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Come educare i bambini al benessere fin dalle prime fasi della scolarizzazione

La consapevolezza dell’importanza dello sviluppo sociale ed emotivo nel benessere dei bambini ha portato a dare un posto di rilievo a tali aspetti nell’ educazione dei piccoli; in ragione di ciò, si sta sviluppando in maniera crescente la psicopedagogia positiva come pratica educativa, ritenuta essenziale fin dai primi stadi della scolarizzazione.

 

Capisaldi della psicopedagogia positiva sono alcuni concetti mutuati dalla psicologia positiva, quali la forza caratteriale, la gratitudine, le emozioni positive, lo sviluppo del senso di benessere. È opportuno che gli interventi, che incentivano tali paradigmi, siano fatti già nella scuola dell’infanzia.

Keywords: scolarizzazione, benessere, psicopedagogia positiva.

Educare al benessere

La consapevolezza dell’importanza dello sviluppo sociale ed emotivo nel benessere dei bambini ha portato a dare un posto di rilievo a tali aspetti nell’ educazione dei piccoli (Shoshani e Slone, 2017).

Fondamentale è che i bambini instaurino fin dalle prime fasi del loro ciclo di vita delle relazioni positive con i coetanei, abbiano una sufficiente autostima, imparino ad esternare i loro stati d’animo, sappiano esercitare una forma di autocontrollo sulle emozioni, affrontino in maniera adeguata i compiti di sviluppo e sappiano porsi in maniera propositiva nei confronti delle diverse contestualità che vivono (Oades e al., 2011). Questi costrutti sono ritenuti gli archetipi del futuro benessere psicologico e della salute mentale, per cui si assiste ad un interesse crescente per gli aspetti socio – emozionali nell’ educazione dei bambini fin dalle prime fasi della loro vita (Honing, 2002). L’approccio della psicologia positiva all’educazione degli infanti sembra incentivare l’acquisizione delle competenze socio – emotive (Seligman e al., 2009).

La psicopedagogia positiva

In ragione di ciò, si sta sviluppando in maniera crescente la psicopedagogia positiva come pratica educativa, ritenuta essenziale fin dai primi stadi della scolarizzazione (Shoshani e Steinmetz, 2014). Capisaldi della psicopedagogia positiva sono alcuni concetti mutuati dalla psicologia positiva, quali la forza caratteriale, la gratitudine, le emozioni positive, lo sviluppo del senso di benessere. È opportuno che gli interventi, che incentivano tali paradigmi, siano fatti già nella scuola dell’infanzia. Questo ordine di scuola ha delle finalità ben precise, ovvero deve:

  • implementare le abilità fisiche e motorie dei piccoli;
  • migliorare le competenze sociali ed emotive;
  • sviluppare le capacità linguistiche;
  • incrementare lo sviluppo cognitivo;
  • avviare alle prime abilità di apprendimento.

Spesso accade che l’insegnamento di alcune abilità, come quelle legate all’apprendimento e allo sviluppo cognitivo, prenda il sopravvento su quelle relative all’ educazione socio – emotiva (Shoshani e Aviv, 2012). Questa prospettiva pedagogico – didattica dimentica, però, che il benessere dei bambini agevola gli apprendimenti cognitivi.

In altre parole, più il bambino sta bene con se stesso e con gli altri nel contesto scolastico e più impara (Bonell e al., 2013). D’altra parte, questo nuovo modo di intendere l’educazione dei piccoli, ovvero con una maggiore attenzione allo sviluppo della competenza sociale ed emotiva, diviene necessaria in virtù del fatto che le sezioni di scuola dell’infanzia hanno fra i loro fruitori un alto numero di bambini che presentano difficoltà emotive e comportamentali, come dimostrano diverse ricerche (QI e Kaiser, 2003; United States Department of Education, 2001). Inoltre, diversi studi sperimentali (Hemmeter e al., 2006; Slone e Shoshani, 2014) hanno evidenziato che la fascia d’età dei bambini di scuola dell’infanzia si rivela quella giusta per porre gli archetipi dell’ educazione finalizzata all’acquisizione delle competenze sociali ed emotive, che si rivelano fondamentali per creare l’attitudine al benessere e alla felicità. Alcune ricerche (Luengo Kanacri e al., 2017) hanno sottolineato che nei piccoli esiste una correlazione positiva fra sviluppo delle competenze emotive e comportamenti prosociali. In aggiunta, la conoscenza delle proprie e altrui emozioni incentiva la nascita dell’ empatia. Ancora, le emozioni positive, legate alla gratitudine e ai riti di cortesia, promuovono la creazione di un clima di benessere all’interno della classe (Froh e al., 2009).

L’educazione dei bambini legata ai paradigmi della psicologia positiva, secondo Seligman (2011), deve contenere alcuni archetipi, quali:

  • sviluppare le emozioni positive;
  • incentivare l’interesse per quello che si fa;
  • migliorare le relazioni fra pari;
  • sollecitare la capacità di porsi degli obiettivi.

In conclusione, esistono numerose evidenze empiriche che dimostrano la validità della psicopedagogia positiva nel migliorare lo stato di benessere degli alunni, cosa che agevola i loro apprendimenti.

Cinquanta sfumature: una lettura psicodinamica del personaggio di Christian Grey

In Cinquanta sfumature di Grigio viene messa in scena, rappresentata da due tipologie di donne ben distinte, la forte una scissione che Christian Grey opera nei confronti dell’oggetto: quello “buono” e affidabile, quello “cattivo” e da controllare.

 

Erika Leonard, in arte E. L. James, ci introduce con Cinquanta sfumature di Grigio ad una delle trilogie più popolari e controverse degli ultimi anni. Si tratta della storia d’amore tra Anastasia Steele e Christian Grey, tra un’ingenua studentessa americana e un giovane imprenditore miliardario. E’ una relazione che nasce da un incontro fortuito e che si trasforma in una storia travagliata fin dalle prime scene, quando Anastasia scopre che quell’uomo misterioso vive la sessualità in un modo singolare, che lei non comprende.

Cinquanta sfumature: Christian Grey e la scissione tra oggetto buono e cattivo

Le donne che ruotano attorno a lui sono di due tipi: assistenti alte, bionde e occhi azzurri da un lato, “sottomesse” more e acqua e sapone dall’altro. Viene messa in scena, rappresentata da due tipologie di donne ben distinte, la forte una scissione che Christian Grey opera nei confronti dell’oggetto: quello “buono” e affidabile, quello “cattivo” e da controllare. Si tratta di un oggetto su cui è possibile non investire, permeato da un’ambivalenza emotiva in cui amore e odio coesistono.

Christian Grey, figlio di una tossicodipendente morta di overdose, sopravvive al suo passato traumatico rinunciando alla posizione depressiva e mantenendo una rappresentazione parziale dell’oggetto materno, le cui qualità sono proiettate, ad opera del principio di generalizzazione, sulla categoria-donna. Christian è un uomo geloso e possessivo, vive le relazioni in modo asimmetrico e stipula contratti tra Padrone e Sottomessa. Così come l’oggetto, anche il protagonista della trilogia di Cinquanta Sfumature viene descritto come scisso: dolce e disponibile, ma anche freddo e calcolatore. Il suo passato lo tormenta e la sua stessa pelle presentifica una grande difficoltà nella relazione con l’altro, inaccessibile e intrusivo allo stesso tempo, in una labilità dei confini resa visibile dal confine corporeo in cui sono relegate le sue bruciature.

Il modo in cui Christian Grey vive le relazioni erotiche appare svincolato dall’altro, la cui sottomissione è secondaria ad una sola caratteristica imprescindibile: la somiglianza alla madre biologica. Il bisogno pulsionale sembra poter essere soddisfatto attraverso uno spostamento della pulsione da un oggetto all’altro. In Cinquanta Sfumature di RossoMr Grey lo spiega: non è un “dominatore” ma un sadico, che prova piacere nell’infliggere punizioni a donne che somigliano alla madre. Il sadismo in effetti è l’esercizio della violenza contro un’altra persona, assunta come oggetto; il piacere sessuale non è però dato dal provocare dolore, quanto piuttosto da un’identificazione con chi subisce la sofferenza. In una sorta di coazione a ripetere, Christian Grey sembra rievocare le torture subite nell’infanzia attraverso il suo modo di vivere la sessualità, la quale nella prima parte della storia sembra poter esistere, in effetti, solo nella “Stanza delle Torture”.

Quando Anastasia lo lascia perché incapace di tollerare le regole del contratto e la qualità di una relazione fondata sul possesso, sembra emergere per Christian la possibilità di un’integrazione dell’oggetto, fonte di piacere e dispiacere allo stesso tempo. Dopo un gioco sessuale finito male lui le mormora “non odiarmi”, lei invece gli dirà che è innamorata di lui. “Non puoi amarmi Ana. No…è sbagliato”: l’esperienza di essere amato e visto nella complessità delle sue cinquanta sfumature consente a Christian Grey di recuperare aspetti di sé frammentati e scoprirsi capace di una relazione d’amore e di un piacere sessuale “alla vaniglia”.

Non tutto quello che postiamo va a beneficio della nostra immagine: gesto impulsivo o intenzionale?

Un recente studio cross-culturale tra Italia e Gran Bretagna, pubblicato su CyberPsychology, Behavior and social networking, ha mostrato come i soggetti di entrambe le nazionalità tendano a postare sui principali social network materiale personale ad alto rischio in modo impulsivo, in ugual misura, ma anche con intenzionalità.

 

I fattori psicologici che influenzano i comportamenti rischiosi sul web

Da diverso tempo a questa parte appaiono sui giornali le conseguenze, spesso molto negative e tragiche, di comportamenti sconsiderati e pericolosi come il cyberbullismo, messi in atto sui principali social network, fra tutti il caricamento online di materiale molto personale come foto, stralci di conversazioni intime, offese e critiche rivolte a terze persone.
Qual è la ragione per cui alcuni individui hanno la tendenza a postare contenuti e immagini potenzialmente pericolosi o danneggianti altre persone, quasi senza considerare gli effetti negativi che questo potrebbe determinare?

Per cercare di rispondere a questa domanda, White e colleghi (2017), dell’Università di Plymouth, hanno cercato di individuare e approfondire i fattori psicologici che potrebbero influenzare la comparsa e la frequenza sempre maggiore di comportamenti rischiosi sul web.

I fattori cruciali sono l’automonitoraggio e l’impulsività

Tramite lo studio (White, Cutello, Gummerum et al., 2017), i ricercatori hanno cercato in particolare di indagare se l’attività di postare materiale pericoloso sui social network fosse più in relazione a processi impulsivi o al contrario frutto di processi deliberati e intenzionali.
Ricerche precedenti (Zuckerman & Kuhlman, 2000) avevano messo in luce due fattori cruciali: l’automonitoraggio, che sembra essere più legato a processi deliberati e l’impulsività.

Per automonitoraggio si intende la capacità dell’individuo di controllare attivamente e deliberatamente il proprio comportamento, il modo di presentarsi e porsi nei confronti delle altre persone con l’obiettivo di mostrarsi appropriato al contesto favorendo e mantenendo allo stesso tempo un’immagine di Sé in linea con le norme sociali e interpersonali (Snyder, 1987).
Infatti solitamente le persone con un’alta capacità di automonitoraggio riescono ad adattare la propria immagine al contesto, controllare che questa sia il più possibile conforme a ciò che la società ritiene socialmente appropriato e consono a quel particolare contesto.
All’opposto, le persone con una bassa capacità di automonitoraggio tendono a dare un’immagine di sé più in linea con la propria personalità, le proprie credenze e quindi tendono meno a conformarsi rischiando però di risultare più impulsive (Snyder, 1987).

Tuttavia è risultato che le persone più controllanti la propria immagine e il proprio comportamento con maggiori capacità di automonitoraggio sono in realtà quelle che con molta più probabilità tendono a postare sui social network materiale intimo e personale, potenzialmente a rischio, in quanto percepiscono che “è la giusta cosa da fare” in quel momento e in quella situazione: qual è la ragione?

Il confronto tra italiani e inglesi

Ritenendo che ci fossero anche differenze culturali nella percezione, nell’uso dei social media e nella modalità di presentazione di sé sul web, i ricercatori hanno preso in considerazione sia un campione di nazionalità italiana che inglese (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).
Essi hanno messo a confronto i comportamenti dei giovani adulti italiani e inglesi nella loro esposizione rischiosa e potenzialmente dannosa al web tramite foto, conversazioni a contenuto sessuale esplicito, dettagli personali come il fare uso di droga e alcol postate sui social network, tenendo presente i fattori psicologici che la letteratura aveva evidenziato come cruciali quali automonitoraggio e impulsività.

Lo studio di White e colleghi (2017) ha mostrato come l’impulsività fosse predittiva di un comportamento online rischioso e dalle conseguenze negative; tuttavia è interessante notare come i ricercatori abbiano trovato anche che una tendenza maggiore all’automonitoraggio della propria immagine e del proprio comportamento fosse predittiva della messa in atto di attività rischiose sul web (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).

Infatti le persone con un alto automonitoraggio, comportandosi in modo conforme a quello che percepiscono come contestualmente appropriato e ritenendo che la propria identità sui social sia di fatto un prodotto dell’ambiente sociale online, percepiscono la messa sul web di materiale personale a rischio come comune, “nella norma”, seguendo quelle che sono le aspettative del loro pubblico virtuale.
In aggiunta a ciò, essi sono maggiormente guidati dalla gratificazione di ricevere “like” alle loro self-disclosure piuttosto che considerare i potenziali rischi implicati, in modo così preponderante che a volte risultano incapaci di distinguere tra ciò che piace al loro gruppo di spettatori e ciò che è appropriato nella presentazione della propria immagine (White, Cutello, Gummerum et al., 2017).

