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La mia ciclotimia ha la coda rossa (2017) – Recensione del libro

Lou Lubie racconta la sua storia in un fumetto dal titolo ” La mia cictotimia ha la coda rossa ” e ci conduce in un viaggio esplorativo, osservativo, commovente nella sua ciclotimia.

 

La metafora della volpe rossa nel libro La mia cictotimia ha la coda rossa

La ciclotimia è un disturbo bipolare di cui soffre circa il 6% della popolazione. Il più lieve tra i disturbi bipolari ma non per questo meno invasivo o destabilizzante.

Attraverso la Metafora della volpe rossa, l’autrice ci racconta la sua esperienza personale e ci “insegna” come si possa vivere con il proprio disturbo facendo anche cose meravigliose. In Questa graphic novel, pubblicata dalla casa editrice romana ComicOut, l’autrice racconta la sua esperienza, la travagliata ricerca di una diagnosi e di una cura, proponendo al lettore non solo numerose informazioni sul piano scientifico ma anche delle possibili soluzioni che vengono suggerite con ironia senza alcuna imposizione di verità assoluta.

Convivere con la ciclotimia

Il Testo offre uno spunto di riflessione e di analisi a clinici e pazienti (attraverso il percorso narrativo) diventando uno strumento che mostra come si possa convivere con la “volpe” che crea disordini nel cervello, come si possa addomesticarla, relazionarcisi o ignorarla a seconda delle situazioni che si vivono.

Alla continua ricerca di un equilibrio tra i suoi sbalzi d’umore , Lubie mette al centro la relazione con la volpe, i loro dialoghi, i compromessi e i numerosi tentativi di metterla a tacere e di non consentirle/consentirsi la distruzione di ogni suo progetto. In qualche modo ci indica una via relazionale e di confronto con la parte sofferente e spaventata che nega la gioia, nega la progettualità e a volte anche la stessa voglia di vivere.

Appassionante e illuminante come attraverso un fumetto, che per sua struttura linguistica e editoriale si mostra sintetico e immediato l’autrice con il suo tratto leggero e intenso sia riuscita a cogliere le sfumature di una patologia così delicata, spesso sottovalutata e di difficile diagnosi offrendo immagini spontanee di sofferenza, timore, preoccupazione ed euforia senza appesantire, colorando tuttavia la vita se pur difficile, con mille opzioni di resilienza.

Il trattamento EMDR nel disturbo da attacchi di panico

Le sensazioni riferite da ogni paziente dopo aver sperimentato attacchi di panico possono essere considerate di per sé un’esperienza traumatica (Faretta, 2001); è proprio questo ciò che ha portato a definire il trattamento EMDR come un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico.

Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Il panico come evento traumatico e utilizzo dell’EMDR

Le sensazioni riferite da ogni paziente dopo aver sperimentato almeno un attacco di panico possono essere considerate di per sé un’esperienza traumatica (Faretta, 2001); ciò che il soggetto percepisce durante una crisi di panico è “una forte paura, incontrollabile, che lascia la persona inerme”, questa sensazione viene seguita dalla percezione di perdere il controllo o di stare per morire. È proprio questo ciò che ha spinto Elisa Faretta a definire il trattamento EMDR come un approccio ben integrabile in diversi modelli teorici di intervento per il disturbo di panico. L’ EMDR nel disturbo di panico può essere utile per: elaborare il ricordo degli attacchi di panico (il primo,il peggiore, l’ultimo); elaborare le situazioni scatenanti legate al panico nel presente e sostenere e rafforzare una prospettiva futura adattiva per affrontare situazioni legate ai sintomi (Faretta, 2012). In un suo recente studio pilota ha comparato l’ approccio EMDR con la CBT con l’obiettivo di valutare l’efficacia di un trattamento per il disturbo di panico con/senza agorafobia.

Il beneficio dei trattamenti è stato valutato sull’efficacia in termini di:

  • tempo (valutazione di quando avvengono i primi miglioramenti in termini di numero di sedute)
  • sulla stabilità in termini quantitativi (assenza di attacchi di panico alla conclusione della terapia nonché un mantenimento di benefici nel tempo)
  • sulla stabilità in termini qualitativi (nel rafforzare le abilità e capacità acquisite, per la prevenzione delle ricadute).

Il campione prevedeva 20 soggetti, 10 dei quali sono stati trattati con la terapia EMDR. Il piano terapeutico EMDR è sviluppato seguendo le 8 fasi previste dal protocollo standard, ma integrando alcune modifiche per intervenire sulle caratteristiche peculiari del Disturbo da attacchi di Panico. Tale protocollo modificato comprende:

  • a) una psicoeducazione sul Panico e sulle modalità utilizzate con l’ EMDR, con successiva scelta della stimolazione bilaterale (movimenti oculari o altre forme di stimolazione) più adatta alla persona attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
  • b) definizione dei target da utilizzare (primo attacco di panico, il peggiore per il paziente, ultimo attacco di panico);
  • c) scelta dell’immagine più disturbante per ogni target, associata alla cognizione negativa, individuazione della cognizione positiva, individuazione dell’emozione associata all’immagine peggiore del target e infine collocazione del disagio nel corpo;
  • d) individuazione ed elaborazione dei ricordi traumatici legati alla storia personale del paziente;
  • e) lavoro sul presente con relativa rielaborazione dei fattori scatenanti;
  • f) lavoro di rafforzamento di azioni positive nel futuro.

Nonostante la varietà del campione in quanto a provenienza, età e status sociale, dalla raccolta dei dati di ciascun soggetto nella fase di assessment sono emerse delle similitudini, in particolare per quanto riguarda l’esordio del disturbo: “La maggior parte dei soggetti ha indicato come eventi scatenanti un lutto, una separazione, o episodi in cui hanno creduto di morire (per es., per soffocamento)” (Faretta, 2007).

Tuttavia, rimangono alcuni punti interrogativi e critici legati a diversi fattori:

  • un campione troppo piccolo per la generalizzazione dei risultati;
  • un’ assegnazione non casuale dei soggetti alle condizioni di trattamento;
  • uno sbilanciamento tra i due campioni rispetto alla percentuale dei soggetti agorafobici (CBT 56% vs EMDR 20%) ;
  • l’ assenza di valutatori indipendenti;

Essendo uno studio pilota, alla luce di questi limiti, si dovrebbero mettere a punto trial clinici controllati, utilizzando specifici strumenti di valutazione e ampliando il campione di soggetti. Tuttavia nonostante i limiti metodologici sovra riportati, lo studio pilota ha indotto i ricercatori ad interrogarsi su una possibile nuova metodologia di trattamento del disturbo.

Protocollo EMDR per il Disturbo da Attacchi di Panico di Marcia Whisman: i tre livelli di paura

Marcia Whisman vede il panico come “un’esperienza terrificante costituita da intense sensazioni fisiche, un senso di terrore o di imminenti conseguenze nefaste e da un’incapacità di comprenderne il motivo o l’origine” (2005). L’ acuita sensibilità del sistema nervoso, lo sconvolgimento emotivo e pensieri spaventosi (anche se distorti) su quanto gli accade sono i principali fattori dello svilupparsi di un comportamento evitante come meccanismo di reazione (Whisman, 2005). Gli obiettivi della terapia secondo Whisman consistono nell’istruire il paziente sul panico e sulla sua incapacità di realizzare le sue peggiori paure. Ciò che il paziente deve essere in grado di acquisire sono le capacità di:

  • gestione dell’ansia;
  • acquisire gradatamente un controllo sui sintomi ansiogeni;
  • desensibilizzare le cognizioni di paura che ha sviluppato.

L’obiettivo finale è quello di riportare il paziente alla piena funzionalità in modo da permettergli di trovarsi a suo agio in situazioni precedentemente temute”.

L’ EMDR per Whisman è una terapia efficace per desensibilizzare e rielaborare cognizioni di paura, fino a farle rientrare all’interno di un sistema di convinzioni più preciso e gestibile. Il protocollo EMDR viene da lui integrato con l’ ipotesi per cui la maggior parte dei pazienti soffre di tre livelli di paura; in assenza della paura di primo livello, il terapeuta può procedere al secondo livello, e così via. Una delle raccomandazioni dell’autore è di non procedere mai con l’ EMDR se il paziente entra in panico durante il trattamento, in quanto potrebbe perdere la capacità di elaborare al meglio il suo vissuto di paura; in questi casi, il terapeuta deve aiutare il paziente a calmare l’ ansia, elaborarla e quindi continuare con l’ EMDR. Ecco di seguito riportato il trattamento EMDR integrato alla teoria dei tre livelli di paura.

Primo Livello di Paura:

Paure immaginarie: queste paure provengono da attribuzioni fatte dal paziente sull’origine stessa del panico, radicate in funzione dell’arco di tempo trascorso dal primo attacco di panico e della mancanza di informazioni relative all’esperienza vissuta.

Impostazione EMDR – Immagine: il paziente dovrà ricordare e immaginare in modo dettagliato il primo o peggior attacco di panico come se dovesse rivederlo in un video.

Desensibilizzazione delle convinzioni catastrofiche: qui il terapeuta dovrà integrare le istruzioni fornite nella parte psicoeducazionale e lavorare su pensieri e su attribuzioni più razionali che riguardano l’ attacco di panico.

Passaggio alla fase successiva: si passa al secondo livello di paura quando il paziente crede fortemente che le sensazioni che prova durante un attacco di panico siano dovute alle proprie emozioni e all’adrenalina e non a un attacco di cuore o a un esordio psicotico.

Secondo Livello di Paura:

Paura della paura: questo livello è relativo all’ incapacità del soggetto di gestire gli attacchi di panico in modo funzionale.

Impostazione EMDR – Immaginare: il terapeuta chiede al paziente di ricordare un attacco di panico memorabile/rappresentativo oppure immaginare un attacco di panico che potrebbe verificarsi nel futuro. Il soggetto dovrà utilizzare le strategie suggerite dal terapeuta per fronteggiarlo (stai respirando, non stai per morire).

Passaggio alla fase successiva: si passa alla fase successiva solo una volta che il paziente avrà raggiunto la padronanza adeguata rispetto all’ attacco di panico immaginato o ricordato.

Terzo Livello di Paura:

Paura della prestazione: questo livello riguarda l’esposizione del soggetto alla situazione temuta.

Impostazione EMDR – Immagine: ripercorrere con la mente l’esposizione da affrontare. La narrativa viene svolta dal paziente; viene chiesto al paziente di fermarsi in qualunque momento provi ansia: i movimenti oculari saranno diretti alla sensazione fisica e verranno ripetuti fino alla desensibilizzazione.

Passaggio all’ esposizione in vivo: l’esposizione in vivo dovrebbe avvenire al più presto possibile, seguita da due ulteriori esercitazioni in vivo prima della seduta successiva (possibile solo se il paziente è ora in grado di farcela da solo o se ha un partner di supporto).

Considerazioni conclusive

Dall’analisi dello studio effettuato da Faretta (2007) sono emerse quelle che possono essere considerate le principali modifiche e integrazioni apportate dall’autrice all’originale protocollo EMDR, elaborato da Shapiro. Queste possono essere ricondotte alla seconda e terza fase del trattamento. Durante la fase 2 è stata inclusa una psicoeducazione specifica sul panico, cioè, sulla sua natura e sugli aspetti fisiologici; la fase 3 (individuazione dei target) è mirata all’ individuazione degli eventi passati stressanti, oltre alla focalizzazione sul ricordo del primo attacco di panico, del peggior attacco di panico e infine dell’ attacco di panico più recente. Inoltre, vengono rintracciate le esperienze infantili che hanno fatto sperimentare al soggetto sensazioni come abbandono, umiliazione e paura. La ricerca ha rintracciato dei fattori predisponenti il disturbo di panico (Faretta, 2012), quali:

  • storie di separazione dalla famiglia
  • prolungata malattia di un genitore;
  • abusi da parte di un parente;
  • storie di abbandono.

L’insorgenza del Disturbo da Attacchi di Panico è quindi correlata alla riattivazione di esperienze traumatiche precedenti, comprese separazione, lutto, malattia o un periodo di stress prolungato.

A differenza di Faretta, Whisman sembrerebbe adottare un approccio che si basa su una priorità specifica: è essenziale trattare il panico prima del trauma poiché la persona non si sente al sicuro nel presente (Terrel, 2006). Infatti, il protocollo di Wishman predispone il soggetto all’attualizzazione delle esperienze del panico, e di quei pensieri che impediscono al sintomo di essere affrontato in modo razionale. Come Faretta, Whisman mette in evidenza come la psicoeducazione sul panico sia un elemento fondamentale per portare a termine il trattamento EMDR. Lo psicoterapeuta interviene a livello dei pensieri disfunzionali che portano il soggetto a adottare e automatizzare strategie di evitamento e a rafforzare la sintomatologia dovuta al panico.

Un’ altra importante variazione del protocollo sta nell’integrare l’esposizione dal vivo nel trattamento EMDR. Il terapeuta ha il compito di guidare il paziente seduta dopo seduta; l’autore precisa che l’esposizione in vivo dovrebbe avvenire al più presto, per facilitare l’integrazione dei comportamenti adattivi appresi. Ciò è possibile solo se il paziente è in grado di farcela da solo o se ha un partner di supporto (il terapeuta) che lo accompagna durante le esposizioni. I protocolli EMDR elaborati per gli attacchi di panico non prevedono l’utilizzo dell’ esposizione in vivo; solitamente questa tecnica viene impiegata nel trattamento delle fobie. Questo potrebbe diventare un buon punto di discussione: Whisman, infatti, sembra utilizzare un approccio al panico più comportamentale, tralasciando le componenti cognitive che Faretta inserisce all’interno del suo protocollo.

Faretta risulta essere in linea con il pensiero di Giannantonio (2009) che riporta l’importanza di raccogliere la storia di vita del paziente e inserirla all’interno del trattamento EMDR. Infatti, secondo l’autore, l’ EMDR fa da sfondo al tentativo del terapeuta di recuperare la storia di attaccamento e di riportarla in seduta attraverso il recupero di alcuni aspetti fondamentali che contraddistinguono il disturbo da attacchi di panico.

Il sesso inizia dall’attenzione verso il partner: ritrovare il desiderio sessuale nelle relazioni di lunga data

La messa in atto quotidiana di comportamenti sensibili e ricettivi nei confronti del partner di lunga data, sembrerebbe favorire l’intesa e il desiderio sessuale, soprattutto quando questi specifici atteggiamenti istillano nel partner la sensazione di essere di valore e parte di una relazione speciale.

 

Un recente studio di Birnbaum, professoressa di psicologia dell’Interdisciplinary Center in Herzliya, Israele, pubblicato sul Journal of personality and Social Psychology, ha dimostrato come la messa in atto quotidiana di comportamenti sensibili e ricettivi nei confronti del partner di lunga data, possa favorire l’intesa e il desiderio sessuale sia per gli uomini che per le donne, soprattutto quando questi specifici atteggiamenti istillano nel partner la sensazione di essere di valore e parte di una relazione speciale.

[…] L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.” (1958) Così Don Fabrizio, celebre personaggio del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, descrive l’amore, sottolineando in modo molto chiaro come in una relazione affettiva, a parer suo, la passione e  il desiderio sessuale verso l’altro tenda a diminuire nel corso del tempo fino a spegnersi e a diventare cenere.

Dopo una lunga vita spesa insieme, caratterizzata da compleanni, discussioni, figli, problemi di lavoro ed economici, malattie, fastidiose faccende domestiche e quotidiane, suoceri, molte coppie spesso sono afflitte dal problema di come ritrovare e ricostituire quella passione, quel fuoco, quel desiderio sessuale, che ha caratterizzato i primi anni della loro relazione.

Come ritrovare il desiderio sessuale? Con la cura e la sensibilità verso il partner

Una possibile soluzione proviene da un recente studio di Birnbaum, professoressa di psicologia dell’Interdisciplinary Center e colleghi, pubblicato sul Journal of personality and Social Psychology, per il quale partner di lunga data possono riappropriarsi e far rifiorire la propria vita sessuale e la reciproca complicità di coppia imparando ad essere sensibili e ricettivi reciprocamente (Birnbaum et al., 2016).

In particolare Birnbaum e colleghi hanno indagato il legame tra comportamenti sensibili/ricettivi e desiderio sessuale con lo scopo di verificare se nelle relazioni romantiche-affettive di lungo termine alcuni specifici comportamenti del partner potessero influire sulla costruzione di un contesto di intimità per la coppia, caratterizzato da familiarità, connessione emotiva e comprensione, favorendo di conseguenza l’aumento del desiderio sessuale verso l’altro partner.

In tale studio, i ricercatori hanno condotto tre esperimenti per indagare se un partner sensibile e recettivo, cioè in grado di comprendere e riconoscere i bisogni, anche sessuali, dell’altro (che percepisce così di essere apprezzato, supportato genuinamente e investito di attenzioni), sia in grado di aumentare le esperienze quotidiane di intimità e di conseguenza incrementare il desiderio sessuale (Birnbaum et al., 2016).

Nel primo esperimento, sono stati reclutati dietro compenso 153 volontari, tra i 20 e i 40 anni, a cui è stato chiesto di discutere con i propri partner di un loro attuale problema. Va sottolineato che in realtà i partecipanti interagivano con i partner all’oscuro del fatto che questi fossero confederati, cioè collaboratori dei ricercatori, che mettevano in atto nei loro confronti differenti modalità di interazione e comportamenti, a seconda delle diverse condizioni sperimentali: comportamenti positivi, di validazione delle necessità del partner in quel momento (ad esempio “mi rendo conto che per te non debba essere stato facile e che hai dovuto passare un brutto momento”) oppure comportamenti negativi (“quello che hai passato non mi sembra poi così complicato”).

Successivamente è stato chiesto ai partecipanti, tramite self-report, di indicare se e quanto, durante l’interazione positiva o negativa con il “partner confederato”, avessero percepito comprensione e attenzione e come questo avesse influito positivamente o negativamente sul loro desiderio di volersi impegnare in preliminari o in rapporti sessuali con lui.

I risultati di questo primo esperimento hanno mostrato come le donne che avevano esperito un desiderio sessuale maggiore nei confronti del partner erano coloro che avevano avuto un’interazione positiva, sensibile/recettiva con il partner, rispetto a quelle che avevano avuto un dialogo negativo.

In aggiunta a ciò, diversamente da quanto osservato nelle donne, il desiderio sessuale maschile per la partner non è sembrato essere influenzato significativamente dall’ interazione positiva o negativa con lei.

Tali risultati hanno suggerito che il desiderio sessuale maschile, diversamente da quello femminile, potrebbe essere meno dipendente dagli atteggiamenti di intimità, sensibilità attuati delle loro partner e dall’interazione positiva avuta con loro (Birnbaum et al., 2016).

