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Diabulimia: la nuova frontiera dei disturbi dell’alimentazione

La diabulimia al giorno d’oggi non è una condizione medica riconosciuta da parte delle comunità mediche o psichiatriche, ma è un termine che unisce la parola diabete insieme alla parola bulimia ed è utilizzato per descrivere l’omissione volontaria di insulina, in pazienti con diabete di tipo 1, per il controllo del peso corporeo.

Antonietta Mastrandrea, Open School Studi Cognitivi di Bolzano

 

I primi casi sono emersi nel 1983, anche se si è iniziato a parlare di diabulimia nel 2009 quando dei medici britannici per primi hanno lanciato l’allarme, dopo aver notato che un certo numero di pazienti con diabete non assumeva le dosi corrette di insulina. Ad oggi questo problema affligge in America circa il 40% di giovani ragazze con diagnosi di diabete tipo1 e si sta diffondendo molto anche in Italia.

Disturbi alimentari e diabete

Il diabete di tipo 1 è una malattia cronica e autoimmune, in cui le cellule che producono insulina vengono attaccate dal sistema immunitario del corpo, il che porta il pancreas a non produrre più insulina. La diagnosi di diabete arriva di solito durante la pubertà, quando spesso l’attenzione sul peso e sull’immagine corporea sono molto elevati; inoltre per un adolescente, ricevere una diagnosi di malattia cronica risulta ancora più complesso da accettare, trovandosi improvvisamente a dover gestire restrizioni alimentari e il disagio psicologico e sociale dell´avere una malattia cronica a questa età: la paura di ingrassare, la responsabilità di dover gestire i farmaci, le visite cadenzate in ospedale, gli episodi di bullismo, il non poter svolgere una vita quotidiana come tutti gli adolescenti della stessa età. Spesso questa situazione diventa la base per l´insorgenza di disturbi psicopatologici come ansia, dovuta al dover avere a che fare con una nuova immagine corporea di sé e depressione in quanto si sviluppa un´idea di sé negativa e si sperimenta il crollo dell´autostima.

La diagnosi, di solito è accompagnata dalla prescrizione di una dieta controllata e dalla necessità di assumere insulina, che è un ormone che aiuta il corpo ad assimilare bene il glucosio contenuto negli alimenti: quindi ogni volta che il paziente assume del cibo, in particolar modo carboidrati, deve anche iniettarsi insulina e deve tenere sempre sotto controllo il livello degli zuccheri nel sangue, quindi per rimanere in vita, il paziente necessita di insulina. Per i pazienti diabetici, che di solito sono molto magri a causa della patologia, l’assunzione di insulina si traduce con un aumento del peso corporeo.

Già dagli anni ’70 emergono le prime evidenze di un possibile rapporto tra il diabete e i disturbi alimentari (Shaban C., 2013): nello specifico, individui con una diagnosi di diabete tipo 1 sono più a rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione, che è associato al controllo dell’indice glicemico. Molte ricerche hanno evidenziato che circa una percentuale tra l’11% e il 27% di adolescenti con diabete di tipo1 soddisfa anche i criteri per un disturbo dell’alimentazione, partendo dalle abbuffate fino alle privazioni di cibo, al vomito indotto e infine arrivando proprio a bulimia nervosa e binge eating, e circa il 30% di essi gestisce male l’insulina per evitare di prendere peso o per perderlo (Ruth-Sahol L.A., Schneider M., Haagen B., 2009; Shaban C., 2013)

In particolare quando viene diagnosticato il diabete, aumenta la percentuale di rischio di cadere nella trappola della diabulimia in quanto si viene posti a convivere, improvvisamente, con una vita ordinata che si basa sul cibo, sull’esercizio e sui numeri (dalla conta dei carboidrati al dosaggio di insulina,etc.). Infatti, come dimostrano anche le ricerche di Colton et al. Del 2009, nonostante siano state introdotte delle pratiche innovative nella gestione del diabete, come la flessibilità del piano alimentare, rimangono però abitudini fondamentali il conteggio dell´assunzione di carboidrati e la pianificazione di un regime alimentare per regolare l´assunzione dell´insulina.

I meccanismi psicologici della diabulimia

La diabulimia è un disturbo molto pericoloso che porta a una serie di conseguenze fisiche a causa della mancata assunzione di insulina, quali sete costante, mancanza di concentrazione, aumento del colesterolo, problemi di vista, gonfiore degli arti, atrofia muscolare, maggiore rischio di contrarre infezioni batteriche, frequenti ricoveri in ospedale per grave chetoacidosi, malattie del fegato, rischio di ictus. Se non trattata a lungo termine implica un ulteriore sviluppo di complicazioni e morte prematura. Come dimostra lo studio longitudinale di Wilson del 2012, condotto su un campione di 10 donne con diabete di tipo 1 di età compresa fra i 31 e i 48 anni, questa patologia tende a manifestarsi nell’adolescenza, o comunque prima dei 40 anni, soprattutto nelle donne, in soggetti con tratti perfezionistici di personalità, con una storia alimentare fatta da continue diete, con bassa autostima, con un´idea dispregiativa di sé e del proprio corpo e con disfunzioni all’interno della famiglia.

Alla base psicologica del disturbo c’è proprio la difficoltà nel gestire l’idea dell’aumento di peso dovuta all’introduzione della terapia con insulina, in persone che sono sempre state magre. Quindi scatta la percezione che se si evita di somministrarsi la dose giornaliera di insulina, si riesce a controllare meglio il peso corporeo e a evitare di ingrassare: la diabulimia diventa così a tutti gli effetti uno strumento pericolosamente più affascinante rispetto alle “solite tecniche” (vomito, lassativi, esercizio fisico) per mantenere la magrezza e un preciso ideale di bellezza, rinforzato dal fatto che non sembrano verificarsi danni nell´immediatezza.

Tutti questi pensieri si affacciano alla mente delle persone affette da diabulimia, che non riescono a considerare la grave situazione di autolesione nella quale si pongono e a ponderare invece la pericolosità e i gravi rischi (anche letali) nell’attuare tali condotte disfunzionali. Infatti, nello studio di Wilson del 2012, molte donne del campione oggetto di studio, hanno poi sviluppato delle gravi complicazioni croniche del diabete, come danni nel sistema nervoso autonomo, retinopatie, ipertensione e danni al sistema nervoso periferico; tuttavia tutte e 10 le donne riportano di sentirsi in colpa per aver deliberatamente danneggiato il loro futuro, che ora si ritrovano ad avere a che fare con le conseguenze a lungo termine della iperglicemia e che la loro qualità della vita è nettamente diminuita.

Prevenzione e diagnosi della diabulimia

Attualmente la comunità psichiatrica non considera la diabulimia un disturbo specifico così come altri disturbi inseriti nel DSM-5. In ambito ospedaliero di solito viene diagnosticata spesso come bulimia o anoressia, quindi è abbastanza difficile fare un’adeguata diagnosi e prevenzione. La certezza della diagnosi differenziale può venire solo a posteriori, in quanto l´immediatezza della morte nella diabulimia la differenzia da anoressia e bulimia nelle quali la morte si verifica più lentamente.

Per quanto riguarda l’assessment, i questionari e gli strumenti di screening per i disturbi alimentari non sono validati per le persone affette da diabete 1. In realtá uno studio di Shaban C. del 2013, riporta che il “Revised 16-items Diabetes Eating Problem Survey” può costituire un nuovo strumento di indagine che ha dimostrato di avere delle buone caratteristiche psicometriche.

Tuttavia è possibile fare una diagnosi differenziale rispetto ad altri disturbi del comportamento alimentare: si può pensare che un paziente sia affetto da diabulimia se nella perdita di peso si osservano numerosi picchi inspiegabili di HbA1c nell’emoglobina, ma anche frequenti chetoacidosi, i sintomi classici del diabete (sete estrema, fame costante, eccessiva minzione), amenorrea, evitamento delle visite mediche per non far scoprire il proprio comportamento, il rifiuto di far assistere altre persone alle iniezioni di insulina, depressione, ansia e sbalzi di umore.
In molti casi però i pazienti non manifestano apertamente questi sintomi, oppure vengono interpretati come normali sintomi di diabete dalla famiglia e quindi non si ricorre né ai ricoveri nè a uno psicoterapeuta.

La terapia della diabulimia

Per quanto riguarda la terapia della diabulimia, il trattamento consigliato è sicuramente multidisciplinare, con una èquipe che comprende nutrizionista, diabetologo, psichiatra e psicoterapeuta. Per quanto riguarda quest´ultimo, l´orientamento di elezione è quello cognitivo comportamentale, e nello specifico il protocollo ideato da Fairburn e colleghi per il trattamento dei disturbi alimentari. Secondo Fairnburn e colleghi (studio del 1996), il trattamento da loro elaborato porta a una percentuale di successo nel cambiamento a lungo termine del disturbo alimentare pari al 40-50%.

Il protocollo consiste in quattro sessioni orientate al cambiamento comportamentale (ridurre i comportamenti che portano alla riduzione del peso corporeo), valutazione del percorso effettuato e dei comportamenti appresi, sviluppo di metodi alternativi per pensare al proprio corpo e infine mantenimento dei comportamenti e pensieri appresi e prevenzione delle ricadute. Il trattamento di Fairburn è quello d´elezione in quanto è pensato per ogni tipo di disturbo del comportamento alimentare, è applicabile sia in un contesto ambulatoriale che in clinica e infine perché è chiaro e molto strutturato da seguire.

Oltre alle sedute di terapia cognitivo comportamentale, risulta particolarmente utile un supporto basato sul Parental Training che consiste in sedute di psicoeducazione alimentare, alle quali possono partecipare tutti i membri della famiglia, che sono volte ad aiutare i pazienti a riadottare uno stile alimentare sano e a comprendere come l´insulina sia per loro di vitale importanza.

Conclusioni

Avvicinarsi a un paziente che si sospetta soffra di diabulimia appare complesso perché come molti pazienti con disturbi alimentari si osserva una profonda diffidenza, una scarsa motivazione al cambiamento e un atteggiamento altamente difensivo. In più si aggiunge la sintomatologia fisica del diabete da tenere in conto. Compito dell’ equipe di cura sarà mantenere un atteggiamento non giudicante e libero da critica per sviluppare la fiducia del paziente e motivarlo al percorso di cura.

Un algoritmo di apprendimento automatico per predire l’abilità linguistica di bambini non udenti

In un nuovo studio condotto in collaborazione fra l’università cinese di Hong Kong e l’ospedale pediatrico di Robert & di Ann H. Lurie di Chicago, i ricercatori hanno creato un algoritmo di apprendimento automatico che utilizza le scansioni del cervello per predire l’abilità linguistica nei bambini non udenti dopo aver ricevuto un impianto cocleare.

Lucia Marangia

 

L’uso di questo nuovo studio pubblicato negli Atti della National Academy of Sciences ha implicazioni di ampia portata per i bambini con problemi di sviluppo.

La capacità di predire lo sviluppo del linguaggio è importante perché consente a medici ed educatori di intervenire con la terapia per massimizzare l’apprendimento linguistico per il bambino – ha dichiarato l’autore Patrick CM Wong, PhD, neuroscienziato cognitivo, professore e direttore presso l’Università cinese di Hong Kong – Poiché il cervello è alla base di tutte le capacità umane, i metodi che abbiamo applicato ai bambini con perdita dell’udito potrebbero essere ampiamente utilizzati nella previsione della funzione e nel miglioramento della vita dei bambini con un’ampia gamma di disabilità – ha affermato Wong.

In questo studio è stata utilizzata la risonanza magnetica per acquisire questi modelli anormali prima dell’intervento di impianto cocleare e sulla base di questi dati è stato messo a punto un algoritmo di apprendimento automatico per predire lo sviluppo del linguaggio con un grado relativamente elevato di accuratezza, specificità e sensibilità.

Un impianto cocleare è il trattamento più efficace per i bambini nati con perdita dell’udito significativa, nel momento in cui gli apparecchi acustici non sono sufficienti per il bambino a sviluppare l’età dell’ascolto e l’abilità linguistica appropriate. Decenni di ricerche hanno dimostrato che l’impianto cocleare precoce è fondamentale. Sebbene un impianto cocleare consenta a molti bambini affetti da perdita dell’udito di comprendere e sviluppare la parola, alcuni bambini sono in ritardo rispetto ai loro pari normali nonostante abbiano ricevuto un impianto da bambini. Aiutare questi bambini a raggiungere la lingua e l’alfabetizzazione dei bambini udenti è importante e al centro di molte ricerche.

Questo nuovo studio è il primo a fornire ai medici e ai genitori informazioni concrete su quanto sia prevedibile un miglioramento del linguaggio dato lo sviluppo cerebrale del bambino immediatamente prima dell’intervento chirurgico – ha dichiarato l’autrice Nancy M. Young, MD.

Anche se l’attuale algoritmo è stato costruito per i bambini con problemi di udito, è in corso una ricerca per prevedere lo sviluppo del linguaggio in altre popolazioni pediatriche.

Le abitudini: formazione e modifica dei comportamenti

Possiamo definire abitudini quelle risposte comportamentali automatiche ad uno stimolo, sviluppate attraverso la ripetizione del comportamento in contesti coerenti tra loro (Lally e Gardner, 2013).

 

Che cos’è un’abitudine?

Ognuno di noi attua quotidianamente un certo numero di abitudini, il che ci permette di economizzare sulle nostre risorse cognitive, velocizzando notevolmente il processo di elaborazione delle informazioni. Nel momento in cui un comportamento diventa abitudinario, assume maggiore salienza il concetto di automaticità piuttosto che quello di frequenza di emissione, che rimane prioritario nella fase di consolidamento (Gardner, 2012).

In presenza di un’abitudine, le intenzioni del momento hanno poca influenza sull’emissione del comportamento: Gardner (Gardner,de Bruijn e Lally, 2011) sostiene che, laddove la volontà sia in conflitto con un’abitudine, è più probabile che il comportamento proceda in linea con quest’ultima.

Il concetto di abitudine ha assunto notevole importanza nel campo della salute mentale e fisica. È infatti intuibile come la comprensione del funzionamento delle abitudini possa essere d’aiuto nella promozione del benessere individuale, andando a stabilire o consolidare comportamenti funzionali ed interrompendo o modificando comportamenti maladattivi.

In quest’ottica, alla fine degli anni ’90, alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), hanno analizzato i meccanismi neurologici alla base delle abitudini e hanno concettualizzato il Habit hoop, o ciclo dell’abitudine (Mandar, Yasuo, Christopher, Viveka e Ann 1999), che spiega la strutturazione di un’azione abitudinaria. Gli autori hanno identificato tre principali componenti:

– il segnale, una particolare condizione, esterna o interna, che attiva il nostro “pilota automatico”. Per identificare al meglio un segnale, ne sono state identificati cinque importanti aspetti: il luogo in cui ci troviamo, l’ora del giorno, il nostro stato emotivo, le persone con cui siamo, le azioni precedenti appena compiute;

– la routine, il comportamento automatico vero e proprio, che si verifica dopo il segnale. La routine può essere fisica (azioni), mentale (pensieri) o emotiva (risposta emozionale);

-la gratificazione, la reazione biochimica che consegue al comportamento e che lo rinforza. Una gratificazione può essere esterna, ma anche interna: provare piacere o evitare una sensazione sgradevole, sono conseguenze molto rinforzanti, addirittura superiori a quelle estrinseche.

Come si struttura un’abitudine?

Lally et al. (Lally, van Jaarsveld, Potts e Wardle, 2010) hanno dedicato la loro attenzione al processo di formazione dell’abitudine, sottolineandone l’importanza della ripetizione costante del comportamento in contesti specifici per un lungo periodo di tempo, rilevando una tempistica media di 66 giorni. Questo dato assume importanza a livello motivazionale, laddove ci si aspetti di ottenere cambiamenti consistenti in periodi più brevi. Gli autori hanno inoltre rilevato che omettere saltuariamente il comportamento non compromette l’intero processo, considerazione che si inserisce perfettamente nel generale processo di cambiamento e che aiuta a non considerare come fallimento totale l’attuazione imperfetta del piano mentale, evitando così l’interrompersi del processo.

Quando una nuova azione viene eseguita, si crea un’associazione mentale tra la stessa e la situazione circostanziale (antecedente o segnale), per cui la ripetizione rafforza e stabilisce questo collegamento nella memoria (Lally, Wardle e Gardner, 2011), rendendo, di conseguenza, le azioni alternative meno accessibili al ripresentarsi della stessa situazione. Al riproporsi del segnale, quindi, avrà maggiore probabilità di essere emessa la risposta il cui legame è maggiormente forte, fino ad assumere la caratteristica di automaticità. La potenza di questa traccia mnestica spiega come sia così arduo modificare un comportamento abitudinario, anche laddove ci sia intenzionalità nel farlo.