I ricercatori hanno considerato anche la piattaforma online utilizzata per postare il materiale personale a rischio, come Facebook; infatti ciò che potrebbe risultare inappropriato ad esempio su un social network adibito esclusivamente alla carriera e al mondo del lavoro come Linkedln, sembra invece essere “nella norma” su Facebook.
Secondo gli autori, molti utenti di Facebook posterebbero in particolare foto provocatorie o a rischio per raggiungere maggiore visibilità (Marder, Joinson, Shankar et al., 2016) o per guadagnare maggiore attenzione e prestigio dal loro gruppo di amici, mostrandosi in modo che potremmo definire “desiderabile”

Per quanto riguarda le differenze culturali, lo studio (White, Cutello, Gummerum et al., 2017) ha mostrato come il campione di giovani adulti inglesi abbia avuto punteggi maggiori per i comportamenti impulsivi misurati tramite l’Eysenk Impulsivity Inventory (Eysenk, Pearson et al., 1985) ma bassi per l’automonitoraggio, rispetto al campione italiano.

Tuttavia le differenze tra i due gruppi non sono risultate così marcate e significative, pertanto i ricercatori hanno ritenuto di poter concludere che i processi che sostengono i comportamenti rischiosi online siano abbastanza simili tra i due paesi (White, Cutello, Gummerum et al., 2017), con la specificazione dei contenuti che i due campioni tendono a postare online.
Infatti, il gruppo inglese tende a postare immagini o commenti personali sull’uso di alcol e droga, in modo più impulsivo mentre quello italiano tende a mettere online contenuti personali intimi e offensivi verso terzi più intenzionalmente.

Conclusioni

In conclusione, lo studio sottolinea come i giovani adulti utenti dei social network possano mettere in atto comportamenti online rischiosi sia in modo impulsivo che deliberato e ciò dipenderebbe dalla percezione che essi hanno del contesto in cui decidono o meno di postare contenuti.

Cogenitorialità: definizione e principali modelli teorici

La cogenitorialità (o coparenting) è un recente costrutto che ha interessato diversi studiosi per la sua notevole influenza sulle dinamiche familiari sia di coppia sia relative alla qualità dell’adattamento dei figli. Ma cosa intendiamo esattamente quando parliamo di cogenitorialità? Da che componenti è costituita? Quali sono i modelli teorici più recenti che analizzano tale costrutto?

Federica Salvetti

 

Definizione di cogenitorialità

Il costrutto della cogenitorialità è un aspetto di centrale importanza all’interno delle dinamiche familiari e della loro evoluzione (Feinberg & Kan, 2008). Esso si riferisce alla qualità delle relazioni educative che i genitori intrattengono con il loro figlio e, in particolare, concerne la modalità con cui i componenti della coppia genitoriale coordinano il proprio stile educativo e gestiscono il conflitto (Feinberg, 2003; Van Egeren, 2004; Van Egeren & Hawkins, 2004) al fine di mantenere un contesto familiare sano per la crescita del/i figlio/i (Adamsons & Pasley, 2006; Van Egeren & Hawkins, 2004).

La relazione cogenitoriale esiste nel momento in cui due individui hanno responsabilità sovrapposte o condivise rispetto alla sfera educativa della prole (Van Egeren & Hawkins, 2004). Consiste nel riconoscimento di sé e del proprio partner come “genitori”, nel supporto e nella coordinazione reciproca (o nella mancanza di essi) che tali figure genitoriali esibiscono nella sfera educativa (Feinberg, 2002, 2003).

Margolin e collaboratori (2001) pongono inoltre l’accento su come sia proprio attraverso tale relazione che i genitori possano fare esperienza dell’opportunità di negoziare i reciproci ruoli, le rispettive responsabilità ed i contributi verso i loro figli.

La cogenitorialità, dunque, viene considerata una dimensione vitale all’interno della relazione educativa tra genitori e figli di coppie sposate, conviventi, con figli adottivi o affidatari (McHale, 1997; Van Egeren & Hawkins, 2004).
Sono pertanto esclusi dall’ambito della cogenitorialità quegli aspetti riguardanti la sfera romantica, sessuale, emotiva, economica e legale della coppia coniugale che non presentano dirette correlazioni con l’educazione del/i figlio/i (Feinberg, 2003).

Negli ultimi decenni la cogenitorialità è stata fonte di notevole interesse da parte della letteratura internazionale (Feinberg, 2002, 2003; McHale et al., 2000; Van Egeren, 2004; Van Egeren & Hawkins, 2004) e, sebbene generalmente si faccia riferimento ad essa considerandola “il modo con cui i genitori lavorano insieme nel loro ruolo di essere genitori” (Feinberg, 2003), è stata indagata anche come: shared parenting, parenting partnership e parenting alliance.

I principali modelli teorici

Gli studi di Feinberg (2003) e di Margolin e collaboratori (2001) hanno apportato un contributo particolarmente significativo rispetto allo studio del costrutto della cogenitorialità.

Nel seguente paragrafo verrà dunque esposto il loro rispettivo punto di vista.

Model of coparenting components

Il model of coparenting components (Feinberg, 2003) propone una visione della cogenitorialità come costituita da quattro principali dimensioni:
1) il livello di accordo e disaccordo sulle questioni relative all’educazione del figlio, ossia la frequenza e l’intensità delle discussioni rispetto ai reciproci impegni tra genitori, ai valori morali, alla disciplina, alla percezione dei bisogni emotivi del bambino, agli standard e alle priorità educative.
2) la divisione dei lavori/sforzi che concerne tutti quegli aspetti riguardanti la divisione dei compiti e delle responsabilità inerenti la routine quotidiana, le responsabilità educative verso i figli, i lavori domestici e le questioni finanziarie, mediche e/o legali.
3) il grado di supporto ed indebolimento reciproco, relativa al grado di solidarietà e di sostegno (o all’assenza di essi) esistente fra gli adulti che si dividono il compito di cura ed educazione dei figli. Comprende quanto i genitori approvino il modo con cui il partner esercita la genitorialità e quanto si sentano sostenuti da quest’ultimo nel loro ruolo di genitori. L’indebolimento, al contrario, concerne la presenza di critiche, denigrazioni e accuse tra coniugi.
4) la gestione congiunta delle relazioni familiari che risulta essere un importante sottosistema relativo all’area delle responsabilità genitoriali in cui i genitori, più o meno esplicitamente, definiscono gli standard con cui i membri della famiglia si relazioneranno gli uni con gli altri ed il grado di struttura e coesione familiare. Essa, inoltre, consente o ostacola le coalizioni tra genitori e figli e definisce l’equilibrio nel rapporto genitore-figlio.

Feinberg (2003), in assenza di informazioni empiriche relative alla relazione tra queste quattro componenti e considerando la notevole variabilità tra le diverse famiglie rispetto al grado di collegamento tra tali dimensioni, presuppone che esse siano moderatamente associate e, pertanto, solo parzialmente distinte.

La visione di Margolin

Margolin e collaboratori (2001) ritengono che la cogenitorialità, sia nelle famiglie intatte sia in quelle separate o divorziate, sia sostanzialmente costituita da tre macro-dimensioni: la qualità della relazione coniugale, il grado di cooperazione, e le dinamiche di triangolazione.

La prima dimensione, relativa alla quantità di conflitti tra coniugi rispetto a questioni relative alla genitorialità, concerne in modo specifico le seguenti variabili: quanto spesso i genitori sono in accordo o disaccordo tra loro, il livello di ostilità su argomenti riferibili all’educazione del figlio, quanto ogni genitore danneggia o sminuisce il partner rispetto al ruolo di genitore e, infine, il livello di disaccordo generale o inerente questioni domestiche all’interno della coppia coniugale.

La dimensione relativa alla cooperazione riguarda il supporto materno e paterno, la valorizzazione ed il rispetto del partner nel suo ruolo di genitore ed il modo con cui si aiutano a vicenda rispetto ai compiti genitoriali.

L’ultima dimensione presa in esame, infine, concerne la triangolazione intesa come quel processo attraverso cui i genitori modificano i confini della relazione genitore-figlio, andando a creare una coalizione con il minore che comporta l’esclusione del partner (Minuchin et al., 1978). Tale dinamica, definita anche caught between, è tipica delle situazioni familiari con un alto livello di conflitto coniugale (es. divorzio).

Una morale innata come guida: la capacità di valutazione sociale in bambini in età preverbale

L’articolo di Hamlin pubblicato su Nature, tratta della capacità di valutazione sociale in bambini in età preverbale, specificatamente di sei e dieci mesi, e a oggi è considerato uno dei più classici esperimenti nell’ambito della psicologia dello sviluppo. Secondo tali autori il senso del bene e del male, la moralità, sarebbero innati nell’essere umano.

 

Come avviene la valutazione sociale nei bambini in età preverbale

La capacità di valutare gli altri è essenziale per rapportarsi nel mondo sociale. Gli esseri viventi devono essere in grado di capire le intenzioni di chi li circonda, così da trarre valutazioni anche su chi è amico e chi è nemico, e ciò è un processo che svolgiamo in modo rapido e automatico, sulla base di peculiarità caratteriali e fisiche (da ricordare che i bambini, già all’età di due mesi, sono in grado di riconoscere i pattern facciali più attraenti (Slater, A. Et al. 1998). L’origine ontogenetica di ciò resta però sconosciuta.

In questo classico ed elegante esperimento gli autori indagano su come i bambini valutano -senza essere coinvolti direttamente nell’azione- i personaggi “nemici” e “amici”, sulla base delle loro interazioni con gli altri.
Per dimostrare che questo può verificarsi anche in assenza di precedenti esperienze e di segnali emotivi negativi, gli autori hanno utilizzato come personaggi dello studio delle forme, prive quindi di espressioni emotive, piuttosto che degli stimoli che raffigurano esseri umani.

Gli sperimentatori usano due metodologie diverse per condurre la loro ricerca, molto comuni per investigare le preferenze in soggetti senza abilità verbali sviluppate, come il paradigma della scelta (in cui i soggetti indicano la loro preferenza tramite comportamenti di raggiungimento), e il tempo di osservazione degli stimoli (che ha come postulato il fatto che i bambini tendono a guardare più a lungo un evento che non si aspettano).

Nel primo esperimento, i bambini in età preverbale vedono un personaggio fatto di legno con grossi occhi incollati su di esso, che sarà il soggetto dell’azione proiettata sul display. Il personaggio appare sulla cima di una collina, intento a salire e scendere da questa, al terzo tentativo viene contrastato da un “nemico” che lo butta verso il basso, o aiutato da un “amico”, che lo spinge da dietro. Esperimenti condotti precedentemente dimostrarono che i bambini interpretano in maniera simile eventi fatti al computer come azioni di aiuto o di scontro e si aspettano che lo scalatore si approcci all’aiutante e eviti il nemico. I bambini sono incoraggiati a scegliere uno tra aiutante e antagonista e scelgono in maniera netta l’aiutante (ben 14 su 16 dei soggetti di 10 mesi, e ben 12 su 12 tra quelli di sei), dimostrandosi in grado di avere impressioni distinte sui diversi personaggi in relazione allo scalatore.

I bambini vedono un nuovo display con i tre personaggi, lo scalatore si relaziona sia con l’aiutante che con il nemico. I bambini di 10 mesi guardavano più a lungo l’ultimo evento, mostrando sorpresa quando lo scalatore incontrava il personaggio che prima lo aveva spinto giù. Tuttavia i bambini di 6 mesi guardano in egual misura entrambi gli eventi, ma preferiscono nella scelta l’aiutante rispetto all’antagonista. Questo può voler dimostrare che la capacità di valutazione sociale si sviluppa prima dell’abilità di dedurre le valutazioni di altri.

La valutazione sociale può essere influenzata da fattori percettivi nei bambini in età preverbale?

L’obiettivo del secondo esperimento invece è quello di confermare o smentire l’ipotesi che i bambini fossero influenzati nella scelta non da principi di valutazione sociale ma percettivi. Per far questo il soggetto del secondo esperimento appare inanimato e senza uno scopo, un’identità in cui le nozioni sociali di aiuto e scontro non sono applicate (rimuovendo anche gli occhi dal personaggio-soggetto).

Se la preferenza di percezione (senza valutazione sociale) era ciò che guidava i bambini nella scelta, una simile casistica si sarebbe dovuta presentare anche nel secondo esperimento: i bambini avrebbero dovuto preferire la spinta verso l’alto rispetto a quella verso il basso, in quanto i movimenti e le traiettorie sull’oggetto spinto erano simili a quelli dell’esperimento uno. Tuttavia questo non si è verificato: 6 dei 12 soggetti di 10 mesi scelsero quello che spingeva verso l’alto, mentre tra i soggetti di 6 mesi, solo 4 su 12. In entrambi i gruppi questi risultati non sono significativi. La scelta dei bambini può portare a tre conclusioni, vale a dire:
– il bambino valuta positivamente un individuo che aiuta un altro;
– il bambino valuta negativamente un individuo che contrasta un altro;
– avvengono entrambi questi processi.

Come scelgono e valutano socialmente i bambini in età preverbale?

Il terzo e ultimo esperimento prevede due azioni sperimentali. La prima è di proporre l’interazione tra un personaggio neutro e uno buono, la seconda è un rapporto tra un personaggio neutro e uno cattivo. L’esperimento vede sia l’aiutante che l’antagonista agire sullo scalatore come nell’esperimento uno e in aggiunta a ciò un secondo personaggio neutro, vale a dire che non ha interazioni con lo scalatore, ma che si muove su e giù per la collina come i personaggi degli esperimenti precedenti. I bambini hanno poi la possibilità di scegliere tra il carattere neutro e l’aiutante (o il nemico), mentre attraverso il tempo di fissazione fanno comprendere le aspettative che hanno nei confronti dello scalatore verso l’aiutante o il nemico.