Nel secondo esperimento, i ricercatori hanno voluto in parte replicare le modalità del precedente esperimento inserendo però un’interazione faccia a faccia tra i partner con il fine di poter osservare online anche i comportamenti non verbali sia nella condizione di sensibilità/recettività che in quella negativa e collegarli eventualmente alle risposte sessuali dei partecipanti.

Sulla scia del primo esperimento, è stato chiesto ai partecipanti di discutere con il proprio partner di un recente episodio positivo e negativo accaduto loro e poi di stimare il desiderio sessuale per l’altro a seguito dell’interazione.

Sono stati replicati gli stessi risultati, con una caratterizzazione in più: oltre ad aumentare il desiderio sessuale per il partner maschile più sensibile/recettivo, le donne impegnante in un’interazione positiva hanno mostrato anche maggiori comportamenti non verbali di intimità verso il partner.

Infine nell’ultimo esperimento, i ricercatori hanno tentato di mostrare gli stessi risultati in un ambiente più naturale, quotidiano senza cioè la presenza di registrazioni o interazioni in laboratorio.

Per tale ragione, essi hanno chiesto a 100 coppie di documentare giorno per giorno, per sei settimane, il loro livello di desiderio sessuale nei confronti del partner e la qualità delle interazioni e del contesto di coppia, specificando se avessero la percezione di essere considerati di valore e degni di attenzione dal proprio partner.

Sia per le donne che gli uomini, percepire quotidianamente l’altro come comprensivo e sensibile nei confronti dei suoi bisogni era associato a livelli significativamente alti di desiderio sessuale; in aggiunta, questa percezione aumentava a sua volta la sensazione dei partner di sentirsi speciali e di valore, soprattutto nelle donne.

Lo studio di Birnbaum e colleghi (2016) ha sottolineato come la comprensione e il riconoscimento dei bisogni dell’altro sia tramite validazione emotiva che comportamenti di ascolto, vicinanza e affetto, aumentino il desiderio sessuale soprattutto quando questi atteggiamenti danno l’impressione che l’altro sia di valore e che una relazione sessuale con un partner così desiderabile e coinvolto nella relazione possa promuovere un legame speciale tra i due e quindi valga la pena coltivarlo, nonostante tutto.

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo (2017) – Recensione del libro

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo è un testo, nato dall’impegno corale delle psicoterapeute Mattioli, Di Marzo, Febbi e Martirani, capace di stimolare importanti riflessioni e diffondere buone pratiche nel contesto scolastico, ancora oggi, scarsamente vissuto come base sicura per le identità in divenire.

 

Attaccamenti a scuola. Lo psicologo nel delicato rapporto tra i protagonisti del percorso educativo è un lavoro che fiduciosamente riconosce alla scuola la possibilità di farsi prolungamento dell’attaccamento, inteso come “[…] l’esperienza su cui ogni essere umano fonda le proprie capacità conoscitive e predittive circa la natura umana, il senso delle relazioni e la propria identità” (Di Marzo, 2017, p. XXXI); un contributo che restituisce valore alla dimensione sociale dell’uomo, indispensabile poter costruire condizioni di benessere.

In questa direzione la professione psicologica assume una posizione importantissima e da potenziare, proprio alla luce delle testimonianze concrete di salute che va costruendo, dal nido alla scuola media superiore.

A questo scopo le autrici di Attaccamenti a scuola conducono gradualmente il lettore a cogliere, dapprima, le principali trasformazioni che caratterizzano l’individuo dalla prima infanzia all’adolescenza, in un secondo momento, il contributo dello psicologo nel sistema educativo.

Attaccamenti a scuola: il ruolo dello psicologo a partire dal nido

Con l’ingresso nel nido il bambino sperimenta la prima separazione dalle figure di riferimento, impara ad adattarsi al nuovo ambiente, conosce se stesso e il mondo attraverso il gioco e inizia a relazionarsi con i pari.

In questo ambiente, si ricorda nel libro Attaccamenti a scuola, l’attività dello psicologo è rivolta soprattutto agli adulti. I genitori ricevono aiuto nella fase d’inserimento, spesso contrassegnata da sentimenti ambivalenti suscitati proprio dalla prima separazione e piano piano diventano consapevoli e comprendono le reazioni dei bambini e quelle personali. Le educatrici, attraverso l’attività di supervisione, usufruiscono di uno spazio importantissimo per la conoscenza di sé, del proprio stile relazionale, delle proprie difficoltà e risorse, essenziale per svolgere al meglio un lavoro così delicato e carico di emozioni.

Dalla scuola d’infanzia l’ambiente familiare diventa meno esclusivo, il bambino si confronta con gli altri bambini e i loro bisogni, attraverso il linguaggio e il gioco impara a comprendere, comunicare e riconoscere le proprie e altrui emozioni. Queste ultime, ancora minimamente oggetto di interesse e integrazione con gli aspetti cognitivi, richiederebbero da parte della scuola, a partire da questa età, una maggiore considerazione. Questa visione assume ancora più valore di fronte alle crescenti sfumature di competenze e difficoltà che la scuola solleva e nei confronti delle quali si trova, talvolta, incredibilmente impotente. Si tratta di dare un’attenzione maggiore proprio ad attività in grado di favorire lo sviluppo delle emozioni, la loro conoscenza e la loro espressione, sin dalla più tenera età; un impegno comune a costruire relazioni positive per i bambini e gli degli adulti che si relazionano con loro.

Con il procedere della crescita il processo di identificazione del bambino con le figure genitoriali prosegue e nella scuola elementare è arricchito dalla presenza di altri adulti significativi, che congiuntamente alle interazioni con i pari, alleviano il dolore del distacco. Alla luce delle nuove competenze che si vanno costruendo, è più che mai auspicabile, da una parte, rinnovare l’interesse nei confronti dell’attività ludica libera per lo sviluppo emotivo e cognitivo del bambino, dall’altra, incrementarlo nei confronti dell’educazione alla sessualità, per arrestarne una conoscenza confusa e distorta.

Le esperienze raccontate nel testo Attaccamenti a scuola diventano, infatti, per il lettore, genitore, insegnante, clinico o curioso, un’utile occasione attraverso cui conoscere l’importanza di promuovere attività arricchenti per tutti i protagonisti coinvolti e che richiederebbero maggiori opportunità per essere replicati.

Costruire un contesto relazionale positivo in continuità con quello familiare richiede il riconoscimento di una responsabilità comune, che riguarda gli operatori della scuola e genitori e in cui lo psicologo assume spesso una posizione di intermediario. L’ambiente scolastico, infatti, fa emergere ferite identitarie, genitoriali e professionali, che inquinano la comprensione del profondo punto di vista dell’altro. Lo psicologo attribuisce significato e valore alle esperienze di ciascuno traducendone i vissuti e riporta l’attenzione verso una prospettiva di corresponsabilità nei confronti di un progetto educativo che dovrebbe condiviso.

In questo modo la scuola diventa, con tutte le sue proposte, luogo di prevenzione e corretta informazione, di formazione per adulti e ragazzi, in cui, attraverso il confronto e la conoscenza, si costruiscono soluzioni e proposte d’intervento. Si risponde così con attenzione a fenomeni di prevaricazione, come il cyberbullismo e l’uso incontrollato di videogiochi, la dispersione scolastica, sintomatici di disagi talvolta complessi e spesso taciuti che riguardano i ragazzi in più ambiti della loro vita.

L’introduzione dei centri d’ascolto, con la legge n° 162 del 1990, realtà limitata ancora a pochi istituti, ha portato a scuola uno spazio di consulenza e informazione riservato ad alunni, insegnanti e genitori. Attraverso il centro d’ascolto lo psicologo si impegna ad accogliere le richieste valutando la possibilità di affrontarle nel contesto scolastico o inviando ai servizi sul territorio. Le richieste che vi giungono raccontano di storie d’amore, di rifiuti, di insicurezze, di insuccessi scolastici, di difficoltà di integrazione. Il testo Attaccamenti a scuola ne propone diverse aprendo al lettore la possibilità di accedervi in modo vivo.

È importante aggiungere che:

“…] lavorare con gli adolescenti è una forte spinta alla revisione dei personali percorsi adolescenziali e, a seconda della fase di vita che attraversiamo e degli adolescenti che ci troviamo davanti, saremo più o meno in grado di prendere le distanze dai problemi che ci presentano (Mattioli, 2017, p.74).

In una scuola in cui si respira la necessità di rinnovamento, anche l’interesse verso lo studio e lo stesso rendimento, oggetto di attenzione, preoccupazioni e timori da parte di adulti e ragazzi andrebbe riletto. La prospettiva metacognitiva ci insegna a riconoscere che dietro le etichette che suonano, ai ragazzi e non solo, come sentenze definitive, spesso, si nascondono difficoltà emotive, relazionali, organizzative, previsionali, frutto di situazioni ripetutamente mortificanti.

[…] Alcune parole negative, anche dette senza malvagità, senza pensare che possano ferire, restano incise profondamente e condizionano i comportamenti e le scelte future. Lo stesso possono fare le parole positive. Basta poco per ferire, ma a volte altrettanto poco per incoraggiare e restituire fiducia (Di Giorgio, 2017, p.101).

Per concludere, lo psicologo, in tutti i casi in cui è chiamato a svolgere la sua funzione di salute, s’impegna nella direzione di facilitare dinamiche relazionali che possano fungere da base sicura nel percorso di crescita degli allievi di ogni ordine e grado, contribuendo alla realizzazione di un’idea di scuola che promuove, sostiene e rende possibile la socializzazione, un’idea opportuna e condivisibile per la scuola del futuro.

Le funzioni cognitive nel paziente con dolore cronico

Negli anni sono apparsi in letteratura un numero crescente di studi che indagano le funzioni cognitive in pazienti con dolore cronico. I pazienti con dolore cronico non oncologico segnalano spesso difficoltà nella memoria, nella concentrazione e in altre funzioni cognitive rispetto ai pazienti che cercano il trattamento per altri problemi medici.

Federica Aloisio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

Il dolore cronico

Il dolore è un fenomeno individuale e soggettivo che le persone sperimentano durante la propria vita e, spesso, rappresenta la ragione principale per cui si richiede assistenza sanitaria.

Per “dolore”, secondo l’International Association for the Study of Pain (IASP), si intende un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tessutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di tale danno.

La maggior parte dei dolori si risolve prontamente una volta che lo stimolo doloroso viene rimosso e l’organismo è guarito ma, se la malattia si prolunga o non regredisce completamente, il dolore persiste diventando cronico.

Il dolore cronico è stato generalmente definito come il dolore che persiste per un periodo di tempo specifico già determinato arbitrariamente (per es. 3 o 6 mesi, oppure al di là del periodo normale di guarigione). “Il dolore cronico invalidante è uno dei maggiori problemi socio-sanitari di proporzioni epidemiche; è la causa più frequente di sofferenza e di invalidità (menomazione) capace di danneggiare seriamente la qualità di vita” (Loeser, 2002).

Secondo i principali e più accreditati studi epidemiologici internazionali la presenza delle sindromi dolorose croniche varia tra 10,1% e 55,2% della popolazione; mediamente, essa è più elevata tra le donne che fra gli uomini, rispettivamente 39% e 31%, e aumenta con l’età, soprattutto dopo i 65 anni (Breivik et al., 2006).

Nella maggior parte dei pazienti, il dolore influisce negativamente sulla percezione della salute generale, interferisce notevolmente con le attività quotidiane, è associato a sintomi depressivi e/o ansiosi ed influenza negativamente i rapporti e le interazioni con gli altri (Froud et al., 2014). Proprio per questi motivi è necessaria una valutazione globale e una presa in carico della persona nella sua complessità.

Le funzioni cognitive nei pazienti con dolore cronico

Negli anni sono apparsi in letteratura un numero crescente di studi che indagano le funzioni cognitive in pazienti con dolore cronico.

I pazienti con dolore cronico non oncologico segnalano spesso difficoltà nella memoria, nella concentrazione e in altre funzioni cognitive rispetto ai pazienti che cercano il trattamento per altri problemi medici.

Grigsby e colleghi nel 1995 hanno confrontato le prestazioni di pazienti con dolore cronico con pazienti senza dolore su una varietà di compiti informatici progettati per valutare la velocità di elaborazione delle informazioni e la memoria a breve termine. I ricercatori hanno scoperto che i pazienti con dolore cronico avevano scarse performance rispetto all’altro gruppo (Grigsby et al., 1995). In un altro studio, il 54% dei pazienti inviati ad un centro di dolore hanno riferito problemi in alcune funzioni cognitive, quali la memoria a breve termine, la concentrazione e l’attenzione (McCracken & Iverson, 2001).

Lo studio di Schiltenwolf conferma il calo nella prestazione in prove di attenzione nei pazienti con lombalgia cronica (Schiltenwolf et al., 2014); queste alterazioni sono risultate anche in pazienti con fibromialgia: oltre il 50% dei pazienti con fibromialgia lamentano disturbi mnestici, di concentrazione e confusione mentale (Dick et al., 2002; Katz et al., 2004).

Inoltre i pazienti con dolore cronico riportano difficoltà nelle funzioni cognitive, quali l’apprendimento percettivo e la memoria, evidenziando alterate capacità di esecuzione dei compiti, rispetto ai gruppi di controllo (Oosterman et al., 2010).

I pazienti con dolore cronico hanno riportato anche uno scarso rendimento rispetto ai controlli sulle misure di screening cognitivo generale, come l’esame al Mini Mental State Examination (MMSE) (Oosterman et al., 2010). Da diversi dati di letteratura emerge infatti che la prevalenza di deficit cognitivo clinicamente rilevante è più alta in pazienti con dolore cronico rispetto alla popolazione generale (Rodriguez-Andreu et al., 2009).

Anche le funzioni esecutive risentono del dolore cronico. La funzione esecutiva definisce quei processi neurologici che consentono compiti cognitivi più complessi, quali la pianificazione, l’organizzazione, il controllo dei pensieri contrastanti, il comportamento diretto ad uno scopo, l’inizio di un’azione e il saper valutare le conseguenze delle azioni. Le performance dei pazienti con dolore cronico sembrano dimostrare che il controllo delle funzioni esecutive risente di questa tipologia di dolore (Moriarty et al, 2011).

Lo studio di Simons ha evidenziato che, da studi di imaging cerebrale in pazienti con dolore e in modelli di roditori, il dolore cronico è associato ad alterazioni anatomiche e funzionali nel cervello.

I ricercatori hanno infatti riscontrato che, come il dolore può causare deficit nei processi cognitivi degli esseri umani, altrettanto avviene nei roditori. Quest’ultimi possono eseguire una serie di prove che coinvolgono le “funzioni esecutive”, come la funzione decisionale, la memoria, l’attività di attenzione e il riconoscimento di oggetti, proprio come gli esseri umani e, inoltre, queste attività si basano su analoghe aree corticali prefrontali. E’ stato dimostrato che nei roditori, allo stesso modo degli esseri umani, il dolore interrompe i compiti di memoria di lavoro (Cardoso-Cruz et al., 2013).

Ricerche algologiche hanno individuato l’esistenza di connessioni tra le aree che trasmettono il dolore nel sistema nervoso centrale e la neurobiologia del dolore. Recenti scoperte neurobiologiche hanno infatti riscontrato nel dolore cronico un alterato biochimismo cerebrale locale ed una riorganizzazione corticale funzionale come conseguenza di processi di neuroplasticità. Gli studi morfo-metrici nel dolore cronico effettuati con la morfometria voxel (VBM), una tecnica di risonanza magnetica, indicano l’importanza della neuroplasticità nel dolore cronico.

Immagini di risonanza magnetica in diversi tipi di pazienti con dolore cronico mostrano che il cervello di questi individui è diverso rispetto a quelli di soggetti sani di controllo (Simons et al., 2014). L’anomalia più marcata, osservata attraverso gli studi, è una riduzione della materia grigia soprattutto nella corteccia prefrontale, nell’insula e nelle cortecce anteriore e nella metà del cingolo (Davis & Moayedi, 2013). Questa perdita è correlata con la durata del dolore cronico e spesso si normalizza con il trattamento.

Kuchinad e colleghi hanno individuato che nei pazienti fibromialgici c’è una perdita di sostanza bianca molto più importante rispetto ai controlli; inoltre ogni anno di fibromialgia corrisponde a 9,5 volte la perdita di sostanza grigia del normale invecchiamento (Kuchinad et al., 2007).

Apkarian nel 2004 ha condotto uno studio in cui ha individuato che i pazienti con lombalgia cronica hanno mostrato una riduzione del 5-11% del volume della materia grigia neocorticale rispetto ai soggetti di controllo privi di dolore cronico. L’entità di questa diminuzione è equivalente al volume della materia grigia perso in 10-20 anni di invecchiamento normale (Apkarian et al., 2004). Il volume diminuito è legato alla durata del dolore, ed indica una perdita di 1,3 cm di materia grigia per ogni anno di dolore cronico. La densità della materia grigia è stata ridotta nella corteccia prefrontale dorsolaterale bilaterale e nel talamo destro. I risultati dello studio di Apkarian implicano che il dolore cronico alla schiena è accompagnato da atrofia cerebrale e suggeriscono che la fisiopatologia del dolore cronico comprende i processi talamocorticali (Apkarian et al., 2004).

L’immagine seguente, tratta dallo studio di Apkarian, mostra una perdita di densità della materia grigia nei soggetti con lombalgia cronica. Nella figura A si evidenzia che la densità della materia grigia è bilateralmente ridotta. La figura B mostra un significativo decremento della densità della materia grigia nel talamo anteriore destro (Apkarian et al., 2004).

Dolore cronico e funzioni cognitive

Sulla stessa scia, una metanalisi del 2008 ha evidenziato che il dolore cronico può cambiare la struttura del cervello (May, 2008). I pazienti affetti da mal di schiena cronico, sindrome dell’intestino irritabile, fibromialgia, dolore da arto fantasma e cefalea tensiva cronica presentano alterazioni morfologiche cerebrali di tipo atrofico in alcune specifiche aree deputate alla percezione, all’elaborazione e alla modulazione del dolore. Queste alterazioni, attribuibili a fenomeni di neuroplasticità, sono state riscontrate nel giro cingolato, nella corteccia orbito-frontale, nell’insula e nella regione dorsale del ponte. Poiché sembra che i pazienti affetti da dolore cronico abbiano questa comune “impronta cerebrale” in aree coinvolte nella regolazione del dolore, ci si chiede se questi cambiamenti siano la causa o la conseguenza del dolore cronico.

Secondo May queste modifiche strutturali possono rappresentare il substrato neuro-anatomico della memoria del dolore. L’autore suggerisce che i cambiamenti della materia grigia osservati siano la conseguenza dei frequenti input nocicettivi che sono transitori all’inizio della sindrome dolorosa e poi diventano permanenti con il persistere della malattia ma che potrebbero essere reversibili a seguito di un’idonea terapia antalgica (May, 2008).