Promuovere nuovi comportamenti e modificare i vecchi

Le conoscenze delle catene abitudinarie possono essere utilizzate sia per promuovere nuovi comportamenti, andando a instaurare nuovi legami, sia per intervenire su vecchi comportamenti, modificandoli agendo sui vari anelli.

La vita quotidiana ci offre numerosi esempi di come molti obiettivi comportamentali, rivolti al benessere personale, possano essere raggiunti esclusivamente tramite azioni ripetute. Ad esempio, l’obiettivo di perdere o mantenere peso corporeo, può essere perseguito solo seguendo indicazioni nutrizionali e di attività fisica in modo sufficientemente continuativo. Il cambiamento di comportamento si riferisce a un processo a lungo termine caratterizzato dall’avvio e dal mantenimento di un nuovo comportamento che promuove la salute e, proprio per questo, spesso non raggiunge un buon fine.

Possiamo infatti pensare che agire solamente in base a un obiettivo a lungo termine non aumenti la motivazione nel perpetuare il comportamento. Qui entra in gioco la terza componente del ciclo abitudinario, la gratificazione. La traccia mnestica diventa maggiormente profonda se al comportamento consegue una gratificazione, che si traduce in un’esperienza positiva.

Definire l’abitudine come una risposta automatica a un segnale, consolidata tramite ripetizione contesto-dipendente, genera importanti considerazioni riguardo la possibilità di avviare cicli abitudinari che promuovano la salute degli individui (Lally et al., 2010). Sono stati identificati alcuni passaggi nella formazione volontaria di un’abitudine. Prima di tutto, l’individuo deve giungere alla decisione di agire, per poi tradurre tale scelta in una o più azioni comportamentali. Tale comportamento deve essere poi ripetuto regolarmente in uno specifico contesto, per promuoverne l’automaticità. (Lally e Gardner, 2013).

Weeb e Sheeran (2006) hanno notato un gap nella transizione dall’intenzione di agire al comportamento vero e proprio. Tra tutti i fattori che possono influenzare la trascrizione decisione-azione, saranno qui analizzati quelli ritenuti maggiormente frequenti.

Prima di tutto il fattore motivazionale. L’individuo deve essere motivato a riprodurre il comportamento per un periodo di tempo, in modo costante, quando se ne presenta l’opportunità. Qui la salienza, la priorità, la forza e la stabilità delle intenzioni giocano un ruolo molto importante (Lally et al., 2010; Lally et al., 2011), così come la conseguenza gratificante immediatamente conseguente l’azione.

Ci possono poi essere abitudini già consolidate che entrano in conflitto con il nuovo comportamento. Solitamente esse sono circoli automatici maggiormente svantaggiosi rispetto a quello nuovo che si vuole stabilire, persino disfunzionali, per cui, una volta riconosciuti nelle diverse componenti, è necessario che essi vengano interrotti, tramite la rottura dell’associazione segnale-comportamento (Verplanken, Walker, David e Jurasek, 2008) o la programmazione di risposte alternative al segnale in questione (Adriaanse, Oettingen, Gollwitzer, Hennes, de Ridder e de Wit, 2010). Per interrompere un’abitudine è possibile, quindi, agire sul segnale, controllando il contesto in modo da evitare la situazione target, agire sulla risposta, emettendo comportamenti alternativi a quello problema, o agire sulla gratificazione, eliminando il rinforzo positivo conseguente o inserendo una punizione negativa (sottraendo cioè un elemento piacevole).

Un altro aspetto che può causare il gap comportamentale è una difficoltà propria del processo di operazionalizzazione dell’intenzione, riguardante cioè la capacità di produrre piani di azione. In generale, possiamo considerare i piani di azione come la pianificazione di un determinato comportamento da emettere in uno specifico contesto (Sniehotta, 2009). Nel caso delle abitudini, per sopperire questa lacuna, è possibile programmare piani altamente dettagliati, che specifichino i collegamenti tra segnali situazionali prevedibili e risposte direttamente collegate all’obiettivo, con la forma “se c’è la situazione Y, avvierò il comportamento Z, al fine di raggiungere l’obiettivo X”. Recenti studi hanno dimostrato l’efficacia di tali piani di implementazione nell’aumentare la frequenza di esecuzione di un nuovo comportamento e la forza dell’abitudine nel tempo (Orbell & Verplanken, 2010). La pianificazione può inoltre prevedere i possibili ostacoli alla prestazione, massimizzando così le probabilità dell’emissione del comportamento.

Conclusioni

Lungi dall’esaurire l’argomento, l’articolo ha voluto illustrare il funzionamento generale di un meccanismo abitudinario. È possibile trarre spunto da queste informazioni per aumentare la consapevolezza sui propri comportamenti e per domandarsi se vi sia qualcosa che si vuole modificare, sostituendo un comportamento non adeguato o iniziandone uno funzionale al nostro benessere.

Ogni tipo di cambiamento comporta una dose di ansia, intrinseca alla rottura momentanea dell’equilibrio esistente. Spesso si tende a procrastinare proprio per paura di abbandonare le rassicuranti situazioni che conosciamo, comprendenti contesti prevedibili e azioni abitudinarie. Questo anche perché per cambiamento ci si prospetta enormi modificazioni di vita, ribaltamenti di ingente entità. Un cambiamento, invece, parte proprio da piccoli passi, dalla modifica di micro-sequenze nel più vasto panorama personale. È possibile provare partendo dall’azione più semplice possibile, per iniziare ad avere l’esperienza di potercela fare e di poter stare in un momento di incertezza.

Psychogame. Fare Psicoterapia con il gioco dell’intervisione (2018) di Roberto Lorenzini – Recensione a cura di Antonio Scarinci

Il libro Psychogame. Fare Psicoterapia con il gioco dell’intervisione mette in risalto l’importanza del  ragionamento clinico nel lavoro terapeutico e si offre come strumento pratico per svolgere l’intervisione in modo innovativo.

 

Nella prima parte del libro Lorenzini riporta la sua visione della terapia cognitiva centrata sul ragionamento clinico e sulle peculiarità del paziente irriducibili sia alla diagnosi categoriale sia ai semplici protocolli clinici standardizzati.

Psychogame. Fare Psicoterapia con il gioco dell’intervisione – Tra scopi ed emozioni

La prospettiva é quella della teoria scopistica. Il sistema cognitivo è composto da motivazioni e da credenze che guidano l’agente razionale al perseguimento di scopi, primi fra tutti, secondo l’autore, riproduzione e sopravvivenza, e da emozioni che segnalano il raggiungimento o meno delle mete. Se il sistema funziona, quando le strategie sono invalidate vengono modificate e rese più efficaci. In questo modo si ha un continuo accrescimento della conoscenza che rende l’individuo maggiormente capace di adattarsi ai contesti ambientali che mutano. Quando uno scopo non può essere raggiunto e questa condizione viene segnalata dalle emozioni, lo scopo è abbandonato, ma se ciò non fosse allora il perseguire ostinatamente comporta l’entrare in una condizione psicopatologica: non si abbandonano le strategie inefficaci e neanche gli scopi e si creano circoli viziosi di mantenimento del disagio e della sofferenza. Non si cambia perché non si conoscono altre strategie o perché sono minacciati scopi sovraordinati.

La clinica sarà quindi basata sulla capacità di riattivare il cambiamento, ossia ristrutturare il sistema cognitivo. Il paziente dovrà prendere consapevolezza del funzionamento che ha generato sofferenza, distanziarsene criticamente e costruire alternative più adattive. Un presupposto di base dell’attuazione di questa strategia è la costruzione, lo sviluppo e il mantenimento dell’ alleanza terapeutica attraverso la quale il paziente sperimenta esperienze correttive cognitive, emotive e relazionali. L’obiettivo è quello di aumentare i suoi gradi di libertà affinché possa costruire piani di vita più funzionali.

Il mito dei protocolli

Una riflessione critica in chiusura di questa parte del libro Psychogame Lorenzini la rivolge al “mito moderno dei protocolli” sintetizzata da una bella metafora:

Sembra che i singoli protocolli siano dei manuali per guidare da un certo luogo di partenza fino ad una certa meta mentre il ragionamento clinico sia imparare a guidare in modo da poter andare da qualsiasi punto di partenza a qualsiasi meta.

A fronte di queste considerazioni critiche l’autore di Psychogame. Fare Psicoterapia con il gioco dell’intervisione prospetta una modalità, la terapia modulare, che scompone l’intervento generale in una serie di moduli ciascuno corrispondente ad un tema problematico del paziente o a un obiettivo terapeutico. Ogni modulo è immaginabile come una miniterapia all’interno della terapia generale centrato su un singolo aspetto problematico che unisce rigore tecnico e un intervento commisurato alla specificità di quel particolare paziente. La prima parte si chiude con un’esemplificazione clinica e con alcune appendici che introducono al tema della supervisione e/o dell’intervisione come possibilità che un osservatore esterno costruisca una prospettiva diversa, “relativizzando gli schemi percettivi costruttivi del soggetto che sono congruenti con i suoi scopi.

Psychogame – Il gioco per allenare il ragionamento clinico

La seconda parte del libro Psychogame propone un gioco che ha l’obiettivo di allenare al ragionamento clinico attraverso gruppi di intervisione. Tra i sistemi motivazionali interpersonali quello del gioco ha una funzione importante, perché il “come se” favorisce la capacità di mettersi nella prospettiva dell’altro. Sperimentare il ruolo di paziente e alternativamente di terapeuta è altamente formativo per i trainee dei gruppi di specializzazione delle scuole di formazione in psicoterapia. Occorre riflettere sul funzionamento, mettendosi nei panni dell’uno e dell’altro, cercando di prevedere comportamenti, emozioni, pensieri. L’esercizio migliora la riflessività generale, e la conoscenza procedurale e sollecita anche approfondimenti di conoscenze teoriche, abilità queste indispensabili ad ogni buon terapeuta.

Il gioco parte con la messa a punto del “personaggio paziente” (il disturbo, la storia personale, l’anamnesi, ecc) che la squadra paziente (Pz) presenta alla squadra terapeuta (Te). La Te elabora la scheda della diagnosi operativa (formulazione del caso) e il progetto di terapia modulare compilando delle schede specifiche costruite secondo il razionale esposto nella prima parte del volume.

Il passo successivo prevede la restituzione e la definizione del contratto, per poi passare alla fase del cambiamento con la proposizione di tecniche e la simulazione di esse.

Nel quinto game valutazioni reciproche delle due squadre portano la riflessione su ciò che di positivo si è fatto e su ciò che si poteva fare di meglio.

Psychogame focalizza sia l’attenzione sugli aspetti tecnici, sia sugli aspetti personali dei vissuti del terapeuta. E’ illustrato, infatti, anche un ulteriore approfondimento, sempre in forma di gioco, degli aspetti più personali della supervisione.

L’ultima parte di Psychogame. Fare Psicoterapia con il gioco dell’intervisione presenta delle esemplificazioni di casi che possono essere utilizzate per giocare.

Ho imparato molto da Roberto Lorenzini, vantando una conoscenza di lunga data che si è trasformata molto presto in una profonda amicizia, e questo suo lavoro di cui abbiamo parlato durante i viaggi per raggiungere la scuola di specializzazione a Sanbenedetto del Tronto, dimostra in modo brillante quanto l’intuizione e la creatività siano caratteristiche fondamentali di un ottimo psicoterapeuta e quanto sia essenziale il ragionamento clinico nel lavoro terapeutico che non può essere costretto – senza nulla togliere all’importanza dei protocolli – in un letto di Procuste fatto di schemi e procedure prestabilite.

 

Psychogame – La parola all’autore Roberto Lorenzini:

Cari amici e colleghi, voglio presentarvi questo breve libretto sperando possa esservi utile. Si tratta di una guida per la formulazione del caso che al di là delle diagnosi categoriali e dei protocolli standardizzati sia fatta su misura per il singolo paziente. Si propone anche un gioco da utilizzare in contesti formativi dal vivo e on line in cui ci si divide in due squadre, una che assume il ruolo di paziente e l’altra di terapeuta e si procede con continui scambi in cui alle proposte di intervento del terapeuta seguono le reazioni del paziente che a sua volta determineranno le successive mosse del terapeuta esattamente come in una situazione reale. Anche all’eventuale pubblico è riservato un ruolo  con l’introduzione di life events imprevisti. Nato con l’idea di farne un gioco da tavolo è stato poi sperimentato in classe per la supervisione e ben si presta per l’intervisione anche in gruppi on line.

Sono debitore per la realizzazione a Antonio Scarinci, Carlo Buonanno e Giuseppe Romano e soprattutto per la messa a punto e la realizzazione pratica alla pazienza, concretezza e precisione di Cecilia Lombardo.

 

Psychogame – Il libro:

Imparare a cooperare? Le macchine potrebbero insegnarlo

Ad oggi è possibile che i computer possano effettuare una partita di scacchi e riuscire a raggiungere gli stessi risultati delle controparti umane. Ma al di là della competizione e dell’uso delle strategie migliori per un gioco, è possibile insegnare loro a cooperare e scendere a compromessi?

 

Anche i computer possono cooperare e scendere a compromessi

Jacob Crandall e Michael Goodrich, professori di scienze informatiche del BYU, insieme ai colleghi del MIT e di altre università internazionali, hanno implementato un algoritmo attraverso il quale il compromesso e la cooperazione tra le macchine sembrano non solo possibili, ma a volte persino più efficaci di quelli umani.

L’obiettivo principale è quello di comprendere la matematica sottostante alla cooperazione tra le persone e che potrebbe permettere all’intelligenza artificiale di sviluppare abilità sociali” dice Crandall, il cui studio è stato recentemente pubblicato su Nature Communications. “L’IA deve essere in grado di rispondere a noi e articolare ciò che sta facendo, deve essere in grado di interagire con altre persone“.

Per lo studio, i ricercatori hanno programmato macchine con un algoritmo chiamato S# e lo hanno applicato a una varietà di giochi a due giocatori per vedere come avrebbero cooperato in determinate relazioni. Il team ha testato le interazioni macchina-macchina, uomo-macchina e uomo-uomo. Nella maggior parte dei casi, le macchine programmate con S # hanno superato le performance degli umani nel trovare dei compromessi a vantaggio di entrambe le parti.

Se due umani fossero stati onesti l’uno con l’altro e leali, altrettanto bene avrebbero fatto due macchine, imparando così che le caratteristiche morali sono buone, programmate per non mentire e mantenere la cooperazione una volta che emerge“, ha detto Crandall.

I ricercatori hanno provato a rafforzare ulteriormente la capacità delle macchine di cooperare programmandole già con una serie di frasi “a basso costo”: nei test, se i partecipanti umani avevano collaborato con la macchina, questa avrebbe potuto rispondere con un “stiamo diventando ricchi!” oppure “Accetto la tua ultima proposta“. Se i partecipanti, invece, avevano tentato di tradire la macchina o di ritirarsi da un accordo con loro, avrebbero potuto emettere una frase tipo “Maledizione!

Indipendentemente dal gioco o dall’associazione, la capacità di interazione attraverso delle semplici frasi ha raddoppiato la quantità di cooperazione e, quando le macchine emettevano delle frasi, le loro controparti umane erano spesso incapaci di dire se stavano giocando con un altro essere umano o una macchina. I risultati della ricerca, Crandall spera, potrebbero avere implicazioni a lungo termine per le relazioni umane. “Nella società, le relazioni si interrompono continuamente“, ha detto. “Le persone che hanno un legame di amicizia per anni all’improvviso diventano nemiche e, come dimostra questo studio le macchine appaiono in grado di raggiungere questi compromessi in maniera migliore rispetto a noi, di conseguenza potrebbero insegnarci a farlo meglio“.

Donald Winnicott: dalla madre sufficientemente buona all’ evoluzione del Sé

Già nei primi anni del suo lavoro come pediatra, emerse la grande attenzione di Donald Winnicott per la componente psicologica, considerata un fattore primario nella patogenesi di molti disturbi. Ciò lo portò ad arricchire ulteriormente le proprie conoscenze, studiando psicoanalisi.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Donald Winnicott nacque il 7 aprile del 1896 a Plymouth, nel Devon, da un’agiata famiglia protestante. Terzo di tre figli, le due sorelle maggiori, di cinque e sei anni, lo accudirono e lo riempirono di attenzioni.

La madre era una donna affettuosa e tollerante, ma depressa, come emerge da una poesia dello stesso Winnicott, che spesso si ritrovò, fin dalla più tenere infanzia, a dover divertire e sostenere la madre.

Il padre era un commerciante, sempre molto impegnato politicamente. Infatti fu sindaco, giudice di pace e, in seguito, nominato cavaliere. Da un lato la devozione civica paterna servì da modello per Donald Winnicot, ma la presenza- assenza del padre fu un comportamento ambivalente che generò diversi vissuti emotivi.

A 12 anni iniziò a frequentare cattive compagnie, motivo per cui il padre, rimproverando la madre per non aver controllato il figlio, lo mandò in un collegio.