Usando il paradigma della scelta, i bambini di entrambe le età valutano il personaggio neutro in maniera diversa in base al fatto se sia accoppiato col personaggio buono o con quello cattivo: i bambini nella prima tra le due condizioni (personaggio neutro-personaggio buono) scelgono il personaggio buono (in sette su otto tra quelli di dieci mesi e in sette su otto tra quelli di sei mesi). Nella seconda condizione invece (personaggio neutro-personaggio cattivo) i bambini scelgono il personaggio neutro (in percentuale uguale per entrambi i gruppi a quelli che avevano scelto il buono nella condizione precedente).

Conclusioni

Le conclusioni di questi esperimenti sono molteplici. La prima è che i bambini in età preverbale sono influenzati nelle loro preferenze anche senza una conoscenza diretta dei soggetti terzi, infatti i soggetti non avevano un’ esperienza precedente con i personaggi dell’esperimento. Inoltre l’abilità di giudicare diversamente soggetti che si comportano socialmente in modo positivo o negativo può gettare le basi essenziali per un più astratto concetto di giusto o sbagliato. Infine, la capacità di valutare gli altri sulla base delle loro interazioni sociali sembrerebbe essere universale e non appresa.

La presenza di capacità di social evaluation così precoci suggerisce che valutare gli individui sulla natura delle interazioni che hanno con gli altri è un processo essenziale per un adattamento sociale e biologico dell’individuo. Di questa dote innata, un rudimentale senso di giustizia, l’individuo della società moderna dovrebbe fare tesoro, arricchendosi negli anni di una fondamentale ed unica capacità, che ci distingue in quanto essere umani: il pensiero razionale.

L’elaborazione del tatto nel cervello infantile: quando un tocco si trasforma in empatia

Tatto nei bambini: Un nuovo studio esplora le aree cerebrali in cui avviene l’elaborazione tattile, non solo quando è il bambino stesso ad essere accarezzato ma anche quando il bebè vede toccare la mano o il piede di un adulto. I ricercatori ipotizzano che questo potrebbe aiutare lo sviluppo di abilità evolutive e cognitive quali l’imitazione e l’empatia.

 

Lo sviluppo del tatto nei bambini

Il tatto è il primo dei cinque sensi a svilupparsi eppure gli scienziati conoscono ben poco della risposta cerebrale dell’infante a questo senso rispetto invece alle conoscenze che possiedono riguardanti ad esempio il modo in cui i bambini elaborano la vista del volto o il suono della voce materna.
Ora, attraverso l’uso di nuove e sicure tecniche di imaging cerebrale, i ricercatori dell’Università di Washington sono stati in grado di comprendere l’elaborazione cerebrale del tatto negli infanti.

L’attivazione della corteccia somatosensoriale sia per il “tocco percepito” che per il “tocco osservato” dimostra che i bambini già a 7 mesi sono capaci di stabilire una connessione di base tra “sé” e “altro” che potrebbe essere alla base dell’imitazione e dell’apprendimento sociale.

Molto prima che i bambini imparino a parlare, il tatto risulta essere un canale cruciale per la comunicazione con il caregiver” ha detto l’autore dello studio Andrew Meltzoff, professore di psicologia e co-direttore dell’Institute for Learning & Brain Sciences, che ha continuato “Ora abbiamo gli strumenti per osservare la rappresentazione del corpo all’interno del cervello del bambino. Il modo in cui il senso del sé si struttura potrebbe essere compreso osservando le reti cerebrali specifiche in cui avviene l’elaborazione del tatto.

Per lo studio i ricercatori hanno osservato il cervello di bambini di 7 mesi utilizzando la magentoencefalografia (MEG), una tecnica che permette di catturare le immagini dell’attività cerebrale. Gli studiosi erano particolarmente interessati all’osservazione della corteccia somatosensoriale (un’area della corteccia cerebrale posta nella parte superiore dell’encefalo); è proprio in questa regione infatti che avviene l’elaborazione del tatto. Ogni parte del corpo è rappresentata in modo unico: un tocco alla mano per esempio è codificato in una posizione diversa lungo la corteccia somatosensoriale rispetto al tocco a un piede.

L’attivazione cerebrale dei bambini quando ricevono un tocco e quando lo osservano negli altri

Nel primo dei due esperimenti, il team ha misurato l’attività cerebrale dei bambini mentre ricevevano leggeri tocchi sulla parte superiore delle mani e dei piedi. I dati hanno mostrato che, il tocco della mano comportava l’attivazione dell’area corrispondente alla corteccia somatosensoriale in tutti i 14 bambini testati; la stessa attivazione si presentava, nella relativa area, quando veniva sfiorato il piede.
Il secondo esperimento ha indagato quello che si è definito “tocco osservato”: i bambini guardavano i filmati di una piccola asta che sfiorava la mano o il piede di un adulto. In questo caso l’attivazione della corteccia somatosensoriale generava una risposta più debole rispetto alla condizione di “tocco percepito”.

L’elemento essenziale emerso dallo studio è che entrambi i tipi di contatto vengono registrati nella stessa area del cervello, ciò potrebbe suggerire l’esistenza di regioni neurali condivise nelle condizioni di tatto osservato e percepito.

Meltzoff ha concluso “Prima ancora di nominare le parti del corpo, i bambini riconoscono che la loro mano è uguale a quella del genitore. La mappa neurale del corpo aiuta a connettere i bambini con gli altri, il riconoscimento che un’altra persona è “come me” può essere una delle prime intuizioni sociali del bambino. Questo riconoscimento, con la crescita, potrebbe trasformarsi nella capacità di comprendere gli stati emotivi delle persone, in altre parole: empatia”.

Desiderare un figlio: quando tutto ha inizio

Avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata? Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Introduzione

Diventare genitori. La nascita di un bambino è un evento che genera molteplici cambiamenti nella vita della donna e della coppia: alterazione del ciclo sonno-veglia, allattamento, diminuzione del tempo libero e per se stessi, necessità di conciliare lavoro e famiglia, dipendenza del bambino dal genitore in tutto e per tutto, assunzione di una nuova identità e di un ruolo tutto da scoprire.

Dicono che allevare un figlio sia il compito più difficile che possa esserci, il rischio di sbagliare e di sentirsi inadeguate è costantemente in agguato e se avessero scritto un manuale per diventare genitori perfetti sarebbe stato gradito e comperato velocemente dalla maggior parte delle mamme.

La verità è che, come molte avranno sperimentato nella propria vita quotidiana, non esiste un manuale con indicazioni perfette in qualunque situazione, perché ogni mamma e il suo bambino sono unici, con la loro storia, le loro emozioni e con la relazione che entrambi già dai primi giorni di vita del bambino andranno a costruire, giorno dopo giorno, passo per passo, errore per errore.

Questa rubrica intitolata “Mamme e papà si diventa” vuole essere una sorta di guida all’esplorazione dei vissuti psicologici, delle emozioni e delle ansie cui spesso si imbattono le mamme e i papà senza averne piena consapevolezza, allo scopo di poter dare loro un nome e di sentirsi meno “alieni” e meno sbagliati.

Il desiderio di maternità: da dove nasce?

Oggigiorno, la gravidanza è spesso cercata e desiderata da parte delle coppie ed è sempre meno il frutto della casualità o del fato, data la crescente diffusione dei metodi contraccettivi. In molti casi si tratta di una gravidanza programmata e stabilita sulla base della propria condizione lavorativa, economica e sociale. A volte mettere al mondo un figlio lo si rimanda talmente tanto da essere troppo tardi o ai limiti dell’età fertile. Le ragioni per cui ciò accade sono molteplici; più frequentemente si attende di raggiungere una maggiore stabilità economica o lavorativa o il compagno “giusto” non lo si incontra ancora.

Dunque, avere un figlio è solo il frutto della ragione e di una decisione ben ponderata?

Ebbene, gli imprevisti capitano e alle volte un bambino arriva quando meno lo si aspetta, quando la situazione economica ancora vacilla, quando c’è ancora il mutuo da saldare o il contratto indeterminato lontano dalle aspettative. Il desiderio di maternità è qualcosa che irrompe nella vita e nella mente della coppia, anche quando non tutto è perfetto.

Secondo Finzi e Battistin, la ragione si mescola con l’amore e le emozioni e il desiderio di maternità diventa qualcosa di spontaneo, naturale, condiviso e “sperato”.
Ed è proprio lì che tutto ha inizio; che sia programmato o meno ciò che spinge in molti casi ad avere un figlio è un desiderio di maternità forte che irrompe nella propria psiche.

Le motivazioni che spingono ad avere un figlio

La scelta di avere un figlio può avere varie motivazioni di natura intrapsichica, interpersonale, culturale e sociale. Ognuno attribuisce alla maternità e paternità differenti significati e progettualità individuali e di coppia.

A quel punto iniziano le fantasie, i sogni ad occhi aperti; la mente vaga e l’immaginazione si arricchisce sempre di nuovi scenari, suoni, immagini ed emozioni. È quello che in psicologia viene chiamato “bambino immaginario”, un bambino che inizia a prendere forma nella mente dei futuri genitori prima ancora che sia nato. Sarà con gli occhi chiari? Assomiglierà alla mamma? Sarà forte e sano? Sarà maschio o femmina? Nulla di questo si conosce ma nella propria mente tutto comincia ad acquisire forma, colori, suoni e il proprio mondo psichico ed affettivo comincia a fare spazio all’idea che un bimbo possa entrare a far parte della propria vita individuale e di coppia. Le fantasie sono spesso legate alla propria storia di vita, all’infanzia e diventano una proiezione dei propri desideri più nascosti.

Alcuni studi hanno indagato le motivazioni che spingono una coppia ad avere un figlio, secondo il modello della teoria dell’attaccamento, ipotizzando che la qualità della relazione con la famiglia di origine possa influenzare la decisione di generare un bambino. La relazione di attaccamento con i propri genitori può essere classificata secondo delle categorie a seconda dell’accudimento e della responsività di cui il bambino ha fatto esperienza nella propria infanzia: nello specifico l’adulto con uno stile di attaccamento sicuro ha fatto esperienza nella sua infanzia di un genitore sensibile, accudente e responsivo, capace di cogliere e di rispondere in modo adeguato e tempestivo ai suoi bisogni primari ed emotivi; l’adulto con uno stile di attaccamento insicuro ambivalente ha, invece, sperimentato una relazione per l’appunto ambivalente, caratterizzata da risposte contraddittorie o imprevedibili da parte del genitore di riferimento e per questo ha imparato a dover estremizzare le proprie reazioni per ricevere accudimento; lo stile di attaccamento evitante, infine, è presente nelle situazioni in cui il genitore è stato piuttosto distanziante, poco presente e affettuoso e il bambino ha imparato in fretta a diventare autonomo e autosufficiente. Nei casi di attaccamento insicuro sia l’immagine di sé che degli altri risultano compromesse.

Tali esperienze di attaccamento precoci, spesso si riflettono nelle relazioni di coppia e la stessa scelta di avere un bambino può essere influenzata da tali esperienze. In particolare, le relazioni di tipo insicuro ambivalente si caratterizzano per la presenza di un partner che richiede spesso accudimento da parte dell’altro partner e in questo caso un figlio può essere percepito come una possibile compensazione della propria insicurezza affettiva, anche se in realtà ciò non accade e la coppia può entrare in crisi. Il partner con attaccamento evitante, invece, si mostra spesso poco disponibile e affettuoso nei confronti dell’altro, avendo lui stesso fatto esperienza nella famiglia di origine di trascuratezza emotiva e scarso accudimento e questo ostacola la formazione di una famiglia a tutti gli effetti, in cui le relazioni si basano sulla fiducia, la comunicazione e la reciprocità; alle volte si preferisce, infatti, non avere figli. I partner con attaccamento sicuro, infine, sono coloro che riescono ad instaurare relazioni basate sulla reciprocità, sulla simmetria e sul confronto consapevole e questo crea le condizioni per la creazione di un buon nucleo familiare.

In altri casi, invece, il desiderio di maternità diventa soprattutto una scelta strumentale, allo scopo di risolvere problemi di coppia o per sanare un vuoto generato da una perdita personale.

Il desiderio di paternità

Ma non ci dimentichiamo che quando nasce un bimbo, nasce una mamma ma nasce anche un papà. Cosa accade nella mente degli uomini quando sta per arrivare un figlio? Fino a poco tempo fa, l’uomo si preoccupava principalmente di garantire la discendenza della propria famiglia e del proprio nome, si occupava soprattutto di mantenere economicamente la famiglia e l’educazione era spesso autoritaria e stabilita da lui stesso che svolgeva il ruolo di “capo-famiglia”, mentre le donne si occupavano principalmente della crescita e dei bisogni primari e affettivi dei bambini.

Perché invece oggi un uomo desidera avere un figlio? Secondo Finzi e Battistin, le motivazioni sono più frequentemente di natura affettiva e inconscia; il desiderio maggiore è quello di trasmettere il meglio di sé al proprio figlio, di dargli ciò che avrebbe voluto avere lui stesso e che non ha ricevuto. Un figlio diventa un prolungamento di sé e della propria identità; il desiderio di paternità si connota di elementi affettivi e personali legati alla propria storia di vita passata e presente e compaiono anche nella mente dei futuri papà, fantasie e sogni del proprio “figlio ideale”. In epoca attuale un figlio svolge spesso una funzione di realizzazione personale, approvazione e affermazione della propria identità sociale positiva.

Dunque, le motivazioni che possono portare alla decisione di avere un figlio e che possono far affiorare il desiderio di maternità e paternità sono molteplici, individuali e relazionali e spesso legate alla storia di vita e di attaccamento di ciascun partner.

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.

