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L’obesità aumenta il rischio di demenza

Le persone con un indice di massa corporea elevato (BMI), hanno maggiori probabilità di sviluppare demenza in età senile rispetto a quelle normopeso. Questa relazione è stata studiata in una ricerca, pubblicata sulla rivista Alzheimer & Demenza, che ha analizzato i dati di 1,3 milioni di adulti che vivono negli Stati Uniti e in Europa. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che le persone che si avvicinano all’età di insorgenza della demenza perdono peso; infatti, nel momento in cui viene diagnosticata la demenza i pazienti hanno un peso inferiore rispetto ai coetanei che non hanno demenza.

 

La relazione tra il BMI e il rischio di demenza

La correlazione tra BMI (indice di massa corporea) e rischio di insorgenza di demenza osservata in studi longitudinali sulla popolazione è attribuibile a due processi”, ha detto l’autore principale dello studio, il professor Mika Kivimäki. “Il primo processo è relativo all’effetto negativo del grasso corporeo in eccesso correlato rispetto al rischio di demenza, l’altro riguarda la perdita di peso dovuta alla demenza preclinica, per cui le persone che sviluppano demenza possono avere un BMI superiore alla media circa 20 anni prima dell’insorgenza, ma quando si avvicinano alla demenza hanno un indice di massa corporea più basso rispetto ai soggetti sani.

Ricerche precedenti su come il BMI di una persona possa incidere sulla probabilità di esordio della demenza in età avanzata hanno dato risultati contrastanti. Alcuni risultati hanno suggerito che l’obesità sia associata a un maggiore rischio di sviluppare demenza in età senile, mentre altri studi hanno riscontrato una correlazione inversa tra rischio di demenza e indice BMI.

In questo nuovo studio, i ricercatori europei hanno analizzato i dati relativi a 39 studi effettuati sulla popolazione per un totale di 1.348.857 adulti.
I soggetti che hanno partecipato non presentavano demenza al momento dell’assessment ed è stato misurato il loro indice di massa corporea. In seguito, negli anni successivi i partecipanti sono stati valutati in relazione all’esordio di demenza.
Sul totale dei soggetti valutati, circa 6.800 partecipanti hanno sviluppato demenza dopo 38 anni dal primo incontro di assessment del BMI.
Dati dati è emerso che i soggetti con diagnosi di demenza presentavano due decenni prima un BMI elevato e maggiore rispetto ai soggetti rimasti sani (a cui a distanza di anni non è stata diagnosticata alcuna forma di demenza).

Nel 2015 il numero di persone con demenza ha raggiunto quasi 45 milioni, due volte superiore al 1990. Questo studio suggerisce che una corretta regolazione del peso corporeo, potrebbe prevenire o almeno ritardare l’insorgenza della demenza.

Bambini e scuola: a Palermo un convegno di studi su DSA, bullismo e affidamento familiare

La scuola come agenzia educativa che forma l’uomo e il cittadino di domani è chiamata a sfidare le problematiche evolutive che ogni bambino porta con sé. Questa la cornice teorica del Convegno “Il bambino a scuola. Problematiche evolutive e programmi di intervento in chiave psicoeducativa” svoltosi a Palermo lo scorso 23 Novembre.

 

L’ingresso nel mondo della scuola rappresenta un momento fondamentale per un bambino che voglia sperimentare un ambiente idoneo al suo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.

Ecco che la scuola come agenzia educativa che forma l’uomo e il cittadino di domani è chiamata a sfidare le problematiche evolutive che ogni bambino porta con sé o che è passibile di sviluppare nei contesti di vita, e che si riferiscono sia al versante cognitivo-emotivo che socio-culturale.

Questa la cornice teorica del Convegno “Il bambino a scuola. Problematiche evolutive e programmi di intervento in chiave psicoeducativa” svoltosi a Palermo lo scorso 23 Novembre, e organizzato dallo Studio di Psicoterapia della Dottoressa Angela Ganci, con il patrocinio di vari Enti e Associazioni, tra cui l’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e il Comune di Palermo.

Capofila degli interventi, il trattamento psicoterapeutico dell’autismo, analizzato secondo i principi a fondamento della terapia cognitivo-comportamentale.

L’intervento comportamentale precoce di Lovaas per l’ autismo prevede uno specifico programma di trattamento. Il metodo Lovaas viene svolto dapprima a casa, con il supporto di educatori, quindi a scuola e prevede la progressiva acquisizione di abilità in una varietà di domini, dalla cura e igiene personale all’identificazione delle emozioni fino alla gestione di situazioni di vita comune, come andare al ristorante. Il bambino viene stimolato alla produzione di specifici comportamenti, come esprimere o riconoscere correttamente la paura, e rinforzato gradualmente attraverso la presentazione di stimoli graditi, come le caramelle, al fine di consolidare l’emissione della competenza richiesta – spiega Angela Ganci, psicoterapeuta e organizzatrice dell’evento.

In linea di continuità con le disabilità in età evolutiva, i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), nel loro caratterizzarsi come disturbi del neurosviluppo, richiedono attenzione da parte di scuola, famiglia e società, attraverso la predisposizione di precisi ausili didattico-formativi.

I DSA, in quanto disturbi del neurosviluppo che compromettono la capacità di letto scrittura e di calcolo, e in linea con l’attivazione di una didattica personalizzata sulle esigenze del singolo studente, necessitano di strumenti specifici indicati dalla legge 8 ottobre 2010, n. 170 – dice Letizia Puccio, psicologo psicoterapeuta – Tali strumenti da un lato sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria, come la calcolatrice per la discalculia o il libro digitale per la dislessia, e dall’altro consentono allo studente di non svolgere le attività che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose, come l’essere dispensati dalla prova scritta di inglese. Misure compensative e dispensative oggi costituiscono strumenti insostituibili per una didattica efficace e un’integrazione reale dei bambini con DSA.

La scuola come accoglienza della diversità psichica, ma altresì come luogo di contrasto di dinamiche psicosociali abnormi e lesive dello sviluppo, come nel caso del bullismo.

Il bullismo è caratterizzato da atti di violenza continuativa e può esprimersi attraverso diverse modalità, dal picchiare all’escludere dal gruppo – precisa Marilena Pipitone, psicologa psicoterapeuta – Alla base di tale comportamento vi è l’immagine di un altro debole in quanto diverso, quindi facile oggetto di molestie. Gli interventi educativi mirano tutti a promuovere nel bullo il rispetto dell’altro, attraverso tecniche di educazione comportamentale, e nella vittima la consapevolezza della tendenza a colpevolizzarsi di quei tratti, fisici o di personalità, bersaglio del bullo, promuovendo un innalzamento dell’autostima che contrasti questa tendenza.

Oggi la scuola ha un compito importante a livello educativo: secondo quanto previsto dalla legge 29 maggio 2017 n. 71, in ogni istituto scolastico, è previsto un docente con funzioni di referente per le iniziative contro il cyberbullismo, che dovrà collaborare con le Forze di polizia, e con le associazioni presenti sul territorio. Inoltre, i docenti sono chiamati ad avviare percorsi di educazione socio-affettiva che contrastino l’azione della violenza sui più deboli e programmi di informazione sull’uso consapevole della rete – continua Antonino Leonardi, pedagogista.

E ancora la scuola come contesto di valorizzazione delle differenze culturali e religiose.

Tali differenze, qualora non accettate, innescano dinamiche di violenza e razzismo.

Bisogna dunque vedere la scuola nell’ottica di un agente che favorisce lo sviluppo di una spiritualità che diventa momento di aggregazione e cooperazione morale, umana, universale.

La spiritualità intesa come il sentire una connessione con se stessi, con gli altri e con l’universo è la sfida della moderna scuola inclusiva precisa Nicolò Maria Iannello, dottore di ricerca in scienze psicologiche e sociali – Essa si fonda sull’accoglienza delle diversità attraverso un confronto aperto con le altre culture e religioni, si riferisce a obiettivi universali al genere umano, trasversali alle diverse fedi religiose, ovvero il desiderio di pace, di giustizia e di felicità, e favorisce lo sviluppo dell’abilità nota come empatia etnoculurale, che riduce i motivi di conflitto derivanti dalle differenze non accettate e diviene occasione di arricchimento reciproco e di contrasto del pregiudizio.

Bambini fragili, bisognosi di attenzione e valorizzazione, di confronto, scambio e crescita, come quelli sottoposti ad affidamento eterofamiliare, spesso portatori di problematiche di abuso o trascuratezza da parte della famiglia di origine.

I bambini in affidamento presso le nostre famiglie portano tutti un disagio evidente che deriva dalla loro condizione familiare di partenza, deficitaria sotto vari punti di vista, in particolare dell’accudimento genitoriale – spiega Marinella Governale, insegnante e consigliera dell’Associazione Famiglie Affidatarie Palermo (AFAP) – per cui la scuola deve dedicare a loro un occhio di riguardo. Già nella famiglia affidataria il bambino può sperimentare situazioni di accudimento migliore, ma certamente la scuola è un luogo privilegiato poiché il bambino vi trascorre buona parte della giornata. Sono due gli errori che la scuola oggi compie: il primo di non dare adeguata attenzione ad alcuni periodi di fragilità del bambino, come quando questi vive un periodo di brusco allontanamento dalla famiglia di origine, il secondo di giustificarlo sempre e comunque alla luce della sua condizione di affidato. Per educare questi bambini tutti gli attori dell’affido dovrebbero collaborare, nel rispetto delle decisioni di questi ultimi: nei casi in cui i bambini affidati non vogliano far conoscere la propria condizione di affidati al gruppo classe, i docenti devono rispettare tale scelta.

Un bambino gravato dal peso di disagi di natura ora individuale ora socio-culturale, ma comunque in grado, in virtù della naturale plasticità del cervello in formazione, di rapidi apprendimenti, qualora sostenuto da una scuola attenta ai suoi bisogni di espressione emotiva e cognitiva. Un messaggio forte, attuale, che la scuola inclusiva non può non cogliere, ponendo il bambino al centro di una pedagogia dell’accoglienza, del rispetto e della promozione delle competenze di uomo e cittadino futuro.

L’approccio cognitivo post razionalista per il trattamento dei problemi emotivi in ambito lavorativo

Nel presente articolo vorrei illustrare, attraverso l’esemplificazione di due casi clinici, l’applicazione dell’ approccio post-razionalista alla gestione di problemi lavorativi (come trasferimenti, mancate promozioni, avanzamenti di carriera, sviluppo dell’attività, eccetera).

 

Approccio post-razionalista e problemi lavorativi

Nel primo caso clinico la richiesta di una consulenza psicoterapeutica è stata motivata da uno stato di ansia insorto nel contesto lavorativo; mentre nel secondo caso il tema del lavoro non fa parte della presentazione iniziale del problema, ma di una riformulazione successiva.
Entrambi i pazienti sembrano presentare un’Organizzazione di Significato Personale (OSP) del tipo Disturbi Alimentari Psicogeni (DAP). Infatti i temi descritti dai pazienti sono quelli che caratterizzano più di frequente i soggetti con un’attitudine verso di sé di tipo Outward e Field-dependent, una combinazione appunto specifica dell’OSP DAP (Guidano, 2010).

I principali costrutti dell’ approccio post-razionalista di Guidano

Prima di passare all’esposizione dei casi, qualche breve cenno ad alcuni costrutti dell’ approccio post-razionalista cui si è fatto riferimento.
E’ in genere peculiare di un’OSP DAP una storia di sviluppo che comporta una scarsa differenziazione Sé/non-Sé. Scrive Guidano:
L’esperienza immediata, pertanto, può essere ricostruita e autoriferita nella misura in cui i suoi pattern di modulazione emotiva corrispondono alle aspettative percepite negli altri. In altre parole, il soggetto è «legato a criteri esterni» e si definisce attraverso i comportamenti e gli atteggiamenti degli altri significativi, come se questi fossero uno specchio. Questo stato di cose, mentre determina un’ipersensibilità al giudizio degli altri di assoluto rilievo, fa anche sì che gli altri non siano mai visti «in sé stessi», ma solo come conferme o disconferme del senso di sé in corso, con il risultato di essere sempre ingigantiti in modo positivo o negativo.” (Guidano, 1992).

Nel 1999 l’ approccio post-razionalista viene arricchito con due dimensioni psicologiche che permettono un’articolazione maggiore delle quattro OSP: la inwardness/outwardness e la field-dependence/field-independence (Guidano, 2010).

La prima dimensione si riferisce al rapporto che il soggetto ha con se stesso. I soggetti outward definiscono ‘l’interno’ ricavandolo “dall’esterno”. In particolare i soggetti con OSP DAP per stabilizzare l’interno cercano di corrispondere alle aspettative degli altri. La seconda invece fa riferimento al rapporto che il soggetto ha con gli altri: in particolare i soggetti field-dependent sarebbero più attenti alla relazione interpersonale e valutano il contesto momento per momento.

Entrambe le dimensioni dell’ approccio post-razionalista, come anche l’OSP nel suo complesso, si vanno a delineare e combinare tra loro all’interno dei primi legami di attaccamento con le figure significative.

Primo caso di problemi lavorativi: ansia da incarico di maggiore responsabilità e senso di inadeguatezza

Il primo caso è un giovane di 27 anni, laureato in economia e commercio, che sta progredendo rapidamente nella carriera manageriale. Dopo aver effettuato un brillante percorso universitario ha iniziato da subito a lavorare presso una società multinazionale. Mi consulta per un problema di ansia intensa e disturbi del sonno che ritiene siano dovuti al lavoro e specificamente ad alcuni aspetti del marketing che non condivide. Quando lo vedo la prima volta sta valutando l’ipotesi di dare le dimissioni perché lo stato di agitazione sta diventando intollerabile.

Al fine di comprendere meglio cosa sta accadendo andiamo a ricostruire l’andamento dell’ansia e in che momento si è manifestata: emerge così che di recente si è creata la prospettiva di un nuovo incarico di maggiore responsabilità. Progressivamente mettiamo a fuoco come questa eventualità piuttosto che gratificarlo lo abbia spaventato perché teme di non essere all’altezza della nuova funzione e di deludere le aspettative di coloro che credono nelle sue potenzialità, in particolare il suo diretto superiore.

L’idea di dimettersi dal lavoro è stata abbandonata già dopo le prime sedute, pur persistendo lo stato di ansia anche se meno intenso.
Nell’ottica di rafforzare nel paziente la messa a fuoco del suo punto di vista è stato evidenziato come certe caratteristiche delle sue funzioni, di cui aveva parlato in modo critico nel corso della prima seduta, seppure non sembravano spiegare da sole la sua ansia, non andavano per questo trascurate. Infatti il senso di inadeguatezza e le perplessità circa alcuni aspetti del suo incarico erano ingredienti che potevano coesistere.

E’stata posta attenzione, quindi, a evitare, da una parte, che il tema della ‘inadeguatezza’ finisse per far trascurare aspetti critici nei confronti del lavoro in realtà effettivamente sentiti e, dall’altra, che gli aspetti di insoddisfazione non fungessero da autoinganno, così da ‘coprire’ il ruolo svolto dal timore di esporsi in incarichi di crescente responsabilità.

La terapia si è conclusa quando il paziente è stato in grado di individuare l’ansia che accompagnava alcune situazioni relazionali senza viverla come dubbi circa la sua competenza professionale, sentendosi di conseguenza insicuro. Avendo ormai familiarizzato con il tema del giudizio, che caratterizzava in genere le sue relazioni, è stato in grado di gestire i problemi lavorativi con maggiore consapevolezza delle diverse dinamiche in gioco.

Secondo caso di problemi lavorativi: senso di inadeguatezza sia lavorativo che familiare

Il secondo caso è una avvocatessa di 40 anni che richiede un appuntamento con urgenza perché avverte un’intensa agitazione in seguito a un infarto del marito. E’ molto preoccupata per le condizioni del partner e perché teme di non essere in grado di fronteggiare la situazione. Già nel corso dei primi colloqui emerge come una quota importante della sua apprensione sia legata anche ad aspetti economici. Infatti la paziente ha quasi sempre collaborato con il coniuge – anch’egli avvocato – ed ora si sente persa e disorientata. Teme che il marito, a causa dei problemi di salute, non possa più lavorare o che comunque debba rimanere a riposo per un lungo periodo di tempo. Entrambi sono liberi professionisti e si occupano di consulenze societarie.

Mentre affrontiamo l’apprensione per la salute del marito cominciamo a tracciare brevemente le tappe del loro rapporto di coppia. Emerge che la maggiore età del marito (di alcuni anni) sembra aver contribuito a farle mantenere – e giustificare ai suoi occhi – un atteggiamento prevalentemente remissivo e passivo; modalità che la paziente riconosce subito come una sua caratteristica e che si presenta anche nel contesto lavorativo. Dalla ricostruzione dello stile di collaborazione lavorativa con il coniuge, quindi già prima della malattia di quest’ultimo, emerge come la paziente avvertisse il desiderio di muoversi in modo più autonomo seppure accompagnato dal timore di non avere adeguate capacità e competenze per riuscire. Inoltre si sente frenata dal timore che se si rendesse più indipendente, il marito potrebbe rimanerci male.