Donald Winnicott: la formazione

Donald Winnicott, nel 1910, all’età di 14 anni, entrò alla Leys School di Cambridge, scuola metodista inglese, distante da Plymouth più di trecento chilometri. I quattro anni passati in questo collegio furono molto positivi, sia dal punto di vista intellettuale che sociale. Conobbe molti amici, giocò nella squadra di rugby del collegio, si dedicò a svariate attività di studio e agonistiche.

Questa esperienza in collegio lo fece crescere e maturare e fu proprio qui che incontrò la vita culturale che aveva solo potuto sfiorare durante l’infanzia osservando il padre.

In Winnicott adolescente crebbe sempre più il desiderio di diventare medico proprio quando, a causa di una frattura alla clavicola durante una partita di rugby, dovette assentarsi dall’attività sportiva per essere ricoverato nel sanatorio del collegio. Così, decise che non avrebbe più voluto dipendere da nessun medico e, dopo aver comunicato le proprie intenzioni al padre, grazie all’aiuto di un amico di famiglia che mediò per convincere il padre ad accettare la decisione del figlio, nel 1914 venne ammesso nel Jesus College di Cambridge, come studente del corso preparatorio di medicina.

All’università conseguì un bachelors of arts di terza classe e in seguito conseguì un Master of Arts. Gli anni trascorsi come studente di medicina furono interrotti dalla guerra, durante la quale Donald Winnicott lavorò nei college trasformati in ospedali militari. Essendo studente di medicina fu esonerato dall’esercito e la perdita di molti cari amici caduti in guerra divenne uno dei rimpianti della sua vita.

Nel 1917 Donald Winnicott riuscì ad arruolarsi nella Royal Navy e fu accettato come tirocinante a bordo di un cacciatorpediniere, nonostante non avesse mai seguito nessun training medico. Nel 1918, a guerra finita, Winnicott si recò al Saint Bartholomew Hospital di Londra per completare la propria formazione medica e nel 1920 si specializzò in medicina infantile, oggi chiamata pediatria. Già nei primi anni del suo lavoro come pediatra, emerse la grande attenzione di Winnicott per la componente psicologica, considerata un fattore primario nella patogenesi di molti disturbi. Ciò lo portò ad arricchire ulteriormente le proprie conoscenze, studiando psicoanalisi.

A 23 anni Donald ricevette in regalo il libro di FreudL’interpretazione dei sogni”, che lo colpì profondamente. Iniziò così a studiare tutta l’opera di Freud, rendendosi conto di quanto fosse importante rendere accessibile alla coscienza ciò che è rimosso.

I matrimoni e l’analisi personale

Il 7 luglio del 1923 si sposò con Alice Buxton Tylor, nata a Birmingham da una famiglia metodista profondamente religiosa. Uno dei fratelli di Alice, Jim, divenne medico e buon amico di Donald Winnicott.

Nello stesso anno Winnicott acquistò uno studio nella zona di Harley Street e cominciò la professione privata.

Il matrimonio con la giovane Alice fu caratterizzato da una completa assenza di relazioni sessuali e, Winnicott, vedendosi come un ragazzo inibito in questa relazione, decise di intraprendere un’analisi personale.

Donald Winnicot divenne paziente di James Strachey, nove anni più vecchio di lui, con cui svolse il lavoro di analisi e di supervisione, che proseguì fino al 1933. Strachey fu uno dei membri del Bloomsbury, e fu analizzato e supervisionato da Freud per quattro anni, che lo considerò idoneo a diventare psicoanalista. Winnicott ad un certo punto si rese conto che il percorso individuale di Strachey era insufficiente e considerò di iniziare una seconda analisi con James Gloves.

Verso la fine degli anni ‘30, Winnicott lavorò al Paddington Green Hospital, dove studiò psicoanalisi infantile sotto la supervisione di Melanie Klein. Tra il 1935 e il 1939 lo stesso Winnicott analizzò il figlio della Klein, Eric. Proprio per questo motivo, egli rifiutò l’analisi con Melanie Klein, che gli consigliò di recarsi da Joan Riviér, una delle maggiori sostenitrici delle teorie kleiniane e uno dei membri fondatori della British Psychoanalytical Society, di cui Donald Winnicott entrò a far parte nel 1935.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Winnicott fu assunto come consulente nell’Oxfordshire, dove erano nati degli istituti per bambini evacuati dalla città. Fu qui che conobbe la seconda moglie, Clare Britton, un’assistente sociale che incontrava durante le riunioni dello staff. I due discutevano moltissimo di lavoro, sia durante gli incontri, sia attraverso le lettere, finché decisero di scrivere un articolo a quattro mani. A questo punto la loro relazione si trasformò in una vera e propria storia d’amore, nonostante Donald Winnicott fosse ancora sposato e vivesse con Alice. Questa nuova relazione, però, sfociò in un nuovo matrimonio nel 1951.

Winnicott visse nella sua casa di Hampstead fino al 1949, per poi trasferirsi a Londra, dove morì, dopo una serie di attacchi di cuore, nel 1971.

Winnicott e la sua teoria

Grazie alla sua attività lavorativa Donald Winnicott ha l’opportunità di riflettere a fondo sullo sviluppo nei primi mesi di vita del bambino e del rapporto speciale che lo lega alla madre. Il bambino affronta un percorso caratterizzato da un progressivo incontro con la realtà in modo autonomo e indipendente. Questo percorso è graduale e il compito della madre non è quello di allontanarsi, ma di offrire gli strumenti necessari per supportare questa naturale progressione all’autonomia.

Alla nascita il bambino non esiste come individuo, bensì è membro di una coppia ed è fuso con la realtà esterna perché inconsapevole dei confini che separano il dentro e il fuori. Per il corretto sviluppo il bambino non ha bisogno di una madre perfetta, bensì di una madre buona che si adatti ai bisogni del neonato e ne supporta il senso di onnipotenza. Malgrado il bambino possieda un potenziale innato per svilupparsi, senza una madre sufficientemente buona, che si prodighi nella cura del figlio, non sarà in grado di divenire una persona indipendente.

Nel corso del tempo comincia a cessare questa fusione per permettere al bambino di comprendere che esiste un mondo esterno. Durante questo passaggio ci si avvale spesso di quello che Donald Winnicott definisce oggetto transizionale, cioè quegli oggetti che accompagnano il bambino nel distacco dalla madre e offrendo un’alternativa intermedia tra la madre e la totale assenza di lei. Tipicamente si tratta di un gioco o di una coperta che il bambino porta con sé.

L’oggetto transizionale si inserisce nello spazio potenziale tra madre e bambino. Tale oggetto dà inizio a un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono la realtà interna e la vita esterna del bambino. È un’area che non è messa in dubbio, poiché nessuno la rivendica se non per il fatto che esisterà come un posto di riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna.

L’uso che il bambino fa del suo oggetto transizionale, rappresenta infatti, per Winnicott, il primo uso di un simbolo e la sua prima esperienza di gioco. Il gioco, dunque, risiede in questa stessa area transizionale, che è in contrasto sia con l’interno che con l’esterno, nella quale soggettivo e oggettivo sono indistinti, che nasce dal rapporto di fiducia del bambino nei confronti della madre e che dà origine alla idea del magico. In questa area di gioco il bambino raccoglie oggetti o fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale.

Il gioco, dunque, è per Winnicott sempre un’esperienza creativa e la capacità di giocare consente al soggetto di esprimere l’intero potenziale della propria personalità, grazie alla sospensione del giudizio di verità sul mondo. In questo modo, attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, e solo qui, in questa terza area neutra e intermedia tra il soggettivo e l’oggettivo, può comparire l’atto creativo, che permette al soggetto di trovare se stesso, di essere a contatto con il nucleo del proprio Sé. Il gioco assorto dei bambini si colloca in uno spazio potenziale fra il Sé individuale e l’ambiente e porta alla maturità nel partecipare e contribuire alla cultura del proprio mondo. Le principali caratteristiche del gioco sono:

  • assorta partecipazione in uno stato di quasi isolamento;
  • il bambino manipola fenomeni esterni al servizio del gioco;
  • il gioco implica fiducia nell’ambiente e la capacità di stare solo;
  • il gioco coinvolge il corpo (a causa della manipolazione degli oggetti);
  • il gioco è soddisfacente.

E’ solo nel gioco che i bambini riescono ad essere creativi, usando la loro personalità e scoprendo se stessi, con l’obiettivo di formarsi come persona intera, diversa dagli altri con cui è in relazione.

Il bambino e l’adulto, che vivono creativamente, giocano entrambi, riempiendo con i prodotti della propria immaginazione e con l’uso dei simboli, lo spazio tra sé e l’ambiente (in origine l’oggetto); il gioco del bambino e la vita culturale dell’adulto nascono nella stessa area e allo sviluppo di quest’ultima è legato il loro stesso destino o, meglio, la loro qualità.

La creatività è costituita dalla modalità che ha l’individuo di incontrarsi con la realtà esterna. Essa è universale, appartiene al fatto di essere vivi e si può considerare come una cosa in sé. La creatività non può essere mai del tutto annullata, anche nei casi più estremi di false personalità, tuttavia può restare nascosta e questo viene a determinare la differenza tra il vivere creativamente e il semplice vivere.

La teoria dello sviluppo emotivo e il sé

Donald Winnicot con l’espressione comune “madre devota” si riferisce alla condizione psicologica della madre, nelle settimane precedenti e successive alla nascita del bambino. Nella madre si sviluppa, dunque, una particolare sensibilità che le consente di fare la cosa giusta al momento giusto. In questa fase la madre si chiude nella relazione con il suo bambino. In un altro momento della vita questa potrebbe essere considerata come una condizione patologica, ma per la neo-mamma si tratta di una situazione del tutto normale, da cui ne uscirà solo quando il bambino le darà il via libera.

Secondo Winnicot la crescita è una forza motrice e motivante dell’uomo, fin dall’inizio della vita. Tale forza è un potenziale di crescita che porta allo sviluppo psicologico, attraverso svariate acquisizioni corporee e psichiche. La definizione di ciò che siamo è per Winnicott un progresso, determinato biologicamente e anteriore alla nascita, che implica l’evoluzione della persona, della psiche-soma, della personalità, della mente, della socializzazione e dell’adattamento ambientale.

Specificamente la teoria dello sviluppo emotivo si occupa dell’evoluzione del Sé, inteso come identità personale. Inizialmente, nel bambino, c’è un “Sé centrale primario”, che è il potenziale innato che sperimenta la continuità dell’essere, acquisisce una realtà psichica personale e uno schema corporeo e che diverrà poi “nucleo del Sé” (detto anche “vero Sé potenziale”). Successivamente, grazie all’esperienza, allo sviluppo neurologico, all’elaborazione mentale e all’ambiente favorevole, emerge il mondo interno del bambino. Quando l’individuo raggiungerà la maturità la sua personalità si strutturerà in questo modo:

  • Al centro porrà il sé centrale
  • Alla base, l’IO, difensore del Sé e organizzatore delle strutture psichiche.

Una delle principali funzioni dell’Io è l’elaborazione mentale di eventi sensoriali e motori, che diviene successivamente la realtà psichica personale e definisce la persona nella sua interezza e unità. Il processo per cui una persona si sente intera è l’integrazione dell’Io, resa possibile dall’esperienza della continuità e dall’idea che nulla di ciò che è accaduto andrà mai perso (anche se spesso sarà inaccessibile alla coscienza). Il bambino si trova, all’inizio della sua vita, in uno stato privo di integrazione, quindi, per raggiungere la sua integrazione, saranno necessarie le cure di una madre sufficientemente buona. Anche quando avrà raggiunto questo stato, tuttavia, nel sonno il bambino tornerà alla non integrazione e ciò costituisce la premessa per la capacità dell’adulto di sentirsi calmo, rilassato e capace di stare solo, godendo della solitudine (inizialmente data dall’assenza della madre).

Quando c’è una precoce carenza ambientale, soprattutto nella fase della dipendenza assoluta, il bambino sviluppa un falso Sé, adattivo e compiacente. Tutto questo, dipende principalmente dall’incapacità della madre di cogliere e rispondere ai bisogni del bambino, che inizierà ad accumulare un insieme falso di relazioni e crescerà ad immagine e somiglianza di chi domina la scena non permettendo al suo vero Sé di emergere e di formare una persona vera e intera.

L’holding e l’handling

Una delle più importanti funzioni di una madre buona è quella di favorire il processo di integrazione dell’Io del bambino, attraverso la sua identificazione con esso (relazione egoica) e il suo contenimento (holding). L’ holding, che sostiene l’Io debole e immaturo del bambino, implica due processi:

  • Proteggere il bambino da eventi traumatici;
  • Prendersi cura del bambino rispondendo ai suoi bisogni

Tali processi permettono inoltre di acquisire un senso di fiducia nella madre e nell’ambiente più in generale. Il bisogno di contenimento non è solo legato al periodo di assoluta dipendenza dalla madre, ma ritorna nella vita di ognuno, ogniqualvolta si presentano situazioni particolarmente minacciose o stressanti.

Una madre sufficientemente buona ha anche un’altra specifica funzione: la manipolazione (handling), che si riferisce alla modalità di maneggiare il figlio. La madre è capace di tenere il bambino naturalmente in modo che tutte le parti del corpo siano raccolte per formare, nella continuità, uno schema corporeo personale.

La dipendenza, inoltre, è un concetto centrale nella teoria di Donald Winnicott. Egli sostiene che si articoli in tre stadi

  1. Dipendenza assoluta, il bambino sa solo trarre vantaggio o essere danneggiato dalle cure materne, non ha alcun controllo su di esse.
  2. Dipendenza relativa, il bambino si rende sempre più conto del bisogno di specifiche cure materne e le collega ad un impulso personale.
  3. Indipendenza, il bambino sviluppa dei propri modi per fare a meno delle cure concrete, attraverso i ricordi delle cure materne. L’indipendenza non è mai assoluta, in quanto l’individuo sano non si isola dall’ambiente, ma interagisce con esso in modo interdipendente.

Per arrivare all’interdipendenza, ogni individuo deve raggiungere tre obiettivi, ovvero l’integrazione delle diverse parti di sé, la personalizzazione, attraverso cui il bambino esperisce il corpo come parte di sé e a sentire il Sé sito nel corpo e la relazione d’oggetto, che permette di distinguere il sé dal non-Sè, la realtà interna dalla realtà esterna.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La cura della dissociazione traumatica – Report dal Workshop di Milano

Nel corso delle tre giornate, le due esperte in trauma e dissociazione hanno trasmesso aspetti teorici e pratici relativi alla diagnosi, alla formulazione del caso e del piano di trattamento e alle tecniche terapeutiche per le persone che soffrono di dissociazione strutturale della personalità

 

La cura della dissociazione traumatica, il workshop di Milano

Nel corso del 2017, AreaTrauma ha organizzato un ciclo di seminari di formazione pratica avanzata in collaborazione con il Centro Clinico Crocetta. Il corso, formulato come un master annuale, aveva come filo conduttore il trattamento della dissociazione traumatica. Proseguendo lungo questo filone, Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini hanno proposto altre tre giornate formative di altissimo livello in psicotraumatologia nelle date del 19, 20, 21 gennaio 2018 a Milano. I relatori delle tre giornate sono stati Kathy Steele, Suzette Boon e Onno Van Der Hart.

Kathy Steele, insieme a Onno Van Der Hart e Ellert R. S. Nijenhuis, ha pubblicato nel 2006 Fantasmi del Sè, elaborando la teoria della dissociazione strutturale della personalità. Suzette Boon svolge un fondamentale lavoro di ricerca, diagnosi e trattamento dei disturbi dissociativi.

Le due esperte in trauma e dissociazione si sono alternate nel corso delle tre giornate trasmettendo aspetti teorici e pratici relativi alla diagnosi, alla formulazione del caso e del piano di trattamento e alle tecniche terapeutiche per le persone che soffrono di dissociazione strutturale della personalità. Entrambe hanno arricchito i contenuti proposti con esempi tratti dalla loro esperienza clinica, corredati da preziose videoregistrazioni di sedute. Inoltre le due relatrici si sono prestate allo svolgimento di role playing nei quali hanno interpretato se stesse e pazienti, propri oppure dei terapeuti uditori, per mostrare in modo pratico le tecniche di trattamento.

Role playing - Suzette Boon & Kathy Stele - La cura della dissociazione traumatica – Milano 2018

Onno Van Der Hart, esperto in psicopatologia della traumatizzazione cronica, è intervenuto mediante una videochiamata via Skype nella seconda giornata di lavoro; ha spiegato una fase successiva e delicatissima del trattamento della dissociazione traumatica: la rielaborazione guidata dei ricordi del trauma. Anche il suo intervento è stato punteggiato e rafforzato dalla descrizione di situazioni cliniche incontrate nel corso della sua pluridecennale esperienza.