Introduzione – La domanda

Nel corso della sua storia, l’umanità è stata affascinata da una domanda che è semplice da porre, ma di resistente risoluzione: «Come funziona il cervello
I dati relativi alla ricerca sul cervello sono esplosi in diversità e scala, fornendo una struttura informativa senza precedenti in entrambe le forme “anatomiche” (naturale e artificiale).
Tra i più eminenti studiosi che hanno elaborato negli ultimi due decenni le coordinate teoriche e scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero, vi sono John von Neumann e Alan Turing che, tramite intuizioni e richieste, hanno influenzato il nostro modo di pensare riguardo al cervello.
I processi di pensiero, e quindi l’intelligenza, sono meccanizzabili tramite programmi per computer?

La prospettiva von Neuman/Turing – Il calcolo

Per parlare di computazione, dobbiamo avere una rigorosa teoria di cosa sia e di cosa non sia. Per tale motivo la storia dell’informatica e delle scienze del cervello, ad un certo punto, si sono intrecciate.

Anche nei sistemi biologici (Palsson, 2006) è ormai consuetudine trattare le reti metaboliche, normative e di segnalazione come se fossero algoritmi o programmi. Ma nello specifico la computazione rimanda ad una natura materiale del pensiero. Nel suo manoscritto incompiuto The Computer and the brain, von Neumann (1958), discute se il cervello possa essere pensato o meno come una macchina informatica e identifica somiglianze e differenze tra il calcolo naturale e artificiale.

Per simulare, attraverso un insieme di regole di calcolo, alcuni comportamenti della struttura cerebrale degli esseri viventi, occorre conoscere la struttura del cervello umano e cercare di riprodurlo con un modello matematico (Bishop, 1995).
Neumann descrisse il computer come analogo a un cervello, con un input “organo” (simile ai neuroni sensoriali), un ricordo, un livello aritmetico, un “organo” logico (simile ai neuroni associativi) e un “organo” di uscita (simile ai motoneuroni).

Nello stesso periodo storico, Turing, nel suo articolo del 1950 su Mind, sosteneva che i dispositivi informatici potrebbero emulare l’intelligenza, portando alla sua proposta del test di Turing. Egli, durante la seconda guerra mondiale, credette che fosse necessaria una “macchina per combattere un’altra macchina” (l’enigma).

Gran parte del dibattito filosofico su questo problema si è incentrato sulla questione se le menti siano Turing-equivalenti (ossia, se esiste qualcosa che la mente può e che le macchine di Turing non possono fare).
Odiernamente, la questione che più sta a cuore agli scienziati cognitivi – e sulla quale la teoria computazionale della mente prende una posizione precisa – è se l’architettura della cognizione (umana) somigli in modo interessante all’architettura di quel particolare tipo di computer che è la macchina di Turing (Fodor, 1999).

Il concetto di Turing di una macchina di calcolo, a sua volta, ci mostra come collegare la sintassi alla causalità, in quanto è possibile progettare un meccanismo in grado di valutare qualsiasi funzione formalizzabile, ovvero delimitare la classe di funzioni che sono “computabili” nel senso tecnico di essere decidibili o valutabili dall’applicazione di una procedura o di un algoritmo. Molti processi fisici e biologici possono essere caratterizzati in termini algoritmici; non tutte le funzioni matematiche sono computabili in questo senso, e mentre questo fu conosciuto dai matematici nel 19° secolo, non fu fino al 1936 che Alan Turing propose una caratterizzazione generale della classe delle funzioni computabili. È in questo contesto che ha proposto la nozione di una “macchina di calcolo“, una macchina che fa le cose analoghe a ciò che un matematico umano fa per “computare” una funzione (Horst, 2011).
Turing stesso sembra aver pensato che una macchina operante in questo modo avrebbe fatto letteralmente le stesse cose che i compiti eseguiti dall’uomo fanno – che sarebbe “duplicare” quello che fa il computer umano.

Il pensiero di Vittorio Somenzi – La forma

Senza entrare nella complessa discussione che si svolgeva negli anni Cinquanta e Sessanta intorno al tentativo di stabilire analogie formali tra la struttura matematica dei concetti di informazione ed entropia (Corbellini, 1991), l’epistemologo italiano Vittorio Somenzi, suggeriva di attribuire al vivente “il ruolo di trasformatore della forma dello stimolo nella forma della risposta, la quale può variare o addirittura mancare, a seconda della forma assunta al momento dalle strutture interne del vivente, sia ereditaria o sia ambientale la causa di tale loro conformazione” (Somenzi, 1967). E continuava con una metafora particolarmente efficace. “Come il solco del disco è ‘un solo e medesimo solco, sia che lo si guardi al microscopio o che lo si percorra con una puntina collegata a un emettitore di suoni, così la forma di una rete di cellule nervose è ‘una sola e medesima forma’, sia che se ne osservi la geometria delle strutture molecolari, sia che se ne registri l’attività elettrica, sia che si esamini il comportamento dell’animale pilotato da tali cellule” (ibidem).
Per raggiungere tale livello, l’intelligenza artificiale ha modellato il cervello in termini di “forma”, tantoché la rete neurale (artificiale) è un modello computazionale per eccellenza.

Conclusioni – La risoluzione del problema

Questa dissertazione ha impegnato principalmente due chiavi di lettura: 1) Una procedura per la computazione (un modello matematico astratto) e 2) un’idea di “macchina programmabile” (in un parallelismo tra cervello naturale e artificiale).

Tuttavia le coordinate teoriche e scientifiche della visione materialistica delle basi naturali del pensiero, dopo decenni, percorrendo lo stesso tragitto teorico dei due matematici, procedono verso una teoria della complessità computazionale (una branca della teoria della computabilità) che studia le risorse minime necessarie (principalmente tempo di calcolo e memoria) per la risoluzione di un problema.

I problemi sono classificati in differenti classi di complessità, in base all’efficienza del migliore algoritmo noto in grado di risolvere quello specifico problema (Atallah Mikhail, 1999).

La matrice ACT. Guida all’utilizzo nella pratica clinica (2017) – Recensione del libro

La matrice ACT è un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

 

In Italiano ci sono molti testi che parlano, a diversi livelli, di ACT (Acceptance and Commitment Psychotherapy) e di psicoterapia cognitivo comportamentale di terza generazione.

Molto spesso, in questi volumi, si fa riferimento ad altri testi che possano aiutare il lettore a comprendere meglio di cosa l’ ACT tratti e di come questa sia in definitiva una tecnologia, una tecnica e/o un’applicazione comportamentale /cognitiva del modello di base di riferimento che è la RFT (Relational Frame Theory).

A questa spiegazione generale, solitamente, non seguono, però, elementi pratici di collegamento all’ approccio RFT.

La matrice ACT – Restituire al linguaggio la funzione comunicativa

La matrice ACT è, invece, un libro completo che mette il terapeuta al centro del processo, fin da subito, cercando di semplificare all’osso il linguaggio tecnico ed accompagnando il lettore nel vivo della pratica clinica.

Kevin Polk, ideatore della Matrice, è riuscito a semplificare l’hexaflex (il diagramma di base dei processi ACT) nel diagramma della matrice.

La matrice ACT nasce da un’ idea semplice nell’applicabilità, quanto complessa a livello teorico, di restituire al linguaggio la funzione comunicativa, al di là dei significati percepibili derivati .

Questa sintesi è nata a partire dall’ esperienza di Polk per i contesti clinici nell’evocazione di ricordi traumatici, unitamente allo studio del Derived Relational Responding: Application for Learners with Autism and Other Developmental Disabilities (Barnes-Holmes, 2009), un libro che contiene degli esempi per coinvolgere i bambini in compiti di collocazione, per aiutarli ad acquisire abilità verbali, incluse le abilità di alto livello come il Perspective Taking.

Cos’è la matrice ACT?

Il libro La matrice ACT è una guida clinica dettagliata all’utilizzo della matrice Act.

La matrice è un diagramma che implica la capacità di notare un diagramma che gli autori hanno ritenuto utile al fine di attivare la flessibilità psicologica in contesti clinici e di gruppo.

Il costrutto nasce infatti dall’ esigenza di restituire uno strumento clinico più semplice del diagramma dell’ Hexaflex, risultato, a detta degli autori, poco pratico per i pazienti.

Quando si parla di matrice si fa riferimento alla costruzione di una vera e propria matrice grafica composta da due linee perpendicolari che organizzano 4 quadranti .

Il diagramma della matrice è composto da due linee perpendicolari. La linea verticale è la linea dell’esperienza. Quest’ ultima definisce la differenza tra gli aspetti della nostra esperienza che avvengono tramite i nostri cinque sensi e la parte della nostra esperienza che emerge dalla nostra attività mentale o dalle abilità introspettive.

La linea orizzontale è la linea del comportamento. Quest’ultima definisce la differenza tra azioni che hanno la funzione di allontanarci da esperienze indesiderate (per esempio muoversi via dalla paura) e azioni che hanno la funzione di avvicinarci a chi e a cosa è importante (per esempio muoverci verso ciò che amiamo).

La flessibilità cognitiva viene stimolata dalla matrice attraverso la ricontestualizzazione funzionale dell’esperienze: i comportamenti e le storie vengono inserite all’interno dei quattro quadranti formarti da due linee perpendicolari che favoriscono non solo abilità di distanziamento cognitivo, ma anche di perspective taking .

Tale operazione stabilizzante viene svolta attraverso la costruzione di frame (cornici) deittiche (io-tu), frame locativi (tu-qui; tu- Là) e frame temporali (Tu-qui-ora; Tu-là-allora; Tu-là-poi), tali da permettere un’osservazione consapevole della nostra esperienza.

Questo tipo di engagement con il paziente permette, secondo le teorie della RFT/ACT, di ridurre gli effetti di  fusione cognitiva con una narrazione pregressa di Sé, generalizzata con elementi di identità favorenti, verosimilmente, immobilità funzionale e/o appresa.

Se, come me, avete avuto la fortuna di partecipare ad un workshop di Benjamin Schonendorff, autore, insieme a Kevin Polk, Mark Webster e Fabian O.Olaz , di questo volume La matrice ACT, avrete sentito parlare della matrice ACT, come della possibilità di fare mindfulness e praticare l’ accettazione con le parole.

Assunto dell’ ACT, come in RFT (Relational Frame Theory) o in FAP( Functional Analytic Psychotherapy) è che le parole non si sprecano e devono essere inserite all’interno di cornici relazionali e verbali proprie del processo, ossia, il linguaggio, inteso come comportamento funzionale appreso che segue le regole dell’apprendimento per le funzioni, non solo di generalizzazione, ma anche di derivazione funzionale dal contesto in cui lo specifico comportamento verbale è stato appreso.

Secondo il modello teorico della RFT e di quello applicato della FAP e dell’ ACT, l’uso del linguaggio non è mai fine a se stesso e svolge sempre una funzione comunicativa nel senso stretto di comunicazione, ossia, alla possibilità, in psicoterapia di usare il linguaggio in un ottica funzionalista contestuale e non solo dialogica socratica.

Quando ci si approccia allo studio di testi di Terza Onda di matrice contestualista funzionale è importante sapere, infatti, che i presupposti teorici riguardano un’analisi a tre termini di tipo Skinneriana (Antecedente, Comportamento, Conseguente) e post Skinneriana di derivazione della risposta linguistica, dipendente dal contesto e funzionale al contesto stesso.

Per semplificare questo costrutto si potrebbe dire che nelle terapie di terza onda la cosa importante è far succedere le cose in un contesto controllato, anche con le parole, piuttosto che raccontare le cose, al fine di sviluppare competenze, piuttosto che spiegare contenuti.

La matrice ACT – L’ aikido verbale

All’interno della matrice ACT, tale utilizzo del linguaggio, viene definito dagli autori come Aikido verbale. L’ aikido verbale è la possibilità di usare il linguaggio del paziente all’interno di una cornice relazionale, in cui le parole del paziente non devono assumere una dimensione competitiva disfunzionale, bensì siano inserite in una cornice relazionale funzionale.

L’importanza di inserire le parole all’interno di una cornice relazionale è alla base del modello RFT dove l’uso delle parole non è legato soltanto ai significarti delle stesse, ma al significato nel contesto verbale in cui queste vengono dette e sono state apprese.

Gli autori sostengono che l’uso della matrice insegni ai pazienti a notare le loro scelte verso le cose importanti, rispetto alle scelte fatte per allontanarci da esperienze ritenute e valutate avversive.

Secondo l’ RFT/ACT, infatti, esistono almeno due livelli dell’esistenza, uno è quello percepito dai sensi e uno costruito dalle parole, o meglio, dalla tipicità dell’essere umano di nominare gli oggetti del mondo e da questi di derivare non solo reti semantiche, ma anche reti contestuali, in grado non solo di farci muovere verso le cose importanti per la nostra esistenza ma anche farci muovere lontano da esperienze avversive/punitive o semplicemente percepite tali.

In tale accezione il libro La matrice ACT fornisce una vera e propria guida pratica su come lavorare sul costrutto dei valori, così importante nell’ ACT, al fine di promuovere le scelte e la flessibilità psicologica, ma che troppo spesso viene difficilmente manualizzato dal terapeuta Act poco esperto.

Il valore è in ACT un’operazione stabilizzante in assenza di rinforzi contingenti e va ricercato e perseguito proprio in presenza delle difficoltà e del dolore,  per aiutare il paziente a scegliere quello che per lui è importante e non per essere lontano da quello che teme o dal dolore stesso.

La Matrice ACT è un manuale da applicare, leggere e studiare, è stato costruito molto bene ed è in linea con i manuali applicativi, ci sono domande per accertare la comprensione dei contenuti ed il protocollo è ampiamente manualizzato per sedute e presentato in base alle tipologie di pazienti, con i parametri per l’applicazione non solo ai casi singoli, ma ai minori, coppie e gruppi.

L’edizione Italiana è stata curata in maniera impeccabile dalla dottoressa Prevedini che ha condotto insieme al Dott. Schoendorff diversi workshop sulla matrice.

