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ACT per il dolore cronico – Report dal workshop esperienziale di Verona, 10 novembre 2017

Si è svolto a Verona nella giornata di venerdì 10 novembre il workshop esperienziale sull’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) per il trattamento del dolore cronico e l’ottavo incontro nazionale dell’ormai collaudato GIS “ACT-for Health”.

 

L’analisi funzionale e l’assessment del paziente con dolore cronico

L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Ospite del workshop il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna e presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state quella della definizione della componente dolore, dell’importanza dell’analisi funzionale nell’assessment dei pazienti affetti da dolore cronico e come questa possa essere una componente utile ed essenziale nel trattamento con il paziente. L’obiettivo finale di tale approccio è proprio quello di aumentare la flessibilità psicologica dei pazienti, vale a dire la loro capacità di essere pienamente consapevoli e aperti alle proprie esperienze, e contemporaneamente, agire in linea coi propri valori, verso le cose che sono importanti per loro.

Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Nanni, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume “Oltre il dolore cronico”, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo dato dall’approccio Acceptance and Commitment Therapy (ACT) a tutti coloro che si occupano di dolore, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.

Il dolore è un’esperienza soggettiva, universale, immediata, e molto spesso invalidante. Quello del dolore è un tema molto attuale essendo un problema la cui entità è destinata ad aumentare, in relazione sia alla maggior incidenza di numerose patologie a sintomatologia dolorosa, sia all’invecchiamento della popolazione. Da uno studio europeo, Pain in Europe 2005, emerge che il 19% è la percentuale di persone che soffrono di dolore cronico in Europa, l’Italia, con una percentuale del 26%, è al terzo posto. Dalla letteratura scientifica si evince che in Italia una persona ogni quattro soffre di dolore cronico (Breivik et al. 2006, Melotti et al. 2009 e Apolone et al.2009).

Dalla definizione nell’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore (IASP): “(il dolore) è un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, è quello che esprime il paziente ed esiste ogni volta che il paziente lo esprime”. Tale definizione pone l’accento su due caratteristiche fondamentali dell’esperienza dolorifica: la percezione soggettiva del dolore e la sua duplice componente, sensoriale e affettiva. Infatti il dolore, definito sempre dall’ Associazione Internazionale per lo studio del Dolore, in quanto “esperienza spiacevole”, implica sempre un’esperienza emotiva, generalmente negativa.

Un’ulteriore componente del dolore fa riferimento alla sfera cognitiva, con meccanismi come l’attenzione, l’aspettativa, il significato attribuito all’esperienza dolorifica. Proprio per tali motivi la comunità scientifica ha raggiunto un consenso nell’interpretare il dolore come un’esperienza multidimensionale in cui una componente prettamente sensoriale comunica in modo bidirezionale con una componente emotivo-cognitiva.

Il dolore cronico secondo il modello biopsicosociale

Da qui si evince la necessità di inquadrare l’esperienza dolorifica all’interno del modello biopsicosociale, teorizzato da Engel negli anni ’80 sulla base della concezione della salute descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale modello considera per ogni tipologia di disturbo, le interazioni tra i fattori biologici, psicologici e sociali.
 Il dolore può esistere in duplice natura: acuto o cronico. Il dolore acuto è normalmente caratterizzato da una durata breve e limitata nel tempo, generalmente tende a regredire con la guarigione/la cessione dello stimolo nocivo, purché non incorra nella cronicizzazione. Esempi di dolore acuto possono essere il dolore da parto o il dolore post-chirurgico. Un dolore acuto diviene cronico se per lungo tempo rimane invariato. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra dolore cronico benigno e maligno. Si parla di dolore benigno quando il dolore cronico è provocato da diversi tipi di lesioni o patologie, come ad esempio nella fibromialgia. Si parla invece di dolore maligno solitamente in rapporto al dolore oncologico.

La definizione di dolore secondo il modello ACT

Durante la prima parte dell’incontro il professor Nanni ha illustrato la definizione di dolore, ridefinendola in chiave ACT. Secondo tale approccio, esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello che è naturalmente connesso alla vita di tutte le persone. A volte può essere forte, a volte tenue, ma di questa componente di dolore non ci si può liberare facilmente in quanto non sarà mai sotto controllo (ad esempio il dolore che deriva da un lutto, o da una malattia fisica). Si fa riferimento al dolore sporco quando parliamo di sofferenza emotiva, che deriva dai nostri sforzi per controllare i nostri sentimenti, nel tentativo di non provare dolore. Come conseguenza della fuga dagli eventi interni spiacevoli, viene a crearsi un nuovo set di sentimenti dolorosi. Questo “dolore sul dolore” è chiamato “dolore sporco”. Questa componente di dolore è quella su cui il farmaco non può agire, e su cui si innesca spesso una disabilità, in un circuito vizioso che implica dolore, paura del dolore, evitamento delle attività e infine appunto disabilità e naturale sofferenza che ne consegue.

Tale modello si propone di aiutare i pazienti ad essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con l’esperienza di dolore. Mettendo in atto azioni volte a ridurre o cambiare gli eventi interni che non vorremmo, causiamo un’amplificazione della sofferenza, dove pensieri e sensazioni sono incrementati.

In questo modo il paziente lascia la sua vita “in attesa”, la pone al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT e quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperenziale per quello che sono e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie.

L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo ai pazienti affetti da dolore cronico una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza dolorifica.

L’ACT prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: accettare quello che è al di fuori del nostro controllo personale, come può appunto essere il dolore, mentre ci impegniamo nel fare qualunque cosa possa permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Lo scopo dell’ACT in queste patologie, sottolinea il professor Presti, è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta.

L’ACT pone le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Ancora una volta, Presti sottolinea l’importanza di un’adeguata analisi del comportamento e rivolge a chiunque voglia approcciarsi a tale tipo di intervento un ottimo consiglio: “Prima di iniziare un trattamento ACT, una solida analisi funzionale risulta necessaria”. Un’ulteriore esaltazione quindi della behavior analysis, su cui si basa appunto l’approccio ACT, inserito per questo ed altri motivi tra le terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione.

Inoltre, il terapeuta ACT fa ampio uso di esercizi esperienziali costruiti per aiutare il paziente a entrare in contatto con: pensieri, sentimenti e sensazioni fisiche. Tali esercizi permettono di fare esperienza di particolari sensazioni in un contesto diverso e più sicuro. Elicitare esperienze difficoltose permette che queste siano osservate con l’esperienza.

Concludendo l’esperienza di dolore cronico comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi condotti in ambito ACT, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro flessibilità psicologica.

Quando la sofferenza bussa alla tua porta e tu la informi che non c’è posto per lei,
questa ti risponde di non preoccuparti, perché ha portato uno sgabello.
Chinua Achebe, da Arrow of God (1967, p. 84)

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, l’invito è quello di partecipare al prossimo incontro internazionale che si terrà a Roma a fine marzo del GIS “Act for Health”, gruppo questo che nasce con l’obiettivo di riunire tutti i clinici interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute, del benessere e non solo.

“Terapie iniziate e finite, più delle volte che ho scaricato e cancellato Grindr” – da una riflessione di Hobbes sulla condizione omosessuale al giorno d’oggi – Fluidsex

Michael Hobbes, scrittore e attivista per i diritti umani originario di Seattle, ha narrato a Huffpost quella che è un po’ sia la sua storia sia la storia della maggior parte delle persone omosessuali, in un contesto in cui i progressi sociali e legali sono stati i più ampi e rapidi della storia dei gruppi minoritari.

 

Le domande di Hobbes sull’omosessualità

La domanda principale a cui l’autore cerca risposta è: “Come mai, nonostante il sostegno pubblico per il matrimonio gay sia salito dal 27% nel 1996 al 61% nel 2016 e molte persone omosessuali siano uscite allo scoperto, rimane una forte disparità di benessere tra omosessuali ed eterosessuali?”
Come mai le persone omosessuali hanno in media meno amici intimi rispetto alle persone eterosessuali? Come mai i tassi di depressione sono più alti? E così anche le sostanze sono più utilizzate? Vengono riportati maggiori tassi di solitudine, autolesionismo e suicidi. Per non parlare dei più alti tassi di malattie cardiovascolari, tumori, allergie e asma (Stults et al., 2015; Ferlatte et al., 2015; Hottes et al., 2016). A cosa sarà dovuta questa epidemia che colpisce le persone omosessuali? (TOGETHER ALONE – The epidemic of Gay Loneliness).

Negli anni le spiegazioni date innanzi a queste domande sono state differenti. Inizialmente si riteneva che le disparità di comportamenti e patologie tra omosessuali ed eterosessuali facessero parte di una sintomatologia legata all’omosessualità stessa. Ma successivamente, quando non si trattò più l’omosessualità come una patologia, tale disparità fu collegata alla forte non accettazione degli omosessuali da parte dei familiari, degli amici e della società.

Il senso di solitudine delle persone omosessuali al giorno d’oggi

Ma al giorno d’oggi, in contesti in cui molti omosessuali non si nascondono più e possono anche costruire facilmente una rete con altre persone non eterosessuali, come mai questa disparità di salute rimane marcata? Come mai ci sono omosessuali che non sono mai stati aggrediti fisicamente o sessualmente che presentano sintomi da disturbo da stress post-traumatico paragonabili a quelli di persone che sono state violentate? (Keuroghlian et al., 2017) Come mai omosessuali che non sono mai stati rinnegati dalla propria famiglia, né sono mai stati vittime di bullismo omofobico vivono un così forte senso di isolamento?

Attualmente, per trovare risposta a queste domande, si fa riferimento al concetto di “stress minoritario”. Far parte di un gruppo emarginato richiede un maggiore stress e degli sforzi maggiori per star dentro ai differenti contesti. Gli omosessuali, a differenza di altri gruppi minoritari, vivono un’ ulteriore aggravante connessa al fatto che il proprio stigma può essere nascosto. Ad esempio, un giovane ragazzo omosessuale dalla pubertà utilizzerà moltissime energie pensando a come comportarsi, a cosa dire e a come rispondere a determinate domande, senza poter condividere con le persone vicine questa fatica, in quanto il proprio stigma non è manifesto finché non sarà la persona stessa a volerlo rendere tale.
A questo proposito il ricercatore Hottes, amico di Hobbes, afferma che “non c’è bisogno che qualcuno ti chiami frocio perché tu debba regolare il tuo comportamento per evitare di essere chiamato così”. La regolazione dei propri atteggiamenti e comportamenti è un pensiero di controllo costante, un’incessante auto-osservazione.

Nascondere la propria omosessualità è come convivere con qualcuno che ti tocca insistentemente il braccio. All’inizio è snervante. Dopo un po’ diventa esasperante. Alla fine, non ti permette di pensare ad altro” (Elder, 2015).
Proprio nell’arco temporale incluso dal momento in cui una persona riconosce il proprio orientamento sessuale al momento in cui inizia a dirlo a qualcuno, i piccoli stressor quotidiani vengono vissuti con effetti eccessivi e non perché siano fortemente stressanti per propria natura, ma in quanto la persona inizia ad aspettare continuamente il loro arrivo (Pachankis et al., 2015). In altre parole, le persone rimangono costantemente attivate in attesa dell’eventuale verificarsi di questi eventi. Ritornando così al concetto che, anche in assenza di prese in giro, la persona continua ad auto-monitorarsi, percependosi in un sottile, ma perpetuo stato di rischio.

Non deve accadere molte volte (di essere, ad esempio, insultati in pubblico, senza esser mai stati attaccati fisicamente) prima di iniziare ad aspettarsi altro, prima che il cuore inizi a battere più velocemente ogni volta che si vede una macchina avvicinarsi”.

A proposito di stressor la scienza ha rilevato che le persone omosessuali producono meno cortisolo dei loro pari eterosessuali. Sembra che gli adolescenti omosessuali producano costantemente così tanto ormone dello stress, da determinare velocemente un decadimento del sistema di produzione ormonale, come accade naturalmente nel caso di persone eterosessuali in età adulta (Austin et al., 2016).

Queste disparità non sembrano ancora totalmente spiegate, essendo il vissuto interiore delle persone, sia legato ai movimenti e ai cambiamenti sociali sia per certi versi indipendente da essi o probabilmente solo più lento di loro nell’evolversi.

 

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gerontofilia: l’attrazione sessuale verso le persone anziane

Il termine gerontofilia deriva dal greco geron che significa anziano e philia cioè amore, affinità. Indica l’attrazione sessuale specifica, tendenzialmente esclusiva, verso persone anziane da parte di soggetti molto più giovani. Seppur né il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) né la Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati (ICD) hanno mai inserito un riferimento specifico a questo disturbo, in contesti forensi può essere classificato negli slot diagnostici del DSM 5, come “altra specificazione” o come “Disturbo Parafilico non specificato” (APA 2013, p. 705).

Maria Carlucci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI San Benedetto del Tronto

 

La parafilia e il disturbo parafilico

Recentemente, il DSM 5 ha introdotto un importante cambiamento in tema di parafilia/comportamento parafilico. Vengono considerate parafilie tutti quei comportamenti sessuali atipici per i quali il soggetto sente una forte e persistente eccitazione erotico-sessuale; tale condizione erotica è vissuta in perfetta egosintonia. Quando il comportamento parafilico invece, diventa una forma di dipendenza e il soggetto accusa un certo disagio interpersonale (egodistonia), allora è utile introdurre il concetto di Disturbo Parafilico. Il Disturbo Parafilico è quindi una parafilia, ma il soggetto, oltre ad avere un intenso e persistente interesse sessuale per particolari attività erotico-sessuali, vive l’esperienza e i vissuti parafilici con disagio, tanto da arrecare danni a se stesso e/o agli altri.

Gli studi sulla gerontofilia

Per quanto riguarda la gerontofilia, le descrizioni psicopatologiche variano, i casi sono scarsi e la riflessione medico/psicologica resta ancora tutta da scrivere.

Secondo l’ottica psicoanalitica, le cause del disturbo potrebbero essere riconducibili al mancato superamento dei complessi infantili di Edipo (per la madre) e di Elettra (per il padre). Si tratta certamente di una manifestazione della sessualità insolita che non deve essere necessariamente etichettata come “sbagliata” o “anormale” ma che diventa tale nel momento in cui l’oggetto di attrazione è una persona non consenziente o comunque soggetta ad umiliazione e sofferenza.

D’ altro canto, i case reports presenti in letteratura, generano spesso più domande che risposte.
Ad esempio una Letter to Editor pubblicata su Lancet, riporta i casi di 3 uomini, rispettivamente di 68, 82 e 85 anni che avevano avuto rapporti sessuali con donne anziane e cognitivamente compromesse, di età compresa tra gli 85 ed i 104 anni. Dato che gli uomini si erano rivelati come condannati in passato per violenza sessuale su minori, gli autori hanno sollevato la questione se i soggetti siano virati con il passare del tempo “da pedofilia a gerontofilia“.

