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Quando la realtà diventa un’opinione. Fake news: che cosa sono e come prevenirle

Nelle ultime settimane, editorialisti ed esponenti delle diverse fazioni politiche italiane hanno preso posizioni differenti rispetto al fenomeno delle fake news, chi minimizzando, chi sottolineando il pericolo per la democrazia. Qui si cercherà di comprendere meglio cosa sono le fake news, perché sono un fenomeno così diffuso e quali sono i pericoli per la salute pubblica derivanti dalla loro diffusione.

Articolo di Paolo Moderato e Massimo Cesareo

IULM & IESCUM

 

La cronaca di fine anno ha portato l’attenzione su uno dei fenomeni di maggiore attualità degli ultimi tempi: le fake news o – più gergalmente – bufale. Il fenomeno è diventato dilagante in gran parte grazie alla diffusione sempre più massiccia delle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT) e in particolare al crescente uso, spesso parossistico, dei social network.

Nelle ultime settimane, editorialisti ed esponenti delle diverse fazioni politiche italiane hanno preso posizioni differenti rispetto al fenomeno, chi minimizzando, chi sottolineando il pericolo per la democrazia. Non ce ne occuperemo qui, ma rimandiamo il lettore interessato a tale disamina a un recente post pubblicato sull’ “Huffington Post”.

Qui si cercherà solo di comprendere meglio cosa sono le fake news, perché sono un fenomeno così diffuso e quali sono i pericoli per la salute pubblica derivanti dalla loro diffusione.

Cosa sono le fake news?

È definita tale ogni notizia inventata, menzognera, priva di qualsivoglia fondamento empirico ed evidenza che ne confermi la veridicità. Tale caratteristica distingue le fake news da un’altra categoria di informazioni, anch’esse estremamente diffuse e con un grande impatto sulle scelte individuali, ovvero tutte quelle notizie che – pur essendo corrette da un punto di vista formale – cioè non contengono falsità, sono più o meno intenzionalmente formulate in modo incompleto o decontestualizzato in modo tale da orientare le scelte individuali in certe direzioni. Ne sono un tipico esempio le riprese di eventi politici artatamente montate ed editate per la messa in onda.

Le fake news possono variare nella forma con la quale si presentano. Si passa da slogan evocativi a immagini d’impatto, ma molto più spesso si tratta di mix esplosivi di entrambi. Anche il contenuto delle fake news può variare notevolmente. Spesso fanno riferimento a diversi ambiti, da quello politico a quello sociale ed etico, andando a intercettare malcontento popolare su tematiche di attualità che suscitano forti reazioni di rabbia o indignazione. La recente vicenda dei sacchetti biodegradabili da 2 cent è solo l’ultimo, tristemente ridicolo, esempio.

Si tratta spesso di notizie acchiappa-click, nella migliore ipotesi genuinamente fondate su opinioni personali, nella peggiore – assai più spesso – intenzionalmente costruite per rafforzare idee che le persone già hanno rispetto a determinate tematiche, o per crearne di nuove, contribuendo ad alimentare teorie complottistiche e reazioni antisistema. Chi pubblica fake news spesso trae profitto dalla loro condivisione e, per questo motivo, le struttura in modo tale da far sì che si diffondano in breve tempo a livello capillare.

Come si diffondono?

Le dinamiche interne dei social e la loro stessa struttura orizzontale favoriscono tale meccanismo. All’interno dei social network, esiste uno scarso controllo sui contenuti delle notizie immesse e la loro condivisione richiede un basso costo da parte degli utenti, in termini di tempo e di energie.

Tale fenomeno attecchisce su un terreno fertile nel nostro Paese, che ha la percentuale minima di laureati in tutta l’Unione Europea, una forte tradizione antiscientifica e il più basso numero di lettori di libri e giornali. In Italia, inoltre, più del 40% della popolazione è classificata come analfabeta funzionale, ovvero – pur essendo tecnicamente capace di leggere e scrivere – risulta incapace di comprendere ciò che legge. La vicenda dei già citati sacchetti dimostra anche difficoltà a far di conto, moltiplicazioni semplici intendiamo, ed equivalenze elementari (1€=100 cent).

Questo aiuta a comprendere come mai le fake news si diffondano in maniera così rapida sebbene siano, di norma, relativamente semplici da smascherare per una persona di media cultura.

Quali sono i meccanismi psicologici che favoriscono la diffusione delle fake news?

