali disabilità.

Si trovano spesso domande sulla pubertà e sui cambiamenti del corpo, sull’arrivo e sulla convivenza con il ciclo mestruale. Alcune riflessioni virano su aspetti del mondo interno: i “bambini” osservano in se stessi, o se, li hanno, nei fratelli più grandi, sbalzi di umore più frequenti, complicazioni nei rapporti di amicizia e con i genitori, sentono battute maliziose un po’ oscure,  cominciano a provare nuovi imbarazzi relativi al corpo e un certo bisogno di riservatezza.

Alcune volte, richiedono informazioni sulla psicologia e sulla sofferenza mentale (domande sulla depressione, sul lutto, sull’autolesionismo).

Altri chiarimenti riguardano i sentimenti: come ci si accorge di essere innamorati? E come lo si comunica? Più raramente si ritrovano bigliettini che contengono confidenze, come il disagio e l’impotenza provata di fronte ai litigi dei genitori, la difficoltà a comprendere il mondo complicato delle relazioni adulte e i motivi per cui esse si interrompono.

Un’altra selva di domande che ha riempito la scatola più di recente riguarda il bullismo: i bambini si chiedono come riconoscerlo, perchè viene messo in atto, cosa fare per affrontarlo.

Non mancano mai domande sul significato di termini che indicano diverse attività sessuali (il bacio, il sesso orale, anale, la masturbazione), anche in gergo volgare; altre frequenti richieste di chiarimenti riguardano l’omosessualità, il travestitismo, il transessualismo, l’orgasmo.

Le domande sull’ipotetico inizio della propria vita sessuale e sul momento “giusto” sono quasi assenti; sono domande che ci si aspetta da studenti della scuola secondaria di primo grado, ma non bisogna trascurare il fatto che, alla fine dell’ultimo anno della scuola primaria, in genere almeno un’alunna ha già avuto il menarca e i tempi della crescita psicofisica sono accelerati.

Il punto di vista dei figli: le reazioni e le preoccupazioni dei bambini legate alla sessualità e alla crescita

I gruppi sono diversi di anno in anno; differiscono nella grandezza, nella maturità fisica e mentale, nel grado di introversione/esuberanza, nella quantità di informazioni che hanno (o credono di avere) sulla sessualità. Ovviamente, c’è sempre una certa eterogeneità su tutte queste variabili, il che è fonte di ricchezza, ma anche di confusione.

Si parte sempre da ciò che i partecipanti sanno già e da quello che desiderano sapere; nessuna delle loro domande viene ignorata, per quanto il senso di alcune attività sessuali adulte sia per loro incomprensibile.

I temi legati alla sessualità possono suscitare imbarazzo e alcune espressioni di disagio/disgusto; altre volte le reazioni variano dal “Lo sappiamo già!” al “A cosa serve sapere questi particolari??” A volte l’imbarazzo è nascosto da un apparente disinteresse. La pressione dei dubbi, dell’imbarazzo, l’intensità emotiva degli argomenti possono agitare notevolmente gli animi e generare una schiera di commenti fatti sottovoce all’amico più stretto. Se possibile, questi contenuti vengono messi in circolo all’interno del gruppo.

Tra gli argomenti che agitano maggiormente i bambini, ci sono i fatti di cronaca nera con cui entrano in contatto attraverso i telegiornali: il femminicidio, lo sfruttamento della prostituzione, soprattutto quella minorile, le aggressioni sessuali. Altri temi che suscitano discussioni provengono da altri programmi televisivi, soprattutto i reality show. In tali prodotti mass-mediatici, le emozioni e le esperienze intime sono sbandierate al loro massimo volume, così come i conflitti e le relazioni, comprese quelle amorose/sessuali. I bambini sono in grande difficoltà a distinguere tra ciò che è reale e ciò che può essere stato inventato. Non sanno valutare l’attendibilità delle fonti da cui provengono immagini e parole che possono metterli a disagio, spaventarli o provocare in loro un’eccitazione sessuale sconcertante e inappropriata.

Tutto questo discorso si applica amplificato al rapporto tra sessualità, internet e relazioni mediate dai social media, che, come il bullismo, meritano uno spazio dedicato di discussione.

La forza del gruppo

Nel gruppo di lavoro non serpeggiano solo le paure che derivano dall’esposizione senza filtri a un mondo reale (o virtuale) troppo crudo. Molti bambini hanno già discusso le notizie di cronaca con i genitori, hanno condiviso con loro le perplessità e le paure suscitate e sono pronti a farlo con i loro compagni. Guidati dagli adulti, riescono a elaborare un pensiero critico su ciò che hanno visto in televisione, su Youtube, o hanno sentito raccontare dall’amico dell’amico. Lavorano in piccoli gruppi autonomi per ideare strategie di fronteggiamento di situazioni rischiose.

Fanno riferimento alla propria esperienza di vita per descrivere emozioni e situazioni relazionali che hanno sperimentato. Inoltre, manifestano i loro sentimenti verso amici e familiari; il racconto della propria storia di vita, del percorso di crescita personale suscitano in ciascuno tenerezza e desiderio di progredire.

E se nella loro storia si sono verificati eventi dolorosi, come la separazione dei genitori, si generano movimenti di auto-mutuo aiuto. C’è sempre qualcuno che confida al gruppo la propria esperienza, e anche chi non si sente di farlo, trae beneficio dall’apertura altrui.