Diversi studi, hanno tentato di dare informazioni sui sex offenders che prenderebbero di mira le persone anziane, ed alcuni di questi evidenziavano che la maggior parte degli abusi sessuali si verificano in strutture residenziali.

Recentemente, un articolo del 2014, riportava i risultati di una ricerca relativa a 119 presunti “sexual abusers” statunitensi (32 dei quali confermati come colpevoli) che sono stati segnalati alle autorità statali come abusatori di persone anziane residenti in strutture di cura; il più grande gruppo di accusati erano impiegati delle strutture di accoglienza oppure residenti nelle strutture stesse. Le caratteristiche degli abusatori che vittimizzavano sessualmente gli anziani erano prevalentemente: malati mentali, abusatori di sostanze o personalità con tratti dominanti o sadici.

In aggiunta, Holt (1993) ha riferito che la maggior parte degli offenders, in 90 casi di sospetto abuso sessuale verso anziani in Gran Bretagna, erano maschi e spesso impiegati del centro che forniva cure e l’abuso si era verificato all’interno delle residenze stesse.
Ovviamente nei casi di gerontofilia non consensuale, ad esempio con anziani malati che subiscono violenze sessuali, passiamo nel campo legale propriamente detto.

Uno studio americano del 2006 asseriva che le aggressioni sessuali che si verificavano in strutture venivano raramente segnalate alle forze dell’ordine ed i colpevoli erano spesso residenti della struttura coinvolta.

Nel nostro Paese la violenza sugli anziani è poco segnalata all’Autorità Giudiziaria, eppure la tendenziale crescita demografica della popolazione di età avanzata ha posto la società di fronte al problema dell’assistenza agli anziani.

Analizzando i casi di abuso sugli anziani, riferendosi agli articoli del Codice Penale, è stato constatato che, in un intero quinquennio, sono giunte all’osservazione della magistratura solamente pochissime denunce. I casi di “maltrattamento” ai danni delle persone di età avanzata che giungono alla Magistratura sono presumibilmente una minima parte della reale presenza del fenomeno.

Prendendo in esame l’ordinamento giuridico vigente in Italia, nel Codice Civile non vi sono riferimenti diretti agli anziani. Alcune citazioni si riscontrano, per contro, nella legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, la Legge 833/78, all’interno della quale si annovera, tra gli obbiettivi del nostro Sistema Sanitario Nazionale, la “… tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e rimuovere le condizioni che potrebbero concorrere alla loro emarginazione …”.

Analogamente, nel Codice Penale vi sono rare citazioni specifiche di tale figura; in merito a tale codice gli articoli che richiamano in modo più specifico al fenomeno della violenza contro le persone anziane sono quelli di “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, di “Abbandono di minore o incapace”, di “Violazione degli obblighi di assistenza familiare” e di “Circonvenzione di incapace”; in misura meno specifica sono coinvolti, inoltre, i delitti di “Lesioni personali” e di “Violenza sessuale”.

Attenendosi ai dati raccolti dall’ISTAT relativi all’anno 2005, all’interno della popolazione italiana i soggetti con più di sessantacinque anni sono ben il 20%. Applicando a tali numeri la stima dell’incidenza del fenomeno proposta dal NEAIS (National Elder Abuse Incidence Study) relative alle altre nazioni europee, ci si dovrebbe aspettare un numero annuo di casi di maltrattamento, in Italia, che si avvicinerebbe alle 500.000 vittime. È evidente, pertanto, quanto il fenomeno dell’abuso sull’anziano debba necessariamente iniziare ad essere considerato ed approfondito soprattutto da parte dei medici operanti in strutture pubbliche ed in residenze assistenziali, e degli operatori sanitari che si trovano quotidianamente a contatto con gli anziani; essi, infatti, rappresentano spesso l’unico accesso ai visibili segni di “maltrattamento” dell’anziano costituendo per la vittima una delle poche risorse di tutela cui possa fare riferimento.

Ecce Bombo (1987) – Nanni Moretti e la generazione post-sessantottina

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo. Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina.

 

L’arte ci attrae solo per ciò che rivela del nostro io più intimo. (Jean Luc Godard)

La domanda è però “sappiamo cosa si nasconde nel nostro io più intimo?”

E’ il 1978 e Nanni Moretti fa uscire nelle sale italiane il suo secondo lungometraggio Ecce Bombo.

Il pubblico lo prende per una commedia, Nanni invece voleva descrivere la drammatica situazione della generazione post-sessantottina, di quei ragazzi senza scopi, senza direzioni, privi di spinta motivazionale sia a livello politico che sociale, complice sarà stata l’ironia che lo contraddistingue. “Il film non doveva far ridere

Il percorso psicoanalitico in Ecce bombo

Il percorso è quello di individuazione, l’analisi è evidente. L’arte, come citato, lo aiuta. La frase è di Jean Luc Godard, il fondatore della Nouvelle Vague, corrente da cui trae ispirazione Nanni Moretti e che in Ecce bombo più che mai è del tutto evidente. E’ evidente a partire dalle inquadrature, per passare ai dialoghi improvvisati e gli attori non attori, la caratteristica che crea il distacco e risponde alla domanda è che attraverso il film si intraprende un percorso psicoanalitico, tipico della filmografia Morettiana.

La storia di Ecce bombo è quella di Goffredo, Vito, Mirko e lui, Michele, il protagonista.

Michele ed i suoi amici si sono da poco diplomati. Il malessere del tempo sprecato al bar, dei difficili rapporti con le famiglie, la mancanza di obiettivi da perseguire, la difficoltà nei rapporti sentimentali e l’incomunicabilità con gli altri porta i ragazzi a voler intraprendere in maniera gruppale e del tutto autonoma un percorso di autocoscienza. Ci si interroga sulle tematiche più disparate, ma gli argomenti preferiti sono sempre gli stessi, in fondo, si parla di sentimenti, il senso di vuoto, il tempo, la noia, il qualunquismo, la difficoltà nell’approcciarsi alla socialità, il non essere capiti, il disagio di molti, nelle cose più banali.

No veramente non mi va, ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è, non è che alle dieci state tutti a ballare in girotondo, io sto buttato in un angolo, no…ah no: se si balla non vengo. No, no…allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele vieni in là con noi dai…” e io: “andate, andate, vi raggiungo dopo…”. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no. Ciao, arrivederci.

ECCE BOMBO – LA SCENA DA CUI E’ TRATTO IL MONOLOGO RIPORTATO:

E’ evidente con questo dialogo/monologo di Michele al telefono con un suo amico che lo sta invitando ad una festa l’insicurezza del personaggio. Chi sono? Cosa voglio?

Il problema cruciale di Michele Apicella è proprio quello dell’identità,di stabilire chi egli sia e quali siano i suoi rapporti con il resto del mondo. Ma non è il solo, e il gruppo di autocoscienza che creano i quattro amici, lo chiarifica. Ognuno di loro si identifica con l’altro, cerca una spalla ma diventando un gruppo e pensando alla teoria psicoanalitica di Bion sui gruppi, in effetti questi diventano una mente unica e la risposta non può arrivare, perché dal “chi sono io?” la domanda passa al “chi siamo noi?”. La base quindi rimane uguale.

La teoria del gruppo di Bion in Ecce Bombo di Nanni Moretti

Vediamo meglio la teoria del gruppo per Bion.

L’uomo è un animale sociale e, nel confronto con gli altri, sperimenta un’apparente contraddizione: il confronto con il gruppo determina la perdita di individualità, frutto di una regressione inconscia. Per tale ragione, il gruppo è causa di grandi frustrazioni per i suoi membri. Allo stesso tempo, però, l’uomo è attratto verso la socializzazione poiché, grazie al gruppo, può sperimentare il senso di appartenenza e soddisfare parte dei propri bisogni materiali e psicologici e questo è proprio il caso evidenziato nel film di Nanni Moretti, Ecce bombo.

Nei gruppi gli individui sperimentano, quindi, due tipi di attività e di stati mentali: uno cosciente e razionale, l’altro incosciente e pulsionale. Il primo è definito “gruppo di lavoro” ed è legato al conseguimento di traguardi concreti, esplicitamente dichiarati in vista del raggiungimento di un determinato risultato. A questa attività cosciente si alterna costantemente una dinamica inconscia, derivante “dai contribuiti anonimi dei singoli membri che inconsciamente mettono in comune stati emotivi fortemente regressivi, a motivo dei quali essi perdono parte della loro individualità e acquistano il sentimento di appartenenza al gruppo, sentito come un’entità distinta dalla somma dei singoli membri”. Nel gruppo emerge e si sviluppa un’esperienza sensoriale, affettiva, emotiva, inconscia, una “vita propria” definita come “mentalità di gruppo” o “gruppo di base”. I membri, in seguito ad una regressione inconscia, rinunciano a qualcosa di se stessi, nel momento in cui agiscono come parti del gruppo, da esso condizionati. È importante occuparsi delle dimensioni emotivo-affettive che appartengono al mondo inconscio del gruppo, poiché esse interferiscono continuamente sul gruppo di lavoro, cioè sull’esecuzione del compito.

Bion individua tre modalità di funzionamento del gruppo, dette “assunti di base” vere e proprie fantasie inconsce di tipo magico-onnipotente che il gruppo produce per raggiungere gli obiettivi e  per risolvere i problemi.

Esse rappresentano difese adottate dal gruppo nei confronti dello sviluppo-trattamento, con lo scopo di non far provare al gruppo la frustrazione legata all’apprendimento dall’esperienza, soggetta – per sua natura – a sforzo e a dolore. Essendo inconsce, sono al di fuori della consapevolezza dei membri ed ostacolano l’attività attraverso forti tendenze emotive. A questo proposito, Bion distingue tre assunti di base: 1) di dipendenza: 2) di accoppiamento; 3) di attacco-fuga.

Il primo descrive la situazione secondo cui il gruppo si riunisce allo scopo di dipendere da qualcuno o da un capo, il quale può risolvere tutti i problemi e sul quale vengono proiettate molte aspettative. Il secondo si riferisce all’attesa o alla speranza di un evento o di un individuo, un Messia, che risolva tutti i problemi del gruppo. Il terzo assunto di base è caratterizzato da una convinzione globale secondo cui esiste un nemico esterno da cui difendersi o attraverso l’evitamento/fuga o tramite l’attacco e poi la fuga.

L’oscillazione tra i due stati mentali – quello razionale consensuale e quello inconscio collusivo – dà origine alla “cultura di gruppo”, cioè alla sua struttura organizzativa vivente, alla sua attività reale, al suo sistema relazionale interno che, secondo Bion, è un tentativo di mediazione automatico e non cosciente tra il gruppo considerato come realtà autonoma e l’individuo.

Questi assunti si intravedono in qualche modo nella pellicola di Ecce Bombo: questo rimando ipotetico e semplice in qualche modo è la chiave della trama del film e del processo di individuazione di Michele e dei suoi amici, per cui evidentemente non può calzare troppo la sopra descritta teoria psicoanalitica del gruppo per il loro processo di individuazione.

Le diverse caratteristiche dei personaggi emergono inevitabili; in queste riunioni infondo non si intraprende un percorso analitico, infatti, tutto ruota intorno una fluttuazione inconcludente di argomenti e problematiche personali esistenzialistiche. Le differenze personologiche si manifestano e a lungo andare, ognuno di loro, Michele soprattutto si distaccherà per procedere con un processo di individualizzazione personale, forse anche se vogliamo di maturazione, che Nanni Moretti, simboleggia magistralmente e metaforicamente nell’ultima scena, quella in cui tutti gli amici dovrebbero andare a trovare Olga, un amica comune, ma dove arriverà solo Michele.

Arricchire il bagaglio lessicale di un bambino? Basta avere genitori che contano! – Le possibili relazioni tra alfabetizzazione e calcolo domestico

La quantità di parole conosciute da un bambino in età prescolare sembra essere influenzata più dalla matematica che dalla lettura.

 

Genitori, se ci tenete allo sviluppo linguistico dei vostri bambini, insegnate loro a contare!

David Purpura, ricercatore di scienze dell’educazione e psicologia clinica, ha condotto uno studio su 114 bambini tra i 3 ed i 5 anni ed i rispettivi genitori. È stato chiesto ai genitori di lavorare insieme ai loro figli sulla lettura di storie e su esercizi di numerazione.

I ricercatori hanno valutato i bambini su quattro componenti (vocabolario definitivo, consapevolezza fonologica, conoscenza della scrittura e competenze di calcolo) in autunno e successivamente in primavera.

Lo scopo di questo studio è stato quello di esplorare le possibili relazioni tra alfabetizzazione e calcolo domestico.

Il rapporto tra alfabetizzazione e calcolo domestico: i risultati dello studio

Il calcolo domestico predice i risultati del vocabolario definitivo. L’esposizione ai numeri di base ed ai primi concetti matematici, nell’ambiente casalingo, predice il miglioramento del vocabolario generale dei bambini in età prescolare, più di quanto possa fare la lettura di storie o altre interazioni ricche di contenuti alfabetizzati.

Come mai questi risultati? I ricercatori ipotizzano che sia proprio il dialogo che si viene a creare quando i genitori insegnano ai propri figli la matematica, spronando i propri figli al confronto, ad incrementare le abilità linguistiche dei bambini.

Essendo i risultati attuali solamente correlazionali, in futuri approfondimenti sperimentali sarà necessario valutare la causalità dei risultati ottenuti.

E quando i genitori non si sentono abbastanza competenti in matematica? Un metodo per tutti

David Purpura lavora da anni sugli strumenti che i genitori possono utilizzare per portare la matematica tra le mura domestiche ed ha notato che spesso i genitori sono più propensi a dedicarsi all’ alfabetizzazione, piuttosto che alla matematica con i propri figli. Questo accade in quanto i genitori stessi sentono di non esser abbastanza bravi e competenti in matematica.

Ma Purpura ritiene che non ci sia bisogno di una laurea in scienze matematiche, basta saper contare!

In pratica, per incoraggiare l’ apprendimento matematico dei propri figli si può parlare di conteggio applicandolo alla realtà quotidiana. Contare i prodotti che si acquistano al supermercato, oppure, interagire con i propri figli includendo sempre dei conteggi (ad esempio “per colazione ci sono DUE uova”, anziché “per colazione ci sono le uova”; oppure “mi passi TRE carote?” anziché “mi passi le carote?”, e così via).

Non ci resta che attendere i futuri sviluppi dello studio e iniziare a provare (e contare!).

Teoria della regolazione affettiva. Un modello clinico (2017) di Daniel Hill – Recensione del libro

Il volume Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico di Daniel Hill rappresenta un ottimo tentativo di sintesi di ipotesi, dati, teorie che partono dal modello psicanalitico per ampliare e integrare con gli studi più recenti l’ampia gamma di informazioni che riguardano la regolazione degli stati del sé.