Il significato della metacognizione nella terapia metacognitiva interpersonale e nella terapia metacognitiva

Negli ultimi 20 anni la terapia cognitiva è andata incontro a numerose rivoluzioni sia in ambito teorico che in ambito clinico. Uno dei concetti di base della teoria cognitiva che ha subìto recenti sviluppi è quello di metacognizione, che troviamo protagonista sia nella terapia Metacognitiva Interpersonale che nella terapia Metacognitiva. Tuttavia, all’interno di questi due modelli, il concetto assume significati diversi, dalla definizione teorica alle implicazioni in ambito clinico.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI)

Nel modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, il concetto di metacognizione fa riferimento a tutte quelle funzioni mentali che permettono all’individuo di avere una rappresentazione degli stati mentali propri e altrui, di riflettere su di essi e di usare tali conoscenze per affrontare in modo efficace situazioni problematiche dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale (Di Maggio e Semerari, 2003).

Secondo questo approccio tutti noi compiamo continuamente atti metacognitivi per identificare e comprendere cosa proviamo, cosa ci spinge ad agire, e per formarci una visione integrata di noi stessi in relazione al mondo. Utilizziamo la metacognizione anche quando cerchiamo di capire gli stati mentali degli altri. La definizione di metacognizione con queste accezioni ha molto in comune con gran parte delle funzioni analizzate nell’ambito della Teoria della Mente, della cognizione sociale, dell’alessitimia e della mentalizzazione (Popolo et al., 2014).

La TMI nasce come chiave di lettura e strumento clinico per i disturbi di personalità, con particolare attenzione ai pazienti inibito-coartati. Questa tipologia di pazienti è caratterizzata da povertà narrativa, difficoltà di accesso alle proprie rappresentazioni e scarso senso di agency (Di Maggio et al., 2013). Secondo Di Maggio, Semerari e coll. (2007) è grazie al riconoscimento degli stati mentali propri e altrui che diventa possibile riflettere su di essi e compiere degli atti decisionali, risolvere problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare in modo efficace i propri desideri con gli altri.

Le funzioni metacognitive analizzate nella TMI sono tre, ognuna delle quali comprende specifiche sotto-funzioni che agiscono in modo relativamente indipendente e a un grado di complessità crescente.
1) Autoriflessività: si intende l’abilità di pensare, comprendere e ragionare sui propri stati mentali. E’ composta dalle sotto-funzioni di monitoraggio (capacità di identificare pensieri, credenze ed emozioni), differenziazione (capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni) e integrazione (abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dall’alternarsi di stati mentali diversi).
2) Comprensione della mente altrui: fa riferimento alla capacità di comprendere e di riflettere sugli stati mentali degli altri. Comprende la sotto-funzione di decentramento, che consiste nella capacità di mettersi nei panni degli altri cercando di operare delle inferenze sui loro stati mentali indipendentemente dalla propria prospettiva, dal proprio coinvolgimento nella relazione e dal proprio modo di interpretare gli eventi.
3) Mastery: insieme delle modalità che il paziente mette in atto per fronteggiare le situazioni in modo consapevole. E’ un processo metacognitivo di controllo che consiste nell’utilizzare le conoscenze psicologiche per decidere, formulare strategie, risolvere i conflitti interpersonali. Il presupposto di base è la capacità di rappresentarsi gli stati mentali problematici o le situazioni conflittuali come problemi psicologici da risolvere in modo attivo.

La terapia Metacognitiva Interpersonale agisce favorendo lo sviluppo delle funzioni metacognitive, a partire dalle più semplici che in terapia sembrano mal funzionanti. Si utilizzano tecniche specifiche mirate all’acquisizione stabile di un funzionamento metacognitivo. Per promuovere le singole funzioni non si segue un percorso lineare, ma è necessario muoversi avanti e indietro all’interno della terapia per rinsaldare funzioni precedentemente acquisite ma che possono risultare fallimentari in un contesto diverso.

La Metacognizione nella Terapia Metacognitiva (MCT)

Nella Terapia Metacognitiva di A. Wells la metacognizione non è vista come abilità o funzione, bensì come l’insieme dei fattori che governano la valutazione, il monitoraggio e il controllo delle cognizioni. Tali fattori si possono dividere in credenze, esperienze e strategie. Per credenze metacognitive si intende l’insieme delle idee e delle teorie che ognuno di noi ha rispetto al contenuto dei propri pensieri. Ad esempio, possiamo credere che alcuni pensieri siano dannosi per la nostra salute, oppure che ci accadrà qualcosa di brutto a causa di pensieri che abbiamo avuto nella mente. Le credenze influenzano l’importanza che attribuiamo ai pensieri e quindi hanno delle ripercussioni sulla modalità con la quale reagiamo a tali pensieri. Le esperienze metacognitive fanno riferimento alla modalità con la quale le persone valutano le situazioni e le sensazioni che riguardano la propria condizione mentale. Nella MCT si presuppone che giudicare negativamente i propri pensieri non faccia altro che alimentare la percezione della minaccia, condizione che porta a giustificare i successivi sforzi volti a monitorare il proprio pensiero. Infine, le strategie metacognitive sono l’insieme delle tattiche che gli individui mettono in atto per controllare e modificare i propri pensieri; ad esempio, concentrarsi sulla minaccia in modo da essere pronti ad affrontare tutti gli eventuali imprevisti.

La metacognizione non si limita quindi a un esercizio di autoconsapevolezza dell’esperienza interna, ma include l’autoregolazione del funzionamento mentale (Caselli, 2014). Questa definizione deriva dagli studi nell’ambito della psicologia dello sviluppo e, in seguito, ha trovato applicazione nella psicologia della memoria, nella psicologia dell’invecchiamento e nella neuropsicologia. Solo di recente è stato riconosciuto che la metacognizione è una base fondamentale per la maggior parte dei problemi psicologici (Wells, 2012).

L’idea che la metacognizione valuti, monitori e controlli il funzionamento cognitivo presuppone la distinzione tra due livelli di funzionamento mentale, un livello oggetto e un livello metacognitivo (Nelson e Narens, 1990). Nel livello oggetto gli individui considerano pensieri e credenze come dati di realtà, non sono in grado di distinguere ciò che appartiene internamente alla coscienza da ciò che appartiene alla realtà. Dal punto di vista clinico, questo tipo di funzionamento è un fattore di rischio perché ostacola la possibilità di modificare le credenze e le strategie che mantengono il malessere e perché favorisce la percezione di credenze e strategie come dati di realtà e non come scelte personali. Ad esempio, nella modalità oggetto il rimuginio è visto come atto necessario per risolvere problemi; trattandosi spesso non di problemi reali bensì di ipotesi negative sul futuro, questi problemi non possono essere risolti, quindi il rimuginio non può terminare e la regolazione dello stato d’ansia non può essere raggiunto.

L’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di trovare soluzioni, ma di raggiungere una posizione diversa, distaccata, rispetto ai propri eventi mentali. In questo caso, la soluzione consiste nel vedere il rimuginio come un atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse. Per raggiungere questa consapevolezza occorre però spostarsi sul secondo livello di funzionamento, quello metacognitivo, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così a un’unica capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli, 2017).

Questa è la sostanziale differenza tra auto-consapevolezza e meta-consapevolezza, ovvero la consapevolezza di sé, così come la capacità di riflettere sugli stati mentali propri e altrui, può avvenire a un livello oggetto, cognitivo, oppure a un livello metacognitivo.

Infine, sempre secondo la MCT, il passaggio dal livello oggetto al livello metacognitivo non è frutto di una capacità più o meno sviluppata, ma è una funzione che tutti hanno, il punto è che spesso gli individui la utilizzano su certi pensieri e non su altri. L’obiettivo della terapia quindi non è sviluppare specifiche funzioni metacognitive, bensì mostrare agli individui che possiedono questa capacità e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, possono imparare a utilizzarla anche in risposta a quei pensieri che per loro sono particolarmente salienti o disturbanti. Ad esempio, gli individui possono scoprire che il rimuginio non è incontrollabile né necessario o utile per trovare delle soluzioni ai problemi, soprattutto per quelli che devono ancora realizzarsi nella realtà.
La Terapia Metacognitiva si è dimostrata particolarmente efficace nella cura dell’ansia e della depressione.

Infertilità inspiegabile? Se la tiroide funziona poco può influenzare le capacità di concepire

Sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism è stato pubblicato un nuovo studio che evidenzia la relazione tra una tiroide lievemente poco attiva (anche se la ghiandola funziona ai limiti bassi, ma all’interno di un range di normalità) e la possibile infertilità.

 

L’infertilità idiopatica

Quando una coppia non riesce a concepire, senza che vi sia alcuna causa precisa, essa viene definita infertilità idiopatica o inspiegabile.

L’infertilità, sia essa spiegabile o idiopatica è motivo di forte stress e di sofferenze emotive e relazionali. L’impossibilità di una genitorialità biologica può influire sulla qualità della vita ed il benessere di una persona o della coppia: ad ogni ciclo mestruale o ad ogni nuova nascita si rivive una forte sofferenza capace di segnare la quotidianità.

La tiroide e gli ormoni TSH

Gli ormoni TSH sono gli ormoni della ghiandola pituitaria o ipofisi, ghiandola che, oltre ad altre funzioni, si occupa della stimolazione della tiroide. Alti livelli degli ormoni TSH sono un buon segnale di una ghiandola tiroide ipoattiva (anche a livello lieve, ovvero subclinico). Questo avviene perché la funzione inibitoria degli ormoni tiroidei sulla secrezione di TSH risulta indebolita.

Lo studio sulla connessione tra la tiroide e la difficoltà a concepire

Lo studio ha rilevato che le donne che presentano infertilità inspiegabile hanno quasi il doppio delle probabilità di avere livelli più elevati dell’ormone TSH, rispetto alle donne che non presentano infertilità inspiegabile.

I ricercatori hanno analizzato i dati di pazienti di genere femminile di età compresa tra i 18 ed i 39 anni, diagnosticate con infertilità inspiegabile presso gli ospedali del sistema sanitario Health Partners di Boston. I fattori di inclusione sono stati i cicli mestruali regolari.

I ricercatori hanno esaminato e confrontato i livelli di TSH di queste 187 pazienti con quelli di 52 pazienti i cui partner riportavano una grave infertilità da fattore maschile.

I risultati mostrano come le donne con infertilità inspiegabile avevano livelli di TSH nel sangue significativamente più alti rispetto ai livelli delle donne con infertilità dovuta a causa nota. In particolare, il valore dell’ormone, nel doppio delle donne con infertilità inspiegabile rispetto alle altre, presentava un livello superiore a 2,5 mlU/L.

Futuri sviluppi

Il ricercatore Fazeli P.K. riassume i risultati nel seguente modo “Dal momento che ora sappiamo dal nostro studio che esiste un’associazione tra i livelli di TSH all’estremità superiore del range normale e infertilità inspiegabile, è possibile che un livello di TSH alto-normale possa avere un impatto negativo sulle donne che stanno cercando di rimanere incinte“. In base a quanto emerso, possibili futuri trattamenti per l’infertilità inspiegabile potranno considerare l’abbassamento dei livelli di TSH. La ricerca dovrà prima valutare quanto questo abbassamento sarà utile nel favorire il concepimento.

Incidente TRENORD a Pioltello: Dichiarazione di Riccardo Bettiga, Presidente Ordine Psicologi della Lombardia

COMUNICATO STAMPA: TRENORD a Pioltello: Dichiarazione di Riccardo Bettiga, Presidente Ordine Psicologi della Lombardia

PSICOLOGI IN PRIMA LINEA A SUPPORTO DELLE VITTIME

UNA RIFLESSIONE SUL SISTEMA DI INTERVENTO PSICOLOGICO NELLE EMERGENZE

Milano, 25 gennaio 2018 – Ogni situazione di emergenza porta con sé il trauma psicologico di un evento difficile da elaborare, nell’immediato, e complesso da gestire, nel futuro. Ogni emergenza è sempre anche psicologica: si tratta di un assioma che conferma la propria validità anche in queste ore, davanti al dramma dell’incidente ferroviario in corso a Pioltello (MI).

Non a caso, già dalle prime ore dell’incidente è stata attivata l’EPE (Equipe Psicosociale delle Emergenze) da parte dell’ASST Melegnano-Martesana, nel quadro della convenzione con la ATS di Milano: immediato è stato l’invio di una equipe di psicologi e assistenti sociali sul campo. Accanto alla rete sanitaria territoriale, si sono attivate anche le diverse strutture di emergenza che fanno capo direttamente a Regione Lombardia e Città Metropolitana di Milano. In particolare, all’interno della Protezione Civile è attiva una Squadra Psicosociale per le Emergenze che sta, fra l’altro, offrendo supporto psicologico specifico alle famiglie dei deceduti.

Nell’insieme, quindi, decine di psicologi iscritti all’Ordine degli Psicologi della Lombardia stanno operando all’interno delle diverse strutture che compongono la macchina dei soccorsi governato da Regione e Città Metropolitana.

Come Ordine non possiamo che ringraziare questi colleghi che, nel vivo dell’emergenza, esprimono la capacità sottile di interpretare la necessaria sinergia all’interno di una macchina rodata ma estremamente complessa. In questo senso, interfacciandosi con una pluralità di attori – dalla Protezione Civile alla rete sanitaria territoriale, dai Vigili del Fuoco all’AREU – gli psicologi lombardi confermano la straordinaria capacità di essere un ingranaggio fondamentale al servizio del benessere dei cittadini. Mettendo al servizio delle vittime e degli operatori capacità professionali e sensibilità personale.

