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Il dolore pelvico cronico maschile e l’utilizzo di tecniche cognitive-comportamentali come terapia

Un approccio biopsicosociale può affrontare i fattori non-medici che connotano l’esperienza dei pazienti con sindrome del dolore pelvico cronico maschile. La psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, può essere utile per imparare delle tecniche di resistenza al dolore (es. biofeedback).

Daniela Forgione, OPEN SCHOOL “Studi Cognitivi” di San Benedetto del Tronto

La sindrome del dolore pelvico cronico maschile

La sindrome del dolore pelvico cronico maschile (o prostatodinia o prostatite cronica non batterica) è definita come un dolore cronico, una pressione o disagio localizzati nella regione pelvica e/o perineale, o nei genitali, di durata superiore a 6 mesi, che non è dovuta a cause immediatamente spiegabili (infezioni, neoplasie, o anomalie strutturali).

Il dolore pelvico cronico che colpisce i soggetti di sesso maschile è localizzato nella zona più bassa dell’addome e, pertanto, si può originare dagli organi dell’apparato genitale (prostata, vescicole seminali, testicoli, funicoli spermatici), dal basso apparato urinario (vescica e uretra) o anche dalle strutture nervose, muscolari e ossee del bacino. Sono molte e diverse le tipologie di dolore che il paziente affetto da questa sindrome lamenta.

Anzitutto è variabile l’intensità del dolore che, da un vago senso di fastidio, può raggiungere gradi intollerabili, descritti dal paziente come fitte lancinanti. In alcuni casi la sensazione dolorosa appare collegata al riempimento o allo svuotamento degli organi pelvici (vescica e retto), mentre in altri casi è provocata da alcune posizioni, quale quella seduta, o dalla pressione esercitata su determinati punti dell’area pelvica (trigger point).

Si parla di Sindrome del Dolore Pelvico (CPPS) in quanto si ha una straordinaria varietà di sintomi e la causa è molto vasta. I sintomi più comuni includono dolore, o fastidio al perineo, all’area sovrapubica, a pene e testicoli, disuria e dolore eiaculatorio. I pazienti possono anche avere sintomi urinari, sia ostruttivi (flusso lento e intermittente) che irritativi (aumento della frequenza o urgenza minzionale). La disfunzione sessuale è comune. Sintomi sistemici includono mialgia, artralgia e astenia inspiegabile. Alcuni pazienti possono presentare cistite interstiziale/sindrome del dolore vescicale con un predominante dolore alla vescica associato a problemi di svuotamento.

Studi su test di autovalutazione indicano che ne soffre lo 0,5% dei maschi; valutazioni basate sui sintomi della popolazione generale suggeriscono un’incidenza di sintomi nei maschi dal 2,7% al 6,3%. Di solito la sindrome è diagnosticata tra i giovani e uomini di mezz’età, ma è prevalente in tutte le fasce di età. Le principali comorbidità sono depressione, stress e disturbi d’ansia.

La fisiopatologia non è ancora completamente nota e probabilmente sottende un processo complesso e multifattoriale che alla fine si traduce in una sindrome di dolore neuropatico cronico e/o muscolare. Si ritiene che questa condizione possa essere innescata da infezioni (comprese le malattie sessualmente trasmissibili ed organismi non coltivabili e virus), traumi (compreso il trauma perineale e uretrale), sovra-regolazione neurologica, infiammazione non dovuta ad infezione (autoimmune o neurogena), disfunzione minzionale e disfunzione del pavimento pelvico/spasmo muscolare. In uomini vulnerabili geneticamente e/o anatomicamente, questi iniziatori della malattia possono provocare dolore cronico neuropatico e neuromuscolare.

Il trattamento della sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Il trattamento è di solito multi-modale e deve essere personalizzato in base alle caratteristiche morfologiche e funzionali del paziente. Misure conservative comprendono termoterapia locale, attività fisica leggera (passeggiate, nuoto, stretching e yoga), dieta, cambiamenti nello stile di vita, fisioterapia, terapia farmacologica e fitoterapica. Ciascuno di tali trattamenti ha dimostrato di poter aiutare i soggetti colpiti dalla sindrome del dolore pelvico cronico maschile, ma nessuno di essi può, da solo, offrire una risposta certa e completa a una condizione tanto resistente alle cure.

Le condizioni che possono alterare la qualità di vita del paziente possono essere: un’alterazione delle emozioni (depressione, ansia); alterazione dell’immagine di sé e riduzione della propria autostima; alterazioni delle relazioni di coppia e della vita familiare (soprattutto in presenza di disfunzione sessuale, in particolare con diminuzione o rinuncia ai rapporti); limitazione nelle attività quotidiane in ambiente domiciliare, lavorativo ed extra-domiciliare (ad es. stare fuori casa per molte ore con la necessità di raggiungere una toilette; sollevare pesi); limitazioni nell’attività fisica; stanchezza fisica (dovuta ad interruzioni del sonno per mingere frequentemente); diminuzione dell’attenzione; limitazioni nella vita sociale.

La terapia cognitivo comportamentale della sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Pertanto, un approccio biopsicosociale può affrontare i fattori non-medici che connotano l’esperienza di questi pazienti. La psicoterapia, in particolare la terapia cognitivo-comportamentale, può essere utile per imparare delle tecniche di resistenza al dolore (es. biofeedback).

Il biofeedback è una tecnica con la quale le informazioni relative ad un processo fisiologico, normalmente sconosciute, sono presentate al paziente e al terapista come un segnale visivo, uditivo o tattile. Il segnale deriva da un parametro fisiologico misurabile, che è successivamente usato in un processo educativo, per raggiungere uno specifico risultato terapeutico. Il segnale è quantificato e il paziente è istruito su come modificarlo, controllando così il processo fisiologico (attività elettrica muscolare del pavimento pelvico o di altri muscoli, oppure pressione intracavitaria realizzata dal pavimento pelvico e dai muscoli addominali). Con tale tecnica, pertanto, si insegna al paziente a rilassare i muscoli del pavimento pelvico per alleviare il dolore dovuto all’ipertono. I muscoli ipertonici possono presentare trigger point (punti dolorosi in cui le fibre sono contratte), la cui pressione può alleviare questo dolore locale. Il biofeedback è una tecnica che permette al paziente di essere il protagonista della propria guarigione, è un intervento non invasivo e stimola le naturali risposte di guarigione dell’organismo permettendo di ridurre o eliminare l’utilizzo dei farmaci o intervenire quando l’approccio farmacologico non dà una risposta soddisfacente, insegnando al paziente ad utilizzare le risorse interne nel raggiungimento dei propri obiettivi.

Diversi sono gli studi che dimostrano l’efficacia del biofeedback nel trattamento del dolore pelvico cronico maschile. Tra questi Clemens e colleghi sono partiti dall’ipotesi che l’utilizzo di misurazioni che riducono lo spasmo muscolare del pavimento pelvico possano migliorare i sintomi dovuti alla mialgia della tensione pelvica del pavimento nei pazienti maschi. Sulla base di questa ipotesi, gli autori hanno iscritto 19 pazienti con dolore pelvico cronico maschile in un programma di 12 settimane della durata di 1 ora di rieducazione del pavimento pelvico orientato al biofeedback e al bladder training (“ginnastica della vescica”: consiste in una assunzione graduale di una quantità sempre maggiore di liquidi e nel tentare di rimandare il più possibile la minzione).

Durante il programma l’infermiera collabora con il paziente per raggiungere tre obiettivi: (1) insegnare al paziente a concentrare l’attenzione sul pavimento pelvico e a imparare a contrattare e rilassare selettivamente questi muscoli; (2) insegnare al paziente ad eseguire questi esercizi quotidianamente per interrompere la sindrome del dolore miofasciale pelvico cronico; e (3) lavorare con il paziente per aumentare progressivamente l’intervallo di minzione verso un obiettivo non inferiore alle 4 ore. In tutte le sedute, è stato utilizzato un metodo non invasivo di monitoraggio dell’attività muscolare del pavimento pelvico (biofeedback) per aiutare il paziente a individuare l’attività muscolare nei muscoli pelvici. In tale studio, il programma di biofeedback viene utilizzato per istruire il paziente nella contrazione e rilassamento della muscolatura del pavimento pelvico, inoltre il paziente viene istruito al fine di eseguire gli esercizi a casa, tre volte al giorno, utilizzando la stessa combinazione di contrazioni e rilassamenti veloci e lenti imparati durante la sessione di istruzione per rafforzare i muscoli. Questo perché la migliore salute muscolare può provocare meno spasmi e dolori, infatti questi esercizi di movimento aiutano a rompere il ciclo dello spasmo e del dolore attraverso il rilassamento muscolare del pavimento pelvico volontario, una tecnica utilizzata durante le esacerbazioni episodiche del dolore. Questo studio preliminare conferma che le tecniche di rieducazione neuromuscolare assistite da biofeedback sono state utilizzate con successo per il trattamento di sindromi di dolore cronico, pertanto un programma di rieducazione neuromuscolare dei muscoli del pavimento pelvico insieme alla formazione di intervalli di svuotamento della vescica può fornire un miglioramento significativo e durevole in misure oggettive di dolore, urgenza e frequenza nei pazienti con dolore pelvico cronico maschile.

Oltre al biofeedback, diversi sono gli studi che si sono posti l’obiettivo di verificare se la capacità di programmi di gestione del sintomo attraverso la terapia cognitivo-comportamentale possano migliorare i fattori di rischio psicosociale (catastrofizzazione, umore, supporto sociale e dolore generale) e migliorare la qualità di vita del paziente.

Tra questi lo studio di Tripp et al. ha messo in evidenza come un programma di gestione psicosociale possa potenzialmente essere un metodo di gestione efficace per gli uomini affetti da dolore pelvico cronico maschile. Il programma di auto-gestione settimanale della durata di 8 sessioni mirava alla disputa e alla sostituzione del pensiero disfunzionale con un pensiero ed un comportamento finalizzato al benessere. Tale programma ha evidenziato già dalle prime 4 sessioni una riduzione significativa della disabilità del paziente, del dolore e della catastrofizzazione e, alla fine delle 8 sessioni, una riduzione dell’impatto negativo sulla qualità della vita. Nello specifico, si è visto come le riduzioni della catastrofizzazione fossero fortemente associate a riduzioni dei sintomi del paziente. La catastrofizzazione è la tendenza a impiegare una serie di analisi cognitive associate al dolore, chiamate “ruminatorie” (“non posso tenerlo fuori dalla mia mente”), ingrandendo (“mi fa pensare ad altri dolori”) e facendo sentire il paziente impotente (“non c’è niente che posso fare”) quando subisce o anticipa il dolore. Essa è considerata una caratteristica importante nella classificazione dei pazienti con dolore pelvico cronico maschile ed è un obiettivo comune nella depressione, nell’ansia e nella terapia del dolore.

I programmi di gestione psicosociale aiutano i pazienti a identificare, valutare e ridefinire le loro tendenze catastrofiche in relazione ai sintomi di dolore pelvico cronico maschile. Infatti, i pazienti hanno spesso difficoltà ad individuare, esprimere o riportare i dettagli delle esperienze dolorose, pertanto, in tale studio, i pazienti sono stati invitati a compilare una valutazione settimanale di dolore, umore, sostegno sociale e disabilità. I risultati hanno evidenziato come l’incoraggiare i pazienti a svolgere un ruolo attivo nel proprio trattamento possa risultare un efficace trattamento per il dolore cronico. Questo programma di gestione ha permesso, inoltre, di aiutare i pazienti a credere di poter gestire i loro sintomi e di passare dalla sensazione di essere impotenti a sentirsi più efficaci mettendo in evidenza le strategie disfunzionali (riposo come mezzo per affrontare il dolore; comportamenti sedentari; ecc.) e creando nuove strategie di coping mirate al benessere. Infine, tale studio ha messo in evidenza che non è il dolore in sé ad essere il migliore predittore per determinare il grado di qualità di vita del paziente e che il sollievo del dolore, la catastrofizzazione e il sostegno sociale potrebbero essere obiettivi di intervento più appropriati.

Lo stress psicologico e la sindrome del dolore pelvico cronico maschile

Altri studi hanno evidenziato la correlazione tra lo stress e un’attività elettromiografica anormale. Infatti, lo stress psicologico può svolgere un ruolo causale o prolungare direttamente o indirettamente i sintomi fisici (disregolazione dei pattern di tensione muscolare pelvica; cambiamenti del sistema nervoso centrale che contribuiscono ad aumentare la normale percezione del dolore; aumento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con possibili implicazioni per la percezione del dolore e della nocicezione; coinvolgimento del sistema immunitario). Inoltre, lo stress può causare il dolore, anche in assenza di cambiamenti fisiologici legati allo stress, che i pazienti possono sperimentare, su cui possono focalizzarsi e di cui possono soffrire. Quando una persona sperimenta eventi negativi e stressanti, le cognizioni negative riguardanti un’esperienza dolorosa possono venire in mente automaticamente. Questo può esagerare il valore della minaccia del dolore, aumentando la preoccupazione, i sentimenti di impotenza e il pessimismo. Le credenze negative relative al dolore sono associate ad una maggiore disabilità legata al dolore.

Proprio sull’assunto della correlazione tra stress e attività elettromiografica anormale Wise e Anderson hanno sviluppato un protocollo la cui strategia punta a spezzare il ciclo di tensione-ansia-dolore-atteggiamento protettivo: il dolore provocato dalla contrattura cronica della pelvi scatena il riflesso a tendere i muscoli pelvici per proteggersi dal dolore; (tale riflesso è disfunzionale, perché porta a un peggioramento del dolore); la pelvi infiammata tende ad essere reattiva all’ansia; l’ansia produce un aumento della tensione, aumenta l’attività dei punti trigger che producono un maggior dolore, scatenando a sua volta l’atteggiamento protettivo che poi produce ancora più ansia (ciclo continuo).

Tale protocollo MFRT/PRT (rilascio dei punti trigger e miofasciale/rilassamento paradossale esteso) è stato inserito in un programma di trattamento intensivo di 6 giorni. Gli autori si sono concentrati sia sulla dimensione fisica (MFRT: istruire i pazienti a ripristinare l’abilità di rilassarsi e contrarsi dei muscoli pelvici, insegnando loro a praticare il rilascio dei punti trigger e il rilascio miofasciale all’interno e all’esterno dei muscoli) che su quella mentale (PRT: insegnare ai pazienti a calmare il loro sistema nervoso e a rilassare i muscoli pelvici attraverso il rilassamento paradossale esteso) della disfunzione del pavimento pelvico. Pertanto, oltre alla fisioterapia (MFRT), un aspetto fondamentale del protocollo è stato proprio il PRT: un metodo di auto-regolazione autonoma e diminuzione della tensione muscolare pelvica. I pazienti hanno ricevuto 1 ora di istruzioni individuali verbali e una sessione di pratica a intervalli settimanali, della durata totale di 8 settimane, in esercizi di rilassamento progressivo ideati da Wise e Anderson per ottenere un rilassamento profondo specifico del pavimento pelvico. La parola paradossale viene usata perché i pazienti sono diretti ad accettare la loro tensione come modalità di rilassare/rilasciare. Tale formazione prevede una tecnica di allenamento della respirazione specifica per calmare l’ansia e sessioni di training di rilassamento che dirigono i pazienti a focalizzare l’attenzione sulla sana accettazione della tensione in specifiche aree del corpo. I pazienti attraverso il PRT forniscono al sistema nervoso centrale nuove informazioni o maggiore consapevolezza al fine di calmare progressivamente il pavimento pelvico. I risultati hanno evidenziato che i pazienti che hanno partecipato al protocollo MFRT/PRT hanno mostrato un miglioramento del sintomo (diminuzione del sintomo nel 72% dei soggetti) attraverso la riabilitazione del pavimento pelvico e la modificazione dell’abitudine di concentrare la tensione sotto stress.