L’attenzione della paziente è stata quindi portata in modo più sistematico sulla messa a fuoco del suo senso di inadeguatezza e insicurezza, sia in ambito familiare che professionale. Emerge come i problemi lavorativi siano abitualmente caratterizzati dal timore di commettere errori, di non essere all’altezza dei contesti che di volta in volta si dovessero presentare e di non riuscire a corrispondere alle aspettative dell’altro.

Sia nel rapporto con il marito che con il contesto lavorativo la paziente tende ad anteporre il punto di vista -percepito – dell’altro al proprio, senza lasciarsi il tempo di valutare la situazione. Per esempio, la disapprovazione del marito la porta immediatamente a dubitare della propria posizione.
Esaminando meglio l’andamento delle prospettive lavorative che si erano presentate nel corso degli anni è emerso come la paziente avesse ricevuto delle proposte di consulenza dirette proprio a lei; quindi, se avesse sentito possibile ‘sganciarsi’ dal sistema familiare ormai consolidato, avrebbe potuto già da tempo guadagnarsi una maggiore autonomia.

La messa a fuoco progressiva dei temi emotivi in gioco ha permesso di evidenziare come il timore di escludere il marito potesse anche costituire un modo per evitare di esporsi in prima persona (autoinganno). Infatti se inizialmente la paziente era solita spiegarsi la sua ritrosia a cimentarsi in consulenze a livello individuale come un modo per ‘proteggere’ il partner, progressivamente è riuscita a cogliere come questa modalità le permettesse di evitare di mettersi alla prova; come se così facendo prevenisse il rischio di incorrere in una sorta di possibile/temuto ‘fallimento’.

Durante la psicoterapia fortunatamente si sono presentate delle nuove occasioni professionali. In particolare si è prospettata un’ipotesi di consulenza legale che poteva risultare molto importante per lo sviluppo della carriera della paziente, ma che, proprio perché “se la doveva giocare bene”, inzialmente è stata vissuta con ansia accompagnata da pensieri del tipo ‘sicuramente non andrà in porto’, ‘sceglieranno una altra persona’, eccetera.

L’opportunità della nuova collaborazione lavorativa è stata quindi sfruttata a due livelli. Infatti, mentre la paziente è stata sostenuta e orientata nella costruzione delle relazioni professionali finalizzate a definire l’incarico della consulenza, nello stesso tempo i diversi passaggi ‘critici’ che ha incontrato sono stati utilizzati per mettere a fuoco e articolare ulteriormente i temi personali emersi. In questo modo è stato possibile di volta in volta riformulare e generalizzare le ricostruzioni degli episodi eseguite nell’ ambito lavorativo anche agli altri contesti di vita.

La psicoterapia è stata avviata con la preoccupazione della paziente per i problemi economici e termina in una fase in cui l’incremento dell’attività professionale le rendeva difficile conciliare i diversi impegni. Sentendosi più sicura e riuscita a ‘guardare’ allo stato di salute del marito in modo più ‘obiettivo’ senza caricarlo di ulteriori tensioni e ansie specificamente relazionali.

Riguardo il matrimonio si è aperto un ambito di revisione. La paziente ha compreso degli aspetti di reciprocità con il partner e dovrà provare a costruire una modalità diversa di rapportarsi con quest’ultimo. Il percorso psicoterapeutico si conclude esplicitando che la porta rimane sempre aperta e in qualsiasi momento sentisse l’esigenza di ulteriori approfondimenti sarà possibile farlo.

Conclusioni: il trattamento dei disturbi lavorativi secondo l’ approccio post-razionalista

L’esposizione del trattamento in entrambi i casi è stato focalizzato su problemi lavorativi, ma la terapia è stata estesa anche agli altri ambiti di vita: famiglia, amici, relazione affettiva; facendo cogliere al paziente gli aspetti invarianti così da poter spaziare da un ambito all’altro per meglio cogliere i temi emotivi emergenti come specifici del modo personale di dare significato all’esperienza in corso.

E’ stato possibile effettuare un intervento mirato grazie anche alla possibilità di utilizzare una sorta di ‘griglia’ come quella costituita dai costrutti delle OSP e dalle dimensioni psicologiche della Iwardness/Outwardness e Field-Dependence/Field-Independence dell’ approccio post-razionalista, che ha permesso di inserire problemi lavorativi all’interno di un inquadramento complessivo della struttura di personalità.

Come segnalato, i casi clinici presentati hanno caratteristiche tipicamente legate a un’OSP DAP secondo l’ approccio post-razionalista ma anche individui con altre Organizzazioni di Significato Personale potrebbero andare incontro a problemi lavorativi, presentando però tematiche emotive diverse.

Può essere vantaggioso che i modelli terapeutici riescano a rispondere a emergenze emotive legate ai contesti sociali. In un periodo di crisi economica, come quello attuale, dove sempre più di frequente giovani e meno giovani si trovano a fare i conti con un mercato del lavoro che contrae le offerte, diventa necessario che il soggetto possa sfruttare al meglio le proprie potenzialità e risorse.

Per questo risulta essenziale provare a sgombrare il campo da spiegazioni che possono essere sostenute da una sorta di autoinganno, in quanto sbilanciate a segnalare le caratteristiche negative del contesto (scarse offerte, precarietà, concorrenza, eccetera) senza che venga considerato anche il ruolo del soggetto interessato.

Infatti, diverse forme di disagio personale possono ostacolare la realizzazione di un progetto lavorativo e professionale soddisfacente e finanche l’inserimento nel mondo del lavoro, come, solo per fare alcuni esempi: timore di esporsi, sentimenti di vergogna, timore ad assumersi responsabilità, perfezionismo e meticolosità, paura di sentirsi vincolati, sentimenti di sfiducia e inutilità, eccetera. E’ fondamentale, quindi, portare la persona ad individuare, di volta in volta, entrambe le componenti così da favorire un quadro complessivo della situazione individuale e del contesto, in modo da farle assumere un ruolo più attivo e consapevole.

 

Nota: I casi clinici hanno una funzione esclusivamente esemplificativa/illustrativa e i dati personali sono stati ampiamente modificati e adattati così da non essere in alcun modo riconducibili a fatti e persone concrete.

Il sistema motorio e la corteccia motoria – Introduzione alla Psicologia

La corteccia motoria è quella parte del cervello coinvolta nei processi di pianificazione, controllo e esecuzione dei movimenti volontari del corpo. La corteccia motoria si trova nella parte posteriore del lobo frontale, nella regione caudale della circonvoluzione frontale ascendente, di fronte al solco centrale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il sistema motorio

Il sistema motorio si divide in midollo spinale, sistemi a proiezione discendente del tronco dell’encefalo e le aree motorie della corteccia.
Il sistema motorio presenta un’organizzazione di tipo gerarchica, in cui i livelli inferiori sono in grado di generare movimenti di tipo riflesso senza l’intervento dei sistemi superiori, e parallela, in cui diverse funzioni possono essere controllate in modo relativamente indipendente e le informazioni provenienti da ciascun sistema sono integrate mediante meccanismi a feed-back a feed-forward e adattivi.

Il midollo spinale

Il midollo spinale costituisce il livello più basso dell’organizzazione gerarchica e media le attività motorie stereotipate dei riflessi. I motoneuroni costituiscono la via finale comune che innervano i muscoli scheletrici. I corpi cellulari dei motoneuroni sono disposti nella parte ventrale della sostanza grigia a livello della regione detta corno ventrale. I motoneuroni, che innervano i singoli muscoli, sono disposti nei nuclei motori, detti pool motoneuronali, e formano colonne longitudinali di cellule.

Il tronco dell’encefalo

Il tronco dell’encefalo contiene due sistemi neuronali disposti in parallelo, il sistema mediale e quello laterale i cui assoni proiettano alle reti degli interneuroni e dei motoneuroni del midollo spinale. I sistemi mediali del tronco dell’encefalo svolgono un ruolo importante nel controllo della postura in quanto integrano informazioni visive e vestibolari con le informazioni somatosensoriali. I sistemi laterali controllano i muscoli distali degli arti e sono perciò importanti per l’esecuzione dei movimenti fini diretti ad uno scopo. Inoltre, i nuclei del tronco dell’encefalo controllano i movimenti degli occhi e del capo. Molti gruppi di neuroni del tronco dell’encefalo proiettano alla sostanza grigia del midollo spinale attraverso la via discendente mediale, composta dai tratti vestibolospinali, reticolospinali e tetto-spinali, la via discendente laterale, costituita dal tratto rubrospinale che origina dalla porzione magnocellulare del nucleo rosso del mesencefalo, e la via aminergica, che termina diffusamente su tutto il midollo spinale.

La corteccia motoria

La corteccia motoria è quella parte del cervello coinvolta nei processi di pianificazione, controllo e esecuzione dei movimenti volontari del corpo. La corteccia motoria si trova nella parte posteriore del lobo frontale, nella regione caudale della circonvoluzione frontale ascendente, di fronte al solco centrale.

La corteccia motoria può essere suddivisa in:
Corteccia Motoria Primaria (M1)
La corteccia motoria primaria (M1) controlla direttamente l’esecuzione dei movimenti. L’area M1 corrisponde all’area 4 di Brodmann, giro precentrale nella circonvoluzione frontale ascendente. A livello citoarchitettonico, questa corteccia è divisibile in sei strati, tra cui il quinto strato, chiamato strato piramidale interno poiché contiene i neuroni piramidali giganti, o cellule di Betz, provvisti di un lungo cilindrasse che penetra nella sostanza bianca del midollo spinale e causa la contrazione degli organi effettori. L’area 4 presenta una mappa funzionale, homunculus, ordinata del corpo in cui sono presenti le aree coinvolte nella pianificazione e nell’esecuzione del movimento. Nell’homunculus le diverse aree del corpo sono rappresentate in relazione all’estensione dell’area corticale dedicata e non alle reali dimensioni della parte, dando origine quindi a una rappresentazione distorta in cui le parti deputate all’elaborazione di movimenti complicati e complessi sono maggiormente rappresentate.
In circa la metà dei neuroni dell’area 4 l’attivazione avviene per specifici movimenti, indipendentemente da quali muscoli siano utilizzati. Una frazione minore dei neuroni si attiva invece in modo specifico per i muscoli utilizzati. Quindi, nell’area 4 sono rappresentati sia i movimenti sia, in misura minore, i muscoli. Dunque, i neuroni presenti in questa area cerebrale sono connessi direttamente e in maniera selettiva con l’attività dei motoneuroni del midollo spinale.

Corteccia motoria secondaria (M2) che è a sua volta divisa in:
1) Corteccia premotoria, che è situata lateralmente sulla superficie esterna del lobo frontale, anteriormente all’area M1. Essa organizza il movimento dei muscoli prossimali e del tronco e contribuisce alla creazione di schemi in base alla direzione degli stimoli esterni. La corteccia premotoria agisce sulla M1 o direttamente sugli organi effettori attraverso i motoneuroni; la corteccia premotoria corrisponde all’area 6 di Brodmann, e si trova sulla superficie laterale dell’emisfero cerebrale.
2) Area motoria supplementare, sita sulla faccia mediale del lobo frontale, nel giro del cingolo. Essa presiede la coordinazione e la pianificazione dei movimenti complessi o la coordinazione dei movimenti degli arti distali. L’ area motoria supplementare è localizzata sulla estensione mediale dell’area 6 verso la linea mediana dell’emisfero.

Generalmente, la corteccia premotoria comprende quattro sezioni. Le due aree principali sono la corteccia premotoria superiore (dorsale) e inferiore (ventrale), ognuna di queste aree è poi ulteriormente divisa in una subregione vicina alla parte anteriore del cervello, corteccia premotoria rostrale e una subregione vicina alla parte posteriore del cervello, corteccia premotoria caudale.
La stimolazione dell’area 6 di Brodman induce la contrazione di vari gruppi di muscoli in entrambe le parti del corpo, dimostrando che quest’area è sovraordinata rispetto all’area 4.
L’area 6 di Brodman gioca un ruolo estremamente importante nella pianificazione di sequenze motorie complesse. I neuroni localizzati in queste aree si attivano prima dell’esecuzione di movimenti complessi, mentre l’esecuzione di movimenti semplici non è preceduta da attivazioni dell’area 6 ma solo dell’area 4.

A livello dell’area premotoria sono presenti i neuroni specchio, ossia quei neuroni la cui attivazione avviene quando si esegue un certo atto motorio, o quando si osserva un gesto. I neuroni specchio sono coinvolti nel coglierne le intenzioni e le implicazioni sociali delle azioni, così come nei processi di riconoscimento emotivo e di empatia. Inoltre, essi rivestono un importante ruolo nell’apprendimento per imitazione, in cui grazie all’osservazione, nel cervello si imprimono un repertorio di emozioni e di comportamenti sociali (Gallese, 2003).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Molestie sessuali sul luogo di lavoro: analisi e misure preventive

Il fenomeno delle molestie sessuali sul luogo di lavoro è diventato un problema pervasivo e cronico che causa danni psicologici nelle vittime. Le ricerche sul tema hanno indagato le cause delle molestie sul posto di lavoro e hanno individuato delle strategie per prevenirle o ridurle.

 

Tra i limiti delle ricerche sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro, però, si riscontra la mancata identificazione delle caratteristiche dei molestatori, rendendo difficile il lavoro di prevenzione.

La letteratura evidenzia che le molestie sessuali si rivolgono principalmente alle donne, da parte non solo di chi ha un ruolo lavorativo superiore a loro, ma anche da colleghi, subordinati e clienti.

Un articolo scientifico pubblicato recentemente da Quick e McFadyen (2017) su Journal of Occupational Health Psychology ha analizzato gli studi sulle molestie sessuali condotti negli anni, tentando di individuare aspetti significativi tralasciati dalle indagini. Inoltre, ha considerato fattori contestuali e organizzativi che potrebbero influenzare la probabilità che le molestie si verifichino.

Dai dati emerge che le donne vittime di molestie sessuali sul luogo di lavoro manifestano diverse conseguenze negative: ansia, depressione, disturbi alimentari, stress post-traumatico, abuso di droghe e alcol. Inoltre, nonostante le donne abbiano maggiori probabilità di riportare molestie sessuali, gli studi indicano che anche gli uomini non sono immuni. In particolare, gli uomini nell’esercito hanno una probabilità 10 volte maggiore di subire molestie sessuali rispetto agli uomini civili, anche se l’81% dei molestati non lo denuncia.

Molestie sessuali sul luogo di lavoro: il ruolo dell’organizzazione e dei giochi di potere

Dalla rassegna di ricerche si evince che il fattore predittivo più forte di molestie sessuali sul posto di lavoro è il clima organizzativo e le relative dinamiche di potere. Si tratta, per esempio, di contesti in cui gli uomini sono più numerosi delle donne o i supervisori sono prevalentemente di sesso maschile.

L’analisi del fenomeno ha evidenziato la necessità di un’azione su più fronti per combattere il problema. Il primo passo da compiere è sicuramente l’adozione di politiche proattive che proibiscano le molestie sessuali, sensibilizzando i dipendenti e stabilendo procedure di segnalazione del problema.

A fronte di ciò, si può concludere che negli anni ci sono stati progressi su alcuni fronti ma non su altri e che il problema si è trasformato, diventando più complicato per una serie di motivi. Per quanto riguarda gli sviluppi futuri, dunque, è necessario sapere di più su molestatori, sugli aggressori, sugli abusi e sul ruolo delle dinamiche di potere nel determinare il problema. In questo modo sarebbe possibile sensibilizzare dipendenti e manager per attuare strategie di prevenzione adeguate.

Non è facile essere un Genio: la Plusdotazione è un Bisogno Educativo Speciale?

L’Università di Pavia è attiva dal 2009 in quest’ambito, grazie alle attività di LabTalento, il laboratorio italiano di ricerca e intervento per lo sviluppo del potenziale e della plusdotazione, diretto dalla professoressa Maria Assunta Zanetti per i bambini plusdotati.

L’aumento delle diagnosi dei DSA

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento formidabile delle diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento nei bambini in età scolare.
Il MIUR, in una relazione specifica sul tema e relativa all’anno scolastico 2011/2012, ha registrato un’impennata clamorosa nelle certificazioni di DSA: un aumento del 24% di alunni certificati alla scuola primaria, del 39% alla scuola secondaria di primo grado e del 54% a quella secondaria di secondo grado, percentuali che vanno considerate ancor più significative se si tiene conto del decremento, negli ultimi anni, del numero di bambini iscritti.