Il fenomeno delle fake news poggia su meccanismi psicologici ben noti agli studiosi del comportamento e dei quali siamo tutti, più o meno consapevolmente, vittime.

Un supporto nella comprensione di tali meccanismi ce lo fornisce la Behavioral Economics, disciplina diffusasi con particolare vigore a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso – grazie al lavoro di due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia nel 2002 – e che ha recentemente tratto nuova linfa grazie al riconoscimento ottenuto da Richard Thaler, vincitore anch’egli del Premio Nobel per l’Economia solo poche settimane fa.

La Behavioral Economics studia i processi decisionali messi in atto dalle persone nel momento in cui devono prendere decisioni e compiere scelte, in modo particolare in condizioni di incertezza.

A tal proposito può essere utile riprendere il pensiero di Daniel Kahneman, che nel suo libro “Pensieri Lenti e Veloci” (2012) descrive in modo metaforico due sistemi che convivono nel nostro cervello, definiti Sistema 1 e Sistema 2.

Il primo è un sistema automatico, molto veloce ma poco preciso, utile per prendere decisioni rapide. Il secondo è invece un sistema riflessivo, molto accurato ma relativamente lento e “pigro”, deputato al controllo delle informazioni.

Nella maggior parte dei casi i due sistemi lavorano in sinergia e in modo ottimale. Le informazioni in entrata vengono rapidamente elaborate dal Sistema 1 e – qualora palesemente errate o incoerenti con l’esperienza pregressa – rielaborate in modo più dettagliato dal Sistema 2. Tuttavia in alcune occasioni i due sistemi entrano in conflitto.

Riportando tale metaforica distinzione nella realtà quotidiana, è possibile constatare come in molte occasioni le persone valutino – per semplicità o necessità – in maniera veloce e automatica le informazioni in loro possesso. Tali rapide valutazioni, definite euristiche, hanno avuto una funzione adattativa per la nostra specie e tuttavia possono portare talvolta a scelte sistematicamente distorte, ovvero bias.

Durante la loro lunga e proficua collaborazione, Kahneman e Tversky hanno cercato di mappare quelle che sono le principali euristiche e i bias che influenzano le scelte.

In che modo questi meccanismi favoriscono la diffusione delle fake news?

Prendiamo come esempio quello che viene definito bias di conferma. La letteratura mostra come le persone tendano a cercare informazioni che confermino le proprie ipotesi iniziali su determinate tematiche. Ciò significa che, se le idee di partenza risultano distorte, tenderanno a trovare conferma. È facile comprendere come, nell’era digitale, chi sviluppa per diverse ragioni opinioni contrastanti con la realtà dei fatti – per esperienza personale, per senso comune, per appartenenza a un gruppo – troverà con molta facilità conferma nel web. Nell’era dei big data, peraltro, le nostre ricerche vengono costantemente analizzate e ci vengono suggerite notizie in linea con queste ultime. Si crea, in tal modo, un circolo vizioso che si autoalimenta: pertanto, più cerchiamo conferma di una nostra opinione, più troveremo notizie che la confermano. Inoltre, si favorisce lo sviluppo di sacche di disinformazione dalle quali è difficile uscire senza un controllo esterno.

Purtroppo, questo è solo un esempio che aiuta a comprendere come le fake news possano proliferare. Esistono infatti molti altri meccanismi simili che ne favoriscono la diffusione e la possibilità di condividere con pochi click le informazioni presenti sui social fa sì che il controllo del Sistema 2 venga facilmente bypassato e che il Sistema 1 prenda il sopravvento.

Quali sono i pericoli nella diffusione di fake news?

La diffusione di fake news può avere un impatto fondamentale sull’opinione pubblica e sulle scelte individuali, con ripercussioni inevitabili sul benessere individuale e collettivo. È chiaro come tale problema diventi di indiscussa priorità quando il pericolo della loro diffusione può avere un impatto sulla salute pubblica.

Alcuni esempi possono esserci utili per comprendere la portata del problema: pensiamo alle ultime evoluzioni in tema di vaccinazioni.

Da un lato c’è chi diffonde dati fondati su evidenze scientifiche, come Roberto Burioni – Ordinario di Microbiologia e Virologia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – che da mesi si batte per promuovere una corretta informazione su tale tematica mostrando come l’impatto dei vaccini sia stato e sia tuttora di fondamentale importanza per debellare malattie ed epidemie fatali fino a pochi decenni fa.