Nel ricordare questo importante impegno sul campo della nostra comunità professionale, l’Ordine degli Psicologi della Lombardia lancia però un appello al governo di Regione Lombardia sottolineando come sia sempre più necessaria la creazione di una vera e propria cerniera strutturale regionale, capace di monitorare e coordinare tutta la filiera dell’intervento psicologico nelle situazioni di emergenza in modo ancora più chiaro, intelligibile e trasparente di oggi. Ciò allo scopo di:

–       migliorare l’efficacia di intervento di tutta la filiera;

–       evitare eventuali interventi sporadici poco organizzati;

–       attivare e valorizzare tutte le realtà disponibili in Regione Lombardia operanti nell’ambito della psicologia delle emergenze;

–       definire procedure ancora più estese, organiche e capaci di mettere a sistema tutto il potenziale contributo degli psicologi, ad oggi ripartito tra più soggetti ed equipe di intervento, il cui coinvolgimento è certamente prezioso ma migliorabile.

Crediamo sia importante che lezioni drammatiche come quelle che la cronaca torna oggi ad impartirci servano da monito per migliorare: siamo a disposizione, in questa ottica, a collaborare per fare sempre meglio e di più.

Ordine degli Psicologi della Lombardia


L’Ordine degli Psicologi – Nazionale o Regionale – è un ente pubblico che rappresenta e governa gli iscritti all’Albo degli psicologi.

Se l’Ordine, da un lato, è un presidio dello Stato a tutela della salute e del benessere dei cittadini, l’Albo è l’elenco pubblico di tutti gli psicologi abilitati ad esercitare regolarmente la professione a disposizione dei cittadini.

Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) è Riccardo Bettiga.

Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.opl.it.

Incontri per i familiari di pazienti con disturbo borderline di personalità: il programma family connections

Il programma family connections ha primariamente l’obiettivo di aiutare i familiari di pazienti con disturbo borderline a raggiungere il proprio equilibrio interiore e, solo successivamente, di favorire il sostegno psicologico del proprio caro. Il programma è strutturato in 6 moduli che comprendono interventi didattici sul disturbo e strategie basate sulla Dialectical Behavior Therapy standard (DBT; Linehan, 1993) per famiglie.

Martina Spelta, Valentina Pozzesi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Il disturbo borderline di personalità

Il disturbo borderline di personalità (BPD) è il disturbo di personalità più diffuso e il più studiato; inoltre sono i soggetti con disturbi di personalità che più utilizzano i servizi psicosociali. L’incidenza del disturbo nella popolazione generale è stata stimata tra il 0.7% e il 2% (Hoffman, 2007). La diagnosi di disturbo borderline di personalità (BPD) rivela un disturbo complesso, confuso, gravoso non solo per i pazienti stessi e i professionisti della salute mentale (Hoffman et al., 2005).

L’instabilità emotiva e comportamentale (comportamenti rischiosi e suicidari), la rabbia intensa, i problemi relazionali che presentano i soggetti con Disturbo Borderline di Personalità sono spesso causa di forte sofferenza anche per le persone a loro vicine, quali i familiari, gli amici e i coniugi. In particolare il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da difficoltà nella regolazione emotiva che ha un forte impatto sul senso di identità e sulle relazioni interpersonali del soggetto; chi è vicino a persone con disturbo borderline di personalità ne risente molto e, a sua volta, sono le persone che più influenzano l’individuo con il disturbo (Hoffman, 2007).

Si è osservato che i familiari di pazienti con disturbo borderline presentano un livello di distress psicologico più elevato rispetto alla popolazione generale e ai familiari di pazienti con un’altra condizione psichiatrica (Scheirs & Bok, 2007; Hoffman et al., 2005; Berkowitz & Gunderson, 2002; Hoffman & Hooley, 1998). Inoltre, a differenza di altri disturbi psichiatrici per i quali esistevano dei servizi di supporto per i familiari, i familiari di pazienti con disturbo borderline erano spesso trascurati (Glick & Loraas, 2001; Harman & Walso, 2001; Hoffman, Struening, Buteau, Hellman, & Neiditch, 2005). Non erano stati valutati dei programmi standardizzati per alleviare l’impatto di questo disturbo sui familiari di pazienti con disturbo borderline che spesso esperivano depressione, sensazione di lutto, carico familiare, e altri generi di distress (Berkowitz & Gunderson, 2002; Hoffman & Hooley, 1998; Hoffman et al., 2005).

Per questi motivi è stato sviluppato da un team di esperti americani che afferiscono alla NEA.BPD (National Education Alliance for Borderline Personality Disorder), il programma Family Connections (Fruzzetti & Hoffman, 2005). È un intervento evidence based manualizzato gratuito multi-famigliare della durata di 12 incontri settimanali condotto da familiari (o psicoterapeuti) che hanno ricevuto un training specifico con lo scopo di fornire ai partecipanti delle competenze utili al loro benessere e alla comprensione dei comportamenti del loro caro. Gli obiettivi del Family Connections sono (a) fornire le informazioni e le ricerche più recenti sul disturbo borderline (psicoeducazione psicodidattica), (b) insegnare strategie di coping individuali (c) e abilità familiari e (d) offrire l’opportunità di costruire una rete di supporto ai familiari di pazienti con disturbo borderline.

Il fondamento logico del programma family connections a supporto dei familiari di pazienti con disturbo borderline

Il fondamento logico alla base del Family Connections è stato il costrutto chiamato Expressed Emotion (EE, Hooley & Hoffman, 1999, Hoffman & Hooley, 1999) che è stato individuato come “fattore psicosociale di ricaduta” ed è stato l’impulso alla costruzione dei programmi per i disturbi dell’Asse I. Gli studi su EE individuano una correlazione tra la ricaduta del paziente e gli atteggiamenti e le convinzioni dei membri della famiglia sul paziente (Vaughn & Leff, 1976).

Negli studi di famiglia dell’Asse I, l’obiettivo iniziale era quello di abbassare alcune caratteristiche di EE o caratteristiche correlate dell’ambiente familiare che hanno mostrato che influenzano negativamente il corso del disturbo. È stato interessante notare che, quando si usava la stessa metodologia di ricerca con i pazienti disturbo borderline di personalità, i risultati erano contrari a quelli ottenuti per i disturbi di Asse I: più i membri della famiglia erano “emotivamente coinvolti” con il paziente, meglio il paziente stava nel corso di un anno della malattia. È stato significativo questo risultato perché ci dice che “aiutare i membri della famiglia a stare emotivamente con il paziente” può essere importante per il benessere del paziente (Zanarini, 2002). Il programma Family Connections è stato concepito con l’obiettivo di sostenere i membri della famiglia nei loro sforzi per essere emotivamente coinvolti con i loro familiari in modo efficace, per aumentare il proprio benessere e anche avere un effetto positivo sul parente con il disturbo borderline di personalità.

Le basi teoriche del family connections

Il programma Family Connections si basa su due modelli teorici ben noti. Il primo è il modello d Lazarus e Folkman (1984) sulle strategie per far fronte allo stress (strategie di coping) e di adattamento che si concentra sui punti di forza, sulle risorse e sulle capacità di adattamento dell’individuo. Tale modello si basa sull’ipotesi che quando l’individuo incorre in eventi negativi difficili e sfide di vita il suo funzionamento sia interrotto (Mechanic, 1995). Secondo Lazarus e Folkman l’individuo si adatta alla situazione grazie all’uso di strategie cognitive e comportamentali (Lazarus & Folkman, 1984). Applicando questo paradigma, possiamo dire che la malattia del familiare è un fattore di stress per il parente che ne altera la qualità della vita. Questi fattori richiedono l’utilizzo di risorse personali, come le abilità di coping, da parte dei familiari per far fronte alle difficoltà legate al disturbo di cui è affetto il familiare. L’apprendimento e lo sviluppo, quindi, di queste strategie di coping aiutano il membro della famiglia a gestire lo stress presente nell’ambiente familiare (Hoffman, 2007).

Il secondo modello su cui si basa il programma Family Connections è il modello di trattamento della terapia dialettico- comportamentale (DBT). Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia della DBT nel trattamento disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993a; Linehan, Heard & Armstrong, 1993; Verheul, Van Den Bosch & Koeter, 2003). Nel programma Family Connections viene spiegata la teoria biosociale eziopatogenetica della DBT, e vengono utilizzate alcune abilità individuali insegnate ai pazienti nella DBT standard (Hoffman, Fruzzetti, & Swenson, 1999), e altre competenze sviluppate specificatamente per i membri della famiglia (Fruzzetti & Hoffman, 2002, Fruzzetti & Fruzzetti, 2003, Fruzzetti, 2006). Inoltre basandosi sulla dialettica dell’accettazione e del cambiamento della DBT, i familiari di pazienti con disturbo borderline acquisiscono competenze che promuovono una visione d’equilibrio tra i loro bisogni, da una parte, e le esigenze della persona cara dall’altra (Fruzzetti, Santiseban & Hoffman, in stampa, Fruzzetti & Iverson, 2006).

Il formato e la struttura di Family Connections sono stati formulati operando una sintesi di diverse modalità di trattamento: (1) i programmi di psicoeducazione familiare, un approccio che esiste da oltre 30 anni con altri disturbi psichiatrici (Anderson, Hogarty & Reiss, 1980); e (2) i programmi di educazione familiare, in particolare il “Family to Family”, creati dalla National Alliance for the Mentally Ill’s (NAMI; Dixon, Lucksted, Stewart, et al. 2004). La psicoeducazione familiare viene condotta da professionisti della salute mentale e prevede la partecipazione dei familiari e, in alcune fasi, anche dei pazienti. Nella seconda categoria di interventi, quella dell’educazione familiare, sono i caregiver a tenere, dopo opportuni training, interventi educativi rivolti unicamente ai conviventi dei pazienti (Martino, 2014).

Il programma Family Connections

Il programma di Family Connections ha primariamente l’obiettivo di aiutare i familiari di pazienti con disturbo borderline a raggiungere il proprio equilibrio interiore e, solo successivamente, di favorire il sostegno psicologico del proprio caro. “Non è egoismo – spiegano gli autori di Family Connections – Proprio come sugli aerei, questo corso aiuta a capire come indossare la maschera per l’ossigeno prima di aiutare gli altri!”.

Il programma è strutturato in 6 moduli che comprendono interventi didattici sul disturbo e strategie basate sulla Dialectical Behavior Therapy standard (DBT; Linehan, 1993) per famiglie. Nel modulo introduttivo viene fornito materiale informativo e le ricerche scientifiche più aggiornate sul disturbo borderline, oltre che essere spiegate le modalità degli incontri.

Nel secondo modulo viene svolta una psicoeducazione sull’eziologia del disturbo, sui trattamenti, sulla comorbilità e viene spiegato cosa si intende per disregolazione emotiva.

Il terzo modulo entra nel vivo della parte pratica-esperienziale: vengono insegnate abilità individuali e relazionali per favorire il benessere emotivo (gestione delle emozioni, mindfulness relazionale, riduzione del giudizio e della reattività alle emozioni negative).

Si prosegue con l’apprendimento di abilità familiari per migliorare la qualità delle relazioni familiari e le interazioni (ridurre i sensi di colpa e la rabbia, skills di accettazione nelle relazioni).

Il quinto modulo è dedicato a come mettere in atto la validazione di sé e degli altri. Nell’ultimo modulo vengono insegnate skills di gestione e soluzione dei problemi (definire accuratamente il problema, problem solving in collaborazione, scegliere in base alla situazione quando usare strategie di accettazione e di cambiamento). Ciascun incontro prevede (I) il riesame delle attività pratiche e degli esercizi dati la volta precedente, (II) la parte teorica e (III) uno spazio conclusivo dedicato alle domande e al confronto.

Come indicato dalle stesse linee guida internazionali (APA, 2001 & NICE, 2009) sul trattamento del disturbo borderline, il trattamento del DBP è possibile solo in un’ottica di approccio integrato che coinvolga anche i familiari di pazienti con disturbo borderline. Attualmente Family Connections è l’unico intervento gratuito di auto-mutuo aiuto, mentre esistono tre programmi familiari psicoeducativi: il Gruppo Familiare Multiplo (Gunderson, 1997), il Dialectical Behavior Therapy-Family Skills Training (Hoffman & Fruzzetti, 1999), il RenoProgram (Fruzzetti, 2006).

Studi di efficacia sul Family Connections

In uno studio condotto con 44 familiari di pazienti con disturbo borderline, la partecipazione al programma Family Connections ha portato alla riduzione del carico familiare, della sensazione di lutto e a un aumento delle capacità di controllo e gestione delle situazioni critiche al termine del percorso. Tali risultati si sono mantenuti anche a distanza di tre mesi (Hoffman, 2005).

Questo studio è stato replicato con 55 familiari di pazienti con disturbo borderline, valutati prima del percorso, immediatamente dopo e a tre mesi dalla conclusione del Family Connections. (Hoffman, 2007). È stato trovato che i familiari esperiscono un forte distress ma beneficiano di questo programma di gruppo semistrutturato: in particolare dalla valutazione effettuata subito dopo il termine degli incontri è emerso che il livello di carico familiare (soggettivo e oggettivo), la sensazione di lutto, la depressione diminuiscono mentre il senso di efficacia percepita nel far fronte alle situazioni è aumentato. Dal follow-up a tre mesi la sensazione di lutto è continuata a diminuire e il senso di autoefficacia ad aumentare, mentre il livello di depressione e il carico familiare non hanno mostrato cambiamenti rispetto alla valutazione immediatamente successiva alla conclusione del percorso.

