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Miglioramento delle abilità cognitive: la rivalsa dei videogiochi d’azione

Una nuova ricerca effettuata a livello internazionale mostra che alcuni videogiochi, in particolare i videogiochi d’azione, influenzano le abilità cognitive come la percezione, l’attenzione e i tempi di reazione.

 

La scoperta deriva da un’analisi di oltre 15 anni di dati raccolti da un team di psicologi, guidati dall’università di Ginevra (UNIGE), in Svizzera. Gli esperti spiegano che il cervello umano è malleabile: apprende e si adatta. Numerosi studi di ricerca si sono focalizzati sull’impatto dei videogiochi d’azione sul cervello misurando le abilità cognitive ma, nella nuova ricerca, i ricercatori hanno cercato di quantificare come i videogiochi d’azione abbiano un impatto cognitivo.

La valutazione ha portato a due meta-analisi, pubblicate nel giornale Psychological Bulletin, attraverso le quali è emerso un significativo miglioramento nelle abilità cognitive dei giocatori.

Gli psicologi hanno studiato l’impatto dei videogiochi sulla mente umana in dati risalenti alla agli anni ’80, quando Pacman fu creato e molti altri giochi si diffusero.

I videogiochi d’azione influenzano le abilità cognitive dei giocatori?

Il presente studio si focalizza su uno specifico genere di videogioco, definito d’azione che comprende videogames da guerra, da combattimento, lotta in arena, sparatoria e corse di macchine.

I ricercatori hanno cercato di rispondere a una domanda centrale all’interno della ricerca:

I videogiochi d’azione influenzano le abilità cognitive dei giocatori? […] Abbiamo deciso di assemblare tutti i dati rilevanti dal 2000 al 2015 nel tentativo di rispondere a questa domanda, in quanto era l’unico modo per avere una visione d’insieme del reale impatto dei videogiochi d’azione – dichiara la il ricercatore Bavelier, professore alla sezione di Psicologia all’UNIGE.

Gli psicologi dell’UNIGE, della Columbia University, Università della California e dell’Università del Wisconsin hanno analizzato la letteratura pubblica nel corso di un anno (articoli, tesi e abstract di conferenze). Inoltre, gli studiosi hanno contattato oltre 60 professori, chiedendo loro per dei dati non pubblicati che potrebbero apportare dei chiarimenti sul ruolo dei videogiochi d’azione nelle abilità cognitive. Due meta-analisi sono emerse dalla ricerca.

Nella prima meta-analisi sì è evidenziato che un totale di 8,970 individui compresi tra un’età di 6 anni a una di 40, comprendendo giocatori d’azione e non giocatori, hanno effettuato numerosi test psicometrici in studi condotti da laboratori di tutto il mondo allo scopo di valutare le loro capacità cognitive. L’assessment includeva l’attenzione spaziale (ad esempio individuare velocemente un cane in un insieme di animali) così come valutare le loro skills nel gestire simultaneamente task multipli e il cambio dei loro piani in accordo con regole predeterminate. E’ stato trovato che la cognizione dei giocatori d’azione era migliore di metà di una deviazione standard rispetto ai non giocatori.

Ad ogni modo, questa prima meta-analisi non è riuscita a rispondere alla domanda centrale.

Era necessario individuare il profilo tipico del giocatore – sottolinea Benoit Bediou, ricercatore della sezione di psicologia. – Giocano ai videogiochi d’azione perché hanno già alcune abilità cognitive che li rendono buoni giocatori? Oppure, al contrario, sono le loro alte capacità cognitive che si sono effettivamente sviluppate giocando ai videogiochi?

Gli psicologi hanno proceduto ad analizzare gli studi di intervento come parte di una seconda meta-analisi che comprendeva 2,883 (maschi e femmine) giocatori per un massimo di un’ora a settimana, le cui abilità cognitive erano testate prima del training e successivamente gli stessi erano divisi in due gruppi in maniera random: un primo gruppo giocava ai videogiochi d’azione (war e shooting), il secondo ai giochi di ruolo o di altro genere (SIMS, Puzzle, Tetris). Entrambi i gruppi accumulavano almeno otto ore di gioco per una settimana e almeno un tot di ore superiore alle 50 ore per 12 settimane. Alla fine del training, i partecipanti venivano sottoposti a un ulteriore un test cognitivo per verificare se ci fossero stati effettivi cambiamenti nelle loro abilità cognitive.

L’obiettivo era scoprire se gli effetti del videogioco d’azione sul cervello era casuale o meno […] Ecco perché questi studi di intervento confrontano e contrappongono sempre un gruppo che è spinto a giocare a un gioco d’azione con uno spinto a giocare a un videogioco di ruolo, in cui i meccanismi sono molto diversi. Questo gruppo di controllo assicura che gli effetti risultanti dal gioco d’azione derivino davvero dalla natura di questo tipo di gioco.

I risultati erano fuori discussione: gli individui che giocavano ai videogiochi d’azione aumentavano le loro abilità cognitive più di quelli che giocavano ad altri tipi di giochi. La differenza delle abilità cognitive tra questi due gruppi di allenamento era uguale a un terzo di una deviazione standard.

La ricerca, che è stata condotta in diversi anni in tutto il mondo, dimostra i reali effetti dei videogiochi d’azione sul cervello e apre la strada all’utilizzo di videogiochi d’azione per espandere le capacità cognitive – sottolinea Bediou.

Nonostante le buone notizie per i giocatori accaniti, vale la pena sottolineare che questi effetti benefici sono stati osservati in studi che chiedevano agli individui di spendere del tempo per un gioco per un periodo di molte settimane o mesi piuttosto che impegnarsi in una grande quantità di giochi in una singola seduta. I ricercatori spiegano che, come è vero in qualsiasi attività di apprendimento, brevi periodi di pratica ripetuta adeguatamente sono preferiti rispetto agli episodi saltuari o ossessivi.

The place (2017): riflessioni sul film – Cinema e Psicologia

The Place: Un uomo seduto a un bar, sempre allo stesso posto; intorno a lui, una ruota di persone in attesa, tutte con dei desideri da realizzare, con qualcosa da recuperare o da conquistare, che si alternano, in evidente ansia o determinazione, a quel tavolo. Donne e uomini disposti a qualunque cosa pur di ottenere quel che il loro cuore desidera, per sé o per i propri cari. Il nuovo film di Paolo Genovese, The Place, già dalle prime scene appare denso di enigmi, carico di domande a cui l’uomo comune stenterebbe a dare una risposta decisa, convinta, senza ripensamenti.

 

Riflessioni psicanalitiche sul film The Place

“Cosa siete disposti a fare per ottenere ciò che volete? Io vi dico quello che dovete fare e, se lo porterete a termine, otterrete quello che desiderate” è la cantilena dell’uomo seduto che, come l’Es di freudiana memoria, contiene, giustifica ed esalta l’Eros di quella molteplicità di storie e personaggi (la donna che progetta di ottenere un bacio all’insegna del tradimento per far ingelosire il proprio uomo e far rinascere la passione scemata, l’uomo che vuole possedere una donna da copertina solo per una notte, la donna che si vede brutta ed è disposta a compiere una rapina a danno di una cara amica per pagare la costosissima operazione chirurgica che le cambierà la vita, la donna a cui viene chiesto di fabbricare una bomba da far esplodere in un luogo pubblico per far guarire il marito dall’Alzheimer), raffigurando nel contempo le richieste brutali e sanguinarie del Thanatos, chiamato all’appello come garanzia di appagamento per quell’Eros frustrato.

Serbatoio di amore e morte, quell’uomo seduto allo stesso posto, che ascolta pazientemente i dettagli più macabri, senza mai scomporsi “come uno psicologo che vuole creare un ambiente amichevole” e registra giornalmente i progressi nella realizzazione di ciascun desiderio, testimoniando le tappe di un dialogo diabolico tra desiderio cieco di possesso o rivincita e limite morale.

E qui riecheggia nitidamente l’Ombra cara a Jung, proiettata sull’uomo seduto, di cui nulla è dato di sapere della storia personale, proprio come la forma indistinta e anonima di un male dalle sembianze insospettabili, innocue e perciò stesso pericolosissimo.
Perché, se forse non tutti saranno disposti a fare ciò che la grande agenda da cui l’uomo dispensa le prove e i premi dispone per ciascuno (compito maledetto in cambio della realizzazione del desiderio bramato) tutti sono disposti a puntare il dito sulla malvagità inaccettabile di quell’uomo sapiente, magico, “che sa quello che chiede” eppure “che chiede cose così orrende”.

Ecco però che l’Ombra, proiettata su uno sconosciuto e colpevolizzata delle peggiori mostruosità, replica alle accuse, chiarendo subito “Chiedo queste cose solo perché c’è chi è disposto a farle; tu hai ucciso per te, non per me” riportando l’attenzione sulla dualità intrinseca del bene e del male che appartiene alla natura umana, e sulla partecipazione del soggetto alla scelta del male.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

C’è qualcosa di terribile in noi. Non sempre siamo liberi di scegliere” qualcuno riconoscerà infatti a un certo punto dando avvio ad alcuni interrogativi che si snodano per tutta la durata del film: che ruolo ha l’Io freudiano e il censore Super Io nell’inibire l’espressione indiscriminata del male in nome di un bene egoistico? E’ davvero l’Io impotente, schiavo, di fronte all’urgenza dei desideri, cedevole in nome di essi nel sacrificare elementi quali la civiltà, il buon senso e l’altruismo, e il Super Io del tutto inefficace a regolare il narcisismo insito in certe scelte personalistiche? Si può ancora parlare di libertà come svincolo da un destino di barbarie e violenze, come compromesso tra i propri e gli altrui diritti di godimento e sicurezza? Che ruolo ha la profezia che si autoavvera di Merton nel determinare l’ineluttabilità di un destino segnato dalla strage, causato nient’altro che dalla (disperata?) assenza di soluzioni alternative al “male a fin di bene?”.

E’ possibile astenersi dal male?

E allora tutta la portata psicologica di The Place consiste a mio avviso nella soluzione a questi due interrogativi. E’ davvero possibile astenersi coscientemente dal male? Come equipaggiarsi di un Io robusto, cosciente del male attuabile e di cui deve rispondere in prima persona, e “custode di altre alternative possibili” in nome di una libertà che salva dall’“essere noi stessi il mostro che additiamo negli altri”? Quanto invece è inevitabile disconoscere l’Ombra, e quanto tale negazione/proiezione gioca un ruolo determinante nel deresponsabilizzare l’Io nella scelta di dire NO, in un nome di un destino (di comodo) fondato sul meccanismo psicologico della diffusione della responsabilità, che permette all’Es di travalicare le barriere della piena responsabilità morale?

Riuscirà insomma alla fine del film The place, la donna traditrice a riconquistare il proprio uomo macchiando il proprio amore di tradimento e sottraendo con l’inganno un altro uomo a una donna ignara? E l’uomo avido di sesso, dichiaratamente preferito alla costruzione di una famiglia che non saprebbe gestire, riuscirà a trascorrere una notte di passione senza freni, anche se sarà messa a repentaglio la vita di una bambina? Ancora ce la farà la donna che si crede poco avvenente a derubare una cara amica pur di raggiungere il suo scopo? E la povera moglie che farebbe di tutto per restituire la salute al marito malato cederà al mostro interiore che le indica la via della strage di poveri innocenti quale soluzione al dolore che la attanaglia e che la renderà “non più lei?”.

Tutti allora al cinema per un finale che riserva (forse) sorprendenti alternative!

Attraverso 50 anni di psicologia italiana di Cesare Cornoldi (2017) – Recensione

Cesare Cornoldi racconta 50 anni di psicologia italiana nel volume intitolato a se stesso e pubblicato da Erickson quest’anno. Attraverso 50 anni di psicologia italiana è un racconto che genera curiosità e che mostra con chiarezza come la psicologia, da che era una sorta di specializzazione della filosofia e della sociologia, si sia emancipata passando per lo stadio della psicoanalisi freudiana per poi approdare alla psicologia scientifica, comportamentale e poi cognitiva.

 

La biografia di Cesare Cornoldi in ” Attraverso 50 anni di psicologia italiana “

Seguiamo Cesare Cornoldi nei suoi studi e lo vediamo incrociare vari momenti significativi della storia d’Italia e molti dei futuri maestri della psicologia italiana.

Nato e cresciuto a Padova, già al Liceo incontra il coetaneo Ezio Sanavio, il futuro importante esponente della psicologia cognitiva clinica italiana, al giornalino studentesco. Dopo la maturità si iscrive a sociologia a Trento, lì dove sarebbe scoppiato dopo pochi mesi il ’68 italiano. A Trento assiste a qualche lezione di uno dei primi psicologi italiani, Fabio Metelli. Tuttavia, deluso dalla sociologia, in poche lezioni Cornoldi passa subito a filosofia a Padova. Nel corso di filosofia s’imbatte nel trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti e, attraverso lui, familiarizza con Freud e i primi rudimenti in psicologia.

L’interesse di Cesare Cornoldi per la psicologia comportamentale e cognitiva raccontato in Attraverso 50 anni di psicologia italiana

Dopo la laurea entra nella scuola di specializzazione in psicologia di Milano, dove incontra Cesare Musatti in persona tra i docenti. La psicoanalisi, però, lo convince sempre di meno, e passa alla psicologia comportamentale e poi cognitiva, incontrando altre figure storiche, come Marcello Cesa-Bianchi maestro di metodologia, Paolo Bozzi psicologo della Gestalt ed Ettore Caracciolo che introduce il comportamentismo in Italia e polemizza appassionatamente con la psicoanalisi. Incrocia anche Mario Capanna in una manifestazione studentesca. È curioso anche apprendere che negli anni milanesi era suo coinquilino quell’Ezio Sanavio, suo amico fin dai tempi del Liceo a Padova.

La passione per gli studi sull’apprendimento

Dopo la specializzazione Cornoldi torna a Padova con una borsa e inizia a collaborare con Giuseppe Mosconi –già incontrato nel corso a Milano- fondatore della psicologia del pensiero in Italia. Cornoldi inizia allora ad appassionarsi di apprendimento, che sarà la sua linea di ricerca di una vita. Gli anni passano e progredisce la carriera accademica di Cornoldi fino alla cattedra, sempre a Padova. Prosegue anche il racconto con altri incontri con importanti figure della psicologia italiana, come ad esempio Paolo Legrenzi e Guido Petter e altri ancora. A ognuno di questi personaggi storici il libro dedica delle vignette concise e informative.

La storia prosegue con i successivi studi di Cornoldi, la sua partecipazione all’importazione della rivoluzione cognitiva in Italia, i suoi studi sull’apprendimento dapprima da un punto di vista cognitivo e poi, più recentemente, metacognitivo (è questa la parte più istruttiva del libro) e i suoi incontri con personaggi importanti sia in Italia che all’estero e che qui è inutile elencare. Li troverete tutti nel libro, descritti in rapidi bozzetti e in piccoli episodi di vita vissuta.

La corteccia somatosensoriale – Introduzione alla Psicologia

La corteccia somatosensoriale, nota anche come area S1, è posizionata nel lobo parietale del cervello ed è imputata alla ricezione degli stimoli sensoriali. Ogni area sensoriale possiede una mappa somatotopica chiamata homunculus sensoriale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ homunculus della corteccia somatosensoriale primaria consiste in una rappresentazione non proporzionata del corpo umano, a esempio la bocca e le dita sono grandi, poiché ci sono molti neuroni sensibili a queste parti del corpo imputati alla ricezione degli stimoli provenienti da esse, mentre il tronco e gli arti sono piccole, poiché esistono meno neuroni adibiti alla sensibilità di queste parti. Le dimensioni della corteccia correlata ad un’area del corpo sono direttamente proporzionali alla densità delle proiezioni sensoriali afferenti e all’importanza degli impulsi sensoriali ricevuti da quella specifica zona del corpo.

L’ area somatosensoriale primaria è situata nella corteccia telencefalica, posteriormente alla scissura centrale, o di Rolando, e si estende nel lobo parietale fino all’altezza della scissura di Silvio. La corteccia somatosensoriale primaria corrisponde all’area 3b di Brodmann e occupa il giro postcentrale. Essa confina anche con l’ area motoria primaria, posteriormente con le aree sensitive secondarie ed associative del lobo parietale e temporale. Le altre aree che elaborano le informazioni somatosensoriali sono le aree 3a, 1 e 2 nel giro postcentrale e le aree 5 e 7 nella corteccia parietale posteriore.

Le aree 3a e 3b ricevono la maggior parte delle informazioni sensoriali che, successivamente, sono inviate, attraverso i neuroni cortico-corticali, alle aree 1 e 2 e alle aree motorie.

Dettagliatamente, l’area 3A riceve informazioni di tipo propriocettivo dai fusi neuromuscolari e dagli organi tendinei del Golgi. Le informazioni propriocettive comprendono lo stato di tensione delle articolazioni e informano il cervello della posizione occupata dal corpo nello spazio. L’area 3a proietta anche all’area motoria primaria (area 4) per integrare le informazioni relative alla volontà del movimento con quelle della propriocezione. L’area 3b, invece, riceve informazioni somatosensoriali relative al tatto, fine e grossolano, temperatura, dolore, pressione ecc., ed invia fibre efferenti all’area 1, riguardanti la tessitura degli oggetti, liscio o ruvido, e all’area 2 riguardante forma e dimensione.