La teoria della dissociazione strutturale

Suzette Boon ha aperto la prima giornata formativa con un’introduzione teorica sul concetto di dissociazione, sul trauma di tipo 1 e 2 e sulla teoria della dissociazione strutturale. Ha sottolineato come la difficoltà di effettuare una diagnosi accurata dei disturbi dissociativi dipende da diversi fattori, in primis la presenza di due diversi concetti teorici di dissociazione:

  1. la dissociazione intesa come un sintomo collocabile su un continuum che va da un fenomeno normale a uno patologico (Putnam, 1986);
  2. la dissociazione come sintomo patologico che sottende una divisione del Sé.

Nella seconda concezione, il sintomo non si colloca su un continuum, ma segnala una differenza qualitativa e indica la suddivisione strutturale della personalità in parti.

La teoria della dissociazione strutturale ipotizza tre livelli di divisione della personalità:

  • livello primario: in esso si riscontrano la presenza di una ANP (Apparently Normal Part) e di una EP (Emotional Part). L’ANP è la Parte Apparentemente Normale, centrata sulla vita quotidiana e sull’evitamento del trauma; l’EP è  la Parte Emotiva, bloccata nel tempo del trauma e in meccanismi di difesa dal dolore anche primitivi. Questo primo livello si ritrova nel PTSD semplice, nell’amnesia dissociativa, nei disturbi somatoformi.
  • Livello secondario: in esso si trovano una ANP e più EP impegnate in meccanismi di difesa diversi con la funzione di permettere la sopravvivenza psichica.
  • Livello terziario: in esso si riscontrano diverse ANP e più EP, che configurano il classico DID, Disturbo Dissociativo dell’Identità.

L’assessment del paziente con dissociazione strutturale.

Suzette Boon ha specificato gli “indizi” che fanno ipotizzare un disturbo dissociativo e che rendono necessario un approfondimento diagnostico. Successivamente, ha elencato gli elementi necessari alla formulazione del caso e alla diagnosi psichiatrica e psicodinamica.

Nell’assessment del paziente con dissociazione strutturale, la diagnosi dell’organizzazione intrapsichica della personalità riveste una particolare importanza; essa implica l’individuazione del livello di dissociazione strutturale e della presenza di sintomi positivi e negativi psicoformi e somatoformi. Vanno approfonditi anche i fattori prognostici, le reazioni a terapie precedenti e l’eventuale comorbidità con altri disturbi. Un assessment qualitativo esplora anche la motivazioni psicologiche per le quali le ANP e le EP sono mantenute separate e/o in conflitto, il loro livello di funzionamento e interazione, nonchè la consapevolezza che ne ha il paziente, e la volontà di accettarle gradualmente.

Quelli elencati da Suzette Boon sono tutti elementi che servono alla pianificazione del trattamento; esso sarà tanto più efficace, quanto più saranno chiare le ragioni psichiche che mantengono la dissociazione strutturale.

Role playing

La seconda metà della prima giornata di formazione è stata dedicata al lavoro clinico. Kathy Steele ha interpretato se stessa e Natalia Sejio una sua paziente in una sessione di role playing. La rappresentazione ha mostrato alcune delle strategie terapeutiche attraverso cui Kathy Steele mette in contatto e in comunicazione le parti dissociate. Ha dato voce e ascolto alle parti distruttive, riconoscendone la funzione protettiva, con modalità che non siano spaventose per la paziente e non provochino una disregolazione emotiva intollerabile.

Successivamente, Suzette Boon ha mostrato alla platea alcune sedute videoregistrate di un suo caso clinico che è stato oggetto di lavoro trasversale alle prime due giornate. Le sedute iniziali con questa paziente, che presentava un’estrema forma di mancanza di consapevolezza (non-realizzazione) del suo disturbo, sono state usate per applicare le modalità di assessment apprese durante la mattinata.

La prima fase del trattamento terapeutico: la stabilizzazione del paziente

Suzette Boon ha rimarcato che la psicoterapia si apre con la definizione di una solida cornice terapeutica e della struttura del trattamento. Cio che è valido per l’impostazione di qualsiasi terapia, ha una valore maggiore con i pazienti traumatizzati, nella cui storia di vita è usuale l’esperienza di violazione dei confini personali.

Suzette Boon 2 - La cura della dissociazione traumatica – Milano 2018

Successivamente, il primo obiettivo deve essere la stabilizzazione del paziente. Se è presente, il primo target di questo lavoro è il contenimento dell’autolesionismo. Purtroppo è un fenomeno frequente nei casi di dissociazione strutturale; le parti che usano l’autolesionismo come modalità di regolazione degli affetti sono quelle con il massimo grado di non-realizzazione del disturbo.

Un altro obiettivo prioritario di lavoro sono i conflitti interni al paziente relativi alla terapia e all’attaccamento al terapeuta (comportamenti di avvicinamento e di difesa, manifestazioni di dipendenza e di pseudo-indipendenza narcisistica). Inoltre, il terapeuta deve sempre affrontare gli intensi sentimenti di paura e vergogna, emozioni tipiche del trauma, e le credenze che sottostanno a queste emozioni.

Al termine della seconda giornata formativa, Kathy Steele ha approfondito ulteriormente il lavoro terapeutico della stabilizzazione, soffermandosi su cosa si stabilizza e con quali modalità. La stabilizzazione riguarda le funzioni psicofisiche di base, come il ritmo sonno-veglia e l’alimentazione, così come comportamenti disfunzionali di auto ed eteroregolazione emotiva.

Ogni trattamento terapeutico richiede questo lavoro iniziale, ma con i pazienti con dissociazione strutturale, esso pone peculiari criticità. Ad esempio, può accadere che il lavoro di stabilizzazione stia funzionando per una delle parti, non per altre; inoltre il conflitto stesso tra le parti dissociative è uno degli impedimenti alla stabilizzazione. È necessario essere sicuri che tutte le parti stiano lavorando alla stabilizzazione e abbassare la soglia del conflitto.

In breve, la fase uno del trattamento e la stabilizzazione implicano:

  • un lavoro iniziale di contatto con le parti che hanno compiti e funzioni nella vita quotidiana (EP/ANP);
  • la psicoeducazione sul disturbo, che comprende spiegazioni su diverse paure, emozioni e cognizioni;
  • la relazione con le parti contrarie all’attaccamento, al fine di stabilire una buona alleanza terapeutica.

La seconda fase del trattamento terapeutico: la preparazione alla rielaborazione dei ricordi traumatici

Onno Van Der Hart - La cura della dissociazione traumatica – Milano 2018

Onno Van Der Hart ha specificato che il paziente, per poter rielaborare i ricordi traumatici, necessita di una lunga preparazione. Essa avviene nella prima fase della terapia, nella quale si deve trovare un “luogo” di incontro per tutte le parti dissociative, superare i conflitti tra le parti, metterle in comunicazione, e affrontare i conflitti relativi all’attaccamento al terapeuta.

Un’accurata psicoeducazione significa preparare il paziente alle modalità successive di lavoro. Van Der Hart spiega chiaramente la differenza tra ricordare e rivivere un evento; rassicura sulla propria presenza in quanto terapeuta e sul fatto che i pazienti hanno la situazione sotto controllo e possono interrompere il lavoro se e quando lo desiderano.

Affinché il trattamento dei ricordi traumatici non si traduca in una nuova ri-traumatizzazione e non provochi un’ulteriore dissociazione, è fondamentale la relazione terapeutica: qualsiasi tecnica usi, il terapeuta deve assicurarsi che il paziente resti presente. Una relazione terapeutica sicura e collaborativa permette di affrontare la fobia del contatto con il terapeuta, che si accompagna sempre a quella della perdita della relazione con lui.

La sintesi guidata dei ricordi traumatici

Onno Van Der Hart suddivide le sedute in cui sono trattati i ricordi traumatici in tre parti.

La prima parte ha una funzione di preparazione rispetto al contenuto della seduta; si individua il ricordo su cui lavorare scegliendo quello meno intenso e travolgente. Si discute col paziente su ciò di cui avrà bisogno dopo la seduta per la sua sicurezza e tranquillità emotiva.

La seconda parte è la sintesi guidata dei ricordi traumatici mediante tecniche immaginative e l’uso del luogo sicuro. La sintesi richiede che paziente e terapeuta mantengano un’attenzione duale tra passato e presente; necessita la capacità del paziente di rimanere radicato nel qui e ora, anche quando l’emozione è intensa; ha come presupposto la capacità di rimanere presente a se stesso anche al di fuori dell’abituale zona di sicurezza.

Per il lavoro di sintesi, sono usate tecniche di distanziamento che “posizionano” i ricordi a una vicinanza emotiva tollerabile. La sintesi guidata dei ricordi traumatici ha come scopo l’integrazione del trauma nei suoi aspetti corporei, emotivi, cognitivi e la creazione di una narrativa autobiografica in cui l’evento traumatico sia finalmente incluso e concluso.

Nella terza e ultima fase della seduta si applicano strategie di grounding per permette al paziente di ricompattarsi, essere pienamente presente e pronto ad andarsene. Se il ricordo traumatico è stato suddiviso in parti, il terapeuta suggerisce modalità di autoregolazione da usare in caso di necessità nel tempo che separa dalla seduta successiva.

Conclusioni

Al workshop di Milano, Kathy Steele e Suzette Boon hanno presentato approcci leggermente differenti al trattamento dei pazienti con dissociazione strutturale. Le differenze dipendono dall’assessment, dalla definizione degli obiettivi della terapia, dall’applicazione delle strategie terapeutiche e dallo stile personale. Entrambe concordano sulla centralità della relazione terapeutica nel processo di cambiamento e su una sua specificità: una relazione inusuale, perchè basata su approccio collaborativo e non accudente. Il paziente deve esplorare la sua esperienza, non viene guidato e accudito.

Entrambe hanno presentato con semplicità e umiltà il delicatissimo lavoro che fanno ponendosi da anni, con grande umanità, accanto alle persone traumatizzate. Hanno rassicurato i terapeuti in formazione descrivendo errori commessi e impasse capitate nella loro esperienza clinica; si sono prestate per piccole ma preziosissime supervisioni sui casi degli uditori.

Kathy Steele - Giovanni Tagliavini - La cura della dissociazione traumatica – Milano 2018

Quando la sofferenza non ha destinazione: la salute mentale nei rifugiati prima, durante e dopo la migrazione

La mancanza di attività, la preoccupazione per la casa, la solitudine e la paura di essere mandati a casa sono le principali difficoltà che i richiedenti asilo vivono nei centri di prima accoglienza.

Grazia Migliuolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Introduzione al fenomeno migratorio

La migrazione è un comportamento che gli esseri umani hanno praticato nel corso della storia, fatto per stabilirsi temporaneamente o stabilmente in un altro luogo. La migrazione umana è un fenomeno sociale dovuto a diversi motivi e l’obiettivo è spesso migliorare le proprie condizioni di vita; purtroppo non sempre questa scelta è considerata volontaria ma piuttosto forzata dalle condizioni storiche, ambientali ed economiche del paese di origine.

Molto spesso questi spostamenti sono vissuti come vere e proprie fughe che possono essere eventi traumatizzanti in quanto vissuti in condizioni di insicurezza, di precarietà e di rischio e si accompagna ad una costellazione di perdite multiple (status economico e sociale, legami affettivi etc…). In questo senso l’ essere umano è un entità incastonata, fin dalla sua nascita, in un ambiente sociale. Lo sconvolgimento della matrice sociale ha gravi effetti a lungo termine sia sul funzionamento sociale che su quello psicologico e biologico (Van der Kolk, 2004). Molti studi si sono occupati di approfondire le conseguenze della migrazione che in alcuni casi può svolgere un ruolo di slatentizzazione di un sottostante disturbo psichico. Uno studio (Smeekes A. et al., 2017) svolto su un campione di rifugiati sirani in Turchia  ha proprio evidenziato l’importanza della continuità dell’identità sociale come fattore protettivo della salute mentale.

I ricercatori (Danon M., Miltenburg A., 2001) che si sono occupati di trattare tali tematiche parlano proprio del trauma migratorio che è caratterizzato da viaggi lunghissimi e drammatici, malnutrizione, malattie non curate, aggressioni, talvolta morte dei compagni di viaggio, sfruttamento, violenze, comprese quelle sessuali; molto spesso i paesi di frontiera detengono le persone per lungo in campi profughi o li respingono violando la convenzione di Ginevra (Benvenuti M., 2006).

Risultati delle ricerche europee nell’ambito della migrazione e della salute mentale nei richiedenti asilo

Il report annuale dell’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel report prodotto nel 2010 (UNHCR, 2010) si parla di 50 milioni di persone sono state sfollate a causa dei conflitti, le zone di provenienza erano prevalentemente il medioriente e l’Africa sub-sahariana. Queste migrazioni forzate e di massa espongono ancora di più le persone a conseguenze per la loro salute mentale. L’Italia è il secondo punto di ingresso più comune per i richiedenti asilo in Europa dopo la Grecia. La grande maggioranza è passata attraverso la Libia in guerra e ha chiesto l’asilo. Le condizioni mediche dei migranti sono valutate all’arrivo, mentre il loro stato di salute mentale generalmente non viene valutato in alcun modo, nonostante la probabilità di gravi traumi prima e durante la migrazione. L’ONG Medici senza frontiere, in accordo con il Ministero della Sanità, ha elaborato di strumenti per  la valutazione della salute mentale e la cura per i richiedenti asilo di recente arrivo in Sicilia. Grazie a questo si è riusciti a svolgere uno studio (Crepet A. et al. 2017) sui richiedenti asilo arrivati alla frontiera di Lampedusa nel biennio 2014-15 che documenta le condizioni della salute mentale, gli eventi potenzialmente traumatici e le difficoltà di vita post migratorie sperimentate dai richiedenti asilo nel programma di Medici senza frontiere.

Tra le 385 persone che si sono presentati per uno screening di salute mentale durante il periodo di studio, a 193 (50%) sono stati identificati e diagnosticati disturbi della salute mentale. La maggior parte erano giovani maschi dell’Africa occidentale che avevano lasciato i loro paesi d’origine più di un anno prima dell’arrivo. Le diagnosi più comuni di erano il disturbo da stress post-traumatico (31%) e la depressione (20%). Eventuali eventi traumatici sono stati riscontrati frequentemente nel paese di origine (60%) e durante la migrazione (89%). Essere in una situazione di conflitto e/o rischio di morte, dopo essere stati testimoni di violenza o di morte e di essere stati in detenzione, sono stati i traumi principalmente rilevati. La mancanza di attività, la preoccupazione per la casa, la solitudine e la paura di essere mandati a casa erano le principali difficoltà che i richiedenti asilo vivevano nei centri di prima accoglienza. Le condizioni di disturbi psichici presenti nella fase pre-migratoria, eventi potenzialmente traumatici e difficoltà di vita post migratori sono comunemente sperimentate dai richiedenti asilo di recente arrivo. Gli studi suggeriscono che i servizi di sostegno psicologico e sociale dovrebbero essere parte integrante del percorso previsto per le persone che richiedono asilo, poiché questo a lungo termine ridurrebbe gli oneri economici dei paesi che accolgono.

Uno studio ha approfondito la comorbilità tra disturbi somatici, disturbo post da stress traumatico e depressione nei richiedenti asilo (Lolk M., et al., 2012). In una coorte di migranti in Danimarca, è stata valutata  l’incidenza di malattie somatiche nei migranti con diagnosi PTSD e/o depressione e migranti senza un disturbo psichiatrico diagnosticato. Lo studio si basa su una coorte unica di migranti che hanno ottenuto il permesso di soggiorno in Danimarca dal 1993 al 2010 ( circa 92 mila persone). I risultati hanno mostrato che i migranti con diagnosi di PTSD e depressione avevano tassi significativamente più elevati di malattie somatiche rispetto ai migranti senza disturbi psichiatrici diagnosticati – in particolare, malattie infettive, malattie neurologiche e malattie polmonari . Questi risultati indicano che i servizi preventivi e di trattamento dovrebbero prestare particolare attenzione al miglioramento della salute generale dei migranti con PTSD e depressione. Il numero crescente di rifugiati, richiedenti asilo e migranti irregolari costituisce una sfida per i servizi di salute mentale in Europa. Da una review (Priebe S. et al., 2016) è emerso che i richiedenti asilo e i migranti irregolari sono esposti a fattori di rischio per i disturbi mentali prima, durante e dopo la migrazione. I tassi di prevalenza di disturbi psicotici, di umore e di uso di sostanze in questi gruppi sono variabili, ma complessivamente sono simili a quelli delle popolazioni ospitanti; tuttavia, i tassi di disturbo post-traumatico di stress nei rifugiati e nei richiedenti asilo sono più alti. Alcuni individui o gruppi di rifugiati, richiedenti asilo e migranti irregolari sono esposti a un certo numero di fattori di rischio per i disturbi mentali. I tassi di depressione e disturbi d’ ansia tendono ad aumentare nel tempo e la scarsa salute mentale è associata a condizioni socioeconomiche precarie, in particolare all’isolamento sociale e alla disoccupazione. Un altro dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011). Le sfide per gli Stati membri della Regione europea dell’OMS sono di facilitare l’integrazione sociale dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli immigrati irregolari all’interno dei paesi ospitanti e ad adottare buone prassi che migliorino l’accesso e l’esito della cura della salute mentale. Le condizioni socioeconomiche precarie sono associate ad un aumento dei tassi di depressione cinque anni dopo il reinsediamento (Priebe, et al., 2016).