A cosa si deve una simile epidemia di discalculie, dislessie, sindromi da iperattività?
Certo, la legge 170 del 2010 sui DSA ha senz’altro dato un impulso decisivo al riconoscimento e alla tutela dei bambini che soffrono di questo tipo di disturbi, ma sembra anche che ci sia un allarme collettivo (e non sempre del tutto motivato) orientato prevalentemente a quello che nei piccoli allievi non funziona come ci si aspetterebbe, al deficit, alle difficoltà, rischiando in tutto questo di perdere di vista le risorse e i talenti individuali dei bambini.
Non a caso e diametralmente opposto alla dimensione dei DSA esiste un altro fenomeno, senz’altro sottostimato e meno conosciuto ma altrettanto gravido di potenziali criticità educative e sociali: quello dei bambini cosiddetti plusdotati.

Le difficoltà dei bambini plusdotati

Ad oggi, in Italia, non esistono standard condivisi per l’individuazione dei bambini ad alto potenziale e nemmeno norme che regolamentino una didattica inclusiva pensata per quei bambini che dimostrano talenti precoci ed eccezionali.
Una serie di miti e pregiudizi sui gifted children farebbe pensare che non abbiano in realtà bisogni educativi speciali; si crede che riescano a fare qualsiasi cosa e ad avere successo senza sforzo, che non abbiano bisogno di aiuto e siano più maturi, responsabili e popolari degli altri bambini della loro età, che grazie alle doti cognitive possano eccellere facilmente in qualunque area della loro vita.

Paradossalmente è spesso vero il contrario: nella maggioranza dei casi i genitori di bambini ad alto potenziale richiedono una consulenza specialistica perché i figli non hanno più voglia di andare a scuola, in classe sono distratti e turbolenti, ricercano continuamente attività alternative e si disinteressano a quelle proposte dagli insegnanti, si annoiano e hanno problemi comportamentali, talvolta vengono derisi e isolati dai compagni.

Tutto questo perché soffrono di quella dissincronia, già discussa da Terrassier, tra lo sviluppo cognitivo e quello emotivo, uno squilibrio che spesso crea disagio e sofferenza e che può sfociare in un paradossale fallimento scolastico proprio dei bambini intellettualmente più dotati e precoci (i cosiddetti gifted underachievers).

Per evitare che il talento vada sprecato risulta quindi opportuno e urgente formulare una procedura di assessment che sia chiara e condivisa, supportata se possibile anche da un inquadramento legislativo com’è stato, appunto, per i DSA; questo affinché le scuole possano poi pensare e proporre adeguate metodologie didattiche a sostegno anche del pieno sviluppo dei giovani talenti.

L’intelligenza è un costrutto piuttosto difficile da misurare, intessuto com’è di elementi cognitivi, emotivi e comportamentali, e ad oggi si fa in genere riferimento al calcolo del quoziente intellettivo ricavabile dalla somministrazione delle scale Wechsler, disponibili anche per i bambini in età prescolare e scolare. Si parla di plusdotazione quando il quoziente di intelligenza è superiore alla media nazionale (da 120 in su) e si stima che i bambini plusdotati siano tra il 5 e l’8% della popolazione scolastica (quindi all’incirca un bambino per classe).

LabTalento: il laboratorio italiano ideato per i bambini plusdotati

L’Università di Pavia è attiva dal 2009 in quest’ambito, grazie alle attività di LabTalento, il laboratorio italiano di ricerca e intervento per lo sviluppo del potenziale e della plusdotazione, diretto dalla professoressa Maria Assunta Zanetti.

Durante il recente seminario internazionale sull’argomento, oltre ad un confronto con alcune realtà straniere che già da anni si occupano di didattica inclusiva a sostegno dei bambini plusdotati, è stato presentato un innovativo modello didattico ideato proprio all’interno del laboratorio pavese e pensato per declinarsi sia in ambito scolastico che extrascolastico: si tratta del progetto STIMA, acronimo delle parole Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica, Arte.

L’idea alla base di questo modello è che sia necessaria una formazione specifica per gli insegnanti e un dialogo sistematico con le famiglie per poter individuare tempestivamente i bambini ad alto potenziale; definire in modo sistematico il livello di ogni singolo alunno dovrebbe consentire l’ingaggio di “docenti di potenziamento” che permettano lo svolgimento di un lavoro differenziato per i bambini sulla base delle rispettive inclinazioni e potenzialità; obiettivo audace se si pensa alle condizioni attuali delle scuole primarie, dove l’insegnamento è prevalentemente frontale e la platea è costituita all’incirca da 30 bambini.

Al progetto “La scuola educa il talento” stanno già partecipando diversi istituti comprensivi pavesi, i cui dirigenti hanno portato la propria testimonianza durante il seminario.

L’idea alla base di questa esperienza pionieristica sarebbe quella di poter stilare e proporre delle buone pratiche, riproducibili poi anche a livello nazionale e, perché no, internazionale.
Questo per scongiurare il rischio di perdere per strada i nuovi talenti, quei bambini geniali che se non riconosciuti e tutelati potrebbero ritrovarsi a sabotare il proprio talento per noia, demotivazione, conformismo, solitudine o (addirittura) vergogna delle proprie capacità.

ADHD negli adulti: cosa ne sappiamo oggi? Diagnosi, valutazione e trattamento di una condizione clinica largamente sottostimata

I clinici sono sempre più convinti che i sintomi dell’ ADHD possano proseguire per l’intero ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta (Brown, 2000). Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre non soltanto una parte dei sintomi tipici del disturbo in età infantile tendono a riproporsi, ma nuovi tratti fanno la loro comparsa e vanno a caratterizzare l’ ADHD nell’ adulto, che risulta associata ad una costellazione variegata di problemi psico-sociali (Young, Toone e Tyson, 2003).

Capolongo Manuela, Tramontano Martina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Nel corso degli ultimi anni la maggior parte dei servizi di salute mentale rivolti a bambini e adolescenti ha riconosciuto l’esistenza e la necessità di trattamento rispetto ad una condizione caratterizzata da una sintomatologia poliedrica riconducibile a tre aree principali: attenzione, impulsività e iperattività. Tale quadro di difficoltà prende il nome di Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (ADHD). Di conseguenza l’attenzione della maggioranza dei clinici è stata impegnata nella valutazione, diagnosi e cura di tale patologia e nell’implementazione di centri multidisciplinari in grado di aiutare tali pazienti. Su tale scia oggi, all’interno del mondo clinico, sono sorti degli interrogativi sulla presenza di tale disturbo non soltanto in età evolutiva, ma in tutto il ciclo di vita. Se la diagnosi viene formulata in età pediatrica e adolescenziale perché dovrebbe scomparire in età adulta?

Esistono molti adulti che potrebbero aver avuto la vita condizionata negativamente dall’ ADHD, ma non aver mai ricevuto una diagnosi. Come si presenta l’ ADHD nell’ adulto? Come viene effettuata la diagnosi? Quali strumenti? Quali possibili trattamenti?

L’ADHD nell’infanzia: una panoramica generale

Il disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività (ADHD) colpisce il 3-5% dei bambini in età scolare, con un rapporto di 3 maschi per 1 femmina; esso rientra nel capitolo dei disturbi del neuro-sviluppo dell’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5, 2014) e si configura come un gruppo di disturbi con esordio infantile, caratterizzato da una compromissione funzionale a livello personale, familiare, sociale, scolastico o lavorativo. Si tratta quindi di un problema che coinvolge tutti gli ambiti di vita del bambino e che non può esimere nessuno dall’impegno per la cura, la terapia e la riabilitazione di questi pazienti, soprattutto in virtù del fatto che la prognosi favorevole del soggetto ADHD è fortemente legata alla diagnosi precoce e all’intervento qualificato della scuola e degli operatori socio-sanitari.

L’ADHD non si esprime attraverso evidenti e chiari sintomi fisici, ma si manifesta con problematiche comportamentali, che possono variare da persona a persona, in bambini dotati di un QI normale o superiore alla media. Questo è il motivo per cui il pensiero comune li etichetta come bambini “poco educati”, “senza motivazione”, o “prodotto di un ambiente familiare poco strutturato”. Anche se probabilmente un ambiente disfunzionale potrebbe comunque favorire l’espressione fenotipica di una disturbo geneticamente preordinato, non è stata trovata nessuna chiara relazione tra la vita familiare, l’ambiente e l’ADHD. Invece tale disturbo rappresenta un deficit dovuto ad un alterato sviluppo dei circuiti cerebrali che sottendono importanti funzioni cognitive; infatti, i ricercatori, hanno trovato importanti differenze tra le persone che hanno l’ADHD e quelle che non sono affette da tale patologia: le aree che governano le emozioni e la motivazione risultano essere più piccole rispetto alla popolazione generale.

L’ADHD è quindi una patologia di complessa gestione; i comportamenti maggiormente comuni sono la disattenzione, l’iperattività e l’impulsività, che concretamente si manifestano con: comportamento negativista e provocatorio; crisi di collera; frequenti litigi con i coetanei e gli adulti; incapacità a rispettare le regole; violazioni delle regole sociali; comportamenti aggressivi; tendenza a porsi in situazioni di rischio; difficoltà di adattamento sociale; scarso rendimento scolastico.

Sulla base di tali caratteristiche possiamo dedurre che i bambini affetti da ADHD faticano molto a mantenere la loro mente su attività che richiedano concentrazione focale e prolungata nel tempo, per cui si annoiano e si distraggono anche dopo pochi minuti; hanno difficoltà a focalizzare consapevolmente l’attenzione al fine di pianificare, organizzare e completare attività o imparare qualcosa di nuovo; sono iperattivi, sempre in movimento, non riescono a stare seduti a lungo; posseggono scarse capacità di controllare gli impulsi e di pensare prima di agire; non tollerano la frustrazione, l’attesa prima di ottenere ciò che desiderano e non sanno rispettare i turni sia nei giochi che in una conversazione.

Per poter effettuare diagnosi di ADHD, però tale modello di comportamento deve essere confrontato con un insieme di caratteristiche proprie del disturbo, espresse in principi contenuti nel Manuale diagnostico dei disturbi mentali di riferimento chiamato il DSM, quello americano, (IV edizione) o ICD (edizione X) quello europeo. Inoltre bisogna fare attenzione, perchè spesso i comportamenti tipici dell’ADHD possono essere il risultato di altre situazioni o condizioni morbose. Infatti una delle difficoltà nel diagnosticare l’ADHD, è che spesso essa è accompagnata ad altri problemi e/o disturbi specifici: circa due terzi dei giovani con ADHD sono affetti da comorbilità, tra cui disturbi della condotta, tic, syndrome di Tourette, disturbi dello spettro autistico, ansia, depressione e difficoltà dell’apprendimento.

Anche se la maggior parte dei pazienti non supera l’ADHD con la crescita, mediante un’ottimale combinazione tra farmaci, psicoterapia, training e supporto emozionale essi possono sviluppare modalità di controllo dell’attenzione e dell’impulsività, minimizzando i comportamenti disgreganti. Nello specifico, crescendo, con un appropriato aiuto da parte dei genitori e dei clinici, i bambini con ADHD diventano maggiormente capaci di reprimere l’iperattività e incanalarla in comportamenti maggiormente accettabili socialmente.

L’ ADHD nell’ adulto: sintomatologia, diagnosi e problematiche

I clinici sono sempre più convinti che i sintomi dell’ ADHD possano proseguire per l’intero ciclo di vita, dall’infanzia all’età adulta (Brown, 2000). Secondo studi epidemiologici internazionali, l’ADHD colpisce tra il 3% ed il 4,5% della popolazione adulta. Inoltre non soltanto una parte dei sintomi tipici del disturbo in età infantile tendono a riproporsi, ma nuovi tratti fanno la loro comparsa e vanno a caratterizzare l’ADHD nell’adulto, che risulta associata ad una costellazione variegata di problemi psico-sociali (Young, Toone e Tyson, 2003).

Il quadro clinico si caratterizza in una variegata serie di problematiche che limitano la maggioranza delle aree di vita di questi soggetti. Nel dettaglio le caratteristiche che più frequentemente si presentano nell’adulto sono:
– disattenzione cronica esplicabile in diverse forme (distraibilità, scarsa capacità nel prestare e mantenere a lungo l’attenzione e nel portare a termine i compiti affidati, propensione ad evitare impegni che richiedono uno sforzo mentale protratto nel tempo, incapacità di mettere a fuoco la tematica principale, dimenticanze ecc..);
– impulsività comportamentale e verbale (agitazione, difficoltà a stare seduto, fare le cose senza pensare alle conseguenze, non rispettare i turni di parola all’interno di un dialogo, essere logorroici ecc…);
– disorganizzazione (caos e casualità nella pianificazione di pensiero e azione);
– scarse capacità sociali e di mentalizzazione;
– sensazione di noia e difficoltà ad essere soddisfatti con lo svolgimento del proprio lavoro o di altri aspetti della vita quotidiana;
– frustrazione immediata di fronte a circostanze di ritardo;
– labilità emotiva.

In aggiunta a tali caratteristiche sintomatologiche è stato visto che se un individuo ha convissuto con l’ ADHD per la maggior parte della sua vita senza mai essere diagnosticato, potrà aver sviluppato altre forme di disagio: una storia di scarso rendimento scolastico, un eccesso di separazioni e divorzi, maggiori probabilità di difficoltà lavorative, sfavorevoli condizioni socioeconomiche, maggior rischio di andare incontro sia ad incidenti stradali che ad eventi traumatici in genere. Inoltre gli adulti che presentano questa patologia lamentano un eccesso di condotte suicidarie e tassi particolarmente elevati di comorbidità con altri disturbi della sfera mentale ed emotiva. Particolarmente problematica è l’associazione dell’ ADHD nell’ adulto con i disturbi della dipendenza da alcol e sostanze. Proprio l’uso di sostanze è largamente corresponsabile dell’ aumentata probabilità di commettere reati di vario genere e di conseguenza di andare incontro a problemi giudiziari.

L’analisi del quadro clinico appena descritto mette in evidenza la difficoltà nel riconoscere e diagnosticare l’ ADHD nell’adulto. Come ogni “nuova” diagnosi è affrontata con incertezza sia dai professionisti che dal pubblico e rappresenta un compito delicato, perchè si configura come una diagnosi “non pulita” data la vasta sovrapposizione con altri problemi e disturbi di cui abbiamo già discusso.

La competenza diagnostica è dello psichiatra. Lo psicologo può effettuare tutta la valutazione con la supervisione dello psichiatra che grazie alla sua esperienza con le patologie mentali può distinguere l’ADHD dagli altri disturbi e fare anche una corretta diagnosi differenziale.

L’ ADHD nell’adulto: valutazione e trattamento

La valutazione della presenza dell’ ADHD nell’ adulto è un processo sistematico, che ha lo scopo di evidenziare la durata dei sintomi e il livello di invalidità che causano alla persona.
Secondo la dichiarazione del consenso europeo sulla diagnosi e trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, questo processo valutativo deve individuare una molteplicità di elementi e non limitarsi ad una singola impressione clinica.

Gli elementi di interesse diagnostico consistono nell’esordio infantile del disturbo, i sintomi presenti nell’età adulta e la presenza di invalidità in almeno due campi di vita, tra cui la famiglia, la scuola, il lavoro e le relazioni interpersonali.
E’ necessario evidenziare anche le caratteristiche associate al disturbo come la labilità dell’umore, scoppi di rabbia e collera e i disturbi da comorbilità.
Infatti è davvero fondamentale focalizzarsi sulla diagnosi differenziale, in quanto i sintomi che spesso coesistono con la sindrome di ADHD nell’ adulto, come instabilità dell’umore, incessante attività mentale e tendenza ad evitare situazioni di attesa se esse generano frustrazione, possono essere confusi con quelli di una comorbilità separata, come l’umore, l’ansia, disturbi psicotici, organici, da sostanze, disturbi di personalità, tic e disturbi da autismo.

Gli aspetti che mostrano spesso gli adulti con ADHD, per esempio la bassa autostima, cattivo umore, labilità emotiva ed irritabilità, possono essere sovrapposti alla distimia, ciclotimia, disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline, quindi il rischio è quello di far confusione fra i disturbi.
Altri elementi importanti ai fini della valutazione diagnostica sono l’anamnesi dei trattamenti somatici e psichiatrici e la storia familiare dei disturbi psichiatrici e neurologici, vista l’ereditarietà del disturbo.

Uno degli strumenti per condurre la valutazione diagnostica dell’ ADHD nell’adulto è il colloquio clinico, nel quale le aree da indagare sono le seguenti: il matrimonio, rapporti interpersonali, funzionamento sessuale, funzionamento lavorativo, attività quotidiane, genitorialità, maneggiamento economico ed eventuali problemi legali.