Tali studi suggeriscono che le variabili cognitive/comportamentali sono importanti predittori del dolore e della disabilità negli uomini affetti da sindrome del dolore pelvico cronico maschile. Questi risultati hanno permesso di estendere la comprensione del dolore e della disabilità nei pazienti con CPPS e suggeriscono che i fattori cognitivi/comportamentali, come la catastrofizzazione, il senso di impotenza e strategie comportamentali disfunzionali, possono avere un ruolo significativo nella regolazione del paziente; così come gli interventi di autogestione cognitivo-comportamentali progettati per educare il paziente a far fronte a disturbi, a comprendere il pensiero associato a un dolore maggiore e praticare nuovi metodi di coping (sia emotivi che comportamentali), dimostrando l’importanza di inserire i programmi di gestione del dolore o le variabili psicologiche nel controllo della sindrome del dolore pelvico cronico maschile.

L’ attività fisica riduce i sintomi motori del morbo di Parkinson

Secondo una nuova ricerca, una regolare attività fisica diminuirebbe il peggioramento dei sintomi motori nei soggetti affetti dal morbo di Parkinson.

 

Il morbo di Parkinson e gli effetti dell’attività fisica

Gli scienziati della Northwestern Medicine dell’Illinois e della University of Denver hanno testato per la prima volta gli effetti dell’attività fisica ad alta intensità su pazienti parkinsoniani ed hanno scoperto che l’esercizio fisico ripetuto 3 volte a settimana diminuirebbe il decorso del morbo di Parkinson.

La scoperta appare alquanto significativa poiché studi precedenti ritenevano lo sforzo fisico troppo stressante per questi pazienti.

Il morbo di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune e la più comune malattia del movimento. I sintomi caratterizzanti comprendono la progressiva perdita del controllo muscolare, tremori, rigidità, lentezza e compromissione dell’equilibrio. Ad uno stadio avanzato della malattia risulta difficile camminare, parlare e svolgere compiti motori comunemente semplici. I farmaci più utilizzati per curare la malattia presentano diversi effetti collaterali e una ridotta efficacia nel tempo per questa ragione appaiono necessari nuovi trattamenti.

Per rallentare la progressione dei sintomi basterebbe che il paziente svolgesse attività fisica ad alta intensità ovvero con una frequenza cardiaca compresa tra l’80 e l’85%” ha affermato l’autore dello studio Daniel Corcos, professore di fisioterapia e scienze del movimento umano presso la Scuola di Medicina della Northwestern University.

Lo studio clinico randomizzato ha coinvolto 128 soggetti di età compresa tra i 40 e gli 80 anni provenienti dalla Northwestern University, dal Rush University Medical Center di Chicago, dall’Università del Colorado e dall’Università di Pittsburgh.

I partecipanti a questo studio, chiamato Parkinson Disease of Exercise (SPARX), erano in uno stadio iniziale della malattia e non assumevano alcun farmaco, il dato risulta di estrema importanza in quanto permette di attribuire gli eventuali risultati all’esercizio fisico e non all’azione dei farmaci.

Lo studio prevedeva 3 gruppi sperimentali: soggetti che svolgevano attività fisica ad alta intensità (80-85% della frequenza cardiaca massima) tre volte alla settimana per sei mesi, soggetti impegnati in attività fisica moderata (60-65% della FCmax) con uguale regolarità e periodicità del gruppo precedente e infine gruppo di controllo che non prevedeva alcuna attività.

È bene specificare che ogni partecipante era supervisionato costantemente da un cardiologo il quale valutava la risposta del cuore allo sforzo che il soggetto stava compiendo. Corcos ha dichiarato “Abbiamo ideato per i soggetti un allenamento adeguato. Non si tratta di stretching ma di un’attività particolarmente intensa per confermare l’idea secondo la quale l’esercizio fisico possa essere utilizzato come cura”.

Alla fine dello studio, trascorsi 6 mesi, i partecipanti sono stati valutati utilizzando una scala di misurazione della gravità dei sintomi con punteggi compresi tra 0 e 108 (gravità massima dei sintomi). Tutti i partecipanti nella fase precedente allo studio avevano ottenuto un punteggio di circa 20. I risultati hanno dimostrato che i soggetti del gruppo ad alta intensità mostravano un punteggio invariato, il gruppo con esercizio moderato presentava un peggioramento di 1.5 punti mentre il gruppo di controllo mostrava un peggioramento di addirittura 3 punti. Considerato il punteggio di pre-trattamento pari a 20, il risultato rappresenta un cambiamento del 15% dei sintomi primari, il ché comporta conseguenze clinicamente importanti soprattutto in termini di qualità di vita.

Rispetto agli studi precedenti che avevano una durata media di 12 settimane, lo studio ha osservato un elevato numero di partecipanti svolgere attività particolarmente intensa per un periodo di tempo relativamente lungo.

Diverse studi suggeriscono un effetto benefico dell’esercizio nel morbo di Parkinson” ha detto il dottor Codrin Lungu direttore del programma presso l’Istituto Nazionale dei Disordini Neurologici. “Tuttavia non è chiaro quale tipo di esercizio sia più efficace. Il progetto SPARX cerca di affrontare rigorosamente questo problema. I risultati sono interessanti e giustificano un’ulteriore esplorazione delle attività ottimali per il morbo di Parkinson.

In conclusione, Corcos ha affermato “Stiamo impedendo ai pazienti di peggiorare soprattutto ad uno stadio precoce della malattia. Abbiamo ritardato il peggioramento dei sintomi per sei mesi, sono però necessari ulteriori studi per capire se sia possibile prevenire la progressione sintomatica per un periodo più lungo”.

La ketamina contro il rischio di suicidio

La ketamina, un farmaco utilizzato principalmente come anestetico, può offrire un modo rapido ed efficace per ridurre il rischio di suicidio tra gli individui con depressione. Questo è il risultato di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Columbia University Medical Center di New York City.

 

Il rischio di suicidio

Il suicidio è la decima causa di morte negli Stati Uniti; ogni anno, circa 44.193 persone negli Stati Uniti si tolgono la vita, e altri 494.169 sono ricoverati in ospedale per autolesionismo.

La depressione è di gran lunga il disturbo più comune alla base di un tentativo di suicidio; circa il 50% di coloro che tentano il suicidio soffre di depressione maggiore o disturbo bipolare.

Ma come si può comprendere se un amico o una persona amata che soffre di depressione sta avendo pensieri suicidari? Le minacce verbali di suicidio o di essere un peso per gli altri, un aumento nell’uso di droghe o alcol e cambiamenti di umore possono essere tutti segnali di allarme.

Naturalmente, non è possibile prevedere se una persona tenterà il suicidio, il che evidenzia la necessità di trattamenti rapidi che possano ridurre i pensieri.

C’è una finestra critica in cui i pazienti depressi con pensieri suicidari, hanno bisogno di un rapido sollievo per prevenire l’autolesionismo“, spiega il capo dello studio, il dottor Michael Grunebaum, uno psichiatra ricercatore presso il Columbia University Medical Center.

Gli antidepressivi attualmente disponibili possono essere efficaci nel ridurre i pensieri suicidari nei pazienti depressi“, aggiunge, “ma possono richiedere settimane per avere un effetto“.

Il dott. Grunebaum spiega: “I pazienti depressi con rischio suicidario hanno bisogno di trattamenti che siano rapidamente efficaci nel ridurre i pensieri autolesionistici. Attualmente non esiste un trattamento per un rapido sollievo di questi pensieri nei pazienti con depressione“.

La ketamina: un farmaco contro l’ideazione suicidaria

Ricerche precedenti, tuttavia, hanno indicato la ketamina come potenziale candidato, dopo aver scoperto che basse dosi del farmaco possono aiutare a ridurre l’ideazione suicidaria nelle persone depresse.

Il Dr. Grunebaum e i suoi colleghi hanno deciso di approfondire ulteriormente questa associazione nel loro nuovo studio. Nello specifico, hanno valutato se la ketamina potesse ridurre i pensieri suicidari entro 24 ore dalla somministrazione.

I risultati sono stati recentemente pubblicati su The American Journal of Psychiatry.

La ricerca ha incluso 80 adulti con depressione maggiore. Tutti i partecipanti avevano pensieri suicidari, come determinato dai loro punteggi sulla scala per ideazione suicidaria (SSI).

I partecipanti sono stati randomizzati a uno dei due gruppi di trattamento. Un gruppo ha ricevuto una dose bassa di ketamina, mentre l’altro gruppo ha ricevuto una dose bassa di midazolam, un sedativo.

Utilizzando l’SSI, i ricercatori hanno valutato la presenza di pensieri suicidari a 24 ore dopo la somministrazione di ciascun farmaco.

Mentre entrambi i gruppi hanno visto una riduzione clinicamente significativa dei pensieri suicidari, questa riduzione è stata maggiore per i soggetti trattati con ketamina: il 55% del gruppo che ha assunto ketamina ha presentato una riduzione del 50% o più dei pensieri suicidari, rispetto al 30% del gruppo che ha assunto midazolam.

Gli effetti della ketamina sui pensieri suicidari sono rimasti fino a 6 settimane, riferisce il team. Inoltre, coloro che hanno ricevuto la ketamina hanno sperimentato maggiori miglioramenti rispetto all’umore e ai sintomi della depressione e dell’ affaticamento, rispetto a quelli che hanno ricevuto il midazolam.

Il team osserva che gli effetti della ketamina sulla depressione hanno rappresentato circa un terzo degli effetti del farmaco sui punteggi SSI, il che suggerisce che la ketamina può direttamente ridurre i pensieri suicidari.

Gli effetti collaterali più comuni della ketamina sono stati la dissociazione e un aumento della pressione arteriosa dopo somministrazione. Tuttavia, il team osserva che questi effetti collaterali si sono presto attenuati.

Nel complesso, i ricercatori affermano che le loro scoperte mostrano che “la ketamina offre una promessa come trattamento ad azione rapida per ridurre i pensieri suicidari nei pazienti depressi“.

Ulteriori ricerche per valutare gli effetti antidepressivi e anti-suicidari della ketamina potrebbero aprire la strada allo sviluppo di nuovi farmaci antidepressivi che agiscono più rapidamente e potenzialmente sono in grado di aiutare le persone che non rispondono ai trattamenti attualmente disponibili.”

Sincronizziamoci! Una prospettiva di coppia per il funzionamento cerebrale

Uno studio condotto da Kinreich e Feldman, recentemente pubblicato su Scientific Reports, ha investigato come tra le menti di due partner impegnati in una relazione sentimentale, avvenga una sincronizzazione tra le onde cerebrali durante un’interazione, in particolare quando la coppia si scambia reciprocamente sguardi ed esprime modalità affettive positive, a supporto di una continuità in termini di basi neurali tra l’attaccamento madre-bambino e quello romantico-affettivo.

 

L’importanza della sincronizzazione nelle interazioni sociali

La coordinazione dei comportamenti tra due o più persone impegnate in un’ interazione rappresenta un aspetto cruciale della vita sociale sia per gli esseri umani che per gli animali (Miles, Nind & Macrae, 2009) ed è un meccanismo evolutivo specifico di quella che si potrebbe definire “sincronizzazione sociale” osservabile fin dalle interazioni più precoci, per esempio tra madre-bambino e anche tra membri di un gruppo sociale in quanto essa consente l’aumento della connessione tra gli individui e la costruzione di legami.

Gli episodi di sincronizzazione in particolare dei comportamenti non verbali tra genitori e figli come ad esempio il rispecchiamento emotivo tra le espressioni facciali nella diade madre-bambino (Winnicott, 1965) o il comportamento di “licking” e “grooming” negli animali, consente la maturazione dei sistemi fisiologici che supportano la partecipazione della prole alle interazioni sociali future (Feldman, 2007).

Durante gli episodi di sincronizzazione, all’interno della relazione di attaccamento tra madre e bambino, quest’ultimo impara ad interagire e a coordinarsi con un’altra persona non solo perché ha imitato i comportamenti della madre ma anche grazie a processi fisiologici come ad esempio la sincronizzazione tra il suo battito cardiaco e quello della madre o il rilascio simultaneo di ossitocina che aumenta il legame affettivo.

Pertanto le ricerche sembrano suggerire che la sincronizzazione sociale costituisca un template biologico all’interno del quale si sviluppa la relazione di attaccamento e il legame tra individui (Feldman, Gordon & Zagoory‐Sharon, 2011).

La sincronizzazione fisiologica nella coppia

Partendo da queste ricerche che mostravano come l’attaccamento precoce e la costituzione di legami tra individui fosse possibile a seguito di tale sincronizzazione a livello comportamentale e fisiologico, tanto da parlare di sincronizzazione bio-comportamentale (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017), Kinreich e Feldman hanno cercato di indagare se tale meccanismo si possa rilevare anche a livello neurale e se caratterizza anche il legame tra partner affettivi e tra pari, durante interazioni naturalistiche e non artefatte in laboratorio.

L’intento dei ricercatori era quello di investigare quei meccanismi che rendono possibile a due partner romantici adulti di coordinare e sincronizzare le loro risposte cerebrali durante un’interazione reale, in quanto è stato osservato come individui impegnati in una relazione romantica-sentimentale mostrano un aumento dei livelli di ossitocina e di reciproca coordinazione tra di loro tramite gli sguardi, correlando con i livelli di sincronizzazione sociale (Feldman, Gordon & Zagoory‐Sharon, 2011).

I ricercatori hanno reclutato 104 soggetti adulti, tra cui 52 coppie impegnate in una relazione romantica da almeno un anno (gruppo “ coppia ”) e l’altra metà composta da coppie di maschi e femmine che non condividevano alcun rapporto (coppia “non familiare”).

Alle coppie è stato chiesto di sedersi l’uno di fronte all’altra e pianificare insieme una giornata piacevole, senza ulteriori istruzioni; ciascun partner della coppia di entrambi i gruppi indossava un casco con degli elettrodi per poter registrare l’attività elettroencefalografica online ed era consapevole del fatto che all’interno della stanza erano presenti delle videocamere che avrebbero ripreso i loro comportamenti.