Il cuore depresso: la depressione nei pazienti con disturbi cardiaci

Il presente articolo intende approfondire, partendo dall’esperienza diretta con persone che soffrono di malattie cardiache, l’importanza della relazione e dell’attenzione alla relazione che si viene ad instaurare con i pazienti. Quest’ultima si esprime non solo attraverso atti medici ma parla anche attraverso altri canali legati alla sensibilità e all’intuizione delle persone che circondano il malato e al significato che il malato stesso dà alle cure a lui prestate in un momento così delicato.

Emilia Baiardo

 

Più di quanto il cuore sopporti

La preghiera “Possa io essere vivo quando morirò“ (Winnicott, C. ,1978), non ha soltanto a che fare con la morte fisica. Si riferisce al suo bisogno di vitalità sensibile anche nel bel mezzo del nulla, degli attacchi, delle catastrofi, della pazzia e di tutta una varietà di sofferenze (Eigen M., 1998 – La morte psichica).

A fronte di un aumento dell’incidenza di malattie cardiache nella nostra società, si evidenzia una consistente correlazione tra la sofferenza psicologica che segue la malattia coronarica e i numerosi casi di depressione riscontrabili nei pazienti affetti da tali patologie.

Spesso la letteratura tende ad affrontare il grave scompenso cardiaco dal punto di vista strettamente biologico, senza approfondire la dimensione umana e le numerose ripercussioni che la malattia stessa ha sulla qualità di vita del paziente. (Lane D.A., Chong A.Y., Lip G.Y.H., 2007). Ciò che il presente articolo intende approfondire, frutto dell’esperienza diretta con persone che soffrono di tali malattie, è l’importanza della “relazione” e “dell’attenzione” alla relazione che si viene ad instaurare con essi. Quest’ultima si esprime non solo attraverso atti medici ma parla anche attraverso altri canali legati alla sensibilità e all’intuizione delle persone che circondano il malato e al significato che il malato stesso dà alle cure a lui prestate in un momento così delicato.

Spesso sono ricordi, narrazioni, a tratti, nei momenti di maggiore malessere, anche confabulazioni che il paziente riferisce del suo passato o del suo presente.

“In questo sprofondamento nel mondo interno con la perdita di capacità ad investire nella vita, spesso il soggetto perde la sua coesione“. (Haynal, A. ,1980). In relazione alla percezione della propria morte e alla “perdita di sé“, Engel ha descritto, nel contesto delle malattie somatiche gravi, questa reazione depressiva, quale specifica risposta a una così grande perdita della salute.

Nell’articolo vengono presentati anche due momenti della terapia psicologica a indirizzo analitico con due pazienti affetti da grave scompenso cardiaco. In queste finestre si evidenzia come il sentimento depressivo del malato incida sulla sua qualità di vita e sui suoi comportamenti, anche attraverso percezioni della realtà alterate dalla paura e dalla disperazione.

Si è quindi tentato di evidenziare come il paziente affetto da grave scompenso cardiaco, in alcuni momenti drammatici della sua vita, possa arrivare a parlare attraverso il suo organo malato. Con loro, se si presta attenzione, si può sentire il cuore depresso che parla, che chiede, che prega .

Come afferma Luis Chiozza:

...ammalarsi è soffrire un processo che la scienza concepisce come prodotto di una causa…. Di solito ci si ammala in due maniere: una, acuta, che è transitoria e breve, e un’altra, cronica, più prolungata e lenta che può progredire, arrestarsi o regredire, a volte fino alla completa guarigione… (Chiozza, L. A. ,1988).

A fronte dell’approccio culturale, secondo la tradizione occidentale, che si esprime attraverso la scissione tra mente e corpo, scissione sulla quale si innestano, secondo Galimberti (1983), le varie “antitesi dei valori“, tra ideale e sensibile, anima e corpo, vero e falso, bene e male, anche l’approccio al malato rientra in questa dicotomia potendo quindi essere studiato sia dal punto di vista medico tradizionale che dal punto di vista psicologico. Del rapporto tra psichico e somatico Freud si occupo‘ già in uno scritto del 1890, nel quale contrappose all’orientamento medico tradizionale, quello più recente che considerava non solo l’azione del corpo sulla psiche, ma anche della psiche sul corpo. (Favaretti Camposampiero, F., Di Benedetto, P., Cauzer, M. ,1998).

Wilhelm Reich (1942) elabora la sua teoria della “identità funzionale antitetica degli stimoli psichici e somatici…” ; è colpito dal fatto che …“un’esperienza psichica possa provocare uno stato di agitazione corporea tale da alterare in modo duraturo un organo“. Winnicott (1976) definisce la psiche come “elaborazione immaginativa delle parti somatiche dei sentimenti e delle funzioni, cioe‘ della vita fisica“. Secondo l’Autore, le possibili interferenze in questo processo e il fallimento dell’integrazione del Sé da luogo ad un “falso sé“ che può utilizzare un pensiero sradicato dal suo rapporto col corpo, con le sue funzioni, con gli istinti.

Quando abbiamo a che fare con un paziente che soffre di una malattia somatica, nei primi approcci con lui raccogliamo sia la sua storia “clinica”, che riporta i sintomi e l’evoluzione della malattia di cui il paziente ha sofferto o soffre attualmente, considerandoli come processi che derivano da una causa biologica per la quale è ricoverato e sottoposto a cure, sia la sua storia “biografica”, che presta attenzione agli episodi e ai fatti della sua vita, fatti che hanno avuto un peso nella costruzione del suo carattere, nell’evoluzione dei suoi meccanismi difensivi, nella possibile origine della patologia che lo ha colpito. “La sovrapposizione delle due storie ci rivela come quello che le persone tacciono con le labbra, non solo sono solite esprimere con gesti e atteggiamenti, ma pure con lo stesso funzionamento dei loro organi“ (Chiozza, L. A. ,1988).

L’ Autore ha sviluppato un particolare procedimento Psicoanalitico denominato Studio Patobiografico, con la finalità di includere nella cura del malato ciò che la psicoanalisi può fare se si propone come fine immediato di agire sulla malattia somatica nel “tempo breve“ che la necessità impone. Da questo studio, è possibile estrapolare alcune considerazioni sulle dinamiche psicologiche dei pazienti consultati: è importante tenere presente che il malato “costruisce una fantasia inconscia ed una teoria cosciente sulla sua malattia e sulla maniera in cui potrebbe guarirsi“.., analogamente, in lui “esiste una quota di speranza inconscia, riguardo alla possibilità di guarigione“. Inoltre“ Esiste sempre un fattore efficace e specifico scatenante la malattia attuale, il quale coincide cronologicamente con l’apparizione di tale malattia. Identificarlo, aiuta a comprendere un pò di piu’ il significato che la malattia attuale simbolizza.“ (Chiozza, L. A. ,1988). Lentamente, quindi, la malattia cessa di essere un fatto inaspettato e indesiderato, totalmente estraneo al soggetto, ma attraverso una personale elaborazione che riguarda anche gli aspetti caratteriali, corporei, esperenziali del malato stesso, diventa parte del percorso di vita. A sostegno della capacità di rinnovamento Winnicott (1949a) afferma che:

un crollo psichico costituisce spesso una manifestazione di salute in quanto implica una capacità da parte dell’individuo di servirsi dell’ambiente che ha a disposizione, al fine di porre di nuovo alla base della propria esistenza il sentimento di essere reale.

Ma la strada che conduce a un cambiamento, non sempre si percorre e spesso si rimane aderenti a meccanismi difensivi che ci allontanano dalla consapevolezza. E in questo percorso mentale e inconsapevole, è possibile che ciò a cui la mente resiste possa arrivare più rapidamente il corpo, e in questo caso particolare un organo d’elezione del corpo, quale il cuore, un organo che nei momenti di maggiore disperazione del malato può manifestare una voce e un affetto propri. Nei colloqui con il paziente è importante fare attenzione ad alcuni aspetti, aspetti non solo forniti dal colloquio che intercorre, ma anche dalle sensazioni che il malato trasmette e il rapporto che si realizza con lui.

Come afferma Reich (1933):

(…) nella maggior parte dei casi non solo si sottovalutano il comportamento, il modo di esprimersi, lo sguardo, il linguaggio, la mimica, l’abbigliamento, la stretta di mano, ecc. dei pazienti dal punto di vista del loro significato analitico, ma il piu‘ delle volte vengono del tutto ignorati. ...Oltre ai sogni, alle associazioni, ai passi falsi e alle altre comunicazioni, dei pazienti, meritano particolare attenzione i loro atteggiamenti, cioè il modo in cui raccontano i loro sogni, commentano i loro passi falsi, producono le loro associazioni e fanno le loro comunicazioni…Il come è altrettanto importante …del che cosa dice il paziente.

Secondo quanto affermato da A. Lowen:

La malattia del corpo è, anch’essa, una forma di linguaggio. Il corpo rappresenta un veloce veicolatore dei movimenti transferali e controtransferali: Insieme al corpo rappresentano il ponte attraverso il quale le idee e le sensazioni fluiscono tra due persone . .. Solo con umiltà e animo puro è possibile accostarsi ai sentimenti intimi e profondi di un essere umano (Lowen, A. ,1993).

A questo punto è fondamentale evidenziare il concetto di fiducia che si viene a costruire, un’ alleanza terapeutica e solidale che consente al paziente di appropriarsi di strumenti atti ad emergere dai contenuti depressivi di cui rimane vittima. Ricordiamo che il paziente cardiopatico e depresso tende ad essere resistente nei confronti della terapia farmacologia proposta e scarsamente collaborante di fronte all’indicazione di modificare lo stile di vita in modo appropriato, aumentando così ancora la probabilità di eventi cardiaci o di morte. Le persone malate di cuore, spesso sono pazienti che provano ed esprimono contenuti di solitudine profondissimi di fronte all’esperienza della malattia che li sottopone dolorosamente ad un confronto con il destino vissuto avverso e ineluttabile. Ne consegue che i loro sentimenti di annichilimento, di avversità, di solitudine, non possono fare altro che indurre contenuti depressivi e di disperazione che ricadono prepotentemente sulla qualità di vita sulla relazione terapeutica e sulla fiducia in essa.

I colloqui con i pazienti con malattia cardiaca: l’esperienza condotta presso il Reparto di Cardiologia dell’ ASL 1 Imperiese

Paziente di 63 anni. In lista di attesa per trapianto cardiaco. Paziente con aspettativa di vita della durata di 6 mesi. Il paziente è un grave cardiopatico che ha da diversi anni disturbi via via sempre più invalidanti. In occasione della proposta di trapianto di cuore da parte dei sanitari, si è sperato di poter affrontare tale proposta con largo anticipo, nel rispetto dei tempi di una elaborazione personale, senza lasciare in lui la sensazione di “perdita di tempo”. Il paziente non sentiva la sua malattia così grave e inizialmente appariva scarsamente collaborante e resistente a qualunque proposta terapeutica. Si trattava di un paziente con una corazza caratteriale in apparenza difficilmente scardinabile. Lasciava la sensazione di un possibile passaggio all’atto, qualora tale meccanismo difensivo fosse intaccato. Il concetto di corazza caratteriale introdotto da Reich nel libro “Analisi del carattere“, riconosce una sottostante rigidità caratteriologica parallela ad un atteggiamento psicologico corrispondente, il rischio è che si spezzi questa armatura lasciando emergere contenuti di angoscia molto profonda. Questo paziente aveva raggiunto una tale labilità nel suo equilibrio psicofisico come conseguenza della malattia, da lasciare poco margine a qualunque proposta di collaborazione e di relazione di aiuto e supporto.

Colloquio dopo tre mesi di relazione terapeutica il paziente è demoralizzato dell’attesa e della continua delusione per la mancanza di risposta dal Centro Trapianti dove è stato nuovamente inserito nelle liste. Il pensiero continua a tornare al precedente ricovero ed alla sensazione di aver perso una grossa opportunità nel momento in cui era stato dimesso, fuoriuscendo quindi drammaticamente dalla precedente graduatoria delle persone trapiantabili. Il decorso della sua elaborazione interna, pur mantenendo a tratti il contatto con la realtà, per il dolore provato, ha risvolti deliranti nei suoi ricordi, intaccando, nelle confabulazioni, sia la dimensione dello spazio che del tempo: ricordi che si sovrappongono a contenuti quotidiani, luoghi familiari che si sovrappongono alla stanza dell’ospedale; solo le relazioni affettive significative come i familiari riescono a colmare i vuoti e comprendere il senso dei suoi pensieri. Come afferma Luis Chiozza (1986) spesso si ritiene che la parte più importante dell’intelletto siano le idee, ma in realtà “Le uniche cose che, in senso stretto e rigoroso, importano, sono gli affetti…. L’affetto è l’importanza, la significanza del significato“.

Verso la fine della sua vita, quando la situazione clinica ha iniziato un declino evidente ed inarrestabile, il paziente si è ammalato psichicamente in modo molto grave e ha iniziato a delirare perdendo parzialmente il contatto con la realtà che lo circondava. “Le turbe del narcisismo… “ (quali possono essere le malattie somatiche gravi come in questo caso) ,“…possono esser fondate non soltanto su una perdita dell’investimento ma anche su una impossibilità di investire, o, meglio sulla perdita della capacità di investire .“ (Haynal, A. 1980.)

In modo disperato e delirante ha iniziato ad esprimere alte aspettative di guarigione, e a sviluppare una speranza incondizionata di fronte a qualunque proposta terapeutica. Per lui ogni atto terapeutico, anche una flebo somministrata nel reparto, rappresentava un trattamento estremamente rassicurante di presa in carico, di cura, di durata del ricovero, di “affiancamento” nel percorso e di garanzia di non abbandono. Il paziente con grave patologia cardiaca e una struttura caratteriale rigida, come in questo caso, è arrivato nel momento di maggiore disperazione, a utilizzare gli strumenti di cura e le manifestazioni della malattia, a scopo difensivo, per cui una abbondante minzione o un tremore diffuso hanno avuto esistenza come sintomi a sé stanti e non invece collegati alla malattia stessa, diventando quindi motivo di nuove preoccupazioni di altre malattie diverse da quella cardiaca. Frequentemente, di fronte a grandi dolori, il diniego inconscio, “la depersonalizzazione può essere considerata come una difesa contro affetti intollerabili“. (Haynal, A. ,1980 ).

Paziente 2 di 70 anni. Paziente con cardiopatia ischemica post-infartuale di una certa gravità. Si trattava di un forte fumatore con grande dipendenza dalla nicotina e nella sua vita aveva subito un grave lutto che lo aveva profondamente segnato compromettendogli la capacità di elaborazione della perdita. La sua patologia cardiaca viene spesso descritta dal paziente con tratti di eccessiva precocità, di arrivo inaspettato, imprevisto, con caratteristiche che lo hanno colto del tutto impreparato.

Colloquio nel corso della terapia psicologica all’interno del Reparto dove solitamente veniva ricoverato: descrive la sua malattia come una sorta di tradimento del corpo inducendogli forti regressioni e momenti di ipersensibilità a situazioni e fatti o anche nei confronti di spazi e ambienti che possono far insorgere in lui la sensazione di solitudine e di abbandono. Durante il colloquio, racconta di essersi trovato qualche giorno prima in una strada frequentata, ma solo da macchine in movimento e nessun pedone, e di essersi sentito male, aver avuto un forte attacco d’ansia, ed aver sviluppato l’intenzione di non voler più trovarsi in situazioni di isolamento così angoscianti e pericolose per la sua salvezza. Emergono fantasie di morte molto profonde, e contenuti di estrema vulnerabilità. Personalità estremamente dipendente, il suo stato depressivo evidenzia la sua impossibilità a reagire alla malattia . Come afferma A.Haynal, “L’affetto depressivo è dunque scatenato dalla perdita di qualcosa che fornisce la sicurezza di base e il benessere, al punto che ci si sente minacciati da questa perdita. Quando il conflitto interiore diventa troppo grande, l’individuo può abbandonare, rinunciare; egli entra allora nella costellazione della disperazione.“ (Haynal, A. ,1980).

Conclusioni

La letteratura sullo scompenso cardiaco tende a privilegiare i dati inerenti la dimensione somatica o biologica della malattia. A fronte della necessità di limitare per quanto possibile l’ospedalizzazione, si impone una più stretta e proficua collaborazione tra le diverse figure professionali. Tra queste collaborazioni si evidenzia la necessità dell’intervento psicologico di lettura e supporto per aiutare il paziente a dare voce a quella parte di sé carica di bisogni che chiede di essere ascoltata. “Ogni volta che compare un sintomo si perde qualcosa, e ogni volta che soffriamo di qualche malattia organica perdiamo quasi completamente la possibilità di accedere ai nostri sentimenti“ . (Chiozza , L. , 1988). L’esperienza di lavoro con pazienti affetti da gravi problemi cardiaci e l’attenzione a contenuti, gesti, affetti, che si evidenziano sia nei momenti empatici o di lettura controtransferale del vissuto del terapeuta, rappresentano una grande ricchezza di rilevazione, osservazione e comprensione dei fenomeni corporei in generale, ma soprattutto là dove l’organo malato è il cuore, si sperimenta una relazione umana molto pura, speciale anche nei momenti più difficili, che necessita di una particolare attenzione ai contenuti e a quanto espresso. Di fronte ad una malattia che “brucia“ il tempo, il cuore riesce a dare voce a contenuti profondi e drammatici della persona e della vita di quella persona, che probabilmente non sarebbero mai emersi. Come meglio descrive Luis Chiozza:

Il cuore è l’organo più adatto ad arrogarsi la rappresentazione delle emozioni, la cui rappresentazione particolare altri organi si aggiudicano …Il cuore, pertanto, si aggiudica la rappresentazione generale degli affetti ma, soprattutto, quella del tempo primordiale, che è il tempo dell’istante qualitativamente colorato da un tono affettivo che gli conferisce importanza…. Il cuore è rispetto al tempo, ciò che l’occhio è rispetto allo spazio….Quando diciamo che il cuore “ricorda“ o pre-sente, è perché gli aggiudichiamo la rappresentazione di un protoaffetto. (Chiozza, L. A., 1988).

I bambini con malattie somatiche croniche e il benessere mentale

Secondo uno studio recente pubblicato in BMJ Open, i bambini presentano comunemente segni di difficoltà psicologica subito dopo aver ricevuto una diagnosi che riguarda una condizione fisica cronica

Lucia Marangia

 

La scoperta di una malattia fisica cronica nei bambini e gli effetti psicologici

I ricercatori dell’Università di Waterloo hanno esaminato i bambini di età compresa tra i 6 e i 16 anni e tutti entro un mese dalla diagnosi di asma, allergia alimentare, epilessia, diabete o artrite giovanile.

Secondo le risposte dei genitori a un’intervista standardizzata, il 58% dei bambini è risultato positivo per almeno un disturbo mentale.