Per questo sarebbe opportuno implementare strategie per l’attuazione delle politiche che raggiungano l’obiettivo di promuovere e prevenire disturbi mentali. Questo significa fornire risorse per programmi di integrazione sociale, servizi di informazione appropriate sui diritti e sui servizi disponibili e formazione di personale specializzato. Risulta importante inoltre promuovere la flessibilità organizzativa per fornire il miglior coordinamento possibile tra i servizi, la raccolta di dati di routine sull’utilizzo dei servizi (e sui risultati di tale utilizzo) e infine la valutazione formale delle iniziative attuate. Questi gruppi di persone incontrano ostacoli all’accesso all’assistenza sanitaria per cui il lavoro che viene svolto molto spesso si traduce in azioni di riduzione del danno in termini psicopatologici. Mentre il trauma di pre-migrazione è riconosciuto come un fattore predittivo dei risultati di salute mentale nei rifugiati e nei richiedenti asilo, la ricerca si è concentrata anche sugli effetti psicologici degli stressors dopo l’ immigrazione nell’ambiente di insediamento.

Un altro studio (Steel J.L. et al., 2017) ha cercato di fornire stime di traumi pre-emigrazione, stress post-migrazione e conseguenze  psicologiche su immigrati e rifugiati provenienti dall’Africa (prevalentemente subsahariana) che sono stati accolti in Svezia. Sono stati presi in considerazione come variabili la salute mentale post-immigrazione ma anche elementi socioculturali come il grado di alfabetizzazione raggiunto nel paese ospitante. Il campione era costituito da 420 rifugiati e immigrati utilizzando il campionamento stratificato delle quote dei paesi di provenienza. Sono stati somministrati una serie di questionari tra cui l’Harvard Trauma Questionnaire, la Scala Difficulties Living Post-migration, il Questionario del Lifestyle Cultural e la Checklist di Hopkins. Dai risultati emerge che l’80% dei partecipanti ha riportato almeno un’ esperienza traumatica prima dell’ emigrazione. Il 44% dei rifugiati ha riportato PTSD clinicamente significativo e il 20% ha riportato sintomi depressivi clinicamente significativi. I maschi hanno riportato un numero significativamente maggiore di eventi traumatici e una maggiore quota di stress post-migrazione rispetto alle femmine, che invece hanno riportato una maggiore prevalenza dei sintomi depressivi rispetto ai maschi. Coloro che sono in Svezia da meno tempo hanno riportato tassi più alti di PTSD ed inoltre un maggior numero di eventi traumatici è risultato essere associato significativamente alla gravità dei sintomi PTSD.

Sempre analizzando la relazione tra stress post-migrazione e salute mentale un’ulteriore ricerca (Li S.S. et al., 2016) ha confermato dati simili: i rifugiati dimostrano elevati tassi di disturbo post-traumatico (PTSD) e di altri disturbi psicologici. I risultati indicano che i fattori socioeconomici, sociali e interpersonali, nonché i fattori relativi al processo di asilo e alla politica dell’immigrazione influiscono sul funzionamento psicologico dei rifugiati. Una ricerca (Guardia D., 2016) ha cercato di fornire l’incidenza di disturbi mentali nei migranti di prima, seconda e terza generazione ed ha confermato che la migrazione costituisce un elemento di rischio psicopatologico. Relativamente agli esordi psicotici (Lastrina O., 2017) a seguito dell’esperienza migratoria uno dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione. Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa; risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana. I dati di tutte le ricerche esaminate confermano che i fattori di stress post-migratorio legati all’ambientamento e all’ integrazione sono stati i principali correlati della salute mentale negli immigrati umanitari. Diventa necessario quindi programmare interventi di prevenzione e di riduzione del danno (programmi di assistenza psicosociale e psicologica). In Germania si è iniziato a strutturare interventi in questo ambito come racconta l’articolo di Erim e Morawa (2016).

Considerazioni finali e prospettive d’intervento futuro

In conclusione, è opportuno sottolineare che alla luce di tutti questi fattori di rischio e di fragilità che espongono maggiormente i migranti alla possibilità di sviluppare disturbi mentali è necessario realizzare percorsi strutturati che coinvolgono equipe multidisciplinari (etnopsichiatri ed etnopsicologi, medici, mediatori linguistico culturali) che possano affrontare un fenomeno tanto complesso quanto collettivo. I beneficiari di questi interventi non possono essere solo i diretti interessati nella migrazione ma anche le generazioni successive poiché i fattori di rischio per il disagio psichico non si esauriscono alla prima generazione ma possono avere ripercussioni fino alla terza generazione (L. Grinberg, R. Grinberg 1990).

Come educare i bambini al benessere fin dalle prime fasi della scolarizzazione

La consapevolezza dell’importanza dello sviluppo sociale ed emotivo nel benessere dei bambini ha portato a dare un posto di rilievo a tali aspetti nell’ educazione dei piccoli; in ragione di ciò, si sta sviluppando in maniera crescente la psicopedagogia positiva come pratica educativa, ritenuta essenziale fin dai primi stadi della scolarizzazione.

 

Capisaldi della psicopedagogia positiva sono alcuni concetti mutuati dalla psicologia positiva, quali la forza caratteriale, la gratitudine, le emozioni positive, lo sviluppo del senso di benessere. È opportuno che gli interventi, che incentivano tali paradigmi, siano fatti già nella scuola dell’infanzia.

Keywords: scolarizzazione, benessere, psicopedagogia positiva.

Educare al benessere

La consapevolezza dell’importanza dello sviluppo sociale ed emotivo nel benessere dei bambini ha portato a dare un posto di rilievo a tali aspetti nell’ educazione dei piccoli (Shoshani e Slone, 2017).

Fondamentale è che i bambini instaurino fin dalle prime fasi del loro ciclo di vita delle relazioni positive con i coetanei, abbiano una sufficiente autostima, imparino ad esternare i loro stati d’animo, sappiano esercitare una forma di autocontrollo sulle emozioni, affrontino in maniera adeguata i compiti di sviluppo e sappiano porsi in maniera propositiva nei confronti delle diverse contestualità che vivono (Oades e al., 2011). Questi costrutti sono ritenuti gli archetipi del futuro benessere psicologico e della salute mentale, per cui si assiste ad un interesse crescente per gli aspetti socio – emozionali nell’ educazione dei bambini fin dalle prime fasi della loro vita (Honing, 2002). L’approccio della psicologia positiva all’educazione degli infanti sembra incentivare l’acquisizione delle competenze socio – emotive (Seligman e al., 2009).

La psicopedagogia positiva

In ragione di ciò, si sta sviluppando in maniera crescente la psicopedagogia positiva come pratica educativa, ritenuta essenziale fin dai primi stadi della scolarizzazione (Shoshani e Steinmetz, 2014). Capisaldi della psicopedagogia positiva sono alcuni concetti mutuati dalla psicologia positiva, quali la forza caratteriale, la gratitudine, le emozioni positive, lo sviluppo del senso di benessere. È opportuno che gli interventi, che incentivano tali paradigmi, siano fatti già nella scuola dell’infanzia. Questo ordine di scuola ha delle finalità ben precise, ovvero deve:

  • implementare le abilità fisiche e motorie dei piccoli;
  • migliorare le competenze sociali ed emotive;
  • sviluppare le capacità linguistiche;
  • incrementare lo sviluppo cognitivo;
  • avviare alle prime abilità di apprendimento.

Spesso accade che l’insegnamento di alcune abilità, come quelle legate all’apprendimento e allo sviluppo cognitivo, prenda il sopravvento su quelle relative all’ educazione socio – emotiva (Shoshani e Aviv, 2012). Questa prospettiva pedagogico – didattica dimentica, però, che il benessere dei bambini agevola gli apprendimenti cognitivi.

In altre parole, più il bambino sta bene con se stesso e con gli altri nel contesto scolastico e più impara (Bonell e al., 2013). D’altra parte, questo nuovo modo di intendere l’educazione dei piccoli, ovvero con una maggiore attenzione allo sviluppo della competenza sociale ed emotiva, diviene necessaria in virtù del fatto che le sezioni di scuola dell’infanzia hanno fra i loro fruitori un alto numero di bambini che presentano difficoltà emotive e comportamentali, come dimostrano diverse ricerche (QI e Kaiser, 2003; United States Department of Education, 2001). Inoltre, diversi studi sperimentali (Hemmeter e al., 2006; Slone e Shoshani, 2014) hanno evidenziato che la fascia d’età dei bambini di scuola dell’infanzia si rivela quella giusta per porre gli archetipi dell’ educazione finalizzata all’acquisizione delle competenze sociali ed emotive, che si rivelano fondamentali per creare l’attitudine al benessere e alla felicità. Alcune ricerche (Luengo Kanacri e al., 2017) hanno sottolineato che nei piccoli esiste una correlazione positiva fra sviluppo delle competenze emotive e comportamenti prosociali. In aggiunta, la conoscenza delle proprie e altrui emozioni incentiva la nascita dell’ empatia. Ancora, le emozioni positive, legate alla gratitudine e ai riti di cortesia, promuovono la creazione di un clima di benessere all’interno della classe (Froh e al., 2009).

L’educazione dei bambini legata ai paradigmi della psicologia positiva, secondo Seligman (2011), deve contenere alcuni archetipi, quali:

  • sviluppare le emozioni positive;
  • incentivare l’interesse per quello che si fa;
  • migliorare le relazioni fra pari;
  • sollecitare la capacità di porsi degli obiettivi.

In conclusione, esistono numerose evidenze empiriche che dimostrano la validità della psicopedagogia positiva nel migliorare lo stato di benessere degli alunni, cosa che agevola i loro apprendimenti.

Cinquanta sfumature: una lettura psicodinamica del personaggio di Christian Grey

In Cinquanta sfumature di Grigio viene messa in scena, rappresentata da due tipologie di donne ben distinte, la forte una scissione che Christian Grey opera nei confronti dell’oggetto: quello “buono” e affidabile, quello “cattivo” e da controllare.

 

Erika Leonard, in arte E. L. James, ci introduce con Cinquanta sfumature di Grigio ad una delle trilogie più popolari e controverse degli ultimi anni. Si tratta della storia d’amore tra Anastasia Steele e Christian Grey, tra un’ingenua studentessa americana e un giovane imprenditore miliardario. E’ una relazione che nasce da un incontro fortuito e che si trasforma in una storia travagliata fin dalle prime scene, quando Anastasia scopre che quell’uomo misterioso vive la sessualità in un modo singolare, che lei non comprende.

Cinquanta sfumature: Christian Grey e la scissione tra oggetto buono e cattivo

Le donne che ruotano attorno a lui sono di due tipi: assistenti alte, bionde e occhi azzurri da un lato, “sottomesse” more e acqua e sapone dall’altro. Viene messa in scena, rappresentata da due tipologie di donne ben distinte, la forte una scissione che Christian Grey opera nei confronti dell’oggetto: quello “buono” e affidabile, quello “cattivo” e da controllare. Si tratta di un oggetto su cui è possibile non investire, permeato da un’ambivalenza emotiva in cui amore e odio coesistono.

Christian Grey, figlio di una tossicodipendente morta di overdose, sopravvive al suo passato traumatico rinunciando alla posizione depressiva e mantenendo una rappresentazione parziale dell’oggetto materno, le cui qualità sono proiettate, ad opera del principio di generalizzazione, sulla categoria-donna. Christian è un uomo geloso e possessivo, vive le relazioni in modo asimmetrico e stipula contratti tra Padrone e Sottomessa. Così come l’oggetto, anche il protagonista della trilogia di Cinquanta Sfumature viene descritto come scisso: dolce e disponibile, ma anche freddo e calcolatore. Il suo passato lo tormenta e la sua stessa pelle presentifica una grande difficoltà nella relazione con l’altro, inaccessibile e intrusivo allo stesso tempo, in una labilità dei confini resa visibile dal confine corporeo in cui sono relegate le sue bruciature.

Il modo in cui Christian Grey vive le relazioni erotiche appare svincolato dall’altro, la cui sottomissione è secondaria ad una sola caratteristica imprescindibile: la somiglianza alla madre biologica. Il bisogno pulsionale sembra poter essere soddisfatto attraverso uno spostamento della pulsione da un oggetto all’altro. In Cinquanta Sfumature di RossoMr Grey lo spiega: non è un “dominatore” ma un sadico, che prova piacere nell’infliggere punizioni a donne che somigliano alla madre. Il sadismo in effetti è l’esercizio della violenza contro un’altra persona, assunta come oggetto; il piacere sessuale non è però dato dal provocare dolore, quanto piuttosto da un’identificazione con chi subisce la sofferenza. In una sorta di coazione a ripetere, Christian Grey sembra rievocare le torture subite nell’infanzia attraverso il suo modo di vivere la sessualità, la quale nella prima parte della storia sembra poter esistere, in effetti, solo nella “Stanza delle Torture”.

Quando Anastasia lo lascia perché incapace di tollerare le regole del contratto e la qualità di una relazione fondata sul possesso, sembra emergere per Christian la possibilità di un’integrazione dell’oggetto, fonte di piacere e dispiacere allo stesso tempo. Dopo un gioco sessuale finito male lui le mormora “non odiarmi”, lei invece gli dirà che è innamorata di lui. “Non puoi amarmi Ana. No…è sbagliato”: l’esperienza di essere amato e visto nella complessità delle sue cinquanta sfumature consente a Christian Grey di recuperare aspetti di sé frammentati e scoprirsi capace di una relazione d’amore e di un piacere sessuale “alla vaniglia”.

Non tutto quello che postiamo va a beneficio della nostra immagine: gesto impulsivo o intenzionale?

Un recente studio cross-culturale tra Italia e Gran Bretagna, pubblicato su CyberPsychology, Behavior and social networking, ha mostrato come i soggetti di entrambe le nazionalità tendano a postare sui principali social network materiale personale ad alto rischio in modo impulsivo, in ugual misura, ma anche con intenzionalità.

 

I fattori psicologici che influenzano i comportamenti rischiosi sul web

Da diverso tempo a questa parte appaiono sui giornali le conseguenze, spesso molto negative e tragiche, di comportamenti sconsiderati e pericolosi come il cyberbullismo, messi in atto sui principali social network, fra tutti il caricamento online di materiale molto personale come foto, stralci di conversazioni intime, offese e critiche rivolte a terze persone.
Qual è la ragione per cui alcuni individui hanno la tendenza a postare contenuti e immagini potenzialmente pericolosi o danneggianti altre persone, quasi senza considerare gli effetti negativi che questo potrebbe determinare?

Per cercare di rispondere a questa domanda, White e colleghi (2017), dell’Università di Plymouth, hanno cercato di individuare e approfondire i fattori psicologici che potrebbero influenzare la comparsa e la frequenza sempre maggiore di comportamenti rischiosi sul web.

I fattori cruciali sono l’automonitoraggio e l’impulsività

Tramite lo studio (White, Cutello, Gummerum et al., 2017), i ricercatori hanno cercato in particolare di indagare se l’attività di postare materiale pericoloso sui social network fosse più in relazione a processi impulsivi o al contrario frutto di processi deliberati e intenzionali.
Ricerche precedenti (Zuckerman & Kuhlman, 2000) avevano messo in luce due fattori cruciali: l’automonitoraggio, che sembra essere più legato a processi deliberati e l’impulsività.

Per automonitoraggio si intende la capacità dell’individuo di controllare attivamente e deliberatamente il proprio comportamento, il modo di presentarsi e porsi nei confronti delle altre persone con l’obiettivo di mostrarsi appropriato al contesto favorendo e mantenendo allo stesso tempo un’immagine di Sé in linea con le norme sociali e interpersonali (Snyder, 1987).
Infatti solitamente le persone con un’alta capacità di automonitoraggio riescono ad adattare la propria immagine al contesto, controllare che questa sia il più possibile conforme a ciò che la società ritiene socialmente appropriato e consono a quel particolare contesto.
All’opposto, le persone con una bassa capacità di automonitoraggio tendono a dare un’immagine di sé più in linea con la propria personalità, le proprie credenze e quindi tendono meno a conformarsi rischiando però di risultare più impulsive (Snyder, 1987).