I rimandi dei genitori al termine del laboratorio

Dopo aver terminato il laboratorio di educazione sessuale e affettiva, è previsto un ulteriore incontro di confronto con i genitori e tra i genitori.

Alcuni riferiscono che i loro bambini a casa hanno raccontato un certo numero di particolari sul laboratorio. Altri riportano che il figlio ha chiesto conferma dei contenuti ascoltati al laboratorio, ponendo loro le stesse domande rivolte alla psicologa. La meraviglia e l’impatto emotivo di alcune scoperte possono generare il bisogno di una doppia verifica.

C’è sempre qualche genitore, evidentemente dalla prole estremamente riservata, che a questo punto riferisce che il figlio o la figlia non hanno detto una sola parola riguardo all’argomento. Alla fatidica domanda “Com’è andata?”, hanno ricevuto come risposta un laconico “… Bene …”.

La domanda successiva è spesso sulle strategie per incrementare il dialogo con figli che non prendono l’iniziativa e tendenzialmente non si aprono.

Uno stimolo per aumentare il dialogo è l’apertura da parte dei genitori stessi: ricordare che si è stati bambini, poi adolescenti, e raccontare aneddoti ed esperienze personali ai figli è un buon modo per iniziare a parlare. Se è vero che i tempi sono cambiati, l’evoluzione è accelerata, gli stimoli sono diversi, è pur vero che certe tematiche della crescita sono universali. Non c’è niente che suscita più interesse nei bambini che scoprire che gli adulti che li circondano e che hanno sempre conosciuto come tali, sono stati anch’essi bambini, con avventure simili e diverse dalle loro.

Inoltre, ciò che i genitori usualmente richiedono in occasione del laboratorio di educazione sessuale e affettiva sono corsi per loro, per prepararsi ad affrontare l’argomento con i figli. Il confronto tra genitori è un’ottima idea, dato che il principale punto di forza del gruppo è quello di non sentirsi soli di fronte a una difficoltà comune e di condividere le esperienze e le strategie per farvi fronte.

Alla scoperta delle funzioni cerebrali con un primo modello di cervello virtuale

Il cervello virtuale è in grado di combinare le misurazioni di un singolo paziente per produrre modelli personalizzati. Usando questi dati per simulare il cervello dei pazienti, il software agisce come un “microscopio matematico”, consentendo ai ricercatori di riprodurre le interazioni tra le cellule nervose che non possono essere misurate direttamente nell’uomo.

 

A cosa serve il cervello virtuale

Il compito di decifrare le molteplici funzioni del cervello in relazione alla sua struttura complessa richiede l’acquisizione di grandi quantità di dati da diverse fonti. Come i pezzi di un puzzle, questi dati devono quindi essere assemblati in simulazioni al computer che consentano ai ricercatori di comprendere i meccanismi coinvolti nelle funzioni cerebrali. Creato con questo obiettivo, il cervello virtuale è in grado di combinare le misurazioni di un singolo paziente per produrre modelli personalizzati.

Usando questi dati per simulare il cervello dei pazienti, il software agisce come un “microscopio matematico”, consentendo ai ricercatori di riprodurre le interazioni tra le cellule nervose che non possono essere misurate direttamente nell’uomo. Questo metodo consente ai ricercatori di utilizzare i dati del segnale cerebrale per trarre conclusioni sulle interazioni tra le reti neuronali che le producono.

Le prime sperimentazioni con il cervello virtuale

Lanciato nel 2012 come piattaforma di simulazione open source, il cervello virtuale è un progetto internazionale guidato dal Prof. Dr. Petra Ritter, del Dipartimento di Neurologia dell’Università Charité di Berlino e da due dei suoi colleghi di Toronto e Marsiglia. I ricercatori del BrainModes Group del Prof. Ritter hanno sviluppato un nuovo approccio, che prevede l’uso di un tipo di cuffia EEG per registrare l’attività elettrica del cervello dalla superficie del cuoio capelluto. I dati così ottenuti sono successivamente integrati in un modello di computer personalizzato, che simula l’attività cerebrale normalmente misurabile solo con l’uso di un grande scanner MRI. In realtà, questo modello è stato in grado di calcolare sei diverse caratteristiche dell’attività cerebrale. I precedenti tentativi su animali avevano richiesto procedure invasive e producevano solo risultati parziali. Il nuovo modello è stato in grado di produrre descrizioni dettagliate del modo in cui questi processi interagiscono per produrre specifiche funzioni cerebrali, confermando in tal modo l’ipotesi che l’inclusione di dati EEG nel modello computerizzato produca simulazioni più dettagliate dell’attività cerebrale. Consentendo ai ricercatori di descrivere processi cerebrali con risoluzione spaziale e locale migliorata, i dati EEG li rendono più facili da capire.

“Questo nuovo metodo di simulazione cerebrale ci consente di combinare le teorie su come il sistema nervoso funziona con misurazioni fisiche e integrarle in un unico modello completo che sia fisiologicamente che anatomicamente fondato”, spiega il Prof. Ritter. In molte delle scienze naturali, questo tipo di approccio si è rivelato estremamente utile sia nella formulazione di ipotesi che nella fase di verifica. Tuttavia, l’uso dei dati dei pazienti per produrre modelli individualizzati rappresenta uno sviluppo completamente nuovo e ha il potenziale di scoprire differenze individuali nel modo in cui il cervello funziona, sia nei pazienti che nei soggetti sani. Il prossimo passo sarà lo studio di gruppi più ampi di pazienti, nella speranza di decifrare i meccanismi alla base di condizioni come l’epilessia, l’ictus e la demenza.