Questo è il primo studio nel suo genere per reclutare bambini con condizioni diverse, e così presto dopo la diagnosi. Questi risultati mostrano che il rischio per lo sviluppo di problematiche psicopatologiche è relativamente lo stesso tra i bambini con condizioni croniche fisiche di diversa entità, ha detto Mark Ferro, professore alla School of Public Health and Health Systems di Waterloo e Canada Research Chair in Youth Mental Health.

Indipendentemente dalla loro condizione, i bambini con problemi di salute fisica cronica subiscono un calo significativo della loro qualità di benessere mentale nei primi sei mesi dopo aver ricevuto la loro diagnosi, indicando la necessità di servizi di salute mentale nella fase iniziale.

Sei mesi dopo la diagnosi, il numero di bambini che mostravano segni e sintomi psicopatologici è sceso leggermente al 42%. I disturbi d’ansia erano più comuni, tra cui ansia da separazione, ansia generalizzata e fobie.

Secondo Alexandra Butler, studentessa laureata alla Waterloo e autrice principale dell’articolo, è possibile che il numero sia più alto molto presto perché c’è una certa incertezza attorno alla prognosi, o domande senza risposta sulla gestione e sul trattamento. I ricercatori hanno scoperto che l’età e il sesso non hanno avuto alcun impatto sui risultati.

Carl Gustav Jung, il padre della psicologia analitica – Introduzione alla Psicologia

Carl Gustav Jung diede vita alla psicologia analitica, secondo la quale lo scopo clinico è riportare il soggetto alla realtà liberandolo dai disturbi patogeni. Nel 1928, Carl Gustav Jung affermò che l’inconscio è composto da immagini, gli archetipi, che determinano lo psichismo, e la cui rappresentazione simbolica si esprime attraverso i sogni, l’arte e la religione. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

 Carl Gustav Jung nasce il 26 luglio del 1875 a Kesswil, sul lago di Costanza in Svizzera da Paul Achilles Jung (1842 – 1896), teologo e pastore protestante, e da Emilie Preiswerk (1848-1923) a Kesswil, nel cantone svizzero di Turgovia. Successivamente, la famiglia di Jung si trasferì a Sciaffusa e nel 1879 a Klein Hüningen, dove il padre diventò rettore della Pieve, esercitando poi anche la funzione di cappellano nel manicomio della città.

Carl Gustav Jung rimase figlio unico per nove anni, fino alla nascita della sorella, nel 1884, Johanna Gertrud, detta Trudi. Nel 1895 Jung si iscrisse all’Università di Basilea dove conseguì la laurea in Medicina nel 1902, sostenendo una tesi “Sulla psicopatologia dei fenomeni detti occulti” nella quale analizzò il caso di una giovane medium, sua cugina, e delle sue esperienze di spiritismo. Nel dicembre 1900 cominciò a lavorare all’istituto psichiatrico di Zurigo, il Burghölzli, diretto da Eugen Bleuler. Nell’inverno 1902-1903 Carl Gustav Jung fu a Parigi per frequentare le lezioni di Janet. Nel 1903 sposò Emma Rauschenbach, figlia di un ricco industriale, dalla quale ebbe quattro figli e rimase con lui fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1905 divenne libero docente all’Università di Zurigo, dove rimase fino al 1913. Tra il 1904 e il 1907 pubblicò vari studi sul test di associazione verbale e nel 1907 il libro Psicologia della dementia praecox.

Contemporaneamente, iniziò a lavorare nell’ ospedale psichiatrico di Zurigo, diventando un esperto di psicosi. In quegli anni, Carl Gustav Jung si appassionò alle osservazioni cliniche sulle associazioni verbali e studiò le idee fisse e i complessi. Nel 1907, dopo avere fatto pervenire a Freud il suo saggio “Studio diagnostico delle associazioni”, si recò a Vienna per incontrarlo. Fu il punto di avvio di un’amicizia profonda, che durò dal 1907 al 1913, e di una lunga corrispondenza, si scambiarono circa 359 lettere. Per Freud, Jung era il suo papabile erede e colui che avrebbe potuto portare la psicoanalisi fuori da Vienna. Carl Gustav Jung, però, aveva già sviluppato una concezione dell’inconscio e dello psichismo distante da quella freudiana, ed era in disaccordo sulle nozioni di sessualità infantile, di complesso di Edipo e libido, nonostante era totalmente affascinato dalla personalità di Freud e dalla sua opera.

Tra il 1907 ed il 1909, Jung fondò la “Società Sigmund Freud “di Zurigo e la rivista “Annali di ricerche psicanalitiche e psicopatologiche“, prima rivista ufficiale del movimento psicanalitico. Nel 1907, pubblicò “Psicologia della demenza precoce” e due anni dopo, accettando l’invito delle Clark University di Worcester nel Massachusetts, effettuò con Freud un giro di conferenze negli Stati Uniti. Tuttavia, nonostante continuava ad impegnarsi nella psicoanalisi, Carl Gustav Jung attestava ed approfondiva le sue teorie e la pubblicazione “Metamorfosi e simboli della libido” nel 1912, che diventerà nel 1953 “Metamorfosi del cuore ed i suoi simboli” definì la rottura definitiva con Freud.

La teoria di Carl Gustav Jung

La principale causa della rottura tra Jung e Freud fu il rifiuto, da parte di Jung, del pansessualismo freudiano, ovvero la concezione secondo cui al centro del comportamento psichico degli individui vi è l’istinto sessuale. Carl Gustav Jung sosteneva che il comportamento dell’uomo non è condizionato soltanto dalla sua storia individuale e come membro della razza umana, ma anche dalle sue aspirazioni e scopi; sia il passato come realtà, sia il futuro come eventualità, guidano il comportamento presente.

Carl Gustav Jung diede vita alla psicologia analitica, secondo la quale lo scopo clinico è riportare il soggetto alla realtà liberandolo dai disturbi patogeni. Nel 1928, Carl Gustav Jung affermò che l’inconscio è composto da immagini, gli archetipi, che determinano lo psichismo, e la cui rappresentazione simbolica si esprime attraverso i sogni, l’arte e la religione.

La personalità o psiche

La personalità è formata da un certo numero di istanze, separate ma interagenti tra loro. Queste istanze sono:

  • L’Io, ovvero la mente cosciente
  • L’Inconscio personale, formato dalle esperienze rimosse, da quelle troppo deboli per lasciare una traccia cosciente nella persona e dai complessi, che indicano un contesto psichico attivo i cui molteplici elementi, sentimenti- pensieri-percezioni-ricordi, sono unificati dalla comune tonalità affettiva (ad esempio il complesso materno).
  • Inconscio collettivo, base della psiche, struttura immutabile propria dell’insieme dell’umanità. Esso appare come il magazzino di tracce latenti provenienti dal passato ed è il residuo psichico dello sviluppo evolutivo dell’uomo, accumulatosi in seguito alle ripetute esperienze di innumerevoli generazioni. Quindi, dal momento che gli esseri umani hanno sempre avuto una madre, ogni bambino nasce con la predisposizione a percepirla e a reagire ad essa. L’esperienza personale è, dunque, influenzata dall’inconscio collettivo attraverso un’azione diretta sul comportamento dell’individuo sin dall’inizio della vita. Nell’inconscio collettivo sono presenti gli Archetipi, ovvero forme universali di pensiero dotato di contenuto affettivo. Tali forme di pensiero generano immagini o visioni che corrispondono, nel normale stato di vigilanza, ad alcuni aspetti della vita cosciente. Tra gli archetipi troviamo: l’animus, immagine del maschile; l’amima, immagine del femminile; il Selbst, il Sé, se stesso. Ad esempio il bambino eredita una concezione preformata di avere una madre, che in parte determina la percezione che egli avrà dalla propria madre. In tal modo, l’esperienza del bambino è il risultato finale di una predisposizione interna a percepire il mondo in un determinato modo e della reale natura che possiede questa realtà.
  • La Persona, ovvero una maschera che l’individuo porta per rispondere alle esigenze della società nella quale è immerso. Essa costituisce il ruolo che l’individuo svolge, cioè il compito che si attenda possa svolgere attraverso un ruolo sociale. La persona è rappresentato dalla personalità pubblica, quegli aspetti che si palesano al mondo o che l’opinione pubblica attribuisce all’individuo, in opposizione alla personalità privata che esiste dietro alla facciata sociale.
  • L’Ombra, consiste negli istinti animali ereditati dall’uomo nella sua evoluzione, ovvero il lato animalesco della natura umana.

I tipi psicologici

Nel 1921 Carl Gustav Jung pubblica il suo libro più importante, “Tipi psicologici”, in cui parla della personalità, o psiche, e attribuisce un posto centrale al Selbst (Sé), intorno a cui si raggruppano tutti gli altri sistemi psichici. Il Selbest funge da collante e garantisce alla personalità l’equilibrio e l’unità.

Jung concepiva la personalità come un sistema dotato di energia e parzialmente chiuso, perché a esso si aggiunge l’energia proveniente da fonti esterne. Per spiegare la dinamica della personalità, Jung ricorre al concetto della libido, che per Freud rappresentava un insieme di tendenze sessuali dell’uomo, mentre per Jung è sinonimo di energia psichica e può essere rivolta verso l’interno o verso l’esterno.

Jung individua quattro funzioni psicologiche:

  1. Il pensiero attraverso il quale l’uomo cerca di comprendere la natura del mondo e sé stesso e utilizza processi logici;
  2. Il sentimento, che rappresenta il valore delle cose in rapporto al soggetto e apporta dei giudizi di valore
  3. La sensazione che ha la funzione percettiva dei fatti o rappresentazioni concrete del mondo.
  4. L’intuizione, ovvero la percezione attraverso i processi dell’inconscio, e permette di elaborare modelli della realtà che esulano dai fatti.

Il pensiero e il sentimento sono denominati funzioni razionali, poiché fanno uso del ragionamento. La sensazione e l’intuizione sono funzioni irrazionali, perché basate sulla percezione del concreto e del particolare.

Carl Gustav Jung distingue due tipi di atteggiamenti: introversione, in cui si orienta l’energia psichica verso il mondo interiore, pensieri ed emozioni; l’estroversione in cui si orienta la sua energia verso il mondo esteriore, fatti e persone. Ambedue questi opposti atteggiamenti sono presenti nella personalità, ma di regola uno di essi è dominante e cosciente, mentre l’altro è subordinato e inconscio. Le funzioni psicologiche si sviluppano, dunque, in ciascun individuo in maniera diversa e derivano da una alternanza tra introversione ed estroversione, processo che conduce all’unità della personalità attraverso il gioco della metamorfosi. L’oscillazione tra un estremo o l’altro determinano il manifestarsi di un diverso tipo psicologico.

Jung individuò il principio di equivalenza, secondo il quale se un valore diviene più debole o scompare, la quantità di energia a esso legata non andrà perduta per la psiche, ma riapparirà in un nuovo valore, e quello di entropia, ovvero la distribuzione di energia nella psiche tende a un equilibrio o armonia. Fra due valori di diversa forza, l’energia tenderà a passare dal più forte al più debole fino a raggiungere uno stato di equilibrio. Tutta l’energia psichica di cui la personalità dispone è utilizzata per due fini generali: svolgimento del lavoro necessario al mantenimento della vita e alla propagazione della specie. Queste due funzioni istintive raggruppano gran parte dell’energia, e la rimanete può essere impiegata in attività culturali e spirituali.

Lo sviluppo

Per Carl Gustav Jung lo sviluppo può svolgersi in senso progressivo ovvero soddisfacente per l’io, se riesce a rispondere alle richieste dell’ambiente esterno e ai bisogni dell’inconscio. Invece, se un evento frustrante dovesse interrompere il movimento progressivo dell’io, la libido non potrà più essere investita in valori orientati verso il mondo o estroversi, di conseguenza regredirà verso l’inconscio legandosi a valori introversi e portando al manifestarsi di disagio mentale.

Il fine ultimo dello sviluppo, secondo Jung, è determinato dall’autorealizzazione. Per raggiungere questo scopo è necessario che le diverse istanze della personalità si differenzino ed evolvano completamente determinando una personalità sana. Il processo attraverso il quale si raggiunge tale stato è detto processo di individuazione. La funzione trascendente permette di conciliare i poli opposti dei diversi sistemi e di operare per raggiungere la totalità perfetta. L’energia psichica può essere spostata attraverso la sublimazione, ovvero spostamento dell’energia dai processi primitivi, istintivi e meno differenziati, a processi altamente spirituali, culturali e maggiormente differenziati.

Gli ultimi anni di Carl Gustav Jung

Carl Gustav Jung, negli ultimi anni della sua vita, si dedica essenzialmente all’attività psicoterapeutica privata, a lunghi viaggi, alla rielaborazione delle sue teorie e alla stesura di saggi. L’approccio terapeutico di Jung consiste, in breve, nel riconciliare le forze opposte all’interno della personalità, non solo estroversione ed introversione, ma anche sensibilità e intuizione, emozioni e pensiero razionale. Attraverso la comprensione dell’integrazione tra inconscio personale e inconscio collettivo, la terapia permette di arrivare ad uno stato di individuazione o interezza di sé.

Nel 1944 si trasferisce nuovamente a Basilea dove ottiene la cattedra di Psicologia medica. Il 6 giugno del 1961, Carl Gustav Jung muore a Kusnacht, sulle rive del lago, nei pressi di Zurigo dove ha trascorso i suoi ultimi anni. La sua casa è ancora oggi meta di pellegrinaggi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La connessione tra auto-compassione e maggiore benessere psicologico e cognitivo – Ricerca

Analisi recenti della psicologia positiva hanno dimostrato un’importante connessione tra auto-compassione (self-compassion) e maggiore benessere psicologico e cognitivo.

Luciano Cavallo School of Psychology, University of East London

 

L’autocompassione migliora il benessere dei dipendenti

Un programma di formazione online é a disposizione gratuitamente nel ramo della tesi sottostante.

L’obiettivo è di esaminare come l’allenamento quotidiano di 5 – 10 minuti di autocompassione possa migliorare il benessere dei dipendenti. Auto-compassione si riferisce ad un atteggiamento positivo nei confronti della propria persona in situazioni di vita difficili. Questo tratto di personalità ha dimostrato di essere un efficace fattore protettivo che ha portato ad una maggiore capacità di recupero emotivo e benessere.

Informazioni dettagliate sul progetto di ricerca sono disponibili su http://www.applied-positive-psychology.ch/ fino al 15 Aprile 2018 in lingua inglese e tedesco usando la scala del benessere di Dr. Ryff (SPW; Ryff & Singer, 1998) come anche la scala di autocompassione SCS di Dr. Neff (Neff, 2003). Il sito web non contiene elementi pubblicitari e il contenuto del sito web è strutturato in modo semplice.

La Sindrome Premestruale: riflessione sulla relazione con i disturbi affettivi

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte gravi e disabilitanti.

Federica Bonazzi – Gianfranco Marchesi

 

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione.

Introduzione

La Sindrome Premestruale (PMS) è un’entità clinica caratterizzata da sintomi di tipo emozionale, fisico e comportamentale che hanno un andamento ciclico, un’intensità variabile e che sono in stretta relazione con il periodo post-ovulatorio del ciclo mestruale. Si stima che la percentuale di donne in età fertile afflitta in modo serio da questo disturbo vari dal 2% al 10%, mentre la percentuale di donne che riferisce sintomi più lievi oscilla, a seconda degli studi, dal 30% all’80%. (Beni et al., 2000 ).

Le superstizioni, le credenze religiose e mitiche hanno attraversato i secoli portando con sé il concetto che la donna è impura, pericolosa ed imprevedibile a scadenze mensili, concetto che può in parte spiegare perché, fino a non molto tempo fa, i disturbi che le donne esperivano prima della mestruazione siano stati del tutto ignorati dalla scienza e trascurati dalla donna stessa.(Beni et al., 2000 ). È stato nel corso del XX secolo che, dapprima con una definizione generica di “tensione premestruale” e successivamente con l’adozione del termine “Sindrome Premestruale“, che questi sintomi hanno via via acquisito una propria dignità nosografica. Nel 1987 la Sindrome Premestruale è diventata una categoria diagnostica a sé stante ed è stata introdotta nella sezione dei “Disturbi Depressivi Non Altrimenti Specificati” della III Edizione Rivisitata del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III-R) e ridefinita come “Disturbo Disforico della Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) nel tentativo di standardizzarne i criteri diagnostici che, nel corso degli anni, avevano abbracciato un elevatissimo numero di sintomi (APA, 1987). Attualmente, il DSM-IV-TR (APA, 2000), rifacendosi alla PMS, parla di “Premenstrual Dysphoric Disorder” e lo include in appendice B “Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi”.

Sindrome Premestruale: cenni storici

Per molto tempo le donne sono state abituate a ritenere i disturbi derivanti dalla Sindrome Premestruale (PMS) come un’inevitabile sofferenza facente parte della vita, dell’essere donna e, di conseguenza, si sono considerate tenute ad accettarli senza porvi alcun rimedio. Sin dall’antichità, le modificazioni somatopsichiche associate a questa fase del ciclo mestruale sono state fonte di pregiudizio; già nella “Storia Naturale” di Plinio si legge infatti che le donne in età fertile venivano considerate impure e causa di danni alle coltivazioni, ai frutteti, agli animali domestici e che erano ritenute incapaci di controllare i propri impulsi a causa dell’effetto delle oscillazioni ormonali sulla psiche.

Fu Robert I. Frank che, nel 1931, riferendosi alla “tensione premestruale” descrisse un quadro clinico vero e proprio caratterizzato da sintomi sia fisici che psichici. Egli collegò questi disturbi alla fase luteinica del ciclo e li attribuì alla ritenzione, nell’organismo femminile, di ormoni sessuali che aveva rinvenuto in quantità inferiori alla norma nelle urine nelle donne in fase premestruale.

Il termine di “Sindrome Premestruale” è stato introdotto nel 1953 da Greene e Dalton e ad essa sono stati attribuiti, da allora, più di 150 sintomi che vanno ad abbracciare ambiti multidisciplinari: dalla ginecologia all’endocrinologia, dalla dermatologia alla neuropsichiatria. Nella sua accezione più ampia la Sindrome Premestruale può essere definita come “la ricorrenza ciclica, nella fase luteinica del ciclo mestruale, di una combinazione di disagio fisico, psicologico e/o di cambiamenti comportamentali di gravità sufficiente a condurre ad un deterioramento delle relazioni interpersonali e/o ad un’interferenza con le attività normali” (Reid R.L., 1985).

Sulla Sindrome premestruale sono fiorite successivamente le più varie ipotesi interpretative e terapeutiche. D’altro canto, il suo impatto sociale crescente è dimostrato dal riconoscimento che tale categoria diagnostica ha assunto sul lavoro (come fattore di assenteismo) ed in ambito giuridico (essendo utilizzata sia nelle cause di divorzio ed affidamento di minori, sia, come attenuante, nei processi per atti criminali, da rapine ad omicidi).