Lo studio di Kinreich e Feldman (2017) è il primo ad utilizzare un’iper scansione dei tracciati elettroencefalografici per esplorare la sincronizzazione neurale tra individui durante interazioni naturalistiche, trovando un temporaneo pattern di attivazione simile nelle onde cerebrali tra due partner adulti; in particolare hanno osservato che quest’attivazione cerebrale simile nella frequenza è ancora più forte e persistente nel tempo per le coppie rispetto ad adulti sconosciuti tra di loro; ciò indica che l’attaccamento affettivo gioca un ruolo importante nella sincronizzazione cerebrale e nel livello di connessione sociale tra i partner.

I ricercatori inoltre hanno trovato che questa sincronizzazione è relativa alle onde gamma localizzate e provenienti dalle regioni temporo-parietali, particolarmente importanti per le funzioni di mentalizzazione e l’embodiment, come la giunzione temporo-parietale (TPJ) e il solco parietale temporale superiore nella sua porzione posteriore (pSTS).

Queste aree parzialmente si sovrappongono con altre strutture cerebrali che sono coinvolte nei processi di interazione sociale come la comprensione sociale, la differenziazione tra sé e l’altro e lo sguardo sociale (Bilek et al., 2015).

I ricercatori hanno in aggiunta trovato che questo legame di sincronizzazione tra le onde cerebrali di due partner si verifica a seguito di un comportamento sociale non verbale; infatti la frequenza delle onde cerebrali tra le due menti è particolarmente alta nei momenti in cui i partner si guardano maggiormente negli occhi senza avversione e leggermente minore quando essi interagiscono con l’altro tramite un comportamento affettivo positivo (espressioni facciali che esprimono un arousal positivo, sorrisi, parlare concitato, risatine scherzose) (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017).

Tali atteggiamenti non verbali esibiti dalle coppie sono stati proposti dai ricercatori dello studio in continuità con i comportamenti messi in atto dalla madre con il bambino per rafforzare il legame che prepara la mente di quest’ultimo alla connessione sociale (Neumann, 2008).

Inoltre, lo studio ha osservato come la sincronizzazione delle onde gamme tra i partner sia indipendente dalla durata e dal contenuto della conversazione suggerendo che la coordinazione tra le due menti sia supportata e correli in porzione maggiore con comportamenti non verbali e dalle modalità positive attraverso le quali i due partner comunicano, anziché con aspetti verbali e contenutistici (Kinreich, Djalovski, Kraus, & Feldman, 2017).

La psicotraumatologia nella pratica clinica (2017) di M. Puliatti – Recensione del libro

La psicotraumatologia nella pratica clinica si suddivide infatti in due parti: interventi clinici con gli adulti e interventi clinici con i bambini e gli adolescenti. Ogni parte del libro si dipana in vari capitoli riguardanti diverse macro-aree di cui prima si fornisce una definizione o una introduzione teorica e dopo si presentano numerosi esercizi, a volte in ordine di complessità e spesso accompagnati da figure che illustrino meglio le posizioni da far assumere al paziente.

 

E’ di recente interesse, tra gli articoli pubblicati su State of Mind, il dibattito sul peso (o meglio “spettro” per utilizzare le parole dello stesso) del trauma in psicoterapia. Diverse le opinioni sul tema dei grandi clinici odierni ed è quasi spiazzante farsi un’opinione in merito, in quanto le ragioni in favore di ogni punto di vista sono addotte magistralmente da tutti gli autori. Tutto questo dibattere da un lato affascina un neo terapeuta, lo porta a crearsi un’idea di ciò che accade in terapia e dell’importanza del non adottare un’unica linea di pensiero senza aprirsi ad altri punti di vista; dall’altro spaventa e, alle prese con l’avvio della professione, il novellino non può far altro che chiedersi: dunque è facile che pazienti con un passato di esperienze traumatiche arrivino in studio e allora come agire ai fini terapeutici?

La psicotraumatologia nella pratica clinica di Maria Puliatti: l’importanza della stabilizzazione del paziente

Oltre ai corsi tenuti da esperti che vivamente si consigliano, mi è capitato di leggere, proprio nei giorni dello scottante dibattito, un manuale interessante che in parte ha anche placato il timore di cui sopra. Si tratta di un manuale di scorrevole ma soprattutto di piacevole lettura: La psicotraumatologia nella pratica clinica di Maria Puliatti.

L’ autrice del libro, Maria Puliatti (già conosciuta ai molti) psicoterapeuta e sessuologa, è Supervisore EMDR, Assistente e Terapeuta certificata in Psicoterapia Sensomotoria (tecnica che ha portato in Italia grazie al collega Michele Giannantonio) ed esperta, come facilmente deducibile, in psicotraumatologia. Dunque l’esperienza al servizio della semplicità: i contenuti emergono tra le righe senza confondere il lettore, fornendogli anzi ordine e chiarezza, troppo spesso in altri manuali rimpiazzati da un interminabile divagare teorico.

In particolare l’intero libro pone l’attenzione al processo di stabilizzazione del paziente che, sebbene raccomandata in ogni approccio terapeutico che consente la cura del trauma, nella pratica clinica frequentemente si perde, dietro le spinte dell’attenzione che spesso in modo inconsapevole viene data al solo contenuto traumatico delle memorie. Eppure la stabilizzazione è un punto fondamentale del trattamento, in particolare, focus de La psicotraumatologia nella pratica clinica è la stabilizzazione sintomatologica: insegnare e facilitare l’apprendimento di tecniche per il contenimento e la gestione della propria attivazione, passo imprescindibile prima di lavorare direttamente sulle memorie traumatiche. Emblematica a questo proposito risulta la frase, riportata dalla Puliatti nel manuale, del suo collega Giannantonio: “prima di buttare un paziente da un aereo, dobbiamo fornirlo di un paracadute”.

La struttura de La psicotraumatologia nella pratica clinica

Il libro inoltre, non si sofferma alla clinica con gli adulti ma tratta anche il lavoro terapeutico in ambito psicotraumatologico con i bambini. La psicotraumatologia nella pratica clinica si suddivide infatti in due parti: interventi clinici con gli adulti e interventi clinici con i bambini e gli adolescenti.

Ogni parte del libro si dipana in vari capitoli riguardanti diverse macro-aree di cui prima si fornisce una definizione o una introduzione teorica e dopo si presentano numerosi esercizi, a volte in ordine di complessità e spesso accompagnati da figure che illustrino meglio le posizioni da far assumere al paziente. Tra i temi dei capitoli esposti nella prima parte del manuale troviamo la mindfulness, le tecniche di rilassamento, le tecniche di grounding e centramento e le tecniche di stabilizzazione del paziente dissociato.

Nella seconda parte de La psicotraumatologia nella pratica clinica invece, parte riguardante la stabilizzazione con bambini e adolescenti, tra i temi affrontati nei diversi capitoli si annoverano tecniche per regolare emozioni e stress, la mindfulness, nonché tecniche da utilizzare in caso di lavoro congiunto con i genitori, in cui vengono illustrati esercizi da realizzare con genitori e bambino durante la seduta.

Nel libro sono riportati a volte degli stralci di seduta in cui vengono condotti gli esercizi, fornendo così degli esempi di ciò che succede al paziente mentre li svolge. Come accade leggendo anche altri manuali, è piacevole “osservare” questi momenti di seduta: è come se per un po’, consentendo al lettore di entrare in punta di piedi nel proprio studio, si desse una piacevole pausa alla teoria e si vedessero i concetti fino a poco prima esposti nel libro, prendere forma in modo meno meccanico ma più intimo, più relazionale.

La psicotraumatologia nella pratica clinica, edito da Mimesis, rientra nella collana “Clinica del trauma e della dissociazione”, diretta da Giovanni Tagliavini e Paola Boldrini. Questo basterebbe già per il manuale come lasciapassare nella lista di libri che un clinico non deve farsi mancare nel proprio studio. Un manuale sulla terapia del trauma chiaro, organizzato, tecnico ma mai “freddo”, uno scritto assolutamente consigliato ai terapeuti alle prime armi ma anche ai tanti colleghi già navigati.

La Schema Therapy con i bambini e gli adolescenti (2017) – Recensione

Il Libro “La Schema Therapy con i Bambini e gli Adolescenti”, di Loose, Graaf e Zarbock, estende all’età evolutiva il campo di applicazione di uno dei più recenti ed efficaci modelli di intervento cognitivo-comportamentale (Young, 1990-1999; Young, Klosko & Weishaar, 2007).

Terenzi Stefano, Claudio Paloscia, Rosario Capo

 

L’adattamento della Schema Therapy all’età evolutiva

L’adattamento della Schema Therapy (ST) a questa fascia di età rappresenta, infatti, un ulteriore step nel processo di graduale e costante diffusione di questa terapia nel trattare problematiche di natura psicologica e i disturbi psichiatrici.

La base concettuale, che si adatta bene alla formulazione dei casi in età evolutiva, deriva da differenti orientamenti psicologici e psicoterapici (Cacioppo, Berntson, Larsen, Poehlmann, & Ito, 2000; Cacioppo, Klein, Berntson, & Hatfield, 1993): la Teoria dell’Attaccamento (Ainsworth, 1969), l’Approccio Psicodinamico (Mayer, & Merckelbach, 1999; Wiser, & Goldfried, 1998; Terenzi et al., 2017b), la Terapia Cognitivo-Comportamentale (Beck et al, 1979; Mahoney, 1993), l’Analisi Transazionale (Berne, 1961) e la Psicoterapia della Gestalt (Field, & Horowitz, 1998; Horowitz, & Znoj, 1999).

I costrutti alla base della Schema Therapy

Lo studio dei costrutti e delle metodologie terapeutiche alla base della Schema Therapy è in continua evoluzione (Lavergne et al,2015; Dadomo et al, 2016) e sono sempre più rilevanti i dati a supporto della sua efficacia e validità clinica in un ampio spettro di condizioni cliniche (Terenzi et al., 2017a). Numerose ricerche hanno ormai confermato l’efficacia della Schema Therapy nel trattamento di pazienti adulti con Disturbi di Personalità (DP) del cluster B e nei pazienti resistenti ad altre terapie (McGinn, & Young, 1997; McGinn, Young, & Sanderson, 1995; Young, Beck, & Weinberger, 1993; Young, & Behary, 1998; Young, & Brown, 1991; Young, & Gluhoski, 1996; Arntz, 1999). Altri condizioni su cui la Schema Therapy si è mostrata efficace sono: i DP del Cluster C (Weinbrecht et al., 2016; Hoffard Lunding et al, 2016), i disturbi d’ansia, la depressione cronica (Renner et al., 2015), i disturbi del comportamento alimentare (McIntosh et al, 2016), i problemi di coppia e i disturbi sessuali (Derby et al, 2015), le ricadute nel disturbo da uso di sostanze, le psicosi (Stowkowy et al, 2016) e il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Hopwood, Thomas, 2016).

Il libro “La Schema Therapy con i Bambini e gli Adolescenti”

Gli autori di questo volume hanno messo al servizio del lettore sia i loro studi sulla Schema Therapy sia la loro lunga esperienza di clinici esperti di sviluppo, riuscendo a mostrare in modo chiaro come i principi della Schema Therapy possano essere utilizzati in età evolutiva.

Uno degli autori, Christof Loose, lavora presso l’Istituto di Psicologia Sperimentale – Sezione di Psicologia Clinica dell’Università Heinrich-Heine di Dusseldorf e da diversi anni utilizza la Schema Therapy con i bambini (ST-BA) sperimentandone la sua utilità nel lavoro con i genitori e con i piccoli pazienti. Proprio la caratteristica di questi autori, di essere terapeuti in prima linea, rende “La Schema Therapy con i Bambini e gli Adolescenti” un “libro dalla clinica per la clinica” e lo caratterizza come un “work in progress”.

Il libro si propone, infatti, di diffondere i principi, le tecniche e le procedure della Schema Therapy nel lavoro con i bambini, in modo che i lettori possano sperimentarle nella loro attività clinica e sottoporle a verifica scientifica nel lavoro di ricerca. Nello specifico, il volume si struttura in una prima parte, utile per la comprensione del razionale, in quanto presenta gli aspetti dello sviluppo psicologico nella prospettiva della Schema Therapy (compiti evolutivi, fattori protettivi e di rischio) e il suo modello teorico di base (bisogni primari, schemi, coping e mode). Negli altri capitoli, vengono suggerite tecniche e procedure caratteristiche della ST-BA per gruppi di età.

In particolare, il secondo capitolo è specifico per i neonati e i bambini piccoli; il terzo per l’età pre-scolare; il quarto per l’età scolare; il quinto per gli adolescenti; il sesto per i giovani adulti. Questa suddivisione denota l’attenzione degli autori nell’individuare le strategie di intervento più adeguate alle diverse fasi di sviluppo. Infine, nei capitoli 7 e 8, vengono descritte in modo più dettagliato le procedure utilizzate. Oltre alla presentazione delle due tecniche principali della Schema Therapy (Tecnica delle Due Sedie e Imagery with Rescripting), Loose e coll. ci aiutano a comprendere come il largo uso di pupazzi, burattini, carte da gioco e materiali scenografici possa facilitare la messa in scena delle dinamiche relazionali interpersonali e intrapsichiche dei giovani pazienti. Le tecniche esposte sono spiegate chiaramente e inserite puntualmente nelle diverse fasi del processo terapeutico. Nel capitolo 8, vengono descritte le modalità di lavoro che la ST-BA prevede con i genitori, in particolare, il “coaching” con il papà e la mamma è considerato non solo essenziale nella terapia di bambini con disturbi psichiatrici, ma rappresenta un’importante forma di prevenzione primaria nel modificare le traiettorie evolutive psicopatologiche di bambini a rischio.

Nel capitolo nove, viene descritta la normativa che in Germania regola il pagamento delle psicoterapie da parte delle assicurazioni sanitarie. In particolare, vengono pagate solo le terapie a orientamento psicodinamico-psicoanalitico e le terapie comportamentali. La ST-BA rientra tra le seconde, come terapia comportamentale orientata agli schemi.

Attualmente, in Italia, la situazione è diversa. La psicoterapia, indipendentemente dall’orientamento teorico-pratico, viene coperta solo in base al tipo di polizza che la compagnia di assicurazione può offrire. Il capitolo però ci proietta in un probabile scenario futuro dove le polizze probabilmente svolgeranno un ruolo significativo nella nostra professione.

Infine, l’ultimo capitolo offre una panoramica sullo sviluppo e la diffusione della Schema Therapy oltre che sul suo utilizzo come terapia personale e di gruppo. Il metodo della ST-BA è ancora nella sua fase embrionale, ma alcuni gruppi di ricerca hanno iniziato a sperimentarlo in diversi contesti e con più popolazioni cliniche. A riguardo, gli autori invitano altri terapeuti a testare la ST-BA e a far parte del network di clinici che utilizza questo intervento innovativo per l’età infantile e adolescenziale.

Nel complesso il libro appare chiaro, approfondito e di facile lettura. Gli autori spiegano in modo dettagliato il modello e accompagnano il lettore nell’esplorazione dei materiali, delle strategie e delle tecniche con particolare attenzione alle diverse fasi dello sviluppo. In tutto il libro, traspare la passione di Loose e coll. per l’applicazione della Schema Therapy in età evolutiva oltre al desiderio di condividere e confrontare il loro lavoro con gli altri clinici. Il loro invito è di provare il modello, le tecniche e di coinvolgere più clinici nella crescita della ST-BA. Considerati i risultati della Schema Therapy negli adulti e il buon adattamento effettuato dal gruppo di Loose, la ST-BA appare una terapia promettente in ambito evolutivo.