 

Come affermato nell’introduzione, il volume “è un’integrazione di teoria dell’attaccamento, neurobiologia affettiva dello sviluppo, neurobiologia dello sviluppo sociocognitiva, studi emozionali, studi madre-bambino e psicoanalisi dello sviluppo”. Ne risulta un manuale chiaro e ben organizzato, comprensibile anche al lettore con una differente formazione di base.

Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico – Un manuale tra teoria e pratica clinica

Dopo l’introduzione, in cui viene chiarita la terminologia essenziale, il libro Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico si divide in quattro parti, corrispondenti a diversi aspetti del modello presentato: (1) la teoria del corpo-mente, (2) teoria dello sviluppo, (3) teoria della patogenesi e (4) teoria delle azioni terapeutiche. Fin dall’architettura del volume si percepisce lo scopo finale dell’autore, ovvero creare un manuale capace di integrare teoria e pratica clinica.

Tra i contributi più originali troviamo il modello corpo-mente e, nel capitolo VIII, alcune idee sulla dissociazione moderata. Nella prima parte del manuale Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico, viene esposta la teoria dell’attaccamento, con gli strumenti utilizzati per la codifica dei pattern di attaccamento. Nel secondo capitolo, viene affrontato nello specifico ciò che si intende con “modello corpo-mente” e i punti di contatto tra psicoanalisi e biologia. Gli stati del sé vengono posti su una polarizzazione che va da regolati/integrati a disregolati/dissociati, con le relative caratteristiche specifiche. Successivamente vengono presentati gli aspetti neurobiologici del sistema di regolazione affettiva e i ruoli delle diverse strutture coinvolte. Il quarto capitolo è dedicato al cervello destro, oggetto di numerosi studi curati dal prof. Allan Shore, e sede dei processi cognitivi impliciti (o, per usare la terminologia psicanalitica, inconsci).

La seconda parte del volume Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico si apre nuovamente con la teoria dell’attaccamento classica, nucleo dell’apprendimento di modalità efficaci di regolazione affettiva. In seguito, viene dato spazio al concetto di mentalizzazione, riprendendo il modello di Fonagy e sottolineandone la valenza in termini di sistema secondario di regolazione. Nel VII capitolo viene presentata la teoria dell’attaccamento moderna, la quale delinea le strutture neurologiche e le dinamiche psicobiologiche del sistema primario di regolazione affettiva e ne collega lo sviluppo alle esperienze di regolazione affettiva della relazione di attaccamento (pag. 109).

Nella parte dedicata all’eziopatogenesi (parte terza del manuale) emerge la centralità del ruolo dei traumi relazionali nell’insorgenza della psicopatologia. D’altronde, se il disturbo psichico viene concettualizzato come mancanza di un’efficace regolazione affettiva, e quest’ultima si sviluppa nel legame d’attaccamento, ecco che è lì che dovremo cercare l’origine della problematica attuale. La natura del trauma relazionale, che si affianca quindi alla specificità del pattern insicuro di attaccamento, determina la qualità del deficit di regolazione affettiva. Da ciò hanno origine la psicobiologia del trauma evitante, quella del trauma preoccupato e quella del trauma disorganizzato. Questa parte del libro Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico, in particolare, meriterebbe di essere approfondita, perché il rischio di riduzionismo è molto alto e la letteratura scientifica risulta ancora frammentata. Il nono capitolo si sofferma sulle condizioni di dissociazione cronica e grave, dovuta a condizioni di ipo- o iper- arousal spesso perpetrate nel tempo.

In un compendio che ambisce a essere così completo non poteva mancare una sezione dedicata ai disturbi di personalità, che vengono difatti trattati nel capitolo X e correlati sempre al trauma relazionale (in particolare vengono affrontati il disturbo narcisistico e il disturbo borderline, sebbene non nello specifico). A seguire viene dedicato un capitolo alla vergogna pervasiva dissociata, definita come forza patogenetica primaria che sottende i disturbi psichiatrici dello sviluppo, un importante motivo di rimozione e un fattore chiave nell’arresto evolutivo (pag. 169). Tale definizione sembra un retaggio del passato e in effetti le fonti bibliografiche citate risultano particolarmente datate. Solo quando tale aspetto viene collegato al trauma complesso e al trauma di sviluppo (forse sovrapponendo definizioni di concetti che non sono sempre intercambiabili) possono trovare posto ricercatori contemporanei.

L’ultima parte di Teoria della regolazione affettiva: un modello clinico è dedicata alle azioni terapeutiche che possono essere praticate alla luce della teoria esposta. La relazione tra paziente e terapeuta è uno strumento essenziale, in cui secondo l’autore può essere riorganizzato il sistema di regolazione affettiva, attraverso processi terapeutici più o meno impliciti. Anche in questo caso, sarebbe necessario un nuovo volume per capire al meglio i meccanismi descritti da Hill, autore di questo volume, psicoanalista e editor-in-chief del Center for the Study of Affect Regulation. Nell’attesa, il suggerimento è quello di godervi questo viaggio mano nella mano con uno dei più moderni psicoanalisti.

In Treatment. La serialità in analisi – Recensione del libro

In Treatment. La serialità in analisi è un libro di Elisa Mandelli. Si tratta di una ricognizione estremamente completa su tutto l’universo “ In Treatment ” serie TV che come noto, ha dato vita non solo a una catena di adattamenti su molti continenti ma anche anticipato una modalità di circolazione globale dei modelli seriali di grande efficacia.

 

L’ analisi di In treatment nel libro

Partendo dal prototipo israeliano (BeTipul), da cui nasce tutto, l’avventura seriale di In Treatment è sottoposta a vari tipi di esame:

1) Narrativo: gli impianti, le differenze, i criteri compositivi che differenziano i diversi prodotti a partire appunto da quello israeliano, per passare allo statunitense in cui era necessario riadattare una sceneggiatura preesistente all’insieme di regole consolidate nell’industria americana per passare ad altri paesi, tra cui l’Italia. Un caso di riadattamento di sceneggiatura interessante è portato dai paesi dell’est Europa che non vantano una tradizione psicoanalitica come nel resto del mondo, basti pensare alla Romania dove il regime di Ceausescu tra il 1965 ed il 1989 bandì la psicoterapia, creando anche negli anni a seguire un clima di sospetto e difficoltà nel fidarsi a raccontare i pensieri più intimi ad una persona estranea. La narrazione è ben scandita e divisa nelle giornate della settimana ed ogni giorno vede un suo paziente. Lo stile si adatta perfettamente al format televisivo e mima in qualche modo anche il modello soap opera che porta ad inchiodare lo spettatore alla poltrona.

2) Funzionale e Simbolico: centrato sui personaggi. Lo psicoanalista e i diversi pazienti piacciono e rendono la serie seguibile perché infondo parlano di problemi assoluti e archetipici che possono cambiare eventualmente in raffronto al riadattamento basato su tradizioni ed identità locali ma che rimangono comunque di chiave universale.

3) Formale: in cui si analizzano lo spazio e lo stile tra i diversi adattamenti, la location per il setting che in alcuni casi è più ricco e dettagliato, la poltrona, il divano, i vari strumenti noti in analisi, le entrate e le uscite per i pazienti, ambiente interno, ambiente esterno.

4) Psicoanalitico: parte dedicata agli psicoanalisti e al loro pensiero in merito alla serie che può essere si un confronto sul pensiero legato al prodotto ma anche uno spunto di riflessione sulla diversità dei diversi contesti.

Tutto quindi in qualche modo gira intorno al paragone tra le diverse culture ed i diversi approcci nel raccontare il percorso psicoanalitico, nel mondo che a quanto pare è attrattiva con le dovute peculiarità ovunque.

Il trauma dimenticato. L’interpretazione dei sogni nelle psicoterapie: storia, tecnica, teoria – Recensione del libro

Il trauma dimenticato. L’ interpretazione dei sogni nelle psicoterapie: storia, tecnica, teoria: un nuovo libro sull’ interpretazione dei sogni è l’occasione per fare il punto sulla psicoanalisi oggi sia dalla prospettiva clinica che da quella istituzionale.

Il trauma dimenticato: la psicoanalisi dei sogni

Prendendo abbastanza alla lettera il titolo del libro, Il trauma dimenticato potrebbe essere considerato fondamentalmente l’elaborazione di un lutto: il lutto per quanto la psicoanalisi prometteva di essere all’inizio della sua storia e nel corso dei decenni successivi non è forse mai diventata. Una lunga sezione iniziale del testo Il trauma dimenticato, infatti, è dedicata piuttosto che alla psicoanalisi dei sogni, al sogno della psicoanalisi, o almeno al sogno di alcuni di coloro che hanno storicamente posto la psicoanalisi al centro della propria esistenza (clinica, teorica e anche filosofica, in certi casi).

Armando e Bolko, infatti, si inseriscono in una tradizione di pensiero che ha considerato le idee di Freud come possibile punto di partenza per una profonda evoluzione dell’umanità. Il freudismo aveva originariamente un carattere pressoché eversivo: questo pensava il Padre Fondatore quando nel 1909, rivolto a Jung, disse che gli Americani non sapevano che loro due stavano portando “la peste”. Tanto rivoluzionaria appariva la psicoanalisi in origine, che il nome di Freud è stato più volte accostato a quello di Marx, malgrado le idee politiche freudiane fossero sostanzialmente moderate.

La psicoanalisi, ai suoi esordi, si presentava veramente come portatrice di un profondo cambiamento nei costumi (in particolare sessuali) dell’umanità e come essenzialmente anti-istituzionale. Il movimento psicoanalitico, tuttavia, nel corso del tempo si è trasformato a sua volta in istituzione e luogo di potere, attraverso l’International Psychoanalytic Association, l’associazione degli psicoanalisti che era nata assai modestamente come “Società del mercoledì” (dal giorno in cui si incontravano Freud e i primi allievi). Fu infatti l’IPA a trasformare il principio dell’analisi didattica (l’analisi del futuro analista) in uno strumento di coercizione per i candidati (Kernberg, 1987) e a imporre il primato della psichiatria al proprio interno.

Sembra in effetti assai significativo che le pochissime idee di Freud, da subito completamente disattese dai suoi seguaci, riguardavano principalmente la formazione degli analisti. Secondo Freud, l’analisi didattica poteva risultare piuttosto breve (Freud, 1912); avrebbe però dovuto essere ripetuta ogni cinque anni (Freud, 1937). Freud dedicò inoltre un intero saggio a spiegare che gli studi universitari di medicina non dovessero costituire l’unica porta di accesso alla pratica analitica e nemmeno la porta principale (Freud, 1925). All’inverso, l’analisi didattica all’interno dell’IPA divenne un impegno da centinaia di ore (ma una volta terminata, l’esperienza era ed è considerata chiusa per sempre); mentre gli studi di psichiatria, largamente preferiti un po’ ovunque dalle sezioni nazionali dell’IPA, sono stati a lungo l’unica ed esclusiva possibilità di essere ammesso alla formazione come analista negli Stati Uniti.

Quando Freud provò a far modificare la presa di posizione dei colleghi americani, Abraham Brill, loro leader, mise immediatamente in chiaro che in caso di insistenza l’intero gruppo di oltre Atlantico avrebbe rescisso i suoi legami dall’associazione internazionale (Jones, 1953-1957).

Non molti sono stati i tentativi di modificare il roccioso assetto istituzionale dell’IPA, ma tra i pochi, uno di quelli storicamente più significativi risultò l’organizzazione di un Controcongresso a Roma nel 1969, in parallelo al XXVI Congresso internazionale di psicoanalisi che si teneva nella stessa città (Bolko e Rotschild, 2006). Di tale Controcongresso Marianna Bolko fu uno dei protagonisti: un’immagine dell’epoca rimasta iconica la ritrae insieme a Elvio Fachinelli nell’atto di attaccare un manifesto di protesta, nel quale le due esse di “Congress” sono sostituite da altrettanti simboli del dollaro (la foto è stata di recente ripubblicata in Herzog, 2016).

 

Né l’iniziativa del 1969, tuttavia, né il successivo “manifesto” per la riforma della società psicoanalitica (Aa. Vv., 1974) ebbero un seguito in Italia e anche altrove:

Il dibattito sulla formazione prosegue ancora oggi in ambito istituzionale, con consapevolezza indubbiamente maggiore che nel passato, ma producendo solo cambiamenti conservativi o irrisori (Armando e Bolko, 2017, p. 41).

Ciò che è cambiato è il mondo circostante, dove la psicoanalisi non è più l’unico paradigma psicoterapeutico. In Italia, per esempio, la legge Ossicini ha travolto le ubbie sull’identità del terapeuta e sul suo percorso formativo. Lo psicoterapeuta non ha nessun obbligo di seguire un percorso analitico prima di esercitare la professione di fronte alla legge. Decenni di discussione sul controtransfert sono stati cancellati da una norma che ne stabilisce, si può dire, l’irrilevanza. Si può concordare o meno sul principio, ma lo stato dei fatti non cambia.

Il trauma perduto e l’ interpretazione dei sogni

Se Armando e Bolko si soffermano all’inizio del libro Il trauma perduto su questioni di storia della politica istituzionale della psicoanalisi, è proprio per ripartire dal lascito freudiano originario. Si capisce, quindi, che Il trauma dimenticato è un testo concepito come militante, e alla luce di questa impostazione deve essere letto. In particolare, da parte degli autori non c’è e non ci può essere alcuna intenzione di proporre una storia obiettiva della tecnica psicoanalitica dell’ interpretazione dei sogni, come un lettore potrebbe forse anche legittimamente aspettarsi. Al contrario, IL libro di Freud del 1899, L’ interpretazione dei sogni, appunto, viene inteso come testo del quale recuperare il carattere di fondamento (e si potrebbe affermare: sia in senso positivo che negativo).

In quanto testo militante, Il trauma dimenticato legge i tentativi teorici di revisione del dettato freudiano sull’ interpretazione dei sogni esclusivamente in funzione della loro vicinanza o distanza da Freud, cioè in quanto “conferme”, sia pure a diverso livello (cap. 7) oppure “alterazioni” (cap. 8) dell’originale. Particolarmente forte è la scelta delle sottoclassi nel quale vengono divise queste ultime: edulcorazioni, ibridazioni, profanazioni (sic!), scismi.

Tra le edulcorazioni vengono fatte rientrare le modifiche della formulazione del complesso edipico, che costituirebbe la base dell’ Interpretazione dei sogni. Edulcorazione, per esempio, è classificata la teoria di Kohut del sogno come stato del Sé (cioè come espressione della condizione presente del sognatore).

Tra le ibridazioni sono annoverate le proposte di fondere la psicoanalisi con altre discipline (a partire dal tentativo del pastore Pfister, amico di Freud, di renderla compatibile con la religione).

La categoria delle profanazioni comprende tutti i tentativi di negare il valore dell’ interpretazione dei sogni semplicemente perché si nega in generale il valore del lascito freudiano, sulla base di una presunta disonestà intellettuale (o peggio) dello stesso Freud, come ha proposto una pubblicistica particolarmente di moda negli anni novanta (chi scrive ha a suo tempo analizzato i contenuti di tale pubblicistica: Innamorati, 2000).