Dall’altro una schiera di antagonisti, irragionevoli detrattori dei vaccini, composta da sedicenti scienziati, sedicenti giornalisti, millantatori vari convinti, in modo più o meno genuino, della loro pericolosità per la salute individuale.

Gli antivax esistono dal giorno dopo che sono stati scoperti e utilizzati i vaccini come ben spiega Andrea Grignolio nel suo “Chi ha paura dei vaccini” (2016): ma si trattava di piccole minoranze, che rimanevano chiuse nel loro piccolo mondo delirante.

Oggi, invece, ci sono strumenti di propagazione molto efficienti, grazie ai quali è possibile diffondere informazioni, del tutto prive di fondamento empirico, che seminano e ingenerano dubbi, che trovano terreno fertile nella popolazione, non solo nella sopracitata categoria di analfabeti funzionali. Di fatto, il recente obbligo di vaccinazione imposto per tutelare la salute pubblica ha provocato forti reazioni in questa seconda schiera e diverse persone hanno deciso di non far seguire ai propri figli la profilassi vaccinale, mettendo allo stesso tempo in pericolo la salute dei loro stessi figli e ancor più quella di coloro per i quali i vaccini rappresentano realmente un rischio e che per tale ragione non possono vaccinarsi, pur volendo.

Un altro caso in cui le fake news si traducono in un pericolo in termini di salute pubblica riguarda le medicine cosiddette alternative: “Metodo Hamer”, “Metodo Di Bella”, “Metodo Stamina”, “Medicina omeopatica”. Si tratta di sedicenti metodi di cura alternativi alla medicina occidentale basata su evidenze scientifiche, privi di validità, come dimostra anche la recentissima scomparsa di Sofia, la bambina farfalla simbolo e vittima dell’inefficacia della cura proposta da Vannoni e sostenuta da una popolare trasmissione televisiva.

Purtroppo, la proposta di tali cure attecchisce sulle persone vulnerabili, come è chi comprensibilmente soffre vedendo i propri cari provati da gravi malattie e spera di trovare in tali metodi una scialuppa di salvataggio destinata purtroppo a portarli a picco. Posta al vaglio della conferma scientifica, l’efficacia di tali metodi non ha trovato alcun supporto. Tuttavia, complici alcuni programmi televisivi che troppo spesso sulla sofferenza costruiscono la propria audience, questi metodi si sono diffusi con conseguenze disastrose, in diversi casi fatali per chi ne ha usufruito.

Un discorso simile può esser fatto per l’omeopatia, un trattamento da molti considerato alla stregua della medicina, sebbene non esistano prove della sua efficacia se non quella derivante dall’effetto placebo, effetto che può essere ottenuto gratuitamente senza ricorrere a prodotti costosi. Il pericolo, anche in questo caso, è quello del loro utilizzo in situazioni che richiedono invece un intervento medico tempestivo, per scongiurare fatali complicazioni, come nel caso del piccolo Francesco, il bambino di Ancona curato con prodotti omeopatici per un’otite e purtroppo deceduto, con grandi sofferenze, a causa delle complicazioni derivanti dall’infiammazione.

Come prevenirle?

Non sempre e non tutti i media del nostro paese offrono spazi a scienziati e ricercatori competenti in precisi ambiti, affinché possano condividere con gli utenti i risultati dei loro studi. Peraltro, accade sovente di veder ospiti dello stesso show televisivo scienziati e personaggi del mondo dello spettacolo, impegnati a dibattere – sullo stesso piano – su temi delicati: cure mediche, vaccinazioni, regimi alimentari, ecc. Il cocktail creato dagli scarsi strumenti culturali di quella fetta di popolazione analfabeta funzionale che assiste agli show e dall’intenzionale diffusione di contenuti non provenienti da fonti competenti, unito alla volontà di ottenere ampia audience, si rivela il substrato ideale per la proliferazione di fake news.

Le scienze del comportamento da anni lavorano per sviluppare strumenti utili per favorire pratiche funzionali al benessere individuale e collettivo. Una delle caratteristiche dei bias descritti dalla Behavioral Economics è la loro sistematicità. Sono dunque ricorrenti in certe situazioni ed è pertanto possibile prevenirli o contrastarne gli effetti.