Tuttavia è risultato che le persone più controllanti la propria immagine e il proprio comportamento con maggiori capacità di automonitoraggio sono in realtà quelle che con molta più probabilità tendono a postare sui social network materiale intimo e personale, potenzialmente a rischio, in quanto percepiscono che “è la giusta cosa da fare” in quel momento e in quella situazione: qual è la ragione?

Il confronto tra italiani e inglesi

Ritenendo che ci fossero anche differenze culturali nella percezione, nell’uso dei social media e nella modalità di presentazione di sé sul web, i ricercatori hanno preso in considerazione sia un campione di nazionalità italiana che inglese (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).
Essi hanno messo a confronto i comportamenti dei giovani adulti italiani e inglesi nella loro esposizione rischiosa e potenzialmente dannosa al web tramite foto, conversazioni a contenuto sessuale esplicito, dettagli personali come il fare uso di droga e alcol postate sui social network, tenendo presente i fattori psicologici che la letteratura aveva evidenziato come cruciali quali automonitoraggio e impulsività.

Lo studio di White e colleghi (2017) ha mostrato come l’impulsività fosse predittiva di un comportamento online rischioso e dalle conseguenze negative; tuttavia è interessante notare come i ricercatori abbiano trovato anche che una tendenza maggiore all’automonitoraggio della propria immagine e del proprio comportamento fosse predittiva della messa in atto di attività rischiose sul web (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).

Infatti le persone con un alto automonitoraggio, comportandosi in modo conforme a quello che percepiscono come contestualmente appropriato e ritenendo che la propria identità sui social sia di fatto un prodotto dell’ambiente sociale online, percepiscono la messa sul web di materiale personale a rischio come comune, “nella norma”, seguendo quelle che sono le aspettative del loro pubblico virtuale.
In aggiunta a ciò, essi sono maggiormente guidati dalla gratificazione di ricevere “like” alle loro self-disclosure piuttosto che considerare i potenziali rischi implicati, in modo così preponderante che a volte risultano incapaci di distinguere tra ciò che piace al loro gruppo di spettatori e ciò che è appropriato nella presentazione della propria immagine (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).

I ricercatori hanno considerato anche la piattaforma online utilizzata per postare il materiale personale a rischio, come Facebook; infatti ciò che potrebbe risultare inappropriato ad esempio su un social network adibito esclusivamente alla carriera e al mondo del lavoro come Linkedln, sembra invece essere “nella norma” su Facebook.
Secondo gli autori, molti utenti di Facebook posterebbero in particolare foto provocatorie o a rischio per raggiungere maggiore visibilità (Marder, Joinson, Shankar et al., 2016) o per guadagnare maggiore attenzione e prestigio dal loro gruppo di amici, mostrandosi in modo che potremmo definire “desiderabile”

Per quanto riguarda le differenze culturali, lo studio (White, Cutello, Gummerum et al., 2017) ha mostrato come il campione di giovani adulti inglesi abbia avuto punteggi maggiori per i comportamenti impulsivi misurati tramite l’Eysenk Impulsivity Inventory (Eysenk, Pearson et al., 1985) ma bassi per l’automonitoraggio, rispetto al campione italiano.

Tuttavia le differenze tra i due gruppi non sono risultate così marcate e significative, pertanto i ricercatori hanno ritenuto di poter concludere che i processi che sostengono i comportamenti rischiosi online siano abbastanza simili tra i due paesi (White, Cutello, Gummerum et al., 2017), con la specificazione dei contenuti che i due campioni tendono a postare online.
Infatti, il gruppo inglese tende a postare immagini o commenti personali sull’uso di alcol e droga, in modo più impulsivo mentre quello italiano tende a mettere online contenuti personali intimi e offensivi verso terzi più intenzionalmente.

Conclusioni

In conclusione, lo studio sottolinea come i giovani adulti utenti dei social network possano mettere in atto comportamenti online rischiosi sia in modo impulsivo che deliberato e ciò dipenderebbe dalla percezione che essi hanno del contesto in cui decidono o meno di postare contenuti.

Cogenitorialità: definizione e principali modelli teorici

La cogenitorialità (o coparenting) è un recente costrutto che ha interessato diversi studiosi per la sua notevole influenza sulle dinamiche familiari sia di coppia sia relative alla qualità dell’adattamento dei figli. Ma cosa intendiamo esattamente quando parliamo di cogenitorialità? Da che componenti è costituita? Quali sono i modelli teorici più recenti che analizzano tale costrutto?

Federica Salvetti

 

Definizione di cogenitorialità

Il costrutto della cogenitorialità è un aspetto di centrale importanza all’interno delle dinamiche familiari e della loro evoluzione (Feinberg & Kan, 2008). Esso si riferisce alla qualità delle relazioni educative che i genitori intrattengono con il loro figlio e, in particolare, concerne la modalità con cui i componenti della coppia genitoriale coordinano il proprio stile educativo e gestiscono il conflitto (Feinberg, 2003; Van Egeren, 2004; Van Egeren & Hawkins, 2004) al fine di mantenere un contesto familiare sano per la crescita del/i figlio/i (Adamsons & Pasley, 2006; Van Egeren & Hawkins, 2004).

La relazione cogenitoriale esiste nel momento in cui due individui hanno responsabilità sovrapposte o condivise rispetto alla sfera educativa della prole (Van Egeren & Hawkins, 2004). Consiste nel riconoscimento di sé e del proprio partner come “genitori”, nel supporto e nella coordinazione reciproca (o nella mancanza di essi) che tali figure genitoriali esibiscono nella sfera educativa (Feinberg, 2002, 2003).

Margolin e collaboratori (2001) pongono inoltre l’accento su come sia proprio attraverso tale relazione che i genitori possano fare esperienza dell’opportunità di negoziare i reciproci ruoli, le rispettive responsabilità ed i contributi verso i loro figli.

La cogenitorialità, dunque, viene considerata una dimensione vitale all’interno della relazione educativa tra genitori e figli di coppie sposate, conviventi, con figli adottivi o affidatari (McHale, 1997; Van Egeren & Hawkins, 2004).
Sono pertanto esclusi dall’ambito della cogenitorialità quegli aspetti riguardanti la sfera romantica, sessuale, emotiva, economica e legale della coppia coniugale che non presentano dirette correlazioni con l’educazione del/i figlio/i (Feinberg, 2003).

Negli ultimi decenni la cogenitorialità è stata fonte di notevole interesse da parte della letteratura internazionale (Feinberg, 2002, 2003; McHale et al., 2000; Van Egeren, 2004; Van Egeren & Hawkins, 2004) e, sebbene generalmente si faccia riferimento ad essa considerandola “il modo con cui i genitori lavorano insieme nel loro ruolo di essere genitori” (Feinberg, 2003), è stata indagata anche come: shared parenting, parenting partnership e parenting alliance.

I principali modelli teorici

Gli studi di Feinberg (2003) e di Margolin e collaboratori (2001) hanno apportato un contributo particolarmente significativo rispetto allo studio del costrutto della cogenitorialità.

Nel seguente paragrafo verrà dunque esposto il loro rispettivo punto di vista.

Model of coparenting components

Il model of coparenting components (Feinberg, 2003) propone una visione della cogenitorialità come costituita da quattro principali dimensioni:
1) il livello di accordo e disaccordo sulle questioni relative all’educazione del figlio, ossia la frequenza e l’intensità delle discussioni rispetto ai reciproci impegni tra genitori, ai valori morali, alla disciplina, alla percezione dei bisogni emotivi del bambino, agli standard e alle priorità educative.
2) la divisione dei lavori/sforzi che concerne tutti quegli aspetti riguardanti la divisione dei compiti e delle responsabilità inerenti la routine quotidiana, le responsabilità educative verso i figli, i lavori domestici e le questioni finanziarie, mediche e/o legali.
3) il grado di supporto ed indebolimento reciproco, relativa al grado di solidarietà e di sostegno (o all’assenza di essi) esistente fra gli adulti che si dividono il compito di cura ed educazione dei figli. Comprende quanto i genitori approvino il modo con cui il partner esercita la genitorialità e quanto si sentano sostenuti da quest’ultimo nel loro ruolo di genitori. L’indebolimento, al contrario, concerne la presenza di critiche, denigrazioni e accuse tra coniugi.
4) la gestione congiunta delle relazioni familiari che risulta essere un importante sottosistema relativo all’area delle responsabilità genitoriali in cui i genitori, più o meno esplicitamente, definiscono gli standard con cui i membri della famiglia si relazioneranno gli uni con gli altri ed il grado di struttura e coesione familiare. Essa, inoltre, consente o ostacola le coalizioni tra genitori e figli e definisce l’equilibrio nel rapporto genitore-figlio.

Feinberg (2003), in assenza di informazioni empiriche relative alla relazione tra queste quattro componenti e considerando la notevole variabilità tra le diverse famiglie rispetto al grado di collegamento tra tali dimensioni, presuppone che esse siano moderatamente associate e, pertanto, solo parzialmente distinte.

La visione di Margolin

Margolin e collaboratori (2001) ritengono che la cogenitorialità, sia nelle famiglie intatte sia in quelle separate o divorziate, sia sostanzialmente costituita da tre macro-dimensioni: la qualità della relazione coniugale, il grado di cooperazione, e le dinamiche di triangolazione.

La prima dimensione, relativa alla quantità di conflitti tra coniugi rispetto a questioni relative alla genitorialità, concerne in modo specifico le seguenti variabili: quanto spesso i genitori sono in accordo o disaccordo tra loro, il livello di ostilità su argomenti riferibili all’educazione del figlio, quanto ogni genitore danneggia o sminuisce il partner rispetto al ruolo di genitore e, infine, il livello di disaccordo generale o inerente questioni domestiche all’interno della coppia coniugale.

La dimensione relativa alla cooperazione riguarda il supporto materno e paterno, la valorizzazione ed il rispetto del partner nel suo ruolo di genitore ed il modo con cui si aiutano a vicenda rispetto ai compiti genitoriali.

L’ultima dimensione presa in esame, infine, concerne la triangolazione intesa come quel processo attraverso cui i genitori modificano i confini della relazione genitore-figlio, andando a creare una coalizione con il minore che comporta l’esclusione del partner (Minuchin et al., 1978). Tale dinamica, definita anche caught between, è tipica delle situazioni familiari con un alto livello di conflitto coniugale (es. divorzio).

Una morale innata come guida: la capacità di valutazione sociale in bambini in età preverbale

L’articolo di Hamlin pubblicato su Nature, tratta della capacità di valutazione sociale in bambini in età preverbale, specificatamente di sei e dieci mesi, e a oggi è considerato uno dei più classici esperimenti nell’ambito della psicologia dello sviluppo. Secondo tali autori il senso del bene e del male, la moralità, sarebbero innati nell’essere umano.

 

Come avviene la valutazione sociale nei bambini in età preverbale

La capacità di valutare gli altri è essenziale per rapportarsi nel mondo sociale. Gli esseri viventi devono essere in grado di capire le intenzioni di chi li circonda, così da trarre valutazioni anche su chi è amico e chi è nemico, e ciò è un processo che svolgiamo in modo rapido e automatico, sulla base di peculiarità caratteriali e fisiche (da ricordare che i bambini, già all’età di due mesi, sono in grado di riconoscere i pattern facciali più attraenti (Slater, A. Et al. 1998). L’origine ontogenetica di ciò resta però sconosciuta.

In questo classico ed elegante esperimento gli autori indagano su come i bambini valutano -senza essere coinvolti direttamente nell’azione- i personaggi “nemici” e “amici”, sulla base delle loro interazioni con gli altri.
Per dimostrare che questo può verificarsi anche in assenza di precedenti esperienze e di segnali emotivi negativi, gli autori hanno utilizzato come personaggi dello studio delle forme, prive quindi di espressioni emotive, piuttosto che degli stimoli che raffigurano esseri umani.

Gli sperimentatori usano due metodologie diverse per condurre la loro ricerca, molto comuni per investigare le preferenze in soggetti senza abilità verbali sviluppate, come il paradigma della scelta (in cui i soggetti indicano la loro preferenza tramite comportamenti di raggiungimento), e il tempo di osservazione degli stimoli (che ha come postulato il fatto che i bambini tendono a guardare più a lungo un evento che non si aspettano).

Nel primo esperimento, i bambini in età preverbale vedono un personaggio fatto di legno con grossi occhi incollati su di esso, che sarà il soggetto dell’azione proiettata sul display. Il personaggio appare sulla cima di una collina, intento a salire e scendere da questa, al terzo tentativo viene contrastato da un “nemico” che lo butta verso il basso, o aiutato da un “amico”, che lo spinge da dietro. Esperimenti condotti precedentemente dimostrarono che i bambini interpretano in maniera simile eventi fatti al computer come azioni di aiuto o di scontro e si aspettano che lo scalatore si approcci all’aiutante e eviti il nemico. I bambini sono incoraggiati a scegliere uno tra aiutante e antagonista e scelgono in maniera netta l’aiutante (ben 14 su 16 dei soggetti di 10 mesi, e ben 12 su 12 tra quelli di sei), dimostrandosi in grado di avere impressioni distinte sui diversi personaggi in relazione allo scalatore.

I bambini vedono un nuovo display con i tre personaggi, lo scalatore si relaziona sia con l’aiutante che con il nemico. I bambini di 10 mesi guardavano più a lungo l’ultimo evento, mostrando sorpresa quando lo scalatore incontrava il personaggio che prima lo aveva spinto giù. Tuttavia i bambini di 6 mesi guardano in egual misura entrambi gli eventi, ma preferiscono nella scelta l’aiutante rispetto all’antagonista. Questo può voler dimostrare che la capacità di valutazione sociale si sviluppa prima dell’abilità di dedurre le valutazioni di altri.

La valutazione sociale può essere influenzata da fattori percettivi nei bambini in età preverbale?

L’obiettivo del secondo esperimento invece è quello di confermare o smentire l’ipotesi che i bambini fossero influenzati nella scelta non da principi di valutazione sociale ma percettivi. Per far questo il soggetto del secondo esperimento appare inanimato e senza uno scopo, un’identità in cui le nozioni sociali di aiuto e scontro non sono applicate (rimuovendo anche gli occhi dal personaggio-soggetto).

Se la preferenza di percezione (senza valutazione sociale) era ciò che guidava i bambini nella scelta, una simile casistica si sarebbe dovuta presentare anche nel secondo esperimento: i bambini avrebbero dovuto preferire la spinta verso l’alto rispetto a quella verso il basso, in quanto i movimenti e le traiettorie sull’oggetto spinto erano simili a quelli dell’esperimento uno. Tuttavia questo non si è verificato: 6 dei 12 soggetti di 10 mesi scelsero quello che spingeva verso l’alto, mentre tra i soggetti di 6 mesi, solo 4 su 12. In entrambi i gruppi questi risultati non sono significativi. La scelta dei bambini può portare a tre conclusioni, vale a dire:
– il bambino valuta positivamente un individuo che aiuta un altro;
– il bambino valuta negativamente un individuo che contrasta un altro;
– avvengono entrambi questi processi.

Come scelgono e valutano socialmente i bambini in età preverbale?

Il terzo e ultimo esperimento prevede due azioni sperimentali. La prima è di proporre l’interazione tra un personaggio neutro e uno buono, la seconda è un rapporto tra un personaggio neutro e uno cattivo. L’esperimento vede sia l’aiutante che l’antagonista agire sullo scalatore come nell’esperimento uno e in aggiunta a ciò un secondo personaggio neutro, vale a dire che non ha interazioni con lo scalatore, ma che si muove su e giù per la collina come i personaggi degli esperimenti precedenti. I bambini hanno poi la possibilità di scegliere tra il carattere neutro e l’aiutante (o il nemico), mentre attraverso il tempo di fissazione fanno comprendere le aspettative che hanno nei confronti dello scalatore verso l’aiutante o il nemico.

Usando il paradigma della scelta, i bambini di entrambe le età valutano il personaggio neutro in maniera diversa in base al fatto se sia accoppiato col personaggio buono o con quello cattivo: i bambini nella prima tra le due condizioni (personaggio neutro-personaggio buono) scelgono il personaggio buono (in sette su otto tra quelli di dieci mesi e in sette su otto tra quelli di sei mesi). Nella seconda condizione invece (personaggio neutro-personaggio cattivo) i bambini scelgono il personaggio neutro (in percentuale uguale per entrambi i gruppi a quelli che avevano scelto il buono nella condizione precedente).

Conclusioni

Le conclusioni di questi esperimenti sono molteplici. La prima è che i bambini in età preverbale sono influenzati nelle loro preferenze anche senza una conoscenza diretta dei soggetti terzi, infatti i soggetti non avevano un’ esperienza precedente con i personaggi dell’esperimento. Inoltre l’abilità di giudicare diversamente soggetti che si comportano socialmente in modo positivo o negativo può gettare le basi essenziali per un più astratto concetto di giusto o sbagliato. Infine, la capacità di valutare gli altri sulla base delle loro interazioni sociali sembrerebbe essere universale e non appresa.