Gli strati cellulari e le cellule della corteccia somatosensoriale

La corteccia somatosensoriale, esattamente come le altre aree, è formata da sei strati di cellule. Quindi, la maggior parte delle fibre afferenti proiettano al IV strato cellulare, costituito dai granuli interni, della corteccia somatosensoriale. Nell’area 3, invece, il III strato è più spesso rispetto agli altri per la presenza dello strato piramidale interno e per numerose fibre efferenti alle altre aree della corteccia.

In periferia, l’informazione sensoriale è recepita dai neuroni di primo ordine che la trasportano fino all’interno del midollo osseo. Il soma dei neuroni di primo ordine è presente al livello del ganglio, mentre all’interno del midollo avviene una sinapsi con i neuroni di secondo ordine che fuoriescono dalla sostanza grigia in formazioni, definite fasci che, unendosi, formano le colonne dorsali, che decussano e ascendono direttamente a livello del talamo, trasportando informazioni sensoriali.

I neuroni di secondo ordine, della via della colonna dorsale, ricevono sinapsi a livello del nucleo gracile e del nucleo cuneato, ambedue presenti nel midollo. Da qui, immediatamente, decussano, e si spostano controlateralmente rispetto alla colonna dorsale. A seguito della decussazione, la via prende il nome di lemnisco mediale. Il neurone di secondo ordine, giunto nel talamo, fa sinapsi con il neurone di terzo ordine, a livello di specifiche aree talamiche definite nuclei, che innervano direttamente la corteccia somatosensoriale.

Unità sensoriali, campi recettivi e fascicoli

Una unità sensoriale è costituita dall’insieme dei recettori sensoriali e dal suo neurone afferente che trasporta le informazioni ascendenti. Un campo recettivo, invece, è costituito da una regione circoscritta dai recettori di una unità sensoriale. Tanto più grandi sono i campi recettivi, tanto minore è la sensibilità specifica della zona; ad esempio la zona del viso è molto sensibile poiché possiede un buon numero di campi recettivi.
L’inibizione laterale determina la prevalenza di uno stimolo forte, rispetto ad altri deboli applicati a zone che possiedono più campi recettivi in comune. In questo modo, l’organismo, è informato dello stimolo in modo più preciso giacché i campi laterali poco sollecitati sono silenziati. L’inibizione si realizza grazie ad una collaterale del neurone primario che fa sinapsi con un interneurone inibitorio il quale, a sua volta, esercita la sua azione inibendo la trasmissione sinaptica tra un neurone primario adiacente e uno secondario.

Il fascicolo gracile riceve e trasporta le informazioni di natura epicritica, ovvero finemente localizzata, relative alla pressione, alla propriocezione e agli stimoli meccanici in generale. L’area di copertura del fascicolo gracile è molto vasta, giacché riceve stimoli degli arti inferiori fino all’addome.

Il fascicolo cuneato, invece, al pari del gracile, riceve informazioni epicritiche e di natura meccanica dall’addome trasportandoli fino agli arti superiori.

Le funzioni e le diverse vie della corteccia somatosensoriale

Le principali funzioni svolte dell’area S1 sono: la localizzazione dello stimolo periferico, la valutazione dell’intensità dello stimolo, la propriocettività e il riconoscimento della forma degli oggetti

Inoltre, le vie somatosensoriali trasferiscono l’informazione sensoriale dagli arti alla corteccia somatosensoriale. Il sistema di trasporto prevede un iniziale recettore sensoriale, che può appartenere alla classe dei nocicettori, dei termorecettori o dei meccanorecettori, che trasferisce una serie di potenziali d’azione fino alla corteccia.

Le differenti vie, divergono per il tipo di stimolo trasportato, per lo spessore delle fibre, per la diversa velocità e per il messaggero utilizzato a livello delle sinapsi.

Gran parte degli stimoli sensoriali periferici giungono nell’area S1 attraverso i sistemi lemnisco mediale e anterolaterale.

La via della colonna dorsale, che diventa del lemnisco mediale, è una fondamentale via sensoriale che trasporta informazioni localizzate, derivanti da stimoli di natura meccanica. Le fibre della colonna dorsale sono definite, in base alla dimensione, spesse e conducono velocemente l’impulso nervoso. Il mediatore chimico utilizzato per codificare l’impulso è il glutammato.

Vie anterolaterali o spinotalamiche

Le vie anterolaterali o spinotalamiche trasportano informazioni recepite dai nocicettori, o recettori del dolore e altri stimoli derivanti dal tatto. A differenza della via della colonna dorsale, la qualità delle informazioni è definita protopatica poiché la definizione delle stesse non è accurata e dettagliata. Esattamente come per la via della colonna dorsale, l’informazione nervosa decussa. Pertanto l’informazione sensoriale sarà elaborata dalla corteccia destra e viceversa. Il mediatore chimico, a livello delle sinapsi, è di natura peptidica e prende il nome di sostanza P.

La via anterolaterale può essere inibita a livello della sinapsi tra neurone di primo e neurone di secondo ordine. Dai centri di controllo superiori, provenienti dal sistema nervoso centrale, possono discendere dei neuroni primari che, a loro volta, fanno sinapsi con un interneurone inibitorio. L’interneurone inibitorio blocca la liberazione di sostanza P, mediante un rilascio di encefalina, che è un potente inibitore del rilascio del peptide a livello sinaptico.

Dolore localizzato e dolore riferito

Gli stimoli percepiti dai nocicettori di alcuni organi interni, a esempio il cuore, possono convergere sulle vie del dolore che trasportano le informazioni provenienti dalla cute. Il dolore, però, può assumere due diverse connotazioni. Esso può essere localizzato o riflesso e rappresenta il dolore reale relativo un distretto anatomico specifico, ad esempio la mano o la coscia; mentre si definisce riferito quando si traduce da un organo interno a un altro distretto del corpo.

In caso di amputazione di un dito, o di un arto in generale, si è visto che la corteccia adibita al dito amputato risponde comunque alla stimolazione delle dita vicine. Queste sensazioni che provengono dall’arto mancante è definita dell’arto fantasma. Il fenomeno dell’arto fantasma si verifica perché nella corteccia sopravvive la rappresentazione dell’arto deafferentato, nonostante l’amputazione di un arto induce cambiamenti plastici nella corteccia adiacente a quella addetta all’arto mancante portando al verificarsi del fenomeno dell’invasione.

La sensazione dell’arto fantasma è una consapevolezza non dolorosa dell’arto amputato, talvolta accompagnata da lievi parestesie, sensazione di formicolio, bruciore, etc. La maggior parte degli amputati avverte questa sensazione per mesi o anni, ma essa di solito scompare senza trattamento; in altri soggetti perdura il dolore, dovuto al mal riorganizzazione del sistema deafferentato che ha quindi attività anomala.

La sensazione dell’arto fantasma non è pericolosa; tuttavia gli amputati, senza pensarci, spesso tentano di alzarsi con entrambe le gambe e cadono, soprattutto quando si svegliano durante la notte. Il dolore dell’arto fantasma si verifica più frequentemente se il paziente presenta una condizione dolorosa prima dell’amputazione o se il dolore non è stato adeguatamente controllato.

Vari trattamenti, come gli esercizi simultanei dell’arto amputato e di quello controlaterale, il massaggio del moncone, la percussione del moncone con le dita, l’uso di vibrazioni e gli ultrasuoni sono utili, come anche alcuni farmaci tipo gli antidepressivi triciclici e la carbamazepina.

Il lobo parietale

Il lobo parietale posteriore che ospita l’area S1 è un’area associativa, in cui flussi semplici e separati di informazioni sensoriali convergono per generare rappresentazioni neurali particolarmente complesse. I suoi neuroni hanno ampi campi percettivi i cui stimoli preferenziali sono difficili da caratterizzare, poiché complessi. Questa area è correlata non solo alla sensazione somatica, ma anche agli stimoli visivi e alla pianificazione del movimento.

Un danno alle aree parietali posteriori può generare particolari disordini neurologici. Ricordiamo l’agnosia, cioè l’incapacità di riconoscere gli oggetti anche se le capacità sensoriali di base appaiono normali. I soggetti che soffrono di stereoagnosia o agnosia tattile non riescono a riconoscere al tatto oggetti comuni anche se il loro senso del tatto è normale, nonostante non abbiano problemi a riconoscere l’oggetto con la vista o con l’udito. I deficit di solito sono limitati alla parte controlaterale rispetto alla sede del danno ed è dovuta principalmente a lesioni parietali postcentrali e parietali posteriori. Inoltre, lesioni della corteccia parietale possono anche causare la sindrome di negligenza spaziale o del neglect, nella quale una parte del corpo o del mondo è ignorata o soppressa, al punto di negarne l’esistenza.

In generale la corteccia parietale posteriore sembra essenziale per la percezione ed interpretazione delle relazioni spaziali, per un’esatta rappresentazione del proprio corpo e per l’apprendimento delle funzioni coinvolte nella coordinazione del corpo nello spazio. Ciò richiede una complessa integrazione delle informazioni somatosensoriali con quelle di altri sistemi, in particolare del sistema visivo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Perché il successo ci spaventa? L’auto-sabotaggio come strategia difensiva

L’ auto-sabotaggio è spesso dovuto alle nostre aspettative irrealistiche, miriamo al perfezionismo e partiamo dal presupposto che non siamo in grado di fare determinate cose. Nel momento in cui invece riusciamo ad agire, operiamo un auto-sabotaggio per paura di fallire. Mettiamo così in atto comportamenti specifici: nel primo caso ci convinciamo che possiamo fare qualcosa solo se siamo esperti, nel secondo mettiamo in atto strategie a favore del nostro fallimento.

Desirèe Bruni Tosi, Eleonora Soro

 

Auto-sabotaggio: perché lo facciamo?

Spesso, sabotiamo noi stessi sulla base di aspettative irrealistiche. Miriamo al perfezionismo oppure, partiamo dal presupposto che se non lo abbiamo fatto prima, non siamo in grado di farlo, nonostante non esista un comportamento totalmente innato che non necessiti di pratica per essere appreso. Praticare un comportamento ci aiuta quindi a migliorarlo.

Viceversa, nel momento in cui riusciamo ad agire, operiamo un auto-sabotaggio per paura di fallire (Tartakovsky, 2017). Si tende così a mettere in atto comportamenti specifici: nel primo caso ci convinciamo che possiamo fare qualcosa solo se siamo esperti, nel secondo mettiamo in atto strategie a favore del fallimento (come ad es. andare a una festa la sera prima di un esame o assumere droghe).

Causa dell’ auto-sabotaggio sarebbe della nostra grande immaginazione. Non raggiungiamo obiettivi positivi perché la nostra immaginazione inventa ogni sorta di scenario negativo e drammatico. Immaginiamo di fallire, di essere derisi o di essere respinti; immaginiamo ogni tipo di risultato che ci fa sentire vulnerabili o che temiamo profondamente. Con l’ auto-sabotaggio cerchiamo di proteggerci da sentimenti o situazioni spiacevoli (Lawson, 2017). Contemporaneamente sviluppiamo un’intolleranza all’incertezza: ci sabotiamo perché preferiamo la certezza e la prevedibilità rispetto all’ignoto.

Percezione di sé e degli altri

Anche se ci viene insegnato fin dalla tenera età a non giudicare, siamo naturalmente portati ad interpretare noi stessi e le nostre azioni in relazione agli altri. Spesso operiamo un auto-sabotaggio proprio perché pensiamo di non valere abbastanza per meritare il successo. Talvolta facciamo affidamento sulle nostre credenze nucleari dove i commenti altrui riecheggiano nelle nostre menti: “Non ci riuscirai mai”, “Non vali nulla”.

Tanti pazienti dicono di non essere amabili perché “il loro ex ha detto…, i loro genitori hanno detto…”. Si aggrappano a queste false credenze negandosi il successo, qualunque esso sia (Saenz-Sierzega, 2017). Ciò è determinato dal fatto che la gestione di una relazione è influenzata da tre elementi:

  • La nostra percezione di un individuo
  • La percezione che l’individuo ha di sé
  • La percezione che gli altri hanno di quello stesso individuo.

Comprendere le realtà soggettive degli altri serve – quindi – a migliorare l’empatia, la cooperazione e la comunicazione e allo stesso tempo può influenzare le proprie opinioni – dice Solomon (2016).

Avere uno sguardo verso l’esterno, non significa determinare se tale percezione sia giusta o sbagliata, ma riconoscere che esistono molteplici prospettive. È solo così che questa consapevolezza può migliorare le nostre interazioni e i nostri comportamenti.

L’ auto-sabotaggio nella psicopatologia

La metodologia di analisi strutturale del comportamento sociale (SASB) di Benjamin (1993) è stata usata per sviluppare caratterizzazioni dimensionali di tutti i disturbi di personalità.

Per la diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità (BPD) vengono individuate due dimensioni: 1) la paura dell’abbandono con l’aspettativa costante di essere accuditi dagli altri; 2) l’ auto-sabotaggio per agire correttamente o essere felici.

Benjamin ha affermato che durante lo sviluppo, gli individui considerati borderline hanno avuto esperienze di abbandono traumatiche che hanno determinato un legame mentale tra il sentirsi soli e l’essere una persona cattiva. Il paziente ha ricevuto il messaggio che l’autonomia è un male e che la dipendenza dalla famiglia è un bene, nonostante tutti i problemi, il caos e gli abusi. Il tentativo di staccarsi è punito e porterà all’ auto-sabotaggio; in famiglia si impara, quindi, che l’infelicità e la malattia attirano l’amore e la preoccupazione degli altri.

La Schema Therapy (Young, 2007), invece, identifica nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità schemi ricorrenti, quali: Abbandono, Sfiducia/Abuso, Deprivazione Emotiva, Incompetenza, Insufficiente autocontrollo, Sottomissione e Punizione. Tutto ciò comporta stati d’animo e stati mentali in rapido cambiamento, per cui è diventata una sfida concentrare il lavoro su uno o due tipi specifici di schemi, in quanto sono visti come un insieme stabile di tratti.

Di conseguenza, si possono identificare 5 manifestazioni tipiche dello schema del paziente borderline: bambino abbandonato, bambino arrabbiato, genitore punitivo, protettore distaccato e adulto sano. Quest’ultima è solitamente la strategia meno disponibile per questi pazienti.

Questo, non solo porta a problemi di regolazione comportamentale ed emotiva, ma anche a una compromissione del sé a causa dell’incapacità della persona di fidarsi delle proprie percezioni della realtà. Di conseguenza diventa difficile lo sviluppo di un senso di identità o di fiducia in sé stessi. Pertanto, secondo Linehan (1993), gli individui affetti da Disturbo Borderline di Personalità ritengono di essere impotenti e di dover fare affidamento sugli altri per una definizione della realtà sia interna che esterna e di mantenere una “passività attiva” che richiede l’aiuto degli altri nelle vicissitudini quotidiane.

L’ auto-sabotaggio, sia fisico che psicologico, finisce per rappresentare una caratteristica peculiare di tale personalità. Ciò comporta una valutazione del successo differente, in quanto raggiungere un obiettivo ambizioso non corrisponde a qualcosa di positivo ma, in relazione alle esperienze passate, all’abbandono. L’ auto-sabotaggio permette, quindi, alla persona, di allontanare tale possibilità.

Fare ACT con SITCC Toscana e Barbara Barcaccia

La giornata formativa di introduzione generale all’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), tenuta dalla Prof.ssa Barbara Barcaccia, didatta APC-SPC e docente di “Accettazione e mindfulness in psicoterapia” presso la Facoltà di Psicologia, Sapienza Università di Roma, si è svolta il 16 dicembre a Firenze ed è stata organizzata e promossa dalla SITCC Toscana.

Stefania Righini, Chiara Fabbri e Gian Paolo Mazzoni

I processi alla base dell’ACT

Si è trattato di un seminario introduttivo diviso sostanzialmente in due parti, una più teorica e l’altra più esperienziale, che ha riguardato due tra i processi oggetto di intervento nell’approccio dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT): defusione cognitiva e accettazione esperienziale.

La Terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), approccio di terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale, si basa su una teoria scientifica del linguaggio e della cognizione umana, chiamata Relational Frame Theory (RFT), e ha lo scopo di aiutarci ad accettare ciò che è fuori dal nostro controllo, impegnandoci ad intraprendere azioni che arricchiscano la nostra vita in modo pieno e significativo, mentre accettiamo il dolore che inevitabilmente fa parte della vita stessa.

La defusione cognitiva

La defusione cognitiva è un processo fondamentale nell’ACT e consiste essenzialmente nel riuscire a separarci, staccarci o distanziarci dai nostri pensieri, riuscire a fare un passo indietro, mettere una distanza fra il soggetto e la propria esperienza mentale, al fine di vederli per ciò che sono: niente di più o di meno che parole e immagini. Defondersi significa quindi intervenire su uno dei processi caratteristici del funzionamento della mente umana, la fusione cognitiva, attraverso la quale i pensieri dominano i nostri comportamenti così che, sempre più, ci sentiamo “incatenati” a essi e schiavi dell’agire seguendo i pensieri con i quali siamo fusi. Focus del lavoro di defusione sono quindi i pensieri, quali mediatori nella relazione fra noi e il mondo, mentre per quanto riguarda emozioni e sensazioni si utilizza soprattutto l’accettazione esperienziale. Obiettivo delle defusione è principalmente quello di una gestione più efficace delle credenze grazie alla liberazione dalle catene che ci fondono ai nostri contenuti mentali, la quale ci permette di farci guidare, nelle azioni, dai nostri valori piuttosto che dai pensieri con i quali siamo fusi.