 

Metacognition Oriented Social Skills Training: prove di efficacia da un trial clinico randomizzato in Spagna. Funzionano meglio dei Social Skills Training tradizionali.

Il Metacognition Oriented Social Skills Training (MOSST) è stato ideato a partire dalla definizione di metacognizione  e dalla manualizzazione della Terapia metacognitiva interpersonale.

 

Il Metacognition Oriented Social Skills Training (MOSST) è stato ideato da Paolo Ottavi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale a partire dalla definizione di metacognizione di Semerari e colleghi (1999) e dalla manualizzazione della Terapia metacognitiva interpersonale formulata in Dimaggio et al. (2013) Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità (Raffaello Cortina).

Il Metacognition Oriented Social Skills Training si inserisce in una serie di progetti fatti al Centro TMI volti a sviluppare modelli clinici formalizzati, manualizzati, verificabili empiricamente e che si prestino alla disseminazione internazionale. È un trattamento in gruppo per la schizofrenia in cui gli elementi di promozione di social skills sono supportati da un lavoro volto a riflettere sui processi interpersonali e ad agire guidati da una migliore comprensione degli stati mentali, i propri e quelli degli altri. L’idea è che la performance sociale migliori e lo faccia più stabilmente se i pazienti agiscono guidati da una comprensione mentalistica delle azioni che compiono e non dalla semplice adattività dei nuovi comportamenti messi in atto. Il lavoro in gruppo nel Metacognition Oriented Social Skills Training passa da una costante attenzione alla relazione terapeutica e i terapeuti costantemente metacomunicano, ovvero riflettono apertamente sulle relazioni che si sviluppano in seduta.

Metacognition Oriented Social Skills Training e Social Skills Training a confronto

Un gruppo di colleghi spagnoli guidati da Felix Inchausti dell’Università di Navarra ha condotto un trial clinico randomizzato in cui il Metacognition Oriented Social Skills Training è stato confrontato con i classici Social Skills Training. I risultati dello studio hanno mostrato una netta superiorità del Metacognition Oriented Social Skills Training. Nel MOSST sono stati coinvolti 36 pazienti, contro i 33 dei Social Skills Training. La superiorità riguardava gli outcome primari, ovvero  per funzionamento occupazionale e sociale, performance sociale, riduzione di comportamenti disturbanti e aggressivi. Ci sono stati anche effetti superiori in sintomi di ansia e depressione. La metacognizione è migliorata significativamente solo nel gruppo MOSST. I risultati hanno retto al follow-up a 6 mesi. Sia il Metacognition Oriented Social Skills Training che i Social Skills Training hanno migliorato i sintomi positivi e negativi allo stesso livello.

Rimarchiamo come in una recentissima meta-analisi (Turner et al., 2017) sono emersi come un trattamento efficace per sintomi negativi e sintomatologia generale. L’effetto per i sintomi negativi era della stessa magnitudine di quello della CBT sui sintomi positivi. Quindi il Metacognition Oriented Social Skills Training ha dimostrato una netta superiorità su un trattamento già ampiamento testato e di provata – sia pure limitata in ampiezza – efficacia.

Da notare che nel gruppo MOSST c’è stato un solo drop-out (3%), che è un risultato abbastanza rimarchervole. Sicuramente ha aiutato che i pazienti venissero da aree rurali e quindi fossero portati al servizio da familiari o da bus dedicati. Ma comunque hanno aderito, il fattore facilità del trasporto non poteva spiegare un tale livello di aderenza da solo. Dal punto di vista soggettivo dei pazienti, tutti i 35 che hanno completato il Metacognition Oriented Social Skills Training lo hanno descritto come: utile, generalizzabile alla vita reale, raccomandabile ad altri, piacevole. La descrizione soggettiva della piacevolezza del programma è una conferma della validità della filosofia alla base della Terapia Metacognitiva Interpersonale, dove cerchiamo di promuovere nei pazienti la speranza di raggiungere dei desideri soggettivamente importanti in un clima che cerca di essere leggero, volto all’esplorazione e alla curiosità sugli stati mentali e sul mondo.

Yoga orientato alla consapevolezza per ridurre i comportamenti rischiosi

Seguire dei programmi di yoga orientati alla consapevolezza contribuisce allo sviluppo di stili di coping positivi e riduce i comportamenti rischiosi.

 

Vivere eventi stressanti può indurre comportamenti a rischio

Jacinda Dariotis, ricercatrice dell’Università di Cincinnati, Ohio, si interessa da anni dell’insegnamento della regolazione di pensieri ed emozioni dei giovani a rischio, ovvero di quei giovani che hanno vissuto stress, come ad esempio esposizioni a violenza.

Innanzitutto è stato dimostrato che vi è un collegamento tra stressor precoci e comportamenti a rischio, in particolare gli eventi di vita stressanti vissuti dai giovani predicono comportamenti di abuso di sostanze, comportamenti sessuali a rischio e condotte delinquenziali.

I primi risultati sono stati presentati alla conferenza dell’American Public Health Association, ad Atlanta.

Lo studio è stato condotto su un gruppo eterogeneo di giovani tra i 18 ed i 24 anni.

Sono state raccolte informazioni attraverso interviste e questionari, sono stati considerati aspetti legati alla struttura e alla funzionalità cerebrale, attraverso studi di neuroimaging, sono stati inoltre raccolti campioni di urina per valutare l’utilizzo o meno di droghe ed infine sono stati misurati i livelli ormonali di testosterone.

Il testosterone è stato considerato importante nello studio in quanto è un ormone particolarmente influente nei comportamenti dominanti e aggressivi. Eppure alti livelli di testosterone non sono negativi di per sé, possono anche essere incanalati verso una sana competizione sportiva, ad esempio.

Lo yoga riduce la messa in atto di comportamenti rischiosi derivanti da eventi stressanti

In una prima fase di osservazione è emerso come alcuni soggetti abbiano stili di coping positivi, autogenerati oppure appresi, che possono rivelarsi protettivi rispetto agli stressor precoci.

Taluni giovani che hanno subito eventi di vita stressanti e che hanno frequentato corsi di yoga meditativo e consapevole hanno mostrato stili di coping positivi innanzi agli stressor, evitando la messa in atto di comportamenti rischiosi, perché si dimostrano in grado di pensare a cose migliori rispetto ai brutti eventi accaduti loro.

Questi soggetti hanno il doppio delle possibilità di evitare comportamenti a rischio.

Così, in base a quanto notato e osservato, una seconda parte dello studio ha predisposto dei programmi settimanali di yoga orientato alla consapevolezza per i giovani partecipanti allo studio. Ai soggetti è stato insegnato come prendere il controllo del proprio respiro, delle proprie emozioni e ciò li ha aiutati a sviluppare abilità di coping a lungo termine più sane delle precedenti di cui disponevano.

Dato il basso costo ed il facile adattamento a differenti popolazioni, sarebbe importante inserire tali programmi per migliorare le capacità di coping dei soggetti più vulnerabili e canalizzare efficacemente le loro capacità. Un effetto positivo secondario, rispetto al loro benessere, sarebbe la riduzione di arresti e recidive.

Ascoltare con tutti i sensi: Riflessioni sull’ascolto pluri-sensoriale in psicoterapia

Recuperando le riflessioni offerte da Resnik (2005) circa l’importanza dell’ascoltare “con tutti i sensi” il paziente e ciò che accade dentro la relaziona psicoterapica, ritengo che sia molto stimolante poter pensare all’ascolto come ad una traccia musicale che per essere udita trova canali espressivi spesso alternativi e/o complementari al canale uditivo, e che dunque permettono l’attivazione di diversi centri sensoriali: olfatto, tatto, vista. Canali ricettivi ed espressivi che passano attraverso il delicato rapporto che esiste tra corpo e psiche.

 

Già Freud aveva considerato il corpo come una cerniera tra lo psichico e la materia fisica, qualcosa che il soggetto è, ma anche qualcosa che il soggetto guarda, tocca, odora, ammira o disprezza. In tal senso, il corpo diviene tetro comunicativo principale, un corpo che parla e che a volte svolge le operazioni conflittuali proprie della psiche, come nelle manifestazioni psicosomatiche.

L’ascolto del corpo e del livello comunicazionale non verbale, pertanto, appare un canale di comprensione centrale tanto quanto quello verbale, poiché i due livelli condividono e generano, sin dalla nascita del soggetto e della sua soggettività, la dimensione psichica; del concetto di sé corporeo non a caso si sono occupati diversi autori, che a partire dai contributi di Winnicott relativi alle funzioni di holding e handling materno (1965), hanno colto il nesso profondo che esiste tra corpo-psiche e intersoggettività.

La fondazione del corpo è legata all’intersoggettività, e l’insediamento della mente nel corpo viaggia attraverso di essa (Panizza, 2008), poiché è attraverso lo scambio comunicativo, l’ascolto multisensoriale reciproco, che si pongono le basi per l’interiorizzazione di un modello intrapsichico che permette il transito tra sé come soggetto che riflette e sé come oggetto su cui riflette, favorendo così l’integrazione mente-corpo. Resnik pone l’accento su un aspetto centrale relativo al discorso sul corpo “L’Io psichico ha un suo habitat che è il corpo, e il corpo è un corpo vissuto nella misura in cui è abitato dalla psiche”, ma la dimensione di vitalità a cui l’autore fa riferimento, quando parla dei pazienti in analisi, ritengo che debba nutrirsi e venire ulteriormente rigenerata attraverso l’incontro con la mente-corpo dell’analista che a sua volta deve essere altrettanto viva e disponibile all’ascolto multisensoriale del paziente. La comunicazione è intersoggettiva, e questo è un assunto che la scuola psicoanalitica moderna ha avvalorato e ormai ha fatto proprio come concetto di base, ma ciò che oggi necessita di ulteriore attenzione è l’idea che anche l’ascolto sia intersoggettivo, nelle sue diverse forme espressive; l’odore del paziente, a cui Bion ha dedicato alcune raffinate riflessioni, riprese nel testo da Resnik (2009), non può non prescindere dall’odore che lo stesso analista emette e sul quale il paziente può fantasticare, e lo stesso vale per i suoni, le smorfie, i movimenti corporali, al loro rapidità o lentezza, etc…un paziente dunque non più “ingenuo” ma capace anche egli di respirare continuamente i movimenti dell’analista (Panizza, 2008)

A tal proposito, è possibile ampliare la riflessione sull’ascolto analitico, mettendo in luce i diversi canali di ascolto, alternativi allo sguardo, che il setting da lettino attiva tanto nel paziente quanto nell’analista, seppur non si può non tenere conto di una grossa asimmetria, ovvero il paziente non vede l’analista mentre l’analista guarda il paziente, e ancora il paziente sa di essere visto dall’analista che a sua volta sa di non essere visto dal paziente. Cosa rimane dunque al paziente? L’udito e le sensazioni olfattive e cenestesiche, che permettono l’attivarsi di meccanismi associativi, regressivi e stati di rêverie che si intrecciano a quelli propri dell’analista generando un campo terzo (Ogden, 1997) nel quale gli stessi canali di ricezione e comprensione subisco delle trasformazioni che danno avvio al processo analitico.

Il matrimonio può ridurre il rischio di sviluppare la demenza

I risultati di uno studio di meta-analisi pubblicato online sul Journal of Neurology Neurosurgery & Psychiatry, dimostrano che i single e le persone vedove risultano avere un rischio superiore di sviluppare demenza.

 

Il rischio di demenza nelle persone sposate e single

L’indagine è basata sui dati ottenuti da 15 studi pertinenti l’argomento, pubblicati sino al 2016. Le ricerche esaminate indagano il potenziale ruolo dello stato civile sul rischio di sviluppare la demenza e hanno coinvolto più di 800 mila partecipanti provenienti da Europa, Nord e Sud America e Asia.

Il campione esaminato è composto da soggetti sposati, i quali rappresentano tra il 28% e l’80% dei partecipanti, da persone rimaste vedove che sono all’incirca tra l’8% e il 48% mentre i divorziati rappresentano tra lo 0 e il 16% dei partecipanti e i single tra lo 0 e il 32% del campione.

L’analisi dei dati ha mostrato che, rispetto alle persone sposate, i single presentano il 42% di probabilità in più di sviluppare la demenza, indipendentemente dall’età e dal sesso. I ricercatori suggeriscono che parte di questo rischio potrebbe essere attribuibile al fatto che le persone sole godano di una minore salute fisica. Studi più recenti indicano al contrario una probabilità del 24%, il dato suggerisce una diminuzione del rischio nel tempo apparentemente senza un chiaro motivo.

I vedovi hanno una probabilità del 20% circa di sviluppare demenza rispetto ai soggetti coniugati sebbene la forza di questa associazione sia leggermente indebolita se si considera il livello di istruzione. La possibile spiegazione offerta circa quest’evidenza è quella secondo la quale il lutto porta a un aumento dei livelli di stress percepito, i quali a loro volta vengono associati ad un’alterata segnalazione nervosa e a una diminuita abilità cognitiva.

Nessuna associazione di questo tipo è stata invece riscontrata negli individui divorziati anche se questo, chiariscono i ricercatori, potrebbe essere in parte dovuto al minor numero di persone appartenenti a questo status incluso nel campione.

Il matrimonio riduce il rischio della demenza

Un’analisi dei dati più dettagliata condotta sulle evidenze ottenute ha confermato la minor probabilità di sviluppare il disturbo per i soggetti sposati riflettendo così “la robustezza dei risultati”. Gli autori specificano però che non è possibile trarre conclusioni certe circa la causalità in quanto le scoperte si basano esclusivamente su studi osservazionali e correlazionali; inoltre è necessario considerare alcuni limiti degli studi esaminati ad esempio la mancanza di informazioni relative alla durata della vedovanza o del divorzio.
I ricercatori hanno formulato diverse ipotesi per spiegare i risultati ottenuti, prima fra tutte l’idea secondo la quale il matrimonio potrebbe aiutare entrambi i partner ad avere stili di vita più salutari svolgendo più esercizio fisico, seguendo una dieta sana e riducendo l’uso di alcol e sigarette, tutti elementi questi associati a un minor rischio di demenza.

Christopher Chen, della National University di Singapore e Vincent Mok, della Chinese University di Hong Kong suggeriscono l’aggiunta dello stato civile alla lista dei fattori di rischio modificabili per la demenza e dichiarano “La sfida maggiore ora è rappresentata dal trovare un modo per tradurre questa scoperta in efficaci mezzi di prevenzione della demenza. L’esistenza di fattori di rischio potenzialmente modificabili non significa certo che la demenza possa essere facilmente prevenuta tuttavia alla luce dei risultati ottenuti e delle sempre nuove scoperte riguardanti programmi di salute pubblica e biomedica è necessario trovare metodi per destigmatizzare questo disturbo e creare comunità terapeutiche incentrate sui pazienti affetti da demenza”.