Il Nudge – programma di policy pubbliche, sviluppatosi negli anni 2000 grazie al lavoro di Cass Sunstein, amministratore dell’Office of Information and Regulatory Affairs (OIRA), dal 2009 al 2012, durante l’Amministrazione di Barack Obama, e dal sopracitato Richard Thaler – si muove proprio in questa direzione. L’obiettivo degli interventi di nudging è quello di sviluppare strumenti utili per favorire il benessere e ridurre comportamenti problematici, senza l’utilizzo di punizioni o incentivi economici.

Per contrastare la diffusione delle fake news è possibile agire su più leve. Innanzitutto sarebbe utile comprendere più a fondo quali bias siano coinvolti nella loro diffusione. In tal modo, sarebbe possibile semplificarne il processo di riconoscimento da parte degli individui rendendole più facilmente smascherabili anche da chi purtroppo non ha conoscenze sufficienti per farlo. Sarebbe, inoltre, utile e necessario creare meccanismi che rendano più costoso in termini di tempo ed energie la condivisione delle stesse rendendo meno diretto il passaggio tra la lettura di una notizia e la sua condivisione. La psicologia, quella seria, avrebbe molto da dire e da fare.

Le malattie infettive attraverso le opere degli artisti

Fin dall’antichità, la Malattia Infettiva è stata interpretata come un segno divino, una punizione inflitta all’uomo come castigo per le colpe commesse.
I richiami al tema si moltiplicano in campo letterario, dove gli autori lo interpretano in rapporto alla società e alla vita.

 

La malattia infettiva rappresentata nelle opere letterarie

Uno scorcio interessante della peste che colpì Milano nel 1600 lo ritroviamo, ad esempio, in tre capitoli dei Promessi sposi da Alessandro Manzoni. Nelle pagine del grande romanziere lombardo il morbo è qualcosa di ancestrale, di irreversibile, che giunge a punire e condannare un’intera comunità.

Ne La Peste, Albert Camus utilizza invece lo spunto del male per analizzare la condizione di solitudine, di abbandono, di morte interiore dell’individuo nel vivere sociale. Se andiamo indietro di qualche secolo, ci tocca la rappresentazione poetica e straziante della tubercolosi compiuta da Alexandre Dumas figlio, nel dipingere il personaggio di Marguerite Gautier de La dama delle camelie.
Ma torniamo al Novecento con Franz Kafka, con l’angoscia della sue Metamorfosi, un fenomeno che modifica il corpo, stravolgendolo, piagandolo con le sue stimmate; o ancora con La Montagna incantata di Thomas Mann, altro capolavoro inarrivabile nel descrivere la condizione dei toccati dal morbo, all’interno della produttività del tempo.
Soffermiamoci su alcuni artisti che in epoca contemporanea hanno raccontato la malattia, mettendola al centro delle proprie opere.

La malattia infettiva rappresentata da Kafka

Franz Kafka nasce a Praga da ebrei tedeschi. La famiglia è di cultura germanica, ma l’appartenenza al ghetto la esclude dal rapporto con la minoranza tedesca di Praga. Il padre è un uomo tirannico ed autoritario: “di fronte all’intolleranza e alla tirannia dei miei genitori, vivo nella mia famiglia più estraneo di uno straniero”.

Kafka si sentirà sempre doppiamente straniero: nella sua famiglia e nella sua città. Quando si laurea in Giurisprudenza, si manifestano i primi segni della tubercolosi polmonare che sarà causa della morte prematura all’età di quarantuno anni.
Assunto da un istituto locale, si occupa di Assicurazioni per Infortuni sul Lavoro, impiego che gli consentirà di avere spazi da dedicare alla scrittura.

I sintomi che gli avvelenano la vita sono: insonnia, acufeni, astenia e disturbi neurovegetativi. Dopo pochi anni è costretto al ricovero presso una casa di cura specializzata in malattie del sistema nervoso e patologie polmonari.
E’ tormentato da cefalee e profonda depressione, al punto da sfiorare il suicidio. Descrive la prima volta che la malattia tubercolare gli procura un’emottisi:
Le 4 del mattino. Mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere la luce. E così comincia. E pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente se non l’avevo aperta. Ecco, dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi.

Lo scrittore definisce la sua condizione una “malattia spirituale“, giacché è qualcosa che tocca in profondità la sua dimensione esistenziale, e probabilmente anche il nodo nevralgico del rapporto stesso con la scrittura e l’arte.