L’accettazione esperienziale

L’accettazione esperienziale, invece, è un processo che ha lo scopo di aiutarci a rimanere in contatto con le nostre esperienze emotive personali, indipendentemente dal fatto che siano piacevoli o dolorose, aprendoci, creando uno spazio per loro, abbandonando la lotta e lasciandole andare e venire naturalmente. Tale processo, si trova sul polo opposto dell’evitamento esperienziale, comportamento che ci porta a sbarazzarci, evitare o scappare dalle esperienze emotive indesiderate.

Esercizi di defusione cognitiva

Dal punto di vista esperienziale, nel pomeriggio, abbiamo avuto l’opportunità di svolgere, sotto la guida della Prof.ssa Barcaccia, alcuni esercizi che ci hanno permesso di sentire, emozionalmente e sul nostro corpo, gli effetti della presa di distanza rispetto ai nostri pensieri, attraverso alcune tecniche di defusione tra cui quella di far precedere il pensiero indesiderato e disfunzionale dalla frase “sto avendo il pensiero che ….” o “la mia mente sta avendo il pensiero che ….”. Questo semplice esercizio di defusione ci aiuta a notare il pensiero per ciò che è, facendo un passo indietro e divenendone osservatori, consapevoli del fatto che un pensiero è solo un pensiero e non corrisponde necessariamente alla realtà. Altri interessanti esercizi di defusione hanno riguardato lo scrivere semplicemente i pensieri dolorosi su un foglio, già di per sé un atto di presa di distanza da essi, e, successivamente, in immaginazione, depositarne le singole parole su altrettante foglie galleggianti su un corso d’acqua, rimando poi nella condizione di osservatore.

Esercizi di accettazione

Nell’ultima parte della giornata, abbiamo avuto l’opportunità di lavorare sull’accettazione, attraverso un esercizio che ci ha guidato dall’osservazione delle emozioni sul nostro corpo, utile per prenderne consapevolezza, all’espansione, che permette di aprirci a esse, fino all’auto-compassione la quale, attraverso la metafora delle “mani che curano” (posizionando le nostre mani sulla parte del corpo nella quale percepiamo i nostri sentimenti dolorosi) ne favorisce l’accettazione in modo molto potente. Questi esercizi esperienziali sono molto utili nel mettere in luce, anche da un punto di vista terapeutico, come il fatto stesso di essere in vita, sia associato a ogni sorta di pensieri o emozioni, siano essi positivi o negativi, intensi o meno: “se ameremo e ci interesseremo alla vita, allora sentiremo dolore”.

Conclusioni

Ringraziamo la SITCC Toscana e la Prof.ssa Barbara Barcaccia soprattutto perché, nonostante come lei stessa ha sottolineato, si sia trattato di un seminario “bonsai” sull’ACT, alla fine di questa giornata usciamo arricchiti di una nuova prospettiva, sicuramente da approfondire nella formazione professionale, e di piccole ma preziose consapevolezze acquisite durante la parte esperienziale.

Le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani adulti – Aspetti che si differenziano in base al genere e all’ orientamento sessuale

Il gruppo di ricerca fluIDsex (Greta Riboli, Irene Gargano, Mattia Nese, Lorena Lo Bianco e Valentina Orlandi) negli scorsi mesi ha lanciato un survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia. In un articolo già pubblicato da State of Mind è stata presentata una prima parte dei risultati ottenuti, nel seguente articolo verranno esposti gli ulteriori risultati messi in luce dalla ricerca. 

 

I soggetti che hanno risposto al survey sono stati 440, di cui 274 persone di genere femminile e 166 di genere maschile; 125 persone omosessuali e 315 persone eterosessuali. L’età dei soggetti è tra i 19 ed i 25 anni (media 22,14 e deviazione standard 3,2).

Nella maggior parte delle risposte agli item del questionario non si sono verificate differenze significative nel gruppo femminile rispetto a quello maschile e nel gruppo eterosessuale rispetto a quello omosessuale. I risultati generali rispecchiavano l’andamento dei risultati specifici delle sottocategorie di genere e di orientamento. Questo può essere dovuto al fatto che i soggetti che hanno compilato il survey vivono in ambienti in cui vi è o ci si avvicina ad una parità tra i generi: come hanno rilevato Peterson e Hyde (2011), quando vi è discrepanza tra i generi i comportamenti ed i pensieri legati alla sessualità di uomini e donne si differenziano molto, invece quando vi è parità le differenze si assottigliano. Nel presente articolo verranno riportati unicamente i risultati maggiormente significativi ed i punteggi estremi emersi.

Aspetti in cui si registrano lievi differenze in base al genere e/o all’orientamento sessuale

Pornografia

In generale il 96% dei soggetti che hanno partecipato allo studio non crede che guardare materiale pornografico sia sbagliato. Il che storicamente mostra un cambiamento netto rispetto agli anni ‘50 in cui vi era una fortissima dicotomia, per la quale sorgeva sì la rivista erotica Playboy, ma in contrasto con la maggior parte dei film, che ad esempio ritraevano coppie di coniugi dormire in letti separati. Il cambiamento è riscontrabile anche rispetto all’avvento del nuovo millennio: indubbiamente la diffusione di internet come fonte di accesso costante ad una vastità di contenuti (film, serie tv, video musicali, spot), ha contribuito a questo passaggio verso un’abituazione al corpo sessualizzato e alla pornografia stessa.

Quando si parla di utilizzo di materiale pornografico per eccitarsi quando si è soli il 42% del gruppo maschile ha riportato che spesso ne fa uso, mentre invece nel gruppo femminile si verifica una lieve differenza: solo il 16% ha riportato che ne fa spesso uso, ma una percentuale più alta, ovvero il 33% rispetto all’11,9% del gruppo maschile, ha riportato che mai ne ha fatto uso.

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale - Imm1

Imm.1 – Uso della pornografia da soli nei maschi

 

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale - Imm2

Imm.2 – Uso della pornografia da soli nelle femmine

 

Il risultato può esser dovuto al fatto che la maggior parte della pornografia disponibile e facilmente reperibile è principalmente dedicata ad un pubblico maschile. Studi condotti (Chivers et al., 2010) sembrano evidenziare come uomini e donne, innanzi a contenuti sessualmente espliciti, si attivano per stimoli differenti. Gli uomini sembrano attivarsi maggiormente innanzi al genere e all’età dei soggetti raffigurati, mentre i soggetti di genere femminile sembrano attivarsi maggiormente innanzi all’atto sessuale stesso, a prescindere dalle caratteristiche (anche di genere) dei soggetti. Eppure, mentre la specificità della risposta sessuale maschile è robusta, quella femminile rimane meno precisa, per questo motivo studi sulle differenze nell’arousal genitale femminile e maschile in relazione a immagine pornografiche vanno ancora portati avanti e questo potrebbe portare a maggiori chiarimenti su come del materiale pornografico possa esser considerato soddisfacente da un pubblico di genere femminile.

Quando si parla invece di utilizzo di materiale pornografico per eccitarsi insieme al proprio partner, il 40 % delle persone omosessuali, rispetto al 14,4 % delle persone eterosessuali, dichiara di utilizzarlo abitualmente; ed il 52 % delle persone eterosessuali dichiara di non averlo mai fatto.

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale -Imm3

Imm.3 – Uso della pornografia in coppia nei soggetti omosessuali

 

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale -Imm4

Imm.4 – Uso della pornografia in coppia nei soggetti eterosessuali

 

In questo caso una possibile spiegazione del fenomeno che vede le coppie omosessuali leggermente più solite guardare materiale pornografico insieme al partner, rispetto alle coppie eterosessuali, può dipendere sempre dal fatto che la media delle persone appartenenti al genere femminile e la media delle persone appartenenti al genere maschile sembrano eccitarsi per elementi pornografici differenti. Questo farebbe sì che una coppia omosessuale, composta dunque da persona dello stesso genere, può trovare, con più facilità, eccitante uno stesso video, rispetto ad una coppia composta da individui di genere diversi e che sarebbero quindi più suscettibili all’eccitamento rispetto a contenuti differenti.

Dating app

Da quando gli smartphone si sono diffusi massivamente, l’utilizzo delle app d’incontri si è intensificato rispetto all’utilizzo dei siti d’incontri, precedentemente disponibili. Secondo le statistiche registrate dal GlobalWebIndex gli utenti che utilizzano Tinder (una delle app d’incontri maggiormente utilizzata) in particolare sarebbero per la maggior parte uomini (62%). Il 39% degli utenti apparterrebbe ad una fascia di età tra i sedici ed i ventiquattro anni, mentre la fascia tra i venticinque ed i trentaquattro anni rappresenterebbe il 41%.

Nel presente studio in generale il 72,5% ha dichiarato che non usa mai dating app per cercare partner esclusivamente sessuali, mentre il 72,3% ha dichiarato che non usa mai dating app per cercare partner esclusivamente affettivi. Gli studenti universitari del nord Italia non sembrano utilizzare queste app né per incontri prettamente sessuali, né per necessità affettive.

Per quanto riguarda invece l’utilizzo dello strumento per avviare relazioni stabili è stata riscontrata una lieve differenza tra sotto-gruppo omosessuale ed eterosessuale: il 42% delle persone eterosessuali non ritengono le dating app un buon mezzo per ricercare relazioni stabili, mentre il 40,9% delle persone omosessuali si è dichiarato incerto a riguardo. Approfondendo questo dato solo il 22% delle persone omosessuali che hanno partecipato allo studio ha dichiarato di preferire altri mezzi conoscitivi rispetto alle dating app, contro il 46% delle persone eterosessuali, ed il 37,1% delle persone omosessuali ha affermato di preferirlo come mezzo conoscitivo per avviare relazioni stabili affettive e sessuali.

Una possibile interpretazione di questo dato può esser dovuta al fatto che l’orientamento omosessuale sia l’orientamento di una minoranza di persone, il che comporta una maggiore difficoltà delle persone omosessuali ad incontrare, conoscere e flitrare con possibili partner in luoghi comuni. Le persone omosessuali hanno più possibilità di conoscere un possibile partner in un locale specifico, nel quale si presuppone che i presenti siano anch’essi omosessuali o interessati a conoscere persone omosessuali. Allo stesso modo l’utilizzo di un’app di incontri semplifica l’incontro con persone omosessuali e/o interessate, in quanto al momento della creazione del proprio profilo vi è la possibilità di specificare il proprio orientamento oppure vi è la diretta possibilità di utilizzare app appositamente dedicate ad incontri omosessuali (es. Grindr, Wapa).

Sex toys

In questi ultimi anni c’è stato un vero boom per quanto riguarda il mercato dei sex toys, ne hanno parlato diversi giornali e persino certe serie tv hanno iniziato a porre i giocattoli erotici al centro della propria trama (come ad esempio la serie televisiva di Netflix “Grace and Frankie”). Inoltre sono sorte diverse nuove realtà che producono e vendono sex toys, tra le quali l’azienda “MySecretCase”, prima nel settore ad aver promosso uno spot andato in onda sulla televisione italiana. L’azienda, nel 2017, ha dichiarato che le donne sono le loro maggiori acquirenti (40%) ed attualmente le città in cui avvengono il maggior numero di acquisti sono al Nord, soprattutto Milano, rappresentata da un 20%. La fascia di età in cui avvengono la maggior parte degli acquisti è rappresentata dalla fascia tra i venti ed i trent’anni. Inoltre si sta registrando una crescita di acquisti al sud, ed una crescita di acquisti compiuta dagli over 30.

I risultati del nostro studio, le cui risposte sono state date da un gruppo di studenti universitari, sembrano essere in contrasto con quanto riportato. Infatti il 43% dei partecipanti omosessuali di questo studio ha dichiarato che raramente utilizza sex toys, mentre il 65% delle persone eterosessuali ha affermato che non ne ha mai fatto uso. Non vi è differenza tra il gruppo femminile ed il gruppo maschile, in cui i risultati generali comunque vertono per la maggior parte verso lo scarso/assente utilizzo dei sex toys.

In base a questo studio risulta che in generale solo il 3% (sia del gruppo maschile, sia femminile, sia omosessuale, sia eterosessuale) utilizza abitualmente sex toys.

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale -Imm5

Imm.5 – Utilizzo dei sex toys nei soggetti omosessuali

 

Abitudini sessuali e affettive cosa cambia in base a genere e orientamento sessuale - Imm6

Imm.6 – Utilizzo dei sex toys nei soggetti eterosessuali

 

La differenza tra comportamento omosessuale e comportamento eterosessuale rispetto all’utilizzo dei sex toys può dipendere da una cultura incentrata sul binarismo sessuale dei ruoli, per il quale un rapporto sessuale è solamente un rapporto eterosessuale completo, per lo più incentrato sulla penetrazione. In questo quadro, l’utilizzo dei sex toys può così avvicinare al vissuto di un rapporto eterosessuale, consumato però con persone del genere desiderato.

Futuri sviluppi

Da questi dati emergono una serie di abitudini e comportamenti più o meno diffusi. Considerando il gruppo specifico (giovani studenti universitari del nord Italia) come non esemplificativo di tutti i giovani adulti, lo studio potrà procedere verso una maggiore generalizzazione dei risultati.

Nella maggior parte dei casi le differenze non sembrano dipendere tanto dalle variabili di genere e/o orientamento sessuale, per questo motivo in successivi studi si tenderà a voler riconfermare lo stesso andamento, oltre ad esplorare gli andamenti di variabili legate all’istruzione e alla città di origine e residenza.

Sarà inoltre possibile sottoporre a dimostrazione scientifica alcune ipotesi emerse in base alle abitudini riscontrate attraverso il survey.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’era del cyber: le relazioni ai giorni nostri

Negli ultimi tempi, si è assistito ad una robusta diffusione di Internet e dei mezzi di comunicazione, in tutto il mondo. Questo fenomeno ha sicuramente portato a dei benefici e miglioramenti nel modo di comunicare perché ha permesso di superare le barriere imposte dal tempo e dallo spazio, fino ad arrivare ad un’infinita possibilità di accesso alle fonti di informazioni. L’altra faccia della medaglia è un cattivo o smodato uso di Internet e dei mezzi di comunicazione, assistendo a fenomeni psicopatologici legati, appunto, a questo uso cattivo della Rete.

Beatrice Mastrolorenzo

 

La tecnologia al giorno d’oggi

Ferma su un punto del marciapiede ad aspettare che un amico raggiungesse me e il mio ragazzo, il mio sguardo é caduto su una coppia di amiche, ad un tavolo, stavano facendo aperitivo. Mi sono messa ad osservarle, cercare di comprenderle, capirle. Due amiche che si vedono poco, che si raccontano qualcosa e che poi finisce sui social; entrambe con la testa china sui rispettivi schermi, sui loro black mirror per restare in tema.

Vi sarà sicuramente capitato di guardare la serie televisiva Black Mirror di Netflix, dove ogni puntata fa vivere in modo drammatico, a tratti grottesco, quello che ci accompagna nella vita di tutti i giorni: la tecnologia. Viene trattato sotto ogni aspetto il cambiamento che ha investito e travolto le nostre abitudini a suon di notifiche e di click, incentrato sul futuro ma partendo da quelle basi che fanno già parte del presente. Così, la serie televisiva Black Mirror, ci aiuta a darci un’idea delle conseguenze e dei traguardi che le nuove tecnologie possono (vogliono) raggiungere e tutto quello che hanno già, in qualche modo, realizzato. Oltre ogni scenario della mente, si potrebbe pensare, ma in realtà non fa altro che rappresentare quello che temiamo e che sappiamo possa accadere.

Tornando alla scena che stavo osservando della sera, le due ragazze sorridevano, senza scambiarsi il benché singolo sguardo durante i dieci minuti che sono rimasta lì, dall’altra parte della strada. Mi sentivo triste. Ogni tanto bevevano un sorso dai loro bicchieri dei cocktail, il piatto con il cibo era ormai dimenticato, magari prima fotografato e immediatamente postato. Quanti like? Quanti commenti?

Una scena così, una decina di anni fa, sarebbe stata fuori luogo e avrebbe attirato a sé gli sguardi giudicanti e indignati di tutti gli altri intorno. Immaginate un gruppo di scolari portati in visita a Roma, seduti sulle gradinate di Piazza di Spagna; meravigliosa, da contemplare, esplorare andando su e giù e scattare qualche foto. Ora, immaginate questi alunni che compongono una scena diversa: chi seduti e chi in piedi come pali, con la faccia sui loro cellulari di ultima generazione, intenti a scattarsi selfie, senza fare nessuna discussione costruttiva sull’arte e la storia con l’insegnante e magari anche lei è in un angolo a scrivere messaggi. Mi capita spesso, infatti, di vedere scolaresche così, ed è tutto normale, oggi, ma non dieci anni fa, quando le gite erano dei momenti per sapere di più, per mettere in pratica delle skills particolari che magari in aula possono venir facilmente soffocate. La gita era un modo per respirare un’aria più pulita, più fresca, per cantare le canzoni tutti insieme nell’autobus, per fare foto di gruppo, per riscoprire i legami tra alunni e maestri. Poi c’era lo svago quando si tirava fuori la colazione a sacco. La mia intenzione non è fare la nostalgica, però non posso fare a meno di notare le sostanziali differenze tra oggi e ieri quando mi capita di vedere quelle scene.