La presenza di capacità di social evaluation così precoci suggerisce che valutare gli individui sulla natura delle interazioni che hanno con gli altri è un processo essenziale per un adattamento sociale e biologico dell’individuo. Di questa dote innata, un rudimentale senso di giustizia, l’individuo della società moderna dovrebbe fare tesoro, arricchendosi negli anni di una fondamentale ed unica capacità, che ci distingue in quanto essere umani: il pensiero razionale.

L’elaborazione del tatto nel cervello infantile: quando un tocco si trasforma in empatia

Tatto nei bambini: Un nuovo studio esplora le aree cerebrali in cui avviene l’elaborazione tattile, non solo quando è il bambino stesso ad essere accarezzato ma anche quando il bebè vede toccare la mano o il piede di un adulto. I ricercatori ipotizzano che questo potrebbe aiutare lo sviluppo di abilità evolutive e cognitive quali l’imitazione e l’empatia.

 

Lo sviluppo del tatto nei bambini

Il tatto è il primo dei cinque sensi a svilupparsi eppure gli scienziati conoscono ben poco della risposta cerebrale dell’infante a questo senso rispetto invece alle conoscenze che possiedono riguardanti ad esempio il modo in cui i bambini elaborano la vista del volto o il suono della voce materna.
Ora, attraverso l’uso di nuove e sicure tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori dell’Università di Washington sono stati in grado di comprendere l’elaborazione cerebrale del tatto negli infanti.

L’attivazione della corteccia somatosensoriale sia per il “tocco percepito” che per il “tocco osservato” dimostra che i bambini già a 7 mesi sono capaci di stabilire una connessione di base tra “sé” e “altro” che potrebbe essere alla base dell’imitazione e dell’apprendimento sociale.

Molto prima che i bambini imparino a parlare, il tatto risulta essere un canale cruciale per la comunicazione con il caregiver” ha detto l’autore dello studio Andrew Meltzoff, professore di psicologia e co-direttore dell’Institute for Learning & Brain Sciences, che ha continuato “Ora abbiamo gli strumenti per osservare la rappresentazione del corpo all’interno del cervello del bambino. Il modo in cui il senso del sé si struttura potrebbe essere compreso osservando le reti cerebrali specifiche in cui avviene l’elaborazione del tatto.

Per lo studio i ricercatori hanno osservato il cervello di bambini di 7 mesi utilizzando la magentoencefalografia (MEG), una tecnica che permette di catturare le immagini dell’attività cerebrale. Gli studiosi erano particolarmente interessati all’osservazione della corteccia somatosensoriale (un’area della corteccia cerebrale posta nella parte superiore dell’encefalo); è proprio in questa regione infatti che avviene l’elaborazione del tatto. Ogni parte del corpo è rappresentata in modo unico: un tocco alla mano per esempio è codificato in una posizione diversa lungo la corteccia somatosensoriale rispetto al tocco a un piede.

L’attivazione cerebrale dei bambini quando ricevono un tocco e quando lo osservano negli altri

Nel primo dei due esperimenti, il team ha misurato l’attività cerebrale dei bambini mentre ricevevano leggeri tocchi sulla parte superiore delle mani e dei piedi. I dati hanno mostrato che, il tocco della mano comportava l’attivazione dell’area corrispondente alla corteccia somatosensoriale in tutti i 14 bambini testati; la stessa attivazione si presentava, nella relativa area, quando veniva sfiorato il piede.
Il secondo esperimento ha indagato quello che si è definito “tocco osservato”: i bambini guardavano i filmati di una piccola asta che sfiorava la mano o il piede di un adulto. In questo caso l’attivazione della corteccia somatosensoriale generava una risposta più debole rispetto alla condizione di “tocco percepito”.

L’elemento essenziale emerso dallo studio è che entrambi i tipi di contatto vengono registrati nella stessa area del cervello, ciò potrebbe suggerire l’esistenza di regioni neurali condivise nelle condizioni di tatto osservato e percepito.

Meltzoff ha concluso “Prima ancora di nominare le parti del corpo, i bambini riconoscono che la loro mano è uguale a quella del genitore. La mappa neurale del corpo aiuta a connettere i bambini con gli altri, il riconoscimento che un’altra persona è “come me” può essere una delle prime intuizioni sociali del bambino. Questo riconoscimento, con la crescita, potrebbe trasformarsi nella capacità di comprendere gli stati emotivi delle persone, in altre parole: empatia”.

Desiderare un figlio: quando tutto ha inizio

Avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata? Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Introduzione

Diventare genitori. La nascita di un bambino è un evento che genera molteplici cambiamenti nella vita della donna e della coppia: alterazione del ciclo sonno-veglia, allattamento, diminuzione del tempo libero e per se stessi, necessità di conciliare lavoro e famiglia, dipendenza del bambino dal genitore in tutto e per tutto, assunzione di una nuova identità e di un ruolo tutto da scoprire.

Dicono che allevare un figlio sia il compito più difficile che possa esserci, il rischio di sbagliare e di sentirsi inadeguate è costantemente in agguato e se avessero scritto un manuale per diventare genitori perfetti sarebbe stato gradito e comperato velocemente dalla maggior parte delle mamme.

La verità è che, come molte avranno sperimentato nella propria vita quotidiana, non esiste un manuale con indicazioni perfette in qualunque situazione, perché ogni mamma e il suo bambino sono unici, con la loro storia, le loro emozioni e con la relazione che entrambi già dai primi giorni di vita del bambino andranno a costruire, giorno dopo giorno, passo per passo, errore per errore.

Questa rubrica intitolata “Mamme e papà si diventa” vuole essere una sorta di guida all’esplorazione dei vissuti psicologici, delle emozioni e delle ansie cui spesso si imbattono le mamme e i papà senza averne piena consapevolezza, allo scopo di poter dare loro un nome e di sentirsi meno “alieni” e meno sbagliati.

Il desiderio di maternità: da dove nasce?

Oggigiorno, la gravidanza è spesso cercata e desiderata da parte delle coppie ed è sempre meno il frutto della casualità o del fato, data la crescente diffusione dei metodi contraccettivi. In molti casi si tratta di una gravidanza programmata e stabilita sulla base della propria condizione lavorativa, economica e sociale. A volte mettere al mondo un figlio lo si rimanda talmente tanto da essere troppo tardi o ai limiti dell’età fertile. Le ragioni per cui ciò accade sono molteplici; più frequentemente si attende di raggiungere una maggiore stabilità economica o lavorativa o il compagno “giusto” non lo si incontra ancora.

Dunque, avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata?

Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Secondo Finzi e Battistin, la ragione si mescola con l’amore e le emozioni e il desiderio di maternità diventa qualcosa di spontaneo, naturale, condiviso e “sperato”.
Ed è proprio lì che tutto ha inizio; che sia programmato o meno ciò che spinge in molti casi ad avere un figlio è un desiderio di maternità forte che irrompe nella propria psiche.

Le motivazioni che spingono ad avere un figlio

La scelta di avere un figlio può avere varie motivazioni di natura intrapsichica, interpersonale, culturale e sociale. Ognuno attribuisce alla maternità e paternità differenti significati e progettualità individuali e di coppia.

A quel punto iniziano le fantasie, i sogni ad occhi aperti; la mente vaga e l’immaginazione si arricchisce sempre di nuovi scenari, suoni, immagini ed emozioni. È quello che in psicologia viene chiamato “bambino immaginario”, un bambino che inizia a prendere forma nella mente dei futuri genitori prima ancora che sia nato. Sarà con gli occhi chiari? Assomiglierà alla mamma? Sarà forte e sano? Sarà maschio o femmina? Nulla di questo si conosce ma nella propria mente tutto comincia ad acquisire forma, colori, suoni e il proprio mondo psichico ed affettivo comincia a fare spazio all’idea che un bimbo possa entrare a far parte della propria vita individuale e di coppia. Le fantasie sono spesso legate alla propria storia di vita, all’infanzia e diventano una proiezione dei propri desideri più nascosti.

Alcuni studi hanno indagato le motivazioni che spingono una coppia ad avere un figlio, secondo il modello della teoria dell’attaccamento, ipotizzando che la qualità della relazione con la famiglia di origine possa influenzare la decisione di generare un bambino. La relazione di attaccamento con i propri genitori può essere classificata secondo delle categorie a seconda dell’accudimento e della responsività di cui il bambino ha fatto esperienza nella propria infanzia: nello specifico l’adulto con uno stile di attaccamento sicuro ha fatto esperienza nella sua infanzia di un genitore sensibile, accudente e responsivo, capace di cogliere e di rispondere in modo adeguato e tempestivo ai suoi bisogni primari ed emotivi; l’adulto con uno stile di attaccamento insicuro ambivalente ha, invece, sperimentato una relazione per l’appunto ambivalente, caratterizzata da risposte contraddittorie o imprevedibili da parte del genitore di riferimento e per questo ha imparato a dover estremizzare le proprie reazioni per ricevere accudimento; lo stile di attaccamento evitante, infine, è presente nelle situazioni in cui il genitore è stato piuttosto distanziante, poco presente e affettuoso e il bambino ha imparato in fretta a diventare autonomo e autosufficiente. Nei casi di attaccamento insicuro sia l’immagine di sé che degli altri risultano compromesse.

Tali esperienze di attaccamento precoci, spesso si riflettono nelle relazioni di coppia e la stessa scelta di avere un bambino può essere influenzata da tali esperienze. In particolare, le relazioni di tipo insicuro ambivalente si caratterizzano per la presenza di un partner che richiede spesso accudimento da parte dell’altro partner e in questo caso un figlio può essere percepito come una possibile compensazione della propria insicurezza affettiva, anche se in realtà ciò non accade e la coppia può entrare in crisi. Il partner con attaccamento evitante, invece, si mostra spesso poco disponibile e affettuoso nei confronti dell’altro, avendo lui stesso fatto esperienza nella famiglia di origine di trascuratezza emotiva e scarso accudimento e questo ostacola la formazione di una famiglia a tutti gli effetti, in cui le relazioni si basano sulla fiducia, la comunicazione e la reciprocità; alle volte si preferisce, infatti, non avere figli. I partner con attaccamento sicuro, infine, sono coloro che riescono ad instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sulla simmetria e sul confronto consapevole e questo crea le condizioni per la creazione di un buon nucleo familiare.

In altri casi, invece, il desiderio di maternità diventa soprattutto una scelta strumentale, allo scopo di risolvere problemi di coppia o per sanare un vuoto generato da una perdita personale.

Il desiderio di paternità

Ma non ci dimentichiamo che quando nasce un bimbo, nasce una mamma ma nasce anche un papà. Cosa accade nella mente degli uomini quando sta per arrivare un figlio? Fino a poco tempo fa, l’uomo si preoccupava principalmente di garantire la discendenza della propria famiglia e del proprio nome, si occupava soprattutto di mantenere economicamente la famiglia e l’educazione era spesso autoritaria e stabilita da lui stesso che svolgeva il ruolo di “capo-famiglia”, mentre le donne si occupavano principalmente della crescita e dei bisogni primari e affettivi dei bambini.

Perché invece oggi un uomo desidera avere un figlio? Secondo Finzi e Battistin, le motivazioni sono più frequentemente di natura affettiva e inconscia; il desiderio maggiore è quello di trasmettere il meglio di sé al proprio figlio, di dargli ciò che avrebbe voluto avere lui stesso e che non ha ricevuto. Un figlio diventa un prolungamento di sé e della propria identità; il desiderio di paternità si connota di elementi affettivi e personali legati alla propria storia di vita passata e presente e compaiono anche nella mente dei futuri papà, fantasie e sogni del proprio “figlio ideale”. In epoca attuale un figlio svolge spesso una funzione di realizzazione personale, approvazione e affermazione della propria identità sociale positiva.

Dunque, le motivazioni che possono portare alla decisione di avere un figlio e che possono far affiorare il desiderio di maternità e paternità sono molteplici, individuali e relazionali e spesso legate alla storia di vita e di attaccamento di ciascun partner.

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.

Introduzione – La domanda

Nel corso della sua storia, l’umanità è stata affascinata da una domanda che è semplice da porre, ma di resistente risoluzione: «Come funziona il cervello
I dati relativi alla ricerca sul cervello sono esplosi in diversità e scala, fornendo una struttura informativa senza precedenti in entrambe le forme “anatomiche” (naturale e artificiale).
Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.
I processi di pensiero, e quindi l’intelligenza, sono meccanizzabili tramite programmi per computer?

La prospettiva von Neuman/Turing – Il calcolo

Per parlare di computazione, dobbiamo avere una rigorosa teoria di cosa sia e di cosa non sia. Per tale motivo la storia dell’informatica e delle scienze del cervello, ad un certo punto, si sono intrecciate.

Anche nei sistemi biologici (Palsson, 2006) è ormai consuetudine trattare le reti metaboliche, normative e di segnalazione come se fossero algoritmi o programmi. Ma nello specifico la computazione rimanda ad una natura materiale del pensiero. Nel suo manoscritto incompiuto The Computer and the brain, von Neumann (1958), discute se il cervello possa essere pensato o meno come una macchina informatica e identifica somiglianze e differenze tra il calcolo naturale e artificiale.

Per simulare, attraverso un insieme di regole di calcolo, alcuni comportamenti della struttura cerebrale degli esseri viventi, occorre conoscere la struttura del cervello umano e cercare di riprodurlo con un modello matematico (Bishop, 1995).
Neumann descrisse il computer come analogo a un cervello, con un input “organo” (simile ai neuroni sensoriali), un ricordo, un livello aritmetico, un “organo” logico (simile ai neuroni associativi) e un “organo” di uscita (simile ai motoneuroni).

Nello stesso periodo storico, Turing, nel suo articolo del 1950 su Mind, sosteneva che i dispositivi informatici potrebbero emulare l’intelligenza, portando alla sua proposta del test di Turing. Egli, durante la seconda guerra mondiale, credette che fosse necessaria una “macchina per combattere un’altra macchina” (l’enigma).

Gran parte del dibattito filosofico su questo problema si è incentrato sulla questione se le menti siano Turing-equivalenti (ossia, se esiste qualcosa che la mente può e che le macchine di Turing non possono fare).
Odiernamente, la questione che più sta a cuore agli scienziati cognitivi – e sulla quale la teoria computazionale della mente prende una posizione precisa – è se l’architettura della cognizione (umana) somigli in modo interessante all’architettura di quel particolare tipo di computer che è la macchina di Turing (Fodor, 1999).

Il concetto di Turing di una macchina di calcolo, a sua volta, ci mostra come collegare la sintassi alla causalità, in quanto è possibile progettare un meccanismo in grado di valutare qualsiasi funzione formalizzabile, ovvero delimitare la classe di funzioni che sono “computabili” nel senso tecnico di essere decidibili o valutabili dall’applicazione di una procedura o di un algoritmo. Molti processi fisici e biologici possono essere caratterizzati in termini algoritmici; non tutte le funzioni matematiche sono computabili in questo senso, e mentre questo fu conosciuto dai matematici nel 19° secolo, non fu fino al 1936 che Alan Turing propose una caratterizzazione generale della classe delle funzioni computabili. È in questo contesto che ha proposto la nozione di una “macchina di calcolo“, una macchina che fa le cose analoghe a ciò che un matematico umano fa per “computare” una funzione (Horst, 2011).
Turing stesso sembra aver pensato che una macchina operante in questo modo avrebbe fatto letteralmente le stesse cose che i compiti eseguiti dall’uomo fanno – che sarebbe “duplicare” quello che fa il computer umano.

Il pensiero di Vittorio Somenzi – La forma

Senza entrare nella complessa discussione che si svolgeva negli anni Cinquanta e Sessanta intorno al tentativo di stabilire analogie formali tra la struttura matematica dei concetti di informazione ed entropia (Corbellini, 1991), l’epistemologo italiano Vittorio Somenzi, suggeriva di attribuire al vivente “il ruolo di trasformatore della forma dello stimolo nella forma della risposta, la quale può variare o addirittura mancare, a seconda della forma assunta al momento dalle strutture interne del vivente, sia ereditaria o sia ambientale la causa di tale loro conformazione” (Somenzi, 1967). E continuava con una metafora particolarmente efficace. “Come il solco del disco è ‘un solo e medesimo solco, sia che lo si guardi al microscopio o che lo si percorra con una puntina collegata a un emettitore di suoni, così la forma di una rete di cellule nervose è ‘una sola e medesima forma’, sia che se ne osservi la geometria delle strutture molecolari, sia che se ne registri l’attività elettrica, sia che si esamini il comportamento dell’animale pilotato da tali cellule” (ibidem).
Per raggiungere tale livello, l’intelligenza artificiale ha modellato il cervello in termini di “forma”, tantoché la rete neurale (artificiale) è un modello computazionale per eccellenza.