Riassumendo la sua attuale ricerca, il Prof. Ritter afferma: “Questo software ha il potenziale per avvantaggiare direttamente i pazienti. Uno studio clinico attualmente in corso in Francia sta indagando come questa tecnologia possa aiutare a migliorare i risultati nei pazienti sottoposti a chirurgia epilettica. I neurochirurghi coinvolti sono in grado di ottimizzare i risultati attraverso una prima simulazione della procedura utilizzando un cervello virtuale del paziente“. Presto, il cervello virtuale potrebbe anche avvantaggiare la popolazione più ampia. L’app BrainModes – che è stata sviluppata dal Charité per l’uso con smartphone e tablet – funziona con i neuro-auricolari disponibili in commercio per consentire agli utenti di conoscere meglio il proprio cervello. Sotto la guida del Prof. Ritter, i ricercatori del Charité svilupperanno ulteriormente questa tecnologia, nella speranza di riuscire un giorno a controllare macchine, computer ed esoscheletri usando il potere della mente.

La localizzazione cerebrale del comportamento criminale: i codici del cervello che potrebbero aiutarci nella prevenzione e nel trattamento di condotte antisociali

In seguito ad una lesione cerebrale, alcuni pazienti mostrano dei comportamenti inusuali ed aggressivi, che potrebbero predisporre un soggetto al comportamento criminale. Sono casi rari, ma sembra che questi siano accomunati dagli stessi substrati neurologici: corteccia prefrontale mediale, corteccia orbitofrontale e la parte interna dei lobi temporali.

Daniele Fiorilli

 

Negli anni precedenti, alcuni studi hanno utilizzato delle tecniche di imaging per verificare le anomalie e i correlati cerebrali del comportamento criminale (Blake et al, 1995; Bufkin et al, 2005). Resta però da vedere in che misura queste anomalie incidano su determinati tipi di comportamento. Sono una causa? Fungono da compenso per una determinata funzione?

E’ bene precisare che non stiamo parlando di un rapporto diretto causa-effetto, bensì di lesioni cerebrali che potrebbero contribuire o predisporre un soggetto al comportamento criminale.

Quello che infatti sorprende negli studi che riguardano questo campo, è la relazione temporale che c’è tra lesione e comportamento. Basti pensare ad uno dei casi più famosi nel mondo della Psicologia e della Neurologia, quello di Phineas Gage, che dopo una lesione nella corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC) manifestò cambiamenti di personalità, fino alla messa in atto di comportamenti antisociali. Un altro caso è del soldato Charles Whitman, che uccise 16 persone in seguito alla comparsa di un tumore a livello del lobo temporale destro.

Comportamento criminale in seguito a lesioni cerebrali: lo studio di Darby e colleghi

In un recente studio Darby e colleghi (3, 2017) hanno mappato le lesioni cerebrali in 17 pazienti che hanno manifestato un comportamento criminale dopo (e solo dopo) che le lesioni si sono verificate. Questo perché i sintomi conseguenti a lesioni tendono a coinvolgere la connettività delle stesse regioni cerebrali. L’obiettivo dei ricercatori è stato quello di mappare le lesioni cerebrali per vedere se esse sono temporalmente associate al comportamento criminale.

I comportamenti criminali di cui i ricercatori hanno tenuto conto sono: frode, furto, stupro, aggressione e omicidio. Le 17 lesioni erano localizzate in regioni diverse (fig.1), in particolare:

  • 9 nella struttura mediale frontale o orbitofrontale;
  • 3 a livello del lobo temporale mediale / amigdala;
  • 3 nel lobo temporale anteriore;
  • 1 nella corteccia prefrontale dorsomediale;
  • 1 nello striato ventrale e in alcune parti della corteccia orbitofrontale.

 

Comportamento criminale le lesioni cerebrali che potrebbero determinarlo -Fig.1

Fig. 1: Lesioni associate temporalmente al comportamento criminale

 

Dai risultati possiamo vedere come le lesioni vadano a coinvolgere diverse regioni del cervello, ma tutte su una rete comune. Questa rete sembra essere implicata nei processi morali.

Tutto questo non vuol dire che ogni persona che presenta una lesione a livello di questa rete, manifesti poi un comportamento criminale. Fattori ambientali, sociali e genetici sono sempre da considerare all’interno della personalità degli esseri umani. I ricercatori tengono infatti a precisare che lo scopo dello studio è capire come la disfunzione cerebrale possa influire sul comportamento criminale; questi studi potrebbero infatti tornare molto utili nella prevenzione o addirittura nel trattamento di determinati soggetti.

L’interrogativo finale per cui è se la presenza di una lesione cerebrale può dirci se un soggetto è legalmente responsabile del comportamento. Medici, giudici, neuroscienziati si pongono spesso questa domanda.
Il paziente è responsabile? Deve essere punito allo stesso modo di un soggetto senza alcuna lesione?

Pensiamo per esempio ad un soggetto di 20 anni con un funzionamento cognitivo nella media, che è però incapace di sommare e sottrarre numeri (anche un semplice 2+2). Ci risulterebbe alquanto strano vero?! Una lesione cerebrale che coinvolge diverse aree del cervello, in particolare la regione posteriore sinistra, potrebbe causare acalculia: un difetto di calcolo sia mentale, sia scritto. In conseguenza di questa lesione i pazienti sono incapaci di compiere calcoli matematici.