Le due ragazze intente a scorrere i post rifugiandosi in una realtà inconsistente, mi ha ricordato in modo vivido le fotografie di Antoine Geiger. Il suo progetto Sur Fake ritrae i suoi soggetti in momenti del tutto normali ma con una particolarità che a prima vista sconvolge: le persone fotografate da Geiger hanno la faccia letteralmente risucchiata dai loro smartphone. Le sue foto fanno percepire benissimo il confine così labile tra la normalità e la patologia, quella zona che sta fuori dalla media, da quello che è comune. Geiger ha un messaggio molto forte da trasmetterci, che a me è decisamente arrivato: torniamo a parlare, confrontarci, sorriderci, scherzare, discutere, litigare con le persone che fanno parte del mondo reale e smettiamola di stare attaccati ai nostri cellulari. Quindi il suo invito è quello di staccare il viso dallo schermo. Difficile al giorno d’oggi, considerando che un accesso ad internet non serve solo per scaricare qualche bella immagine o un bel film, ma anche per lavorare, trovare opportunità, studiare, informarsi, rimanere in contatto con persone significative e soprattutto con il resto del mondo.
La tecnologia fa parte della nostra vita.

Quanta tecnologia si usa durante il giorno, come quanta acqua si usa, insomma, ormai, a chi importa davvero? Nessuno di noi ci fa più caso. Si usa la tecnologia per tutto, cosa c’è da spiegare? A tutte le età, in tutti i luoghi. Ventiquattr’ore su ventiquattro è la “faccia” con cui interagiamo di più e in modo ininterrotto, rivolgendo lo sguardo solo lì, quando l’evoluzione ci ha regalato un sistema visivo che si apre fino a raggiungere 360°. Da bambina pensavo che un giorno avrei potuto provare ad allargare il mio sistema visivo, lo volevo più grande, perché così mi sembrava limitante. Adesso, non so a cosa potrebbe mai servirmi, perché tanto i miei occhi sono fissi, come ora, su uno schermo. Che sia grande, che sia piccolo, è un quadro che risucchia tutta la mia attenzione, il mio tempo, gli sguardi che potrei dedicare al resto del mondo fatto di persone come me, colori più realistici che superano quelli imposti dal sistema operativo di un computer di ultima generazione, odori, suoni, ricordi, idee, calore umano.

L’era digitale dell’ultima generazione e la dipendenza da internet

Siamo in quella che si chiama “Era Digitale”, dove le famiglie che hanno un accesso ad Internet da casa sono aumentate nel corso del tempo, perché Internet è utile per studiare, lavorare, svagarsi con un film o per reperire informazioni e quindi, in qualche modo, allargare i propri orizzonti culturali, anche a tempo perso. Secondo l’ISTAT, nel 2014 è aumentata la quota di queste famiglie, rispetto all’anno precedente, che passano dal 60,7% al 64%. Sicuramente l’accesso ad internet riguarda molto di più le famiglie con un minorenne, dove è più presente la tecnologia: l’87,1% ha un pc e l’89% ha un accesso ad Internet (ISTAT, 2014).

Negli ultimi tempi, si è assistito ad una robusta diffusione di Internet e dei mezzi di comunicazione, in tutto il mondo. Questo fenomeno ha sicuramente portato a dei benefici e miglioramenti nel modo di comunicare perché ha permesso di superare le barriere imposte dal tempo e dallo spazio, fino ad arrivare ad un’infinita possibilità di accesso alle fonti di informazioni. L’altra faccia della medaglia è un cattivo o smodato uso di Internet e dei mezzi di comunicazione, assistendo a fenomeni psicopatologici legati, appunto, a questo uso cattivo della Rete. I recenti studi hanno messo in luce la possibilità che si manifesti una vera e propria dipendenza psicologica, nota come IAD (Internet Addiction Disorder), termine coniato dallo psichiatra americano Ivan Goldberg: egli propose più di dieci anni fa, nel 1995, di introdurre nel DSM questo disturbo, proposta che diede avvio a numerosi studi, fino a rendere concreta l’osservazione che un uso eccessivo della Rete porta piano piano a delle difficoltà nella vita della persona, per lo più relazionali, tale da rimanere intrappolato in quello spazio virtuale (Jamison, 2000).

Ed ecco che oggi parliamo spesso di dipendenza da Internet, a scapito delle relazioni sociali e quindi del nostro sviluppo. Rinunciamo in qualche modo a noi stessi. In psicologia, si individua questa forma di dipendenza non esattamente come un disturbo specifico, ma come un sintomo che può essere legato ad altri quadri clinici. Si può parlare di dipendenza quando la persona spende la maggior parte del suo tempo e delle sue energie ad usare l’oggetto da cui non riesce a staccarsi, in questo caso internet, o comunque un cellulare, così da creare un comportamento disfunzionale nel resto delle aree della vita, come quella personale, relazionale e familiare, scolastica/lavorativa, affettiva.

L’idea dei telefoni cellulari – oggi smartphone – era davvero costruttiva, finché poi, un giorno, è successo qualcosa che ha permesso di oltrepassare un limite: la soglia dell’ossessione e, quindi, quella della dipendenza, del desiderio che cresce sempre di più. In psicologia, si usano concetti come craving, addiction, ossessione, dipendenze, discontrollo.

Il craving è l’esperienza soggettiva di un desiderio difficile da arginare, che si autoalimenta ogni volta che questo viene soddisfatto con l’oggetto agognato, che produce gratificazione e piacere. Il craving chiama in causa il circuito della ricompensa, centrale nei disturbi delle dipendenze patologiche e, quindi, anche nei trattamenti di questi disturbi (Kanavagh, Andrade & May, 2004).
Il termine addiction viene usato per definire il campo delle dipendenze patologiche, indicando una situazione di mancanza di libertà, sottomissione, un coinvolgimento così profondo del soggetto verso l’uso di un oggetto che è incapace di limitare quell’attività, una perdita di controllo via via maggiore che la dipendenza diventa sempre più seria. Il craving fa parte dell’addiction.

Oggi si parla di tante nuove addiction, come quella da tecnologia. Da cellulari. Da social network. Da internet. Da tutto quel che uno schermo può offrirci.

In realtà, il dibattito sulla possibilità di sviluppare o meno una dipendenza verso la Rete, così come per l’alcool o una droga, ancora non è chiuso. Infatti, molti studiosi riconoscono il fenomeno per cui abusando di Internet si può arrivare a produrre delle conseguenze negative, ma rifiutano di parlare di vera e propria dipendenza, sostenendo che alla base di questa idea ci sarebbe bisogno di ulteriori risultati scientifici e che parlare dell’uso eccessivo di Internet come un disturbo psichiatrico, potrebbe essere fuorviante per la clinica (Huang M.P. e Alessi N.E., 1996).

Brenner (1996) ritiene che trascorrere molto tempo davanti al computer ha come conseguenze, sintomi che non per forza portano allo sviluppo di una dipendenza, sintomi come una perdita del sonno e della fame, un’incapacità di gestire il tempo. Kymberly Young, dal canto suo, sostiene che i soggetti dipendenti subiscano delle conseguenze che possono essere anche gravi a causa dell’abuso di Rete, mentre i soggetti che sono normali utenti non manifestano nessuna interferenza nella vita quotidiana e considerano la Rete come una risorsa.

I problemi di cui l’autrice parla sarebbero nell’ambito relazionale e familiare, in quanto l’aumento di ore collegato alla Rete diminuisce quelle dedicato alle persone significative. Quindi lo spazio virtuale assume maggiore importanza fino ad estraniarsi sempre di più. Nell’ambito lavorativo e scolastico, l’eccessivo uso della Rete porta a distogliere l’attenzione da questi doveri e porta anche a un ciclo sonno-veglia meno regolare che invalida, quindi il rendimento lavorativo e scolastico. Non mancano le consulenze nell’ambito della salute perché tante ore davanti al computer possono portare a problemi di postura, ma anche disturbi del sonno, irregolarità dei pasti, mal di testa, occhi stanchi, etc. Possono presentarsi anche problemi finanziari se l’uso smodato della Rete consiste anche in gioco d’azzardo, partecipazione ad aste, commercio on-line, fruizione di materiale pornografico.

Nell’ultima versione del DSM (DSM-5) non è inclusa la voce “Internet addiction”, ma l’unico comportamento da dipendenza in fatto di Internet è il “gambling disorder”. Comunque sia il termine dipendenza da Internet o Internet addiction è un termine vasto che copre diversi comportamenti e problemi di controllo degli impulsi. Chi presenta i sintomi di dipendenza da Internet, di solito presenta anche altre forme di dipendenza.

Il senso di alienazione derivante dalla tecnologia

La nostra cara tecnologia ha messo in rilievo un suo aspetto, quello alienante. Aldilà della sua definizione, il fotografo Babycakes Romero ha reso bene l’idea con il suo fotoprogetto “Death of conversation”, ovvero morte della conversazione: i protagonisti dei suoi scatti sono concentrati sui loro cellulari, intenti a chattare, leggere, scorrere i post offerti dalla rete, e minimi contatti sociali tra di loro. Romero spiega che non ha nessun problema con la tecnologia, pensa, invece, che i cellulari ci rendano più facili degli aspetti della nostra vita, tuttavia “la gente ne sta abusando diventa sempre più chiusa”.

Il professionista Romero si esprime così: “Prima che le persone iniziassero ad utilizzare i telefoni cellulari erano più propense ad interagire fra loro, attività che ora non si rende più necessaria perché concentrati ad interagire con i propri dispositivi mobili”. Oggi possiamo evitare di instaurare una conversazione con chi ci siede accanto, potendo semplicemente illuminare lo schermo nero e cercare qualcosa di interessante, anche se effettivamente non c’è, evitando così l’arduo compito di pensare a qualcosa da dire all’altro. Paradossalmente, i telefoni cellulari stanno rendendo difficile la comunicazione, quando invece sono nati con tutt’altra intenzione: finalmente distanze accorciate, finalmente storie d’amore che superano gli ostacoli, finalmente qualcuno che ci cerca anche solo per sentire la nostra voce o scriverci un messaggino inutile – fondamentalmente. Poi siamo passati alle notifiche e all’astinenza che si prova quando la finestra di controllo dello smartphone è nuda e cruda. Adesso le notifiche sappiamo come averle perché basta qualche social network, postare delle foto e subito like e commenti arrivano da ogni parte del mondo, in tanti tipi di lingua, con tante e sconosciute intenzioni alla base, come la faccia che guardava la nostra foto. E siamo contenti, la giornata può continuare perché facciamo parte del mondo, della società, ognuno di noi può fare qualcosa, io, tu e gli altri, abbiamo una vita da mostrare a chiunque sia collegato.

Nella lagunare alienazione tecnologica, la buona notizia è che ci sono dei segnali di allarme che posso far pensare ad una possibile dipendenza da Internet. Vediamoli insieme:
– Isolamento dalla famiglia e dagli amici;
– Perdere il senso del tempo online;
– Avere difficoltà nel portare a termine dei compiti;
– Sensi di colpa legati all’uso di Internet;
– Sentire dell’euforia quando si è connessi.

C’è di più: Internet ha sicuramente le caratteristiche di immediatezza, facilità, ma l’uso così smodato e le conseguenze negative sono dovute anche ad altri fattori alla base: ansia, depressione, stress perché la Rete è usata come un modo per cercare di sentire meno disagio. Secondo alcuni studiosi chi sviluppa una tale dipendenza ha alla base una personalità propensa all’ impulsività, alla ricerca di nuove esperienze e alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).
Ecco che un po’ è colpa di Internet e un po’ anche nostra; riflettiamo su questo punto.

Alla fine sono riuscita a staccarmi da quella coppia di ragazze che stavano trascorrendo la serata ognuna per i fatti propri, si potrebbe quasi dire che ognuna era in casa sua, ma per davvero. Ognuna aveva una sua home dove guardare notizie, ricevere messaggi, telefonate, dove poteva ridere e sorridere.
Poi è arrivato quell’amico che aspettavamo. Aveva due birre in mano e nessun posto per un cellulare. Il mio ragazzo era alle prese con una coppetta di gelato e il cucchiaino. Io ero semplicemente contenta di chiacchierare.

Il narcisismo e i suoi disturbi. La terapia metacognitiva interpersonale – Recensione

Malgrado il titolo, non si deve scambiare “Il narcisismo e i suoi disturbi; La Terapia Metacognitiva Interpersonale” di Antonino Carcione e Antonio Semerari – pubblicato quest’anno da Eclipsi – per un passo indietro verso la concezione categoriale dei disturbi di personalità. Gli autori mantengono la loro linea di sviluppo già delineata nell’opera precedente “Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità” ovvero andare verso una concettualizzazione dimensionale dei disturbi di personalità.

 

È chiaro che i concetti singoli mantengono una loro utilità pratica, pur rischiando sempre di presentarsi come una categoria più che come una dimensione. Come riescono Carcione e Semerari a mantenere quella rotta dimensionale pur intitolando il loro ultimo libro a quella che sembra essere la categoria narcisismo? Facile rispondere: trattando il narcisismo come una dimensione e non come una scatola chiusa, una categoria. Ecco quindi i due autori in esplorazione delle varie declinazioni del concetto di narcisismo e il suo sviluppo nella tradizione clinica, dal Disturbo Narcisistico di Personalità ancora presente nell’ultimo DSM all’analisi del narcisismo grandioso, del narcisismo vulnerabile fino ad arrivare al cuore del disprezzo di sé (il cosiddetto malignant self-regard) maligno, antisociale e perfino psicopatico e delirante che in fondo sfocia là dove era iniziato: nella frammentazione del Sé e la non integrazione.

Sto solo rapidamente elencando i titoli dei singoli capitoli in modo da dare al lettore un saggio della varietà e della ricchezza del libro di Carcione e Semerari. È il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, un modello strutturale che pone al centro della psicopatologia il concetto psicopatologico del sé e alla base della terapia l’intervento relazionale. Un volume raccomandabile per capire gli ultimi sviluppi di questa linea di ricerca clinica e per avere un quadro completo di questo modello di psicoterapia che aspira a essere, come dice il nome stesso, metacognitiva e interpersonale.

L’accompagnamento allo studio: il ruolo dello psicologo

Il concetto di accompagnamento allo studio parte da una concezione pedagogica dell’autonomia e della responsabilità, in cui ogni bambino/ragazzo diventa protagonista attivo del proprio percorso di apprendimento.

 

Questo spazio, appositamente dedicato allo studio quotidiano, può essere considerato come un percorso di potenziamento, svolto da uno psicologo appositamente formato, finalizzato a promuovere un atteggiamento strategico e metacognitivo negli studenti.

Il termine “metacognizione” indica la capacità di comprendere il funzionamento dei propri processi mentali (come la memoria, l’attenzione, ecc..), esercitando un controllo su di essi: ad es. “so che mi è difficile memorizzare le tabelline come fanno gli altri… utilizzerò la tavola pitagorica!” oppure “considerando che quando studio mi distraggo facilmente, oggi il mio cellulare resterà spento!” (Cornoldi, 1995).

Uno studente metacognitivo è in grado di pianificare e organizzare delle attività da svolgere, perché consapevole del livello di impegno richiesto da ciascuna materia. Come specificato nei paragrafi successivi, questa finalità viene concretizzata nella capacità del ragazzo di sapere individuare le proprie criticità e i propri punti di forza ed effettuare un’autovalutazione sul proprio operato.

In questo percorso lo psicologo assumerà il ruolo di facilitatore, fornendo allo studente degli aiuti temporanei che portino, pur con strategie diverse e personalizzate, al raggiungimento di un fine comune: l’autonomia.

Obiettivi dell’ accompagnamento allo studio

Gli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere attraverso un percorso di accompagnamento allo studio sono:

  1. Accogliere lo studente in un ambiente ricco e stimolante
  2. Migliorare le strategie e il metodo di studio
  3. Favorire la conoscenza, la consapevolezza e il controllo metacognitivo
  4. Promuovere atteggiamenti pro-sociali all’interno di piccoli gruppi di lavoro
  5. Favorire l’apprendimento attraverso le nuove tecnologie
  6. Favorire una buona collaborazione tra ragazzo, famiglia, scuola e professionista.
  7. Promuovere l’autostima e la percezione di competenza dello studente.

Di seguito verranno presi in esame i diversi punti, fornendo al lettore una serie di linee guida operative. Queste non vanno lette come un rigido elenco di operazioni da seguire, piuttosto come uno strumento utile all’intero gruppo di lavoro per condividere una metodologia e un linguaggio comune dal quale partire e successivamente modificare in base alle proprie esigenze.

Allestimento del setting e accoglienza

Per setting intendiamo la predisposizione di uno spazio fisico strutturato in modo da offrire allo studente una serie di punti di riferimento visibili e a portata di mano (i libri, le penne, i colori, i fogli, il materiale extra ecc). In un percorso di accompagnamento allo studio, avere tutto ciò che serve in un ambiente appositamente allestito crea le condizioni necessarie per il mantenimento dell’ attenzione, offrendo ad ogni ragazzo la possibilità di gestire autonomamente il riordino del materiale utilizzato e degli spazi in comune.

Per setting intendiamo anche uno spazio mentale, all’inizio delle attività, in cui lo studente possa pianificare e organizzare i compiti in base alle sue esigenze, necessità o difficoltà. Pensiamo che un lavoro di questo tipo sia in grado di favorire in ogni studente un atteggiamento più responsabile e autonomo, oltre che meno delegante.