La scala di classificazione generalmente usata per lo screening comprende, oltre alla scala riferita ai criteri dettati dal DSM-5, le voci della World Health Organisation Adult ADHD Self-Report Scale (ASRS) Symtom Checklist (2005).
Sono a disposizione per la raccolta delle informazioni significative delle interviste diagnostiche strutturate, come la Conners Adult ADHD Diagnostic Interview (CAA – DID, 1994, 1998), e quella più recente la DIVA, ossia la Diagnostic Interview for ADHD in Adults (2007).

La prima è un’intervista strutturata a supporto della diagnosi di ADHD nell’ adulto ed è divisa in due parti: la prima parte è il questionario della storia del paziente (presentata come intervista clinica o come questionario di autocertificazione), che indaga la storia demografica del cliente, il corso dello sviluppo dei sintomi e dei problemi di attenzione e i fattori di rischio associati, includendo anche domande sulla comorbilità; la seconda parte invece, consistente nell’intervista clinica diagnostica , ha lo scopo di formulare la diagnosi clinica in base ai criteri del DSM e di raccogliere informazioni circa l’età di insorgenza, la pervasività e il livello di compromissione per ogni sintomo di ADHD indicato.

Il secondo strumento, sviluppato da J. J. S. Kooij e M. H. Francken, è la versione seguente dell’intervista Semi-Strutturata per l’ ADHD nell’ adulto: essa è divisa in tre parti, ognuna delle quali si riferisce all’infanzia/fanciullezza e all’età adulta, e comprende i criteri per il Deficit di Attenzione, i criteri per l’Iperattività/Impulsività, e infine l’età di insorgenza e il disfunzionamento causato dai sintomi. La DIVA prende in considerazioni solamente i sintomi dell’ADHD, e non include invece quei sintomi, sindromi e disturbi psichiatrici presenti in comorbilità, perciò, se si utilizza questo strumento, è necessario accompagnarlo ad una valutazione psichiatrica completa.

Un altro strumento utilizzato nella valutazione della diagnosi di ADHD nell’ adulto è la Brown ADD Scale Diagnostic Form (BADDS, 1996), che misura specificatamente i comportamenti relativi al funzionamento esecutivo e all’attenzione ed include un protocollo di raccolta della storia clinica del paziente, costituita da quaranta domande a scelta multipla, indaga la capacità di:
– Attivazione
– Sostenere l’attenzione
– Mantenimento dello sforzo
– Interferenza affettiva
– Memoria di lavoro e capacità di recuperare l’informazione.

Nel processo di valutazione sono utili anche gli strumenti self-report da somministrare ai familiari, partner e amici del paziente, in modo da ottenere una descrizione esterna del problema della persona: alcuni degli strumenti appena citati presentano versioni destinate a loro.
Importanti sono anche i test cognitivi usati nel processo di valutazione dell’ ADHD nell’ adulto:
– Cognitive Assessment System (CAS, Naglieri e Das, 1997): questo strumento si basa sulla teoria neuropsicologica PASS (Das et al., 1994), secondo la quale ci sono quattro processi cognitivi base dell’intelligenza umana, gli stessi misurati dalla strumento, ossia Pianificazione, Attenzione, Simultaneità e Successione;
– Scale Wechsler: Wisc III e IV, WAIS (Wechsler, 1949): soprattutto in riferimento all’indice di attenzione e concentrazione, e all’indice di velocità di processamento;
– Woodcock Johnson III (CHC, R. Woodcock e M. E. Johnson, 1977), di cui l’ultima versione del 2014 è chiamata WJ IV: esso è un test di abilità cognitive, basato sulla teoria di Cattel-Horn-Carrol, che si basa su nove abilità di livello, dalle quali possono essere ottenuti due indici, cioè un’Abilità Generale Intellettuale (GIA) e una Breve Abilità Intellettuale (BIA).

Per quanto riguarda il trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, la soluzione ottimale è quella di utilizzare un approccio multimodale, ossia che unisca insieme diversi interventi diversi, in modo da rendere il trattamento stesso più efficace possibile e una prognosi più favorevole. Questo tipo di trattamento multimodale comprende:
– La farmacoterapia per i disturbi dell’ ADHD e i sintomi in comorbidità;
– Psicoeducazione sui sintomi dell’ADHD e quelli in comorbidità;
Psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il trattamento farmacologico risulta fondamentale per lavorare sui sintomi nucleari dell’ADHD: il trattamento farmacologico più studiato e più efficace è quello basato sugli stimolanti (metilfenidato e dexamfetamina). Il trattamento con stimolanti ha effetti positivi sulla sintomatologia e sui comportamenti invalidanti dell’ADHD, ma migliora anche altri aspetti correlati come la bassa autostima, scoppi di rabbia, sbalzi d’umore, problemi cognitivi e rapporti familiari. Nonostante sia riconosciuta l’efficacia degli stimolanti nel trattamento di ADHD nell’ adulto, il loro ruolo è ancora controverso e studiato.

Trattamenti farmaco terapeutici di seconda linea prevedono l’atomoxetina non-stimolante, che può essere indicata per quei pazienti con disturbi in comorbidità da abuso di sostanze, disturbi emotivi o fobia sociale.

Anche la psicoeducazione è un tassello importante nel trattamento dell’ ADHD nell’ adulto, in quanto permette l’educazione del paziente ed eventualmente del partner e dei suoi familiari sui sintomi e invalidità dell’ ADHD, sulla prevalenza nei bambini ed adulti, la possibilità di comorbilità, l’ereditarietà, le disfunzioni del cervello coinvolte e le possibilità di trattamento. Il fornire al paziente queste informazioni lo può aiutare a comprendere più approfonditamente la sua condizione ed aiutarlo ad affrontare le difficoltà causate dal disturbo. Spesso la psicoeducazione ha buoni effetti anche sulle relazioni familiari, in quanto queste informazioni vengono condivise tra i membri della famiglia, e anch’essi diventano consapevoli e riescono a dare una spiegazione dei comportamenti e sintomi del paziente.

Infine è necessario anche ingaggiare il paziente in un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale, dal momento che i pazienti sviluppano ulteriori problematiche a seguito del disturbo (credenze negative, bassa autostima, comportamenti di evitamento e disturbi dell’umore) e inoltre esiste un alto grado di comorbilità con i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze.

E’ stato dimostrato che la CBT è maggiormente efficace se affiancata a interventi comportamentali che mirino all’apprendimento e alla pratica di strategie compensatorie, non tralasciando l’intervento cognitivo sulle credenze disfunzionali e le emozioni che ne conseguono, che incentivano l’evitamento e la procrastinazione.

Un altro obiettivo della CBT è quello di focalizzarsi sull’autostima, problemi di ansia e abbassamento dell’umore.
Anche la DBT (DialecticL Behavior Therapy), la Terapia Metacognitiva e la Mindfulness sono risultate efficaci per il trattamento di questo tipo di pazienti.

In generale le tecniche utilizzate sono: cognitive (ristrutturazione cognitiva, problem solving, gestione della rabbia, riduzione procrastinazione, ecc…) ed emotive (gestione e regolazione delle emozioni, tecniche di controllo degli impulsi e dell’autoregolazione, aumento autostima, ecc…).

Il trattamento infine risulta efficace se tutti questi interventi sono applicati insieme in un sistema multimodale, così da fronteggiare il disturbo da diversi punti di vista ed aiutare il paziente su diversi fronti e con differenti tecniche.

Meno spreco alimentare di default con il nudging  

Anche se negli ultimi dieci anni sono stati condotti numerosi studi con l’intento di cambiare comportamenti socialmente rilevanti attraverso il nudge e le varie strategie basate sui principi del nudging, ci sono ancora campi che rimangono inesplorati come il problema dei rifiuti alimentari e dello spreco alimentare.

 

Influenzare le scelte attraverso il nudging

Il 9 ottobre 2017 l’economista Richard Thaler vince il premio Nobel per l’economia grazie ai contributi forniti nella Behavioral Economics, che hanno permesso di costruire un ponte tra economia e psicologia nello studio dei processi decisionali. Questo è un riconoscimento importante per l’economista americano e per la comunità scientifica che può così continuare a raccogliere i frutti di una rivoluzione iniziata circa quarant’anni fa e che si auspica continui a fornire nuova linfa allo studio del comportamento umano nel prossimo futuro. Questa è un’onda che dovrà essere cavalcata saggiamente dagli esperti nelle scienze comportamentali per produrre benessere individuale e sociale.

Se le persone commettono errori sistematici è infatti possibile prevederli e soprattutto prevenirli. Il quesito che sorge naturale è il seguente: in che modo è possibile indirizzare le persone verso scelte funzionali al proprio benessere e prevenire o correggere tali distorsioni? Thaler e Sunstein (2008) propongono di lavorare nel contesto nel quale le persone si muovono e interagiscono. Tale approccio viene definito dagli autori paternalismo libertario. Gli interventi di Nudging sono sviluppati infatti per influenzare deliberatamente le scelte individuali, senza però né impedire né punire scelte alternative. Thaler e Sunstein (2008) coniano a tal proposito, il termine “architettura delle scelte” per definire in che modo sia possibile avvalersi di conoscenze scientifiche per strutturare contesti che favoriscano i comportamenti desiderati.

Un buon architetto delle scelte osserva l’ambiente in cui le persone si muovono, le loro interazioni con l’ambiente e le scelte che esse compiono. Qualora queste si rivelassero disfunzionali e influenzate da fattori contestuali, sarà possibile riprogettare l’ambiente fisico o verbale per reindirizzarle, come farebbe un buon padre di famiglia nel crescere i propri figli.

Da un punto di vista comportamentale questa definizione sottolinea alcuni punti importanti: Nudge è qualsiasi tentativo di lavorare sul contesto per alterare la probabilità di emissione di un comportamento, influenzandolo in modo prevedibile, senza penalizzare risposte o comportamenti alternativi, senza sopprimere le alternative di scelta o fornire ricompense economiche significative. La psicologia, troppo spesso relegata in laboratorio e in contesti clinici, estende il suo raggio d’azione nel sociale e nella promozione della salute pubblica, entrando in contatto con diverse discipline.

La maggior parte delle tecniche utilizzate negli interventi di Nudging sono principalmente incentrate sulla modifica degli antecedenti, al fine di impostare l’occasione per emettere il comportamento desiderato (Sunstein, 2014). La letteratura mostra l’efficacia del Nudge nell’affrontare i problemi in molti domini diversi, dalle politiche sociali alla sostenibilità (Bailenson 2011; Hershfield et al., 2011; Costa & Kahn 2013; Kallbekken, Sælen & Hermansen 2013), utilizzando una vasta gamma delle tecniche utili per promuovere comportamenti prosociali. Tra questi la manipolazione della regola di default si è rivelata efficace in diversi casi nella promozione di comportamenti auspicabili secondo l’idea del paternalismo libertario (Johnson & Goldstein, 2003; Pichert & Katsikopoulos, 2008; Keller et al. 2011).

Utilizzare l’opzione di default significa determinare un’opzione che verrà scelta in modo automatico, a meno che le persone scelgano attivamente di comportarsi in modo differente. Sunstein (2008) riferisce che l’opzione di default dovrebbe rispecchiare le preferenze delle persone, affinché possa essere considerata una spinta gentile. La domanda da porsi non è se prendere o meno una decisione, ma quanto il costo della risposta necessario per effettuarla influenza la decisione stessa. Piuttosto che far fronte a una decisione costosa da un punto di vista cognitivo o comportamentale, le persone hanno la tendenza a rimanere nello stato in cui si trovano.

Un esempio di come funziona la regola di default è uno studio condotto da Johnson e Goldstein (2004) in cui gli autori hanno scoperto che la percentuale di donatori di organi nei paesi dell’UE era distribuita sulla base di due modelli: nei paesi in cui le persone dovevano scegliere attivamente di divenire donatori di organi la percentuale dei donatori era bassa; viceversa nei paesi in cui le persone, di default, si ritrovavano a essere donatori di organi, a meno che non scegliessero attivamente di non esserlo, la percentuale era molto più alta. Anche se negli ultimi dieci anni sono stati condotti numerosi studi con l’intento di cambiare comportamenti socialmente rilevanti attraverso strategie basate sul nudge, ci sono ancora campi che rimangono inesplorati come il problema dei rifiuti alimentari e dello spreco alimentare.

Nudge e spreco alimentare

La tematica sembra essere diventata centrale negli ultimi anni all’interno della comunità internazionale (FAO, 2011, FAO, 2013) suggerendo che, ogni anno, circa un terzo del cibo prodotto viene sprecato in tutto il mondo (FAO, 2013; Monier et al., 2011; Gustavsson et al., 2011). Oggi circa il 34% del consumo alimentare si svolge fuori casa e un terzo di esso in luoghi pubblici come i ristoranti (Coldiretti et al., 2010; Fontanelli et al., 2011; Segrè et al., 2011).

Purtroppo, nei ristoranti non tutti gli alimenti ordinati dai consumatori vengono consumati e gli avanzi vengono spesso buttati via. Ridurre la quantità di cibo residua che viene gettata via potrebbe avere un impatto economico e ambientale su larga scala (CE, 2014; Thönissen, 2009; FAO, 2013).

In Italia è stata recentemente approvata la legge n. 166/2016 per regolamentare la questione dello spreco alimentare. Per spreco alimentare si intende l’insieme dei prodotti alimentari scartati dalla catena agroalimentare per ragioni commerciali o estetiche o perché prossimi alla data di scadenza, ancora commestibili e potenzialmente destinabili al consumo umano o animale e che, in assenza di un possibile uso alternativo, sono destinati a essere smaltiti. Nello specifico, l’articolo 9 del Dgl.166/2016, si riferisce all’importanza di ridurre i rifiuti nei ristoranti e nei locali, aumentando la disponibilità nel fornire appositi contenitori che permettano alla clientela di portare con sé il cibo rimasto (doggy bag). In Italia, secondo un sondaggio fatto da Coldiretti (2010) circa il 21% dello spreco alimentare proviene dai ristoranti e la fonte principale di spreco è rappresentato dalle rimanenze di cibo (Parfitt et al., 2010). Di solito, i clienti devono chiedere attivamente ai camerieri di imballare i loro avanzi nelle cosiddette “doggy bag” e le indagini mostrano che solo il 36% dei clienti chiede di poter portar via i propri avanzi (Paladino, 2015; Gaiani, 2013; Coldiretti, 2016). Probabilmente, gli individui percepiscono un costo nel chiedere di portare a casa le rimanenze della cena, forse dovuto all’imbarazzo o a un eccessivo sforzo cognitivo.

Nudge e spreco alimentare in Italia: lo studio condotto a Milano

Obiettivo del Team Nudge Italia è agire sul contesto e predisporre ambienti che promuovano comportamenti funzionali al benessere individuale e sociale. A tal proposito, è stato condotto uno studio finalizzato a verificare l’efficacia della regola di default per ridurre i rifiuti alimentari in pizzeria.

Lo studio è stato condotto in una pizzeria vicino la periferia di Milano ospitante circa 60 persone a pasto. I dati sono stati raccolti a cena, dalle ore 19:00 alle ore 24:00. Tutte le procedure eseguite nello studio hanno rispettato gli standard etici previsti dal comitato di ricerca istituzionale e/o nazionale con la dichiarazione di Helsinki del 1964 e le successive modifiche. L’ipotesi iniziale era che fornendo automaticamente alle persone un contenitore per riporre i propri avanzi di cibo (doggy bag), sarebbe aumentato l’utilizzo delle doggy bag. I dati sono stati raccolti per un mese: due settimane per la misurare la linea di base e due settimane per quella sperimentale. Durante la fase di controllo è stata semplicemente misurata la richiesta spontanea di doggy bag da parte dei clienti: sono stati forniti al personale degli adesivi da mettere su ciascun contenitore dato ai clienti per portare gli avanzi di cibo a casa, in modo da poter facilmente contare gli adesivi mancanti. Il personale del ristorante aveva inoltre il compito di apportare una “x” per ciascun piatto che contenesse degli avanzi (almeno una fetta di pizza rimanente nel piatto del cliente) su una apposita griglia di osservazione posta in cucina.

Durante la fase sperimentale, per manipolare l’opzione predefinita è stata utilizzata una chip da poker, posta sul tavolo davanti a ciascun cliente del ristorante e colorata in modo differente sui due lati: un lato verde e l’altro rosso. Di default la chip era posta sul lato verde, indice che il cliente avrebbe voluto portare a casa gli eventuali avanzi della cena, in caso contrario, se il cliente non avesse voluto richiedere la doggy bag, avrebbe dovuto intenzionalmente capovolgere sul rosso la chip.