Ipotesi Diagnostica

Nonostante i numerosi tentativi di inquadrare nosograficamente la Sindrome Premestruale, le controversie non sono state facilmente superate e, nel 1983, si è costituito un gruppo di studio americano per definire uniformemente i criteri temporali e clinici dei disturbi psichici ad essa associati. Nel 1988 la Sindrome Premestruale è stata inclusa dall’American Psychiatric Association nel DSM-III-R e rinominata “Disturbo Disforico di Tarda Fase Luteinica” (LLPDD) (APA, 1987). Attualmente, lo stesso gruppo di studio ha modificato ulteriormente il nome del LLPDD che, nel DSM-IV TR, è definito come “Disturbo Disforico Premestruale” (PMDD) ed è compreso, come esempio di disturbo depressivo, tra le patologie che richiedono un ulteriore studio. Nell’ultima versione, rispetto a quella precedente, sono state aggiunte, tra i sintomi, la “sensazione soggettiva di essere senza controllo” e, tra i criteri diagnostici, l’esistenza di un periodo senza sintomi che corrisponde alla settimana successiva alle mestruazioni (APA, 1994). A tutt’oggi, anche se la diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale è stata inclusa nel DSM-IV, sono veramente pochi gli articoli pubblicati che utilizzano questi criteri; la maggior parte di essi si rifà ancora a criteri generali di Sindrome Premestruale.

Il DSM-IV TR stabilisce che, per porre diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale, ci devono essere almeno cinque sintomi uno dei quali deve essere di ordine psichico fra umore depresso, ansia intensa, labilità affettiva, irritabilità e perdita di interesse per le attività abituali. I sintomi devono insorgere nel corso della settimana antecedente la comparsa delle mestruazioni ed iniziare a diminuire pochi giorni dopo l’inizio delle mestruazioni stesse. La durata di tali disturbi può variare pertanto da qualche giorno fino a due settimane. I sintomi cessano poi con la comparsa del ciclo mensile o poco dopo, per lasciare spazio ad un intervallo completamente libero da sintomi. Questi disturbi sono pertanto strettamente correlati al ciclo mestruale e, secondo questo criterio, la diagnosi può essere formulata allorquando la sintomatologia riferita retrospettivamente dalla donna si ripresenta regolarmente nella maggior parte dei cicli per diversi anni e viene confermata da valutazioni prospettiche durante almeno due cicli sintomatici. La diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale richiede, inoltre, che il disturbo non sia l’esacerbazione di una patologia psichiatrica preesistente quale Disturbo Depressivo Maggiore, o Disturbo di Panico, Disturbo Distimico, o un Disturbo di Personalità, né possa essere attribuito ad una condizione medica o ginecologica (endometriosi, fibromi, menopausa o anomalie endocrine) sottostante.

Cenni fisiologici

Nelle donne in età fertile la mestruazione indica sia il culmine che il rinnovamento di un ritmo neuroendocrino mensile estremamente complesso, che ha come fine ultimo la liberazione di un ovulo e la predisposizione dell’ambiente uterino ad accogliere e a consentire l’instaurarsi di una gravidanza. Il ciclo mestruale si suddivide in due parti: la fase follicolare e la fase luteinica. La fase follicolare, che corrisponde alla prima metà del ciclo ed inizia con la mestruazione, è caratterizzata dalla maturazione di numerosi follicoli ovarici sotto l’influenza degli ormoni follicolo-stimolante e luteinizzante.

Da questo gruppo di follicoli, uno solo emerge, a metà della fase follicolare, come dominante (o graafiano) e come principale fonte di secrezione di estradiolo nella fase follicolare tardiva. Dopo l’ondata di secrezione di gonadotropine della fase preovulatoria, ha luogo l’ovulazione che segnala l’inizio della seconda parte del ciclo mestruale, la fase luteinica. Ciò che resta dell’ovulo non fecondato è il corpo luteo che, secernendo estradiolo e progesterone, determina il picco di tali ormoni che si osserva 5-8 giorni dopo il picco delle gonadotropine (Vaitukaitis e Coll., 1984).

La Sindrome Premestruale può esordire a qualunque età dopo la prima mestruazione, ma l’età media riconosciuta in diversi studi è di 26 anni. Con il tempo, verosimilmente a causa delle continue oscillazioni ormonali, la sintomatologia tende a peggiorare e a protrarsi per un periodo di tempo via via maggiore. Le donne che riferiscono con minore frequenza disturbi da Sindrome Premestruale sono infatti quelle che sono state esposte di meno alle suddette fluttuazioni grazie ad un numero maggiore di gravidanze o all’assunzione di contraccettivi orali. L’isterectomia senza l’asportazione delle ovaie non allevia i sintomi premestruali più marcati, la cui comparsa può essere documentata dalle modificazioni dell’escrezione urinaria degli steroidi sessuali ( Beni et al., 2000).

Ipotesi Eziologiche

È opinione ormai accettata che la Sindrome Premestruale sia dovuta ad una concomitanza di diversi fattori, socioculturali, psicologici e biologici che, agendo sinergicamente, ne determinano il quadro clinico.

Fattori socioculturali

Come già accennato nell’introduzione di questo lavoro, le credenze, gli atteggiamenti culturali e religiosi radicati nei confronti delle mestruazioni, hanno ancora oggi importanza determinando, nella maggior parte delle donne, una predisposizione negativa a questa fase del ciclo riproduttivo (Monechi, 2004). In un’indagine su come le mestruazioni vengono percepite dalla donna stessa, si è evidenziato come esse siano ritenute un evento comunque negativo durante il quale il sesso femminile esperisce sintomi fisici e psichici, la cui entità viene sovente sopravvalutata. Nella Sindrome Premestruale, inoltre, accade quanto si è visto accadere anche nella menopausa: l’esperienza materna di queste fasi del ciclo riproduttivo influisce in modo determinante sull’atteggiamento che avrà la figlia. Così, se una madre ha vissuto in modo traumatico ed imbarazzato il proprio menarca e non ha preparato adeguatamente la figlia, oppure se ha contribuito ad assecondare la vergogna e le limitazioni del comportamento che spesso vi vengono associate, la stessa figlia sarà più propensa a mettere in atto gli stessi atteggiamenti negativi. Non meno importante è, per una donna, il ruolo del proprio compagno nel confermare il rifiuto delle mestruazioni trattandole alla stregua di una malattia (Beni et al., 2000).

Fattori Psicologici

In molti studi i ricercatori hanno tentato di tracciare un profilo psicologico specifico delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale giungendo, a volte, a risultati contrastanti. Alcuni, infatti, riscontrano un disagio più accentuato in chi non accetta il ruolo femminile tradizionale; altri riferiscono che questa sintomatologia è maggiore nelle donne più tradizionaliste e conservative.

Generalmente, le donne con Sindrome Premestruale sono comunque più dubbiose, più apprensive ed emotivamente instabili, con poca autostima, poca fiducia in se stesse ed un forte bisogno di conferme da parte degli altri. Secondo uno studio del 1989 di Harrison e coll., se è possibile isolare un preciso gruppo di donne che risponde ai criteri del DSM per la Sindrome Premestruale, coloro le quali richiedono aiuto e trattamento per disturbi attribuiti alla Sindrome Premestruale, sono ad alto rischio per uno o più disturbi psichiatrici concomitanti e dovrebbero essere valutate attentamente.

Molto spesso la Sindrome Premestruale viene associata alla presenza di fattori stressanti concomitanti e ciò va a sostegno di una genesi prevalentemente psicologica del disturbo. Tuttavia alcuni Autori (Trunnel e coll., 1988), confrontando un gruppo di donne affette da Sindrome Premestruale con un gruppo di controllo, non hanno trovato che le prime attribuivano sentimenti negativi a particolari eventi biologici né che avevano, verso tali eventi, atteggiamenti particolari. Questa scoperta conferma l’esistenza di un disturbo specifico della fase luteinica, il quale si sviluppa su di una base libera da malattie psichiatriche ed è in contrasto con le teorie psicologiche e socioculturali fin qui esposte.

Fattori biologici

Le teorie che hanno cercato di spiegare l’origine biologica dei disturbi psico-fisici in corso di Sindrome Premestruale sono molteplici e, verosimilmente, tale sindrome non presenta un meccanismo eziopatogenetico univoco.

Tra le ipotesi più accreditate vi è quella che attribuisce importanza agli steroidi gonadici, estradiolo e progesterone, le cui oscillazioni regolano il ciclo mestruale. Già Frank (1931) imputava i disturbi in fase premestruale ad un eccesso di estrogeni e, sulla base di questa teoria, egli trattava le donne affette da Sindrome Premestruale con ovariectomia o con l’applicazione di radiazioni sulle gonadi femminili allo scopo di ridurre l’entità della loro secrezione. Tuttavia, la seconda metà del ciclo mestruale è caratterizzata da un declino del livello degli ormoni sessuali, pertanto questa teoria non può essere confermata. Ciononostante, la clinica sottolinea una stretta correlazione tra sintomatologia e fasi del ciclo riproduttivo ed è ormai accreditata l’azione di estrogeni e progesterone sul tono dell’umore: i primi lo migliorano in fase preovulatoria mentre il secondo ha un’azione sedativa e lievemente depressogena.

Tale correlazione potrebbe riguardare un effetto ritardato degli steroidi sessuali sul ricambio, nei centri ipotalamici, dei neurotrasmettitori. Questi, infatti, modulano gli ormoni riproduttivi e potrebbero indurre i sintomi di una sindrome premestruale o anche influire sui centri di controllo dell’umore e del comportamento. Altre ipotesi sulle disfunzioni endocrine, riguardano un deficit di progesterone in tarda fase luteinica, un alterato rapporto estrogeni/progesterone o un’alterazione del suo metabolismo. I livelli più bassi di progesterone riscontrati in alcune donne affette da Sindrome Premestruale, riflettono un’alterata funzionalità del corpo luteo che insorge a causa del suo mancato sviluppo. Una secrezione inadeguata di progesterone in fase luteinica, dovuta a difetti di secrezione, metabolizzazione, escrezione e ad interazione con altre sostanze (alcune prostaglandine favoriscono la luteolisi e quindi riducono la secrezione di progesterone), è stata associata con un livello di soglia del dolore più basso in alcune donne, le stesse che traggono beneficio dalla terapia con progestinici. Anche un eccesso di testosterone è stato correlato alla Sindrome Premestruale, ma i risultati dei vari studi non sono stati univoci (Beni et al., 2000).

Un’alterazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, con un eccesso di quest’ultimo e conseguente maggior riassorbimento di sodio, e quindi ritenzione idrica, è stata chiamata in causa nella sintomatologia della Sindrome Premestruale, considerando il fatto che molte donne lamentano proprio ritenzione idrica e gonfiore come disturbi principali. Le variazioni dell’umore potrebbero essere dovute all’influenza che questo asse ormonale ha sui neurotrasmettitori cerebrali. La fluttuazione dei livelli di estradiolo è risultata correlata alle vampate di calore, all’umore depresso e alla mancanza di sonno.

Si è anche considerata l’influenza della prolattina, i cui livelli sono più alti nelle donne affette da Sindrome Premestruale, come fattore eziopatogenetico in questo disturbo. Tale ormone, oltre ad avere un’azione diretta sulla mammella, a carico della quale molte donne lamentano disturbi in corso di Sindrome Premestruale, agisce anche sulle ovaie, causando un’alterazione del corpo luteo con conseguente deficit di progesterone (Beni et al., 2000).

Secondo l’ipotesi che imputa la Sindrome Premestruale all’azione dei neuropeptidi centrali, le donne affette da Sindrome Premestruale avrebbero un’alterata secrezione ed un’ipersensibilità alle beta-endorfine, le quali hanno un effetto stimolante su prolattina ed inibente sulle gonadotropine, ed ai peptidi alfa-MSH, subordinati alla secrezione ciclica di steroidi ovarici, nel corso della fase luteinica del ciclo. In queste donne la secrezione di beta-endorfine, più bassa, agirebbe, in fase luteinica, sulla modulazione del tono dell’umore, sul comportamento e sulle interazioni neurotrasmettitoriali a livello ipotalamoipofisario (Beni et al., 2000).

Altri fattori eziopatogenetici di ordine biologico indicati per spiegare la Sindrome Premestruale, sono la ridotta disponibilità di vitamina B6 ed un deficit di prostaglandine: la prima è un importante cofattore nella trasformazione metabolica di acidi aminici ed è coinvolta nella decarbossilazione del 5-idrossitriptofano a 5-idrossitriptamina e dopamina; le seconde agiscono causando vasodilatazione e ritenzione idrica durante il ciclo mestruale (Beni et al., 2000).

Tra le ipotesi biochimiche cui si è prestata recentemente maggiore attenzione per spiegare la Sindrome Premestruale, c’è quella delle alterazioni del sistema serotoninergico (Halbreich e Tworek, 1993) che, come è noto, è coinvolto nella percezione del dolore, nella depressione, nell’assunzione di cibo e nel comportamento aggressivo. Ricerche effettuate in vitro su piastrine (le quali hanno diverse analogie biochimiche e farmacologiche con i terminali pre-sinaptici contenenti serotonina) per valutare alterazioni ciclo-correlate della serotonina, hanno dimostrato un’influenza in senso inibitorio degli steroidi sessuali su queste con una riduzione della ricaptazione di serotonina ed un suo ridotto livello ematico. La maggior parte degli studi ha riscontrato una riduzione della ricaptazione della serotonina limitata alla fase luteinica, secondo alcuni Autori a causa di un ridotto numero di trasportatori di membrana per la serotonina o di un’alterazione del gradiente ionico transmembrana (Ashby et al., 1988). Inoltre, dal momento che le modificazioni di ricaptazione della serotonina da parte delle piastrine sono contemporanee alla sintomatologia, è possibile che siano ad essa causalmente correlate. È stato anche visto che la somministrazione di agonisti serotoninergici induce un’elevazione del tono dell’umore; per contro, la somministrazione di sostanze che diminuiscono l’attività della serotonina, provoca irritabilità ed evitamento sociale, sintomi che ritroviamo nella Sindrome Premestruale. Queste medesime alterazioni vengono trovate anche in altri pazienti psichiatrici, nei depressi e nei maniaco-depressivi, aspetto che giustifica ancor di più la correlazione fra serotonina e sintomatologia nella Sindrome Premestruale (Bhatia et al., 2002).

Alcuni ricercatoi hanno anche studiato altri neurotrasmettitori: Parry et al.,(1989) in un loro lavoro su dopamina e noradrenalina, hanno evidenziato come, nel liquido cefalo-rachidiano, i livelli del metabolita MetossiIdrossiFenilGlicole (MHPG) siano significativamente più elevati nella fase luteinica di pazienti affette da Sindrome Premestruale rispetto a controlli sani, suggerendo un ruolo del sistema noradrenergico in questa sindrome. Un ruolo non bene definito potrebbe essere attribuito anche all’Acido Gamma-Aminobutirrico (GABA), i cui livelli sono più bassi, in particolare in fase luteinica, nelle donne con Sindrome Premestruale.

Indubbiamente, tra le donne affette dalla sindrome, si può riscontrare l’alterazione di uno o più sistemi ormonali o neurotrasmettitoriali sopracitati, ma rimane da determinare se queste siano primarie o secondarie alla sindrome stessa. Inoltre, non è chiaro se le teorie sopra citate siano significative per la genesi della forma più severa della sindrome premestruale, e quali di esse siano rilevanti ai fini della comprensione delle variazioni del tono dell’umore (Beni et al., 2000).

Relazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi

L’attenzione che gli psichiatri hanno rivolto negli ultimi anni alla Sindrome Premestruale è giustificata dalla prevalenza, in questa sindrome, di disturbi dell’umore, a volte così gravi e disabilitanti dal punto di vista affettivo, cognitivo e delle prestazioni, da essere sovrapponibili a quelli riferiti da pazienti affetti da depressione (Bhatia et al., 2002). Il fatto stesso che i sintomi più spesso riferiti siano prevalentemente di ordine psichico, affettivi in particolare (depressione, disforia, irritabilità, ansia), ha fatto propendere per l’esistenza di una correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi psichiatrici specifici. Nonostante il DSM-IV-TR sottolinei la possibilità di fare diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale solo quando non vi sono altri disturbi psichiatrici sottostanti, molte donne che richiedono una cura per disturbi premestruali gravi hanno un sottostante disturbo psichiatrico non diagnosticato, o sono già in cura per un altro disturbo di questo tipo. La donna che lamenta disturbi premestruali, e che per questi cerca aiuto, va pertanto attentamente valutata al fine di distinguere chi ha modificazioni severe del tono dell’umore e del comportamento in fase luteinica da chi ha invece in atto uno o più disturbi mentali tali da necessitare di una valutazione diagnostica completa ed una cura adeguata.

Diversi studi hanno valutato il rapporto tra disturbi dell’umore e Sindrome Premestruale ma i loro risultati, avendo adottato criteri diagnostici differenti e spesso basati sulla valutazione retrospettiva della sindrome premestruale, non sono sempre univoci. Fra le indagini che hanno utilizzato criteri uniformi, quattro (vedi in DeJong e coll., 1985) hanno riscontrato una prevalenza di “depressione premestruale” in circa il 65% delle donne con patologia depressiva, valore significativamente più elevato di quello rinvenuto nei controlli o nelle donne con altra patologia psichiatrica.

Se è di frequente riscontro clinico un peggioramento della sintomatologia premestruale nelle donne affette da depressione maggiore, può sembrare che quelle affette da entrambi i disturbi abbiano un peggioramento della sintomatologia depressiva in fase premestruale. In realtà si è visto che, in alcune donne, i disturbi da Sindrome Premestruale persistono nonostante l’impiego di un trattamento efficace che porta alla risoluzione dei sintomi depressivi (Yonkers e coll., 1992). Ciò va a sostegno della concomitanza di due disturbi separati piuttosto che di un peggioramento di un episodio depressivo già in atto. Un’ulteriore conferma a questa teoria viene da studi biochimici sulle variazioni circadiane della secrezione endogena di cortisolo, ormone che rappresenta un indice di depressione endogena (Mortola e coll., 1989). Dal confronto tra donne affette da Sindrome Premestruale, donne appartenenti a un gruppo di controllo asintomatico e donne affette da depressione maggiore, si evince che la secrezione giornaliera di cortisolo è sovrapponibile nei primi due gruppi, mentre nel terzo raggiunge picchi più elevati e, caratteristicamente, non va incontro ad un periodo di quiescenza tra le ore 18.00 e le 24.00. Le pazienti con Sindrome Premestruale presentano in fase luteinica, sulla base della valutazione psicometrica effettuata, un livello di tensione, rabbia, confusione e perdita di energia sovrapponibile a quello riferito dalle pazienti depresse. Il grado di depressione delle prime risulta sì elevato nella stessa fase del ciclo, e significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo, tuttavia è sempre inferiore a quanto si riscontra in caso di Depressione Maggiore. La Sindrome Premestruale e la Depressione Maggiore risultano pertanto due entità cliniche distinte sulla base delle misurazioni biochimiche effettuate. Ciò può essere dovuto a differenze nella patofisiologia delle due sindromi o al fatto che i cambiamenti a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si rinvengono nella Depressione, richiedono un periodo di tempo più lungo per manifestarsi rispetto alla durata di un episodio affettivo in corso di Sindrome Premestruale (Beni et al., 2000).