A tal fine creiamo un planning quotidiano in cui vengono elencate, all’interno di una tabella appositamente strutturata, secondo l’ordine scelto da ognuno, le materie da fare prima e quelle da fare dopo. Per ogni materia è possibile indicare il tempo stimato per lo svolgimento, il tempo effettivamente impiegato (al termine dell’attività), punti di forza, criticità e un’autovalutazione finale. Ogni studente tiene la tabella davanti a sé mentre svolge i compiti e la aggiorna durante lo svolgimento dell’attività: al termine la consegna agli operatori, che la conserveranno con l’obiettivo di monitorare la capacità di autovalutazione e le strategie messe in atto.

Strategie e metodo di studio

Le strategie sono delle procedure che lo studente mette in atto e che controlla consapevolmente con lo scopo di apprendere.

Lo psicologo, nel percorso di accompagnamento allo studio, indirizza lo studente nell’utilizzo di strategie di apprendimento efficaci, nel caso in cui si avverta l’esigenza di un sostegno.

Alcune delle strategie che secondo gli studi condotti in Italia riescono a produrre cambiamenti più rilevanti nello studio, specialmente per gli studenti con DSA, sono:

  • utilizzare schemi o disegni come supporti visivi;
  • porsi delle domande nel corso della lettura;
  • rappresentarsi schematicamente il contenuto del testo;
  • utilizzare immagini mentali (Cornoldi, De Beni et al., 2001).

L’approccio descritto in questo articolo vuole offrire una soluzione alternativa al classico metodo di studio, valido per tutti. L’obiettivo è quello di rendere lo studente sensibile al proprio stile di apprendimento, offrendogli un repertorio adeguato di strategie integrabili o alternative, in modo che sia lui stesso a decidere quella più adatta. L’efficacia delle strategie utilizzate verrà successivamente monitorata e valutata dal tutor che si occupa di accompagnamento allo studio in base ai seguenti criteri:

  1. La strategia migliora la prestazione scolastica?
  2. La strategia riduce lo sforzo nello studio?
  3. La strategia consente la generalizzazione degli apprendimenti?

Strumenti per favorire la conoscenza metacognitiva

Sono ormai numerose le ricerche che mostrano l’importanza fondamentale degli aspetti metacognitivi e di un approccio autoregolato allo studio (De Beni, Moè, Rizzato, 2003).

Gli aspetti su cui concentreremo la nostra attenzione sono:

  • La conoscenza metacognitiva, ossia la consapevolezza che ogni bambino/ragazzo possiede circa il funzionamento della propria mente.
  • L’ uso strategico dei processi metacognitivi di controllo esercitati sui propri processi cognitivi. Nello specifico ci riferiamo alla comprensione del compito e della sua difficoltà, la scelta della strada da seguire per affrontarlo (strategie da adottare), la pianificazione delle fasi del compito da svolgere, la previsione dell’esito finale, il monitoraggio del processo, la valutazione dei risultati e dei progressi ottenuti.

In un percorso di accompagnamento allo studio, alcuni strumenti utili per ordinare il materiale di studio, operare classificazioni e memorizzare sono sicuramente le schematizzazioni e le mappe. Questi strumenti hanno il vantaggio di abbinare il codice visivo a poche parole scritte, favorendo il recupero di informazioni, i collegamenti logici, ordinando la presentazione degli argomenti tramite parole-chiave e concetti fondamentali.

Mentre le libere schematizzazioni sono spontanee, personali e non seguono particolari criteri-guida, le mappe sono invece il frutto di modelli teorici e di riflessioni sulla loro applicabilità in ambito scolastico e si dividono in: mappe mentali e concettuali, mappe strutturali e ipermappe

La socializzazione e il confronto con i pari

Il percorso di accompagnamento allo studio qui descritto parte dal presupposto che favorire atteggiamenti prosociali all’interno del gruppo possa contribuire non solo a prevenire situazioni di scontro (a volte necessarie per il consolidamento del gruppo), ma anche a migliorare il contesto di apprendimento.

I metodi che proponiamo per potenziare gli apprendimenti con il supporto dei pari sono: il cooperative learning (apprendimento collaborativo in piccoli gruppi) e il tutoring (tutoraggio).

Il cooperative learning si basa sul lavoro in piccoli gruppi formati da pochi elementi, quattro o cinque al massimo, eterogenei al loro interno per abilità cognitive e sociali. Ogni gruppo sarà composto sia dallo studente con problemi di comportamento o di apprendimento, che da quello diligente e bravo mediatore. L’operatore di riferimento del gruppo si impegnerà a far rispettare le condizioni necessarie per il consolidamento di un gruppo efficace, che sono:

  1. L’interdipendenza positiva, intesa come condivisione di percorsi e obiettivi da raggiungere. A tal fine proponiamo di suddividere i gruppi per tavoli tematici (come il gruppo che fa storia, matematica, geografia, italiano ecc.) per età, o per classi.
  2. La leadership è distribuita. Ogni membro del gruppo può svolgere un ruolo diverso, ad esempio:
    • il controllore del tempo, si occuperà di tener d’occhio l’orologio affinché il gruppo concluda il lavoro nel tempo previsto;
    • il controllore della voce interviene quando si parla troppo forte;
    • il comunicatore, che è il membro del gruppo autorizzato ad interagire con gli altri gruppi;
    • il responsabile del tavolo, che si occupa di riordinare il materiale al termine delle attività;
    • il mediatore, che interviene nel caso di conflitti interni al gruppo.
  3. L’interazione promozionale, intesa come una situazione di benessere in cui prevalgono atteggiamenti di collaborazione, sostegno, aiuto in un contesto di fiducia e rispetto reciproco.

Il modello del tutoring o tutoraggio prevede che un ragazzo formato e motivato, svolga un’attività di insegnamento individuale, o in piccolo gruppo (massimo tre studenti). A differenza dell’ apprendimento collaborativo, in cui ciascuno viene considerato depositario di risorse da poter mettere al servizio del bene comune, il tutoring si basa sul presupposto che l’alunno che “ha di più” dà all’altro che “ha di meno”. Il compagno che aiuta sviluppa un forte senso di responsabilità, fiducia in se stesso e autorealizzazione, diventando padrone delle proprie conoscenze e dei propri stati d’animo. In un percorso di accompagnamento allo studio, è importante scegliere accuratamente i ragazzi che svolgeranno il ruolo di tutor, preparando un rapido percorso di formazione che sia strutturato non tanto sugli ambiti disciplinari, quanto sulle tecniche di insegnamento come gestione dei rinforzi e degli aiuti, feedback, ed eventualmente l’uso di tecnologie.

Favorire l’apprendimento attraverso le nuove tecnologie

L’utilizzo delle nuove tecnologie valorizza in maniera significativa le diverse modalità di elaborazione e produzione della conoscenza.

Secondo Howard Gardner, che formulò nel 1983 la teoria delle intelligenze multiple, le nuove tecnologie sono in perfetta sintonia con le diverse forme di intelligenza dei bambini perché permettono di gestire il materiale di studio secondo diversi punti di vista, garantendo un’educazione personalizzata (Gardner, 2010).

Nel percorso di accompagnamento allo studio qui descritto verranno messi a disposizione una serie di Pc portatili attraverso i quali sarà possibile navigare in rete e utilizzare programmi e software didattici, sempre in presenza di un operatore. Gli studenti verranno guidati e accompagnati nell’utilizzo consapevole di Internet, affinché sviluppino la capacità di giudizio rispetto a tutto ciò che potrebbero trovare in rete. Sviluppare queste competenze, soprattutto per tutti quei bambini e ragazzi che non trovano al di fuori della scuola un tessuto sociale di riferimento ricco e stimolante, significa creare le conoscenze tecnologiche di base che il mondo del lavoro dà ormai come scontate e che la scuola europea pone tra i suoi obiettivi primari.

I software didattici messi a disposizione sono speciali editor di testi con oggetti multimediali che facilitano l’apprendimento della letto-scrittura a tutti i bambini, ma sono particolarmente adatti a chi ha difficoltà ortografiche, dislessia o disturbi specifici di apprendimento. Oltre alla sintesi vocale presente al loro interno, questi software permettono di scrivere testi con diversi aiuti, come il correttore ortografico con suggerimento delle parole corrette, associazione automatica di immagini, spelling fonetico e lettura parola per parola.

Altre tipologie di software permettono di creare mappe concettuali in versione digitale. Le mappe in versione digitale offrono la possibilità di creare collegamenti logici anche con ipertesti e link, associando le immagini alle parole, e di visualizzare l’ordine di presentazione degli argomenti in maniera personalizzata. È possibile passare dalla mappa alla stesura di un testo, e una volta creata la mappa sarà possibile rileggerla con la sintesi vocale compresa all’interno del programma.

Collaborazione Minore – Famiglia – Scuola – Professionista

L’intervento educativo di accompagnamento allo studio ha come obiettivo principale quello di instaurare una buona alleanza educativa con la famiglia e la scuola e sostenere la motivazione e l’impegno dello studente nella partecipazione alle attività proposte.

La famiglia è coinvolta fin dall’inizio mediante il colloquio iniziale, durante il quale vengono raccolte importanti informazioni sulla storia scolastica e sulle eventuali difficoltà.

Il professionista collabora con la scuola attraverso un monitoraggio continuo degli apprendimenti, grazie al quale sarà possibile verificare l’efficacia dell’intervento educativo svolto nel doposcuola: è auspicabile che periodicamente il professionista incontri uno o più referenti del corpo docente per condividere la metodologia e le buone prassi.

Per raggiungere l’obiettivo di una buona alleanza educativa, è opportuno che:

  1. Il professionista continui il suo lavoro di monitoraggio sulle competenze e le risorse del minore, al fine di promuovere lo sviluppo delle sue potenzialità e il coinvolgimento della famiglia e della scuola all’interno del progetto educativo.
  2. La famiglia favorisca l’autonomia e l’efficacia del bambino nell’organizzazione e nella pianificazione quotidiana delle sue attività: ad esempio vigilando affinché il bambino porti il materiali necessario durante gli incontri e partecipando regolarmente ai colloqui con gli operatori e i professionisti.
  3. La scuola condivida gli obiettivi didattici indicando sul piano operativo le strategie più idonee per i singoli casi o specifici gruppi.

Promuovere l’autostima e la percezione di competenza dello studente

Susanne Harter (1978) afferma come ogni individuo che si cimenta in compiti di apprendimento, sia largamente influenzato dalla sua percezione di competenza, ovvero la percezione che l’individuo ha delle proprie capacità e abilità in un ambito specifico. Questa percezione influenzerà l’esito del compito seguendo due possibili direzioni: da una parte una tendenza a volersi sentire sempre più competenti, e quindi impegnarsi nel compito e darsi da fare; dall’altra il timore di sentirsi incapaci, che porterà a una crescente demotivazione e a un minore impegno.

I bambini/ragazzi che sperimentano quest’ultima modalità di affrontare lo studio, e in generale i compiti di apprendimento, rischiano di sviluppare col tempo un profilo cognitivo che gli studiosi dell’apprendimento chiamano di “impotenza appresa”: “Se tu non riesci, la rappresentazione di te, chiamata percezione di competenza, che costruisce la tua identità, soprattutto a scuola ti continua a mandare il messaggio: tu non sei capace! Questo messaggio, dicono gli studiosi di impotenza appresa, viene appreso, cioè tu apprendi che sei impotente e che non sei capace. E il meccanismo dell’impotenza appresa ti dice: “Proprio perché non sei capace, se continui, sei destinato a fallire. Scappa!” (Ianes, Lucangeli, Mammarella, 2010).

Nel percorso di accompagnamento allo studio qui descritto si cerca di spezzare il circolo vizioso che alimenta nello studente la convinzione di non essere capace, restituendogli un diritto che è fondamentale per ogni soggetto in età evolutiva: “il diritto di sbagliare”. Questo concetto trova le sue radici nella nostra cultura pedagogica italiana, in particolare nel pensiero di Maria Montessori, che fu tra i primi studiosi a sostenere come l’errore commesso e auto corretto in modo autonomo porti all’indipendenza, alla crescita sana e alla creatività.

Sarà nostra premura, pertanto, considerare l’errore come una risorsa per l’apprendimento di ogni studente. Solo dando a tutti la possibilità di sbagliare e incoraggiandoli a rimettersi alla prova nello svolgimento dei compiti, sarà possibile instaurare un clima di fiducia attraverso il quale ogni studente si senta accompagnato e guidato anziché giudicato e ammonito.

Alimentazione salutare: bambini più felici

Secondo uno studio dei ricercatori dell’University of Gothenburg, in Svezia, un’ alimentazione salutare è associata ad una maggior benessere, migliore autostima e a minori problemi emotivi nei bambini.

Lucia Marangia

 

Il maggiore benessere dei bambini che seguono un’ alimentazione salutare

Secondo uno studio dei ricercatori dell’University of Gothenburg, in Svezia, un’ alimentazione salutare è associata ad una migliore autostima e a minori problemi emotivi, come l’avere pochi amici o l’essere presi di mira o bullizzati, nei bambini dai 2 ai 9 anni, indipendentemente dal loro peso corporeo.

Secondo la Dott.ssa Louise Arvidsson, autrice del seguente studio, questo determinato tipo di alimentazione migliora il benessere e le relazioni sociali dei bambini.

I ricercatori hanno esaminato 7.675 bambini di età compresa tra i 2 e i 9 anni provenienti da 8 paesi europei – Belgio, Cipro, Estonia, Germania, Ungheria, Italia, Spagna e Svezia – quello che è stato scoperto è che un più alto Healthy Dietary Adherence Score (HDAS), cioè un punteggio di aderenza ad una dieta salutare più alto all’inizio del periodo di studio è associato ad una migliore autostima e a minori problemi emotivi due anni dopo.

L’HDAS misura l’aderenza a linee guida per una alimentazione salutare, che include: limitare il consumo di zuccheri raffinati, ridurre l’assunzione di grassi e mangiare frutta e verdura. Un tasso di HDAS più alto indica una maggiore  aderenza alle linee guida, le quali sono comuni agli otto paesi inclusi in questo studio.

All’inizio dello studio, ai genitori è stato chiesto di riportare quante volte a settimana i loro figli consumavano cibo facente parte di una lista di 43 alimenti; in base al consumo di questi alimenti, ai bambini veniva assegnato il punteggio HDAS. Il benessere psicosociale veniva valutato in base alle risposte dei genitori a dei questionari. Sono stati misurati anche l’altezza e il peso dei bambini e tutti i questionari e le misurazioni sono stati ripetuti dopo due anni.

Questo studio è stato il primo ad indagare i componenti individuali dell’HDAS e le loro associazioni con il benessere dei bambini. In particolare, un benessere migliore era associato al consumo di frutta e verdura, zuccheri e grassi, una migliore autostima era associata al consumo di zucchero e di pesce (2-3 volte a settimana), buone relazioni con i genitori erano associate al consumo di frutta e verdura, minori problemi emotivi al consumo di grassi (in tutti i casi il consumo di cibo rispettava le linee guida).

Poiché lo studio è osservazionale e si basa su dati riportati dai genitori, non è possibile stabilire conclusioni su cause ed effetti. La Dott.ssa Arvidsson ha dichiarato: “Le associazioni che abbiamo identificato hanno bisogno di essere confermate da studi sperimentali che includano bambini con diagnosi cliniche di depressione, ansia o disturbi comportamentali piuttosto che il benessere così come riportato dai genitori”.

Relazione tra disorganizzazione del pensiero, disturbi cognitivi e funzionamento sociale nella schizofrenia

La schizofrenia è un disturbo psicotico, caratterizzato da disturbi del pensiero, deficit cognitivi e difficoltà interpersonali e professionali. Un lavoro condotto presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma ha cercato di confermare la correlazione, in soggetti schizofrenici, tra disturbi cognitivi e disorganizzazione del pensiero

 

La schizofrenia è un disturbo psicotico, caratterizzato da alterazioni del pensiero, deficit cognitivi e difficoltà interpersonali e professionali.

Le persone affette da schizofrenia non riescono a svolgere le attività quotidiane di base, con delle implicazioni dirette sull’autonomia e la qualità della vita.

L’impairment cognitivo costituisce una caratteristica comune nei pazienti affetti da schizofrenia, nonché un fattore determinante dello scarso funzionamento. Il miglior indicatore del risultato funzionale sembra essere la cognizione, che nella malattia schizofrenica si rivela particolarmente deteriorata. Da un esame della letteratura specifica, diverse meta analisi hanno documentato deficit in aree cognitive differenti, in particolare la funzione intellettuale, l’apprendimento e la memoria, l’attenzione, la memoria di lavoro, il linguaggio e la funzione esecutiva; inoltre, la velocità di elaborazione è stata identificata come una componente centrale del declino cognitivo nei pazienti affetti da schizofrenia.

I disturbi del pensiero nella schizofrenia

I disturbi formali del pensiero (FTD) sono alcune delle caratteristiche principali nella schizofrenia. Tali disturbi riguardano la disorganizzazione del pensiero presente nelle anomalie della comunicazione. Il cosiddetto discorso disorganizzato è spesso classificato come disturbo del pensiero “positivo” o “negativo”. Rispettivamente, il primo è caratterizzato da un discorso disorganizzato o sconnesso, come ad esempio libere associazioni tra i concetti, soprattutto evidente quando avviene un cambiamento di tematiche in maniera sconnessa, con risposte tangenziali, parole senza senso o modi circostanziali di conversare. I secondi invece comprendono la riduzione nella quantità di elaborazione o della produzione verbale. (Andreasen, 1979a; Harvey et al., 1992).