Per rendere comprensibile e semplice la struttura logica dell’intervento ai clienti, sono stati posizionati su ciascun tavolo dei centrotavola informativi, contenenti le istruzioni sulla modalità di utilizzo delle chip da poker. In aggiunta, sono stati sviluppati dei volantini collocati all’interno dei menù contenenti informazioni sullo spreco alimentare e le stesse istruzioni riportate sui centritavola.

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - IMM 1

Imm. 1 – centrotavola informativo e chip da poker

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - IMM 2

Imm. 2 – centrotavola informativo

I dati ottenuti in seguito all’ intervento di nudging hanno dimostrato che il numero di doggy bag fornite ai clienti è aumentato notevolmente durante la condizione sperimentale, come è possibile osservare dal grafico sottostante. Durante la linea di base dodici clienti (41%) hanno chiesto la doggy bag, mentre durante la fase sperimentale l’hanno richiesta in trentaquattro clienti (85%).

Il nudge contro lo spreco alimentare la psicologia al servizio del benessere sociale - GRAFICO

Grafico – Numero di doggy bag fornite ai clienti durante il controllo e durante la condizione sperimentale

La richiesta di contenitori per portare a casa gli avanzi della cena è stata del 44% superiore durante la fase sperimentale rispetto a quella di controllo. La differenza è risultata statisticamente significativa (Chi-square (1) = 17.27 p <.001) e la dimensione dell’effetto ha mostrato che nella fase sperimentale la probabilità di richiedere una doggy bag è stata circa 8 volte superiore rispetto alla fase di controllo (OR = 8,05; 95% CI: 2,82-22,96). Apportando una modifica semplice e sostenibile nel contesto, le persone hanno aumentato la richiesta di doggy bag, ottenendo un impatto significativo sulla riduzione dello spreco alimentare.

L’intervento di nudge pianificato e messo in campo sembra sostenere l’efficacia nel manipolare l’opzione di default, quando si lavora su comportamenti disfunzionali e “insalubri” che si presume siano privi di cognizione di causa.  I risultati sembrano essere in linea con l’idea che maneggiando la regola predefinita, la probabilità che un cliente con gli avanzi nel proprio piatto, richieda la doggy bag, sia maggiore nella condizione sperimentale rispetto a quella di controllo. Come Johnson e Goldstein (2004) hanno mostrato nel loro lavoro, l’opzione di default sembra interessare i comportamenti delle persone indipendentemente dal loro background culturale.

Esperimenti futuri potrebbero valutare la generalizzabilità di questa constatazione in altri contesti culturali ed è facile intuire il notevole impatto del nudge, di questo intervento semplice, economico ed ecologico, in termini di riduzione dello spreco alimentare e di economia sociale, lasciando piena libertà di scelta nelle persone.

Binge Watching: la dipendenza a portata di click

Letteralmente il termine binge-watching si riferisce all’unione dei termini “guardare” (watching) e “abbuffata” (binge). In buona sostanza, ci si riferisce all’atto di guardare più puntate di una serie tv o puntate di un programma televisivo, una dopo l’altra.

Arrigoni Andrea, Vinciullo Francesca – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Che cosa succede quando mettiamo un essere umano a contatto con uno stimolo piacevole e sempre disponibile, se la persona decide in autonomia quanto tempo o impegno dedicare a questo stimolo?

Letteralmente il termine binge-watching si riferisce all’unione dei termini “guardare” (watching) e “abbuffata” (binge). In buona sostanza, ci si riferisce all’atto di guardare più puntate di una serie tv o puntate di un programma televisivo, una dopo l’altra. Che cosa ci ricorda questo termine? La letteratura scientifica ha ampiamente approfondito il tema del binge-eating, ovvero l’abbuffata di grandi quantità di cibo in pochissimo tempo. Questo termine è entrato recentemente nel linguaggio clinico comune e fa parte dei disturbi della condotta alimentare, insieme all’anoressia, alla bulimia nervosa e all’obesità. Altro termine affine, è quello del binge-drinking, l’abbuffata alcolica, che riguarda l’assunzione di più bevande alcoliche in un arco di tempo limitato.

Sia nel fenomeno del binge-eating che in quello del binge-drinking si riscontra una significativa sensazione di perdita di controllo durante l’atto di abbuffarsi, come se la persona non fosse in grado di interrompere quell’attività considerata in modo negativo: spesso si riscontra la volontà di fermare l’abbuffata ma la totale incapacità di opporsi allo stimolo. La perdita di controllo rappresenta, quindi, un elemento fondante il disturbo, il quale è strettamente collegato a difficoltà nella regolazione delle emozioni, che rappresenta il principale fattore scatenante le abbuffate.

Tra binge-watching e dipendenza

Abbuffata, insomma, di puntate televisive, di serie-tv, di fiction. Una “maratona” televisiva che obbliga a incollarsi al televisore, o al computer, per diverse ore consecutive.

Il binge-watching rappresenta un fenomeno difficile da misurare. Jenner (2014) lo identifica nell’atto di guardare tre o più ore di contenuto televisivo in una singola sessione, ma, qualora diventasse frequente, il binge-watching rischia di trasformarsi in una forma di dipendenza.

Non dimentichiamo che non tutte le sostanze che creano dipendenza sono illecite e anzi molte di queste sono disponibili facilmente. Basti pensare allo shopping, al gioco o semplicemente all’alcool che nel contesto italiano può essere acquistato senza alcun controllo. Talvolta gli oggetti di dipendenza possono essere comportamenti e talvolta pensieri. Che caratteristiche deve avere un fenomeno del mondo (o dell’uomo) per poter essere reso oggetto di dipendenza? Ci sono differenze con le caratteristiche di un oggetto “buono per il binge”?

Alcuni autori (Sussman, Lisha & Griffiths, 2011) hanno approfondito il tema delle dipendenze, cercando di chiarire che cosa si intende con questo termine. Per dipendenza, non intendiamo solamente attività intrinsecamente appaganti o che portano ad un aumento della perdita di controllo (ad esempio il binge-eating) ma anche a comportamenti che non derivano da una ricerca appagante di piacere, quanto piuttosto ad una tendenza allo spreco del tempo, come, appunto, il binge-watching.

Sussman (2012) ha identificato dodici categorie di dipendenze allo scopo di buttare luce ulteriore su questo fenomeno.

Quali sono queste categorie? Le dipendenze correlate all’uso di sostanze stupefacenti, al cibo e a comportamenti anti-sociali, quelle che riguardano le tecnologie, il Gambling, le attività lavorative o la sfera sociale e relazionale; quelle correlate alla ricerca della perfezione fisica (ad esempio, la chirurgia estetica); quelle connesse alla tendenza a fantasticare (ad esempio, l’isolamento), all’esercizio fisico, alle ossessioni spirituali, alla ricerca del dolore fisico (automutilazione), allo shopping. Secondo questo schema, la Dipendenza da Televisione rientra nella Dipendenza da Tecnologie.

Ciò che accomuna questi comportamenti è la marcata perdita di controllo associata all’attività, caratterizzata dall’incapacità di predire quando la persona riuscirà ad interrompere il comportamento. La persona, così, sperimenta una sensazione di craving, di desiderio impellente di vedere una puntata di una serie tv con l’incapacità di sapere quando riuscirà a fermarsi (Sussman, 2012).

Nel binge-watching la persona, quindi, sperimenta un forte desiderio di abbuffarsi di serie-tv e volutamente appaga questo desiderio consumando una puntata dopo l’altra, in misura maggiore rispetto al suo stato psico-fisico e al contesto di riferimento. Quando l’abbuffata di puntate televisive diviene ripetuta nel tempo e non ha più carattere occasionale si parla di dipendenza, che si accompagna alle diverse conseguenze psico-fisiche già menzionate.

Le dipendenze comportamentali, tra cui il binge-watching, presentano uno spettro sintomatologico simile a quelli riscontrato nelle tossicodipendenze: sono presenti in entrambi i casi fenomeni di craving ed astinenza ed una serie di conseguenze sul funzionamento sociale e lavorativo che impattano largamente sulla qualità della vita. Per quanto riguarda il funzionamento cerebrale, inoltre, le dipendenze coinvolgono i medesimi circuiti nervosi: esse agiscono sul sistema di ricompensa, che è responsabile del rilascio di dopamina, che innesca la sensazione di benessere conseguente all’assunzione della sostanza. Allo stesso modo, l’abbuffatore di serie tv, proverà la medesima sensazione di rilassamento e benessere durante la visione della serie tv e ricercherà assiduamente tale sensazione, andando incontro ad una vera e propria forma di dipendenza.

Sono già noti gli effetti della Dipendenza da Internet (o Internet Addiction), sindrome riconosciuta ufficialmente nel panorama scientifico e catalogabile del DSM-IV nell’ambito dei disturbi ossessivo-compulsivi. Si tratta di una sindrome che solo recentemente ha ricevuto l’attenzione che merita, considerato il largo diffondersi di problemi psicopatologici connessi all’utilizzo massiccio e spesso inadeguato della rete. Il dibattito sull’argomento riguarda la scelta di considerare l’abuso di Internet come vera e propria dipendenza, accomunabile a quella per le sostanze stupefacenti, o più semplicemente come un fenomeno che porta a conseguenze negative per la salute dell’individuo ma che non si caratterizza come dipendenza.

Secondo Kymberly Young (2009), l’abuso di Internet genera una mole di conseguenze nocive per la salute che possono essere raggruppate in quattro macro-categorie: l’ambito relazionale, quello lavorativo o scolastico, l’ambito della salute e quello finanziario. L’eccessivo coinvolgimento nella rete, dunque, debilita la salute della persona, “costretta” per ore seduta davanti un computer, che la esclude dalle attività sociali, gravando sulla qualità delle relazioni personali e in caso di “Gambling” (Gioco d’azzardo patologico) anche sulle finanze.

Implicazioni dannose per i binge-watcher

In che modo l’abbuffata di serie tv rischia di trasformarsi in una dipendenza, una brutta abitudine per il nostro corpo e il nostro cervello? La piattaforma Netflix, il servizio di streaming online più famoso nel mondo, ha condotto recentemente un sondaggio per indagare i vissuti psicologici nascosti dietro gli abbuffatori seriali di puntate televisive: pare che la maggioranza degli intervistati riferisca sensazioni positive riguardo il proprio consumo della rete, un certo grado di benessere e soddisfazione nel vedere e nel considerare l’uso del proprio tempo libero. Secondo Netflix, si può considerare “maratona televisiva” o binge-watching la visione prolungata di serie tv, indicativamente tra le due e le sei puntate consecutive. Si tratta di un comportamento che viene da un lato sottoposto ad indagine, quanto contemporaneamente incoraggiato: ad esempio, in una si può leggere: “obiettivi della giornata raggiunti? 13 ore di visione.” e così via. Sempre Netflix, e sempre in chiave buffa, traccia i profili dei binge-watchers, come il “velocista”, lo “scalatore” e lo “sprinter”, a seconda di qual è l’approccio scelto non solo alla visione, ma all’abbuffata e al dedicare immense quantità di tempo a scavare in profondità nel catalogo offerto.

Netflix non è l’unica a immaginare lo spettatore, e di conseguenza la comunicazione, in questo modo: dedicare tanto tempo da un lato e fare ciò che viene descritto in maniera chiarissima come abbuffate sono elementi chiave nella comunicazione di tanti competitori. Per farsene un’idea in pochi istanti basta sfogliare le pagine Facebook delle varie “Amazon Prime Video”, “Infinity”, “Mediaset”. Verrebbe da pensare che se tutto questo viene offerto in questo modo, non vi sia nessun pericolo. Secondo i ricercatori, però, questo abuso di serie tv ha implicazioni dannose per il funzionamento psico-fisico dell’individuo nel momento in cui al benessere per aver visto l’ultima puntata di How I Met Your Mother o Criminal Minds, si sostituisce la tendenza ad andare sempre più avanti, così che le puntate da tre diventano sei. La persona tende a trascurare altri ambiti della propria vita, come le relazioni sociali o l’attività fisica: è così che la visione di serie tv passa dall’essere un passatempo ad essere un comportamento di dipendenza.

Altra caratteristica spesso associata al comportamento dipendente riguarda la tendenza ad isolarsi per compiere l’attività: come l’alcolista che predilige l’abbuffata di sostanze tra le mura di casa, in completa solitudine, così anche l’abbuffatore di serie tv che si chiude nella propria stanza e macina una puntata dopo l’altra (il 98% del campione secondo una ricerca di Marketcast, altro colosso mondiale della ricerca audiovisiva). Le conseguenze disfunzionali di queste scelte riguardano spesso l’isolamento dagli altri, dagli amici o dalla famiglia; la tendenza a trascurare le attività lavorative e quelle di svago e la sensazione di non riuscire a smettere, di essere entrati in un vortice in cui si ricerca sempre più l’oggetto o il comportamento che ci fa stare bene, come appunto nella dipendenza.

Kubey e Csikszentmihalyi (2004), in un lavoro pubblicato sulla rivista Scientific American Mind, precisano che la visione vorace di serie tv non è di per sé problematica se non quando al piacere di guardare un telefilm si sostituisce l’urgenza di doverlo fare e la difficoltà nell’interrompere l’attività. Ciò che più sorprende, secondo gli autori, riguarda lo stato d’animo della persona durante e dopo la visione della serie tv. Se, nel momento in cui si sta gustando la puntata della propria serie tv preferita, la persona sperimenta un senso di rilassamento, subito dopo la fine della puntata si sperimenta perlopiù un senso di passività e di vigilanza sempre più basso; gli intervistati riferiscono, inoltre, una difficoltà maggiore a concentrarsi in compiti diversi dopo aver trascorso diverse ore davanti alla tv. Per cercare di comprendere maggiormente il peso delle conseguenze negative del binge-watching, gli autori hanno indagato lo stato psicofisico delle persone dopo essere state coinvolte in un altro genere di attività, come attività sportive o altri hobbies: in questi casi, i soggetti riferivano uno stato emotivo maggiormente positivo ed attivo.

Le ricerche in ambito scientifico tendono a dare conferma del fatto che il binge-watching rischia di trasformarsi in una vera dipendenza, causando una serie di complicate conseguenze negative sullo stato psicofisico dell’individuo. Come abbiamo già visto, però, il web spesso non interpreta nel medesimo modo la portata di questo fenomeno, fornendo considerazioni e spunti alquanto discordanti. Ad esempio, il sito internet movieplayer.it, offre al visitatore la possibilità di trovare “25 serie tv perfette per il binge-watching”, allo scopo di fornire un pacchetto di opportunità televisive in grado di tenere incollato lo spettatore per diverse ore. In questo articolo, in realtà, lo scopo è quello di dare all’utente un’opportunità di “svago ed emozioni davanti lo schermo”, qualcosa di molto piacevole insomma. Ma si tratta veramente di questo? Come abbiamo analizzato in precedenza e secondo la letteratura, la situazione è ben diversa. La linea che separa lo svago davanti a una serie tv dalla tendenza a starci incollato per ore, con la difficoltà a staccarsene, risulta essere talvolta sottile e difficile da comprendere e, soprattutto, tra trattare.

Considerare il fenomeno del binge-watching come potenzialmente patologico può risultare utile per evitare di sottovalutare le conseguenze del fenomeno stesso e fornire al pubblico uno spunto di riflessione diverso. Ti è davvero utile passare ore davanti al computer o alla televisione? Chiedersi, dunque, se un comportamento è utile, e se non distoglie da attività più importanti per il proprio benessere, può essere sicuramente una buona strada. Ma, come tutte le dipendenze, non è così facile rendersene conto e trattarle nel modo corretto.

Binge-watching, dipendenza e depressione: la post-binge watching blues

Gli studi sulle dipendenze in genere hanno portato a evidenziare l’alta correlazione tra questi fenomeni e la depressione. Spesso nelle dipendenze la depressione ha alcune caratteristiche fondamentali, come l’abulia, l’apatia e la carenza di gratificazione e di stimoli, come se la persona fosse incapace di riconoscere altri stimoli piacevoli disponibili. Nell’ambito del fenomeno del binge-watching, sintomi depressivi si declinano in quella che viene comunemente chiamata “post-binge watching blues”, ovvero la depressione di fine serie. Di cosa si tratta? Pare che, una volta conclusa l’ultima stagione della nostra serie tv preferita, la persona sperimenta un forte senso di vuoto, di abbandono da qualcosa da cui ha avuto compagnia per lunghi giorni. È la malattia del nostro tempo, qualcosa di nuovo, ma altamente diffuso. Riconoscerlo è quasi semplice: una volta finita l’ultima puntata ci si sente tristi, irrequieti, vuoti, come se non ci fosse più quella cosa che ci fa stare bene.