Qual è quindi il confine che separa un comportamento criminale patologico, da uno conseguente a lesione cerebrale? Questo è un interrogativo a cui molte persone devono ancora saper rispondere.

Wonder: un film sentimentale su un bambino affetto da una deformazione facciale

Wonder è un film volutamente sentimentale, a tratti prevedibile, che strappa allo spettatore autentici sorrisi e inevitabili lacrime.
La sua intensità consiste nel raccontare verità semplici e fondamentali, che ogni tanto è necessario recuperare. E’ questo che lo rende un film da suggerire a tutti.

 

Info

Un film di Stephen Chbosky . Con Jacob Tremblay , Julia Roberts, Owen Wilson, Izabela Vidovic  – Drammatico – Stati Uniti – 2017

Trama del film Wonder

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di R.J. Palacio.
August (soprannominato Auggie) ha 10 anni ed è affetto da una grave deformazione facciale a causa della sindrome di Treacher Collins. Dalla nascita ha subito 27 operazioni chirurgiche, ma nessuna di queste gli ha restituito un aspetto normale. Deve frequentare la prima media e i suoi genitori decidono di iscriverlo a scuola per la prima volta: fino a quel momento ha infatti trascorso la sua esistenza all’interno delle rassicuranti mura domestiche, dove la madre gli ha fatto anche da insegnante. Entrando a scuola, Auggie si deve confrontare con il mondo esterno e con i coetanei.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Motivi di interesse

“Mi chiamo Auggie Pullman, l’anno prossimo comincio la prima media, e siccome non sono mai stato in una vera scuola, sono praticamente pietrificato ”.
Questa è la premessa di Wonder.

Il passaggio a scuola, rappresenta per Auggie l’ingresso nel mondo. Per la prima volta si affaccerà alla vita e si confronterà con qualcuno che non lo proteggerà e non l’amerà incondizionatamente come i suoi familiari. Dovrà fare i conti con la sua diversità e con gli sguardi fissi sul suo volto. E tutto questo richiederà una grande dose di coraggio: sia da parte sua, che dei suoi familiari.

Dopo un’ampia introduzione interamente dedicata ad Auggie, il film si focalizza su alcuni personaggi secondari, assegnando maggiore completezza alla pellicola attraverso un’ esaustiva analisi del contesto e un approfondimento di alcune tematiche tipicamente adolescenziali. Dalla sorella frustrata per le molteplici attenzioni rivolte al fratello, all’inseparabile amica della sorella che in modo apparentemente inspiegabile si allontana, all’amico di scuola che Auggie scopre parlargli alle spalle in cerca dell’approvazione del grande gruppo.
Attraverso questi spostamenti, il regista descrive un quadro molto realistico, mettendo in evidenza che la crescita individuale di Auggie è inevitabilmente inserita nei vissuti stessi delle persone a lui vicine.

La forza di Wonder risiede nel rappresentare il difficile processo di formazione di un bambino, come effetto di un lavoro di squadra. La capacità del protagonista di affrontare i suoi pari, di tirare fuori le sue emozioni e di non demordere di fronte alle molteplici frustrazioni, indica il risultato di un impegno collettivo.

Ci sono due genitori consapevoli che manifestano le loro paure, ma non ne sono vittime. Entrambi mantengono uno sguardo costantemente fiducioso sul figlio, come a dirgli “tu ce la farai”. Accolgono i timori del bambino, ma non si spaventano di fronte a essi. Concedono ad Auggie la libertà di “proteggersi” sotto un casco da cosmonauta, per poi incoraggiarlo a toglierselo una volta approdato a scuola. Lo esortano e lo accompagnano a “spiccare il volo”, pur con tutte le preoccupazioni legate alla sua diversità.

C’è una sorella protettiva e premurosa che – al di là della frustrazione di sentirsi spesso la figlia “in secondo piano”- incoraggia Auggie ripetendogli sovente: “Non puoi nasconderti se sei nato per emergere”.

C’è il primo amico incontrato a scuola, che tradisce il protagonista per paura di essere escluso dal gruppo, ma poi lotta per riconquistare il rapporto e si assume la responsabilità di ciò che ha fatto.
E’ l’instancabile lavoro di squadra che contribuisce a rendere Auggie il bambino che è: gentile, determinato, combattivo, vitale e dotato di grande senso dell’umorismo.

Ci sono momenti in cui il protagonista ha voglia di arrendersi, perché tutto gli appare estremamente faticoso: si sente tradito, amareggiato, deluso. La sua diversità e le esperienze deludenti potrebbero facilmente spalancargli le porte del vittimismo e del compiangimento.
Ma alla fine è la fiducia in se stesso a prevalere, quella che gli è stata costantemente trasmessa dai suoi familiari e che gli verrà confermata dalle nuove amicizie. Quella che gli impedisce di cedere.
La sua gentilezza e la sua determinazione finiranno per conquistare tutti. E per Auggie ne sarà valsa la pena.

Indicazioni per l’utilizzo di Wonder

Wonder è un film volutamente sentimentale, a tratti prevedibile, che strappa allo spettatore autentici sorrisi e inevitabili lacrime.
La sua intensità consiste nel raccontare verità semplici e fondamentali, che ogni tanto è necessario recuperare.