“Neuropsicantria Infantile” di Gaspare Palmieri e Cristian Grassilli: il nuovo libro-cd

“Neuropsicantria Infantile” raccoglie diciassette canzoni sui disturbi psicologici e relazionali dei bambini, scritte con la perizia cantautorale di chi sa plasmare parole e musica unendo precisione clinica, poesia e leggerezza. Ad ogni traccia corrisponde un capitolo del libro dal titolo omonimo, scritto da alcuni colleghi dei due psicosongwriters.

Ma la vera intuizione, da parte di Palmieri e di Grassilli, è che la musica, meglio, la canzone, sia un mezzo fantastico, a poco prezzo, per creare empatia, per suscitare partecipazione: sono pronto a scommettere che queste canzoni, orecchiabili, a volte persino ballabili, riuscirebbero a muovere emozioni anche in chi non fosse particolarmente interessato ad indagare la condizione esistenziale propria ed altrui

(Francesco Guccini)

Neuropsicantria infantile: la musica come tecnica terapeutica

Non elogiate il pensiero che è sempre più raro / non indicate per loro una via conosciuta, / ma se proprio volete, insegnate soltanto / la magia della vita” cantava Giorgio Gaber nel suo ultimo disco “Io non mi sento italiano”. E non è un caso che Gaspare Palmieri (in arte Gappa psichiatra e cantautore) e Cristian Grassilli (psicoterapeuta, musicoterapeuta e cantautore) abbiano scelto questa citazione in apertura del libro che completa il nuovo disco “Neuropsicantria Infantile” a nome Psicantria.

Oltre a pubblicare dischi, Psicantria è anche un’associazione culturale che promuove l’uso della canzone come tecnica terapeutica in ambito psichiatrico e organizza laboratori di musicoterapia, workshop, convegni, concerti psicoeducativi.

“Neuropsicantria Infantile” raccoglie diciassette canzoni sui disturbi psicologici e relazionali dei bambini, scritte con la perizia cantautorale di chi sa plasmare parole e musica unendo precisione clinica, poesia e leggerezza. Ad ogni traccia corrisponde un capitolo del libro dal titolo omonimo, scritto da alcuni colleghi dei due psicosongwriters.

Dopo aver già pubblicato due lavori dedicati al mondo degli adulti (“Psicantria – manuale di psicopatologia cantata”, 2011, e “Psicantria della vita quotidiana”, 2014) ed essere stati i coautori di una canzone nell’ultimo disco di Francesco Guccini (“Notti”), Palmieri e Grassilli raccontano questa volta storie – che a tratti commuovono e a tratti fanno sorridere – di malattia e di guarigione, di cura e presa in carico, di collaborazione e di lavoro di equipe, dove i protagonisti sono figli e nipoti coinvolti nelle più svariate situazioni. La maggior parte dei brani è rivolta agli adulti, mentre tre pezzi conclusivi (“Mondo meraviglia”, “Dario il veterinario”, “Il babbone pasticcione”) sono rivolti ai bambini. Ogni traccia però, spiegano i due, “ha una funzione psicoeducativa in quanto veicola, attraverso il racconto musicato, concetti e informazioni legati alla sfera psicologica e relazionale.” “Ad oggi il 15/20% della popolazione tra 0 e18 anni manifesta un qualche tipo di difficoltà di carattere psicopatologico e di questi solo il 10/15% viene preso in cura da servizi pubblici e privati. Il restante rimane impigliato in modo vario nella sua condizione psicopatologica”. “Neuropsicantria Infantile” apre un varco su queste situazioni, “in modo che queste persone risultino più ‘simpatiche’ e venga scalfito il muro dell’indifferenza e il segno negativo con cui a volte vengono bollate le persone con problematiche psichiche.”

Neuropsicantria infantile (VIDEO):

I temi psicologici trattati nelle canzoni di Psicantria

L’ispirazione è tutta rivolta al cantautorato più classico di De Andrè, Capossela, Gaber, Guccini, dedicando grande attenzione ai testi, vista anche la delicatezza di certi temi, come l’autismo (“Il mio fratellino”) e l’abuso (“Orco zio”). Non mancano però canzoni più ironiche (“Pinocchio DSA”, “Stornello della separansione”, “Ninna nanna dei contrari”) che aiutano a sdrammatizzare situazioni complesse e a trattare tematiche delicate con leggerezza, magari sfatando il mito del genitore perfetto (“Il Babbone pasticcione”) o suggerendo che Pinocchio non era un somaro ma un alunno con difficoltà di apprendimento (“Pinocchio DSA”).

I generi si muovono dal folk al pop, passando per la musica araba e africana, gli stornelli romani di “Stornello Della Separansione”, la bossa nova, le ballad pianoforte e archi, il blues di una “Maternity Blues” che è anche il nome di una patologia che può colpire le neomamme, o ancora il rock di “Simone Tartaglione” scritta insieme al cantautore e logopedista Alberto Bertoli.

“Neuropsicantria Infantile” è anche il titolo del primo singolo tratto dal disco, una divertente filastrocca che cita l’intramontabile Vecchia Fattoria. Il brano anticipa la coralità delle tracce successive, che hanno come protagonisti le figure che ruotano attorno al bambino nel contesto famigliare, scolastico e sanitario. A parlare è il bambino stesso (come in “Dario il veterinario”, che vede la partecipazione del Coro Euridicinni di Bologna), talvolta un’insegnante, una sorella, un genitore: l’effetto è quello di un disco a più voci, un autentico concept album dove non prevalgono mai i tecnicismi clinici ma l’umanità di chi, bambino o genitore, ha bisogno di una strada da percorrere per vivere meglio.

Una strada che magari passa anche da una bella canzone: “Negli occhi di un bambino ti perdi e ricordi il tuo passato, / ti chiedi che cosa sia rimasto del bimbo che sei stato“.

La copertina e il progetto grafico

Nel progetto grafico – spiegano Gaspare e Cristian – abbiamo utilizzato un’immagine del fumettista modenese Clod (già collaboratore di Bonvi) integrata a disegni realizzati dalle classi dell’Istituto Madre Maria Mazzarello di Firenze, che nell’ambito di un laboratorio condotto da un’insegnante hanno ascoltato la canzone del CD ‘Mondo meraviglia’ e successivamente hanno realizzato scritti e disegni sul tema dello ‘stupore’ infantile, descrivendo che cosa li sorprendesse del mondo.”

Live

Lo spettacolo live è per certi versi ispirato al teatro canzone. L’esecuzione dei brani in formazione unplugged o con la band è preceduta da un dialogo tra noi due, che a tratti prende la forma di sketch teatrali sul tema del brano. Negli ultimi sette anni ci siamo esibiti in oltre duecento concerti in tutta Italia, prevalentemente in teatri, scuole, università, convegni scientifici, feste di associazioni legate alla salute mentale.”

 

Ascolta il disco in streaming qui

L’attenzione non è mai troppa: Applicazione dell’Attention Training Technique per migliorare la performance sportiva

Nello sport, gli atleti esperiscono pensieri ed emozioni intrusivi che possono ostacolarli nella performance, impedendogli di raggiungere gli obiettivi sperati. L’ attention training technique dovrebbe aiutare gli atleti a raggiungere lo stato di detached mindfulness, concentrandosi così sugli stimoli importanti per la loro performance e non considerando pensieri intrusivi distraenti come emozioni e pensieri negativi (Moen & Firing, 2015).

Elena Mazzieri, Open School Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Le difficoltà dell’atleta di alto livello

Essere atleta di alto livello non è un mestiere affatto semplice. Comunemente si pensa che per essere un buon atleta bisogna avere talento, allenarsi quotidianamente e avere delle adeguate capacità mentali. Ma che significa adeguate capacità mentali? Noi tutti sappiamo che anche in quello che sembra un banalissimo gesto atletico, come ad esempio calciare la palla o colpire con la mazza una pallina da golf, si nasconde dietro fatica, sudore, ripetizioni su ripetizioni affinché il gesto diventi perfetto e automatico. È risaputo, infatti, che la quantità di tempo speso ad esercitarsi quotidianamente sia fondamentale per trasformare il talento di un atleta in risultati sportivi (Ericsson et al., 1993). Questo però a volte non basta. Tutti noi abbiamo praticato sport da piccoli, e i nostri allenatori ci ripetevano sempre di porre attenzione a quello che stavamo facendo. Da ex giocatrice (con scarsi risultati, lo devo ammettere) di pallavolo, ricordo con particolare antipatia quando, in partita, l’allenatore ci diceva di concentrarci sulla partita, sulla palla, e di ignorare tutto il resto: il sorriso di sfida delle avversarie, gli spalti pieni di amici e parenti venuti a fare il tifo, il fidanzato di turno che ti guarda e tu non riesci a pensare ad altro se non alla pessima figura che farai sbagliando anche la prossima palla. “State attente!” ci diceva. Sembrava facile…

In realtà proprio tutti i torti il povero allenatore non li aveva. Soprattutto a livelli ben più alti di quelli in cui giocavo io, gli atleti sono costantemente esposti ad una varietà di stimoli, spesso in rapido cambiamento, che richiedono uno sforzo attentivo elevato e continuativo (Faubert, 2013), al punto da poter supporre che siano proprio queste risorse attentive, ed in particolare l’abilità di controllarle, una delle condizioni necessarie, assieme alla pratica costante, per ottenere un miglioramento nella performance sportiva (Csikszentmihalyi, 1990; Perna et al., 2003; Faubert & Sidebottom, 2012) e, perché no, il raggiungimento di ottimi risultati nello sport.

La deliberate practice: l’importanza dell’attenzione nello sport

Alcuni autori sono arrivati a parlare di “deliberate practice” (Ericsson at al., 1993), vale a dire un tipo di allenamento che richiede, oltre al duro lavoro, un’attenzione intensa e costante. Per capirci meglio, se uno sciatore si allena per molte ore ma non pone adeguata attenzione a ciò che sta facendo, non si può parlare di deliberate practice, cosa invece possibile nel momento in cui lo stesso sciatore si concentra su specifici aspetti della performance che deve migliorare, come ad esempio aumentare la forza (Moen & Firing, 2015). Se quindi, per sviluppare competenza nello sport, l’elemento chiave è proprio la deliberate practice, parte essenziale di questa è il focus attentivo (Ericsson, 2009).

A voler dar ragione ai poveri allenatori che nel mondo incitano i propri atleti ad essere concentrati ed attenti, diversi studi scientifici hanno dimostrato come per avere successo nello sport siano fondamentali le abilità di usare consapevolmente le risorse attentive dell’atleta (Bernier et al., 2009; Kaufman et al., 2009; Kee & Wang, 2008; Moen & Firing, 2015). Su un punto, però, noi atleti di bassa leva non ci sbagliavamo: non è urlandoci di stare attenti che si risolve la situazione!

Per aiutare sia allenatori che atleti, nel campo della psicologia dello sport, sono stati messi a punto diversi programmi per incrementare le risorse attentive degli atleti (Faubert & Sidebottom, 2012). Tradizionalmente vengono utilizzati interventi come l’imagery, il self-talk e il goal setting (Weinberg & Gould, 2011), che hanno lo scopo di aiutare a controllare i fattori mentali interni negativi che possono influenzare la performance dell’atleta (Gardner & Moore, 2006). Sebbene siano tuttora ampiamente utilizzati, questi interventi in realtà non fanno altro che aumentare gli stati negativi stessi, dal momento che preparano gli atleti a ricercare questi fenomeni (Wegner, 1994). Così facendo, l’atleta esegue una sorta di scansione degli stati interiori che rende le emozioni e i pensieri negativi più consapevoli, distraendosi dal compito del momento ed influenzando negativamente la performance sportiva (Bertollo et al., 2009). In poche parole, continuandoci ad urlare di stare attente e di ignorare la folla sugli spalti, il nostro caro allenatore non faceva altro che renderci ben più presente che lì accanto a noi c’erano persone a guardarci e giudicarci, innescando tutta una serie di pensieri negativi (“cosa penserà di me se sbaglio di nuovo?”) che non facevano altro che peggiorare la nostra già scarsa performance in partita.

Quello che poi mandava letteralmente fuori di testa il nostro povero allenatore, era che mentre in partita non riuscivamo a fare un punto nemmeno se le avversarie restavano immobili, durante gli allenamenti facevamo azioni da far invidia a Mila e Shiro. Lui continuava a sostenere che in partita non eravamo abbastanza attente e concentrate, e forse, di nuovo, stava dicendo la cosa giusta.

Durante gli allenamenti non c’erano avversarie, spettatori, amici, parenti e quant’altro che potevano distrarci. Ci concedevamo di sbagliare con più tranquillità, tanto non c’era in gioco la partita o il campionato. Proprio questa mancanza di pensieri intrusivi negativi ci permetteva di giocare con la piena consapevolezza di quanto stavamo facendo. In uno stile un po’ mindfulness, che decisamente mancava durante la partita.

Va da sé che questo è soltanto un esempio dei possibili pensieri intrusivi negativi che possono inficiare la performance sportiva. Non per tutti gli atleti la presenza degli spettatori è un elemento di disturbo, anzi… Molto spesso, specialmente ad alti livelli, il pubblico esalta l’atleta spingendolo a dare il meglio di sé. Quello che può essere fonte di distrazione per uno, non lo è necessariamente per un altro atleta, e gli esempi che potremmo fare sono potenzialmente infiniti. Per semplicità, continueremo con questo esempio.

L’ efficacia degli interventi di mindfulness nello sport

Partendo dal presupposto della scarsa efficacia degli interventi tradizionali, si è iniziato a pensare che potrebbe essere più benefico per gli atleti sviluppare capacità che comportino la consapevolezza e accettazione del momento presente (Gardner & Moore, 2006; Kaufman et al., 2009). Questo cambiamento di paradigma rappresenta la base dei nuovi interventi in psicologia dello sport fondati sulla Mindfulness.

La Mindfulness è stata definita come un porre attenzione di proposito, nel momento presente, senza giudicare (Brown & Ryan, 2003; Kabat-Zinn, 1994). Le tecniche basate sulla mindfulness richiedono di accettare e osservare gli stati interni che si provano nel presente senza giudicarli. In questo modo l’atleta si distanzia dai propri pensieri ed emozioni assumendo la prospettiva di un osservatore esterno (Jekauc et al., 2017). Proprio questa prospettiva evita che l’atleta venga invaso dai propri pensieri e sentimenti, permettendogli di decidere in maniera cosciente se seguire e perdersi nei propri pensieri o focalizzarsi su qualcos’altro. Usando questa tecnica, l’atleta guadagna stabilità emotiva e impara a mantenere l’attenzione su quello che sta accadendo in quel momento (Jekauc et al., 2017), ottimizzando la performance sportiva.

L’abilità di usare l’attenzione come uno strumento per porre sotto la lente d’ingrandimento specifici aspetti dell’esperienza dell’atleta, consente di non perdersi in informazioni superflue e di concentrarsi sugli stimoli ottimali alla performance (Csikszentmihalyi, 1990; Wadlinger & Isaacowitz, 2011). Va da sé, quindi, che diventa essenziale l’abilità dell’atleta di dirigere l’attenzione verso quelli che sono gli aspetti più rilevanti per ottenere un’adeguata prestazione (Csikszentmihalyi, 1990; Ericsson et al., 1993).