Il binge-watching è diventato, nel corso degli ultimi anni, un fenomeno sociale, che rispecchia i comportamenti di numerose persone in giro per il mondo, diverse per attitudini caratteriali, abitudini, caratteristiche di personalità e che rispecchia un radicale cambio di rotta avvenuto nelle comunicazioni: l’ascesa di Netflix, o altre piattaforme on-line di distribuzione di contenuto televisivo, hanno sconvolto le abitudini di milioni di cittadini. In che modo? Secondo una ricerca condotta dall’Istituto SNL Kagan, solo nel 2010 le televisioni americane hanno visto drasticamente diminuire il numero di clienti (oltre 700 mila persone) a favore dell’azienda Netflix, la quale ha avuto una significativa ascesa come strumento di intrattenimento televisivo.

Recentemente, mi sono imbattuta in un interessante articolo sul fenomeno del binge-watching, dal titolo “Netflix, i trucchi per usarlo meglio: dal binge-watching di coppia alle categorie nascoste” nel quale l’autore offre suggerimenti e scorciatoie manuali da utilizzare sulla piattaforma al fine di ottimizzarne il suo utilizzo. Il titolo dell’articolo parla da sé: per “usarlo al meglio” è lecito anche abusarne, meglio se in coppia o con gli amici, perché più puntate riesci a vedere meglio è per il tuo “tempo libero”. L’articolo sembra essere in linea, difatti, con la rivoluzione apportata da Netflix e dalla altre piattaforme che da sempre investono sul potere persuasivo della ricerca del benessere e del divertimento come conseguenza della visione delle serie-tv preferite. Se siete in coppia e volete seguire la stessa serie del vostro partner, Netflix ve lo lascia fare attraverso una sincronizzazione della riproduzione delle puntate che vi permette, a distanza, di gestire in automatico pause e salti nella visione. Se siete studenti, inoltre, è possibile utilizzare uno specifico browser che permette di lasciare in primo piano la finestra di Netflix, mentre studiate o fate delle ricerche. Cosa volere di più? Si fa per dire.

Gli hobby, come la visione di film o serie-tv nel tempo libero, sono diventati così qualcosa di diverso da un passatempo, in quanto spesso si sostituiscono al tempo impiegato in modo produttivo per lavorare o studiare. Con l’influenza dei media, infatti, è facile sottovalutare l’influenza negativa che l’abuso di questi strumenti di streaming online ha sul comportamento e le abitudini delle persone. Anche una ricerca pubblicata sul Journal of Social and Personal Relationship sfata il mito per cui l’abbuffata televisiva sia qualcosa di dannoso per la salute, in quanto ne evidenza gli effetti positivi purché consumato in buona compagnia. Secondo questi dati, seguire diverse serie tv, macinando diverse puntate dopo l’altra, fa bene alla coppia perché favorisce l’intimità e la condivisione. Il rischio nel sostenere questa tesi non è però irrilevante, in quanto per alcune persone potrebbe essere difficile porsi dei limiti ed evitare di trasformare un hobby in un comportamento di dipendenza.

Evoluzione del disturbo post-traumatico da stress nei pazienti oncologici

Caryn Meri Hsien Chan, ricercatrice al National University of Malaysia, attraverso un studio pubblicato su Cancer, una rivista dell’American Cancer Society, ha evidenziato che, approssimativamente, ad un quinto dei pazienti oncologici è stata identificata l’insorgenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e la sua presenza per diversi mesi o anni dopo la diagnosi.

 

Il disturbo da stress post-traumatico (PTSD)

Il PTSD è un disturbo psichiatrico che, nelle sue forme più croniche, si sviluppa in una minoranza di sopravvissuti ad un trauma. Rappresenta l’incapacità di integrare l’esperienza traumatica con la visione integrata di sé e del mondo. I soggetti con PTSD rimangono incastrati nel ricordo terrifico e presentano difficoltà nel concentrarsi sul presente.

Il disturbo è caratterizzato dalla continua intrusione nella coscienza di ricordi dolorosi a cui segue una forte attivazione emotivo-fisiologica con relativi tentativi di impedire il riaffiorare dei ricordi attraverso strategie di evitamento attivo e passivo. Questo schema di intrusione ed evitamento porta ad un progressivo peggioramento dei sintomi e delle disabilità nel periodo che segue l’esposizione al trauma (Navarra, 2011).

Il PTSD è stato inserito ufficialmente nel manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (DSM) nel 1980, ma già nella letteratura del Novecento è stato descritto con dizioni differenti (es., nevrosi da guerra, cuore del soldato, shock post-traumatico) per indicare una patologia che insorge acutamente in conseguenza dell’esposizione ad eventi stressanti di gravità estrema che mettono a repentaglio la propria o altrui incolumità. Mentre nella letteratura dei primi anni Ottanta si faceva riferimento prevalentemente alle conseguenze psicologiche di soggetti esposti
a operazioni di guerra, da qualche anno le situazioni potenzialmente in grado di portare allo sviluppo del PTSD sono aumentate, mantenendo il riferimento alla “gravità oggettiva estrema” della situazione (Fullerton e Ursano 2001).

Il PTSD nei pazienti oncologici

Anche se il PTSD è primariamente conosciuto in relazione alla sua insorgenza in individui a seguito di eventi traumatici come seri incidenti o disastri naturali, può anche occorrere nei pazienti oncologici.

A tal proposito, la ricercatrice Caryn Meri Hsien Chan e il suo team hanno studiato 469 pazienti oncologici con diversi tipi di cancro a un mese di distanza di tempo dalla diagnosi presso un unico centro oncologico di riferimento e, in seguito, gli stessi pazienti sono stati sottoposti a ulteriori test dopo sei mesi e nuovamente dopo quattro anni.

Le valutazioni cliniche hanno rivelato un’incidenza di PTSD del 21,7% a 6 mesi di follow-up, con tassi in calo al 6,1% al follow-up a 4 anni. Sebbene i tassi complessivi del disturbo siano diminuiti nel tempo, circa un terzo dei pazienti inizialmente diagnosticati con PTSD hanno avuto sintomi persistenti o un peggioramento quattro anni più tardi.

Molti pazienti oncologici credono di dover adottare una “mentalità da guerriero”, di rimanere ottimisti dal momento della diagnosi e durante il trattamento per avere una migliore possibilità di sconfiggere il cancro. Per questi pazienti cercare un aiuto per i problemi è simile ad ammettere la propria debolezza“, sostiene la Dr.ssa Chan. “Deve esserci una maggiore consapevolezza, non c’è nulla di male nell’ottenere un aiuto per gestire lo sconvolgimento emotivo, in particolare per la depressione, ansia e il PTSD post cancro“.

Inoltre la ricercatrice Chan nel suo studio sottolinea che molti pazienti vivono nella paura che il cancro possa ritornare e di conseguenza, in alcuni casi i sopravvissuti evitano e rifiutano le visite oncologiche o fisiche per evitare il ricordo traumatico e doloroso dell’esperienza della malattia.
Tutto questo potrebbe condurre la persona a ricercare aiuto in ritardo nel caso di insorgenza di nuovi sintomi o, addirittura, al rifiuto del trattamento per condizioni non correlate in maniera diretta con la malattia.

Mettendo a confronto i pazienti affetti da diversi tipi di cancro, i ricercatori hanno trovato che i soggetti con il cancro al seno possiedono circa 3,7 volte meno la probabilità di sviluppare il PTSD nell’intervallo di tempo di sei mesi, ma non a distanza di quattro anni. Questa differenza potrebbe essere dovuta alla presenza, all’interno del centro oncologico preso in considerazione, di un programma di supporto e consulenza dedicato principalmente ai pazienti con il cancro al seno che si protrae per un anno dal momento della diagnosi.

Attraverso i risultati si evidenzia quanto sia importante porre l’attenzione a una precoce identificazione e a un trattamento continuo del PTSD nei pazienti oncologici. In relazione a quanto detto la dottoressa Chan sostiene: “E’ necessaria una valutazione psicologica in fase iniziale e un servizio di supporto e di follow-up continuo per i pazienti con il cancro in quanto il benessere psicologico e la malattia mentale – e per estensione la qualità della vita – sono importanti quanto il benessere fisico“.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale. Paradigmi e percorsi di cura (2017) di L. E. Zappa – Recensione del libro

La “malattia anoressica” è il tema trattato da Mente coatta, corporeità, anoressia mentale, libro esaustivo ma più adatto agli addetti ai lavori, sulla base delle conoscenze e delle competenze maturate dai diversi specialisti attraverso la loro attività pluriennale di ricerca e cura.

 

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) purtroppo non sono malattie rare, sono malattie piuttosto complesse caratterizzate da un’alterata e persistente condotta alimentare e da comportamenti atti a controllare il peso e le forme corporee. Altre caratteristiche frequenti sono la negazione del disturbo ed una marcata resistenza alle cure. Il testo Mente coatta, corporeità, anoressia mentale di Luigi Enrico Zappa contribuisce a svelare le aree di ricerca condivise che mirano alla realizzazione di un percorso clinico “integrato”, capace di non risultare una esemplificazione eccessiva di una realtà molto complessa.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale: il funzionamento mentale di tipo anoressico

La prima parte del libro Mente coatta, corporeità, anoressia mentale fornisce un inquadramento descrittivo del funzionamento mentale di tipo anoressico, partendo da una prospettiva storica delle prime teorie di spiegazione del disturbo, fino a quelle più attuali. Vengono illustrati numerosi casi clinici, proponendo la centralità della relazione terapeutica come assetto curante della malattia anoressica.

Successivamente la lettura viene orientata verso le prospettive di ricerca e la clinica (con un’attenta analisi alle alterazioni del vissuto corporeo), proponendo accanto agli interventi standard per la cura dei DCA (psicoterapia individuale, terapia farmacologica, riabilitazione nutrizionale, incontri psicoterapeutici e di supporto alle famiglie) anche un trattamento di gruppo basato sul modello dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), breve e focalizzato, volto alla gestione del rapporto problematico con il corpo, attraverso attività finalizzate allo sviluppo di abilità di mindfulness utilizzando esercizi esperenziali e meditativi. Il modello di intervento proposto dagli autori è frutto dell’incontro costante tra ricerca e psicoterapia, e presuppone un attento lavoro di assessment che miri alla raccolta puntuale della storia clinica e a identificare la struttura di funzionamento e i tratti di personalità.

Mente coatta, corporeità, anoressia mentale: il confronto tra diversi approcci terapeutici

La seconda parte del libro si occupa di psicoterapia, analizzando in particolare due tra gli approcci psicoterapici possibili utilizzati dagli specialisti di diversa formazione inseriti in equipe: l’ approccio ad orientamento psicodinamico (con il suo importante passato ed incoraggiante futuro verso nuovi sviluppi e recenti prove di evidenza) e quello cognitivo-psicodinamico o cognitivo-analitico, secondo la teorizzazione introdotta da Ryle nel 1990, applicato alla cura dell’anoressia in alcuni studi (Dare et al. , 2001). Quest’ultimo approccio, pur mantenendo la radice teorica psicodinamica, dà ampio spazio anche ad un ruolo più attivo del terapeuta, all’analisi dei significati consci e del valore che le pazienti attribuiscono alla malattia, ed ad un’analisi dettagliata degli schemi mentali connessi al mantenimento del sintomo.

La diagnosi e la programmazione dei trattamenti proposti, nascono dai risultati ottenuti dalla ricerca e dai dati provenienti dall’esperienza clinica, e si traducono in un intervento multidisciplinare necessario a fronteggiare lo “straordinario disordine psiconeuroendocrinologico” (Gatti B., 1997) dell’anoressia mentale.

Grande rilievo viene dato in Mente coatta, corporeità, anoressia mentale, oltre che alla comprensione diagnostica, alla cura del contesto clinico ospedaliero, alle linee guida sugli specifici livelli di assistenza e ricerca clinica, anche ai diversi livelli di integrazione a partire dai vissuti e dalle emozioni di tutte le componenti dell’equipe curante. Secondo gli autori la mente anoressica presenta una teoria metapsicologica caratterizzata dalle dimensioni dell’alessitimiadisregolazione emotiva, del controllopaura e dell’alterata immagine corporea. Ma l’accento principale viene posto anche sulla funzione integrante dello psicoterapeuta, declinata su più livelli del lavoro di cura inter-disciplinare. Questa funzione integrante è cognitiva ed affettiva, dentro di sé (nel terapeuta), all’interno dell’equipe, attraverso la relazione che è centrale con il paziente nel percorso di cura, affinché il paziente stesso possa acquisire e utilizzare quelle competenze che a livello mentale non ha potuto sviluppare, insieme alla possibilità di ripristinare un insediamento della psiche nel corpo e nel funzionamento corporeo.

I modelli di cura

La terza parte del libro Mente coatta, corporeità, anoressia mentale offre in analisi i modelli di cura, dalla RPP – Riabilitazione Psiconutrizionale Progressiva (applicabile in ambito residenziale, semi-residenziale e ambulatoriale) fino ai modelli di intervento di riabilitazione intensiva ospedaleria, ai quali afferiscono circa il 30% dei pazienti con DCA, che necessitano di cure più intensive. In ultima analisi viene illustrato il modello della comunità terapeutica psichiatrica per i DCA, impiegato per i casi più gravi e con tendenza alla cronicizzazione, analizzando tutti gli aspetti salienti, fino al periodo successivo all’uscita dalla comunità.

Una nuova scoperta sui meccanismi di morte cellulare nelle malattie neurodegenerative

I ricercatori del King’s College di Londra hanno scoperto nuovi meccanismi di morte cellulare associati a malattie neurodegenerative debilitanti quali il morbo di Alzheimer e il morbo di Parkinson.

 

La nuova ricerca, pubblicata su Current Biology, potrebbe assumere un ruolo di estrema importanza per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici utili nel trattamento delle malattie neurodegenerative attualmente senza cura.

Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da una perdita progressiva delle funzioni cerebrali con la conseguenza che i soggetti affetti diventano progressivamente inabili nel controllo del movimento, dell’equilibrio, della memoria e del linguaggio e di altre funzioni cognitive.

Il problema maggiore quando si parla di condizioni neurodegenerative è la mancanza di conoscenza circa il come e il perché i neuroni perdano la loro funzione, in particolar modo nella fase terminale di queste malattie.

Malattie neurodegenerative e blocco nel processo di autofagia

Nello studio inglese, i ricercatori osservando le cellule cerebrali dei moscerini della frutta e dei topi hanno trovato un processo disfunzionale simile a quello che si ipotizza possa accadere nel cervello umano in casi di malattie neurodegenerative. In particolar modo hanno scoperto che, nella condizione patologica simulata, le cellule nervose di alcune aree del cervello andavano incontro ad un blocco che impediva l’eliminazione delle tossine. Il processo noto con il nome di autofagia svolge il compito essenziale di eliminare le cellule vecchie o danneggiate che vengono poi riciclate per rinnovare altre cellule cerebrali.

Il blocco persistente dell’ autofagia si traduce in un accumulo di tossine che induce i neuroni ad eliminare erroneamente elementi essenziali per il funzionamento cerebrale portando prima ad una perdita delle funzioni e poi alla morte cellulare.

Le evidenze trovate risultano alquanto importanti poiché permetterebbero lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici focalizzati sul processo dell’ autofagia. Nello studio infatti i ricercatori sono stati in grado di interrompere specifici processi che interferivano con la clearance cellulare (il processo di eliminazione delle sostanze messo in atto dalla cellula). Le terapie odierne al contrario, appaiono incentrate solo sul miglioramento della clearance, senza andare ad indagare le possibili cause interferenti; i risultati della ricerca potrebbero quindi suggerire una soluzione alternativa rispetto agli attuali trattamenti per le malattie neurodegenerative.

Olga Baron, autrice dello studio ha dichiarato:

Studi come il nostro sono molto importanti per identificare nuovi meccanismi biologici che possono essere alla base delle malattie neurodegenerative. Attualmente stiamo lavorando per replicare gli stessi risultati per altri disturbi nei quali l’ autofagia ha dimostrato una scarsa funzionalità come ad esempio il morbo di Alzhaimer e la malattia dei motoneuroni.

 

Autismi: quale futuro – Una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo di noi”

Il 5 dicembre si è svolta nell’Auditorium La Filanda di Cornaredo, una serata informativa organizzata dal Comune di Cornaredo e dalla Onlus “Dopo Di Noi”. Hanno partecipato il Prof. Lucio Moderato, Direttore dei Servizi per l’Autismo della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, Corrado Bassi, Presidente della Onlus “Dopo di Noi”, Mirko Gelsomini, ricercatore del Politecnico di Milano e Elisa Fusaro, mamma di Giacomo.