E’ questo che lo rende un film da suggerire a tutti.
Ai bambini, perché affronta il tema universale della diversità, delle prese in giro e dell’amicizia.
Agli adulti in generale, perché ha il coraggio di mostrare le paure che chiunque può aver attraversato.
Ai genitori, perché mostra ciò che le madri e i padri dovrebbero rappresentare per un figlio: la base sicura. Uno sguardo fiducioso verso un figlio, lo aiuta a credere in se stesso, e credere in se stessi è ciò che può fare affrontare ogni difficoltà della vita.
Agli psicoterapeuti, perché la stessa fiducia è importante trasmetterla a ogni individuo che si incontra nel proprio percorso lavorativo.

Aspettiamo un bambino! Cosa accade nella mente dei futuri genitori?

Sto per diventare genitore! Come viene definita la gravidanza in psicologia? E cosa accade nella mente delle donne e della coppia quando si preparano ad avere un figlio?

Mamme e Papà si diventa #3

 

La storia individuale della gravidanza

Quando la donna scopre di essere incinta, il proprio mondo interiore si arricchisce di fantasie, sogni e previsioni attingendo dalla propria storia di vita. Ogni donna vive una “storia” interna diversa per ciascuna gravidanza: i ricordi, le speranze, i desideri derivanti dal passato e dalle prime relazioni cominciano ad affollare la mente della futura mamma in maniera specifica e irripetibile.

La Benedek descrive la gravidanza come un evento psicosomatico che comporta modificazioni di natura sia fisiologica che psicologica. La Bibring, invece, la definisce una “crisi maturativa”, un processo nel corso del quale si riattivano conflitti legati all’infanzia e si riattualizzano processi di identificazione inconsci con la propria madre. I conflitti infantili possono trovare una risoluzione in questo periodo di svolta e può verificarsi una rielaborazione delle proprie esperienze e il raggiungimento di un maggiore livello di integrazione. In altri casi, se il rapporto con la propria madre è stato caratterizzato da conflitti ed emozioni ambivalenti è possibile che tali vissuti emotivi si riattivino quando si diventa madri.

Secondo la Pines (1982), le donne in questa fase del ciclo di vita ridefiniscono la propria identità femminile, rivivono il processo di separazione-individuazione dalla propria madre e sperimentano una identificazione sia con la propria madre che con il feto: le future mamme sono allo stesso tempo figlie delle loro madri e diventeranno madri dei loro figli. Un nuovo ruolo che rende più complessa la propria identità: si diventa madri, oltre che essere ancora figlie, compagne e donne.

Anche i numerosi cambiamenti che caratterizzano la maternità vengono prefigurati nella mente delle future mamme in maniera differente. Avere un figlio significa essere disposti ad ascoltare e a rispondere ai numerosi bisogni del bambino, vedere ridotto il proprio tempo libero, passare notti insonni e acquisire un ruolo del tutto nuovo. Tali cambiamenti potranno essere accolti dalle mamme con entusiasmo e gioia o potranno veder prevalere emozioni di ansia o tristezza. Ognuno vive per questo una storia interna della gravidanza, individuale e che deriva al contempo dalla propria storia passata e dalle relazioni di cui ciascuno ha fatto esperienza.

Cosa accade nella coppia e a livello familiare?

Le realtà psichiche interne della madre e del padre derivanti dalla propria storia di vita e dalla personalità individuale di ciascuno e successivamente la realtà psichica del bambino si intrecciano e si arricchiscono a vicenda, definendo quello che sarà il modello relazionale familiare.

In psicologia, la transizione dalla coniugalità alla genitorialità, definita “transition to parenthood”, viene concepita come un processo complesso che deriva da un distanziamento dalla famiglia di origine, da un punto di vista sia relazionale che rappresentazionale. Si acquisisce un nuovo ruolo e le relazioni si complicano diventando trigenerazionali. Un figlio nasce, appunto, dall’incontro di storie e processi relazionali e intergenerazionali diversi. Ogni partner ha una storia che rivive nella quotidianità e che si palesa più forte che mai quando si diventa genitori (Imbasciati, Cena, 2015).

Nel passaggio dalla diade alla triade emerge il sistema interiorizzato di relazioni di ciascun genitore, il passato si intreccia con il presente e l’intrapsichico con l’interpersonale. In questa transizione diventa fondamentale fare spazio al bambino, non solo fisicamente ma anche mentalmente e le prime fantasie e sogni ad occhi aperti del “bambino immaginario” di cui si è parlato in “Desiderare un figlio: quando tutto ha inizio” definiscono il luogo mentale in cui la coppia si prepara ad accogliere un bambino.

Il periodo della gravidanza, dunque, consente ad entrambi i genitori di sviluppare nel loro mondo interno uno spazio adatto a riflettere sul bambino e sulla genitorialità. Questa fase può essere concepita come un processo psicologico di adattamento alla nuova realtà e di elaborazione delle trasformazioni rispetto alla vita precedente. E’ possibile distinguere tre periodi che definiscono la gravidanza in termini psicologici. Nel primo periodo, i genitori, quando scoprono di aspettare un figlio, ripensano alla loro infanzia, alle prime relazioni di attaccamento, all’accudimento ricevuto dai propri genitori e la madre può manifestare sentimenti ambivalenti nei confronti del feto, di gioia ma al contempo timori e dubbi; nel secondo stadio della gravidanza, la futura mamma inizia a percepire i primi movimenti fetali e a prendere consapevolezza che il feto è diverso da sé e con esso è possibile interagire e stabilire una relazione affettiva; nel terzo periodo, il bambino viene sempre più concepito come individuo separato e capace di interagire e la madre inizia a sviluppare una sorta di attaccamento con il proprio bambino.