Gli scismi corrispondono alle proposte teoriche che hanno spinto i rispettivi autori al di fuori del movimento psicoanalitico freudiano: Alfred Adler, “K.” G. Jung e Jacques Lacan. Mancano all’appello e alla classificazione diversi libri che hanno segnato la storia della tecnica dell’ interpretazione dei sogni (Bonime, 1962; French e Fromm, 1964; Lichtenberg, Lachmann e Fosshage, 1996, tra i tantissimi) e di alcuni viene largamente sottovalutato il contenuto innovativo (Sharpe, 1937): va appunto ribadito, però, che Armando e Bolko non intendevano proporre un testo storico in senso letterale ma una testimonianza e soprattutto una proposta di innovazione clinica, che viene sviluppata nell’ultima sezione di Il trauma dimenticato.

Il lavoro dell’ interpretazione dei sogni viene suddiviso in una serie di operazioni che rientrano in due gruppi fondamentali: i “momenti costitutivi” e i “momenti operativi”. Tra i momenti costitutivi vanno classificati ciò che gli autori chiamano “formazione della mente” e la “costruzione del contesto”. Gli autori individuano nei momenti costitutivi, infatti, una serie di accorgimenti volti a focalizzare l’attenzione dell’interprete con i giusti tempi di attesa sugli elementi fondamentali del contenuto onirico e sulle caratteristiche del lavoro analitico che si sta svolgendo e fa da cornice alla presentazione dei sogni (secondo Armando e Bolko, per esempio, è possibile classificare otto diversi possibili atteggiamenti dell’analizzando rispetto al sogno, ognuno dei quali suggerisce altrettanti atteggiamenti interpretativi dell’analista). I momenti operativi descrivono invece come debba procedere l’interpretazione vera e propria, dalla “connessione” (cioè l’individuazione dei nessi tra gli elementi significativi del contenuto onirico”) alla fase finale di “valutazione”. Senza mai perdere quel carattere militante che emerge anche nel voler sottolineare che un metodo rigoroso serve anche a evitare di “perdersi in quell’indiscriminato divagare emblematicamente rappresentato dall’opera di Jung del 1912 che segnò la sua separazione da Freud” (Armando e Bolko, 2017, p. 161).

Miglioramento del pensiero innovativo e della connettività cerebrale attraverso un training cognitivo strategico

Il pensiero innovativo o cognizione innovativa viene definito come un dominio cognitivo caratterizzato da adattabilità e flessibilità di pensiero che influisce sulla vita decisionale, sulla resilienza e sul benessere psicologico; è ampiamente riconosciuta come una capacità vitale caratterizzata da un tipo di pensiero adattivo e flessibile.

 

Interventi non invasivi, come un training cognitivo o l’esercizio fisico, sono sempre più gettonati tra i modi per incrementare e allenare le funzioni cognitive e cerebrali durante tutto il corso della vita. Uno degli aspetti più fondamentali ma poco studiati della cognizione umana è il pensiero innovativo, specialmente negli anziani –  sostiene la Dr.ssa Sandra Bond Chapman neuroscienziata cognitiva e fondatrice del Center for Brain Health dell’Università del Texas a Dallas.

Il pensiero innovativo o cognizione innovativa viene definito definito come un dominio cognitivo caratterizzato da adattabilità e flessibilità di pensiero che influisce sulla vita decisionale, sulla resilienza e sul benessere psicologico; è ampiamente riconosciuta come una capacità vitale caratterizzata da un tipo di pensiero adattivo e flessibile (Chapman et al., 2017). Il pensiero innovativo può essere una capacità cognitiva fondamentale e una funzione cerebrale che consente di rispondere in modo efficace a richieste di vita impegnative e in costante cambiamento (Saggar et al., 2016).

Il pensiero innovativo negli anziani: migliorarlo attraverso un training cognitivo

In un nuovo studio pilota, pubblicato recentemente in Frontiers in Aging Neuroscience, la neuroscienziata cognitiva Sandra Bond Chapman e il suo team hanno provato a dimostrare come uno specifico training cognitivo può favorire un miglioramento del pensiero innovativo nelle persone anziane.

La ricerca è stata condotta in adulti in salute con un’età compresa tra i 56 e i 75 anni e per misurare la cognizione innovativa i ricercatori si sono avvalsi della capacità quantitativa e qualitativa di differenti livelli di interpretazioni astratte nelle diverse fasi del training esaminando al contempo i cambiamenti cerebrali attraverso la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) nelle aree che interessano la default mode network e la rete dell’esecutivo centrale.

In questo caso i ricercatori hanno condotto uno studio randomizzato, analizzando e comparando sia gli effetti dello SMART program (Chapman et al., 2017) sia dell’esercizio aerobico, conosciuto come salutare per il benessere mentale, sul pensiero innovativo dei soggetti sottoposti al training.

Lo SMART program, nello specifico sarebbe l’acronimo di Strategic Memory Advanced Reasoning Training, letteralmente tradotto come training di memoria strategica e ragionamento avanzato, il quale è stato sviluppato al Center for BrainHealth di Dallas e si focalizza sull’apprendimento di strategie che favoriscono l’attenzione, il ragionamento e la prospettiva generale.

Questo studio rivela che il training cognitivo può essere di aiuto per accrescere le capacità cognitive e costruire la resilienza contro il declino nel benessere delle persone adulte – sostiene la neuroscienziata Chapman.

Ogni gruppo è stato sottoposto al training tre ore a settimana per dodici settimane e i partecipanti sono stati valutati tre volte durante tutto il periodo del training – una fase di baseline, una centrale e una finale –  per verificare i cambiamenti e l’incremento delle attività cerebrali nelle aree interessate e le capacità di diversi livelli di interpretazione astratta.

Oltre a valutare gli effetti del training cognitivo, questo studio provvede anche a testare l’affidabilità dello strumento che valuta la cognizione innovativa, la quale è stata sempre relativamente ignorata a causa della complessità del pensiero innovativo – sostiene la Chapman.

In relazione ai risultati, i componenti del gruppo sottoposto allo SMART program (SMART) hanno mostrato un incremento del 27% sulla performance del pensiero innovativo migliore dalla fase baseline alla fase finale del training cognitivo. Invece, il gruppo sottoposto ad esercizio fisico non mostra miglioramenti.

Questi risultati positivi nel gruppo sottoposto al training cognitivo sono sostenuti dalla fMRI, attraverso la quale è stato possibile individuare un incremento della connettività tra le cellule del cervello nelle aree che interessano l’ esecutivo centrale. E’ possibile, quindi, vedere come questa alta attività nella rete dell’esecutivo centrale corrisponda un miglioramento della cognizione innovativa.

I progressi nel campo del fMRI ci permettono di misurare i differenti aspetti delle funzioni del cervello – dice il Dr. Sina Aslan, specialista della fRMI al Center for BrainHealth.

Questi risultati suggeriscono che essere mentalmente attivi non solo mitiga il declino cognitivo, ma ha anche il potenziale di “rinvigorire” il pensiero innovativo, il quale è tipicamente perso con l’età.

La neuroscienziata Chapman si dichiara incoraggiata dai risultati ottenuti e conclude sostenendo che:

Il training di ragionamento offre un intervento promettente ed economicamente vantaggioso per migliorare la cognizione innovativa, una delle capacità più preziose e fruttuose della mente umana a qualsiasi età.

 

I cambiamenti nella sessualità durante il ciclo di vita di una coppia: dalla gravidanza alla genitorialità

La gravidanza porta a notevoli cambiamenti nell’equilibrio relazionale di una coppia e nonostante l’aspetto affettivo possa essere rafforzato dalla nascita di un figlio, la sessualità risente di diversi fattori: biologici, fisici, familiari, culturali, religiosi e sociali. Questi posso portare a tabù e condanne all’attività sessuale con conseguente diminuzione dei rapporti; risulta pertanto necessario per ogni coppia ridefinire l’equilibrio tra i ruoli di genitori e partner sessuali.

Elisabetta Momo e Giada Sera, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Introduzione

La coppia subisce numerosi cambiamenti durante il ciclo di vita familiare sia relazionali sia legati alla sessualità; la funzione sessuale di coppia cambia ed è soggetta a diversi fattori di rischio in base alla fase in cui ci si trova.

La coabitazione è una evoluzione nella coppia che ha numerosi risvolti a livello relazionale, giuridico e pratico. In questa fase avvengono solitamente aggiustamenti tra i partner, non da ultimo anche quello a livello sessuale. Da diversi studi è emersa una diminuzione della frequenza dei rapporti sessuali nelle coppie correlata alla coabitazione (sia in convivenze che in matrimoni) (Laumann, Gagnon, Michael e Michaels, 1994) ed alla durata del matrimonio (Call et al., 1995). Altro fattore correlato alla frequenza dei rapporti è l’età: all’aumentare dell’età diminuiscono i rapporti sessuali, dato dovuto probabilmente a fattori biologici e psicologici associati all’invecchiamento (Call et al., 1995; Marsiglio e Donnelly, 1991; Rao e DeMaris, 1995).

Altri studi si sono concentrati su differenti parametri: la soddisfazione sessuale e l’intimità di coppia. La soddisfazione sessuale sembra diminuire all’aumentare dell’età e alla durata del matrimonio, in altre parole all’intimità della coppia (Greeley, 1991; Edwards, Booth, 1994; Lawrance, Byers, 1995).

La funzione primaria di una coppia, dal punto di vista biologico ed evoluzionistico, è quella riproduttiva. In Italia la ricerca di un figlio tarda sempre di più per motivi economici, lavorativi e culturali. Dati Eurostat rivelano un incremento dell’età media delle madri alla nascita del primo figlio: dai 28,1 anni nel 1995 si è passiti ai 30,8 nel 2015. L’aumentare dell’età delle primipare comporta cambiamenti su molti fronti: socio-culturali, psicologici e biologici (legati sopratutto alla fertilità di coppia).

La donna al momento della gravidanza attraversa una trasformazione in senso totale, gli equilibri raggiunti cambiano e così anche la relazione di coppia. Gli studi in ambito sessuologico durante il periodo gestazionale sono aumentati nell’ultimo decennio ma si sono concentrati prevalentemente sulla donna, non sempre estendendo l’analisi al partner o all’intera coppia. E’ sicuramente emersa una significativa presenza di pregiudizi e falsi miti strettamente legati al periodo della gestazione.

Alla nascita di un figlio intervengono poi ulteriori cambiamenti. Il nuovo ruolo di genitori, stravolgendo completamente le abitudini di una coppia, può portare con sé difficoltà nell’intesa sessuale dei neogenitori.

La sessualità in gravidanza

La gravidanza porta a notevoli cambiamenti nell’equilibrio relazionale di una coppia e nonostante l’aspetto affettivo possa essere rafforzato dalla nascita di un figlio, la sessualità risente di diversi fattori: biologici, fisici, familiari, culturali, religiosi e sociali. Questi posso portare a tabù e condanne all’attività sessuale con conseguente diminuzione dei rapporti; risulta pertanto necessario per ogni coppia ridefinire l’equilibrio tra i ruoli di genitori e partner sessuali.

I cambiamenti fisici portano nella futura mamma timori riguardo il non sentirsi più attraente e desiderabile mentre nell’uomo, di conseguenza, la difficoltà di rapportarsi non più solo alla loro donna ma anche alla madre di loro figlio.

Il primo famoso studio sulla sessualità in gravidanza è stato svolto da Masters e Johnson nel 1966; da questo emerse un aumento del desiderio sessuale e della sessualità nel II trimestre di gravidanza ed un decremento di questi nel III trimestre. Questo primo studio fu poi riconfermato negli anni da altre ricerche, che approfondirono ed ampliarono i parametri presi in considerazione (Scarselli et al., 2002). Si può quindi individuare un andamento specifico del desiderio sessuale e della sessualità in gravidanza: una diminuzione moderata, pari al 59%, nel primo trimestre seguito da un aumento di questi al 75-84% nel II trimestre. Il terzo trimestre sembra invece caratterizzato da una decisa diminuzione (40-41%) del desiderio e della sessualità con un peggioramento di tutti parametri: desiderio, eccitazione, orgasmo, soddisfazione e frequenza; questo è dovuto ai consigli medici e a diverse difficoltà frequenti al termine della gravidanza (pienezza addominale, dolori lombari e affaticamento) (Von Sydow K., 1999). Queste alterazioni della vita sessuale di coppia durante la gestazione sono dovute ad aspetti fisiologici ed anatomici oltre che a fattori prettamente psicologici.

Dal punto di vista fisiologico intervengono moltissimi cambiamenti che influiscono sulla sessualità. Durante la gestazione le più importanti modificazioni anatomiche sono: la diminuzione del tessuto connettivo, l’aumento delle dimensioni delle fibre muscolari delle pareti vaginali, l’allargamento della circonferenza del lume vaginale per aumento delle cellule epiteliali e la diminuzione della sensibilità vaginale ( Farage & Maibach, 2006; Zhao et al., 2000). Tutto ciò può portare a cambiamenti nel rapporto penetrativo, come ad esempio la diminuzione della percezione del pene a causa della dilatazione della vagina e della sua iposensibilità. Sono discordanti invece gli studi che hanno analizzato l’influenza dei livelli ormonali sulla sessualità: da una parte si ipotizza che alti tassi di progesterone tendano a diminuire il desiderio sessuale, dall’altra l’aumento della massa uterina è maggiormente reattiva all’ossitocina rilasciata durante l’orgasmo e si ipotizza che ciò porti quindi ad una maggior percezione delle sensazioni piacevoli (Erol et coll., 2007).

Dal punto di vista psicologico vi sono numerose fantasie, timori e apprensioni intorno alla gravidanza e risulta molto difficile fare un quadro di quelli che saranno, almeno con ogni probabilità, le reazioni psicologiche della gestante. Dallo studio di Pauleta e collaboratori (2010) emerge che le donne hanno diverse paure durante la gestazione: il 40% delle donne teme di essere meno attraente e di piacere meno al proprio patner, il 23,4% confessa di aver paura di fare male al feto. È quindi fondamentale, durante una consulenza sessuologica, sfatare questi falsi miti migliorando il vissuto psicologico della donna durante questo periodo. A queste ansie può affiancarsi la paura per la trasformazione, l’aumento di responsabilità e impegno per il nuovo ruolo che si riveste o conflitti per la nuova visione di sé come madre rispetto a quella che esse avevano precedentemente di sé come donne indipendenti. La percezione della gravidanza, se voluta o meno, il senso che il bambino ha per la coppia in quel momento, la situazione psicologica della donna, il supporto percepito dal patner e la situazione socio-economica-culturale sono tutti fattori da valutare che possono avere notevoli riscontri a livello psicologico per la donna in gravidanza.