Cinque anni prima aveva conosciuto Felice Baver con la quale aveva intrattenuto una fitta corrispondenza. Ma presto incontrerà Julia Wolryeck, lasciata dopo qualche mese per Milena Lesenka. I suoi amori sono il riflesso di una grande vulnerabilità.
Kafka ha paura di perdere la libertà ma nello stesso tempo di rimanere solo e soccombere alla morte. Intanto, la tubercolosi si aggrava, con la comparsa di febbre elevata e tosse. Viene ricoverato a Vienna ma il processo tubercolare ha ormai invaso anche la laringe. Le condizioni generali sono talmente compromesse che Kafka muore dopo pochi mesi.

Il rapporto tra la vita di Kafka e l’opera è strettissimo.
Lo scrittore è figlio di ebrei inseriti in ambiente germanico, quindi in parte staccati dalle tradizioni originarie e sostanzialmente non accettati.
In secondo luogo, pesa nello sviluppo caratteriale del giovane il rapporto con la famiglia, specialmente con il padre raccontato mirabilmente in Lettera al padre.

Si è detto che nella sua opera la malattia mentale è ben rappresentata, a discapito del risvolto fisico. Niente di più sbagliato. L’approccio ai romanzi di Kafka non può prescindere da un’indagine accurata dei suoi mali fisici. L’autore non chiama mai per nome il suo male, quasi volesse staccarlo da una contingenza reale, concreta, per farlo diventare qualcosa di metafisico.

E anche se non si parla mai di tubercolosi, l’intera opera è la traduzione del senso di estraneità rispetto al mondo esterno, del desiderio e al tempo stesso dell’impossibilità di vivere la vita quotidiana come chiunque e di partecipare al godimento delle relazioni.
Emerge il problema del corpo come elemento estraneo da sé, una condizione che nel racconto Metamorfosi condanna il protagonista a mutarsi in un orribile insetto.

Gregor, il protagonista del racconto, è un malato cronico, e la sorella che si prende cura di lui viene designata col termine di “schwester” che indica anche “infermiera”.

Il parallelismo con l’autore è quasi immediato; nel racconto è possibile, infatti, notare i mutamenti che una grave malattia induce nel corpo, con le conseguenti difficoltà nell’espletare le attività quotidiane, le paure nel rapporto con gli altri, nella vita sociale ed affettiva, la consapevolezza di essere divenuto “un parassita” agli occhi degli altri. Alla condizione fisica avvertita come ripugnante si sommano sensi di colpa e vergogna per il proprio stato, per l’intensa astenia e l’impossibilità di mantenere la famiglia.
Spezzati i rapporti familiari, perduto il lavoro e costretto a vivere rinchiuso e nascosto, il protagonista è votato alla morte.

L’angoscia e la sofferenza nelle opere di Munch

Gli spettri della parola e dell’angoscia di questo autore diventano, invece, nell’arte di Edvard Munch figure terrificanti, simili a sonnambuli dai tratti di cadavere.
Munch ha saputo estrarre dal suo tormentato flusso interiore forme e fantasmi di foggia precisa: persone e ambienti che come ombre o aloni si dileguano dall’orizzonte, e che sebbene esistenti versano in condizioni di evidente agonia.
Il pittore nasce in Norvegia, è il secondogenito di 5 figli. La madre muore precocemente di tubercolosi, il padre vive da recluso per il precipitare di un disturbo depressivo con ossessioni religiose.

Nel 1885 ha ventidue anni e per la prima volta, sfruttando una borsa di studio, si allontana dalla Norvegia per visitare Anversa e Parigi. Nasce in quel modo un’erranza senza fine che lo condurrà a viaggiare da una nazione all’altra ma anche a dividersi in patria tra più residenze pur di allontanarsi dalla capitale Oslo. Lì lo incalza la sensazione intollerabile di essere perseguitato dagli altri. La stessa inquietudine caratterizzerà le sue vicende amorose, caratterizzate da un’alternanza di legami e rotture, fiducia e disperazione (da “La mente spiegata da Edvard Munch” di M. Alessandrini).
Scrive a 77 anni: «Ho vissuto perlopiù senza dimora, sentendomi braccato, a causa dell’atteggiamento aggressivo ed irresponsabile di molti. Ho dovuto spostarmi da un luogo all’altro per trovare un po’ di pace […] l’ho già detto in precedenza – io vivo in carrozze ferroviarie e nella mia automobile».