La fluidità verbale è utilizzata per comprendere la presenza di disordini del pensiero e della cognizione nella schizofrenia. Deficit della fluidità verbale sono le alterazioni cognitive più durature (Szoke et al., 2008), e possono fungere da predittori delle abilità quotidiane di problem solving sia durante le simulazioni (Keefe et al., 2006; Revheim et al., 2006) sia nella vita reale (Rempfer et al., 2003). Peraltro, sintomi negativi e disorganizzazione sembrano essere correlati con i deficit delle funzioni esecutive e intellettuali deteriorate (Beatrice Bortolato, Kamilla W Miskowiak, Cristiano A Kohler, Eduard Viet, André F Carvalho, 2015).

Correlazione tra disturbi cognitivi e disorganizzazione del pensiero

In virtù dello stato dell’arte, è stato condotto un lavoro di tesi triennale per il corso di laurea Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma. L’indagine ha coinvolto 16 pazienti affetti da schizofrenia cronica secondo il DSM-IV TR (10 maschi e 6 femmine). Sono state utilizzate 4 scale di valutazione specifiche per i disturbi cognitivi (SCoRS), per la disorganizzazione del pensiero (SCADIS), per la sintomatologia psicopatologica generale (PANSS), e  per il funzionamento globale (VGF). Scopo dello studio è di confermare la correlazione tra disturbi cognitivi e disorganizzazione del pensiero, attraverso l’analisi statistica di Pearson; di individuare da una parte i cluster che presentano fattori comuni alle disfunzioni cognitive e dall’altra i disturbi formali del pensiero; di esaminare l’influenza della disorganizzazione del pensiero sul funzionamento globale attraverso l’Analisi delle Componenti Principali (PCA) e l’Analisi Fattoriale (FA).

È stata confermata la correlazione positiva tra deficit cognitivi e disorganizzazione del pensiero (TD). Sono state in seguito individuate le alterazioni riguardanti la memoria di lavoro (ML) come predittori dei disturbi formali del pensiero mediante l’analisi fattoriale.

Il termine “Memoria di Lavoro” si riferisce ad un’area del cervello atta ad immagazzinare temporaneamente e manipolare delle informazioni necessarie per compiti cognitivi complessi come comprensione del linguaggio, apprendimento e il ragionamento (Baddeley, 1986). Deficit di queste capacità cognitive sembrano essere collegati con alcuni sintomi schizofrenici: ne consegue una possibile correlazione con i disturbi del pensiero (Goldman-Rakic, 1994).

 Attraverso l’Analisi Fattoriale (FA) è stato valutato il legame tra deficit ML e disorganizzazione del pensiero, confermando l’esistenza di variabili latenti comuni tra le capacità cognitive, in particolare il dominio della memoria di lavoro, e il disturbo formale del pensiero. Il fattore in comune è “Disorganizzazione del Pensiero 1” (TD1) include gli items relativi all’organizzazione e all’espressione del pensiero, alla povertà di parola, all’inadeguatezza dei discorsi, alle difficoltà di spiegare un argomento a causa di una distrazione (distractive speech), di rispondere alle domande, le quali sono fuori tema o del tutto irrilevanti (Tangenzialità), o presentano una perdita dei nessi associativi nella conversazione con passaggio improvviso di un tema di pensiero ad un altro (Deragliamento), la cosiddetta “insalata di parole”, una grave mancanza di coesione del discorso a livello di sintassi di base e / o semantica all’interno delle frasi, segnato da errori di logica inferenziale (Illogicità), la creazione di nuove parole (Neologismo), l’uso di parole non convenzionale e idiosincratico (Parole approssimative). In altri termini, i deficit di memoria di lavoro sembrano influenzare la modalità di organizzazione del pensiero e la scorrevolezza nel tempo.

Un’ulteriore Analisi Fattoriale di quest’ultimo fattore TD1 e un item della scala PANSS, finalizzato a indagare la disorganizzazione del pensiero, ha evidenziato due differenti componenti della dimensione disorganizzata: il pensiero e il linguaggio. Infine il legame tra disorganizzazione e funzionamento sembra essere associato all’autonomia e alle attività quotidiane, relazioni interpersonale e soddisfazione al contatto.

L’analisi statistica ha evidenziato il limite, ancora oggi non superato, riguardante il pensiero, il linguaggio e le loro espressioni. Molti psicopatologi considerano le disfunzioni del linguaggio come un riflesso di sottostanti disturbi del pensiero, piuttosto che un disturbo primario a sé. Bleuler riteneva che i disturbi del pensiero erano fondamentali nella schizofrenia, classificando i disturbi del linguaggio e della scrittura come “sintomi accessori” secondari nella schizofrenia (Bleuler E, 1911/1950). Tuttavia, vi è una notevole confusione nella terminologia usata per indicare questi specifici fenomeni. È stato riconosciuto che la maggior parte dei disturbi del pensiero possono essere dedotti esclusivamente dal modo di parlare dei pazienti. Alcuni autori riconducono i disturbi del pensiero al linguaggio, in quanto risulta tautologico; tuttavia la spiegazione di ciò è che al pensiero non è possibile accedere direttamente (Rochester S, Martin JR, 1979).

Questo studio ha messo in luce la correlazione tra i domini cognitivi, la disorganizzazione del pensiero e il funzionamento globale in pazienti affetti da schizofrenia, nonostante non siano ancora ben chiare le modalità .

Omofobia e omofobia interiorizzata: quando lo stigma sociale rende difficile accettare e accettarsi

Nonostante sia stato già da tempo appurato che la condizione omosessuale non sia una condizione di patologia, persistono tuttora dei pregiudizi e stereotipi nei confronti degli omosessuali che molto spesso continuano ad essere vittime di omofobia.

 

L’ omofobia è un concetto strettamente connesso con quello di omosessualità, il quale termine significa letteralmente “paura nei confronti di persone dello stesso sesso”. Questo termine si usa per indicare quell’insieme di comportamenti che manifestano apertamente e deliberatamente l’intolleranza e i sentimenti negativi che le persone hanno nei confronti dei gay e delle lesbiche. Questi comportamenti si possono a loro volta manifestare a differenti livelli, da quello più leggero di derisione di un gay o della presenza di un sentimento di disagio quando si è in presenza di persone omosessuali, fino ad arrivare a veri e propri comportamenti aggressivi (Garelli, 2010).

Omofobia tra false credenze e società

L’ atteggiamento omofobico deriva dalla convinzione che tutti siamo geneticamente eterosessuali e che la normalità è insita nella scelta di un partner del sesso opposto e non dello stesso sesso. Tale considerazione è basata sulla falsa credenza che in natura non esistano comportamenti omosessuali: al contrario, le ricerche etologiche hanno dimostrato che molti animali presentano comportamenti omosessuali, tra cui criceti, conigli, porcospini, maiali e leoni.

E’ opportuno dire, però, che l’ omofobia non è alimentata soltanto dalle credenze sociali appena esplicitate, ma anche dalla società che spesso è diffidente nei confronti delle diversità, le considera pericolose e, di conseguenza, enfatizza e rinforza lo stereotipo omofobico (Lingiardi, 2007). La mancanza di fiducia nelle diversità, d’altronde, riguarda tutte quelle minoranze che sono portatrici di valori nuovi o diversi poiché mettono in pericolo quelli convenzionali. Ad incentivare tale situazione vi è inoltre la sempre più mancanza di contatti con le comunità omosessuali, poiché la non conoscenza delle realtà dei gay o delle lesbiche porta irrimediabilmente alla costruzione di un’idea astratta nei loro confronti, basata essenzialmente su ciò che si è sentito dire (Corbisiero, 2000; Lingiardi, 2007).

Omofobia interiorizzata

Il concetto omofobia, però, ha dei limiti teorici. Riprendendo la Bertone (2009), la sua teorizzazione è centrata sugli atteggiamenti degli uomini eterosessuali verso i gay, mentre non spiega l’ostilità verso le donne lesbiche. Inoltre, la semplice reazione di paura omofoba che caratterizza il concetto di omofobia, è piuttosto semplicistico rispetto alla complessità delle reazioni psicologiche che affrontano gli omosessuali di fronte ad atteggiamenti e pregiudizi omofobi.

Le tendenze negative nei confronti dell’ omosessualità sono così diffuse che molto spesso si parla di omofobia interiorizzata nei gay o nelle lesbiche, che in questo contesto vale la pena di approfondire in maniera più specifica in rapporto alla definizione di omosessualità.  Il termine di “omofobia internalizzata” è stato coniato da Gonsiorek nel 1988 per indicare l’introiezione da parte di gay e lesbiche di impulsi anti-omosessuali prevalenti nel mondo. Esso si può tradurre in comportamenti, sentimenti e atteggiamenti negativi verso caratteristiche omosessuali sia proprie che di altre persone. Può altresì essere considerato come un normale periodo evolutivo della persona omosessuale se si considera che i comportamenti e i pregiudizi negativi nei confronti degli omosessuali sono molto diffusi nella società contemporanea.

In generale, gli studi sembrano mettere in evidenza che la maggior parte delle donne lesbiche o degli uomini gay abbia provato durante la propria vita sentimenti o atteggiamenti negativi verso la propria omosessualità, con caratteristiche differenti per ogni singola persona in base al tipo di regione di provenienza, a fattori di natura familiare o alla presenza di strategie difensive personali (Saraceno, 2003; Barbagli, Colombo, 2007).

E’ stato già fatto riferimento all’impatto deleterio che un atteggiamento caratteristico dell’ omofobia interiorizzata possa avere nei confronti del funzionamento evolutivo delle persone omosessuali. Studi come quello di Maylon (1982) hanno messo in evidenza la presenza di una certa variabilità patologica nello sviluppo di certe condizioni sintomatiche, come la presenza di depressione, evitamento o addirittura comportamenti suicidari.

Gonsiorek ha definito alcuni comportamenti tipici di una persona che scopre di essere omosessuale e che va incontro alla presenza di omofobia interiorizzata, come l’accusarsi di essere profondamente sbagliati, sentimenti di colpa e di inferiorità. E’ con il coming out che l’ omofobia interiorizzata può essere realmente risolta, ovvero quando la persona riesce in qualche modo a dire sia a se stessa che agli altri che prova dei sentimenti di attrazione sessuale verso persone dello stesso sesso. A quel punto possono subentrare, ma negli altri, comportamenti di tipo omofobico cui l’ omofobia interiorizzata lascia eventualmente spazio.

Riconoscersi omosessuali: il processo di identificazione di gay e lesbiche

Secondo alcuni, l’ omosessualità può essere vista in termini di “stigma sociale”, poiché le persone omosessuali temono che non riusciranno mai ad essere giudicate in relazione alle proprie capacità, ma soltanto per il proprio orientamento sessuale (Lingiardi, 2007; Bertone, 2009). Il gruppo degli omosessuali può essere infatti considerato come un gruppo sociale stigmatizzato che causerà il continuo tentativo di mettere in atto dei comportamenti che tenteranno di ricostruire la propria realtà sociale in maniera diversa e più positiva.

Da un punto di vista sociale, in relazione a quanto detto poc’anzi, i movimenti per i diritti dei gay e delle lesbiche ha portato alla ridefinizione degli omosessuali come facenti parte di un gruppo di minoranza, rispetto alla maggioranza degli eterosessuali. Essi hanno dato vita a un processo di identità di gruppo con cui tutti gli omosessuali sono portati ad identificarsi. Secondo Walters e Simoni (1993) il processo di identificazione degli omosessuali nel proprio gruppo di appartenenza di minoranza si articola in quattro stadi principali:

  1. Lo stadio di pre-incontro: è lo stadio in cui donne lesbiche e uomini gay considerano l’eterosessualità come l’orientamento sessuale che deve essere considerato come normale, al contrario della propria omosessualità che viene invece svalutata; vi è di conseguenza l’idealizzazione di tutto ciò che appartiene al mondo eterosessuale;
  2. Lo stadio di incontro: è lo stadio in cui accade una iniziale consapevolezza di appartenenza al gruppo in seguito ad un evento particolare che porta l’individuo a porsi continue domande sullo stesso evento e prevale l’ansia associata all’integrazione con una nuova categoria sociale;
  3. Lo stadio immersione-emersione: rappresenta invece quello stadio in cui uomini gay e donne lesbiche assorbono completamente quella che viene ritenuta, in termini sociologici, la sottocultura gay e lesbica nel tentativo di consolidare la propria identità di gruppo, dirigendo rabbia e rancore verso l’ omofobia e l’ eterosessismo presenti all’interno della società;
  4. Lo stadio di internalizzazione: il raggiungimento di quest’ultimo stadio rappresenta anche il raggiungimento di un nuovo equilibrio interiore, dove i giudizi positivi sono convogliati verso il gruppo e quelli negativi verso i gruppi esterni; l’equilibrio interiore che viene raggiunto dai gay e dalle lesbiche dovrebbe essere caratterizzato da sicurezza sociale e sentimenti di auto-realizzazione o auto-accettazione, come risultato di un’identità di gruppo integrata.

Come si può intuire, una delle caratteristiche dell’ omosessualità è quella di essere vissuta, specialmente nei primi anni della propria vita, all’interno di subculture che appartengono all’eterosessualità (Garelli, 2000). Questo atteggiamento, prevalentemente di origine sociale e culturale, favorisce comportamenti e strategie difensive che vanno dal rifiuto della propria identità e del proprio vero orientamento sessuale e all’accettazione delle condizioni sociali in cui si è inseriti. Tali considerazioni possono portare un gay o una lesbica a vivere la propria sessualità in maniera clandestina per paura, ad esempio, di perdere il proprio lavoro o di ricadere in una condizione di alienazione rispetto alle altre persone (Lingiardi, 2007). La stigmatizzazione del gruppo omosessuale non è altro che una naturale conseguenza delle pratiche omofobiche che, seppur non possano essere considerate come l’unica causa delle stesse, di certo si presentano come le più rilevanti. Di fronte a tali stigmatizzazioni sociali, la persona omosessuale può mettere in atto differenti strategie di gestione dello stigma come aggressività verbale ed irritabilità, cinismo e distacco dalla realtà, autoironia e sarcasmo, alcune più adattive, altre meno (Pietrantoni, Prati, 2011).

A conferma di quanto finora detto, si potrebbe dire che l’ambiente sociale nel quale ogni omosessuale è inserito determina anche il grado del suo disagio psicologico (Chiari, Borghi, 2009).

Il dolore pelvico cronico maschile e l’utilizzo di tecniche cognitive-comportamentali come terapia

Un approccio biopsicosociale può affrontare i fattori non-medici che connotano l’esperienza dei pazienti con sindrome del dolore pelvico cronico maschile. La psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, può essere utile per imparare delle tecniche di resistenza al dolore (es. biofeedback).

Daniela Forgione, OPEN SCHOOL “Studi Cognitivi” di San Benedetto del Tronto

La sindrome del dolore pelvico cronico maschile

La sindrome del dolore pelvico cronico maschile (o prostatodinia o prostatite cronica non batterica) è definita come un dolore cronico, una pressione o disagio localizzati nella regione pelvica e/o perineale, o nei genitali, di durata superiore a 6 mesi, che non è dovuta a cause immediatamente spiegabili (infezioni, neoplasie, o anomalie strutturali).

Il dolore pelvico cronico che colpisce i soggetti di sesso maschile è localizzato nella zona più bassa dell’addome e, pertanto, si può originare dagli organi dell’apparato genitale (prostata, vescicole seminali, testicoli, funicoli spermatici), dal basso apparato urinario (vescica e uretra) o anche dalle strutture nervose, muscolari e ossee del bacino. Sono molte e diverse le tipologie di dolore che il paziente affetto da questa sindrome lamenta.

Anzitutto è variabile l’intensità del dolore che, da un vago senso di fastidio, può raggiungere gradi intollerabili, descritti dal paziente come fitte lancinanti. In alcuni casi la sensazione dolorosa appare collegata al riempimento o allo svuotamento degli organi pelvici (vescica e retto), mentre in altri casi è provocata da alcune posizioni, quale quella seduta, o dalla pressione esercitata su determinati punti dell’area pelvica (trigger point).

Si parla di Sindrome del Dolore Pelvico (CPPS) in quanto si ha una straordinaria varietà di sintomi e la causa è molto vasta. I sintomi più comuni includono dolore, o fastidio al perineo, all’area sovrapubica, a pene e testicoli, disuria e dolore eiaculatorio. I pazienti possono anche avere sintomi urinari, sia ostruttivi (flusso lento e intermittente) che irritativi (aumento della frequenza o urgenza minzionale). La disfunzione sessuale è comune. Sintomi sistemici includono mialgia, artralgia e astenia inspiegabile. Alcuni pazienti possono presentare cistite interstiziale/sindrome del dolore vescicale con un predominante dolore alla vescica associato a problemi di svuotamento.

Studi su test di autovalutazione indicano che ne soffre lo 0,5% dei maschi; valutazioni basate sui sintomi della popolazione generale suggeriscono un’incidenza di sintomi nei maschi dal 2,7% al 6,3%. Di solito la sindrome è diagnosticata tra i giovani e uomini di mezz’età, ma è prevalente in tutte le fasce di età. Le principali comorbidità sono depressione, stress e disturbi d’ansia.