Halbreich ed Endicott, in un lavoro non pubblicato del 1983, hanno riscontrato una diagnosi lifetime di depressione maggiore nel 57-100% delle donne che riferivano una PMS. Secondo uno studio svolto da DeJong e coll.( 1985 ), le donne che riferivano una sintomatologia premestruale affettiva che non veniva confermata da valutazioni quotidiane, avevano un alto tasso (58%) di patologia depressiva. Quelle che, invece, confermavano la loro PMS con gli stessi criteri, avevano una percentuale di disturbi dell’umore più bassa rispetto alle prime, ma sempre piuttosto elevata (30%). Graze e coll. (1986) hanno riscontrato che il 37% delle pazienti affette da PMS da loro seguite, sviluppava un episodio di depressione in un periodo di tempo medio di circa 3 anni.

Le ipotesi che si possono azzardare sulla relazione tra le due sintomatologie, depressiva e premestruale, vanno da una sensibilizzazione, provocata dalla Sindrome Premestruale, a stimoli che, in donne geneticamente predisposte, potrebbero slatentizzare lo sviluppo ed il decorso di un episodio affettivo maggiore, ad un disturbo affettivo ciclo-correlato determinato da un disturbo dell’umore precocemente insorto.

Oltre alla conferma della correlazione tra Sindrome Premestruale e disturbi affettivi, alcuni studi hanno valutato il legame con altre patologie psichiatriche, riscontrando una incidenza di disturbi di personalità (di asse II secondo il DSM-IV TR), intorno al 10%, valore che non si discosta molto da quello rinvenuto in campioni costituiti da popolazione generale. Il disturbo di personalità più frequentemente rappresentato è quello evitante (Pearlstein et al., 1997). Secondo alcuni Autori, che hanno trovato la presenza del disturbo di personalità evitante solo nel gruppo di età superiore ai 30 anni, la spiegazione a questo riscontro potrebbe essere che le donne affette da Disturbo Disforico Premestruale sviluppino, con l’andare del tempo, questi tratti del carattere come particolare modo di reagire ai cambiamenti correlati al loro ciclo mestruale (De Ronchi et al., 1999).

Alcuni studi hanno valutato campioni costituiti da gemelli per verificare se la sintomatologia da Sindrome Premestruale è ereditaria. In effetti, si è riscontrata una modesta ereditabilità di tale sindrome ed una sua lieve dipendenza dall’ambiente familiare (Kendler e coll., 1998). Secondo questi studi, i processi biologici geneticamente determinati che influenzano la Sindrome Premestruale, sono debolmente correlati a quelli che influenzano il rischio di depressione maggiore. Inoltre, i sintomi premestruali sembrano avere una stretta correlazione eziologica con le caratteristiche stabili nel tempo della depressione.

Sintomi Fisici

Sebbene i criteri dei diversi DSM prendano in considerazione solo i sintomi psichici, la maggior parte dei clinici considera i sintomi fisici altrettanto importanti per la diagnosi (Morrison, 1997). I sintomi che si presentano con maggior frequenza sono:

  • Dolore e tensione al seno;
  • Aumento di peso di qualche chilo che può essere percepito come “ un’esplosione” dell’addome o un gonfiore alle caviglie (edema);
  • Il sonno e l’appetito possono aumentare o diminuire rispetto al solito;
  • Presenza di cefalee e dolori ai muscoli o alle articolazioni.

Contrariamente a quello che si crede generalmente, il dolore associato alle mestruazioni (dismenorrea) non è considerato un sintomo della Sindrome Premestruale. Qualunque siano i sintomi della paziente, questi compaiono e scompaiono regolarmente con “il periodo del mese” che caratterizza la Sindrome Premestruale. Tipicamente, i sintomi iniziano circa una settimana prima delle mestruazioni e scompaiono una volta che il flusso inizia realmente, anche se le variazioni individuali possono essere molteplici (Morrison, 1997).

Sintomi Psichici

Le donne che soffrono di Sindrome Premestruale spesso lamentano stanchezza; viene riferita frequentemente anche una sensazione soggettiva di ansia e depressione.Altri disturbi dell’umore includono irritabilità o collera, improvvise crisi di pianto e un’eccessiva sensibilità all’eventualità di essere rifiutate. Se ai problemi relativi al sonno e all’appetito menzionati in precedenza si sommano anche minore energia, problemi di concentrazione, perdita di interessi per attività solitamente piacevoli, si capisce perché venga spesso erroneamente formulata una diagnosi di disturbo dell’umore.
Un altro errore clinico da evitare è il seguente: una paziente che soffre di un vero disturbo dell’umore o d’ansia, che peggiora intorno al periodo delle mestruazioni, non dovrebbe essere diagnosticata come Sindrome Premestruale, senza che prima non siano stati trattati con successo i disturbi dell’umore (Morrison, 1997).

Il rischio suicidario nei pazienti con anoressia nervosa

Il suicidio è una delle principali cause di morte tra le persone con anoressia nervosa: dal 3 al 20% dei pazienti con questo disturbo dell’alimentazione tentano il suicidio nell’arco della propria vita, mentre in una percentuale compresa tra 1 e 5,3% lo portano a termine (Franko et al., 2006).
Secondo Sullivan, rappresenta la seconda causa di morte per anoressia nervosa dopo le complicazioni del disturbo alimentare (Sullivan, P.F., 1995).

Anoressia nervosa e rischio di suicidio: la presenza di sintomi ansiosi e depressivi e impulsività

Nelle persone con questa patologia non sono solamente i sintomi depressivi a incidere nel tentativo di suicidio, ma anche i tratti ansiosi e l’impulsività.

Tra i vari disturbi del comportamento alimentare (DCA) vi sono differenze relative alla frequenza dei tentativi di suicidio, sono infatti molto più comuni tra i pazienti con anoressia nervosa rispetto a quelli con bulimia nervosa (Franko et al., 2006). I risultati confermano che una parte sostanziale di persone con anoressia nervosa tenta il suicidio rischiando effettivamente di perdere la vita. I clinici che si occupano di DCA per tutta la durata del trattamento dovrebbero porre attenzione non solo al rischio suicidario, ma anche alla presenza di comorbilità tra vari disturbi come, ad esempio, depressione, abuso di sostanze o impulsività. Come è noto, non tutti i tentativi di suicidio sono realmente finalizzati a porre fine alla vita; tra i pazienti con anoressia nervosa l’intenzione di morire durante un tentativo di suicidio si riscontra nel 78,3% dei casi, di questi, il 56,5% pensava che sarebbe morto.

Gli studi dimostrano che chi tenta il suicidio presenta, oltre a eventuali sintomi depressivi, una o più delle seguenti psicopatologie: disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, abuso di sostanze o dipendenza, disturbi di personalità del cluster B e, infine, disturbi del controllo degli impulsi tra cui autolesionismo, furto e taccheggio. Queste persone sono anche caratterizzate da bassa autodeterminazione, numerosi evitamenti e alti livelli d’impulsività come dimostrato dai punteggi più elevati sulla sottoscala cognitiva della Barrett Impulsivity Scale. Emerge inoltre una maggiore gravità dei sintomi del disturbo secondo la Yale-Brown-Cornell Eating Disorder Scale rispetto a coloro che non avevano tentato il suicidio. Questi profili di comorbilità e di caratteristiche di personalità riguardano una percentuale piuttosto alta di coloro che hanno riferito che il loro tentativo era stato impulsivo anziché premeditato.

Tra le persone che pensano di uccidersi il 25,4% agisce con una premeditazione accurata, il 25,4% con una premeditazione moderata e ben il 49,2% d’impulso. Mediamente fra coloro che tentano il suicidio solo la metà viene ricoverata in ospedale: il 46,4%. Alla domanda in merito ad altri eventuali disturbi al momento del tentato suicidio, l’81,2%. riferisce che il tentativo si era verificato durante un episodio depressivo, il 17,4% riporta abuso di alcol al momento del gesto, l’8,7% dichiara di abusare di sostanze e il 5,8% fa invece riferimento ad altre patologie. Dallo studio che ha riportato questi dati non sono emerse segnalazioni di disturbo bipolare o psicosi (Franko et al., 2006). Tra le persone che soffrono di anoressia e che hanno tentato il suicidio almeno una volta, l’87,1% ha sofferto di depressione maggiore nel corso della vita: questo implica in loro un rischio quattro volte maggiore di togliersi effettivamente la vita (Bulik et al., 1999).

La lotta contro lo stigma del suicidio è centrale ed essenziale ai fini di un’efficace attività di prevenzione suicidaria in quanto questo gesto si alimenta di pregiudizi che costituiscono l’ostacolo più forte nel trattare i comportamenti autolesivi (Erlangsen et al., 2011).

Fiabe e successo scolastico: quando le lezioni iniziano dai libri di racconti

Una nuova ricerca dell’Università californiana Riverside rivela differenti temi narrativi nei libri di racconti per l’infanzia cinesi e americani in linea con lo stile scolastico impartito nei due Paesi. È un dato ormai conosciuto e confermato da diversi studi quello secondo cui il livello scolastico asiatico sia superiore rispetto a quello americano. La recente ricerca della psicologa Cecilia Cheung mostra il possibile collegamento tra racconti narrativi e performance scolastica.

 

I diversi contenuti delle fiabe nelle culture americana e asiatica

Il team californiano ha notato che i libri di racconti cinesi celebrano i comportamenti associati all’apprendimento e al duro lavoro mentre i libri di narrativa degli Stati Uniti pongono maggiore enfasi sull’autostima e la competenza sociale.

Cheung ha affermato “I valori che vengono generalmente comunicati nelle fiabe cinesi sono orientati alla realizzazione, al rispetto per gli altri (in particolare degli anziani), all’umiltà e all’importanza di sopportare le difficoltà. Nei racconti americani invece i protagonisti sono spesso ritratti come aventi un interesse e una forza unici in un determinato dominio e i temi tendono ad essere edificanti“.

Per lo studio Cheung ha confrontato libri di racconti americani con quelli cinesi, la ricercatrice ha selezionato 380 libri per bambini, dai 3 agli 11 anni, raccomandati dai Ministeri dell’Istruzione dei rispettivi paesi. La ricerca ha considerato tre aspetti fondamentali dell’apprendimento: le credenze (intese come opinioni sulla natura dell’intelligenza), le cognizioni riguardo la motivazione (ad esempio la determinazione) e il comportamento (ovvero lo sforzo impiegato e il superamento delle difficoltà).

Un esempio di fiaba cinese selezionata per la ricerca è rappresentata dal titolo “A Cat That Eats Letters” (letteralmente “Il gatto che mangia le lettere”). La storia narra di un gatto affamato di lettere scritte in malo modo cosicché ogni volta che il bambino produce una lettera troppo grande, piccola, inclinata o con tratti mancanti il gatto se la mangia, l’unico modo per fermare l’abbuffata del felino è che il bambino scriva attentamente e si eserciti tutti i giorni diventando un abile scrittore.

Al contrario un tipico racconto americano è “The Jar of Happiness” (letteralmente “Il barattolo della felicità”) che racconta la storia di una bambina impegnata nel creare una pozione magica per la felicità in un barattolo che sciaguratamente perde; il lieto fine nasce dalla consapevolezza della bimba che la felicità non può derivare dal vasetto ma piuttosto dai nuovi amici incontrati durante l’avventura.

Le fiabe stabiliscono i valori importanti per le diverse culture

In conclusione Cheung ha affermato che il punto di forza della ricerca è l’aver considerato il ruolo di “artefatti culturali” come i libri di fiabe sostenendo che i libri di racconti svolgano un ruolo chiave nello stabilire i valori che possono aiutare a determinare il successo scolastico.

La psicologa ha concluso affermando “L’esposizione a materiali di lettura che sottolineano l’importanza delle qualità legate all’apprendimento, come ad esempio lo sforzo e la perseveranza, può portare i bambini a valutare in misura maggiore tali qualità come importanti“.

La disfunzione erettile è un segnale d’allarme per un’eventuale malattia cardiovascolare precoce

Raramente viene data attenzione al legame tra la disfunzione erettile e le malattie cardiovascolari, eppure un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Vascular Medicine, ne sottolinea l’importanza.

 

Le malattie cardiovascolari e la disfunzione erettile

Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in tutto il mondo. Oltre al controllo della pressione arteriosa, al controllo del peso, ad una buona dieta abbinata ad esercizio fisico e alla cessazione dell’abitudine del fumo, l’individuazione precoce di un’eventuale malattia cardiovascolare può essere utile nella prevenzione di ictus e infarti.

I fattori di rischio sia per le patologie cardiovascolari sia per la disfunzione erettile sono simili. Tra questi si annoverano l’età avanzata, l’obesità del soggetto ed il diabete.

La disfunzione erettile diviene di per sé un efficace e semplice marker della malattia cardiovascolare subclinica, in quanto permette ai giovani uomini, che hanno solitamente meno probabilità di sottoporsi ad una valutazione del rischio cardiovascolare, di prenotare una visita specialistica. Spesso, infatti, giovani uomini a rischio non vengono considerati tali a causa della loro giovane età.

Uno studio sul legame tra disfunzione erettile e malattie cardiovascolari

Gli autori dello studio hanno condotto una review sistematica ed una meta-analisi di ventotto studi che si sono occupati di esaminare il legame tra disturbi dell’erezione e le misure di malattie cardiovascolari precoci.

In seguito a questa analisi gli autori hanno riportato un’associazione tra disfunzione erettile e la compromissione della funzione endoteliale (indicatore della capacità di rilassamento dei vasi sanguigni, manifestazione precoce dello sviluppo di una malattia vascolare) ed un aumento dello spessore mediale intimale carotideo (manifestazione precoce di aterosclerosi).
Infine, gli autori hanno notato come non sia emersa un’associazione tra disfunzione erettile ed il livello del calcio dell’arteria coronaria, a causa di un numero limitato di studi con dimensioni di campione limitate. Per questo motivo invitano i ricercatori a concentrarsi su quest’area di indagine.

Lo studio viene accompagnato dalle parole dei ricercatori Naomi Hamburg e Matt Kluge della Boston University: “La presenza di una disfunzione erettile preannuncia un rischio più elevato di futuri eventi cardiovascolari, in particolare negli uomini che sono a rischio intermedio o basso, e ciò può rappresentare un’opportunità per l’intensificazione delle strategie di prevenzione del rischio cardiovascolare”.
La ricerca, in questo verso, si impegnerà a determinare l’impatto clinico dello screening, la valutazione ed il trattamento appropriati nei casi di disfunzione erettile.

Siamo davvero così razionali come crediamo? L’irrazionalità nei processi decisionali

Possiamo definire la razionalità come la capacità di scegliere tra più alternative ciò che permette il massimo guadagno personale con la minima perdita; la capacità riflessiva che ci distingue come esseri umani ci permette di richiamare alla mente concetti ed immagini che ci consentono di creare dei collegamenti tra la situazione attuale e i suoi possibili sviluppi, permettendoci di modulare il nostro comportamento nel tentativo di raggiungere i nostri obiettivi.

Alessia Brugaletta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Qual capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle sue facoltà! Quale espressione ammirabile e commovente nel suo volto, nel suo gesto! Un angelo allorchè opera! Un Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! Re degli animali!…
(William Shakespere, Amleto, atto 2 scena 2)

 

Difficilmente qualcuno potrebbe essere migliore di William Shakespere nel descrivere ciò che il senso comune ci suggerisce fermamente: la capacità di pensare e la nostra razionalità sono qualcosa che ci rende unici e che reputiamo pressoché infallibile. Infatti pur scontrandoci quotidianamente con la difficoltà che questo complesso compito cognitivo ci crea siamo, nonostante tutto, abbastanza fiduciosi della sua efficienza.

Cercando di delineare i contorni di quel che comunemente chiamiamo razionalità, la possiamo definire come la capacità di scegliere tra più alternative ciò che permette il massimo guadagno personale con la minima perdita.

La capacità riflessiva che ci distingue come esseri umani ci permette di richiamare alla mente concetti ed immagini che ci consentono di creare dei collegamenti tra la situazione attuale e i suoi possibili sviluppi, permettendoci di modulare il nostro comportamento nel tentativo di raggiungere i nostri obiettivi.

Ognuno di noi infatti, tutti i giorni è alle prese con tantissime decisioni da prendere tra varie opzioni possibili. Alcune di queste possono avere conseguenze limitate nel tempo e di solito l’esito riguarda solo la persona che effettua la scelta (decidere cosa mangiare per cena o se andare a lavoro in autobus oppure prendere la bicicletta, scelta più faticosa ma certamente più salutare); altre invece possono avere effetti, positivi o negativi, a lungo termine e magari coinvolgere non solo chi effettua la scelta ma anche altre persone che con lui si relazionano (scegliere di cominciare una scuola di specializzazione quadriennale, per esempio)

La razionalità umana, come agisca e che obiettivi si prefigga, è stata oggetto d’interesse fin da tempi antichi; Platone ed Aristotele per primi hanno cercato di delineare i suoi modi di operare. A loro si deve la descrizione dei processi induttivi e deduttivi di acquisizione della conoscenza; questa, secondo Aristotele, potrebbe procedere in due direzioni: partendo dall’osservazione di dati sensibili del particolare per poi risalire attraverso un procedimento logico ad una regola universale (procedimento induttivo); o viceversa partendo da regole universali, colte tramite l’intuizione, per discendere attraverso il ragionamento sillogistico al particolare. Così è nato l’interesse per la consequenzialità logica che è alla base del metodo scientifico e che spesso è considerata l’unica via del ragionamento umano.

La visione ereditata da filosofi classici e fatta propria dell’economia, prevede un essere umano capace di effettuare un’analisi costi/benefici delle varie opzioni di scelta e di ragionare su questi seguendo la logica formale. I differenti scenari sarebbero considerati uno alla volta e, avendo in mente i propri obiettivi da raggiungere, la logica condurrebbe alla soluzione migliore tra quelle disponibili. Le emozioni e i sentimenti sono a lungo stati considerati degli intrusi che intralciano il fluire del ragionamento logico; anche il senso comune infatti tramanda la convinzione che in alcune circostanze l’emozione possa distruggere il ragionamento (la raccomandazione non essere una testa calda ci fa capire immediatamente come l’emozione non sia una componente gradita del ragionamento).