Dunque, molteplici sono i cambiamenti a livello psicologico che avvengono durante la gravidanza, si rivivono esperienze passate, si riattualizzano e a volte rielaborano vissuti irrisolti. I nove mesi rappresentano, per questo, un tempo necessario non solo per l’accrescimento fetale, ma anche per la maturazione della consapevolezza del proprio ruolo genitoriale alla luce della propria storia di vita e di prefigurazione dei cambiamenti che la nascita di un figlio porta con sé.

Ogni coppia scrive e vive una storia diversa.

Una meta-analisi fa chiarezza sugli effetti dei videogames nel migliorare alcune abilità cognitive

Il training delle abilità con videogames è in grado di migliorare le abilità cognitive specifiche alle quali è destinato ma non offre benefici anche ad altri domini simili, dimostrando che il training è dominio-specifico (Sala, Gobet et al., 2018).

 

I videogames possono migliorare alcune abilità cognitive

I dati provenienti dalle ricerche sul training cognitivo tramite videogames hanno recentemente suscitato un acceso dibattito in particolare riguardo la sua efficacia nel potenziare e migliorare alcune abilità cognitive come: l’attenzione, le abilità visuo-spaziali, la working memory, le funzioni esecutive e il ragionamento (Green, Kattner et al., 2017).

In questo campo, le ricerche hanno prodotto svariati risultati e di fatto un generale disaccordo tra i ricercatori, in particolare per la questione della generalizzazione dell’apprendimento, cioè la possibilità di generalizzare ciò che è stato appreso in un contesto specifico ad altri diversi contesti (Barnett & Ceci, 2002).

L’apprendimento può essere esteso ad altre abilità e contesti?

È possibile quindi allenare le abilità cognitive, e se lo è, è possibile generalizzare quanto appreso a beneficio di altre abilità?
Per fare chiarezza su questo punto cruciale, anche con il fine di approfondire i meccanismi che permettono agli individui di acquisire e poi applicare un apprendimento, Sala e colleghi (2018) hanno analizzato nel dettaglio la letteratura e gli studi riguardanti i possibili benefici del training tramite videogames sulle abilità cognitive, partendo dai dubbi del Stanford Centre of Longevity e dell’Istituto Max Planck sezione Human Development.

Nella loro meta-analisi, Sala e colleghi (2018) sono partiti dalla distinzione, fatta in letteratura, tra near e fast Transfer cioè tra quell’apprendimento che si verifica per due domini, strettamente legati tra loro (near) e l’altro per cui il dominio di partenza dell’apprendimento e quello di destinazione sono solo vagamente collegati (far).

In particolare nella loro teoria, Thorndike e Woodworth (1901) propongoo che la generalizzazione dell’apprendimento sia una funzione della misura in cui due domini condividono caratteristiche comuni e che mentre il trasferimento “vicino” è abbastanza comune, quello “lontano” è più infrequente.

Come diretta conseguenza di ciò, ci si aspetta che gli effetti del training cognitivo siano limitati all’abilità oggetto del training e altre simili a questa, come nel caso degli scacchi o nell’acquisizione di un expertise in ambito musicale e sportivo, favorito soprattutto da anni e anni di esercizio e ore di lavoro (Knecht, 2003). Gli stessi risultati sembrano essere stati riscontrati nel training cognitivo, in cui l’addestramento di alcune abilità non sembra impattarne altre; in particolare sembra che questo principio si applichi soprattutto per quei compiti come n-back per il potenziamento della working memory e il training spaziale.

Tuttavia vi sono alcune evidenze del fatto che ci sia una relazione causa-effetto tra il training tramite gli action videogames e il miglioramento delle performance nell’ambito dell’attenzione selettiva dei giocatori (Green & Bavalier, 2003).

L’analisi della letteratura sull’argomento fatta da Sala e colleghi (2018) è costituita da tre meta-analisi: la prima cerca di valutare l’effettiva correlazione tra l’apprendimento di abilità tramite videogames e le abilità cognitive in una popolazione di giocatori, la seconda di testare eventuali differenze tra i giocatori di videogames e i non giocatori, in termini di abilità cognitive e infine la terza di esaminare gli effetti del training tramite videogames sulle abilità cognitive dei partecipanti.

In particolare la meta-analisi (Sala, Gobet et al., 2018) ha considerato come moderatori la misura delle abilità cognitive su due livelli: la frequenza (quante ore alla settimana) e il punteggio ottenuto dai giocatori.
Infine è stato presa in considerazione la tipologia dei videogames: action videogames (es. Mario Kart), non-action videogames (puzzle, giochi di strategia o role playing).

Le tre meta-analisi hanno in conclusione delineato un quadro nel quale esiste una debole correlazione tra le skills specifiche apprese dai videogiochi e le abilità cognitive, una poco significativa differenza sia tra i giocatori e i non-giocatori sia tra i partecipanti sottoposti ad un training tramite videogames e quelli del gruppo di controllo (Sala, Gobet et al., 2018).

I risultati di tale meta-analisi hanno evidenziato con chiarezza che è ben evidente un miglioramento di un’ abilità cognitiva se questa in particolare viene potenziata, favorendo di conseguenza l’expertise in quel particolare ambito, tuttavia a differenza di quanto mostrato dalla letteratura presa in considerazione, il trasferimento far tramite videogames non sussiste (Sala, Gobet et al., 2018).