Il Family Connections in Italia

Il Family Connections è nato negli Stati Uniti e ora è presente in 19 Paesi tra cui l’Italia grazie a una rete di volontari. In Italia, Family Connections viene effettuato gratuitamente in diverse città: Brescia, Milano, Genova, Roma, Fano. Ma è attualmente in diffusione anche in altre città, per ulteriori informazioni http://borderline-italia.it/

Prospettive future per la ricerca

Possiamo individuare tre obiettivi importanti per le future ricerche sul programma Family Connections: (i) sviluppare studi per valutare se la durata del programma Family Connections di 12 settimane sia ottimale, (ii) condurre studi controllati randomizzati per comprendere meglio i cambiamenti a lungo termine sul benessere dei familiari e (iii) determinare l’impatto indiretto del programma sulla gravità del disturbo borderline di cui è affetta la persona cara.

Per quanto riguarda il primo scopo, non sappiamo nulla sulla lunghezza ottimale del programma Family Connections. Forse offrire un corso avanzato o sessioni di “promemoria” potrebbe migliorare i risultati o aiutare a mantenerli. Oppure l’aggiunta potrebbe rafforzare le competenze acquisite o facilitare il coinvolgimento a una rete di supporto con gli altri familiari. La durata del programma stesso potrebbe anche essere variata. Forse un programma più lungo sarebbe più vantaggioso, o un programma più corto è sufficiente. In alternativa, un programma più lungo potrebbe essere percepito come troppo oneroso, e un programma più corto potrebbe durare troppo poco per apportare dei cambiamenti significativi.

È importante notare però anche che, nonostante gli studi precedentemente presentati siano robusti, rispettabili e affidabili, le dimensioni degli effetti sono nel complesso modeste per la maggior parte delle variabili considerate. Ulteriori ricerche sui meccanismi di cambiamento, sulla durata ottimale del programma e così via forniranno probabilmente indicazioni utili a migliorare il programma esistente. Quindi, anche se è chiaro che l’attuale struttura e i contenuti del programma Family Connections siano soddisfacenti per i partecipanti e producono miglioramenti nel loro benessere, c’è ancora la possibilità di migliorare. Inoltre, per una serie è necessario implementare un trial controllato randomizzato. Anche se è improbabile che il semplice passare del tempo possa essere responsabile dei cambiamenti riscontrati, devono essere considerati altri fattori non specifici. Solo confrontando il programma Family Connections con un programma alternativo sarà possibile misurare il vero impatto del programma Family Connections stesso. Dovranno essere identificate le componenti del programma responsabili dei miglioramenti.

Inoltre, sarà auspicabile effettuare studi con un follow-up a una distanza superiore ai tre mesi dal termine del percorso per valutare gli effetti su un più lungo periodo.
Infine, è importante esaminare l’impatto sulla persona con disturbo borderline di personalità che ha il fatto che i suoi familiari abbiano partecipato al programma Family Connections. In base al modello transazionale su cui si basa il programma, se i membri della famiglia imparano strategie di coping più efficaci, trovano un maggiore equilibrio, riducono la loro negatività e imparano a essere più attenti e validanti con i propri cari, ciò dovrebbe avere una ricaduta positiva sul benessere dei familiari di pazienti con disturbo borderline. Ma questo non è ancora stato valutato: potrebbe non esserci alcun effetto oppure potrebbe esserci un effetto negativo (Hoffman, 2007).

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari (2017) di Maria Zaccagnino – Recensione del libro

Il libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari illustra la classificazione e la definizione nosografica dei disturbi del comportamento alimentare secondo il DSM5 soffermandosi sui fattori di rischio e di mantenimento.

 

 La prefazione del libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari di Maria Zaccagnino è stata curata da Isabel Fernandez presidente dell’Associazione EMDR Italia e dell’ EMDR Europe Association.

I disturbi del comportamento alimentare sono molto diffusi e difficili da trattare. Si stima che l’ Anoressia Nervosa abbia un tasso di mortalità secondo solo agli incidenti stradali tra i giovani.

Il libro Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari illustra la  classificazione e la definizione nosografica di questi disturbi secondo il DSM5 soffermandosi sui fattori di rischio e di mantenimento.

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari – I diversi trattamenti

Sono presi in considerazione gli approcci che hanno fornito i maggiori risultati positivi nella cura. Nel primo capitolo l’autrice si sofferma a descriverli, facendo ampio riferimento sia alla letteratura sia alla ricerca sul tema. La teoria cognitivo-comportamentale transdiagnostica dell’alimentazione di Fairburn considera l’eccessiva focalizzazione sul peso, sulla forma del corpo e sul controllo dell’alimentazione il nucleo centrale psicopatologico e descrive i principali fattori di mantenimento presenti in questi disturbi: perfezionismo, bassa autostima, scarsa efficacia interpersonale, controllo e rimuginio.

La Family Based Treatment è centrata sulle dinamiche familiari.

La terapia EMDR ha come obiettivo sia la comprensione del significato dello sviluppo e del mantenimento del disturbo in relazione agli eventi di vita traumatici, sia la rielaborazione degli eventi stessi.

Questi sono gli approcci con maggiori evidenze empiriche positive, nonostante anch’essi presentano innegabili limiti.

Inoltre, si sottolineano in Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari l’utilizzo dell’intervento farmacologico, anche se gli esigui studi clinici randomizzati non ne abbiano ancora verificata l’efficacia, e alcuni studi di neurobiologia e genetica che forniscono evidenze riguardo ai fattori di rischio sia relativamente al ruolo della serotonina, sia ai geni del recettore 5HT2A.

Il ruolo delle esperienze traumatiche nei disturbi del comportamento alimentare

L’autrice, però, centra la sua prospettiva sui fattori ambientali e prende in considerazione la teoria dell’attaccamento e il ruolo dei  traumi implicati nell’insorgenza e nel mantenimento dei disturbi. Oggi è sempre più evidente che certe traiettorie di vita costellate da eventi avversi e traumatici abbiano un impatto devastante sullo sviluppo dell’individuo dando spazio a esiti psicopatologici. L’evento traumatico, lo sviluppo traumatico e il trauma relazionale precoce possono concorrere a determinare conseguenze sulla salute psicologica e a marcare stati dissociativi, rilevati da diversi autori, nei disturbi del comportamento alimentare.

I limiti dei trattamenti recepiti anche dalle linee guida internazionali (le linee guida NICE indicano solo raccomandazioni di grado C per i DCA) sono uno dei motivi che hanno spinto la Zaccagnino a mettere a punto e applicare un protocollo EMDR.

Dopo aver illustrato i principi guida, le otto fasi del protocollo standard, Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari descrive il protocollo d’intervento nell’anoressia nervosa e le sue varianti che comprendono anche un protocollo per i genitori. L’autrice ritiene che solo con un lavoro specifico sulla genitorialità è possibile spezzare il circolo vizioso che mantiene la patologia e favorire uno sviluppo funzionale e adattivo dei soggetti coinvolti.

 Una prima indicazione che fornisce il testo è di istituire servizi e protocolli specifici in regime di ricovero, perché i servizi offerti al momento non rispondono adeguatamente ai bisogni di cura di questi pazienti. Un’ulteriore componente importante del trattamento è la psicoeducazione con l’assunzione di base che i pazienti debbano essere responsabili del cambiamento.

Il protocollo di gestione delle condotte di alimentazione disfunzionali nell’anoressia nervosa ha come cornice concettuale la teoria dell’attaccamento e prevede come obiettivo principale, prima di applicare le fasi del protocollo EMDR, di raccogliere una dettagliata storia di vita del paziente e del suo attuale funzionamento con una valutazione particolare della sua storia d’attaccamento. Sono fornite indicazioni specifiche rispetto all’indagine da condurre con il paziente per la raccolta delle informazioni anche nelle aree del comportamento alimentare e dell’immagine corporea. Naturalmente occorre condurre l’assessment all’interno di una relazione terapeutica caratterizzata da un clima di sicurezza e fiducia in modo da mettere in evidenza le risorse e incrementare la motivazione al trattamento. Inoltre sono previsti colloqui con i genitori per la raccolta di informazioni e per un intervento psicoeducativo dove viene spiegata la funzione e il significato del sintomo.

Una parte importante dell’intervento si basa sulla spiegazione del lavoro che sarà condotto con le parti (parti fragili, parti che proteggono, parti controllanti, ecc.) e con il protocollo EMDR che presuppone un lavoro preliminare di stabilizzazione. L’obiettivo è di arrivare ad un’integrazione coerente e unitaria del paziente. La stimolazione bilaterale è operata sulla parte bambina (esercizio del prendersi cura; tecnica degli occhi amorevoli) che vive dentro la paziente e che ha vissuto esperienze traumatiche, cercando di capire la modalità disfunzionali del suo prendersi cura di sé per costruire modalità alternative. Una volta individuati i target della storia relazionale e del disturbo si procede con il protocollo EMDR standard sugli episodi stessi. Una tecnica utile a far emergere le parti è la tavola dissociativa del momento del pasto che consente di identificare le diverse parti del sé e immaginare un luogo d’incontro sicuro per farle dialogare dando spazio sopratutto alla parte del controllo con l’obiettivo di rendere l’alimentazione una situazione il più positiva possibile.

Nuove prospettive nella cura dei disturbi alimentari – I DCA in età evolutiva

L’ultima parte del volume è dedicata a una specifica sezione dei disturbi alimentari in età evolutiva.

La partecipazione e la collaborazione dei genitori in un’ottica transgenerazionale si rende indispensabile per il trattamento EMDR, così che possano emergere vulnerabilità  dalla storia del genitore e dalle difficoltà relazionali con il figlio e di gestione della sua sintomatologia che rappresentano i target da trattare con le stesse modalità riportate in precedenza.

La ricerca scientifica e la pratica clinica sono concordi nel ritenere che i disturbi del comportamento alimentare hanno necessità di una presa in carico globale e di protocolli d’intervento validati. Il protocollo per l’anoressia nervosa e quello specifico sulla genitorialità presentati nel volume hanno come obiettivo quello di elaborare i traumi che si trasmettono di generazione in generazione.

La speranza è che la ricerca empirica confermi i risultati preliminari positivi circa l’efficacia dei protocolli proposti.

La proteomica: una nuova via per la diagnosi e la cura delle demenze

Una nuova ricerca suggerisce che particolari proteine, importanti nella comunicazione tra i neuroni, potrebbero essere la chiave per sviluppare interventi precoci nella cura di diverse demenze.

 

Una ricerca sulle proteine sinaptiche associate alle demenze

Una delle proprietà più affascinanti del cervello è la sua plasticità sinaptica che rappresenta la base per l’apprendimento e la memoria, abilità che declinano gravemente nelle demenze. La perdita sinaptica è fortemente correlata alla gravità della demenza e risulta estremamente importante nella malattia di Alzheimer, la forma più comune di demenza neurodegenerativa seguita dalla demenza a corpi di Lewy.

La nuova ricerca del Karolinska Institutet, che ha visto la collaborazione di studiosi provenienti da Svezia, Norvegia, Ungheria e Regno Unito, aveva lo scopo di indagare, negli anziani affetti da demenza, la disfunzione sinaptica e di comprendere il possibile impatto di questa sulla gravità sintomatologica nelle diverse diagnosi della malattia.

La ricerca suggerisce che particolari proteine pre e postsinaptiche abbiano un’importante impronta molecolare predittiva e discriminativa delle malattie neurodegenerative e che possano di conseguenza essere impiegate per ideare interventi precoci di cura, quali ad esempio la rigenerazione sinaptica” ha affermato Erika Bereczki, autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Neurobiologia, Scienze della cura e della società dell’Istituto svedese.

Grazie al progresso tecnologico delle analisi di proteomica (lo studio su larga scala delle proteine) il team di ricercatori ha identificato le proteine sinaptiche chiave, alla base della disfunzione sinaptica, associate al grado di declino cognitivo caratterizzante le demenze.

La ricerca ha un’importanza notevole poiché è il primo studio proteomico quantitativo di tessuti cerebrali pre-frontali svolto post-mortem, gli studiosi sono stati in grado di profilare l’intero proteoma sinaptico del morbo di Alzheimer, del morbo di Parkinson con demenza e della demenza a corpi di Lewy.

Le implicazioni dello studio

Bereczki ha concluso “I nostri risultati mostrano meccanismi condivisi tra i diversi tipi di demenza con importanti implicazioni per lo sviluppo di marcatori prognostici e diagnostici e l’implementazione di nuovi interventi terapeutici per migliorare il decorso della malattia. L’attenzione deve essere posta sulla disfunzione sinaptica e in particolar modo sugli interventi terapeutici orientati alla riparazione e rigenerazione delle sinapsi che possono essere una valida alternativa agli attuali approcci di cura”.

Schema Therapy e CBT tradizionale nel trattamento del Doc: spunti per una possibile integrazione

Un interessante lavoro di recente pubblicazione mostra le potenzialità dell’integrazione tra Schema therapy e CBT tradizionale nel trattamento di pazienti con Doc cronico o di grado severo.

Olga Ines Luppino

 

Gli schemi e i mode disfunzionali dei pazienti con Doc

Basile e colleghi (2017) in un recentissimo lavoro pubblicato su Clinical Neuropsychiatry si sono proposti di indagare schemi, mode e stili di coping in un campione clinico di 34 pazienti con Doc (età media 33 anni; ds: 8,38; 12 femmine).

Dopo una prima valutazione clinica volta all’accertamento del quadro diagnostico, ad ogni soggetto sono stati somministrati, individualmente e in ordine bilanciato, una serie di questionari volti ad indagare la severità della sintomatologia ossessiva, favorire l’approfondimento dei livelli di colpa e disgusto, rilevare la specificità e la pervasività di schemi, mode e stili di coping.

I pazienti, comparati con un campione omogeneo per età di soggetti tedeschi sani, hanno riportato punteggi significativamente più alti in tutti gli schemi e i Mode disfunzionali.