La fisiopatologia non è ancora completamente nota e probabilmente sottende un processo complesso e multifattoriale che alla fine si traduce in una sindrome di dolore neuropatico cronico e/o muscolare. Si ritiene che questa condizione possa essere innescata da infezioni (comprese le malattie sessualmente trasmissibili ed organismi non coltivabili e virus), traumi (compreso il trauma perineale e uretrale), sovra-regolazione neurologica, infiammazione non dovuta ad infezione (autoimmune o neurogena), disfunzione minzionale e disfunzione del pavimento pelvico/spasmo muscolare. In uomini vulnerabili geneticamente e/o anatomicamente, questi iniziatori della malattia possono provocare dolore cronico neuropatico e neuromuscolare.

Il trattamento della sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Il trattamento è di solito multi-modale e deve essere personalizzato in base alle caratteristiche morfologiche e funzionali del paziente. Misure conservative comprendono termoterapia locale, attività fisica leggera (passeggiate, nuoto, stretching e yoga), dieta, cambiamenti nello stile di vita, fisioterapia, terapia farmacologica e fitoterapica. Ciascuno di tali trattamenti ha dimostrato di poter aiutare i soggetti colpiti dalla sindrome del dolore pelvico cronico maschile, ma nessuno di essi può, da solo, offrire una risposta certa e completa a una condizione tanto resistente alle cure.

Le condizioni che possono alterare la qualità di vita del paziente possono essere: un’alterazione delle emozioni (depressione, ansia); alterazione dell’immagine di sé e riduzione della propria autostima; alterazioni delle relazioni di coppia e della vita familiare (soprattutto in presenza di disfunzione sessuale, in particolare con diminuzione o rinuncia ai rapporti); limitazione nelle attività quotidiane in ambiente domiciliare, lavorativo ed extra-domiciliare (ad es. stare fuori casa per molte ore con la necessità di raggiungere una toilette; sollevare pesi); limitazioni nell’attività fisica; stanchezza fisica (dovuta ad interruzioni del sonno per mingere frequentemente); diminuzione dell’attenzione; limitazioni nella vita sociale.

La terapia cognitivo comportamentale della sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Pertanto, un approccio biopsicosociale può affrontare i fattori non-medici che connotano l’esperienza di questi pazienti. La psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, può essere utile per imparare delle tecniche di resistenza al dolore (es. biofeedback).

Il biofeedback è una tecnica con la quale le informazioni relative ad un processo fisiologico, normalmente sconosciute, sono presentate al paziente e al terapista come un segnale visivo, uditivo o tattile. Il segnale deriva da un parametro fisiologico misurabile, che è successivamente usato in un processo educativo, per raggiungere uno specifico risultato terapeutico. Il segnale è quantificato e il paziente è istruito su come modificarlo, controllando così il processo fisiologico (attività elettrica muscolare del pavimento pelvico o di altri muscoli, oppure pressione intracavitaria realizzata dal pavimento pelvico e dai muscoli addominali). Con tale tecnica, pertanto, si insegna al paziente a rilassare i muscoli del pavimento pelvico per alleviare il dolore dovuto all’ipertono. I muscoli ipertonici possono presentare trigger point (punti dolorosi in cui le fibre sono contratte), la cui pressione può alleviare questo dolore locale. Il biofeedback è una tecnica che permette al paziente di essere il protagonista della propria guarigione, è un intervento non invasivo e stimola le naturali risposte di guarigione dell’organismo permettendo di ridurre o eliminare l’utilizzo dei farmaci o intervenire quando l’approccio farmacologico non dà una risposta soddisfacente, insegnando al paziente ad utilizzare le risorse interne nel raggiungimento dei propri obiettivi.

Diversi sono gli studi che dimostrano l’efficacia del biofeedback nel trattamento del dolore pelvico cronico maschile. Tra questi Clemens e colleghi sono partiti dall’ipotesi che l’utilizzo di misurazioni che riducono lo spasmo muscolare del pavimento pelvico possano migliorare i sintomi dovuti alla mialgia della tensione pelvica del pavimento nei pazienti maschi. Sulla base di questa ipotesi, gli autori hanno iscritto 19 pazienti con dolore pelvico cronico maschile in un programma di 12 settimane della durata di 1 ora di rieducazione del pavimento pelvico orientato al biofeedback e al bladder training (“ginnastica della vescica”: consiste in una assunzione graduale di una quantità sempre maggiore di liquidi e nel tentare di rimandare il più possibile la minzione).

Durante il programma l’infermiera collabora con il paziente per raggiungere tre obiettivi: (1) insegnare al paziente a concentrare l’attenzione sul pavimento pelvico e a imparare a contrattare e rilassare selettivamente questi muscoli; (2) insegnare al paziente ad eseguire questi esercizi quotidianamente per interrompere la sindrome del dolore miofasciale pelvico cronico; e (3) lavorare con il paziente per aumentare progressivamente l’intervallo di minzione verso un obiettivo non inferiore alle 4 ore. In tutte le sedute, è stato utilizzato un metodo non invasivo di monitoraggio dell’attività muscolare del pavimento pelvico (biofeedback) per aiutare il paziente a individuare l’attività muscolare nei muscoli pelvici. In tale studio, il programma di biofeedback viene utilizzato per istruire il paziente nella contrazione e rilassamento della muscolatura del pavimento pelvico, inoltre il paziente viene istruito al fine di eseguire gli esercizi a casa, tre volte al giorno, utilizzando la stessa combinazione di contrazioni e rilassamenti veloci e lenti imparati durante la sessione di istruzione per rafforzare i muscoli. Questo perché la migliore salute muscolare può provocare meno spasmi e dolori, infatti questi esercizi di movimento aiutano a rompere il ciclo dello spasmo e del dolore attraverso il rilassamento muscolare del pavimento pelvico volontario, una tecnica utilizzata durante le esacerbazioni episodiche del dolore. Questo studio preliminare conferma che le tecniche di rieducazione neuromuscolare assistite da biofeedback sono state utilizzate con successo per il trattamento di sindromi di dolore cronico, pertanto un programma di rieducazione neuromuscolare dei muscoli del pavimento pelvico insieme alla formazione di intervalli di svuotamento della vescica può fornire un miglioramento significativo e durevole in misure oggettive di dolore, urgenza e frequenza nei pazienti con dolore pelvico cronico maschile.

Oltre al biofeedback, diversi sono gli studi che si sono posti l’obiettivo di verificare se la capacità di programmi di gestione del sintomo attraverso la terapia cognitivo-comportamentale possano migliorare i fattori di rischio psicosociale (catastrofizzazione, umore, supporto sociale e dolore generale) e migliorare la qualità di vita del paziente.

Tra questi lo studio di Tripp et al. ha messo in evidenza come un programma di gestione psicosociale possa potenzialmente essere un metodo di gestione efficace per gli uomini affetti da dolore pelvico cronico maschile. Il programma di auto-gestione settimanale della durata di 8 sessioni mirava alla disputa e alla sostituzione del pensiero disfunzionale con un pensiero ed un comportamento finalizzato al benessere. Tale programma ha evidenziato già dalle prime 4 sessioni una riduzione significativa della disabilità del paziente, del dolore e della catastrofizzazione e, alla fine delle 8 sessioni, una riduzione dell’impatto negativo sulla qualità della vita. Nello specifico, si è visto come le riduzioni della catastrofizzazione fossero fortemente associate a riduzioni dei sintomi del paziente. La catastrofizzazione è la tendenza a impiegare una serie di analisi cognitive associate al dolore, chiamate “ruminatorie” (“non posso tenerlo fuori dalla mia mente”), ingrandendo (“mi fa pensare ad altri dolori”) e facendo sentire il paziente impotente (“non c’è niente che posso fare”) quando subisce o anticipa il dolore. Essa è considerata una caratteristica importante nella classificazione dei pazienti con dolore pelvico cronico maschile ed è un obiettivo comune nella depressione, nell’ansia e nella terapia del dolore.

I programmi di gestione psicosociale aiutano i pazienti a identificare, valutare e ridefinire le loro tendenze catastrofiche in relazione ai sintomi di dolore pelvico cronico maschile. Infatti, i pazienti hanno spesso difficoltà ad individuare, esprimere o riportare i dettagli delle esperienze dolorose, pertanto, in tale studio, i pazienti sono stati invitati a compilare una valutazione settimanale di dolore, umore, sostegno sociale e disabilità. I risultati hanno evidenziato come l’incoraggiare i pazienti a svolgere un ruolo attivo nel proprio trattamento possa risultare un efficace trattamento per il dolore cronico. Questo programma di gestione ha permesso, inoltre, di aiutare i pazienti a credere di poter gestire i loro sintomi e di passare dalla sensazione di essere impotenti a sentirsi più efficaci mettendo in evidenza le strategie disfunzionali (riposo come mezzo per affrontare il dolore; comportamenti sedentari; ecc.) e creando nuove strategie di coping mirate al benessere. Infine, tale studio ha messo in evidenza che non è il dolore in sé ad essere il migliore predittore per determinare il grado di qualità di vita del paziente e che il sollievo del dolore, la catastrofizzazione e il sostegno sociale potrebbero essere obiettivi di intervento più appropriati.

Lo stress psicologico e la sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Altri studi hanno evidenziato la correlazione tra lo stress e un’attività elettromiografica anormale. Infatti, lo stress psicologico può svolgere un ruolo causale o prolungare direttamente o indirettamente i sintomi fisici (disregolazione dei pattern di tensione muscolare pelvica; cambiamenti del sistema nervoso centrale che contribuiscono ad aumentare la normale percezione del dolore; aumento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con possibili implicazioni per la percezione del dolore e della nocicezione; coinvolgimento del sistema immunitario). Inoltre, lo stress può causare il dolore, anche in assenza di cambiamenti fisiologici legati allo stress, che i pazienti possono sperimentare, su cui possono focalizzarsi e di cui possono soffrire. Quando una persona sperimenta eventi negativi e stressanti, le cognizioni negative riguardanti un’esperienza dolorosa possono venire in mente automaticamente. Questo può esagerare il valore della minaccia del dolore, aumentando la preoccupazione, i sentimenti di impotenza e il pessimismo. Le credenze negative relative al dolore sono associate ad una maggiore disabilità legata al dolore.

Proprio sull’assunto della correlazione tra stress e attività elettromiografica anormale Wise e Anderson hanno sviluppato un protocollo la cui strategia punta a spezzare il ciclo di tensione-ansia-dolore-atteggiamento protettivo: il dolore provocato dalla contrattura cronica della pelvi scatena il riflesso a tendere i muscoli pelvici per proteggersi dal dolore; (tale riflesso è disfunzionale, perché porta a un peggioramento del dolore); la pelvi infiammata tende ad essere reattiva all’ansia; l’ansia produce un aumento della tensione, aumenta l’attività dei punti trigger che producono un maggior dolore, scatenando a sua volta l’atteggiamento protettivo che poi produce ancora più ansia (ciclo continuo).

Tale protocollo MFRT/PRT (rilascio dei punti trigger e miofasciale/rilassamento paradossale esteso) è stato inserito in un programma di trattamento intensivo di 6 giorni. Gli autori si sono concentrati sia sulla dimensione fisica (MFRT: istruire i pazienti a ripristinare l’abilità di rilassarsi e contrarsi dei muscoli pelvici, insegnando loro a praticare il rilascio dei punti trigger e il rilascio miofasciale all’interno e all’esterno dei muscoli) che su quella mentale (PRT: insegnare ai pazienti a calmare il loro sistema nervoso e a rilassare i muscoli pelvici attraverso il rilassamento paradossale esteso) della disfunzione del pavimento pelvico. Pertanto, oltre alla fisioterapia (MFRT), un aspetto fondamentale del protocollo è stato proprio il PRT: un metodo di auto-regolazione autonoma e diminuzione della tensione muscolare pelvica. I pazienti hanno ricevuto 1 ora di istruzioni individuali verbali e una sessione di pratica a intervalli settimanali, della durata totale di 8 settimane, in esercizi di rilassamento progressivo ideati da Wise e Anderson per ottenere un rilassamento profondo specifico del pavimento pelvico. La parola paradossale viene usata perché i pazienti sono diretti ad accettare la loro tensione come modalità di rilassare/rilasciare. Tale formazione prevede una tecnica di allenamento della respirazione specifica per calmare l’ansia e sessioni di training di rilassamento che dirigono i pazienti a focalizzare l’attenzione sulla sana accettazione della tensione in specifiche aree del corpo. I pazienti attraverso il PRT forniscono al sistema nervoso centrale nuove informazioni o maggiore consapevolezza al fine di calmare progressivamente il pavimento pelvico. I risultati hanno evidenziato che i pazienti che hanno partecipato al protocollo MFRT/PRT hanno mostrato un miglioramento del sintomo (diminuzione del sintomo nel 72% dei soggetti) attraverso la riabilitazione del pavimento pelvico e la modificazione dell’abitudine di concentrare la tensione sotto stress.

Tali studi suggeriscono che le variabili cognitive/comportamentali sono importanti predittori del dolore e della disabilità negli uomini affetti da sindrome del dolore pelvico cronico maschile. Questi risultati hanno permesso di estendere la comprensione del dolore e della disabilità nei pazienti con CPPS e suggeriscono che i fattori cognitivi/comportamentali, come la catastrofizzazione, il senso di impotenza e strategie comportamentali disfunzionali, possono avere un ruolo significativo nella regolazione del paziente; così come gli interventi di autogestione cognitivo-comportamentali progettati per educare il paziente a far fronte a disturbi, a comprendere il pensiero associato a un dolore maggiore e praticare nuovi metodi di coping (sia emotivi che comportamentali), dimostrando l’importanza di inserire i programmi di gestione del dolore o le variabili psicologiche nel controllo della sindrome del dolore pelvico cronico maschile.

L’ attività fisica riduce i sintomi motori del morbo di Parkinson

Secondo una nuova ricerca, una regolare attività fisica diminuirebbe il peggioramento dei sintomi motori nei soggetti affetti dal morbo di Parkinson.

 

Il morbo di Parkinson e gli effetti dell’attività fisica

Gli scienziati della Northwestern Medicine dell’Illinois e della University of Denver hanno testato per la prima volta gli effetti dell’attività fisica ad alta intensità su pazienti parkinsoniani ed hanno scoperto che l’esercizio fisico ripetuto 3 volte a settimana diminuirebbe il decorso del morbo di Parkinson.

La scoperta appare alquanto significativa poiché studi precedenti ritenevano lo sforzo fisico troppo stressante per questi pazienti.

Il morbo di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune e la più comune malattia del movimento. I sintomi caratterizzanti comprendono la progressiva perdita del controllo muscolare, tremori, rigidità, lentezza e compromissione dell’equilibrio. Ad uno stadio avanzato della malattia risulta difficile camminare, parlare e svolgere compiti motori comunemente semplici. I farmaci più utilizzati per curare la malattia presentano diversi effetti collaterali e una ridotta efficacia nel tempo per questa ragione appaiono necessari nuovi trattamenti.

Per rallentare la progressione dei sintomi basterebbe che il paziente svolgesse attività fisica ad alta intensità ovvero con una frequenza cardiaca compresa tra l’80 e l’85%” ha affermato l’autore dello studio Daniel Corcos, professore di fisioterapia e scienze del movimento umano presso la Scuola di Medicina della Northwestern University.

Lo studio clinico randomizzato ha coinvolto 128 soggetti di età compresa tra i 40 e gli 80 anni provenienti dalla Northwestern University, dal Rush University Medical Center di Chicago, dall’Università del Colorado e dall’Università di Pittsburgh.

I partecipanti a questo studio, chiamato Parkinson Disease of Exercise (SPARX), erano in uno stadio iniziale della malattia e non assumevano alcun farmaco, il dato risulta di estrema importanza in quanto permette di attribuire gli eventuali risultati all’esercizio fisico e non all’azione dei farmaci.

Lo studio prevedeva 3 gruppi sperimentali: soggetti che svolgevano attività fisica ad alta intensità (80-85% della frequenza cardiaca massima) tre volte alla settimana per sei mesi, soggetti impegnati in attività fisica moderata (60-65% della FCmax) con uguale regolarità e periodicità del gruppo precedente e infine gruppo di controllo che non prevedeva alcuna attività.

È bene specificare che ogni partecipante era supervisionato costantemente da un cardiologo il quale valutava la risposta del cuore allo sforzo che il soggetto stava compiendo. Corcos ha dichiarato “Abbiamo ideato per i soggetti un allenamento adeguato. Non si tratta di stretching ma di un’attività particolarmente intensa per confermare l’idea secondo la quale l’esercizio fisico possa essere utilizzato come cura”.

Alla fine dello studio, trascorsi 6 mesi, i partecipanti sono stati valutati utilizzando una scala di misurazione della gravità dei sintomi con punteggi compresi tra 0 e 108 (gravità massima dei sintomi). Tutti i partecipanti nella fase precedente allo studio avevano ottenuto un punteggio di circa 20. I risultati hanno dimostrato che i soggetti del gruppo ad alta intensità mostravano un punteggio invariato, il gruppo con esercizio moderato presentava un peggioramento di 1.5 punti mentre il gruppo di controllo mostrava un peggioramento di addirittura 3 punti. Considerato il punteggio di pre-trattamento pari a 20, il risultato rappresenta un cambiamento del 15% dei sintomi primari, il ché comporta conseguenze clinicamente importanti soprattutto in termini di qualità di vita.