Il risultato più significativo mostrato dalla meta-analisi riguarda il fatto che esiste una mancanza nella generalizzazione dell’apprendimento tra domini differenti di abilità acquisite tramite training attraverso i videogames.

Il training delle abilità è in grado di migliorare le abilità specifiche alle quali è destinato ma non offre benefici anche ad altri domini simili, dimostrando che il training è dominio-specifico (Sala, Gobet et al., 2018).

Adults for children: la genitorialità nei servizi psichiatrici – Report dal Convegno della ASST Niguarda

Il 1 febbraio 2018 presso l’Aula Magna della ASST Niguarda di Milano si è un tenuto il secondo Convegno Nazionale dal titolo “Adults for Children: la genitorialità nei servizi psichiatrici”. Diverse figure professionali, che da anni lavorano nell’ambito della prevenzione con i figli di genitori con disturbi psichici, hanno preso parte al convegno, che ha visto la partecipazione anche di Karin van Doesum (psicologa e ricercatrice presso la Radboud University Nijmegen) e di Randi Talseth (segretario generale della Voksne for Barn Association di Oslo).

 

Introduzione al convegno: l’importanza della prevenzione e del lavoro di rete

Il dott. Alberto Zanobio (Responsabile SS di Psichiatria Comunità 2 della ASST Niguarda), Maria Carla Gatto (Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano) e Mauro Percudani (Direttore DSM e Dipendenze della ASST Niguarda) introducono i lavori, illustrando come la ricerca e la letteratura sia nazionale che internazionale dimostrino come la presenza di una patologia psichica in uno o in entrambi i genitori abbia un impatto significativo sulla salute mentale dei figli e questo determina la necessità di proporre progetti di prevenzione. L’obiettivo, secondo Maria Carla Gatto, è quello di curare senza allontanare il minore dalla famiglia, attraverso un lavoro di rete e di collaborazione tra Tribunale, Centri Psicosociali e Servizi Sociali, al fine di garantire un intervento precoce. Tali interventi dovrebbero coinvolgere e occuparsi dell’intero nucleo familiare, non solo del genitore o del bambino.

Minori e genitorialità difettosa: il trauma relazionale – Intervento del dott. Mattioni

Il primo intervento al Convegno spetta al dott. Alfredo Mattioni (Psicologo, Psicoanalista e Direttore SSD di Psicologia della ASL della Valle D’Aosta) e porta il titolo “Minori e genitorialità difettosa: il trauma relazionale”. Mattioni nel suo discorso spiega cosa voglia dire essere genitori in un’ottica psicologica e quando la genitorialità si rivela sana e quando, invece, sfocia in una genitorialità perversa. Egli sottolinea quanto sia difficile il lavoro dei genitori, in quanto essi non possono determinare il futuro dei propri figli e non possono considerare i figli come un prolungamento narcisistico di sé, investito di desideri e sogni personali. La genitorialità sana richiede la capacità di accettare i propri limiti in quanto genitori e affrontare i conflitti e i problemi che sono comuni a tutte le famiglie. Il dott. Mattioni propone un continuum per mostrare dove possono collocarsi i genitori rispetto al proprio ruolo e al rapporto con i figli: ad un estremo si colloca la genitorialità ideale, quella perfetta alla quale si tende ma mai raggiunta, all’estremo opposto si colloca la genitorialità perversa, in cui i bambini sono vittime di sfruttamento, abuso, violenze, maltrattamento, sono costretti ad andare in guerra o a sposarsi quando ancora bambini; nel mezzo si colloca la relazione genitore-figlio caratterizzata da vulnerabilità, in cui ci siamo tutti noi e che comprende anche la genitorialità psichiatrica. Il nostro ruolo in quanto professionisti, in quest’ottica, può essere di tutela del minore e di monitoraggio della genitorialità. Subito dopo, Mattioni ripercorre la storia di alcuni modelli educativi del passato improntati sulla violenza e sul controllo, per poi arrivare a quella che dovrebbe essere l’attuale concezione della genitorialità: non esistono il minore e il genitore singolarmente, la genitorialità è un processo a spirale dettato dalle interrelazioni tra bambino e genitore. Pur essendo quella tra genitore e figlio una relazione asimmetrica, non bisogna dimenticarsi che l’altro è una persona per non correre il rischio di esercitare male il proprio potere.

Dati epidemiologici relativi ai genitori portatori di bisogni psichiatrici

Il secondo intervento è quello della dott.ssa Flavia Baccari (ASL di Modena) che riporta alcuni dati e aspetti epidemiologici relativi ai genitori portatori di bisogni psichiatrici. I dati della fonte SIEP relativi al 2015 ci dicono che in Lombardia l’1,6% della popolazione ha avuto contatti con un Centro Psico-sociale. Mentre l’ISTAT ci fornisce i dati relativi alla prevalenza dell’ansia e della depressione che si aggirano rispettivamente attorno al 4,4% e al 7,3%. È stata successivamente effettuata una stima dei figli di pazienti che accedono ai CPS: in Italia sarebbero circa 36.520,5 (di età tra 0 e 26 anni) e in Lombardia 7.503,9. I dati sono, dunque, piuttosto alti e qualcosa si può e si deve fare a favore di questi bambini.