La teoria metacognitiva: la Cognitive Attentional Syndrome e l’ Attention Training Technique

Ritornando per un attimo alla teoria metacognitiva, questa ipotizza che ad essere responsabile dei disturbi psicologici è lo stile di pensiero chiamato Cognitive Attentional Syndrome (CAS) (Wells, 2009). Questo stile di pensiero è collegato a metacognizioni interne che controllano il pensiero e l’attenzione, e bloccano l’individuo in un pattern persistente di pensieri negativi difficili da controllare. I pensieri automatici negativi fanno da trigger, quindi, ad una reazione maladattiva, la CAS appunto, la quale contribuisce a sviluppare emozioni negative come ansia e depressione (Wells, 2009).

Per essere più chiari, nel momento in cui, durante la nostra partita di pallavolo, il solito allenatore ci dice di non guardare gli spettatori e di concentrarci solo sulla partita, quasi inevitabilmente non riusciamo a pensare ad altro se non a chi ci guarda dagli spalti, focalizzandoci sul pensiero intrusivo “cosa penserà di me se sbaglierò di nuovo?” e, ruminando su questo, aumenta sempre di più la sensazione di ansia. In questo modo la performance sportiva andrà costantemente a peggiorare, anche perché la nostra attenzione resterà focalizzata sul pensiero intrusivo e su stimoli esterni (nel nostro caso, le persone sedute sugli spalti) anziché essere concentrata sul gioco e sul gesto atletico.

Sulla base della CAS, è stato sviluppato l’ Attention Training Technique (ATT), il cui scopo è quello di aiutare i partecipanti a sviluppare l’abilità di spostare la propria attenzione dagli stimoli emotivi a stimoli neutri, attraverso l’uso di compiti uditivi. (Wells, 1990; Wells, 2005).

Nell’ Attention Training Technique originale, i partecipanti devono in un primo momento concentrarsi e mantenere la propria attenzione su uno stimolo ambientale, come ad esempio il ticchettio dell’orologio, tentando di non farsi distrarre da altri suoni o pensieri. Wells (1990) definisce questo esercizio “attenzione selettiva”. In seguito i partecipanti devono selettivamente spostare la propria attenzione su suoni più remoti che aumentano l’interferenza acustica (ad esempio, il rumore del traffico, il suono delle campane di una chiesa, e così via) e spostare alternativamente l’attenzione su questi due suoni, esercizio chiamato “cambio di attenzione” (Wells, 1990).

Lo scopo del training è di seguire le istruzioni attentive date indipendentemente da cosa può o non può essere sentito nel corpo e nella mente dei partecipanti. Gli eventi interni dovrebbero essere trattati come fonti aggiuntive di rumori ai quali non deve essere dato ascolto. Lo scopo non è evitare o sopprimere pensieri ed emozioni, ma lasciargli occupare il proprio spazio interno senza dar loro peso. (Nassif & Wells, 2013). Wells e Matthews (1994) definiscono questo tipo di esperienza “detached mindfulness”, vale a dire un tipo di consapevolezza degli eventi interni, come pensieri ed emozioni, ma senza un’analisi concettuale ed una risposta diretta ad uno scopo (Wells, 2005). In questo stato i pensieri sono come degli oggetti presenti nella mente separati dalla realtà.

L’ Attention Training Technique nello sport

Questo funziona in ambito clinico, ma nello sport? Applicare l’ Attention Training Technique come intervento sostituivo ai tradizionali che, come abbiamo visto, non sembrano produrre i risultati sperati, potrebbe migliorare la performance sportiva? Teoricamente sì. Nello sport, infatti, gli atleti esperiscono pensieri ed emozioni intrusivi che possono ostacolarli nella performance sportiva, impedendogli di raggiungere gli obiettivi sperati. L’attention training technique dovrebbe aiutare gli atleti a raggiungere lo stato di detached mindfulness, concentrandosi così sugli stimoli importanti per la loro performance e non considerando pensieri intrusivi distraenti come emozioni e pensieri negativi (Moen & Firing, 2015). Mi spiego meglio. In linea teorica, se avessimo praticato l’ Attention Training Technique, il pensiero “cosa penserà di me se sbaglierò di nuovo?” sarebbe rimasto nella nostra mente di giovani giocatrici di pallavolo senza essere giudicato o senza ruminarci sopra. Saremmo rimaste concentrate sul gesto atletico del momento e forse, dico forse, una o due partite saremmo riuscite a vincerle.

Dal punto di vista teorico, quindi, la cosa sembrerebbe funzionare. Sarà così anche praticamente?
Dalle ricerche in ambito scientifico, emerge che relativamente pochi sono stati gli studi che hanno applicato l’ Attention Training Technique nello sport. Tra questi emergono quelli svolti dal gruppo di ricerca di Moen et al. (2015, 2016). Nel loro primo lavoro, lo scopo era proprio quello di verificare come l’ Attention Training Technique influenzasse l’esperienza nello sport in un gruppo di giovani atleti norvegesi. Il programma che hanno implementato ha avuto la durata di 12 settimane, durante le quali gli atleti dovevano ascoltare, per almeno 5 volte la settimana, un file audio di circa 12 minuti. Lo scopo era quello di diminuire il focus attentivo interiore e di aumentare il controllo attentivo esecutivo (Fisher & Wells, 2009). Ogni tre settimane, veniva svota una sessione di gruppo in cui si discuteva l’andamento del progetto. Dallo studio è emerso che l’ Attention Training Technique influenza l’abilità degli atleti di passare da uno stato in cui la mente divaga liberamente ad uno stato in cui viene preso il controllo esecutivo della propria attenzione. Una volta che gli atleti hanno esperito di avere un controllo esecutivo della propria attenzione, diventano capaci di spostare l’attenzione su elementi chiave che permette loro di agire consapevolmente sul contesto che li circonda. In questo modo, quindi, diventano capaci di capire se stessi ad un livello più profondo e di migliorare la propria autostima (Moen et al., 2015).

Gli stessi autori, un anno dopo, hanno approfondito lo studio con strumenti ed ipotesi più solide, supponendo che l’ Attention Training Technique fosse in grado di ridurre lo stress e di migliorare le performance sportive di un gruppo di giovani atleti. Anche in questo caso, l’ Attention Training Technique è stato svolto tramite un file audio di 12 minuti da ascoltare per almeno 5 volte alla settimana (Moen et al., 2016). Come nella ricerca precedente, ogni tre settimane veniva condotta una sessione di gruppo con lo scopo di stimolare riflessioni sulle influenze che l’ Attention Training Technique potrebbe avere in ambito sportivo o nella vita di tutti i giorni (Moen et al., 2016).

Dai risultati emerge che, a seguito dell’ Attention Training Technique, il livello di stress percepito negli atleti è diminuito, così come sono migliorate le performance in ambito sportivo (Moen et al., 2016). Uno degli effetti principale dell’ Attention Training Technique riguarda la capacità degli atleti di imparare a spostare l’attenzione dai pensieri intrusivi interni (CAS) a stimoli benefici, come ad esempio informazioni più neutrali (Papageorgiou & Wells, 2000; Papageorgiou & Wells, 1998), Siegle et al., 2007; Wells, 1990, 2005; Wells et al., 1997), riducendo così l’ansia e la ruminazione. Nello specifico, la riduzione a seguito dell’ Attention Training Technique del livello percepito di stress è dovuta, probabilmente, al fatto che l’ Attention Training Technique è in grado di interrompere la CAS, aiutando così gli atleti a rafforzare la consapevolezza del proprio controllo sui processi attentivi (Callinan et al., 2015; Yilmaz et al., 2011).

Tramite l’ Attention Training Technique, gli atleti vengono allenati ad accettare i pensieri e le emozioni che possono comparire durante l’allenamento e la performance sportiva, così da prevenire il processamento concettuale (cioè l’analisi che permette di dare significato alle informazioni) o le strategie dirette allo scopo di rimuovere o evitare pensieri e emozioni. L’abilità degli atleti di accettare questi pensieri ed emozioni potenzialmente disturbanti è influenzata dalla loro capacità di metaconsapevolezza, influenzata anch’essa dall’ Attention Training Technique. Se non sono consapevoli delle loro esperienze interiori, infatti, gli atleti non possono accettare i pensieri ed emozioni disturbanti ed evitare l’analisi concettuale o le strategie dirette ad uno scopo (Moen et al., 2016). Questo dovrebbe essere uno strumento benefico per prevenire lo stress, dal momento che impedisce la possibile elaborazione di pensieri e sentimenti spiacevoli quali l’ansia e la ruminazione (Wells, 2009), facilitando così il cambio del focus attentivo verso l’obiettivo desiderato (Marks, 2008).

Tramite l’ Attention Training Technique, i giovani atleti partecipanti alla ricerca condotta da Moen et al., (2016) sono riusciti a migliorare l’abilità di dirigere la propria attenzione in maniera selettiva su obiettivi efficaci a poter esprimere il proprio reale potenziale e migliorare la performance. La capacità di focalizzare la propria attenzione in specifici aspetti della performance dell’atleta, come si diceva prima, è un elemento essenziale dell’allenamento. Inoltre, l’attenzione è essenziale per selezionare le informazioni più importanti così che la memoria di lavoro conservi queste informazioni in modo accessibile (Fougnie, 2008). In questo modo, l’informazione più importante per il compito da svolgere in quel momento è accessibile nella memoria di lavoro così che sia possibile eseguire automaticamente il potenziale intrinseco (Gucciardi & Dimmock, 2008).

Alla luce di questi risultati, è possibile ipotizzare che l’ Attention Training Technique rappresenti uno strumento importante per migliorare la perfomance sportiva, proprio perché va a potenziare quelle “capacità mentali” di cui si accennava poco fa e che, prima, ci erano un po’ oscure. Ora sappiamo che un grande atleta deve essere in grado di orientare in maniera consapevole la propria attenzione senza lasciarsi sopraffare da pensieri intrusivi negativi che andrebbero ad inficiare la performance. E per fare questo, sembra ottimale l’utilizzo dell’ Attention Training Technique, sebbene siano necessari ulteriori ricerche ed approfondimenti.
Insomma, il nostro allenatore non aveva poi tutti i torti; se non stai attenta, il punto lo segnerà l’avversaria.

Ambulatorio di cardiologia pediatrica: un cuore che può rinascere

In cardiologia pediatrica si riscontra spesso un’inibizione degli stati emozionali: proprio in questo contesto prevalgono delle condotte inibitorie nei confronti delle emozioni dei bambini e delle loro famiglie.

Sofia Tavella, Lorella Cartia, Marialuisa Macedone, Beatrice Plini, Elisabetta Masciotta       

 

Il contesto ospedaliero, anche in età pediatrica, rappresenta oggi una realtà ben conosciuta, da qualcuno solo per una breve parentesi, da qualcun altro per periodi più lunghi, in fasi di vita differenti e ad intervalli più o meno frequenti e regolari.

In queste circostanze le strutture ospedaliere, ed in particolare gli ambulatori, pur nel loro caos e nella loro confusione interna, diventano un luogo carico di significati disparati: dal punto di vista dei genitori e degli adulti di riferimento essi costituiscono il primo ambiente simbolico e prepotentemente reale in cui prendere coscienza della malattia e di tutto ciò che comporta in termini di interruzione della quotidianità, percezione della fragilità umana e minaccia di una progettualità che coinvolge inevitabilmente tutto il sistema che gravita intorno al bambino, specie se molto piccolo, con le relative emozioni di paura, rabbia, impotenza spesso non sufficientemente elaborate; dal punto di vista del bambino “malato”, invece, la soggettività del contesto e della propria condizione di malattia di frequente passa attraverso gli occhi dei grandi e del loro modo personale ed emotivo di leggere gli accadimenti per cui non è infrequente che l’ansia o la paura del bambino siano quelle, non contenute e proiettate, dell’adulto di riferimento.

In accordo con quanto sostenuto da Stern (1987), tutto ciò che dà forma alla relazione fra madre e bambino, per esempio il tono della voce, le espressioni del viso o i movimenti corporei e che si ripetono con una certa continuità nel tempo contribuisce a formare le modalità di relazioni stabili, coerenti e ricorrenti che il bambino impara a riconoscere e su cui inizia a strutturare un modello di relazione coerente con l’altro e di continuità del sé.

Quando, invece, il genitore o il familiare riesce a gestire le proprie ansie non proiettandole sul bambino e ponendosi come risorsa per lui, ecco che l’ambulatorio può diventare anche un contesto ludico, ri-creativo, persino rassicurante in cui sperimentare, anche nei momenti a volte interminabili di attesa, esperienze positive che, pur agendo nell’hic et nunc, possano sostituirsi alle sensazioni negative di una condizione oggettiva di malattia. E allora anche lo spazio ambulatoriale può offrire per i grandi un’occasione di scambio dialettico o di sfogo, e per i piccoli uno spazio di contenimento, di supporto o di benessere, attraverso il disegno, la scelta dei colori, o il gioco.

Come sostiene M. Klein (1932), il gioco rappresenta nel bambino, il corrispettivo delle libere associazioni per l’adulto. Infatti, è proprio attraverso il gioco che i bambini danno forma alla propria realtà ed esprimono tutti i loro conflitti inconsci, le fantasie, desideri, o paure interne, molto più che con il linguaggio.

I correlati psicologici negli ambulatori di cardiologia pediatrica

Rispetto all’esperienza di ospedalizzazione e di lungodegenza che si riscontra nei reparti di patologie gravi come quello di oncologia pediatrica, il cui clima emotivo è prevalentemente permeato da un’angoscia di morte che può assumere i connotati della derealizzazione (che minaccia i progetti e il futuro), della depersonalizzazione (che comporta uno squilibrio psichico) e della destrutturazione (che mette a repentaglio il mito della salute), nell’ambulatorio di cardiologia pediatrica l’angoscia di morte non sembra giocare un ruolo attivo.

Può sembrare paradossale, ma proprio in cardiologia pediatrica in cui ci si prende cura di una patologia più o meno grave che da un momento all’altro potrebbe far perdere la vita, le angosce di morte sembrano svanire per lasciare spazio ad altri stati emozionali, o meglio all’inibizione degli stessi. Infatti, proprio in questo contesto prevalgono delle condotte di inibizione nei confronti degli stati emotivi dei bambini e delle loro famiglie.

Se consideriamo metaforicamente il cuore come il luogo della salute e dei nostri affetti, osserviamo che le patologie cardiache aprono nei genitori una profonda ferita narcisistica poiché esse contrastano con l’immagine idealizzata e perfetta della procreazione.

Ad uno stato iniziale di confusione e di forte disorientamento in seguito alla diagnosi, si accompagna un senso di impotenza e di colpa nei genitori, da cui deriva molto spesso una modalità di relazione basata sulla compiacenza e sull’obbedienza nei confronti del bambino malato.