L’intera vicenda di questo artista è pervasa di paura e rabbia. Con la sua arte ha reso evidenti schemi mentali e meccanismi patologici esponendoli a nudo, e consegnando le sue confessioni al Diario ci ha mostrato le dinamiche di sviluppi traumatici:
«Malattia, pazzia e morte sono gli angeli neri che hanno attorniato la mia culla. Mia madre è morta prematuramente – da lei ho ereditato i semi della tisi. Mio padre è stato ossessivamente religioso – sfiorando la follia. Per generazioni e generazioni è stato questo il fato della sua famiglia. Gli angeli del terrore – dolore e morte – mi sono rimasti accanto dal giorno della nascita. Mi hanno seguito mentre giocavo – mi hanno seguito ovunque. Mi hanno seguito nel sole di primavera e nello splendore dell’estate».

Più volte il pittore racconta di come sia nata in lui l’idea dell’Urlo, il suo dipinto celebre che rappresenta il manifestarsi di un attacco di panico: «Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come fiamme coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura».

I cieli rosso sangue del dipinto ci ricollegano immediatamente ai traumi del pittore, tra cui quello del sangue è sicuramente il più significativo. Diversi fenomeni emorragici costellano la sua esistenza. Nell’infanzia il suo apparato respiratorio è sede di processi asmatici costringendolo a casa, dove riceve le visite di pochi amici. Subito dopo, agli esordi dell’adolescenza, compaiono emottisi e la sopravvivenza cade sotto la minaccia della tubercolosi: «Ricordo una vigilia di Natale all’età di 13 anni. Giacevo a letto – stillando sangue dalla bocca – la febbre infuriava nel mio corpo – dentro di me ribolliva il terrore. Credevo fosse giunto il momento in cui sarei stato giudicato – e che avrei subito una condanna per l’eternità».

L’artista dipinge esperienze private e personali, facendo della propria vita la sostanza in cui attingere e da tramutare in arte. E’ quanto accade nell’eseguire La Bambina Malata, il dipinto- rievocazione della perdita della sorellina, la piccola Sophie, un anno più grande del pittore e uccisa dalla tubercolosi a soli quindici anni.

Munch lo dipinge in occasione di un viaggio a Parigi nel 1855 e lo espone l’anno seguente ma l’opera costituisce da subito l’innesco di una serie di scandali. All’annuale Salone d’Autunno di Oslo, l’aspetto “non finito” e la “trasfigurazione dell’immagine”, sollevano critiche e derisioni.
Il pittore considera quel quadro uno dei suoi ”dipinti dell’anima” e sulla scorta del filosofo Kierkegaard identifica nella propria vicenda esistenziale, l’unico strumento tramite cui creare arte. Spiega infatti che, intrapreso il lavoro, gli accadde a più riprese di piangere e nell’impossibilità di contenersi, decise di trasfondere in immagine anche il pianto, raffigurando l’effetto prodotto dalle lacrime sul proprio sguardo. «Mi rendevo conto che le mie stesse ciglia contribuivano all’impressione che avevo dell’immagine. Nel dipinto vi ho fatto riferimento sotto forma di ombre».
Lui stesso precisa: «Ho dipinto impressioni dell’infanzia, confusi ricordi di quei tempi».

Munch, quasi fosse un terapeuta esperto, addestrato alla Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci fornisce la chiave per comprendere i suoi vissuti traumatici rappresentando episodi narrativi localizzati nel tempo e nello spazio, e riportando i dettagli dell’esperienza soggettiva vissuta. Così accade che nei suoi dipinti le tracce emotive possiedano la stessa natura dei sogni, rivestendo sensazioni a vortice, gorghi sinestetici che danno una parvenza di realtà ma sono riproduzioni di memorie soggettive: «Dipingendo i colori, le linee e le forme che riattingevo da un’epoca mossa dall’emozione, ero in grado come un fonografo di riaccendere quel preciso stato d’animo emotivo».
«Per La bambina malata… sono stato ovviamente condizionato dalle mie esperienze infantili e familiari […] Io credo che nessuno dei pittori contemporanei abbia sperimentato l’agonia del letto di morte cosi da vicino come è accaduto a me da piccolo. […] La mia arte è un’autoconfessione. Per suo tramite io tento di far luce sul mio rapporto con il mondo. Si potrebbe anche considerarlo egoismo. Comunque sia, ho sempre pensato che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a far luce nella loro ricerca di verità».

Cambiano i secoli e cambiano i volti delle malattie infettive ma non cambia l’impatto che queste hanno sulla vita dei singoli individui e su intere comunità.