 

Come migliorare la qualità di vita e il futuro delle persone autistiche

Durante la serata si sono presentati i progetti in atto volti a migliorare la qualità della vita delle persone autistiche in un’ottica di ampliamento delle autonomie e quindi dello sviluppo delle risorse delle persone con autismo. La parola d’ordine è “oggi è già domani”: è necessario agire oggi per preparare il futuro. Negli anni ’70 l’incidenza delle persone con autismo era 1: 700000, oggi 1 ogni 68: questo dato ci dice che, con un’incidenza così elevata, l’autismo è una condizione da accettare e abilitare. Lucio Moderato, infatti, parla di abilitazione al posto di cura, di qualità della vita, di case, di posti di lavoro, al posto di guarigione.

Aumentare l’ inclusione sociale significa ampliare la conoscenza della condizione autistica, implementare l’uso di nuovi strumenti tecnologici ad hoc nella vita quotidiana e avvicinarsi alle esperienza di vita delle famiglie di persone autistiche in modo empatico. Le conoscenze in merito all’autismo si sono modificate notevolmente negli ultimi vent’anni, portando a radicali mutamenti nel paradigma di comprensione della condizione autistica di neurodiversità grazie soprattutto alle famiglie che agiscono e si battono per i propri figli. È proprio avvicinandosi alla realtà quotidiana che è possibile comprendere quali sono le necessità inderogabili delle persone autistiche: in Italia un ragazzo autistico che compie 18 anni, risulta paradossalmente “guarito” per lo Stato Italiano, non sono previsti aiuti né progetti statali e rodati per accompagnarlo nella transizione alla vita adulta.

Quale sarà quindi il futuro di un adulto autistico? Come si può preparare un futuro caratterizzato da una migliore qualità di vita, dall’inclusione sociale e lavorativa?

Il Prof. Moderato e Corrado Bassi rispondono a questa importante domanda mostrando come si può, e si dovrebbe, lavorare “in sistema” per favorire un Clinical Management Territoriale che possa essere non solo socialmente sostenibile, ma anche una risorsa per l’intera società sul lungo periodo. L’ottica non è assistenziale, ma inclusiva, tale da permettere alle persone autistiche di trovare il proprio posto nel mondo adulto e produrre valore per sé e per la società.

Il Prof. Moderato ci illustra il suo progetto di intervento su bambini e famiglie che ha come obiettivo la presa in carico totale e l’accompagnamento attraverso le tappe di abilitazione che porteranno il bambino con autismo a sviluppare le proprie risorse. Un grande progetto di questo tipo parte proprio dalle piccole necessità di ogni giorno: “è più importante intervenire nel quotidiano subito, in modo tempestivo per costruire le piccole autonomie giornaliere, per esempio partendo dal mettersi le mutande da soli!

L’importanza del lavoro di rete con le persone autistiche

Il progetto non riguarda solo bambini e famiglie ma anche altri attori significativi del sistema (medici pediatri, medici di medicina generale, servizi per famiglie straniere, servizi socio sanitari, scuola, servizi domiciliari, educatori, aziende) in modo che, attraverso la conoscenza della condizione autistica e della formazione ad hoc, l’autismo possa avere un impatto sociale meno pesante di quello di oggi.

Corrado Bassi ha fondato la Onlus “Dopo di Noi”: è una onlus giovane che ha come obiettivo la creazione di condizioni di sicurezza per costruire il DOPO. Le domande che preoccupano i genitori sono “Quando non ci saremo più, che fine farà nostro figlio? Chi si prenderà cura di lui? Come farà a gestirsi?”. La Fondazione prevede un patrimonio gestito rigidamente solo ed esclusivamente ad uso dei progetti previsti per l’autonomia dei giovani adulti autistici. È necessario contribuire e creare reti sociali sempre più forti e funzionanti in modo che il futuro diventi sempre meno incerto.

L’intervento di Mirko Gelsomini, ci ha invece aperto il mondo delle nuove tecnologie e della ricerca (Politecnico di Milano) volte alla creazione di percorsi educativi personalizzati con l’impiego di tecnologie innovative ed interattive per il gioco, l’apprendimento e l’inclusione. Sono stati sviluppati progetti e strumenti tecnologici che si avvalgono della robotica e della realtà virtuale per fornire ai bambini e ragazzi autistici la possibilità di fare esperienze relazionali giocando e apprendendo in un contesto sicuro e privilegiato nuove competenze sociali da generalizzare nella vita quotidiana.

L’intera serata ha dato quindi spazio a più contributi specifici che condividono la consapevolezza dell’autismo non come malattia, ma come condizione di vita da accettare e integrare e perché questo avvenga, è necessario che ogni attore sociale faccia un passo avanti, all’interno della rete da costruire e rinforzare.

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

 

«Nello specifico i comportamenti del robot sono le predizioni derivate dalla teoria usata per costruire il robot e, se il robot si comporta come un essere umano, la teoria è confermata
Parisi (2013)

Parole chiave: robotica, robot, automa, intelligenza artificiale, psicologia del senso comune, biomimetismo, mentalizzazione.

La differenza tra biologico e artificiale è spesso percepita dal senso comune come una battaglia in cui l’ordine sociale si decompone insieme ai cadaveri: incendi, fame, carestie, sofferenza, terrore e morte. Scenari che legano inconsci presagi di un “mondo messo a fuoco” da una sorta di “razzismo” artificiale: il robot contro la specie umana.

Le nostre paure provengono soprattutto da una non definita descrizione di cosa sia (e, quindi, cosa può fare) un robot.
In realtà, dagli stupendi automi meccanici del Settecento, fatti di legno e cuoio, ai cagnolini-robot per l’intrattenimento della Sony, ogni epoca ha avuto i robot che sono l’espressione più elevata del particolare momento tecnologico in cui sono stati costruiti (Metta, Sandini, Tagliasco, 2012).

In cosa consiste la robotica

La robotica è l’insieme delle discipline che si pongono come obiettivo la costruzione di esseri artificiali; e non tutte queste discipline hanno caratteristiche esclusivamente tecnologiche. Così come le scienze della vita si interessano dello studio degli organismi viventi, così la robotica si propone di costruire e progettare esseri artificiali mutuando da scienza e tecnologia suggestioni e competenze di cui ha bisogno.

La robotica spesso si è ispirata, più o meno consciamente, alla biologia [Biomimetismo]. A volte ha cercato di emulare le prestazioni più sofisticate dell’essere umano (sfruttando la mediazione dell’intelligenza artificiale); altre volte ha tratto ispirazione da organismi relativamente semplici (richiamandosi alla prima cibernetica e alle reti neurali).

La robotica autonoma è la scienza che studia i metodi per progettare e realizzare robot intelligenti in grado di svolgere dei compiti utili, di un certo livello di difficoltà, interagendo in un ambiente fisico senza richiedere l’intervento umano. Trae fortemente ispirazione dai sistemi autonomi naturali dato che sono i sistemi autonomi per antonomasia e sono in grado di svolgere in modo efficace una grande varietà di compiti in ambienti complessi e ostili. In alcuni casi, infatti, lo sviluppo di robot autonomi ha l’obiettivo di costruire delle macchine artificiali con caratteristiche fisiche e comportamentali analoghe agli organismi naturali, accrescendo così lo studio e la comprensione dei principi alla base dell’intelligenza biologica naturale e dei processi cognitivi e comportamentali degli organismi, tra cui animali e l’uomo (Carboni, 2002).

Possibili definizioni di robot

In realtà, la definizione di robot, è talmente ampia che anche un forno a micro-onde può essere considerato un robot. Altri studiosi, come Mackworth (1977), presidente della American Association for Artificial Intelligence, ritengono che i robot debbano avere uno scopo, ed agire in accordo ad esso.

Brooks (1986) ritiene:

«Per me un robot è qualcosa che ha qualche effetto fisico sul mondo, ma lo fa in base a come si percepisce il mondo e come il mondo cambia intorno ad esso. Si potrebbe dire che la lavastoviglie è un sistema robotico per i piatti di pulizia (…) Innanzitutto non ha alcuna azione di fuori dei confini del suo corpo. In secondo luogo, non conosce i piatti al suo interno (…) Non ha una comprensione del mondo che lo circonda in qualsiasi tipo di modo significativo».

I punti critici, per Brooks, sono quindi la possibilità di agire sul mondo, la capacità di percepirlo e, in definitiva essere situato nel mondo e percepirlo.
Wooldridge e Jennigs (1995), elencano le tre caratteristiche più importanti dei sistemi intelligenti: 1) Reattività: gli agenti intelligenti percepiscono l’ambiente e sanno rispondere ai cambiamenti che occorrono per raggiungere gli obiettivi fissati. 2) Proattività: gli agenti intelligenti sono capaci di comportamenti finalizzati all’obiettivo anche prendendo autonomamente l’iniziativa. 3) Abilità sociali: gli agenti intelligenti sono capaci di comunicare con altri agenti per raggiungere gli obiettivi.

Ma forse la migliore definizione è quella di Engelberger (2012), considerato uno dei padri della robotica, che, intervistato, disse «Non so definire cosa sia un robot, ma lo so riconoscere quando ne vedo uno!».
Una frase che rimanda al concetto di “mentalizzazione” e, dunque, alla predisposizione umana di attribuire al robot una forma di consapevolezza in cui, il robot avendo una mente, potrà dedurre a sua volta che altri l’abbiano (Lombardo, 2017); si richiama così a fine articolo lo scenario iniziale: il binomio di possibilità ha radice nella domanda “A cosa può servire tale consapevolezza?”. In altri termini il robot, essendo dotato di una mente – ovvero, comportandosi come l’uomo – sarà al servizio di esso o contro la specie umana?

Non dimentichiamoci dell’odore: questione di genere

La ketamina funziona come antidepressivo sui topi solo se somministrata da ricercatori maschi.
Uno studio di Georgiou, presentato alla società di Neuroscienze (SfN) a Washington e pubblicato su Nature Methods, ha mostrato come l’esposizione a ricercatori di genere maschile e non femminile produca l’attivazione dell’azione antidepressiva della ketamina nei topi.

 

Le proprietà antidepressive della ketamina

La neuroscienziata Polymnia Georgiou dell’Università del Maryland si è trovata inconsapevolmente ad approfondire il mistero degli effetti della ketamina, che ha importanti proprietà antidepressive, sul cervello; infatti nel 2015 un suo collega di laboratorio maschio le chiese di continuare un protocollo di ricerca, chiamato “forced swim-test”, per testare gli effetti antidepressivi della ketamina sul cervello dei topi.

Gli studi sulla ketamina sono sempre più numerosi in quanto questa sostanza psicoattiva ha potenzialità antidepressive che possono essere attive sui network cerebrali già poche ore dopo la sua somministrazione pertanto può essere utilizzata in ambito terapeutico con le forme di depressione più severe e in cui è presente una forte componente suicidaria (Gao, Rejaei & Liu, 2016).

La ricercatrice mise in atto minuziosamente l’intero protocollo iniettando nei topi sani la ketamina e immergendoli poi in una vasca piena di acqua per misurare quanto tempo avrebbero impiegato nuotando prima di arrendersi e chiedere aiuto ad altri topi presenti nella medesima vasca.

Nei precedenti esperimenti condotti dalla stessa equipe e che usavano lo stesso protocollo, i ricercatori, tra i quali erano presenti anche uomini, avevano osservato che il gruppo dei topi al quale erano stati somministrati antidepressivi tendeva a nuotare per più tempo e più velocemente rispetto al gruppo di topi non trattati farmacologicamente.

Tuttavia nel portare avanti l’esperimento del collega, la ricercatrice Georgiou notò che i topi trattati con la ketamina non nuotavano più nelle stesse modalità osservate nell’esperimento precedente; quindi si rese conto che l’effetto antidepressivo della ketamina si attivava soltanto quando la sostanza veniva somministrata ai topi da ricercatori di genere maschile.

L’odore e il cervello

Questi sorprendenti risultati portarono l’equipe di ricercatori guidati dalla Georgiou ad approfondire l’argomento e a ritenere che l’odore emanato dai ricercatori stessi potesse essere coinvolto e potesse determinare lo strano effetto osservato.

Per poter dimostrare il coinvolgimento dell’odore nell’attivazione degli effetti antidepressivi della ketamina, l’equipe di ricerca decise di inserire i topi, al momento della somministrazione della sostanza e prima di immergerli nella vasca, sotto un telo intriso di un fumo con un odore molto forte per evitare così che gli animali potessero avvertire l’odore dei ricercatori.

Questo stratagemma determinò l’eliminazione dell’effetto antidepressivo della ketamina senza che vi fosse il coinvolgimento dell’odore dei ricercatori di genere maschile.

Per cui i topi a cui era stata somministrata la ketamina non nuotavano più velocemente e tendevano ad arrestarsi come i topi a cui era stato somministrato il placebo.

Al contrario nella condizione in cui sotto il telo, accanto ai topi, veniva posta una t-shirt indossata da un uomo, si osservò l’effetto antidepressivo della ketamina nei topi iniettati con la sostanza, che nuotavano più velocemente e per più tempo rispetto ai topi con il placebo.
Questo fece concludere che l’odore dei ricercatori di genere maschile fosse necessario per l’azione della ketamina.

L’equipe di Georgiou ripeté l’esperimento con altri tipi di antidepressivi per osservare se tale effetto potesse essere generalizzato anche ad altri farmaci ma osservò che il genere dei ricercatori non era così influente sugli effetti dei farmaci.
Pertanto i ricercatori sospettarono che l’effetto antidepressivo soltanto della ketamina fosse il risultato di una specifica interazione tra questa e l’odore dell’uomo nel cervello dei topi (Zanos & Georgiou, 2016).

Altre evidenze (Sorge et al., 2014) suggerivano come il genere dei ricercatori potesse influire anche su esperimenti comportamentali, non soltanto su quelli coinvolgenti la ketamina.

Nello studio condotto da Sorge e colleghi (2014) infatti si dimostrò che i topi che erano esposti ad un forte stress rispondevano al dolore con meno frequenza quando erano i ricercatori maschi a sottoporli ad uno shock, come se la vicinanza dei topi a “stimoli di genere maschile” inducesse una più robusta risposta analgesica.

È bene precisare che questi risultati sono preliminari e che altri studi dovranno essere fatti per indagare più nel dettaglio gli effetti del genere maschile sulla ketamina e sul cervello dei topi” afferma Adrienne Betz, neuroscienziata comportamentale all’università di Hamden, Connecticut.

Si ritiene che queste ricerche pocanzi illustrate siano importanti da considerare in quanto mettono in luce come negli esperimenti scientifici fatti sia per indagare gli effetti dei farmaci sul cervello degli animali sia per studiare i loro comportamenti, vi siano altre variabili, molto spesso non indagate e trascurate ma altrettanto cruciali, che possono in qualche modo influenzare gli esiti della ricerca stessa e la riproducibilità degli esperimenti.

A detta di Todd Gould, neuroscienziato dell’università del Maryland: “i ricercatori che studiano gli effetti dei farmaci psicoattivi sul comportamento degli animali dovrebbero riportare nelle loro pubblicazioni il genere dei partecipanti all’equipe di ricerca per poter assicurare che altri laboratori possano poi avere tutte le informazioni necessarie per replicare lo studio, in quanto ci sono molte variabili intervenienti, come l’odore, ancora sconosciute che possono influire sui risultati della ricerca”.

La relazione tra gli stili di attaccamento e la soddisfazione coniugale

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e la nostra soddisfazione coniugale: riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci dunque a comprendere punti di forza e vulnerabilità in una relazione

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Il nostro stile di attaccamento interessa ed influenza molteplici aspetti della nostra vita, e questo riguarda anche la selezione del nostro partner e a quanto ci riteniamo soddisfatti all’interno della nostra relazione. Ecco perché riconoscere il nostro modello di attaccamento può aiutarci a comprendere i nostri punti di forza ed eventuali vulnerabilità in una relazione. I modelli di attaccamento si formano nella prima infanzia e continuano a funzionare come modello operativo per le relazioni in età adulta.

Bowlby ha concettualizzato la teoria dell’ attaccamento (1973) come un sistema psico-evolutivo che guida il comportamento sociale “dalla culla alla tomba” (Bowlby 1979, p. 129), il cui scopo e’ quello di mantenere un livello ottimale e funzionale di prossimità con l’ altro significativo e soddisfare I propri bisogni primari. Da queste prime interazioni, ciascun individuo sviluppa uno schema (o set di risposte) chiamato modello operativo interno, con cui interagisce con il mondo (gli altri).

Questo modello contiene anche le diverse strategie di coping e I diversi stili di regolazione emotiva propri di ciascun individuo, e regola le aspettative che abbiamo nei confronti degli altri, arrivando ad influenzare anche le conoscenze e le future relazioni.

Di conseguenza, l’attività e l’importanza del sistema di attaccamento non sono limitate all’infanzia. Fino ad oggi, gran parte della ricerca empirica suggerisce che l’ attaccamento esercita un ruolo notevolmente importante nei rapporti tra adulti, in particolare nei rapporti romantici e coniugali. La maggior parte degli studi condotti finora ha inoltre dimostrato che esiste una correlazione significativa e positiva tra lo stile di attaccamento di tipo sicuro e la soddisfazione coniugale, e una correlazione significativa e negativa tra gli stili di attaccamento insicuro e la soddisfazione coniugale.