Meno studiato è il vissuto dell’uomo nel periodo di gestazione, infatti anche i compagni possono risentire dei cambiamenti legati alla gravidanza e accusare difficoltà comportamentali: è possibile che essi non comprendano totalmente le esigenze della partner e sviluppino pensieri distorti o comunque non funzionali all’attività sessuale della coppia. Masters e Johnson (1966) e studi più recenti (Scarselli et al., 2002) hanno riscontrato negli uomini credenze disfunzionali rispetto alla donna gravida: tra le più comuni la paura di creare disagio al feto e/o alla donna, poca comprensione di eventuali difficoltà fisiologiche riportate dal medico, paura che il proprio pene possa toccare e far male al feto. Inoltre il patner può attivare un atteggiamento maggiormente protettivo, talvolta eccessivo, rispetto a prima della gravidanza che può irrigidire ulteriormente i rapporti sessuali nella coppia. Questi aspetti devono essere trattati in caso di consulenza sessuale o affrontati dal ginecologo/medico curante in modo da sfatare falsi miti.

Il puerperio: i cambiamenti nella sessualità

Nei primi 40 giorni di vita del bambino diversi fattori possono impattare negativamente il desiderio e l’eccitazione sessuale e possono portare a disfunzioni sessuali nel post-partum e durante il puerperio. Tra questi sono presenti fattori biologici come la fatica, la deprivazione di sonno, la modificazione degli ormoni sessuali, gli esiti cicatriziali perineali; fattori contesuali come il nuovo ruolo di madre e di padre e infine fattori psicologici come l’identità materna ( Basson et coll., 2005). Lo studio di Pastore e collaboratori (2007) evidenzia come in un range di tempo che va dalle due settimane agli undici mesi dopo il parto la ripresa del coito avvenga in media dopo 1,9 mesi dal parto.

Secondo lo studio di Rowland e colleghi (2005) le motivazioni per l’assenza di rapporti sessuali dopo 6 settimane dal parto sono: stanchezza eccessiva, assenza del desiderio, timore di dolore e divieto posto dal ginecologo.

La dispareunia, un disturbo che consiste nel provare dolore genitale durante o, più raramente, dopo il rapporto sessuale, può essere presente nel post-partum ed è strettamente correlata al tipo di parto. In caso di traumi perineali ed epistotonia ed in caso di utilizzo di strumenti quali la ventosa ostetrica o il forcipe la severità della dispareunia post partum è molto elevata (Signorello et al., 2001); è invece minore a seguito del taglio cesareo dove non vi è interessamento della muscolatura del perineo.

Dallo studio di Glowacka e collaboratori (2014) emerge che il 49% delle donne sviluppa dolore pelvico genitale durante la gravidanza e questo persiste dopo il parto in un terzo dei casi, al contrario solo il 7% delle donne riferisce l’inizio del dolore dopo il parto. Inoltre gli autori riscontrano una correlazione tra ansia riguardo al dolore in gravidanza ed un maggior livello di dolore pelvico-genitale dopo 3 mesi dal parto; le donne che hanno un dolore ricorrente pre-gravidanza non genitale hanno maggiore probabilità di sviluppare anche un dolore post partum. Nell’uomo invece la sessualità non sembra influenzata dalla tipologia di parto della donna (Gungor et al., 2010).

E’ molto comune anche la perdita del desiderio sessuale nella donna dopo il parto: la donna è assorbita fisicamente e mentalmente nel suo nuovo ruolo, sentendosi più mamma che donna. Questo disiteresse è favorito naturalmente da squilibri ormonali, ma intervengono anche numerosi fattori psicologici. L’uomo a sua volta può avere una caduta del desiderio sessuale in questa fase, a seguito della visione del parto o in conseguenza alla percezione di trascuratezza della compagna o ad emozioni di gelosia verso il figlio al quale la partner dedica tutte le sue attenzioni. Buoni alleati per superare questo momento nella coppia sono la comunicazione, la condivisione ed il desiderio di entrambi di trovare un compromesso. Il desiderio sessuale solitamente tende a tornare entro tre mesi, con variabilità soggettiva della coppia anche in relazione alla loro sessualità pregressa.

Nel periodo immediatamente successivo al parto avvengono quindi cambiamenti totalizzanti nella vita della coppia, in particolare della donna. In questa fase può subentrare frequentemente la depressione post partum, una patologia sempre più presente. Nello studio di Faisal-Cury e collaboratori (2013) su un campione di 831 donne il 21% riferisce sintomi ansiosi depressivi nel post partum e questo sembra correlare significativamente con un declino dell’attività sessuale fino a 18 mesi dal parto.

L’allattamento

Da studi emerge che la sessualità di una coppia può essere problematica anche durante la fase di allattamento e che il tempo di allattamento sembra essere un fattore significativo: sono presenti maggiori problemi nella sessualità quando l’allattamento supera i 12 mesi. Avery e collaboratori (2000) riportano che l’allattamento influisce sulla secchezza vaginale e che questo problema diminuisce con il tempo: 43% nei primi 4 mesi di allattamento, 36% entro i 12 mesi e 14% dai 12 mesi in poi.

Durante l’allattamento si registra una caduta del progesterone accompagnata dall’aumento della prolattina e dell’ ossiticina. L’aumento della prolattina, ormone che stimola la lattazione, comporta una diminuzione degli androgeni che portano ad un calo della libido e ad una diminuzione degli estrogeni responsabili di una minore lubrificazione vaginale. Al termine dell’allattamento i valori ormonali tornano nella norma a seguito del primo ciclo mestruale.

L’ossitocina è l’ormone del piacere post orgasmico, questo è responsabile dell’eiezione del latte dalla mammelle, delle contrazioni uterine durante l’orgasmo ed il parto. In alcune donne può provocare sensazioni simili all’orgasmo sottoforma di intense contrazioni uterine (Riordan et al., 2005).
Quindi le problematiche riscontrate in questa fase possono essere: secchezza vaginale e conseguente dispareunia, aumento della sensibilità dei capezzoli, eiezione di latte durante il rapporto sessuale o l’orgasmo, diminuzione del desiderio sessuale, sensazione di provare un orgasmo/eccitazione mentre si allatta il figlio.

Conclusioni

La gravidanza è un evento che comporta numerosi cambiamenti che influiscono sulla relazione di coppia e sulla sessualità. Come abbiamo visto, la sessualità risente di modificazioni ormonali, fisiologiche, psicologiche e sociali. Sembra risultare importante investire maggiormente sul canale comunicativo medico-paziente in modo da sfatare falsi miti, fornire chiarificazioni, anche di natura medica, sui cambiamenti che stanno avvenendo e come questi giochino un ruolo nella sessualità ed infine fornire risposte ai numerosi timori riportati dalle coppie.

Dallo studio di Nusbaum e colleghi (2002) sembra emergere la necessità che i medici affrontino per primi l’argomento sessualità con donne in gravidanza o post partum e che eventualmente approfondiscano la loro preparazione su tale argomento. Gli autori riportano che il 50-60% delle puerpere intervistate nel loro studio parla di sessualità con il proprio ginecologo al controllo post partum, ma il 70% di queste riferisce un notevole imbarazzo da parte del medico nell’affrontare l’argomento. Questo dato porta a riflettere sulla necessità di fornire una formazione più improntata all’ascolto attivo e all’accoglienza delle pazienti da parte dei medici.

La parafilia “Devotee” e l’attrazione sessuale per i disabili

Da anni esiste una particolare parafilia nota negli Stati Uniti e ancora poco conosciuta in Italia, chiamata “ devotee ” una delle attrazioni sessuali più particolari. Il “devotismo” è traduzione culturale della categoria diagnostica “acrotomofilia”, che J. Money, psicologo e sessuologo, esplora scientificamente negli anni Ottanta, ovvero la capacità di provare interesse o eccitazione sessuale solo al cospetto di persone che hanno deformazioni o amputazioni agli arti o come nell’ abasophilia per gli ausili come le carrozzine, i gessi, le protesi ect.

 

La parafilia del devotee: l’attrazione sessuale verso i disabili

Il concetto di bellezza femminile e maschile è stato trattato da innumerevoli autori, ma nonostante questo nella società odierna è difficile se non impossibile, stabilire cos’è definibile come “realmente bello”. Esistono dei canoni estetici sui quali appoggiarsi, che rispecchiano “gli ideali” comuni e ci consentono di distinguere l’armonia, la grazia e l’eleganza di un corpo, rispetto ad un altro, che possiamo percepire come sgradevole, se non addirittura mostruoso. Non sempre però, quanto diamo per scontato è la regola di tutti. A volte, quanto per noi di più imperfetto esiste, risulta essere seducente per un’altra persona, e viceversa.

Da anni esiste una particolare parafilia nota negli Stati Uniti e ancora poco conosciuta in Italia, chiamata “devotee” una delle attrazioni sessuali più particolari.
Il “devotismo” è traduzione culturale della categoria diagnostica “acrotomofilia”, che J. Money, psicologo e sessuologo, esplora scientificamente negli anni Ottanta, ovvero la capacità di provare interesse o eccitazione sessuale solo al cospetto di persone che hanno deformazioni o amputazioni agli arti o come nell’ abasophilia per gli ausili come le carrozzine, i gessi, le protesi ect.

La componente patologica di questo fenomeno risiede e prende consistenza nel fatto che l’interesse è indirizzato solo verso la parte amputata o l’handicap e raramente verso la persona e le sue qualità umane.

Nei devoti, spesso è compromessa l’area sociale, lavorativa e l’intimità emotiva e sessuale nei confronti del loro partner.
Questo tipo di parafilia si avvicina al feticismo, come pulsione sessuale diretta verso un oggetto inanimato. Come nel feticista, l’oggetto è indispensabile e imprescindibile per l’eccitamento e l’attività sessuale. I devoti tendono ad evitare la relazione intima col partner, e rendono erotico non uno stivale ma gli ausili di cui il disabile si serve o l’arto menomato.

Nel devotismo, le persone chiedono di poter toccare le gambe, di guardare mentre la persona mangia, chiedono di poter pettinare i capelli o poterla accompagnare in bagno, trattano la persona come un oggetto.

Le sue condotte sessuali sono egosintoniche, ossia il soggetto ha un assoluto bisogno delle pratiche o fantasie sessuali e le giustifica come normali.
La maggior parte dei devotee appartengono al gruppo degli “Amplovers” o amanti degli amputati.
L’attrazione sessuale può risiedere nel moncherino vero e proprio, nelle protesi, oppure nell’immaginario di quanto esiste sotto di essa.

Taluni si eccitano nel cogliere le difficoltà di deambulazione dovuta alla mancanza di uno o di entrambi gli arti inferiori; altri nel riscontrare durante lo svolgimento di normali azioni, la malagevolezza tipica di chi è privo di una o ambedue le braccia.
Altri ancora focalizzano l’interesse esclusivamente sulla “parte mancante” del portatore di handicap e nel tentativo d’immaginare le sue sembianze.

Altre tipologie sono:
CASTER: amante dei gessi;
AMPUTEE: amanti degli amputati/e;
LOVERWHEELCHAIR: amanti delle sedie a rotelle;
LOVERPOLIO: amanti dei poliomielitici.

Le categorie del fenomeno del devotee

Il fenomeno devotee si sfrangia in quattro categorie ben definite che sono le seguenti:

– Admirer (ammiratore): l’admirer ha un alto grado di ammirazione e rispetto per le persone disabili. Non presenta aspetti di tipo ossessivo, il suo comportamento è congruo, non bizzarro ed è conforme alle norme sociali. Generalmente l’admirer si può trovare in quelle persone che frequentano associazioni di disabili come volontari.
– Pretender (to pretend: fingere): persone che pur non essendo disabili fingono di esserlo. Il loro comportamento viene considerato bizzarro e, se pubblico, soggetto a riprovazione sociale.
– Wannabe (vorrei diventare): persone che non essendo disabili desiderano diventarlo e arrivano ad amputarsi. Tra le tipologie, questa è la più grave di rischio psicologico.
Devotee (devoto): persone che sono affascinate, attratte (anche in termini sessuali), verso persone disabili e i loro ausili. A volte si presentano aspetti di tipo ossessivo con una ricerca continua di immagini e/o di incontri. Può accadere che il grado di fascinazione sia al di fuori del controllo della persona.

I devoti manifestano più apertamente la deviazione del devotismo verso una “categoria” di disabili che è quella degli amputati. I gruppi devotee oltre alla ricerca di fotografie o filmati, si scambiano anche richieste relative alle loro preferenze sul tipo di amputazione (ad esempio singola amputazione sopra il ginocchio, oppure amputazione sotto il ginocchio ect.)

L’assenza di tre arti e la totale assenza di arti sono rispettivamente descritte come Triple e Quad. Nella Community Amputee-Devotee ci sono tracce di devozione per l’amputazione del dito alluce.
C’è poi un piccolo gruppo di nucleo di devotee che hanno attrazione ossessiva per amputazioni agli occhi: RE (occhio destro), LE (occhio sinistro).

I devoti utilizzano social media in una varietà di modi, ma la loro motivazione principale è quella di: incontrare e stringere relazioni con le donne o uomini con deficienza degli arti; accedere in modo non autorizzato alle immagini fotografiche di persone in cui gli arti colpiti sono visibili, fare rete con altri devoti per condividere immagini e mantenere un gruppo sociale; normalizzare i loro comportamenti sostenendo l’accettabilità sociale dei devoti.

In conclusione, è importante considerare che i devoti per sedare la loro ossessione, scelgono attività di volontariato o di lavoro in contatto con persone disabili.

È importante strutturare strategia di tutela da persone che possono approfittare della situazione di debolezza fisica e psicologica della persona con disabilità fisica e prevenire l’abuso dando informazioni di educazione sessuale sia ai disabili che alle loro famiglie.

Psicoanalisi attraverso lo schermo. I limiti delle terapie online – Recensione del libro

Psicoanalisi attraverso lo schermo (i limiti delle terapie online) è un libro di Gillian Isaacs Russell. Il libro è il risultato dell’esperienza personale della psicoterapeuta.

 

Trasferitasi dagli Stati Uniti in Gran Bretagna, continua la sua didattica, le sue collaborazioni scientifiche e l’assistenza di alcuni pazienti, attraverso l’uso di Skype.

Da questo nuovo assetto ed osservando l’era del digitale che avanza inesorabile, la Russell comincia ad interrogarsi cosi su tre questioni fondamentali:

1- Un trattamento terapeutico senza presenza fisica può avere un’efficacia ottimale?

2- Cosa succede in una terapia circoscritta allo schermo quando non c’è alcuna possibilità, come suggerito da una paziente, di scambiarsi “pugni o carezze?”

3- Quale effetto ha sull’intimità la radicale alterazione dell’equilibrio fra comunicazioni verbali esplicite e non verbali implicite?

Ricercando le risposte, ecco nascere il libro Psicoanalisi attraverso lo schermo, estendendo i quesiti oltre la psicoanalisi e la psicoterapia e attingendo ad altri campi quali le neuroscienze, l’osservazione infantile, gli studi sulla comunicazione verbale e non verbale e le scienze cognitive.