Rispetto agli studi precedenti che avevano una durata media di 12 settimane, lo studio ha osservato un elevato numero di partecipanti svolgere attività particolarmente intensa per un periodo di tempo relativamente lungo.

Diverse studi suggeriscono un effetto benefico dell’esercizio nel morbo di Parkinson” ha detto il dottor Codrin Lungu direttore del programma presso l’Istituto Nazionale dei Disordini Neurologici. “Tuttavia non è chiaro quale tipo di esercizio sia più efficace. Il progetto SPARX cerca di affrontare rigorosamente questo problema. I risultati sono interessanti e giustificano un’ulteriore esplorazione delle attività ottimali per il morbo di Parkinson.

In conclusione, Corcos ha affermato “Stiamo impedendo ai pazienti di peggiorare soprattutto ad uno stadio precoce della malattia. Abbiamo ritardato il peggioramento dei sintomi per sei mesi, sono però necessari ulteriori studi per capire se sia possibile prevenire la progressione sintomatica per un periodo più lungo”.

La ketamina contro il rischio di suicidio

La ketamina, un farmaco utilizzato principalmente come anestetico, può offrire un modo rapido ed efficace per ridurre il rischio di suicidio tra gli individui con depressione. Questo è il risultato di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Columbia University Medical Center di New York City.

 

Il rischio di suicidio

Il suicidio è la decima causa di morte negli Stati Uniti; ogni anno, circa 44.193 persone negli Stati Uniti si tolgono la vita, e altri 494.169 sono ricoverati in ospedale per autolesionismo.

La depressione è di gran lunga il disturbo più comune alla base di un tentativo di suicidio; circa il 50% di coloro che tentano il suicidio soffre di depressione maggiore o disturbo bipolare.

Ma come si può comprendere se un amico o una persona amata che soffre di depressione sta avendo pensieri suicidari? Le minacce verbali di suicidio o di essere un peso per gli altri, un aumento nell’uso di droghe o alcol e cambiamenti di umore possono essere tutti segnali di allarme.

Naturalmente, non è possibile prevedere se una persona tenterà il suicidio, il che evidenzia la necessità di trattamenti rapidi che possano ridurre i pensieri.

C’è una finestra critica in cui i pazienti depressi con pensieri suicidari, hanno bisogno di un rapido sollievo per prevenire l’autolesionismo“, spiega il capo dello studio, il dottor Michael Grunebaum, uno psichiatra ricercatore presso il Columbia University Medical Center.

Gli antidepressivi attualmente disponibili possono essere efficaci nel ridurre i pensieri suicidari nei pazienti depressi“, aggiunge, “ma possono richiedere settimane per avere un effetto“.

Il dott. Grunebaum spiega: “I pazienti depressi con rischio suicidario hanno bisogno di trattamenti che siano rapidamente efficaci nel ridurre i pensieri autolesionistici. Attualmente non esiste un trattamento per un rapido sollievo di questi pensieri nei pazienti con depressione“.

La ketamina: un farmaco contro l’ideazione suicidaria

Ricerche precedenti, tuttavia, hanno indicato la ketamina come potenziale candidato, dopo aver scoperto che basse dosi del farmaco possono aiutare a ridurre l’ideazione suicidaria nelle persone depresse.

Il Dr. Grunebaum e i suoi colleghi hanno deciso di approfondire ulteriormente questa associazione nel loro nuovo studio. Nello specifico, hanno valutato se la ketamina potesse ridurre i pensieri suicidari entro 24 ore dalla somministrazione.

I risultati sono stati recentemente pubblicati su The American Journal of Psychiatry.

La ricerca ha incluso 80 adulti con depressione maggiore. Tutti i partecipanti avevano pensieri suicidari, come determinato dai loro punteggi sulla scala per ideazione suicidaria (SSI).

I partecipanti sono stati randomizzati a uno dei due gruppi di trattamento. Un gruppo ha ricevuto una dose bassa di ketamina, mentre l’altro gruppo ha ricevuto una dose bassa di midazolam, un sedativo.

Utilizzando l’SSI, i ricercatori hanno valutato la presenza di pensieri suicidari a 24 ore dopo la somministrazione di ciascun farmaco.

Mentre entrambi i gruppi hanno visto una riduzione clinicamente significativa dei pensieri suicidari, questa riduzione è stata maggiore per i soggetti trattati con ketamina: il 55% del gruppo che ha assunto ketamina ha presentato una riduzione del 50% o più dei pensieri suicidari, rispetto al 30% del gruppo che ha assunto midazolam.

Gli effetti della ketamina sui pensieri suicidari sono rimasti fino a 6 settimane, riferisce il team. Inoltre, coloro che hanno ricevuto la ketamina hanno sperimentato maggiori miglioramenti rispetto all’umore e ai sintomi della depressione e dell’ affaticamento, rispetto a quelli che hanno ricevuto il midazolam.

Il team osserva che gli effetti della ketamina sulla depressione hanno rappresentato circa un terzo degli effetti del farmaco sui punteggi SSI, il che suggerisce che la ketamina può direttamente ridurre i pensieri suicidari.

Gli effetti collaterali più comuni della ketamina sono stati la dissociazione e un aumento della pressione arteriosa dopo somministrazione. Tuttavia, il team osserva che questi effetti collaterali si sono presto attenuati.

Nel complesso, i ricercatori affermano che le loro scoperte mostrano che “la ketamina offre una promessa come trattamento ad azione rapida per ridurre i pensieri suicidari nei pazienti depressi“.

Ulteriori ricerche per valutare gli effetti antidepressivi e anti-suicidari della ketamina potrebbero aprire la strada allo sviluppo di nuovi farmaci antidepressivi che agiscono più rapidamente e potenzialmente sono in grado di aiutare le persone che non rispondono ai trattamenti attualmente disponibili.”

Sincronizziamoci! Una prospettiva di coppia per il funzionamento cerebrale

Uno studio condotto da Kinreich e Feldman, recentemente pubblicato su Scientific Reports, ha investigato come tra le menti di due partner impegnati in una relazione sentimentale, avvenga una sincronizzazione tra le onde cerebrali durante un’interazione, in particolare quando la coppia si scambia reciprocamente sguardi ed esprime modalità affettive positive, a supporto di una continuità in termini di basi neurali tra l’attaccamento madre-bambino e quello romantico-affettivo.

 

L’importanza della sincronizzazione nelle interazioni sociali

La coordinazione dei comportamenti tra due o più persone impegnate in un’ interazione rappresenta un aspetto cruciale della vita sociale sia per gli esseri umani che per gli animali (Miles, Nind & Macrae, 2009) ed è un meccanismo evolutivo specifico di quella che si potrebbe definire “sincronizzazione sociale” osservabile fin dalle interazioni più precoci, per esempio tra madre-bambino e anche tra membri di un gruppo sociale in quanto essa consente l’aumento della connessione tra gli individui e la costruzione di legami.

Gli episodi di sincronizzazione in particolare dei comportamenti non verbali tra genitori e figli come ad esempio il rispecchiamento emotivo tra le espressioni facciali nella diade madre-bambino (Winnicott, 1965) o il comportamento di “licking” e “grooming” negli animali, consente la maturazione dei sistemi fisiologici che supportano la partecipazione della prole alle interazioni sociali future (Feldman, 2007).

Durante gli episodi di sincronizzazione, all’interno della relazione di attaccamento tra madre e bambino, quest’ultimo impara ad interagire e a coordinarsi con un’altra persona non solo perché ha imitato i comportamenti della madre ma anche grazie a processi fisiologici come ad esempio la sincronizzazione tra il suo battito cardiaco e quello della madre o il rilascio simultaneo di ossitocina che aumenta il legame affettivo.

Pertanto le ricerche sembrano suggerire che la sincronizzazione sociale costituisca un template biologico all’interno del quale si sviluppa la relazione di attaccamento e il legame tra individui (Feldman, Gordon & Zagoory‐Sharon, 2011).

La sincronizzazione fisiologica nella coppia

Partendo da queste ricerche che mostravano come l’attaccamento precoce e la costituzione di legami tra individui fosse possibile a seguito di tale sincronizzazione a livello comportamentale e fisiologico, tanto da parlare di sincronizzazione bio-comportamentale (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017), Kinreich e Feldman hanno cercato di indagare se tale meccanismo si possa rilevare anche a livello neurale e se caratterizza anche il legame tra partner affettivi e tra pari, durante interazioni naturalistiche e non artefatte in laboratorio.

L’intento dei ricercatori era quello di investigare quei meccanismi che rendono possibile a due partner romantici adulti di coordinare e sincronizzare le loro risposte cerebrali durante un’interazione reale, in quanto è stato osservato come individui impegnati in una relazione romantica-sentimentale mostrano un aumento dei livelli di ossitocina e di reciproca coordinazione tra di loro tramite gli sguardi, correlando con i livelli di sincronizzazione sociale (Feldman, Gordon & Zagoory‐Sharon, 2011).

I ricercatori hanno reclutato 104 soggetti adulti, tra cui 52 coppie impegnate in una relazione romantica da almeno un anno (gruppo “ coppia ”) e l’altra metà composta da coppie di maschi e femmine che non condividevano alcun rapporto (coppia “non familiare”).

Alle coppie è stato chiesto di sedersi l’uno di fronte all’altra e pianificare insieme una giornata piacevole, senza ulteriori istruzioni; ciascun partner della coppia di entrambi i gruppi indossava un casco con degli elettrodi per poter registrare l’attività elettroencefalografica online ed era consapevole del fatto che all’interno della stanza erano presenti delle videocamere che avrebbero ripreso i loro comportamenti.

Lo studio di Kinreich e Feldman (2017) è il primo ad utilizzare un’iper scansione dei tracciati elettroencefalografici per esplorare la sincronizzazione neurale tra individui durante interazioni naturalistiche, trovando un temporaneo pattern di attivazione simile nelle onde cerebrali tra due partner adulti; in particolare hanno osservato che quest’attivazione cerebrale simile nella frequenza è ancora più forte e persistente nel tempo per le coppie rispetto ad adulti sconosciuti tra di loro; ciò indica che l’attaccamento affettivo gioca un ruolo importante nella sincronizzazione cerebrale e nel livello di connessione sociale tra i partner.

I ricercatori inoltre hanno trovato che questa sincronizzazione è relativa alle onde gamma localizzate e provenienti dalle regioni temporo-parietali, particolarmente importanti per le funzioni di mentalizzazione e l’embodiment, come la giunzione temporo-parietale (TPJ) e il solco parietale temporale superiore nella sua porzione posteriore (pSTS).

Queste aree parzialmente si sovrappongono con altre strutture cerebrali che sono coinvolte nei processi di interazione sociale come la comprensione sociale, la differenziazione tra sé e l’altro e lo sguardo sociale (Bilek et al., 2015).

I ricercatori hanno in aggiunta trovato che questo legame di sincronizzazione tra le onde cerebrali di due partner si verifica a seguito di un comportamento sociale non verbale; infatti la frequenza delle onde cerebrali tra le due menti è particolarmente alta nei momenti in cui i partner si guardano maggiormente negli occhi senza avversione e leggermente minore quando essi interagiscono con l’altro tramite un comportamento affettivo positivo (espressioni facciali che esprimono un arousal positivo, sorrisi, parlare concitato, risatine scherzose) (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017).

Tali atteggiamenti non verbali esibiti dalle coppie sono stati proposti dai ricercatori dello studio in continuità con i comportamenti messi in atto dalla madre con il bambino per rafforzare il legame che prepara la mente di quest’ultimo alla connessione sociale (Neumann, 2008).

Inoltre, lo studio ha osservato come la sincronizzazione delle onde gamme tra i partner sia indipendente dalla durata e dal contenuto della conversazione suggerendo che la coordinazione tra le due menti sia supportata e correli in porzione maggiore con comportamenti non verbali e dalle modalità positive attraverso le quali i due partner comunicano, anziché con aspetti verbali e contenutistici (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017).

La psicotraumatologia nella pratica clinica (2017) di M. Puliatti – Recensione del libro

La psicotraumatologia nella pratica clinica si suddivide infatti in due parti: interventi clinici con gli adulti e interventi clinici con i bambini e gli adolescenti. Ogni parte del libro si dipana in vari capitoli riguardanti diverse macro-aree di cui prima si fornisce una definizione o una introduzione teorica e dopo si presentano numerosi esercizi, a volte in ordine di complessità e spesso accompagnati da figure che illustrino meglio le posizioni da far assumere al paziente.

 

E’ di recente interesse, tra gli articoli pubblicati su State of Mind, il dibattito sul peso (o meglio “spettro” per utilizzare le parole dello stesso) del trauma in psicoterapia. Diverse le opinioni sul tema dei grandi clinici odierni ed è quasi spiazzante farsi un’opinione in merito, in quanto le ragioni in favore di ogni punto di vista sono addotte magistralmente da tutti gli autori. Tutto questo dibattere da un lato affascina un neo terapeuta, lo porta a crearsi un’idea di ciò che accade in terapia e dell’importanza del non adottare un’unica linea di pensiero senza aprirsi ad altri punti di vista; dall’altro spaventa e, alle prese con l’avvio della professione, il novellino non può far altro che chiedersi: dunque è facile che pazienti con un passato di esperienze traumatiche arrivino in studio e allora come agire ai fini terapeutici?

La psicotraumatologia nella pratica clinica di Maria Puliatti: l’importanza della stabilizzazione del paziente

Oltre ai corsi tenuti da esperti che vivamente si consigliano, mi è capitato di leggere, proprio nei giorni dello scottante dibattito, un manuale interessante che in parte ha anche placato il timore di cui sopra. Si tratta di un manuale di scorrevole ma soprattutto di piacevole lettura: La psicotraumatologia nella pratica clinica di Maria Puliatti.

L’ autrice del libro, Maria Puliatti (già conosciuta ai molti) psicoterapeuta e sessuologa, è Supervisore EMDR, Assistente e Terapeuta certificata in Psicoterapia Sensomotoria (tecnica che ha portato in Italia grazie al collega Michele Giannantonio) ed esperta, come facilmente deducibile, in psicotraumatologia. Dunque l’esperienza al servizio della semplicità: i contenuti emergono tra le righe senza confondere il lettore, fornendogli anzi ordine e chiarezza, troppo spesso in altri manuali rimpiazzati da un interminabile divagare teorico.

In particolare l’intero libro pone l’attenzione al processo di stabilizzazione del paziente che, sebbene raccomandata in ogni approccio terapeutico che consente la cura del trauma, nella pratica clinica frequentemente si perde, dietro le spinte dell’attenzione che spesso in modo inconsapevole viene data al solo contenuto traumatico delle memorie. Eppure la stabilizzazione è un punto fondamentale del trattamento, in particolare, focus de La psicotraumatologia nella pratica clinica è la stabilizzazione sintomatologica: insegnare e facilitare l’apprendimento di tecniche per il contenimento e la gestione della propria attivazione, passo imprescindibile prima di lavorare direttamente sulle memorie traumatiche. Emblematica a questo proposito risulta la frase, riportata dalla Puliatti nel manuale, del suo collega Giannantonio: “prima di buttare un paziente da un aereo, dobbiamo fornirlo di un paracadute”.

La struttura de La psicotraumatologia nella pratica clinica

Il libro inoltre, non si sofferma alla clinica con gli adulti ma tratta anche il lavoro terapeutico in ambito psicotraumatologico con i bambini. La psicotraumatologia nella pratica clinica si suddivide infatti in due parti: interventi clinici con gli adulti e interventi clinici con i bambini e gli adolescenti.

Ogni parte del libro si dipana in vari capitoli riguardanti diverse macro-aree di cui prima si fornisce una definizione o una introduzione teorica e dopo si presentano numerosi esercizi, a volte in ordine di complessità e spesso accompagnati da figure che illustrino meglio le posizioni da far assumere al paziente. Tra i temi dei capitoli esposti nella prima parte del manuale troviamo la mindfulness, le tecniche di rilassamento, le tecniche di grounding e centramento e le tecniche di stabilizzazione del paziente dissociato.

Nella seconda parte de La psicotraumatologia nella pratica clinica invece, parte riguardante la stabilizzazione con bambini e adolescenti, tra i temi affrontati nei diversi capitoli si annoverano tecniche per regolare emozioni e stress, la mindfulness, nonché tecniche da utilizzare in caso di lavoro congiunto con i genitori, in cui vengono illustrati esercizi da realizzare con genitori e bambino durante la seduta.

Nel libro sono riportati a volte degli stralci di seduta in cui vengono condotti gli esercizi, fornendo così degli esempi di ciò che succede al paziente mentre li svolge. Come accade leggendo anche altri manuali, è piacevole “osservare” questi momenti di seduta: è come se per un po’, consentendo al lettore di entrare in punta di piedi nel proprio studio, si desse una piacevole pausa alla teoria e si vedessero i concetti fino a poco prima esposti nel libro, prendere forma in modo meno meccanico ma più intimo, più relazionale.

La psicotraumatologia nella pratica clinica, edito da Mimesis, rientra nella collana “Clinica del trauma e della dissociazione”, diretta da Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini. Questo basterebbe già per il manuale come lasciapassare nella lista di libri che un clinico non deve farsi mancare nel proprio studio. Un manuale sulla terapia del trauma chiaro, organizzato, tecnico ma mai “freddo”, uno scritto assolutamente consigliato ai terapeuti alle prime armi ma anche ai tanti colleghi già navigati.

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