La malattia nelle opere di Pier Vittorio Tondelli

Pier Vittorio Tondelli nasce nel 1955 a Correggio.
Proviene da una famiglia della provincia italiana.
Il suo primo libro Altri libertini, pubblicato da Feltrinelli nel gennaio del 1980 è processato da un magistrato per “atti di oscenità”.
Esso viene definito “opera luridamente blasfema” e lo scandalo è enorme, facendo del libro un vero e proprio caso letterario. Tondelli diventa non soltanto un nome della letteratura, ma anche un simbolo della condizione omosessuale, che racconta senza falsi pudori, con un realismo e un’intensità che commuovono.

Il giovane Pier Vittorio incomincia a leggere alla biblioteca di Correggio, frequenta il liceo classico e milita in associazioni cattoliche. Poi si iscrive al Dams di Bologna, negli anni in cui vi insegnava Umberto Eco.
Con l’uscita di “altri libertini”, Tondelli diventa il riferimento di tutta una generazione, colui che ha avuto il coraggio di dar voce alla “fauna” di alternativi da sempre ai margini della cultura e del pensiero: femministe, donne sole, travestiti, tossici. Figure alle quali conferisce forza e dignità, che fin lì non avevano mai avuto accesso al mondo della letteratura.

E’ senza dubbio il primo autore contemporaneo a calare nella scrittura autobiografia, reportage e sociologia, fornendo una fotografia lucida della realtà e nuda da ogni pregiudizio. La costruzione letteraria del giovane Tondelli è fortemente definita, ostenta una gergalità bukowskiana, una fisicità rock tendente alla spettacolarizzazione, e contiene riferimenti a Kerouac.
Dopo qualche anno, ci sembra di assistere ad un paradosso. Lo scrittore, che aveva dimostrato una piena sicurezza in se stesso e nel proprio uso della narrativa, sembra smarrirsi dichiarando il suo desiderio di scrivere solo per dieci, venti persone al massimo, comunicando con chi è davvero in grado di comprenderlo.

Leggendo il suo romanzo successivo, Camere separate, si scopre il suo vero carattere di persona timida, portata all’introspezione, con una forte vena mistico-religiosa, e un gran bisogno di riservatezza e quiete.
Con il senno di poi, capiremo che Camere separate è un romanzo intimo, d’addio, un faccia a faccia con la morte incombente, un puzzle di tessere emotive in cui è Tondelli stesso a parlare.

Il libro contiene pagine di straordinaria bellezza e gioielli di introspezione sulla convivenza con l’Aids e con l’idea della morte, senza che tuttavia esse vengano mai nominate espressamente.
In un passaggio rivelatore di Camere separate, Thomas dice a Leo (l’alter ego di Tondelli): «Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena».

Le modalità stesse della sua fine, l’insistenza della famiglia nel negare che lo scrittore sia morto a causa della malattia, confermano una volta di più la difficoltà che l’autore ebbe nel render pubblico un “privato” percepito come “scandaloso”.
Ma non si tratta di un caso unico. Intorno all’Aids il tabù fu pressoché universale, e così come già detto dallo scrittore Dall’Orto, ufficialmente Michel Foucault muore di “setticemia del sistema nervoso”, Baldwin di “tumore alla pelle”, Giuseppe Caputo di tumore “alle ossa”. Nel caso di Tondelli, secondo quanto inizialmente dichiarato, lo scrittore sarebbe morto di “polmonite bilaterale”.
La sua scomparsa sembra ancora ricordarci che l’Aids non è una malattia come tante, ma qualcosa di simile a una stimmate, che uccide non soltanto fisicamente, ma con l’isolamento e il silenzio.

 

Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) e trance dissociativa da videoterminale

Il Gioco d’Azzardo Patologico, al pari delle altre forme di addiction, è considerato l’espressione di un disagio psichico profondo che ha bisogno di essere ascoltato e decodificato. Anche se ciascuna tipologia di addiction ha aspetti specifici, definiti e particolari, tutte hanno in comune il desiderio di fuga dalla realtà ritenuta come inaccettabile e dall’incapacità di gestire e tollerare la sofferenza psichica che ne deriva.

Tropea Francesca – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione: uno sguardo al fenomeno del Gioco d’Azzardo Patologico

 Nell’ultimo decennio, accanto allo sviluppo delle nuove tecnologie, c’è il rischio nei soggetti con maggiori vulnerabilità di sviluppare una forma di dipendenza molto simile alla dipendenza da sostanze (soprattutto quelle ad alto rischio di Craving come la cocaina o alcol) a causa di un’estensione di quello che prima era semplicemente il Gioco d’Azzardo: il Gambling on-line.