L’opera è divisa in quattro parti. La prima descrive cosa ha spinto appunto la psicoterapeuta ad interrogarsi sui sopracitati quesiti, le testimonianze di pazienti e terapeuti già invischiati nel trattamento informatizzato e alla riflessione su ciò che avviene attraverso schermo del computer.

La seconda parte è prettamente basata sulle teorie e ricerche nel campo clinico-terapeutico. La terza, si concentra sul concetto di “presenza”. La comunicazione infatti è composta non solo dalle parole ma moltissimo anche dal “non verbale”: gesti, movimenti, mimica, postura, meta-comunicazioni che si leggono “fra le righe” ed il processo terapeutico per essere efficace richiede azioni esplicite ed implicite e la comunicazione attraverso il computer sicuramente non trova problemi nell’esplicito ma lo stesso non si può dire dell’implicito e il ridotto senso di presenza e appunto la trasmissione limitata della comunicazione potrebbero influire sull’efficacia del trattamento attraverso lo schermo.

L’ultima parte pone la riflessione sulla professione, riprendendo il concetto di ‘presenza’ che come accennato è una parte fondamentale per l’analisi di questo nuovo approccio e ponendo attenzione sui rapporti che ormai da molto tempo ha l’uomo con i sistemi informatici nonché sulle motivazioni che spingono molti professionisti ad approcciare con la psicoterapia online tra cui la ricerca semplicistica di un lavoro.

Cambia il setting, cambia la diade paziente-analista, cambia la co-presenza.

E’ evidente che il ruolo dell’analista, accettando questa nuova pratica clinica, è in via di cambiamento. Dall’accettazione della validità di questo nuovo approccio, e non sono pochi i clinici favorevoli a tal nuova metodica, si modificheranno altresì diversi paradigmi della disciplina stessa, nonché in un futuro il decidere che tipo di terapeuta si vorrà essere.

 

Troppo stress? Rischiamo di prendere decisioni rischiose

Uno studio condotto sui ratti, pubblicato recentemente sulla rivista Cell, condotto dal professor Friedman e colleghi del Massachussets Institute of Technology, ha mostrato come lo stress cronico possa interferire in maniera significativa con il processo di decision-making e di conseguenza si può verificare che si scelgano opzioni più vantaggiose ma ad alto rischio e si mettano in atto comportamenti impulsivi.

 

Lo stress influenza il processo di decision-making

Prendere una decisione non è sempre facile, specialmente quando ci si trova a dover scegliere tra due opzioni che hanno implicazioni sia negative che positive come ad esempio la scelta tra un impiego molto remunerativo ma impegnativo in termini di ore di lavoro e un altro non remunerativo ma che consente al soggetto di spendere più tempo per sé e i suoi hobby.
L’equipe di neuroscienziati dell’MIT, guidati dal professor Friedman, ha recentemente dimostrato che, quando si è chiamati a prendere decisioni in queste situazioni in cui è necessario bilanciare e valutare i costi e i benefici, lo stress cronico ha un ruolo cruciale nel determinare le scelte (Friedman et al., 2017).
I ricercatori infatti hanno sottolineato come l’essere sottoposti a stress cronico possa influenzare il processo di decision-making dei ratti che tendevano più frequentemente a scegliere opzioni vantaggiose ma ad alto rischio.

Lo studio (Friedman et al., 2017) inoltre ha trovato che tali scelte sono conseguenti ad un’anomala attivazione del network cerebrale sottostante questo processo di decision-making e che tale alterazione dei circuiti può essere manipolata, tramite tecniche di optogenetica (Kim, Adhikari et al., 2017) al fine di ripristinare un normale funzionamento del sistema interessato.

La capacità di valutare i costi e i benefici di un’opzione è essenziale nel momento in cui gli individui si trovano a prendere una decisione che si riveli poi soddisfacente e “razionale”; tuttavia tale capacità risulta compromessa in alcuni disturbi tra i quali la depressione, l’ansia persistente e invasiva, l’abuso di sostanze in cui si riscontrano anche comportamenti impulsivi e disfunzionali a seguito di scelte non corrette (Friedman et al., 2017).

Uno studio precedente di Graybiel e Friedman (2015) aveva identificato il network cerebrale sottostante il processo di decision-making che coinvolge la valutazione dei costi-benefici: la corteccia mediale prefrontale (mPFC), responsabile della modulazione degli stati emotivi e i circuiti corticostriatali, contenenti un set di neuroni chiamati striosomi e associato ai processi motivazionali e di reward (Eblen & Graybiel, 1995).

I ricercatori erano stati in grado di addestrare i topi a muoversi all’interno di un labirinto nel quale dovevano scegliere tra due opzioni: una prevedeva una ricompensa in forma di cibo preferito dagli animali che però era difficilmente raggiungibile, al contrario dell’altra opzione di cibo, meno buona ma facilmente raggiungibile.

Inibendo i neuroni corticali e gli striosomi del circuito cerebrale sotto studio, usando tecniche di optogenetica, è stato possibile osservare nei ratti la messa in atto di comportamenti ad alto rischio pur di raggiungere il reward più alto (il cibo preferito).

Nel nuovo studio (Friedman et al., 2017), i ricercatori hanno messo in atto un esperimento simile senza la manipolazione del circuito ma tramite l’esposizione dei topi a periodi brevi di stress ma prolungati nel tempo, per circa due settimane.

Si è osservato che i topi esposti a episodi di stress cronico si comportano alla stessa maniera dei topi manipolati tramite tecniche di optogenetica, cioè tendevano a raggiungere sempre la ricompensa più alta muovendosi in un percorso pericoloso all’interno del labirinto, al contrario dei topi non sottoposti a stress che si “accontentavano” dalla ricompensa meno vantaggiosa ma facilmente raggiungibile.
In sostanza l’animale sceglieva il cibo preferito senza valutare l’alto costo della decisione, in quanto, per ottenerlo, doveva percorrere un percorso pericoloso.

Pertanto i ricercatori hanno concluso che i circuiti presi in esame fossero cruciali per integrare le informazioni circa i costi e i benefici di un’opzione di scelta al fine di implementare i comandi della corteccia prefrontale, responsabile dell’implementazione dell’azione goal-directed tramite l’attivazione di specifici interneuroni e l’inibizione degli striosomi (Friedman et al., 2017).
Quando l’animale è sottoposto a stress cronico, i circuiti si attivano in modo anomalo e impediscono alla corteccia prefrontale di inibire gli striosomi che si iperattivano.

Tuttavia gli autori dello studio (Friedman et al., 2017) precisano che la compromissione funzionale del network studiato è reversibile cioè è possibile ripristinale il “normale” processo di decision-making.
Ciò suggerisce che gli striosomi presenti nel circuito prefrontale non si compromettano in modo definitivo a seguito di un’esposizione cronica a eventi stressanti, ma che potenzialmente sia fattibile ripristinare il processo e quindi modificare il comportamento degli individui affetti da quei disturbi psicologici che sono caratterizzati da un anomalo decision-making.

Questo stato potrebbe essere reversibile, ed è possibile che in futuro si possa intervenire sugli interneuroni umani e ripristinare l’equilibrio tra inibizione ed eccitazione dei network del sistema” afferma il professor Friedman, autore dello studio.

Lo stato empirico delle terapie comportamentali di terza onda per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione: una review sistematica

Le attuali linee guida internazionali per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione raccomandano l’uso di trattamenti psicologici supportati empiricamente, ovvero terapie la cui efficacia sia stata dimostrata in trials randomizzati e controllati. Fra queste, la terapia cognitivo comportamentale (CBT) è indicata per la bulimia nervosa (BN) e per il disturbo da binge-eating (BED) da tutte le linee guida cliniche disponibili e in misura minore per l’anoressia nervosa (AN). Altre terapie raccomandate sono la terapia interpersonale (IPT), la terapia basata sulla famiglia (FBT) (soprattutto per gli adolescenti) e con minor evidenza la terapia psicodinamica e il modello Maudsley per il trattamento di adulti con anoressia nervosa (MANTRA).

Selvaggia Sermattei

 

Nonostante l’efficacia di queste terapie sia stata dimostrata in studi randomizzati e controllati, c’è consenso in letteratura rispetto alla necessità di ottenere ulteriori miglioramenti (in particolare per i tassi di drop-out, di ricaduta e di risposta parziale al trattamento) o di sviluppare nuove terapie efficaci. Recentemente le terapie comportamentali definite di “terza onda” sono state proposte da diversi autori come potenziali alternative per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione. Queste terapie uniscono alle classiche componenti della CBT di “seconda onda” (come il monitoraggio, l’esposizione con prevenzione della risposta) nuovi metodi basati su diverse premesse, per ottenere cambiamenti nel funzionamento psicologico e clinico.

In generale le terapie di “terza onda” si focalizzano sulla funzione o sulla consapevolezza di pensieri ed emozioni (anziché sul contenuto o sulla validità dei processi cognitivi) e per questo enfatizzano strategie di accettazione, mindfulness, metacognizione e flessibilità psicologica. L’obiettivo è sviluppare strategie di regolazione emotiva focalizzate sulla risposta (ad esempio strategie che modulano l’espressione della risposta emotiva dopo che questa è attivata) a differenza della CBT classica che propone strategie di regolazione emotiva focalizzate sugli antecedenti (ovvero strategie che prevengono l’attivazione della risposta emotiva).

C’è abbastanza consenso in letteratura nel comprendere all’interno della categoria di terapie di “terza onda” la terapia dell’accettazione e dell’impegno (acceptance and commitment therapy, ACT), la terapia dialettico comportamentale (dialectical behaviour therapy, DBT), la terapia focalizzata sulla compassione (compassion mind training/compassion-focused therapy, FCT), interventi basati sulla mindfulness (mindfulness-based interventions, MBI), la terapia analitica funzionale (functional analytic therapy, FAP), la schema therapy (ST) e la terapia metacognitiva (metacognitive therapy, MT).

Numerose revisioni sistematiche e metanalisi hanno indagato l’efficacia di queste terapie per diverse condizioni cliniche, come sintomi depressivi e disturbi d’ansia, dimostrando una certa efficacia se confrontate con liste d’attesa o terapie “as usual”, e minori risultati quando comparate a interventi CBT standard.

Solo due metanalisi hanno indagato l’efficacia di terapie di “terza onda” nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione dimostrando che DBT e MBI sono terapie potenzialmente efficaci nel trattamento della Bulimia Nervosa e del Binge Eating Disorder ma solo nel confronto con liste d’attesa o terapie “as usual”. Malgrado queste limitate evidenze, alcune ricerche sul trattamento dei disturbi dell’alimentazione, rivelano come i clinici tendano ad usare tecniche di “terza onda” (ad esempio la mindfulness) con una frequenza pari e talvolta superiore a quella con cui utilizzano tecniche derivate da terapie basate sull’evidenza come la CBT (ad esempio il monitoraggio dell’alimentazione o il controllo settimanale del peso).

Questo dato indica che coloro che ricercano un trattamento per un disturbo dell’alimentazione spesso possono non ricevere le terapie migliori disponibili.

Metanalisi: le terapie di terza onda per i disturbi dell’alimentazione

Sulla base di queste premesse, Linardon e colleghi (2017), hanno ritenuto necessario e pertinente condurre una metanalisi sui lavori ad oggi disponibili in letteratura sulle terapie di “terza onda” per i disturbi dell’alimentazione.

Lo scopo di questo studio è stato esaminare l’efficacia delle terapie di “terza onda” per i disturbi dell’alimentazione attraverso

1) un calcolo dell’effect size nel confronto pre- e post-trattamento e nel confronto pre-trattamento e follow-up;

2) un confronto delle terapie di “terza onda” con liste d’attesa, controlli attivi e trattamenti per disturbi dell’alimentazione supportati empiricamente (CBT e IPT).

Un ulteriore obiettivo è stato esaminare se le terapie di “terza onda” soddisfano i criteri richiesti per essere considerate trattamenti supportati empiricamente secondo la classificazione di Chambless e Hollon (1998) molto più selettiva e rigorosa di altre proposte più recentemente.

Sono stati inseriti nella metanalisi studi randomizzati e controllati ma, a causa del loro numero limitato, anche studi prospettici con disegno pre-post di trattamenti psicologici di “terza onda”, in soggetti con un’età superiore a 16 anni, con disturbo dell’alimentazione.

Gli esiti primari sono stati:

1) La psicopatologia del disturbo dell’alimentazione misurata con l’Eating Disorder Examination (EDE), l’EDE-Q, la sottoscala Bulimia dell’Eating Disorder Inventory (EDI), la Binge Eating Scale (BES), il punteggio totale dell’Eating Attitude Test (EAT) o la Scala di Assessment multifattoriale per i disturbi dell’alimentazione.

2) Il punteggio globale dell’EDE o dell’EDE-Q.

3) I tassi di remissione/guarigione definiti sia come la cessazione delle abbuffate e/o delle condotte di eliminazione negli ultimi 28 giorni, o il punteggio globale dell’EDE entro una deviazione standard dalla media comunitaria o il non soddisfacimento dei criteri diagnostici del DSM per un disturbo dell’alimentazione.

4) Le abbuffate definite come la frequenza auto-riferita del numero di episodi o del numero di giorni con abbuffate oggettive nell’ultimo mese.

Gli esiti secondari sono stati:

1) Le preoccupazioni per le forme del corpo, le preoccupazioni per il peso, le preoccupazioni per l’alimentazione o la restrizione dietetica, valutate dai punteggi delle relative sottoscale dell’EDE o dell’EDE-Q.

2) Punteggi relativi alla depressione valutati con la Beck Depression Inventory (BDI), la Montgomery-Asberg Depression Rating Scale (MADRS), la sottoscala della depressione del Symptom Checklist-90-Revised (SCL-90), la scala del Centre for Epidemiological Studies for Depression (CESD), o la Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS).

1) L’autostima valutata attraverso la Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES).

L’Effect Size è stato calcolato per le analisi entro i gruppi per valutare cambiamenti pre- e post-trattamento e tra gruppi per il confronto tra le terapie di “terza onda” e altre condizioni.

Dei 27 studi inseriti (13 studi randomizzati e controllati, 1 studio controllato non randomizzato e 13 studi su un singolo trattamento con un disegno sperimentale pre-post) 15 trattavano un campione transdiagnostico, 9 un campione di individui con diagnosi di BED, 2 di BN e 1 di AN.

14 studi valutavano la DBT, 6 la MBI, 3 la CFT, 2 l’ACT e 2 la ST.

Fra gli studi randomizzati e controllati 4 usavano la CBT come confronto (2 in modalità di auto-aiuto e 2 guidata da un terapeuta), mentre altri confronti attivi erano fatti con trattamenti “as usual”, il trattamento di monitoraggio del diario giornaliero, la psico-educazione e una terapia supportiva non specifica.