Tuttavia la logica formale da sola non appare una soluzione soddisfacente per spiegare il funzionamento della mente degli individui; la razionalità così descritta richiederebbe un tempo troppo lungo che non si conforma a quella che è l’esperienza soggettiva. Solo in rari casi una scelta difficile viene studiata analiticamente facendo una lista dettagliata dei pro e dei contro mentre spesso gli esseri umani prendono decisioni in minuti o in un tempo anche più breve.

Neuroscienze e decision making

La razionalità ed il ragionamento umano hanno continuato ad essere oggetto d’interesse anche in anni decisamente più recenti rispetto a quando se ne sono occupati Platone & Co. L’avvento delle neuroscienze con l’interesse per le differenti funzioni cognitive e, ove possibile, con l’individuazione dello specifico substrato neurale che sottende la funzione stessa; ha permesso una visione più dettagliata di cosa voglia dire ragionare e che specifiche operazioni siamo in grado di compiere durante questo complicato compito.

Le funzioni esecutive sono un insieme di abilità cognitive che consentono di affrontare situazioni nuove e complesse e di adattarsi all’ambiente. Sovraintendono tutte le altre funzioni cognitive che quindi sono implicate nel loro funzionamento; così attenzione, linguaggio e memoria vengono regolate con il fine di migliorare l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Implicano la capacità di prendere decisioni, pianificare obiettivi e strategie considerando gli effetti a breve e lungo termine.

I processi cognitivi complessi che sono richiesti nelle funzioni esecutive sono mediati dall’attività di una specifica area della corteccia cerebrale, la corteccia frontale. Questa è una delle parti evolutivamente più recenti del cervello umano che possiede numerose connessioni con il resto dell’encefalo; connessioni sia con il resto della corteccia cerebrale che con le strutture sottocorticali, in questo modo integra informazioni provenienti dall’ambiente esterno ed interno all’organismo. A livello funzionale questo si traduce nella capacità di connettere informazioni somato-sensoriali con processi di programmazione di azioni motorie e di utilizzo di concetti; di monitoraggio delle conseguenze del proprio comportamento oltre che la modulazione delle informazioni emozionali. Con il termine decision making nel campo delle neuroscienze si intendono un particolare gruppo di funzioni esecutive, quelle connesse alla capacità decisionale, che ha il fine di effettuare scelte vantaggiose per il raggiungimento dei propri obiettivi.

La connessione che questo intero processo possiede con il mondo esterno e con gli altri (adattamento alle circostanze) fa sì che molte delle scelte coinvolte nel processo di decision making maturano nell’interazione tra più individui. Il contesto sociale modula il processo decisionale e ne articola maggiormente la struttura, in questo modo può avvenire la sottomissione degli obiettivi personali alle regole culturalmente condivise che governano le interazioni della vita reale.

Disfunzioni a questo livello di attività celebrale provocano modificazioni del comportamento che possono manifestarsi anche in assenza di compromissioni negli altri domini cognitivi. Gli individui divengono così incapaci di regolare il proprio comportamento in risposta alle esperienze precedenti oltre a poter manifestare ciò che è stato descritto come sociopatia acquisita (complessa condizione responsabile di cambiamenti di personalità che Blumer e Benson già nel 1975 descrivevano come di tipo “pseudopsicopatico”).

Il ruolo delle emozioni

Antonio Damasio (1994) introduce emozioni e sentimenti all’interno di questa complicata equazione che ha come risultato il ragionamento e la capacità di prendere decisioni. Quando la razionalità è all’opera si creano nella nostra mente degli scenari di esiti e risposte possibili che si susseguono sotto forma di immagini successive; non si tratta di un processo che avviene in un “ambiente mentale” nuovo ma che si costruisce su di un repertorio di immagini e situazioni derivanti dall’esperienza. Alcune delle alternative di scelta così create condurranno ad un esito negativo. Questi scenari saranno accompagnati da spiacevoli sensazioni, prevalentemente fisiche, derivate dall’emozione associata al possibile esito negativo (per esempio una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco). Questa sensazione corporea spiacevole forza l’attenzione sul possibile esito negativo; in questo modo assume il ruolo di segnale d’allarme che induce ad escludere quella particolare alternativa di scelta. Questo meccanismo è stato definito marcatore somatico proprio per sottolineare il suo legame con il corpo, pur includendo sia sensazioni viscerali che non viscerali, che il suo ruolo di segnalazione della valenza di una determinata scelta.

I marcatori somatici, che per inciso possono avere anche una valenza positiva (è così marcare come desiderabile una alternativa di scelta che conduce ad un esito positivo), vengono acquisiti attraverso l’esperienza, in un processo di apprendimento continuo che dura per tutta la vita ma che indubbiamente vive un periodo critico durante l’infanzia e l’adolescenza, periodo della vita in cui convinzioni sociali e norme etiche vengono interiorizzate dall’individuo ed interagiscono con il sistema delle preferenze personali nel determinare la qualità delle interazioni con l’ambiente.

Non bisogna però immaginare il marcatore somatico come una specie di pilota automatico che manovra tutte le nostre scelte; Damasio ce lo presenta invece come un tornello per una rapida selezione delle alternative di scelta da includere in una successiva analisi costi/benefici. Prima ancora di iniziare a ragionare sul problema infatti il marcatore somatico ci permetterebbe di abbandonare immediatamente delle alternative di scelta e così ridurre il numero di opzioni da includere in un processo deduttivo di ragionamento.

La regione cerebrale in cui risiede il sistema dei marcatori somatici è la corteccia prefrontale, in particolare nella sua regione orbito-ventro-mediale. Qui sarebbero categorizzate le esperienze di vita in base a criteri di rilevanza personale. Nella categorizzazione dell’esperienza saranno incluse, oltre alle informazioni percettive provenienti dal mondo esterno, anche preferenze personali e conoscenze riguardo lo stato corporeo. Si formeranno così complesse memorie di eventi che legano gli avvenimenti, e quindi anche l’esito delle azioni compiute, con emozioni e sentimenti, e relativa attivazione fisiologica. Questo legame stabilitosi, tra le scelte effettuate e lo stato di attivazione fisica, verrebbe riattivato ogni qual volta l’individuo si trova a dover fronteggiare uno scenario simile.

Sorprendentemente la comprensione del meccanismo sotteso ai marcatori somatici ha permesso di osservare cosa succederebbe se le nostre facoltà di ragionamento fossero così fredde, e quindi emotivamente spoglie, come il senso comune ci suggerisce. Pazienti con lesioni acquisite dei lobi prefrontali sono descritti da Damasio come miopi rispetto al futuro; sono individui incapaci di modificare il proprio comportamento, e quindi le proprie scelte durante il ragionamento, in base a previsioni di possibili esiti; pur essendo comunque in grado di riconoscerne a posteriori il valore come positivo o negativo. Il loro comportamento appare come guidato solo dalla ricerca di una gratificazione immediata; tendenza che negli individui normali solitamente è mediata e posta sotto controllo dalla capacità di immaginare e lasciarsi guidare (attraverso il funzionamento del sistema di marcatura somatica) da obiettivi a lungo termine, anche se questi richiedono impegno e fatica nel presente.

Il sistema di marcatura somatica insomma si comporta come una bussola che ci indica la scelta da perseguire, in base ad un’attivazione corporea immediata associata a ciò che immaginiamo, e che abbiamo appreso dalle esperienze di vita precedenti, come scenario futuro e possibile esito.

Un punto di vista differente: Dan Ariely e l’irrazionalità

La razionalità e la capacità di prendere decisioni, come ho più volte ripetuto nei paragrafi precedenti, sono processi estremamente complessi che vengono continuamente influenzati sia da altri processi cognitivi (come l’attenzione o la capacità di mantenere in memoria più informazioni e di operare su di esse) che da aspetti emotivi e derivanti dal contesto sociale. Trovandoci così di fronte a quella che sembra delinearsi come l’attività cognitiva più complessa che l’essere umano sia in grado di fare; siamo davvero così sicuri che fluisca sempre seguendo le rigide regole della logica? Del resto, per quel che riguarda la maggior parte dei domini cognitivi, non fatichiamo a trovare delle circostanze che ci dimostrano la nostra fallibilità; pensiamo a quel che succede al nostro sistema visivo e percettivo quando osserviamo un’illusione come questa:

Razionalita nei processi decisionali le scelte sono sempre fatte con logica - tavolo Shepard

Immagine: Turning the tables Roger N. Shepard (1990)

Nonostante sia un’immagine con cui molte persone hanno già avuto a che fare, e io ribadisca che le dimensioni dei due tavoli sono identiche, osservando l’immagine non possiamo fare a meno di ricascare nell’illusione di dimensioni differenti. Nonostante siano in nostro possesso tutte le informazioni necessarie per svelare l’illusione, il nostro sistema percettivo viene sistematicamente ingannato; possiamo immaginare che qualcosa di analogo possa avvenire anche in altri domini cognitivi ed in particolare nel processo di decision making?

Dan Ariely ci racconta un nuovo punto di vista riguardo la razionalità umana. L’immagine dell’essere umano come orgoglio di Platone ed Aristotele viene sistematicamente ma umoristicamente distrutta nel suo libro “Predictably Irrational” (2008). Partendo dal campo dell’economia comportamentale (che si occupa di studiare l’effetto di fattori psicologici, cognitivi e sociali nelle decisioni finanziarie e delle conseguenze di queste sul mercato) Ariely ci dimostra come in realtà le decisioni che prendiamo spesso non sono affatto razionali, conducendoci a scelte svantaggiose per i nostri interessi; inoltre questo tipo di irrazionalità si verifica sistematicamente rendendo il nostro comportamento prevedibile.

Razionalità: l’importanza della relatività

L’essere umano non possiede un termometro interno che rivela il valore, in termini di desiderabilità, di un oggetto o più in generale di una scelta; ci muoviamo invece più agilmente nel valutarne il valore in relazione a delle alternative. Così, per esempio, non siamo in grado di scegliere un televisore o una bicicletta da comprare in termini assoluti ma invece siamo ferrati nell’individuare il nostro oggetto dei desideri dopo aver fatto un giro per negozi o su internet per raccogliere informazioni e paragonare i vari modelli disponibili in base alle caratteristiche che possiedono (costo, qualità dell’immagine del televisore o tipo di cambio delle marce per la bicicletta). In aggiunta, non solo compariamo le nostre alternative di scelta, ma nel fare ciò tendiamo a concentrarci su alternative che risultano facilmente confrontabili ed evitiamo invece i confronti più difficili. In questo modo le nostre scelte possono essere facilmente manipolate soprattutto in ambito commerciale attraverso ciò che ci viene proposto come alternative. Per mettere in evidenza l’influenza che questo tipo di ragionamento irrazionale ha nelle nostre scelte Ariely ha condotto una serie di esperimenti utilizzando materiale di scelta differente.

L’introduzione di un “esca” (un’alternativa di scelta simile ma palesemente inferiore ad una delle altre alternative) è in grado di influenzare la distribuzione delle preferenze anche se ovviamente, considerata la sua evidente inferiorità, l’esca in nessun caso viene direttamente scelta dai partecipanti agli esperimenti. Questo tipo di influenza avviene in modo sistematico ogni qual volta ci troviamo a dover scegliere tra delle alternative sia che si tratti di che televisore comprare che di quale persona troviamo più attraente. Infatti Ariely, utilizzando foto dell’equivalente dell’MIT di Brad Pitt e George Clooney ha fatto scegliere a più di 600 persone con quale sarebbero uscite; l’introduzione di un’esca (una versione leggermente imbruttita di Clooney o di Pitt ottenuta modificando le immagini in modo da diradare i capelli o deformare la simmetria del volto) anche in questo caso è stata in grado di influenzare le preferenze. In particolare se la scelta era da effettuare tra Pitt, Cooney e Clooney- (l’esca), la sola presenza dell’esca fa apparire Clooney superiore e più desiderabile non solo del Cooney imbruttito ma addirittura di Pitt. Trasportando questi risultati nella vita quotidiana, le nostre scelte d’acquisto possono essere facilmente manipolate per esempio tramite la selezione di quali articoli introdurre in un volantino pubblicitario; oltre ovviamente a farci domandare perché la nostra amica ha scelto proprio noi come compagnia per una serata di rimorchio (saremo mica la sua esca!).

Necessità di coerenza e ancoraggio alle esperienze precedenti

La ricerca di coerenza e costanza è un tratto distintivo dell’essere umano che ci aiuta a comprendere ed interpretare il mondo intorno a noi; le scelte che effettuiamo durante il primo approccio con un oggetto serviranno da ancora per le valutazioni future necessarie durante le esposizioni successive. L’aspetto irrazionale è che questo meccanismo di coerenza agisce anche quando la nostra ancora (e quindi ciò che è successo e cosa abbiamo scelto durante la nostra prima esposizione ad una situazione) è arbitraria. Così il primo prezzo che accettiamo di pagare per un bene, che si tratti di una pizza o un corso di formazione, anche se durante questo primo contatto potremmo considerarlo come occasionale o eccessivo condizionerà quanto saremo disposti a pagare in futuro in situazioni simili. Divenire consapevoli di questa coerenza arbitraria che guida i nostri comportamenti potrebbe aiutarci a dare un peso differente alle prime scelte che facciamo durante il primo approccio con una situazione.

Conclusioni

Nonostante sia molto confortante la convinzione di possedere una consapevolezza sempre funzionante ed infallibile che guida il nostro comportamento, soprattutto per quel che riguarda il comportamento di scelta, la conclusione che possiamo trarre riguardo la razionalità umana è che anche questa possa incappare in errori di valutazione. Mentre infatti siamo a conoscenza della possibilità di commettere errori in altre funzioni cognitive, come l’attenzione, la memoria o il linguaggio, consideriamo la razionalità come un processo regolatore perfetto. Abbandonare questa illusione ed imparare a riconoscere gli errori sistematici che la razionalità commette ci permetterebbe maggiore consapevolezza riguardo ciò che effettivamente ci guida durante le nostre scelte e forse permetterebbe di affrontare il disagio psicologico in un ottica differente. Riconoscere l’irrazionalità di un pensiero disfunzionale (arduo compito in terapia) sarebbe infatti indubbiamente più facile se fosse condivisa l’idea generale che il ragionamento umano non sia infallibile.

Aggressività reattiva e proattiva e i fattori genetico-ambientali

I risultati mostrano come all’età di sei anni, entrambi i tipi di aggressività proattiva e reattiva, condividano quasi totalmente gli stessi fattori genetici; nonostante ciò, il comportamento aggressivo, nella maggior parte dei casi, diminuisce con la crescita. E questa diminuzione dell’aggressività tra i 6 ed i 12 anni è dovuta a fattori ambientali, piuttosto che a fattori genetici.

 

L’aggressività proattiva e reattiva

Stéphane Paquin, dottorando di ricerca presso l’Université de Montréal, ha condotto uno studio psicosociale sul comportamento aggressivo di 555 serie di gemelli.

In particolare, il ricercatore si è concentrato sui comportamenti aggressivi proattivi e reattivi. L’ aggressività proattiva è una forma di aggressività contraddistinta da comportamenti fisici e verbali intesi a dominare o ottenere un vantaggio personale a scapito degli altri. Invece, l’ aggressività reattiva è quel tipo di aggressività contraddistinta da una risposta difensiva innanzi ad una minaccia percepita.

L’influenza dei fattori genetici e ambientali sull’ aggressività proattiva e reattiva

I risultati mostrano come all’età di sei anni, entrambi i tipi di aggressività proattiva e reattiva, condividano quasi totalmente gli stessi fattori genetici; nonostante ciò il comportamento aggressivo nella maggior parte dei casi diminuisce con la crescita. E questa diminuzione dell’aggressività tra i 6 ed i 12 anni è dovuta a fattori ambientali, piuttosto che a fattori genetici.

L’aggressività è una parte fondamentale dello sviluppo psicologico e sociale di un bambino. Successivamente, quando un bambino cresce, impara a gestire le proprie emozioni, comunicare con gli altri e affrontare i conflitti. In questo modo, durante lo sviluppo e l’età adulta, le persone saranno in grado di incanalare i propri impulsi aggressivi.

Dei 555 gruppi di gemelli partecipanti allo studio, 223 sono monozigoti e 332 eterozigoti. Questa duplice tipologia di gruppi di gemelli ha permesso di determinare se le differenze individuali osservate fossero dovute a fattori genetici o ambientali.
I comportamenti aggressivi sono stati valutati e documentati dagli insegnanti dei bambini all’età di 6,7,9, 10 e 12 anni.

I risultati ottenuti mostrano l’importanza di sviluppare diversi metodi di prevenzione dell’ aggressività proattiva e reattiva, in particolare offrendo sostegno alle famiglie e fornendo interventi nelle scuole.

Il ricercatore Paquin ha, inoltre, aggiunto “I nostri risultati confermano anche quelli di altri studi, dimostrando che i programmi progettati per prevenire l’aggressività reattiva dovrebbero concentrarsi sulla riduzione delle esperienze di vittimizzazione, mentre quelli destinati a contrastare l’aggressività proattiva dovrebbero essere basati sullo sviluppo di valori pro-sociali“.

Resilienza: l’elisir di “buona” vita

In ambito psicologico, il termine “resilienza” viene utilizzato per indicare la capacità di far fronte ad eventi traumatici o situazioni stressanti, riducendone i possibili effetti collaterali.

Asia Calderini, Federica Parisi, Giulia Lelli

 

Ogni bambino è unico, così come è unica la sua risposta ad esperienze avverse (ACE Adverse Childhood Experience): mentre alcuni sembrano adattarsi perfettamente a esse, altri non riescono ad affrontarle e superarle, con conseguenze negative sul piano psicologico e comportamentale. Tale variabilità può essere spiegata dalla peculiare resilienza che caratterizza ogni singolo individuo.

In ambito psicologico, il termine “resilienza” viene utilizzato per indicare la capacità di far fronte ad eventi traumatici o situazioni stressanti, riducendone i possibili effetti collaterali.

Le solide basi della resilienza

Le principali risorse che sembrano giocare un ruolo di primo ordine nello sviluppo di questo processo protettivo possono essere raggruppate in due domini:

1. Caratteristiche individuali interne del bambino:
Autostima, auto-efficacia, self-regulation (ovvero la capacità di regolare o controllare le risposte sia emozionali che comportamentali), temperamento, abilità cognitive e intelligenza. In particolare, l’easy temperament (caratterizzato da adattamento alle nuove esperienze e situazioni, stato d’animo tendenzialmente positivo, espressione graduale delle emozioni e schemi ripetitivi nella routine) contribuisce ad uno sviluppo positivo, suscitando negli altri maggior grado di attenzione, supporto e incoraggiamento, e permette di gestire con più facilità gli eventi stressanti attraverso la messa in atto di strategie di coping più flessibili (Hornor, 2017; Sattler & Font, 2017; Traub & Boynton-Jarrett, 2017).