Tale modalità rischia di compromettere il legame di attaccamento. Infatti, lo stesso Bowlby (1988) sottolinea come la qualità del legame dipenda dal modo in cui la madre (il genitore) risponde alle richieste di attaccamento. È proprio quando il bambino è in pericolo che dovrebbe essere visibile ed attivarsi il legame di attaccamento. Egli utilizza il termine di sensibilità materna per indicare le risposte che il bambino riceve dalla madre che per essere considerate ottimali devono essere immediate ed adeguate, ovvero devono comprendere il riconoscimento del bisogno del bambino sotteso a quel tipo di comportamento di attaccamento.

La realtà ambulatoriale in cardiologia pediatrica permette di confrontarsi con una molteplicità di situazioni e, allo stesso tempo, di poter sperimentare l’unicità di ogni bambino e l’esclusività del rapporto che si viene a creare attraverso e aldilà della malattia sia con i principali punti di riferimento che con gli operatori che incontra. I volontari del progetto “Al servizio dei bambini”, fondato dall’associazione Alma Salus nel 2007, offrono il loro contributo per sostenere i piccoli pazienti dell’ambulatorio di cardiologia pediatrica e le loro famiglie.

I pazienti in cardiologia pediatrica: il caso del piccolo Matteo

Matteo, 5 anni, è nato con una malformazione cardiaca, operato alla nascita si sottopone oggi a controlli periodici (ECG e visita cardiologica) all’ambulatorio di cardiologia pediatrica, divenuto per lui un ambiente quasi familiare. Viene accompagnato da entrambi i genitori ma solo la madre si ferma a raccontare le fasi iniziali della loro vicenda, dalla scoperta della diagnosi precoce all’intervento, includendone i grandi sensi di colpa che hanno accompagnato tutto il percorso e presenti soprattutto in lei. Oggi tali emozioni sembrano aver trovato uno spazio di accettazione e di elaborazione, come dimostra il desiderio di condividere tale esperienza, lasciando due genitori un po’ stanchi per un cammino lungo e faticoso ma dove l’ ansia non sembra più dominante come una volta. Essa sembra, infatti, aver ceduto il posto ad una forte consapevolezza che si traduce in una presenza costante che diventa risorsa al servizio della famiglia.

Ciò permette allo stesso Matteo di giocare oggi serenamente, familiarizzando anche con gli altri bambini in sala d’attesa dell’ambulatorio di cardiologia pediatrica, facendo anche da “ufficio informazioni” per i passanti che cercano un reparto specifico, dimostrando di essere ormai di casa. È proprio la presenza solida e puntuale dei genitori che permette al bambino di potersi aprire con gli operatori costruendo un clima di fiducia e di vicinanza anche attraverso il gioco simbolico. In un contesto come quello ospedaliero, il gioco simbolico assolve ad importanti funzioni come quella riparatoria e anticipatoria (Winnicott, 2006): il bambino si prepara a qualcosa di problematico o cerca di abbassare il livello ansioso dopo che l’evento problematico è avvenuto (pensiamo alla paura per la prima visita). Inoltre, il gioco simbolico permette al bambino di rappresentare la realtà, soprattutto imitandola, e di dominarla difendendosi dalla realtà “vera” fatta di divieti e regole.

Il dono della neuroplasticità: come si modifica il cervello

Il cervello e le sue interconnessioni strutturali si modificano durante il corso di tutta la nostra esistenza. La capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza prende il nome di neuroplasticità.

Laura Vacchini

Daniel Siegel: il benessere mentale deriva da una mente in equilibrio

Ci si sente disgregati, a disagio, sbilanciati, manca equilibrio e siamo pervasi da un qualche tipo di malessere. Cosa ci sta succedendo? Secondo Daniel J. Siegel, professore di psichiatria di fama internazionale presso la facoltà di medicina dell’UCLA e fondatore della neurobiologia interpersonale, è semplicemente un problema di integrazione. Capiamo meglio di cosa si tratta.

La neurobiologia interpersonale è una disciplina che approfondisce, con un approccio congiunto di scienze apparentemente slegate tra loro, lo sviluppo di conoscenze applicabili alla vita personale con l’obiettivo di raggiungere e mantenere il benessere individuale.

Secondo l’approccio promosso da Daniel J. Siegel, il benessere mentale arriva quando grazie ad una mente in equilibrio siamo in grado di instaurare relazioni empatiche e gratificanti. L’impianto teorico di riferimento è articolato e si basa sul concetto di mente come parte di un sistema interconnesso dove l’influenza reciproca produce ordine e unità.

L’autore rappresenta il benessere attraverso un triangolo ai cui vertici troviamo tre entità interdipendenti: cervello, mente e relazioni. Il cervello o encefalo, ovvero la parte del corpo racchiusa nella scatola cranica, è parte integrante del nostro sistema nervoso, è interconnesso con l’intero organismo ed è il luogo fisico di smistamento di ogni tipo di input che coinvolga il nostro corpo.

La neuroplasticità: la capacità del cervello di modificarsi in base all’esperienza

Nella neurobiologia interpersonale il termine cervello è utilizzato per indicare tutti i meccanismi neuronali che generano flussi di energia e informazioni che attraversano il corpo grazie al sistema nervoso. Il triangolo rappresenta il processo di interconnessione fra le parti, connessione che avviene grazie al movimento dei flussi di energia e di informazioni all’interno del sistema. Le parti di questo insieme si alimentano reciprocamente: il cervello è il luogo fisico dove si genera l’informazione e la mente funge da regolatore dei flussi informativi. Una mente ben integrata è sana e resiliente e consente di sviluppare output a loro volta in grado di generare equilibrio attraverso relazioni comunicative con l’ambiente esterno. La relazione è quindi il mezzo attraverso il quale avviene lo scambio di energia: connessioni e relazioni empatiche producono senso di gratificazione e a loro volta stimolano una vita mentale interiore sempre più coerente. Se c’è integrazione tra tutte le parti, questo sistema risulta armonico e flessibile, se l’integrazione è parziale o assente si manifestano rigidità e caos. In entrambi i casi, le implicazioni nella nostra vita sono notevoli.

Il cervello e le sue interconnessioni strutturali si modificano durante il corso di tutta la nostra esistenza. La capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza prende il nome di neuroplasticità.

Il cervello funziona come una totalità in cui tutte le sue parti sono interconnesse come una ragnatela di processi. Un cambiamento strutturale può comportare la creazione o il rafforzamento di connessioni tra neuroni già esistenti oppure la crescita di nuovi neuroni producendo effettivi mutamenti.

Come avviene tutto ciò? L’esperienza attiva, come ad esempio l’attenzione focalizzata, determina l’eccitazione dei neuroni, i quali a loro volta possono portare all’attivazione dei geni rendendo possibile il verificarsi di trasformazioni a livello di struttura; funge da fattore abilitante alla crescita e al cambiamento effettivo e produce un concreto rinnovamento a tutto il sistema.

Neuroplasticità e psicoterapia

Prendiamo in esame il contesto psicoterapico. L’attenzione focalizzata, il pensare coscientemente, l’investigare in una relazione aiuta a rimodellare, in qualsiasi momento della nostra vita, le connessioni cerebrali consentendo di portare integrazione all’interno del nostro sistema “cervello – mente – relazioni e producendo effetti concreti.

La neuroplasticità offre notevoli vantaggi ma altrettanti svantaggi dati dal fatto che anche le esperienze negative possono modificare la struttura del cervello.

A questo proposito esaminiamo gli effetti che l’ansia può avere sul nostro sistema cerebrale e di conseguenza sui nostri pensieri e comportamenti. L’ansia di per sé rappresenta la naturale risposta alla percezione di pericolo e minaccia, è una risposta adattiva alla paura e ha lo scopo di preservare l’incolumità dell’individuo. Tuttavia, quando diventa particolarmente intensa, può generare condotte disadattive che possono limitare fortemente il funzionamento psichico e sociale dell’individuo. I sintomi sono irrequietezza, affaticamento, irritabilità, tensione muscolare, alterazioni del sonno, difficoltà di concentrazione e vuoti di memoria. Questa sintomatologia, e il conseguente disagio soggettivo che si produce, genera caos nel sistema “cervello – mente – relazioni” producendo un malessere che condiziona l’individuo nella sua totalità.

Alla luce del dono della neuroplasticità e della flessibilità di un sistema che non smette mai di apprendere, una circostanza di malessere mentale e disagio non deve farci perdere d’animo. Ognuno di noi, riflettendo sul proprio vissuto, può prendere coscienza del fatto che siamo un sistema in continua trasformazione, tutto ciò avviene già naturalmente, senza controllo alcuno da parte nostra. Averne coscienza è invece il primo passo per intraprendere un cammino di sano apprendimento. Anche un piccolo intervento attivo all’interno del nostro complesso sistema può fare grandi cose: rompendo un circolo vizioso e ripristinando il fluire dell’energia, gli esiti saranno inaspettati.

Le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani adulti – Aspetti che prescindono da genere e orientamento sessuale

Il gruppo di ricerca fluIDsex (Greta Riboli, Irene Gargano, Mattia Nese, Lorena Lo Bianco e Valentina Orlandi) negli scorsi mesi ha lanciato un survey per indagare le abitudini sessuali e affettive di un gruppo di giovani studenti, frequentanti università del nord Italia. In questo articolo verrà presentata una prima parte dei risultati ottenuti.

 

I soggetti che hanno risposto al survey sono stati 440, di cui 274 persone di genere femminile e 166 di genere maschile; 125 persone omosessuali e 315 persone eterosessuali.

L’età dei soggetti è tra i 19 ed i 25 anni (media 22,14 e deviazione standard 3,2).

Nella maggior parte delle risposte agli item del questionario non si sono verificate differenze significative nel gruppo femminile rispetto a quello maschile e nel gruppo eterosessuale rispetto a quello omosessuale. I risultati generali rispecchiavano l’andamento dei risultati specifici delle sottocategorie di genere e di orientamento. Questo può essere dovuto al fatto che i soggetti che hanno compilato il survey vivono in ambienti in cui vi è o ci si avvicina ad una parità tra i generi: come hanno rilevato Peterson e Hyde (2011), quando vi è discrepanza tra i generi i comportamenti ed i pensieri legati alla sessualità di uomini e donne si differenziano molto, invece quando vi è parità le differenze si assottigliano.

Nel presente articolo verranno riportati unicamente i risultati maggiormente significativi ed i punteggi estremi emersi.

Aspetti che prescindono dal genere e dall’orientamento sessuale

Sesso, affetto e relazioni

Per il 73,3% del nostro gruppo di giovani l’attrazione sessuale è un requisito fondamentale per avviare una relazione ed il 70,4% di essi preferisce e non ha difficoltà ad avere un partner sessuale stabile piuttosto che imbattersi in relazioni sessuali con partner differenti.

In tema di “avere occhi solo per il proprio partner”, in egual misura c’è chi trova impossibile provare attrazione per qualcun altro oltre al proprio partner, chi ritiene che dipenda dalle persone coinvolte e chi spesso prova attrazione per qualcuno al di fuori della propria relazione. Da quanto emerso sembrano esserci delle persone più propense all’interesse verso altri mentre si è impegnati in una relazione monogama con qualcuno e di conseguenza più propensi al tradimento e ciò può essere dovuto al fatto che l’infedeltà sembra dipendere da un’influenza genetica (Garcia et al., 2010).

Gli amici di letto sono coloro che hanno relazioni sessuali, senza che vi sia un rapporto sentimentale di coppia tra loro. Questi rapporti sono contraddistinti da assenza di gelosia, flessibilità e spensieratezza, e per questi motivi sono difficili da mantenere (Bisson et Levine, 2009). Anche nel nostro studio è emerso che la maggior parte dei giovani, il 65,1%, ha difficoltà nel mantenere una relazione puramente sessuale, senza sfociare nel coinvolgimento affettivo.

Masturbazione e mind wandering

Il 63,3% dei ragazzi che ha partecipato allo studio, a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale, dichiara di masturbarsi regolarmente. E solo il 10% distribuito regolarmente per genere e orientamento dichiara di non farlo mai.

Allo stesso modo alla maggior parte dei giovani (75,3%) capita di fantasticare sul sesso regolarmente, mentre solo il 3% dichiara di farlo raramente.

Orgasmo

Anche in questo caso i punteggi riportati sono generali, ed estremi, in quanto gli andamenti delle risposte sono risultate omogenee nei rispondenti a prescindere dal genere e dall’orientamento sessuale.

Il fatto che non siano emerse differenze porta ad una novità nel comune pensare, in quanto, conseguentemente ad un’anatomia e da una funzionalità differente, l’orgasmo e la soddisfazione sessuale si è soliti ritenere che vengano vissuti in modo differente da maschi e femmine. Il 39,2% riconosce il raggiungimento dell’orgasmo come componente essenziale dell’appagamento sessuale, mentre il 49,5% non riconosce l’orgasmo come componente essenziale dell’appagamento sessuale. Eppure, quasi tutti i partecipanti allo studio (il 97,5%) riportano di sentirsi soddisfatti quando il proprio partner ha raggiunto l’orgasmo.

Quanto emerso (ovvero che la quasi totalità del gruppo dei giovani universitari del nord Italia dichiara di sentirsi appagato quando il partner ha raggiunto l’orgasmo, ma che solo il 39,2% riconosce il raggiungimento dell’orgasmo come parte essenziale del proprio soddisfacimento sessuale) può essere colto in funzione di una sorta di forma raffinata e più complessa di potere sull’altro, per la quale il benessere altrui dipende dal soggetto e la soddisfazione altrui diventa più gratificante della propria.

Fino ad oggi, un aspetto simile, è stato per lo più ritenuto prettamente femminile. La donna per andare incontro ai bisogni sessuali del partner maschile, anche in assenza di desiderio proprio, accettava il rapporto sessuale, per amore ed in cambio di un ruolo preciso, nel quale sentirsi forse anche desiderata (aspetto probabilmente più importante del desiderare stesso). Eppure nei nostri risultati non vi è differenza tra donne e uomini, entrambi sembrano esser per lo più appagati dal raggiungimento dell’orgasmo da parte del partner, in confronto al proprio. Inoltre mentre il 53,3% dei soggetti ritiene importante raggiungere l’orgasmo durante un rapporto sessuale con la persona con cui si ha una relazione stabile, solamente un 38,9% lo ritiene altrettanto importante nel caso in cui il rapporto sessuale in oggetto sia occasionale.

Abitudini sessuali e affettive nei giovani adulti i dati di una recente ricerca - IMM1

Imm. 1 – Quanto è ritenuto importante l’orgasmo nei rapporti con un partner stabile

Abitudini sessuali e affettive nei giovani adulti i dati di una recente ricerca - IMM2

Imm. 2 – Quanto è ritenuto importante l’orgasmo nei rapporti con un partner occasionale

Un primo dato interessante sta nell’assenza di differenza tra gruppo maschile e gruppo femminile nei comportamenti relativi al sesso occasionale. Fa parte del senso comune considerare il sesso occasionale come un interesse più circoscritto al genere maschile. A questa tendenza è sempre stata data una motivazione di tipo ormonale: è il testosterone a guidare gli uomini nella ricerca del sesso occasionale. Invece, diversi studi, tra cui quelli condotti da una ricercatrice australiana (Fine, 2017), hanno evidenziato come la preferenza maschile per il sesso occasionale sia legata a motivazioni sociali: a prescindere dal genere, le persone possono essere ugualmente attratte dal sesso occasionale, ma le donne collegano il sesso occasionale a maggiori rischi, tra cui quello di essere violentate. Qualche anno prima, invece, un gruppo di ricerca Norvegese (Grøntvedt & Kennair, 2013), aveva già precisato che non è affatto una questione culturale, quanto i postumi di un rapporto occasionale: le donne, nella maggior parte dei casi, si pentono del rapporto sessuale, mentre gli uomini no.