Sebbene l’intenzione iniziale degli autori fosse di condurre analisi separatamente per ogni categoria diagnostica, ciò non è stato possibile a causa del limitato numero di studi inclusi. Così le analisi sono state condotte considerando da un lato gli studi che comprendevano campioni con soggetti con BED e dall’altro tutti gli altri studi con campioni transdiagnostici o con diagnosi di Bulimia nervosa o anoressia nervosa.

I risultati della metanalisi

I risultati sugli esiti primari indicano che le terapie di “terza onda” producono miglioramenti statisticamente significativi tra il pre- e post-trattamento e al follow-up, in tutti i campioni diagnostici. Le terapie di “terza onda” (in particolare la DBT) risultano essere più efficaci (con un moderato effect size) rispetto alle liste d’attesa ma non rispetto ai trattamenti attivi (in particolare la CBT) dove non si riscontrano differenze statisticamente significative (small effect size) al post-trattamento e al follow-up.

Sugli esiti secondari i risultati sono simili: le terapie di “terza onda” sembrano produrre miglioramenti significativi fra il pre- e il post-trattamento e al follow-up (senza differenze significative fra le varie terapie) e risultano più efficaci delle liste d’attesa ma non sono osservate differenze statisticamente significative se confrontate con i controlli attivi e la CBT.

Gli autori sottolineano che tali risultati sono principalmente basati sull’effect size pre-post ma, comprendendo studi non controllati, non è possibile capire in quale misura le differenze riscontrate siano da attribuire alla terapia o a variabili esterne come il passare del tempo, il recupero spontaneo o la regressione verso la media. Si rende quindi necessario condurre ulteriori studi randomizzati e controllati poiché questo è l’unico modo per stabilire l’efficacia di un trattamento e poter attribuire ad esso il merito di un miglioramento.

Per quanto riguarda i criteri (Chambless e Hollon, 1998) affinché le terapie di “terza onda” siano definite trattamenti supportati empiricamente i risultati indicano che la DBT, la ST, la CFT e la MBI si mostrano terapie potenzialmente efficaci per il BED e per la BN ma non per l’AN. L’ACT non incontra i criteri per essere considerata una terapia supportata empiricamente per nessuna categoria diagnostica, essendo stata valutata in un solo trial randomizzato e controllato in individui con AN e non si è mostrata superiore alla terapia “as usual” a fine trattamento e a 5 anni di follow-up.

La DBT risulta essere la terapia di “terza onda” maggiormente studiata (in 7 studi randomizzati e controllati) ma vi sono alcune limitazioni rispetto ai criteri suggeriti da Chambless e Hollon, infatti, gli studi sono stati condotti dallo stesso gruppo di ricerca e la numerosità dei campioni è bassa.

Mentre le altre terapie sono state studiate in soli 1 o 2 studi randomizzati e controllati.

Quindi ad oggi, sebbene alcune terapie di “terza onda” possano essere considerate potenzialmente efficaci per la BN e per il BED, nessuna di queste incontra i criteri per essere definita una terapia di efficacia basata sull’evidenza (come la CBT o la IPT).

Gli autori auspicano che, per il bene dei pazienti e per una buona pratica clinica, clinici e ricercatori lavorino insieme per continuare a testare l’efficacia di queste terapie, anche a partire da studi su singoli casi-controllo che possano fornire preliminari informazioni per valutare la necessità di condurre studi randomizzati e controllati più ampi.

Altra raccomandazione degli autori riguarda il proseguire studi che appartengono a recenti filoni di ricerca volti a cercare di superare le barriere che i clinici incontrano nell’implementare la CBT che rimane la miglior terapia ad oggi disponibile per i disturbi dell’alimentazione secondo i dati empirici.

Questi ostacoli tipicamente includono la credenza che i risultati della ricerca non siano applicabili a setting del “mondo reale”, la mancanza di formazione e supervisione clinica, la mancanza di conoscenza relativa ai meccanismi responsabili del cambiamento terapeutico e della dose minima di terapia richiesta.

Concludendo, quello di Linador e colleghi è il primo studio che ha indagato a livello qualitativo e quantitativo l’efficacia delle terapie comportamentali di “terza onda” per i disturbi dell’alimentazione, e i suoi risultati indicano che nonostante i dati promettenti sull’efficacia di alcune di queste terapie, ad oggi nessuna incontra i criteri formali per essere considerata un trattamento supportato empiricamente. Nel complesso la CBT mantiene il suo status di trattamento di prima scelta per BN, BED e adulti con AN, mentre l’IPT può essere considerata una valida alternativa per BN e BED.

Ipocondria, ansia per le malattie e disturbo da sintomi somatici. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo – Recensione del libro

L’affidabilità degli autori Daniela Leveni, Marco Lussetti e Daniele Piacentini è stato ciò che mi ha convinto a iniziare la lettura di Ipocondria, ansia per le malattie e disturbo da sintomi somatici. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo.

 

L’ ipocondria, o ansia per la salute, è certamente il disturbo emotivo più sottovalutato e trascurato; a fronte del grande numero di persone che ne soffrono, solo una piccola minoranza trova una risposta appropriata ed efficace alla propria sofferenza, che è reale e spesso anche grave, e al bisogno di star bene.

Quando quattro anni fa lessi la prima edizione del manuale (all’epoca intitolato Ipocondria, guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo) rimasi stupito dalla chiarezza e dalla completezza dei contenuti. Di fronte a un numero sempre crescente di manuali accademici e di libri di auto-aiuto per i pazienti, temevo di incappare in un insieme di informazioni sconnesse o difficilmente utilizzabili in seduta con un paziente.

L’affidabilità degli autori Daniela Leveni, Marco Lussetti e Daniele Piacentini è stato ciò che mi ha convinto a iniziare la lettura di Ipocondria, ansia per le malattie e disturbo da sintomi somatici. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo.

Ipocondria, ansia per le malattie e disturbo da sintomi somatici. – La struttura del manuale

Quello che poi ho trovato leggendolo è stata una suddivisione intelligente del manuale in due parti (come suggerito dal titolo): una per il clinico, inizialmente più concettuale e teorica e successivamente pratica e dettagliata, e una per il paziente, chiara, pratica ed esaustiva. Entrambe le parti sono ricche di casi clinici ed esempi che permettono sia al paziente che al clinico meno esperto di avvicinarsi ai concetti e alle strategie con semplicità.

Questa nuova edizione, arricchita dalla saggia presentazione di Paolo Michielin, riprende il sentiero di quella precedente mantenendo la separazione delle due parti, aggiornate alle nuove categorie diagnostiche del DSM 5 e con riferimenti alle nuove tecniche metacognitive sviluppate da Adrian Wells. L’intento degli autori è quello di fornire agli specialisti e ai pazienti indicazioni chiare ma flessibili per un disturbo psicologico più frequente di quanto spesso ritenuto e, soprattutto, più frequentemente ignorato sia dai pazienti che dai clinici. Mentre infatti crescono come funghi i manuali per il trattamento della depressione o del disturbo da attacchi di panico, l’ ipocondria, o meglio il disturbo d’ansia per la salute, viene ancora messo nel dimenticatoio, un po’ come se anche gli addetti ai lavori lo considerassero poco importante e quindi trascurabile. Questa lacuna viene prontamente colmata con un approccio a più livelli che si rifà, come descritto nella presentazione, alle linee guida NICE del programma IAPT inglese.

Il manuale per il paziente, dopo un importante capitolo introduttivo di motivazione al trattamento, permette di venire guidati passo passo nella comprensione del disturbo, nella valutazione della sua entità e nei processi di cambiamento attraverso l’identificazione e l’interruzione di sette circoli viziosi. A questo si aggiunge una parte dedicata al rimuginio e alla prevenzione delle ricadute. In modo pratico e lineare la semplice lettura del manuale può già essere sufficiente per alcuni pazienti, o può rappresentare la presa di consapevolezza per rivolgersi al giusto professionista.

La guida per il clinico mantiene lo stesso approccio lineare guidando il professionista verso una comprensione di livello sempre superiore (la sindrome, i possibili trattamenti, il modello cognitivo, il modello metacognitivo) fino ad una dettagliata presentazione dei passaggi del trattamento dell’ ipocondria: in questo modo il clinico viene guidato per tutte le diverse fasi, dalla presa in carico alla dimissione. La presenza di questa parte del manuale fornisce inoltre, ai pazienti che lo desiderano, una comprensione e un consenso informato maggiori di quello che possono aspettarsi da un trattamento cognitivo-comportamentale per il disturbo d’ansia per la salute.

Il risultato finale è un testo completo che può rivelarsi allo stesso tempo uno strumento formativo, di auto-aiuto e terapeutico. Gli autori, con la loro pluriennale esperienza in psichiatria, forniscono contributi importanti e li esprimono in modo da essere alla portata di tutti. Offrono così, sia per i clinici che per i pazienti, un bagaglio di conoscenze e strategie applicabile non solo in terapia ma generalizzabile alla vita, incrementando la cassetta degli attrezzi che favorisce un buon funzionamento e una migliore qualità di vita.

La propensione al rischio in adolescenti con disturbo della condotta

Alterazioni nella capacità di prendere decisioni sono state riscontrate in alcuni disturbi neuro-psicologici, uno di questi è il disturbo della condotta, disturbo generalmente identificato e diagnosticato durante l’infanzia e l’adolescenza.

 

La capacità di prendere decisioni è fondamentale nella vita di ognuno di noi. Anche nelle scelte che ci sembrano più semplici, la presa di decisione è un processo molto complesso, in quanto implica il coordinamento di diverse capacità: valutare le opzioni disponibili, immaginare le possibili conseguenze e stimare i costi e i benefici di ogni scelta. Quando il valore delle opzioni disponibili è chiaro, la scelta per l’opzione con maggiore valore dovrebbe rappresentare quella più immediata, ma non è sempre così.

La presa di decisione viene influenzata da diversi fattori, sia interni che esterni. Riguardo ai fattori interni, diversi studi mostrano come una scarsa qualità del sonno, uno stato emotivo alterato ed elevati livelli di stress possano influenzare la presa di decisione (e.g., Glass et al., 2011; Porcelli & Delgado, 2009). Riguardo ai fattori esterni, il contesto sociale assume un ruolo di assoluta importanza: le nostre decisioni possono essere influenzate anche dalla presenza o dall’assenza di altre persone intorno a noi durante il processo di scelta (e.g., Bault et al., 2008).

Decision making e disturbo della condotta

Alterazioni nella capacità di prendere decisioni sono state riscontrate in alcuni disturbi neuro-psicologici. Uno di questi è il disturbo della condotta che, in base alla definizione fornita dal DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), include comportamenti persistenti e ripetitivi in cui vengono messe in atto condotte antisociali che violano le principali regole sociali appropriate all’età (American Psychiatric Association, 2013). E’ un disturbo che viene generalmente identificato e diagnosticato durante l’infanzia e l’adolescenza.

Numerose evidenze empiriche mostrano come l’adolescenza, rispetto all’età adulta, rappresenti il periodo evolutivo in cui si verifica una maggiore propensione a fare scelte non sicure e a mettere in atto comportamenti rischiosi, come fare uso di alcol e droghe, fumare, praticare sesso non protetto, guidare in modo pericoloso e attuare comportamenti antisociali di lieve o severa entità (e.g., Reyna & Farley, 2006; Steinberg 2004). Nelle popolazioni non cliniche è stata riscontrata una maggiore propensione a fare scelte rischiose nel sesso maschile rispetto a quello femminile (e.g., Brooks et al., 2017; Cross et al., 2011). Tuttavia, ancora pochi studi hanno esaminato le differenze di genere nella presa di decisione in adolescenti con disturbo della condotta, essendosi incentrati finora sulla sola popolazione maschile.

In uno studio recente, condotto presso l’Università di Southampton, alcuni ricercatori (Sidlauskaite  et al., 2017) hanno voluto esaminare proprio le differenze di genere nella presa di decisione in un gruppo di 100 adolescenti del Regno Unito. Di questi 100 ragazzi, 49 presentavano una diagnosi di disturbo della condotta (23 femmine) e 51 erano a sviluppo tipico (27 femmine). A tutti i partecipanti dello studio veniva presentata una versione modificata del Risky Choice Task (“Prova della scelta rischiosa”; Rogers et al., 2003), una prova largamente utilizzata con altre popolazioni cliniche, che propone due diverse ricompense tra cui scegliere, associate rispettivamente alla vincita o alla perdita di quantità differenti di punti.

In tutti i confronti proposti, se si sceglieva l’opzione “di controllo”, la persona poteva vincere solo pochi punti con il 50% di probabilità (quindi, allo stesso tempo, aveva il 50% di probabilità di perderli). Se si sceglieva l’opzione “rischiosa”, invece, si potevano vincere o perdere diverse quantità di punti con probabilità differenti: a volte questa scelta era vantaggiosa e portava alla vincita di molti punti, altre volte invece non era vantaggiosa e portava alla perdita di molti punti.

Come atteso, gli adolescenti con disturbo della condotta facevano scelte rischiose con una percentuale significativamente più alta rispetto ai coetanei a sviluppo tipico. In particolare, tendevano a scegliere di più l’opzione maggiormente rischiosa quando il valore delle due ricompense era relativamente simile, ovvero quando non era netta la differenza tra le opzioni e quindi non era così chiaro il vantaggio di un’opzione sull’altra. Inoltre, come ipotizzato, è emersa un’interazione significativa tra il genere (maschi vs femmine) ed il gruppo di appartenenza (disturbo della condotta vs sviluppo tipico): i ragazzi con disturbo della condotta mostravano maggiore propensione per le scelte rischiose rispetto ai loro coetanei a sviluppo tipico. Le ragazze con disturbo della condotta, invece, mostravano maggiore cautela nelle loro scelte, non differenziandosi in maniera significativa dalle coetanee a sviluppo tipico.

Questo studio, nonostante sia da considerare come preliminare e abbia bisogno di essere replicato in future ricerche, ha il merito di aver indagato alcuni meccanismi specifici del disturbo della condotta, che possono portare ad individuare traiettorie di sviluppo e fattori causali differenti nel sesso maschile e in quello femminile.

Definire l’omosessualità e l’identità sessuale

Per definire il concetto di omosessualità bisogna necessariamente riferirsi, in un primo momento, a quello di identità sessuale, caratterizzato da componenti di ordine biologico, psicologico e sociale (Pietrantoni, Prati, 2011).

Identità di genere e disforia di genere

Da un punto di vista biologico il sesso corrisponde alla presenza di condizioni genetiche sessuali maschili piuttosto che femminili, specificatamente causate dalla presenza di cromosomi sessuali maschili o femminili che daranno alla persona caratteristiche anatomiche e fisiologiche specifiche. Se si considera la biologia, esistono degli individui definiti nei termini di “intersessuali” che possono presentare delle caratteristiche, quali ambiguità genitali, che li accomunano sia ai maschi che alle femmine.