Interventi di prevenzione per i figli di genitori con disturbi psichiatrici nel panorama europeo

Il terzo intervento spetta alla dott.ssa van Doesum, la quale fornisce inizialmente alcuni dati relativi alla trasmissione dei disturbi psichici di generazione in generazione. Il 40% degli adulti con disturbi psichici sembra avere almeno un genitore affetto da un disturbo mentale. Più a rischio sembrano essere le ragazze e se entrambi i genitori sono affetti da un disturbo mentale c’è un rischio ancora maggiore di sviluppare a propria volta un disturbo di natura psichica o sociale. Vengono in seguito illustrati i principali interventi preventivi che possono coinvolgere il genitore o il bambino o entrambi. Gli obiettivi principali sono di: prevenzione di disturbi nei bambini aumentando la loro competenza sociale e la resilienza, supporto alla genitorialità, riduzione delle situazioni stressanti a cui è esposto il bambino e informazione di ciò che accade a casa. Gli interventi sui bambini sono variegati: gruppi di gioco e dialogo, brochure e video informativi, siti web, programmi online, gruppi su Facebook. Viene poi descritto nel dettaglio l’intervento “Squeake said the mouse” per bambini tra 4 e 8 anni con genitori affetti da disturbi psichici o dipendenze patologiche, che prevede incontri di gruppo per bambini e incontri in compresenza con i genitori. Gli interventi preventivi per i genitori consistono invece in: Family Talk per insegnare ai genitori a comunicare coi figli del disturbo, Child Talk che coinvolge i bambini, gruppi per mamme o genitori, siti web, corsi online, forum e videoclips. Infine, vengono illustrati gli interventi per gli operatori che consistono in case management, supporto a infermieri e medici, brochure, video, siti web, training Child Talk. Si propone, dunque, un approccio onnicomprensivo, che coinvolge gruppi di età e target diversi, interventi individuali o online. Conclude la dott.ssa che la prevenzione dovrebbe iniziare già in gravidanza, quando i genitori stanno per aspettare un figlio.

Il Progetto Semola dell’Associazione Contatto

Nell’intervento successivo, la dott.ssa Tasselli (Responsabile del Progetto Semola dell’Associazione Contatto onlus), ha appunto illustrato il Progetto Semola attivo già da 5 anni a Milano. La dott.ssa ha inizialmente esposto i principali fattori di rischio e i vissuti emotivi del bambino con un genitore affetto da un disturbo psichico e gli obiettivi principali del loro progetto: riflettere sulla situazione familiare, sostenere gli adulti nella funzione genitoriale, informare i figli, aiutare i genitori a comunicare. L’intervento psicoeducativo rivolto a bambini tra 6 e 16 anni prevede dei colloqui con una psicologa e un’educatrice. Il metodo prevede 2 possibilità: il Let’s Talk che prevede da 1 a 3 incontri con i genitori e il Family Talk che comprende incontri solo col genitore, solo con il bambino e con tutta la famiglia.

Gli interventi attivi nel primo anno di vita del bambino

Dopo la pausa, l’intervento della dott.ssa van Doesum verte sugli effetti della malattia mentale del genitore sul bambino già in gravidanza e nel primo anno di vita. A maggior ragione sono richiesti interventi precoci di tutela del bambino e della relazione madre-bambino. Le mamme depresse tendono ad essere più ansiose, irritabili, comunicano meno con il bambino e quest’ultimo tende a piangere di più, a sorridere di meno, a sviluppare una relazione di attaccamento insicuro e a manifestare un temperamento difficile. Per questo, in Olanda, viene proposto un intervento mamma-bambino fino ai 12 mesi di vita del bambino che prevede visite domiciliari e si basa sul video-feedback, allo scopo di migliorare e aumentare le interazioni tra il genitore e il bambino, fornire supporto pedagogico e il modeling. Tali interventi sembrano essere efficaci nell’aumentare la sensibilità e la responsività del genitore e le competenze socio-emotive del bambino e la possibilità di sviluppare una relazione di attaccamento sicuro.

La legge norvegese sulla comunicazione della malattia mentale del genitore al bambino

L’intervento successivo è quello della dott.ssa Talseth, la quale ribadisce l’importanza di comunicare con i bambini sulla salute mentale dei genitori e ha esposto la legge che vige in Norvegia rispetto al diritto del bambino di conoscere la condizione del proprio genitore, previo consenso della famiglia.

Il Progetto europeo Children and Adolescents of Parents with Mental Disorders (CAPMeM)

Interviene a questo punto il dott. De Girolamo (direttore scientifico IRCCS Fatebenefratelli di Brescia), il quale fornisce ulteriori dati epidemiologici, relativi all’incidenza e all’impatto dei disturbi mentali dei genitori sui loro figli. Viene anche esposto il Progetto Europeo Children and Adolescents of Parents with Mental Disorders (CAPMeM) che vede la collaborazione di ben 34 Paesi europei.

La trappola del fuorigioco

Concludono la giornata, gli interventi di Stefania Buoni (cofondatrice di Mybluebox) e di Carlo Miccio che presentano il romanzo “La trappola del fuorigioco”, scritto dallo stesso Carlo Miccio e che narra di come ha vissuto in prima persona un bambino di 10 anni il rapporto con il proprio padre affetto da disturbo psicotico, mettendo in evidenza i suoi vissuti di confusione e colpa.

Conclusioni

Un Convegno davvero interessante, che offre notevoli spunti di riflessione e che risveglia il bisogno di collaborare in un’ottica di prevenzione e tutela dei bambini con un genitore affetto da disturbi psichici.
Come dice un proverbio africano “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.

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