Conclusioni – La risoluzione del problema

Questa dissertazione ha impegnato principalmente due chiavi di lettura: 1) Una procedura per la computazione (un modello matematico astratto) e 2) un’idea di “macchina programmabile” (in un parallelismo tra cervello naturale e artificiale).

Tuttavia le coordinate teoriche e scientifiche della visione materialistica delle basi naturali del pensiero, dopo decenni, percorrendo lo stesso tragitto teorico dei due matematici, procedono verso una teoria della complessità computazionale (una branca della teoria della computabilità) che studia le risorse minime necessarie (principalmente tempo di calcolo e memoria) per la risoluzione di un problema.

I problemi sono classificati in differenti classi di complessità, in base all’efficienza del migliore algoritmo noto in grado di risolvere quello specifico problema (Atallah Mikhail, 1999).

La matrice ACT. Guida all’utilizzo nella pratica clinica (2017) – Recensione del libro

La matrice ACT è un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

 

In Italiano ci sono molti testi che parlano, a diversi livelli, di ACT (Acceptance and Commitment Psychotherapy) e di psicoterapia cognitivo comportamentale di terza generazione.

Molto spesso, in questi volumi, si fa riferimento ad altri testi che possano aiutare il lettore a comprendere meglio di cosa l’ ACT tratti e di come questa sia in definitiva una tecnologia, una tecnica e/o un’applicazione comportamentale /cognitiva del modello di base di riferimento che è la RFT (Relational Frame Theory).

A questa spiegazione generale, solitamente, non seguono, però, elementi pratici di collegamento all’ approccio RFT.

La matrice ACT – Restituire al linguaggio la funzione comunicativa

La matrice ACT è, invece, un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

Kevin Polk, ideatore della Matrice, è riuscito a semplificare l’hexaflex (il diagramma di base dei processi ACT) nel diagramma della matrice.

La matrice ACT nasce da un’ idea semplice nell’applicabilità, quanto complessa a livello teorico, di restituire al linguaggio la funzione comunicativa, al di là dei significati percepibili derivati .

Questa sintesi è nata a partire dall’ esperienza di Polk per i contesti clinici nell’evocazione di ricordi traumatici, unitamente allo studio del Derived Relational Responding: Application for Learners with Autism and Other Developmental Disabilities (Barnes-Holmes, 2009), un libro che contiene degli esempi per coinvolgere i bambini in compiti di collocazione, per aiutarli ad acquisire abilità verbali, incluse le abilità di alto livello come il Perspective Taking.

Cos’è la matrice ACT?

Il libro La matrice ACT è una guida clinica dettagliata all’utilizzo della matrice Act.

La matrice è un diagramma che implica la capacità di notare un diagramma che gli autori hanno ritenuto utile al fine di attivare la flessibilità psicologica in contesti clinici e di gruppo.

Il costrutto nasce infatti dall’ esigenza di restituire uno strumento clinico più semplice del diagramma dell’ Hexaflex, risultato, a detta degli autori, poco pratico per i pazienti.

Quando si parla di matrice si fa riferimento alla costruzione di una vera e propria matrice grafica composta da due linee perpendicolari che organizzano 4 quadranti .

Il diagramma della matrice è composto da due linee perpendicolari. La linea verticale è la linea dell’esperienza. Quest’ ultima definisce la differenza tra gli aspetti della nostra esperienza che avvengono tramite i nostri cinque sensi e la parte della nostra esperienza che emerge dalla nostra attività mentale o dalle abilità introspettive.

La linea orizzontale è la linea del comportamento. Quest’ultima definisce la differenza tra azioni che hanno la funzione di allontanarci da esperienze indesiderate (per esempio muoversi via dalla paura) e azioni che hanno la funzione di avvicinarci a chi e a cosa è importante (per esempio muoverci verso ciò che amiamo).

La flessibilità cognitiva viene stimolata dalla matrice attraverso la ricontestualizzazione funzionale dell’esperienze: i comportamenti e le storie vengono inserite all’interno dei quattro quadranti formarti da due linee perpendicolari che favoriscono non solo abilità di distanziamento cognitivo, ma anche di perspective taking .

Tale operazione stabilizzante viene svolta attraverso la costruzione di frame (cornici) deittiche (io-tu), frame locativi (tu-qui; tu- Là) e frame temporali (Tu-qui-ora; Tu-là-allora; Tu-là-poi), tali da permettere un’osservazione consapevole della nostra esperienza.

Questo tipo di engagement con il paziente permette, secondo le teorie della RFT/ACT, di ridurre gli effetti di  fusione cognitiva con una narrazione pregressa di Sé, generalizzata con elementi di identità favorenti, verosimilmente, immobilità funzionale e/o appresa.

Se, come me, avete avuto la fortuna di partecipare ad un workshop di Benjamin Schonendorff, autore, insieme a Kevin Polk, Mark Webster e Fabian O.Olaz , di questo volume La matrice ACT, avrete sentito parlare della matrice ACT, come della possibilità di fare mindfulness e praticare l’ accettazione con le parole.

Assunto dell’ ACT, come in RFT (Relational Frame Theory) o in FAP( Functional Analytic Psychotherapy) è che le parole non si sprecano e devono essere inserite all’interno di cornici relazionali e verbali proprie del processo, ossia, il linguaggio, inteso come comportamento funzionale appreso che segue le regole dell’apprendimento per le funzioni, non solo di generalizzazione, ma anche di derivazione funzionale dal contesto in cui lo specifico comportamento verbale è stato appreso.

Secondo il modello teorico della RFT e di quello applicato della FAP e dell’ ACT, l’uso del linguaggio non è mai fine a se stesso e svolge sempre una funzione comunicativa nel senso stretto di comunicazione, ossia, alla possibilità, in psicoterapia di usare il linguaggio in un ottica funzionalista contestuale e non solo dialogica socratica.

Quando ci si approccia allo studio di testi di Terza Onda di matrice contestualista funzionale è importante sapere, infatti, che i presupposti teorici riguardano un’analisi a tre termini di tipo Skinneriana (Antecedente, Comportamento, Conseguente) e post Skinneriana di derivazione della risposta linguistica, dipendente dal contesto e funzionale al contesto stesso.

Per semplificare questo costrutto si potrebbe dire che nelle terapie di terza onda la cosa importante è far succedere le cose in un contesto controllato, anche con le parole, piuttosto che raccontare le cose, al fine di sviluppare competenze, piuttosto che spiegare contenuti.

La matrice ACT – L’ aikido verbale

All’interno della matrice ACT, tale utilizzo del linguaggio, viene definito dagli autori come Aikido verbale. L’ aikido verbale è la possibilità di usare il linguaggio del paziente all’interno di una cornice relazionale, in cui le parole del paziente non devono assumere una dimensione competitiva disfunzionale, bensì siano inserite in una cornice relazionale funzionale.

L’importanza di inserire le parole all’interno di una cornice relazionale è alla base del modello RFT dove l’uso delle parole non è legato soltanto ai significarti delle stesse, ma al significato nel contesto verbale in cui queste vengono dette e sono state apprese.

Gli autori sostengono che l’uso della matrice insegni ai pazienti a notare le loro scelte verso le cose importanti, rispetto alle scelte fatte per allontanarci da esperienze ritenute e valutate avversive.

Secondo l’ RFT/ACT, infatti, esistono almeno due livelli dell’esistenza, uno è quello percepito dai sensi e uno costruito dalle parole, o meglio, dalla tipicità dell’essere umano di nominare gli oggetti del mondo e da questi di derivare non solo reti semantiche, ma anche reti contestuali, in grado non solo di farci muovere verso le cose importanti per la nostra esistenza ma anche farci muovere lontano da esperienze avversive/punitive o semplicemente percepite tali.

In tale accezione il libro La matrice ACT fornisce una vera e propria guida pratica su come lavorare sul costrutto dei valori, così importante nell’ ACT, al fine di promuovere le scelte e la flessibilità psicologica, ma che troppo spesso viene difficilmente manualizzato dal terapeuta Act poco esperto.

Il valore è in ACT un’operazione stabilizzante in assenza di rinforzi contingenti e va ricercato e perseguito proprio in presenza delle difficoltà e del dolore,  per aiutare il paziente a scegliere quello che per lui è importante e non per essere lontano da quello che teme o dal dolore stesso.

La Matrice ACT è un manuale da applicare, leggere e studiare, è stato costruito molto bene ed è in linea con i manuali applicativi, ci sono domande per accertare la comprensione dei contenuti ed il protocollo è ampiamente manualizzato per sedute e presentato in base alle tipologie di pazienti, con i parametri per l’applicazione non solo ai casi singoli, ma ai minori, coppie e gruppi.

L’edizione Italiana è stata curata in maniera impeccabile dalla dottoressa Prevedini che ha condotto insieme al Dott. Schoendorff diversi workshop sulla matrice.

Il significato della metacognizione nella terapia metacognitiva interpersonale e nella terapia metacognitiva

Negli ultimi 20 anni la terapia cognitiva è andata incontro a numerose rivoluzioni sia in ambito teorico che in ambito clinico. Uno dei concetti di base della teoria cognitiva che ha subìto recenti sviluppi è quello di metacognizione, che troviamo protagonista sia nella terapia Metacognitiva Interpersonale che nella terapia Metacognitiva. Tuttavia, all’interno di questi due modelli, il concetto assume significati diversi, dalla definizione teorica alle implicazioni in ambito clinico.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI)

Nel modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, il concetto di metacognizione fa riferimento a tutte quelle funzioni mentali che permettono all’individuo di avere una rappresentazione degli stati mentali propri e altrui, di riflettere su di essi e di usare tali conoscenze per affrontare in modo efficace situazioni problematiche dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale (Di Maggio e Semerari, 2003).

Secondo questo approccio tutti noi compiamo continuamente atti metacognitivi per identificare e comprendere cosa proviamo, cosa ci spinge ad agire, e per formarci una visione integrata di noi stessi in relazione al mondo. Utilizziamo la metacognizione anche quando cerchiamo di capire gli stati mentali degli altri. La definizione di metacognizione con queste accezioni ha molto in comune con gran parte delle funzioni analizzate nell’ambito della Teoria della Mente, della cognizione sociale, dell’alessitimia e della mentalizzazione (Popolo et al., 2014).

La TMI nasce come chiave di lettura e strumento clinico per i disturbi di personalità, con particolare attenzione ai pazienti inibito-coartati. Questa tipologia di pazienti è caratterizzata da povertà narrativa, difficoltà di accesso alle proprie rappresentazioni e scarso senso di agency (Di Maggio et al., 2013). Secondo Di Maggio, Semerari e coll. (2007) è grazie al riconoscimento degli stati mentali propri e altrui che diventa possibile riflettere su di essi e compiere degli atti decisionali, risolvere problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare in modo efficace i propri desideri con gli altri.

Le funzioni metacognitive analizzate nella TMI sono tre, ognuna delle quali comprende specifiche sotto-funzioni che agiscono in modo relativamente indipendente e a un grado di complessità crescente.
1) Autoriflessività: si intende l’abilità di pensare, comprendere e ragionare sui propri stati mentali. E’ composta dalle sotto-funzioni di monitoraggio (capacità di identificare pensieri, credenze ed emozioni), differenziazione (capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni) e integrazione (abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dall’alternarsi di stati mentali diversi).
2) Comprensione della mente altrui: fa riferimento alla capacità di comprendere e di riflettere sugli stati mentali degli altri. Comprende la sotto-funzione di decentramento, che consiste nella capacità di mettersi nei panni degli altri cercando di operare delle inferenze sui loro stati mentali indipendentemente dalla propria prospettiva, dal proprio coinvolgimento nella relazione e dal proprio modo di interpretare gli eventi.
3) Mastery: insieme delle modalità che il paziente mette in atto per fronteggiare le situazioni in modo consapevole. E’ un processo metacognitivo di controllo che consiste nell’utilizzare le conoscenze psicologiche per decidere, formulare strategie, risolvere i conflitti interpersonali. Il presupposto di base è la capacità di rappresentarsi gli stati mentali problematici o le situazioni conflittuali come problemi psicologici da risolvere in modo attivo.

La terapia Metacognitiva Interpersonale agisce favorendo lo sviluppo delle funzioni metacognitive, a partire dalle più semplici che in terapia sembrano mal funzionanti. Si utilizzano tecniche specifiche mirate all’acquisizione stabile di un funzionamento metacognitivo. Per promuovere le singole funzioni non si segue un percorso lineare, ma è necessario muoversi avanti e indietro all’interno della terapia per rinsaldare funzioni precedentemente acquisite ma che possono risultare fallimentari in un contesto diverso.

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva (MCT)

Nella Terapia Metacognitiva di A. Wells la metacognizione non è vista come abilità o funzione, bensì come l’insieme dei fattori che governano la valutazione, il monitoraggio e il controllo delle cognizioni. Tali fattori si possono dividere in credenze, esperienze e strategie. Per credenze metacognitive si intende l’insieme delle idee e delle teorie che ognuno di noi ha rispetto al contenuto dei propri pensieri. Ad esempio, possiamo credere che alcuni pensieri siano dannosi per la nostra salute, oppure che ci accadrà qualcosa di brutto a causa di pensieri che abbiamo avuto nella mente. Le credenze influenzano l’importanza che attribuiamo ai pensieri e quindi hanno delle ripercussioni sulla modalità con la quale reagiamo a tali pensieri. Le esperienze metacognitive fanno riferimento alla modalità con la quale le persone valutano le situazioni e le sensazioni che riguardano la propria condizione mentale. Nella MCT si presuppone che giudicare negativamente i propri pensieri non faccia altro che alimentare la percezione della minaccia, condizione che porta a giustificare i successivi sforzi volti a monitorare il proprio pensiero. Infine, le strategie metacognitive sono l’insieme delle tattiche che gli individui mettono in atto per controllare e modificare i propri pensieri; ad esempio, concentrarsi sulla minaccia in modo da essere pronti ad affrontare tutti gli eventuali imprevisti.

La metacognizione non si limita quindi a un esercizio di autoconsapevolezza dell’esperienza interna, ma include l’autoregolazione del funzionamento mentale (Caselli, 2014). Questa definizione deriva dagli studi nell’ambito della psicologia dello sviluppo e, in seguito, ha trovato applicazione nella psicologia della memoria, nella psicologia dell’invecchiamento e nella neuropsicologia. Solo di recente è stato riconosciuto che la metacognizione è una base fondamentale per la maggior parte dei problemi psicologici (Wells, 2012).

L’idea che la metacognizione valuti, monitori e controlli il funzionamento cognitivo presuppone la distinzione tra due livelli di funzionamento mentale, un livello oggetto e un livello metacognitivo (Nelson e Narens, 1990). Nel livello oggetto gli individui considerano pensieri e credenze come dati di realtà, non sono in grado di distinguere ciò che appartiene internamente alla coscienza da ciò che appartiene alla realtà. Dal punto di vista clinico, questo tipo di funzionamento è un fattore di rischio perché ostacola la possibilità di modificare le credenze e le strategie che mantengono il malessere e perché favorisce la percezione di credenze e strategie come dati di realtà e non come scelte personali. Ad esempio, nella modalità oggetto il rimuginio è visto come atto necessario per risolvere problemi; trattandosi spesso non di problemi reali bensì di ipotesi negative sul futuro, questi problemi non possono essere risolti, quindi il rimuginio non può terminare e la regolazione dello stato d’ansia non può essere raggiunto.

L’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di trovare soluzioni, ma di raggiungere una posizione diversa, distaccata, rispetto ai propri eventi mentali. In questo caso, la soluzione consiste nel vedere il rimuginio come un atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse. Per raggiungere questa consapevolezza occorre però spostarsi sul secondo livello di funzionamento, quello metacognitivo, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così a un’unica capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli, 2017).

Questa è la sostanziale differenza tra auto-consapevolezza e meta-consapevolezza, ovvero la consapevolezza di sé, così come la capacità di riflettere sugli stati mentali propri e altrui, può avvenire a un livello oggetto, cognitivo, oppure a un livello metacognitivo.

Infine, sempre secondo la MCT, il passaggio dal livello oggetto al livello metacognitivo non è frutto di una capacità più o meno sviluppata, ma è una funzione che tutti hanno, il punto è che spesso gli individui la utilizzano su certi pensieri e non su altri. L’obiettivo della terapia quindi non è sviluppare specifiche funzioni metacognitive, bensì mostrare agli individui che possiedono questa capacità e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, possono imparare a utilizzarla anche in risposta a quei pensieri che per loro sono particolarmente salienti o disturbanti. Ad esempio, gli individui possono scoprire che il rimuginio non è incontrollabile né necessario o utile per trovare delle soluzioni ai problemi, soprattutto per quelli che devono ancora realizzarsi nella realtà.
La Terapia Metacognitiva si è dimostrata particolarmente efficace nella cura dell’ansia e della depressione.

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