Diverse ricerche hanno dimostrato che quando esiste un modello di attaccamento sicuro, la persona si percepisce affidabile e autosufficiente, e diventa in grado di interagire facilmente con gli altri, riuscendo a soddisfare sia le proprie esigenze e i propri bisogni sia quelli dell’altro. Viceversa, quando è presente un stile di attaccamento ansioso o evitante, la persona tenderà a cercare un partner che si adatterà perfettamente a quel tipo di modello maladattivo.

In che modo lo stile di attaccamento influenza le nostre relazioni sentimentali?

Attaccamento sicuro – Gli adulti con attaccamento sicuro tendono ad essere più soddisfatti nei loro rapporti. Il bambino che sviluppa un attaccamento di questo tipo vede il caregiver come una base sicura da cui può allontanarsi per avventurarsi ed esplorare autonomamente il mondo. Quando diventerà un adulto,  tenderà ad instaurare un rapporto simile con il proprio partner, sentendosi sicuro, e non limitato nelle esplorazioni. La persona svilupperà quindi un legame basato sulla fiducia reciproca e considererà il partner come degno d’amore e se stesso come degno di essere amato.

Gli adulti sicuri sono inoltre capaci di offrire supporto emotivo  quando il loro partner si sente afflitto e sono altrettanto capaci di chiederlo nei momenti di difficoltà.

Attaccamento ambivalente ansioso – A differenza delle coppie sicure, gli individui con stile di attaccamento ansioso tendono ad instaurare legami caratterizzati da continue idealizzazioni. Da bambini, hanno sperimentato un legame di attaccamento con una madre “imprevedibile”, che li ha portati a sviluppare modelli operative interni di sé ambivalenti, arrivandosi a percepire a volte come individui degni d’amore e di rispetto, a volte invece, come deboli e indegni di ricevere amore. All’interno della relazione amorosa, questi individui diventano esigenti e possessivi quando percepiscono incertezza, quando quindi sono i MOI negativi a prevalere, mentre esprimerà sentimenti di amore e rispetto e penserà di essere amato, quando prevarranno invece Modelli operativi positivi di sé e dell’altro.

Attaccamento evitante – Le persone con uno stile di attaccamento evitante hanno la tendenza a distanziarsi emotivamente dal loro partner. Possono cercare spesso l’isolamento e sentirsi “pseudo-indipendenti”. Dall’esterno, spesso appaiono come troppo concentrati su se stessi e sulla propria realizzazione personale, mai emotivamente coinvolti del tutto nella relazione col partner. Da bambini questi individui hanno fatto esperienza di una madre che non dà sicurezza affettiva, percepita come fredda, rifiutante, mai disponibile a soddisfare I bisogni d’amore o di conforto. Questi individui nel corso della loro infanzia hanno sviluppato un modello operativo interno che li definisce come non degni d’amore e diffidenti verso il mondo esterno, percepito come cattivo, inaffidabile. L’adulto evitante quindi, per paura di un eccessivo coinvolgimento nella relazione e di una eventuale sofferenza, adotterà una posizione estremamente difensiva e distaccata.

In che modo le esperienze di un individuo nell’infanzia influenzano la soddisfazione coniugale?

La soddisfazione coniugale può essere considerata come costituita da diversi fattori, tra cui la condivisione di interessi reciproci, valori reciproci, la soddisfazione sessuale e gli stili di comunicazione (ad esempio, Fowers & Olson, 1989; Gottman, 1999). Essa può essere inoltre vista come il piacere derivato dall’essere consapevoli di una situazione confortevole, di solito legata alla soddisfazione di specifici desideri coniugali. La parola soddisfazione invece, si riferisce ad un atteggiamento, un attitudine. Di conseguenza, è considerata una caratteristica personale di una coppia. Hawkins (2004) definisce la soddisfazione coniugale come “sentimenti soggettivi di felicità, soddisfazione e piacere sperimentati dalla coppia quando vengono considerati tutti gli aspetti del matrimonio

Sembra chiaro che il senso di sicurezza che si avverte ogniqualvolta siamo in una relazione amorosa, sia un elemento chiave per poter parlare di soddisfazione del rapporto.

Una delle funzioni più basilari delle relazioni significative infatti, è quello di fornire un senso di stabilità, protezione e di sicurezza in un mondo che è così mutevole e minaccioso (Mikulincer, Florian, & Hirschberger, 2003).

Sembra inoltre, che la sicurezza nel legame di attaccamento sia una risorsa psicologica che consente agli individui di affrontare con maggiore successo le sfide della vita quotidiana e di quella coniugale e che coloro che godono di un forte senso di sicurezza di attaccamento abbiano anche matrimoni più duraturi e più soddisfacenti (Shiota & Levenson, 2007)

Le ricerche che condividono le stesse premesse teoriche, hanno rivelato che, rispetto agli adulti con stile di attaccamento insicuro, gli individui caratterizzati da attaccamento sicuro possiedono credenze più positive e ottimiste sull’amore romantico e credono che quest’ultimo possa durare nel tempo (Hazan & Shaver, 1987). Inoltre è stato osservato che le persone con questo stile di attaccamento  presentano aspettative sulla relazione più positive (Collins, 1996, Collins & Read, 1990), e godono di una maggiore soddisfazione coniugale (ad esempio, Brennan & Shaver, 1995, Collins & Read, 1990, Feeney, 1994, Feeney, Noller e Callan , 1994; Fuller & Fincham, 1995).

Altre ricerche hanno dimostrato che anche lo stile di vita è un fattore importante, capace di influenzare il livello di soddisfazione coniugale (Banse,2004) Di conseguenza, le coppie sposate che si ritenevano soddisfatte del loro matrimonio, adottavano uno stile di vita basato sulla cooperazione e sugli obiettivi condivisi. Quindi, sperimentavano una maggiore soddisfazione coniugale.

Alcuni studi hanno esaminato l’influenza dello stile di attaccamento all’interno di rapporti significativi utilizzando modelli di studio longitudinali. In uno studio longitudinale di Kirkpatrick e Hazan (1994) è stato osservato che in un periodo di 4 anni gli individui con uno stile di attaccamento sicuro avevano relazioni più stabili, ed erano più disponibili ad impegnarsi, rispetto a quelli con stile di attaccamento insicuro. In  un altro studio longitudinale durato 31 anni (Klohnen & Bera, 1998) si sono verificati risultati simili. Le donne classificate come sicure, all’età di 52 anni, erano più propense a sposarsi quando avevano 21 anni, avevano maggiori probabilità di essere sposate all’età di 27 anni e più probabilità di rimanere sposate nel tempo, oltre a riportare un livello di soddisfazione coniugale maggiore misurata all’età di 52 anni.

Shi Lin (2003) ha condotto una ricerca in cui veniva presa in esame la correlazione tra lo stile di attaccamento nell’adulto e la risoluzione dei conflitti all’interno della coppia. I risultati hanno mostrato che coloro i quali erano stati classificati come “sicuri” erano piu’ propensi alla risoluzione di conflitti arrivando a compromessi, mettendo da parte sentimenti di sfiducia o paura.

I partner con uno stile di attaccamento sicuro mettono impegno per raggiungere soddisfacenti livelli di comunicazione verbale (Collins & Read, 1990), reciproca discussione e comprensione (Feeney, Noller, & Callan, 1994) e sono meno inclini all’utilizzo di aggressività verbale.

In una ricerca condotta da MacLean, a 124 coppie è stato chiesto di compilare questionari relativi allo stile di attaccamento e alla soddisfazione coniugale. I risultati hanno dimostrato che mogli e mariti che riportavano il più alto livello di soddisfazione coniugale, erano entrambi appartenenti alla categoria di attaccamento di tipo “sicuro”, mentre le mogli più insoddisfatte erano nella combinazione evitante-evitante. Questi risultati possono essere interpretati alla luce del fatto che nella coppia evitante-evitante, entrambi gli sposi sono incapaci di soddisfare i bisogni dell’altro, avendo la tendenza ad evitare la prossimità.

In conclusione possiamo affermare che le esperienze precoci di vita e lo stile di attaccamento giocano un ruolo importante nella formazione e nel mantenimento di relazioni significative oltre che influire sulla scelta del partner.

Report dal Convegno Donna e Sport di Catania – 22 novembre 2017

Il Convegno che si è svolto il 22 novembre 2017 a Catania nei locali del Palazzo Platamone, è stato organizzato e promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana nella persona del Consigliere Dott.ssa Graziella Zitelli ed ha avuto quale Responsabile Scientifico il Presidente Nazionale dell’Ordine, Dott. Fulvio Giardina. Ha fatto da cornice all’evento la mostra fotografica dal titolo “Donna è Sport nell’Unità d’Italia 1861-2011”, un’esposizione corposa, costituita da 70 pannelli formato 1 x 2 metri che hanno testimoniato, attraverso 700 immagini e brevi didascalie, l’evoluzione dello sport femminile dall’Unità d’Italia ai nostri giorni.

 

Donna e sport: il processo di emancipazione della donna attraverso lo sport

Il tema Donna e sport è stato trattato dai relatori, con interventi che hanno spaziato dall’emancipazione della donna attraverso lo sport, alla psicologia dello sport, dal diritto allo sport alla “sport terapia” nella disabilità fisica e psichica, per concludere con l’importanza dello sport nella malattia oncologica ed i racconti delle atlete tra sfide e motivazioni.

Apre i lavori il Prof. Santo Di Nuovo, Direttore del Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Catania e Presidente del Corso di Laurea in Psicologia, con la considerazione che, al di là di ciò che divide uomini e donne nella pratica sportiva, andrebbe considerato ciò che accomuna, ovvero ciò che prescinde dal genere: l’educazione allo sport.

Il Dott. Pierluigi Torresani, Esperto in processi formativi che opera presso l’ Università Cattolica di Milano, ha offerto una lettura di questo percorso di emancipazione della donna attraverso lo sport, proponendo spunti di riflessione rispetto al pensiero di Pierre De Coubertin, il barone francese principale artefice del movimento olimpico moderno nato alla fine del XIX secolo, che si opponeva risolutamente all’agonismo femminile per la differente fisiologia della donna e il diverso ruolo nella società che la rendevano, a suo avviso, inadatta all’attività sportiva. Ha inoltre ben trasmesso il punto di vista di Candido Cannavò, che ha ricoperto per 19 anni la carica di direttore della Gazzetta dello sport, il quale scriveva nella sua rubrica Candidamente: “di aver conosciuto le pioniere e le eroine, le grandi atlete capaci di sfidare il mondo. Il loro fascino si incrociava con il nostro stupore“. Secondo Cannavò in nessun settore, come quello dello sport, si è realizzato un superamento di qualità rispetto all’universo maschile, ed è in riconoscimento a ciò che ha dedicato molte prime pagine alle atlete che ne hanno fatto la storia.

Alla tavola rotonda è intervenuta la Dott.ssa Cristiana Conti, membro del direttivo dell’AIPS (Associazione Italiana Psicologia dello Sport), nonché ex-tecnico per gli sport da combattimento, che ha parlato dei predittori dell’impegno verso lo sport ed ha offerto un quadro dello sport al femminile, ancora caratterizzato da modelli culturali stereotipati.

Lo sport come terapia

Il Prof. Fabio Lucidi ha poi più volte parlato del concetto di retorica nello sport, nell’accezione di accrescimento dell’efficacia di un discorso, ad opera del già citato De Coubertin, per il quale lo sportivo doveva essere uomo in quanto freddo, agonista e competitivo; il che è in linea con quanto i media ancora oggi trasmettono da un punto di vista comunicativo parlando non sempre di atlete, bensì di “ragazze” che praticano sport.

Ha fatto seguito l’intervento di Claudio Pellegrino, delegato provinciale del C.I.P. (Comitato Italiano Paralimpico) Sicilia che ha sottolineato l’importanza dello sport come “terapia” per i benefici che apporta a livello fisico, psichico e sociale; ciò attraverso anche qui un’evoluzione che è passata da un punto di vista di riconoscimento normativo, tra i concetti di inserimento, integrazione, inclusione delle persone con disabilità. Da un punto di vista prettamente sportivo, solo nel 1984 il Comitato Internazionale Olimpico approva il termine Paralimpiadi, il quale sarà utilizzato ufficialmente ai mondiali di Seul dell’88.

Molto toccanti, le testimonianze delle atlete intervenute al convegno. Tra tutte quella dell’ex pallanuotista Giusy Malato ha fatto vibrare i cuori. La più forte della storia di questo sport, l’unica donna ad aver vinto la “Calottina d’oro” (2003), premio che viene dato ogni anno al miglior giocatore del mondo. Con la nazionale vinse l’oro alle Olimpiadi di Atene (2004), due titoli mondiali (1998, 2001), un titolo europeo (1999), 14 scudetti consecutivi (1992-2005) con l’Orizzonte Catania, squadra che nel 2007/2008 condusse da allenatrice alla vittoria in campionato e in coppa Campioni. Racconta della sua sostituzione, dopo aver deciso con sacrificio e determinazione di programmare anticipatamente il parto pur di ottemperare ai suoi doveri professionali. Nell’aprile del 2008 diventa mamma, trovandosi costretta a scrivere una lettera per dichiarare che all’origine del suo licenziamento c’era anche la maternità.

La Dott.ssa Maria Cristina Scuderi, dirigente medico presso la clinica Morgagni di Catania, in linea con uno degli obiettivi dell’evento, ha messo in evidenza infine, l’importanza dell’attività sportiva dopo un percorso di malattia oncologica, neurologica e cardiopatica quale promotore del benessere psico-fisico della persona.

Sei un ragazzo estroverso e guidi spesso? Attenzione! Le probabilità che tu possa distrarti alla guida sono alte

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

 

La relazione tra i tratti di personalità e la distrazione alla guida

Il primo studio che analizza come i tratti di personalità influenzino la distrazione del guidatore.

L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stima che, ogni anno, circa un milione di persone perdono la vita in incidenti stradali. I maggiori motivi di distrazione che possono contribuire al verificarsi di questi incidenti mortali sono l’utilizzo dello smartphone ed il cambio di stazione radiofonica durante la guida.

In un recentissimo studio condotto in Norvegia, pubblicato su Frontiers in Psychology, i ricercatori Johansson e Fyhri hanno indagato come genere, età, personalità e frequenza della guida possano essere potenziali fattori di rischio predittivi della distrazione alla guida.
È emerso che il genere più a rischio è quello maschile, in particolare se le persone sono giovani, guidano spesso e sono estroverse o nevrotiche.

Inoltre, da precedenti studi dell’Institute of Transport Economics norvegese, è emerso come gli incidenti tendono a verificarsi nei due secondi successivi alla deconcentrazione e per questo motivo i ricercatori hanno ritenuto che la comprensione della distrazione da parte del guidatore ed un intervento focalizzato alla riduzione di questa aiuterà ad impedire incidenti stradali e contribuirà a salvare diverse vite.

Lavorando sull’efficacia di un intervento atto a ridurre la guida distratta, gli studiosi hanno dato ai partecipanti allo studio la possibilità di scegliere tra una lista di piani il cui scopo è quello di ridurre il proprio comportamento distrattivo (facendo, ad esempio, corrispondere frasi tra loro: “se sono tentato dal superare il limite di velocità in autostrada” – “poi mi ricorderò che è illegale”.). Nel frattempo ad un gruppo di controllo sono state fornite informazioni sulla guida distratta, senza che fosse data loro la possibilità di scegliere dei piani, come quello appena riportato ad esempio. Successivamente, a distanza di due settimane, è stata misurata la distrazione dei conducenti, confrontando i soggetti dei due gruppi.

È emerso che non vi erano differenze significative tra i due gruppi, sia coloro che avevano fatto dei piani sia coloro che avevano solamente ricevuto delle informazioni sulla guida distratta hanno mostrato un declino della distrazione alla guida. L’intervento incentrato sulla formazione di piani non è risultato efficace, sembra che essere semplicemente esposti al materiale sulla guida distratta sia sufficiente a rendere i partecipanti più consapevoli delle proprie distrazioni.

In base ai risultati ottenuti, i ricercatori stanno lavorando a futuri interventi. Si ipotizzano attività future focalizzate principalmente sui gruppi a rischio (ad esempio, giovani ragazzi) ed interventi in cui l’elaborazione dei piani non è fatta di corrispondenze tra frasi da selezionare da una lista, ma piuttosto che i soggetti creino dei propri, così da essere maggiormente coinvolti nell’intervento.

In attesa di questi passi avanti, il consiglio rimane quello di esser consapevoli di quanto le proprie piccole distrazioni alla guida possano divenire letali.

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