Quando è presente, già durante l’infanzia, un discostamento tra le caratteristiche fisiche e la percezione di appartenenza sessuale, si può creare la cosiddetta disforia di genere (Chiari, Borghi, 2009), cioè un disagio riguardo le caratteristiche del proprio corpo che provoca un’identificazione con il sesso opposto e desiderio di appartenervi (è il cosiddetto “disturbo dell’identità di genere”). Al di là di queste caratteristiche biologiche, il ruolo di genere corrisponde anche a un insieme di comportamenti e modi d’essere codificati all’interno di ogni singola cultura, tra cui Pietrantoni e Prati (2011) elencano: l’attenzione e la cura delle caratteristiche sessuali secondarie (come i peli, il seno…); i manierismi, ovvero il modo in cui una persona cammina o si muove in generale; le condizioni fisiche, come il peso corporeo nelle donne; il modo di vestire e gli adornamenti; l’igiene personale; il modo di parlare; il vocabolario; il lavoro; gli interessi; le abitudini e gli hobbies che si hanno. Si potrebbe dire che il grado di adesione agli schemi socioculturali definiti determina una bassa o un’alta adesione al proprio ruolo di genere (Corbisiero, 2010).

L’orientamento sessuale e l’omosessualità

Nella formazione dello stesso interviene poi anche il sistema educativo e sociale caratteristico della scuola, ma anche della famiglia. Definita l’identità di genere e l’appartenenza a un determinato ruolo di genere, non è così scontato che si determini in maniera automatica un certo tipo di orientamento sessuale riguardante l’oggetto d’amore (Chiari, Borghi, 2009). L’orientamento sessuale, infatti, non coincide completamente con il comportamento fisico che viene messo in atto dalla persona, tant’è che si distingue attualmente tra “gay” e “uomini che fanno sesso con uomini” o tra “lesbiche” e “donne che fanno sesso con donne” (Pietrantoni, Prati, 2011).

Secondo Bertone (2009) esistono diversi tipi di relazioni omoerotiche, come quelle basate sull’inversione del ruolo di genere e quelle asimmetriche, oppure quelle strutturate in base all’età o specifici ruoli sociali che prevedono un rapporto omoerotico. L’omosessualità potrebbe essere quindi definita come la presenza d’interesse, affetto, attrazione ed eventuale attività sessuale, attuata con persone appartenenti allo stesso sesso (Pietrantoni, Prati, 2011). E’ difficile però ricondurre l’omosessualità ad una sola dimensione, tanto che alcuni autori suggeriscono la possibilità di intendere l’eterosessualità e l’omosessualità come estremi di uno stesso continuum, in cui la maggior parte delle persone vanno a collocarsi in una posizione di mezzo. Questo spiegherebbe anche l’esistenza di tendenze di tipo bisessuale o transessuale, ovvero aspetti sessuali comuni sia ai maschi che alle femmine impersonificati in un unico orientamento sessuale (Chiari, Borghi, 2009).

La definizione dei termini inerenti l’omosessualità, come gay o lesbica, ha origini molto lontane. Il termine lesbica, ad esempio, deriva dall’isola di Lesbo, dove visse il poeta Saffo in età precristiana, che enfatizzò i temi legati all’amore per la bellezza femminile ed all’amore tra donne. Nella stessa Grecia l’omosessualità non veniva repressa, tanto che si portò già allora alla diffusione dei termini di “lesbica” per indicare l’omosessualità femminile. Quanto avveniva per le femmine, era anche presente nei maschi, che molte volte erano attivamente coinvolti nei lavori di bottega con dei maestri che spesso davano vita ad attività sessuali di natura omosessuale durante le attività di apprendistato o di formazione lavorativa. La stessa pederastia, che spesso sfociava in atti di pedofilia, ha assunto poi, nel corso dei secoli, il significato congiunto di omosessualità che ha favorito l’indebita associazione tra omosessualità e pedofilia (Lingiardi, 2007).

Il termine gay, invece, deriva dal francese antico, dove significava allegro, gaio. Durante il Settecento assunse il significato di anticonformista, mentre successivamente, dopo aver avuto dei connotati nettamente negativi e dispregiativi durante l’Ottocento, assunse gradualmente il significato che attualmente gli si attribuisce.

In epoche successive a quella greca, l’omosessualità venne identificata con i termini di “sodomia” o “atti sessuali contro natura” caratteristici della religione cristiana; come detto nel precedente capitolo, il termine di “omosessualità” vero e proprio venne diramato soltanto a fine Ottocento, quando un letterato ungherese (Kertbeny) si scagliò contro il proprio governo prussiano che voleva punire tutti gli atti sessuali di tipo omosessuale (Pietrantoni, Prati, 2011).

Il termine omosessuale è stata a lungo inclusa nel Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, per buona parte del secondo Novecento, ma ben presto si è giunti al documento dell’Associazione Psichiatrica Americana che, con le seguenti parole, modificava ed eliminava questa inclusione: “l’omosessualità in sé non implica un deterioramento nel giudizio, nell’adattamento, nel valore o nelle generali abilità sociali o motivazionali di un individuo”.

 

The Relationship Between Mood Disturbance and Eating Disorders

Mood disturbance appears to be present during the development of eating disorders. As we will see, depression symptoms may precede, follow and co-occur with the ED. What relationship may there be between eating -related psychopathology and depression?

Lucia Tecuta, Ph.D.

Eating Disorders

Eating disorders (EDs) are currently placed in the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fifth edition (American Psychiatric Association, 2013) within a diagnostic macro-area of mental disorders named “Feeding and Eating Disorders” characterized by a persistent disturbance of eating or eating-related behaviors.

Such alterations in the consumption of food significantly impair the affected individual’s physical health and/or psychosocial functioning. Eating disorders include: anorexia nervosa (AN), bulimia nervosa (BN), binge-eating disorder (BED) and other-specified feeding or eating disorder (OSFED). EDs are distinct disorders which differ in prognosis, outcomes, and treatment needs.

Patients suffering from EDs frequently exhibit comorbid psychiatric illnesses, mainly phobias, obsessive compulsive-related disorders and depression, exhibiting significant distress, limits in their functioning as well as medical complications (Nagl et al., 2016). However, major depressive disorder (MDD) appears to be the most common psychiatric diagnosis in threshold EDs with lifetime prevalence rates ranging from roughly 40% to 90% greatly surpassing general population rates (Godart et al., 2007). Generally, AN and BN patients also exhibit significantly higher depression and anxiety scores compared to healthy females (Holliday, Tchanturia, Landau, Collier, & Treasure, 2005; Daley, Jimerson, Heatherton, Metzger, Wolfe, 2008; Ashworth, Norbury, Harmer, Cowen, & Cooper, 2011; Buehren et al., 2011).

The Relationship Between Mood Disturbance and Eating Disorders

Mood disturbance appears to be present during the development of an eating disorder. As we will see, depression symptoms may precede, follow and co-occur with the ED. What relationship may there be between eating -related psychopathology and depression?

The general consensus considers both depression and anxiety as consequences of the eating disorder itself, specifically for AN through malnutrition (American Psychiatric Association, 2013) even though such theory has rarely been empirically investigated with appropriate methodology and measures (Mattar, Huas, Duclos, Apfel, & Godart 2010; Mattar, Huas, EVHAN group, & Godart, 2012). Such a position is maintained by researchers who derive from animal behavior models the hypothesis that psychiatric symptoms develop from restrictive eating (Ioakimidis, Zandian, Ulbl, Bergh, Leon, & Södersten, 2011; Bergh et al., 2013; Gutierrez, 2013). Indeed, data suggests that adolescents with AN develop a depressive state within the first year of AN onset (Gracevh, 2016). Psychological mechanisms may also be implicated as depressive symptoms increase in intensity in threshold AN, BN and BED, an increase attributed by some authors to feelings of shame and isolation promoted by the disordered eating (Harney, Fitzsimmons-Craft, Maldonado, & Bardone-Cone, 2013). Against the notion that malnutrition leads to emotional problems, a recent study (Mattar et al., 2012) suggests contrarly that depression and anxiety are not related to nutritional states. Unexpectedly no correlation between negative affect and any measure of current nutritional status was found, even when taking into account potential confounding factors such as age and current use of psychotropic medication (Mattar et al., 2010, 2012).

Many hypothesize instead the depression or anxiety precede or create vulnerability to the development of EDs (Deep, Nagy, Weltzin, Rao, & Kaye 1995; Stice, Presnell, & Spangler, 2002; Gardner et al., 2000; Measelle, Stice, & Hogansen, 2006). Indeed, in at least 25% of ED cases presented MDD precedes the eating disorder (Godart et al., 2007). Other studies have demonstrated how negative affect (Gardner Stark, Freidman, & Jackson, 2000; Stice et al., 2002; Measelle et al., 2006; Godart, Flament, Lecrubier, & Jeammet, 2000; Zerwas et al., 2013) and anxiety disorders (Godart et al., 2000; Zerwas et al., 2013) also precede and/or predict eating pathology and the development of eating disorders, possibly representing a pathway to EDs, particularly in AN.

Moreover, according to risk factor research, symptoms of depression are frequently present before the development of EDs. Depression symptomatology has been found to interact with dieting and low self-esteem, both considered risk factors for EDs, in predicting both onset and intensity of the eating disorder in general and binging in particular (Stice, Marti, & Durant, 2011; Goldschmidt, Wall, Loth, Le Grange & Neumark-Sztainer, 2012). In a longitudinal study on community pre-adolescents (Hilbert, Hartmann, Czaja, & Schoebi, 2013), depressive symptoms ultimately predicted higher BMI and loss of control over eating, both of which are important predictors of binge eating disorder. Negative mood increased the odds of breaking extreme restraint behaviors, leading to binge episodes in BED patients (Stein, Kenardy, Wiseman, Dounchis, Arnow, & Wilfley, 2007).

The above mentioned findings are consistent with theoretical cognitive models as well as physiological data present in the literature. The fear-conditioning model of AN sees core features of dietary restriction and excessive exercise as exerting an anxiolytic function against the fear of weight gain that is out of patient’s cognitive control (Zerwas et al., 2013). In BN, the vicious cycle of low mood and binging and purging may also arise through cognitive conditioning (Stice, Marti, Shaw, & Jaconis, 2009), generated and upheld by the expectation of symptomatic relief from such behaviors (Bohon, Stice, & Burton, 2009).

Physiologically, starvation may initially provide relief from pre-existing anxiety and depressive symptoms or emotional dysregulation due to complex biological and psychological mechanisms such as depletion in tryptophan resulting from a strict diet (Kaye et al., 2003), or changes in mesocorticolimbic pathways (Brockmeyer, Holtforth, Bents, Kämmerer, Herzog, & Friederich, 2012). In patients with AN a lower BMI correlated with decreased emotion regulation difficulties (Brockmeyer et al., 2012). However, such effects are short-lived as the strategy employed by AN patients with time exacerbates anxiety and depression symptomatology and the vicious cycle described by Garner (1993) ensues. It is important to note that depression in EDs may not have a single aetiology such as malnutrition, but be the consequence of various factors, such as a premorbid condition, exhaustion, positive reinforcement, and chronic illness (Godart et al., 2002, 2007).

Some research instead supports the notion that EDs and mood disturbance develop simultaneously: in subthreshold cases, mood symptoms are frequently correlated with disordered eating behaviors (Santos, Richards, & Bleckley, 2007; Courtney, Gamboz, & Johnson, 2008; Dennard & Richards, 2013). Evidence for a developmental trend of co-emergence of anxiety, depression and eating disorder symptomatology in adolescence has been reported in recent research (Holm-Denoma, Hankin & Young, 2014). Others suggest a common etiological pathway as eating disorders, depression and anxiety share common features such as cognitive styles, such as high perfectionist expectations of the self and low self-efficacy (Abramson, Bardone-Cone, Vohs, Joiner, & Heatherton, 2006), and personality traits, perfectionism once again, and a tendency towards harm avoidance (Kaye, Bulik, Thornton, Barbarich, & Masters, 2004).

Despite the seemingly contradictory findings discussed above, various trajectories may characterize different types of ED patients, perhaps representing different clinical profiles or even phenotypes. As Godart and colleagues (2007) have suggested, at least two clinical profiles may exist: ED patients in which MDD precedes the eating disorders and those in which MDD follows the onset of ED by way of malnutrition.

What Happens to Mood after Treatment in EDs?

Generally, after treatment, depression and self-esteem may improve in partially or fully remitted patients. However, improvements in such areas may not reach levels reported by healthy controls (Steiger et al., 2005; Daley et al., 2008; Byrne, Fursland, Allen, & Watson, 2011; Buehren et al., 2011). Emotion regulation difficulties are often still present in ED patients who are considered remitted from the disorder (Brockmeyer et al., 2012; Haynos, Roberto, Martinez, Attia, & Fruzzetti, 2014).

Chronic AN patients, most of which have undergone multiple treatments, commonly report feeling hopeless and stuck in the disorder, as well as a persistence of severe depressive symptoms, constituting important obstacles to patients’ recovery processes (Nordbø, Espeset, Gulliksen, Skårderud, Geller, & Holte, 2012). Demoralization, a psychological state characterized by feelings of helplessness, a sense of failure, and giving up, has been found to affect up to 50% of chronic AN patients (Abbate-Daga et al., 2013). Demoralization syndrome, common in the medical context, does not necessarily overlap with major depression and been found to be a marker of worsening psychological status and health-related outcomes across medical conditions (Tecuta, Tomba, Grandi & Fava, 2015). Moreover, depression may also contribute to the maintenance and chronicity of BN and BED binge episodes. The association between depression and binging is thought to be related to the attempts to improve mood through eating, leading to loss of control over eating itself and, ultimately, to binging (Stein et al., 2007).

Issues with Comorbidity Research

In a systematic review of the literature on mood disorder comorbidity with eating disorders, Godart et al. (2007) underscored several methodological limitations present in ED research that must be kept in mind when interpreting data on comorbidity, such as the data mentioned above. Results may be confounded by the following common methodological flaws: a wide age range in research samples; combining outpatients and inpatients; lack of control groups; combining ED diagnostic subcategories that may differ in depression comorbidity rates; small sample sizes; lack of diagnostic instruments; different definitions of “current” prevalence; loss of data at follow-up in longitudinal studies. Authors suggest that future studies on this important clinical issue minimize the above mentioned confounding variables, and be designed specifically to examine comorbidity of mood and eating disorders, as most studies report comorbidity data as a secondary finding rather than as a primary research hypothesis.

Clinical Implications

Given the complex relationship between mood and EDs and the possible role of depression in eating disorder maintenance and chronicity, it may be particularly important to thoroughly assess not only the presence of depression, but also its chronological relationship with the ED, and fluctuations in relation to ED symptomatology across various phases of treatment for optimal treatment response. It is noteworthy that antidepressant use, although widespread in EDs and FDA-approved in BN, has not shown much promise in alleviating depression in both AN and BN with comorbid MDD, nor does it predict MDD recovery or relapse in eating disorders (Mischoloun et al., 2011).

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