2. Caratteristiche della famiglia e della relazione genitore-figlio:
Interazioni familiari supportive, responsive e accoglienti, che si basano su frequenti manifestazioni d’affetto, incoraggiamento, aiuto e approvazione, mitigano gli effetti negativi dello stress, favorendo un tono dell’umore più elevato e di conseguenza un maggior numero di interazioni sociali positive; infatti, un attaccamento sicuro promuove le capacità adattive del bambino in seguito ad un’esperienza negativa subita durante la prima infanzia. Inoltre, anche uno stile di parenting autorevole, caratterizzato da supporto emotivo, chiare regole comportamentali e comunicazione bidirezionale, stimola lo sviluppo della resilienza nel bambino. (Bai & Repetti, 2015; Hornor, 2017; Traub & Boynton-Jarrett, 2017).

In aggiunta, uno stile genitoriale accogliente e attento ai bisogni del bambino può contribuire a uno sviluppo ottimale dell’asse HPA (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) che permette una risposta funzionale agli eventi stressanti esterni, agendo sui livelli del cortisolo. Interazioni familiari caratterizzate da supporto genitoriale, coinvolgimento emotivo, clima di accettazione e alti livelli di monitoraggio da parte del caregiver, favoriscono nel bambino alte concentrazioni di cortisolo durante la mattina e un declino più rapido dei suoi livelli durante l’arco della giornata; tale ritmo giornaliero riflette un buon funzionamento del sistema HPA. Dal momento che il cortisolo è implicato in un’ampia gamma di sistemi fisiologici umani, in particolare nella risposta allo stress, la disregolazione dell’attività dell’asse HPA è associata a numerose problematiche fisiche e mentali. Quindi, la normale secrezione di cortisolo può costituire un fattore di resilienza, mentre la disregolazione dell’asse HPA può segnalare una diminuita capacità di far fronte agli effetti nocivi delle avversità. Tutto ciò non solo in un’ottica a breve termine di risposta immediata ad uno stress, ma anche a lungo termine. Infatti, le interazioni familiari positive facilitano nel bambino risposte immediate di tipo adattivo a eventi stressanti e quest’ultime, a lungo termine, promuovono lo sviluppo di risorse interne, come la propensione ad esperire emozioni positive e il buon funzionamento del sistema HPA, che incrementano la resilienza. Quest’ultima può mitigare gli effetti delle esperienze negative precoci che possono alterare l’attività dell’asse HPA, influenzando il normale sviluppo dei circuiti cerebrali legati alla regolazione delle emozioni e del comportamento, minacciando la salute mentale e fisica del soggetto (Bai & Repetti, 2015).

Cosa predice la resilienza in età adulta?

Eventi stressanti di entità moderata come divorzio o separazione dei genitori, lutti in famiglia e cambi frequenti di abitazione e di scuola, sono associati ad alti livelli di resilienza in età adulta; al contrario, l’aver fronteggiato un elevato numero di malattie gravi durante l’infanzia predice una più bassa resilienza, poiché innesca nel soggetto la sensazione di vulnerabilità e suscettibilità sia ad altre malattie che ad altri eventi stressanti di vario genere (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh 2016).

Sviluppare un’elevata resilienza è funzionale per l’individuo in quanto in età adulta appare correlata a maggiore salute fisica e mentale, longevità, percezione soggettiva di benessere più elevata, minori livelli di ansia e depressione e vissuti di solitudine (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh 2016).

Quando lo stress può essere considerato “positivo”

Esperire stress ha effetti positivi quando promuove nel soggetto strategie di coping adattive ed è affiancato da un buon supporto sociale. In tali casi, infatti, fronteggiare uno stress promuove capacità di adattamento che permettono di imparare a gestire i successivi eventi negativi con una maggiore probabilità di successo (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh, 2016; Hornor, 2017).

Contrariamente a quanto si possa pensare, non è tanto la gravità del singolo evento stressante a determinare la portata delle conseguenze negative, quanto il suo protrarsi nel tempo (cronicità) e l’eventuale concomitanza con altri eventi stressanti minori (effetto cumulativo). Tuttavia, esperire stress durante l’infanzia può contribuire a formare la propria resilienza, riducendo il rischio di innescare risposte disfunzionali e disadattive di fronte agli stressor in età adulta (ipotesi dell’inoculazione) (Harris, Brett, Starr, Deary & McIntosh, 2016; Hornor, 2017).

La promozione della resilienza

Promuovere la resilienza è un problema complesso che prevede interventi sia a macro- che a micro-livello. Gli interventi di macro-livello sono incentrati nell’ambito politico, economico e sociale per creare ambienti, atteggiamenti e comportamenti comunitari sicuri, di supporto e sani; essi forniscono la base per gli interventi di micro-livello rivolti alla comunità, alla famiglia e all’individuo (ad esempio, interventi di prevenzione primaria rispetto a esperienze infantili negative). Gli interventi di micro-livello, invece, si propongono di migliorare la cultura, le attitudini e le relazioni nelle comunità, scuole, gruppi di pari e famiglie concentrandosi sulla costruzione di abilità comunicative e valori che promuovono processi di sviluppo positivi. Questi interventi sono spesso rivolti alla sfera relazionale del bambino (ad esempio, rafforzare i rapporti con genitori, fratelli e altri parenti e gruppo dei pari) (Hornor, 2017).

Autostima e Ansia Sociale non hanno Orientamento Sessuale

La non completa accettazione da parte della società di un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale può influenzare i livelli di autostima e ansia sociale in un individuo?

Alessia Caltagirone, Chiara A. Di Lascio, Sarah Ghezzi

 

Introduzione

La domanda di ricerca è nata da una riflessione personale sul fatto che, nella società attuale, un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale non sia del tutto accettato e che questo possa portare a una mancata affermazione per l’identità di un individuo. Si è scelto di indagare i livelli di due costrutti quali autostima e ansia sociale e confrontarli all’interno dei due orientamenti sessuali presi in considerazione: omosessuale ed eterosessuale.

L’Identità: un concetto biologico, psicologico e sociale

Lo psicoanalista Erik Erikson ha apportato un grande contributo alla definizione del costrutto di identità, della quale, ogni individuo, è in continua ricerca. Erikson è il primo ad usare l’espressione “identità dell’Io” (Ego Identity), che distingue da “identità personale”. L’autore ci parla del sentimento cosciente di avere un’identità personale che si basa su due osservazioni simultanee: la prima, la percezione dell’essere se stessi e della continuità della propria esistenza nel tempo e nello spazio; la seconda invece, la percezione che gli altri riconoscano il nostro essere noi stessi e la nostra continuità. Per “identità dell’Io”, l’autore sostiene che questa non riguardi il mero atto dell’esistenza, ma la qualità dell’esistenza stessa (Ego quality of existence). Sulla base di queste affermazioni, Erikson giunge a definire il costrutto di identità come un fenomeno psicosociale articolato, staccandosi da quella che è la tradizione freudiana ortodossa che enfatizza la rilevanza della dotazione biologica individuale per lo sviluppo della persona. L’identità viene dunque concettualizzata e definita dall’autore, in modo interdisciplinare: la dotazione biologica, l’esperienza personale e l’ambiente culturale contribuiscono, insieme, a dare significato, forma e continuità all’esistenza unica di ciascuno (Kroger, 2004).

Orientamento, Ansia Sociale e Autostima

Uno degli aspetti peculiari presi in considerazione dalla nostra ricerca, che rimanda al senso d’ identità di una persona, è l’ orientamento sessuale. Secondo la definizione dell’American Psychological Association, questo si riferisce a un modello duraturo di attrazione di carattere emotivo, romantico e/o sessuale per uomini, donne o entrambi i sessi. Oltre che al senso di identità abbiamo anche un rimando all’adesione a una comunità di individui che condividono determinate disposizioni.

Caratteristica del disturbo di ansia sociale è la paura marcata e persistente di una situazione sociale, prevista o da affrontare, in cui si è esposti al giudizio degli altri. Secondo il DSM-5:

Nel disturbo d’ansia sociale (fobia sociale) l’individuo ha paura o è ansioso, oppure evita le interazioni sociali e le situazioni che coinvolgono la possibilità di essere esaminato. (…) L’ideazione cognitiva è di essere valutato negativamente dagli altri, essere imbarazzato, umiliato o rifiutato, oppure offendere gli altri (APA, 2014).

Alla base dell’ ansia sociale c’è una scarsa autostima (van Tuijl et al., 2014), la quale può essere definita come “insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994). Vi sono tre elementi fondamentali che ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima quali: la presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto-osservarsi e quindi di auto conoscersi; l’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di sé stessi; l’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi (Bascelli, 2008).

La scelta di questi due specifici costrutti psicologici è nata da una riflessione personale sul fatto che, nella società attuale, un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale non sia del tutto accettato e che questo possa portare a una mancata affermazione per l’identità di un individuo. Questo studio ha esaminato il grado dei costrutti sopracitati dei partecipanti, 57 soggetti divisi in due gruppi a seconda del rispettivo orientamento sessuale: omosessuale o eterosessuale.

La ricerca ha inoltre approfondito le differenze dei livelli dei costrutti sia tra le classi di genere, nei rispettivi orientamenti sessuali, sia prendendo in esame la variabile “coming out” all’interno della popolazione omosessuale. Ai volontari è stato chiesto di compilare un’anagrafica costruita ad hoc per la raccolta dei dati personali e dei test specifici, uno per la misurazione dell’ ansia sociale e uno per l’ autostima.

Risultati e Futuri Sviluppi

Utilizzando i dati ottenuti, sono state svolte delle analisi dalle quali è emerso che non sono riscontrabili differenze significative dei livelli dei costrutti all’interno dei due gruppi, sia prendendo in considerazione il genere sia il grado di relazione con le persone con cui è stato fatto il coming out.

In questo studio sono presenti dei limiti riguardanti il campionamento (di convenienza) e l’età dei soggetti.

In particolare, il tipo di campionamento da noi utilizzato ha garantito la sicurezza di trovare soggetti con orientamento sessuale di tipo omosessuale dichiarato e questa caratteristica non ha permesso di poter approfondire adeguatamente l’aspetto del coming out.

Sempre per quanto riguarda il campionamento, anche l’area geografica può essere considerata un limite, dato che la maggior parte dei soggetti attualmente abita in grandi città nelle quali si presuppone ci sia un maggior livello di accettazione nei confronti dell’omosessualità.

Infine, un altro limite riguarda l’età, in quanto per motivi consensuali sono stati presi in considerazione solo soggetti maggiorenni. L’ identità, infatti, inizia a strutturarsi in adolescenza e l’ orientamento sessuale, che ne costituisce una parte, potrebbe risultare un elemento di difficoltà per il soggetto tanto da incidere sui suoi livelli di autostima e ansia sociale. In età adulta, invece, l’ identità è maggiormente strutturata e il proprio orientamento sessuale potrebbe gravare meno sui livelli dei due costrutti.

Per questi aspetti sarebbe interessante poter replicare lo studio su un gruppo di provenienza geografica più estesa e di più giovane età, indagando se in adolescenza l’ orientamento sessuale correla con maggiore o minore livello di autostima e ansia sociale.

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Lo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione

Un recente editoriale di un numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders (IJED) ha raccolto e reso disponibili ai lettori alcuni articoli recenti per fare il punto sullo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED).

 

Introduzione

Un recente editoriale di un numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders (IJED) pubblicato in occasione della 51a Convention Annuale dell’Association for Behavioral and Cognitive Therapies (ABCT) ha raccolto e reso disponibili ai lettori alcuni articoli recenti per fare il punto sullo stato attuale della terapia cognitivo comportamentale per i disturbi dell’alimentazione (CBT-ED). Qui di seguito riportiamo una sintesi dei principali punti affrontati da questo importante editoriale per farli conoscere ai clinici e ai pazienti italiani.

Perché è il momento giusto per considerare l’evidenza della CBT-ED

Nel 2017 il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) del Regno Unito ha pubblicato le nuove linee guida per i disturbi dell’alimentazione, in sostituzione delle precedenti indicazioni del 2004. Le NICE, che riflettono le nuove evidenze sostanziali emerse nel decennio precedente, si sono concentrate sui risultati di studi clinici controllati, ma hanno anche considerato l’esperienza degli utenti, dei familiari, dei ricercatori e dei medici.

Secondo gli editorialisti dell’IJED dalle linee guida NICE emergono due risultati fondamentali. Il primo è l’uso del nuovo termine “CBT-ED” che comprende le diverse forme di CBT basate sull’evidenza per i disturbi dell’alimentazione. Questo termine è stato usato per includere tutte le forme di CBT basate sull’evidenza (ma non tutte le forme di CBT), perché non vi c’è alcuna chiara evidenza che “brand” specifici della CBT basata sull’evidenza siano migliori di altri.

Il secondo risultato rilevante è che la CBT-ED è stata indicata dalle NICE come l’unico approccio raccomandato per la maggior parte dei casi adulti (cioè il gruppo non sottopeso), oltre ad aver dimostrato di essere un’opzione praticabile per il trattamento degli adulti sottopeso. Inoltre, la versione della CBT-ED per gli adolescenti, sviluppata dal gruppo di Villa Garda (Dalle Grave & Cooper, 2016), è stata raccomandata come alternativa al trattamento basato sulla famiglia. Gli editorialisti dell’IJED concludono che la CBT-ED è passata davanti a molte altre terapie ed è diventata un chiaro trattamento di scelta. Ora, affermano gli editorialisti, è il momento di implementare questa conoscenza.

Il contenuto del numero virtuale dell’International Journal of Eating Disorders

La CBT-ED funziona?

Partendo dall’evidenza che la CBT sia un trattamento efficace, la revisione sistematica di Hay (2013) fornisce una base chiara per concludere che la CBT-ED è un approccio efficace per trattare i disturbi dell’alimentazione in età adulta, come è stato concluso dalle NICE in modo ancora più fermo. Tuttavia, la revisione indica anche le direzioni che la ricerca futura dovrà affrontare e la necessità di migliorare la nostra comprensione su come affrontare la gestione del peso nei pazienti che hanno l’obesità in comorbilità con il disturbo dell’alimentazione.

Possiamo permetterci la CBT-ED?

Un aspetto che le NICE tengono in grande considerazione è il rapporto costo-efficacia, perché la terapia perfetta non è di grande aiuto se ha un costo che non può essere accessibile ai pazienti. Fortunatamente, il recente lavoro di Le, Hay, Wade, Touyz e Mihalopoulos (in press) affronta proprio questo punto, dimostrando che la CBT-ED è un trattamento economico per molti dei nostri pazienti. Sembra anche possibile ottenere buoni risultati con la CBT-ED somministrata in gruppo (Jones & Clausen, 2013; Wade, Byrne, & Allen, 2017). Infine, sempre con gli interventi a basso costo in mente, Chithambo e Huey (2017) hanno dimostrato la potenzialità della CBT-ED come strumento di prevenzione, fornendo risultati confrontabili con quelli degli interventi basati sulla dissonanza cognitiva.

Efficacia del mondo reale

Naturalmente, una domanda cruciale è: “Ma funziona nel mondo reale?” La revisione sistematica di Hay (2013) ha infatti considerato le prove basate su una serie di studi randomizzati controllati (RCT) eseguiti in setting di ricerca. Fortunatamente esistono prove che si possa utilizzare la CBT-ED nella nostra pratica clinica quotidiana ottenendo risultati molto simili a quelli degli RCT. Ciò è stato dimostrato da due lavori selezionati dal numero virtuale dell’IJED che hanno valutato la CBT-ED applicata nei servizi specialistico dei disturbi dell’alimentazione di Villa Garda (Calugi et al., 2016) e di un centro inglese (Waller et al., 2014).

Un’altra domanda da affrontare è: “La CBT-ED è troppo ristretta nel suo focus perché non affronta la gamma più ampia di problemi psicologici che i nostri pazienti sperimentano?”. Anche in questo caso alcuni lavori citati nel numero virtuale mostrano che la CBT-ED ha effetti molto ampi perché, oltre a migliorare la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, riduce l’ansia, la depressione e altre problematiche psicologiche. Inoltre la CBT-ED sembra avere un impatto positivo sulla qualità della vita maggiore di molte altre terapie (Linardon e Brennan, 2017).

Come funziona la CBT-ED?

Quando si implementa una terapia per i disturbi dell’alimentazione è importante essere consapevoli del suo meccanismo d’azione e di cosa funziona. Diversi lavori nel numero virtuale dell’IJED hanno affrontano questo punto fondamentale. Ad esempio, è accertato che l’esposizione più prevenzione della risposta è uno strumento chiave quando si tratta l’anoressia nervosa e l’immagine corporea negativa, come riportato da Steinglass et al. (2014) e da Trottier, Carter, MacDonald, McFarlane e Olmsted (2015), rispettivamente. Questa, inoltre, sembra poter essere applicata in modo più ampio ed efficace se si utilizzano le sue forme più contemporanee della tecnica terapeutica, come riportato dall’articolo di Reilly, Anderson, Gorrell, Schaumberg e Anderson (2017).

Un altro aspetto da tenere in considerazione sono i tempi del cambiamento. Molti terapeuti tendono a prendersela comoda all’inizio, cercando di educare il paziente sul suo disturbo e sul trattamento. Il lavoro di Raykos, Watson, Fursland, Byrne e Nathan (2013) dimostra però che il cambiamento precoce nella CBT-ED ha un impatto clinico sostanziale, una scoperta che è stata ampiamente replicata in altri centri e con altre terapie (Linardon, Brennan e de la Piedad Garcia, 2016; Vall & Wade, 2015). Questi dati indicano che la CBT-ED dovrebbe essere applicata in modo intensivo sin dall’inizio, poiché il cambiamento dopo 4-5 settimane di terapia è un fattore predittivo di esito.

Il cambiamento precoce dei sintomi ha un altro impatto, ma diverso nella CBT-ED rispetto ad altre terapie. Graves et al. (2017) hanno dimostrato, per esempio, che l’assunzione molto in voga tra i clinici secondo cui l’alleanza terapeutica precoce guidi il cambiamento terapeutico nei disturbi dell’alimentazione potrebbe essere vera per altre terapie, ma non lo è per la CBT-ED. In quest’ultima terapia, infatti, l’elemento precoce più efficace sembra essere il cambiamento precoce dei sintomi, che a sua volta si traduce nello sviluppo di una migliore alleanza terapeutica.

Conclusioni

Gli editorialisti concludono focalizzando l’attenzione dei lettori sull’origine internazionali degli articoli inclusi nel numero virtuale dell’IJED che riflettono lo stato della nostra scienza clinica sullo stato della CBT-ED. Gli articoli infatti sono il frutto del lavoro di equipe di ricerca che provengono dall’Australia, dal Canada, dalla Danimarca, dall’Italia, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti d’America. Anche se questa non è stata una scelta strategica, gli editorialisti si augurano che i lettori condividano la loro opinione che questo numero virtuale dell’IJED rifletta la vera natura internazionale del giornale.

Gli articoli del numero virtuale dell’IJED si possono scaricare cliccando qui.

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