I risultati ottenuti da Basile e collaboratori si sono mostrati in linea con il modello già proposto da Gross e colleghi (2012) che, a partire dall’analisi di due casi singoli, aveva concettualizzato il Doc in termini di Schema therapy mettendo in luce la presenza dei Mode Bambino vulnerabile e arrabbiato, del Mode Genitore esigente, critico e punitivo e di due principali Mode di coping: il Perfezionista Ipercontrollante e il Protettore Distaccato.

In accordo con il modello appena descritto, il campione clinico di Basile e colleghi ha mostrato una elevata presenza dei Mode Bambino vulnerabile, indisciplinato e arrabbiato così come del Mode Genitore critico e punitivo, tipicamente frutto dell’introiezione di regole o esperienze passate di punizioni e rimproveri e capace di spiegare la severità della sintomatologia ossessiva.

Coerente con la pervasività del Mode Genitore la presenza del Mode bambino vulnerabile, con le sue emozioni negative di tristezza, solitudine, colpa e vergogna tipicamente sperimentate in risposta a sentimenti di fallimento, isolamento e neglect emotivo così come a vissuti di punizione o di critica subita per non aver corrisposto alle aspettative.

Dai dati è emerso infine l’utilizzo da parte dei pazienti Doc di strategie di distacco e di evitamento emotivo capaci di impedire il contatto con vissuti emotivi spiacevoli e bisogni frustrati ad essi associati; tali strategie, tradotte dal Mode Protettore Distaccato, sarebbero precocemente sviluppate dai pazienti nel tentativo di sopravvivere all’interno di un ambiente invalidante, esigente e punitivo. Meno significativo, il ricorso ad un coping di Ipercompensazione del tipo Perfezionista Ipercontrollante che crea distanza dalle vulnerabilità attraverso la tendenza a stare “in controllo”.

L’integrazione della Schema Therapy con la CBT tradizionale

Di notevole interesse la lettura che gli autori danno dei loro risultati alla luce della possibile integrazione con l’intervento mediante protocollo CBT tradizionale.

Il modello cognitivo del Doc proposto da Mancini (2016) vede un evento trigger, come il contatto con uno stimolo contaminato o un pensiero proibito, quale innesco per il soggetto di una valutazione di minaccia/errore rispetto alla quale si sente responsabile. Questa prima valutazione lo spinge a compiere rituali comportamentali, mentali o di evitamento, trigger a loro volta di valutazioni di autocritica e di vergogna. I pensieri e le emozioni coinvolte nel modello descritto possono naturalmente intensificarsi tanto più il soggetto mette in atto comportamenti disfunzionali quali l’evitamento, il controllo dei pensieri, la ruminazione.

All’interno di una cornice teorica come quella proposta da Mancini, una concettualizzazione secondo la Schema Therapy può offrire, secondo Basile e colleghi, un contributo importante nella comprensione e nella spiegazione di come il Doc si sviluppi e si mantenga nel tempo. La Schema Therapy dà ragione al fatto che esperienze negative precoci possano divenire sensibilizzanti rispetto agli specifici contenuti cognitivi ed emotivi del Doc, in linea con il ruolo di primo piano che nella storia dei pazienti Doc giocano le esperienze negative precoci con le figure di accudimento primarie, ricordate come particolarmente critiche, punitive, tendenti a mostrare disprezzo e rabbia (Tenore, 2016).

Tali esperienze potrebbero risultare dunque centrali nello sviluppo della particolare sensibilità riscontrata nei pazienti Doc a punizioni e standard severi associati alla possibilità di errore, a loro volta capaci di generare sentimenti di colpa, un senso di responsabilità esagerata (Salkovskis 1985, 1989; Mancini & Gangemi, 2016) e il timore del fallimento.

Basile e colleghi sottolineano quanto esperienze del genere possano contribuire allo sviluppo di specifici schemi maladattivi precoci (Punizione, Fallimento, Inadeguatezza, Standard severi, Pessimismo e Vulnerabilità al pericolo) a cui si associa un estremo timore di catastrofe possibile e, conseguentemente, un estremo bisogno di controllo al fine di evitare che l’evento temuto possa accadere.

Il lavoro, nonostante qualche limite, apre la strada ad una concreta possibilità di integrazione della Schema Therapy con la CBT tradizionale nel trattamento dei casi di Doc severo o cronico, con una storia traumatica alle spalle o che presentano comorbidità con disturbi di personalità. La Schema Therapy, integrata alla CBT tradizionale per il trattamento del Doc, può certamente permettere una più approfondita comprensione circa l’etiologia e lo sviluppo del disturbo.

Benzodiazepine: i farmaci per ridurre l’ansia – Introduzione alla psicologia

Le benzodiazepine (BZD) sono una classe di farmaci aventi proprietà ansiolitiche, sedativo-ipnotiche, anticonvulsivanti, miorilassanti e anestetiche, e, soprattutto, sono in grado di ridurre l’ansia e le sue manifestazioni fisiologiche, come palpitazioni, sudorazione, colon irritabile, etc.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

A partire dalla fine degli anni ’50, le benzodiazepine hanno totalmente sostituito i barbiturici grazie ai minori effetti collaterali prodotti da chi le ingeriva regolarmente.

Le BZD essendo farmaci possono essere prescritti solo dal medico e la scelta del tipo di benzodiazepine dipende dal disturbo che è stato diagnosticato e dagli obiettivi che si vogliono raggiungere.

Benzodiazepine: la storia

Le benzodiazepine sono farmaci derivati dal clordiazepossido, sostanza introdotta negli anni ‘60, avente proprietà sedative e ipnotiche che variano a seconda della molecola.

La struttura del clordiazepossido, fu sottoposta a delle modificazioni nel tentativo di ottenere farmaci con caratteristiche migliori. Nel 1959 fu sintetizzato il diazepam, una benzodiazepina fino a 3-10 volte più potente del clordiazepossido. Il diazepam fu commercializzato nel 1963 con il nome commerciale di Valium.

Successivamente, la ricerca nel campo delle benzodiazepine ha continuato a svilupparsi, ottenendo numerose nuove molecole utilizzate ancora oggi.

Il meccanismo d’azione delle benzodiazepine

Le benzodiazepine agiscono stimolando il sistema GABA-ergico, cioè il sistema dell’acido γ-amminobuttirico.
Il GABA è un γ-amminoacido ed è il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello. Il GABA si lega ai suoi specifici recettori: il GABA-A, il GABA-B e il GABA-C.

Sul recettore GABA-A è presente un sito di legame specifico per le BZD, che legandosi a questo sito specifico, attivano il recettore e promuovono la cascata di segnali inibitori indotta dal GABA stesso. L’azione naturale del GABA è, dunque, potenziata dalle benzodiazepine, le quali esercitano un’influenza inibitoria sui neuroni. Quindi, le benzodiazepine sono attive solo in ​​presenza del GABA e, di conseguenza, l’azione sedativa è limitata alla quantità di GABA presente, a differenza dei barbiturici, che agiscono direttamente sul flusso di ioni cloro.

Tipi di benzodiazepine

Le benzodiazepine possono essere classificate in funzione della loro emivita plasmatica, ovvero la durata d’azione che mostra il farmaco.

Si hanno BZD a emivita breve o brevissima, 2-6 ore. A questa classe appartengono il triazolam e il midazolam; emivita intermedia, 6-24 ore, a questa categoria appartengono l’oxazepam, il lorazepam, il lormetazepam, l’alprazolam e il temazepam; emivita lunga, 1-4 giorni, tra cui il clordiazepossido, il clorazepato, il diazepam, il flurazepam, il nitrazepam, il flunitrazepam, il clonazepam, il prazepam e il bromazepam.

Non esiste una corrispondenza diretta tra emivita plasmatica e rapidità d’azione, in quanto, alcuni farmaci sono metabolizzati in altri composti attivi che ne prolungano la durata d’azione.

Effetti collaterali

Le benzodiazepine sono considerati farmaci sicuri e sono dotati di una bassa tossicità. Inoltre, possiedono un elevato indice terapeutico, ovvero si ottengono buoni risultati sui pazienti.

Raramente un sovradosaggio da BZD può avere esiti fatali, a meno che non siano stati contemporaneamente assunti altri farmaci o sostanze in grado di deprimere il sistema nervoso centrale, come barbiturici, oppioidi, alcool o droghe.

In ogni caso, si ricordano i seguenti effetti collaterali da esse prodotte: la sedazione eccessiva, la sonnolenza diurna, la confusione, la depressione, i disturbi della coordinazione, l’atassia e i disturbi della memoria, tra cui l’amnesia anterograda.

Le benzodiazepine possono presentare anche dei sintomi paradosso, come irritabilità, rabbia, collera, irrequietezza, etc.

La sedazione dell’ ansia comporta una certa riduzione della vigilanza, che a dosi elevate induce sonnolenza. Ciò comporta un maggior rischio di incidenti, automobilistici e sul lavoro.

L’alcol potenzia gli effetti collaterali appena elencati.

Chiaramente, anche le benzodiazepine, come altri psicofarmaci, provocano dipendenza fisica e psichica. Una volta che la dipendenza fisica si è instaurata una interruzione brusca del trattamento può portare all’insorgere di sintomi d’astinenza.

In ogni caso, la terapia deve essere sempre scalata gradualmente e non interrotta bruscamente. Infine, un uso prolungato di benzodiazepine porta a tolleranza verso la sostanza. Cioè si può andare incontro ad una riduzione degli effetti indotti dal farmaco, per cui è necessaria l’assunzione di dosi sempre maggiori per ottenere l’effetto desiderato.

 

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Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Vincere denaro giocando d’azzardo: illusioni vs probabilità

Langer, psicologa dell’Università di Harvard, afferma che il gioco d’azzardo comporta nel giocatore la percezione illusoria di poter controllare il gioco; l’individuo finisce dunque per sovrastimare le sue probabilità oggettive di vincere.

 

Quando il gioco diventa d’azzardo

Il gioco d’azzardo ha da sempre occupato un posto importante in tutte le culture, società e classi sociali. Esiste da quando esiste l’umanità, non mancano infatti esempi di giocatori eccessivi nella storia: dagli imperatori romani Caligola e Nerone, fino, in tempi più recenti, a Fedor Dostojevskij. Da oriente a occidente, da nord a sud, in ogni cultura sono reperibili sia il gioco generico, sia il gioco denominato “d’azzardo”.

Da qualche anno assistiamo a una moltiplicazione dei tipi di gioco d’azzardo e il numero di giocatori cresce in rapporto all’aumento delle possibilità di partecipare a tali attività; questa accessibilità ha come corollario il fatto che i problemi connessi al gioco incrementino.
Attualmente un adulto su tre si dedica al gioco d’azzardo; per la maggior parte di essi è un’attività piacevole e divertente, ma alcuni sviluppano un atteggiamento patologico, ossia una vera e propria dipendenza.

Sono tre le condizioni necessarie affinché si possa parlare di gioco d’azzardo:

– il giocatore mette in palio una posta;

– una volta messa in palio non può più essere ritirata dal giocatore;

– il risultato del gioco si basa sul caso.

L’ultimo elemento è il punto cruciale del gioco d’azzardo: il caso implica l’impossibilità di controllare il risultato di un evento. Indica che il gioco non può prescindere dall’imprevedibilità, eppure non sempre il giocatore se ne rende conto.

Per il giocatore eccessivo, il gioco diviene fonte di eccitazione e rilassamento finendo con il comportare conseguenze nefaste per la propria vita. Chi non riesce a smettere di giocare, e quindi ha sviluppato una dipendenza, solitamente riporta di aver ottenuto una cospicua vincita nelle primissime volte in cui ha puntato una somma di denaro e questa informazione primaria ha influenzato la percezione delle successive possibilità di ricavo sovrastimandole. Anche le perdite vengono percepite in modo distorto, infatti è stato dimostrato che le persone riescono a quantificare correttamente quanto perdono nell’arco di pochi giorni, ma non in un intero mese, sottostimando quindi la quantità di soldi giocati.

L’illusione legata al gioco d’azzardo

Langer, psicologa dell’università di Harvard, afferma che chi gioca d’azzardo sviluppa la percezione illusoria di poter controllare il gioco; l’individuo finisce dunque per sovrastimare le sue probabilità oggettive di vincere. Un esempio d’illusione di controllo è stata studiata dallo psicologo Heslin nei casinò di Las Vegas: l’autore ha osservato che al gioco dei craps, quando i giocatori mirano a ottenere un punteggio elevato, lanciano i dadi con maggior forza rispetto a quando desiderano ottenere un punteggio più basso. L’illusione di controllo si traduce nell’energia trasmessa al dado quindi, in vari altri modi, l’individuo si convince che possano esserci delle strategie utili al fine di ottenere la vincita. Chi gioca vuole trarre vantaggio dalle puntate, ma il gioco ha un sistema di regole svantaggiose. A seconda dei giochi infatti, dal 2 al 50% della posta finisce nelle tasche dell’organizzatore. Eppure le persone tendono a perseverare nel gioco anche, e soprattutto, dopo continue perdite perché sentono il bisogno di dover compensare con una vincita, ma così facendo, statisticamente rischiano di dover rinunciare ad altre somme di denaro.

Il disturbo da gioco d’azzardo è un problema diffuso con importanti ripercussioni sulla società e sul singolo individuo. Quando s’instaura una dipendenza è difficile non emettere quel dato comportamento, per questo motivo una persona può arrivare a spendere tutti i suoi averi nella speranza di riprendere almeno una parte dei soldi persi, piuttosto che rivolgersi a uno specialista del settore.
“Data la rilevanza dei pensieri distorti nei giocatori d’azzardo problematici e la difficoltà a modificarli, può essere utile intervenire incrementando la consapevolezza in modo tale che queste persone possano fare i conti con le proprie distorsioni cognitive connesse al gioco d’azzardo ” (Toneatto).
La terapia con maggior efficacia terapeutica per il disturbo da gioco d’azzardo è la terapia cognitivo-comportamentale unita a specifiche tecniche quali la mindfulness.

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