Nel dettaglio, per approfondire meglio le motivazioni che risiedono dietro la differenza di importanza del raggiungimento dell’orgasmo in un rapporto stabile piuttosto che in uno occasionale, sarebbe interessante indagare cosa un rapporto sessuale con un partner stabile e cosa un rapporto sessuale con un partner occasionale rappresentano per la popolazione.

Chemsex

Per quanto riguarda il chemsex, argomento da noi già affrontato in un precedente articolo, le risposte dei giovani universitari sono chiare: l’83% non fa mai uso di sostanze psicotrope durante rapporti sessuali. E solamente l’1% dichiara di aderire al chemsex, ovvero al sesso sotto l’effetto di droghe e di utilizzarle come unica modalità per avere rapporti sessuali. A differenza dei dati riscontrati precedentemente, nel gruppo studiato non vi è differenza tra sotto-gruppo omosessuale e sotto-gruppo eterosessuale.

Futuri sviluppi

Da questi dati emergono una serie di abitudini e comportamenti più o meno diffusi. Considerando il gruppo specifico (giovani studenti universitari del nord Italia) come non esemplificativo di tutti i giovani adulti, lo studio potrà procedere verso una maggiore generalizzazione dei risultati.

Nella maggior parte dei casi le differenze non sembrano dipendere tanto dalle variabili di genere e/o orientamento sessuale, per questo motivo in successivi studi si tenderà a voler riconfermare lo stesso andamento, oltre ad esplorare gli andamenti di variabili legate all’istruzione e alla città di origine e residenza.

Sarà inoltre possibile sottoporre a dimostrazione scientifica alcune ipotesi emerse in base alle abitudini riscontrate attraverso il survey.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il futuro della ricerca: modelli cerebrali 3D per studiare il sistema nervoso e sviluppare delle cure per le malattie neurologiche

Il Houston Methodist Research Institute sta creando modelli cerebrali tridimensionali da cellule staminali umane che potrebbero aiutare i ricercatori a riparare il sistema nervoso in seguito a una malattia o a una lesione cerebrale.

 

Il gruppo di ricerca del neuroscienziato Robert Krencik sta sviluppando un metodo per dare vita, in tempi sempre minori, a dei mini cervelli che offriranno la possibilità di analizzare gli effetti dei farmaci e studiare le cause delle malattie neurologiche.

Ciò avverrà finalmente in modo più rapido e in innovativo rispetto al passato.

Krencik ha affermato:

Ciò che facevamo in laboratorio non rispecchiava in modo preciso il funzionamento dei neuroni all’interno del cervello umano ma da quando abbiamo organizzato le cellule in modo sistematico, queste hanno cambiato radicalmente la loro morfologia, la loro forma e la loro dimensione. Ora sembrano cellule che si potrebbero osservare all’interno del cervello, abbiamo così la possibilità di studiarle in un ambiente molto più naturale – Il ricercatore continua – Normalmente la crescita di questi mini cervelli richiede mesi e anni per svilupparsi ma le nuove tecniche permettono di pre-maturare le cellule separatamente e successivamente combinarle tra loro, in questo modo già in poche settimane esse sono in grado di formare interazioni mature.

La scoperta appare di estrema importanza poiché normalmente le cellule fatte crescere in laboratorio nelle tradizionali colture vengono poste su una piastra e manipolate dagli scienziati che così facendo influenzano le loro naturali interazioni, ciò porta all’incapacità di riprodurre la crescita evolutiva delle cellule cerebrali ottenendo così cellule dall’aspetto semplicistico e immature. Nel cervello umano tuttavia queste cellule hanno un aspetto molto complesso e interagiscono in modo articolato tra loro e l’ambiente circostante, è per questa ragione che le nuove tecnologie focalizzate sui sistemi di coltura 3D appaiono così importanti.

Il laboratorio di Krencik si è concentrato su particolari tipi di cellule a forma di stella chiamate astrociti in quanto questi risultano svolgere un ruolo chiave nella connessione interneurale. Gli astrociti infatti influenzano la numerosità e la forza delle connessioni tra i neuroni all’interno del cervello e del midollo spinale e sono tra i fattori responsabili della maggior parte delle malattie neuronali.

Il team americano è il primo a sviluppare modelli cerebrali contenenti astrociti che permettono una maturazione accelerata sia di quest’ultimi che dei neuroni ad essi circostanti. Il merito del neuroscienziato è quello di aver progettato per la prima volta questi mini cervelli bioingegnerizzati ed aver coniato il termine “asteroidi” per distinguerli da altri tipi di colture di sfere 3D conosciute come “organoidi”. Gli “asteroidi” di Krencik contengono specifiche popolazioni di astrociti mentre gli “organoidi” possiedono numeri e tipi indefiniti di cellule.

Utilizzando il nostro sistema, possiamo generare astrociti maturi e farli interagire intimamente con i neuroni in misura maggiore rispetto a prima – ha detto Krencik – A differenza di altre cellule nel cervello e nel resto del corpo, gli astrociti hanno proprietà uniche negli esseri umani: si ritiene che siano in parte responsabili delle funzioni cognitive e possano anche essere alla base di malattie umane quali l’Alzheimer e i disordini dello spettro autistico.

Il ricercatore intende utilizzare questi “asteroidi” per creare circuiti neurali funzionali che gli scienziati possano manipolare sperimentalmente al fine di sviluppare trattamenti di cura per le malattie. Krencik afferma di poter produrre cellule staminali pluripotenti indotte, comunemente definite cellule iPS (Induced Pluripotent Stem Cell), da qualsiasi malattia o paziente e quindi creare mini cervelli per studiare il processo patologico. L’obiettivo prefissato entro circa cinque anni è quello di utilizzare il modello ideato per condurre studi clinici che permettano di migliorare o rigenerare il sistema nervoso alterato dei pazienti.

 

Linguaggio interiore: quale associazione con le copie efferenti?

Per il nostro cervello, parlare a noi stessi nelle nostre teste potrebbe risultare fondamentale tanto quanto parlare dei nostri pensieri ad alta voce.

 

 

Per il nostro cervello, parlare a noi stessi nelle nostre teste potrebbe risultare fondamentale tanto quanto parlare dei nostri pensieri ad alta voce. Nuove ricerche hanno dimostrato l’importanza di questa affermazione attraverso risultati che potrebbero avere forti implicazioni in malattie mentali come la schizofrenia.

Il professore associato Thomas Whitford, dell’ Università di Sydney, e primo autore dello studio, afferma che sentire le voci nasce dall’anormalità del linguaggio interiore presentato dalle persone affette da gravi patologie legate alla sfera del pensiero.

Ricerche precedenti suggeriscono che quando ci prepariamo a parlare ad alta voce, il nostro cervello crea una copia delle istruzioni che vengono inviate alle nostre labbra, bocca e corde vocali. Questa copia, definita copia efferente, è inviata alla regione del cervello che elabora il suono e definisce la sua riproduzione. Questo processo consente al cervello di discriminare tra i suoni prevedibili, prodotti da noi stessi, e i suoni meno prevedibili prodotti da altre persone.

La copia efferente smorza la risposta del cervello alle vocalizzazioni autogenerate, dando meno risorse mentali a questi suoni, perché sono più prevedibili – dice il professore associato Whitford. – Questo è il motivo per cui se strofino la pianta del piede il cervello preannuncia la sensazione che sentirò e non risponderà con forza a questo, ma se qualcun altro strofina inaspettatamente la stessa parte la risposta sensoriale che ne consegue sarà imprevedibile.

Lo studio, pubblicato sulla rivista eLife, si proponeva di determinare se il discorso interiore – un processo mentale interno – suscitasse una copia efferente simile a quella associata alla produzione di parole pronunciate.

Il team di ricerca ha sviluppato un metodo per misurare l’azione puramente mentale del linguaggio interiore. Nello specifico, il loro studio composto da 42 partecipanti sani ha valutato il grado in cui i suoni immaginati interferivano con l’attività cerebrale provocata dai suoni reali, usando l’elettroencefalogramma (EEG).

I ricercatori hanno scoperto che, proprio come per il parlato, semplicemente immaginando di produrre un suono si riduceva l’attività cerebrale che si verificava quando le persone simultaneamente sentivano quel suono.

Fornendo un modo per misurare direttamente e con precisione l’effetto del discorso interiore sul cervello, questa ricerca apre la porta a comprendere come il linguaggio interiore potrebbe essere diverso nelle persone con malattie psicotiche come la schizofrenia – afferma Whitford. – Tutti sentiamo voci nelle nostre teste, forse il problema sorge quando il nostro cervello non è in grado di dire che siamo noi a produrle.

 

 

Askis Onlus: in Sicilia un’associazione a sostegno della sindrome di Klinefelter

ASKIS Onlus è un’associazione di livello nazionale con referenti in varie regioni d’Italia, gestita da pazienti e medici endocrinologi che mettono a disposizione tutta la loro competenza per la cura e la salute dei pazienti affetti dalla sindrome di Klinefelter.

La sindrome di Klinefelter

Malattie rare: sindromi che, per l’esiguità della presenza nella popolazione generale (con una stima che l’Unione Europea fa di 5 casi su 10.000 persone) risultano a oggi una sfida tutta aperta per la diagnosi e la terapia.

Malattie invalidanti sul piano fisico, cognitivo, emotivo e relazionale, che richiedono, alla luce della complessità dell’individuazione e della scarsità della ricerca medico-scientifica, le forze congiunte di Associazioni, Istituti di ricerca, Ospedali e territorio.

E’ questo il caso della Sindrome di Klinefelter che interessa un neonato maschio su 1000 e che in Sicilia vede la presenza attiva dell’Associazione Sindrome Klinefelter Italiana Sicilia (ASKIS) che dal 2012 a Palermo si adopera per ridare dignità ai pazienti e alle loro famiglie, in collaborazione con il Servizio Sanitario Nazionale e realtà ospedaliere come l’Unità di Endocrinologia dell’Ospedale Cervello del capoluogo siciliano.

Askis Onlus

La sindrome di Klinefelter (SK) interessa solo il sesso maschile e ha una prevalenza stimata, mai del tutto confermata, di 1 persona affetta ogni 1000 nati; perciò statisticamente non è poi così rara anche se è ancora poco diagnosticata e poco conosciuta. La SK è una delle più comuni forme di aneuploidia, ovvero di anomalia nel numero dei cromosomi. Normalmente le persone di sesso maschile possiedono 46 cromosomi compresa una coppia di cromosomi sessuali, X e Y; le persone con questa sindrome hanno invece almeno un cromosoma sessuale X in più rispetto al normale corredo XY e un numero complessivo di 47 o più cromosomi – spiega Vincenzo Graffeo, Presidente Nazionale ASKIS Onlus, Pazienti con Sindrome di KlinefelterTale anomalia può comportare alcuni disturbi, tra i quali altezza superiore alla media, tendenza all’obesità e allo sviluppo di mammelle (ginecomastia), testicoli di dimensioni ridotte (ipogonadismo) e alcune piccole disabilità neuromotorie, come le difficoltà nello sviluppo del linguaggio o un andamento lievemente goffo. In età adulta il sintomo principale è la ridotta o assente fertilità per carenza/assenza di spermatozoi, anche la tanto temuta sterilità può oggi essere affrontata con incoraggianti probabilità di successo. In tutti i casi si tratta di condizioni ben curabili sia con i farmaci, a base di testosterone che devono essere assunti per tutta la vita, che con opportune modifiche dello stile di vita”.

E riguardo alle problematiche di carattere prettamente psicologico?

Bisogna qui distinguere soggetti dal corredo cromosomico 48 xxxxy o che comunque posseggono più di due cromosomi x o y. Questi pazienti infatti presentano forti problematiche psicologiche, come iperattività, irritabilità, immaturità e problemi di socializzazione, oltre che ritardo del linguaggio. Questo conduce a una vita travagliata per pazienti e famiglie per i problemi assistenziali che si pongono e per la scarsità della ricerca”.

Una condizione complessa che, grazie alla diagnosi precoce, è oggi possibile prevedere e gestire, non senza criticità.
Oggi, grazie al sempre più frequente ricorso alla diagnosi pre-natale, è cresciuta la probabilità del riconoscimento della sindrome durante la vita fetale; una diagnosi così precoce pone però problemi di comunicazione e accettazione da parte dei genitori. Ai genitori va espresso con chiarezza quali potranno essere i problemi che i loro figli potrebbero presentare, come disabilità motorie, linguistiche, di apprendimento e probabilità fondata di non poter procreare. Accanto a queste potenziali difficoltà va però detto con altrettanta chiarezza che essi potranno frequentare con profitto i percorsi scolastici talvolta fino alla laurea, svolgere attività sportive, mantenere rapporti affettivi regolari e avere un’attività sessuale comunque del tutto normale. Tuttavia, alcune coppie davanti alla diagnosi di sindrome di Klinefelter, potrebbero essere spaventate per il futuro del loro figlio e voler persino ricorrere all’interruzione di gravidanza motivata non da dati oggettivi, ma soprattutto dalla non conoscenza di questa sindrome – aggiunge Graffeo”.

L’associazione Askis Onlus

Ecco che informazione, sostegno e cura si intrecciano, e diventano, nell’esperienza di ASKIS, il cardine delle attività dell’Associazione.

Le attività nella regione Sicilia sono tante, ma non sono limitate alla sola Sicilia. ASKIS Onlus è un’associazione di livello nazionale con referenti in varie regioni d’Italia, gestita da pazienti e medici endocrinologi che mettono a disposizione tutta la loro competenza per la cura e la salute dei pazienti. La grande novità che oggi possiamo vantare è la realizzazione di un network di informazione digitale dove un gruppo di medici, pazienti e famiglie interagiscono attraverso whatsapp, scambiando dubbi, informazioni e prospettive nella cura. Inoltre Askis ha il compito di garantire alle future mamme una corretta informazione sulla sindrome per fare in modo di non ricorrere all’aborto, nato dalla disinformazione veicolata su Internet, che definirei serbatoio di informazione spazzatura. La nostra Associazione viene definita Associazione del futuro perché è stata la prima a raggiungere obiettivi mirati di sostegno alle famiglie e ai pazienti stessi in Italia e nel mondo – conclude Graffeo – e perciò definita la grande famiglia. Tra le altre attività, Askis onlus gode di un protocollo d’intesa con la clinica Andros per dare la possibilità ai pazienti di oggi di portare avanti la gravidanza con i propri gameti e di questo non possiamo che essere orgogliosi, per il bene dei pazienti e dei futuri nati”.

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