Attualmente il Gioco d’Azzardo Patologico – (GAP) è considerato, insieme ad altre dipendenze quali la dipendenza dal sesso, dal lavoro eccessivo (Workhaolic), da Internet, etc. una forma di dipendenza comportamentale o New Addiction.

Il termine inglese “addiction” deriva dal termine latino addictus. Il termine emerse inizialmente in ambito scientifico per descrivere una condizione di dipendenza fisica e mentale indotta dall’uso di droghe. Attualmente il termine indica uno stato di “dipendenza patologica” da distinguere dalla dependance: per dipendenza patologica o addiction, si intende una condizione generale in cui è contingente la dipendenza psicologica da una sostanza, da un comportamento o da un oggetto senza la quale il soggetto sperimenta sintomi fisiologici d’astinenza. Per dependance, si intende la dipendenza fisica o chimica tale per cui è lo stesso organismo che, una volta assuefatto, necessita della sostanza per funzionare.

Il Gioco d’Azzardo Patologico, al pari delle altre forme di addiction, è considerato l’espressione di un disagio psichico profondo che ha bisogno di essere ascoltato e decodificato. Anche se ciascuna tipologia di addiction ha aspetti specifici, definiti e particolari, tutte hanno in comune il desiderio di fuga dalla realtà ritenuta come inaccettabile e dall’incapacità di gestire e tollerare la sofferenza psichica che ne deriva. A volte, gli individui che sperimento questa sofferenza, rinunciano più o meno consapevolmente alla capacità di riflettere, pensare criticamente e abbandonarsi ad uno stato di forte euforia e momentanea piacevolezza ricercati sempre più frequentemente e per un tempo maggiore attraverso la ricerca compulsiva del comportamento patologico (craving). Il Gioco d’Azzardo, se viene utilizzato a lungo per scopo compensatorio o per fuga, porta chi ne usufruisce a diventare “vittima del gioco”. Le vittime designate sarebbero individui che vengono risucchiati in un vortice di pensieri ossessivi legati al gioco con relativa messa in atto di comportamenti (compulsione) e dai quali non riescono più ad uscire. Tutti possono esserne coinvolti, adolescenti, perlopiù tramite il Gioco d’Azzardo on-line, i più anziani che, annoiati dalla solita routine e a volte emarginati dalla vita attiva della società, spendono i risparmi di una vita al Gioco del Lotto e alle Slot- Machines.

Il Gioco d’Azzardo Patologico influenza il modo di vedere la realtà, distorcendo in maniera più o meno grave l’esperienza della persona che ne è vittima. Il principio di realtà viene meno in quanto l’attrazione e il bisogno di soddisfare l’impulso a giocare diviene progressivamente più intenso, tale da comportare una totale perdita di controllo ed è finalizzato a perseguire il comportamento ormai abitudinario e ripetitivo, anche in presenza di ostacoli e pericoli contingenti (Guerreschi, 2016).

Tuttavia va fatta una precisazione: il Gioco d’Azzardo Patologico si distingue in modo netto dal Gioco d’Azzardo socialmente accettato come ad esempio il Gioco d’Azzardo professionistico. Quest’ultimo infatti non provoca ritiro sociale, dura per un tempo determinato e con perdite proporzionate alle possibilità economiche dell’individuo coinvolto, non provoca danni fisici, psicologici e interpersonali (Serpelloni, 2013).

Le conseguenze psico-fisiche e sociali del Gioco d’Azzardo Patologico

Il Gioco d’Azzardo Patologico è una dipendenza patologica, oltre ad essere una vera e propria malattia, in quanto va a soddisfare tutti e quattro i criteri necessari affinché sia considerata tale: si presentano alterazioni del normale funzionamento fisiologico e psichico dell’organismo, crea un certo grado di sofferenza fisica e psichica; risulta derivante da un insieme di fattori eziopatogenetici; ha un’evidenza fenomenica -cioè è costituita da segni e sintomi identificabili-, necessita di un intervento in quanto essendo un “processo patologico” che tende ad avere un evoluzione negativa richiede una specifica diagnosi, cura e monitoraggio costante.

Le attività che contraddistinguono il giocatore d’azzardo patologico implicano il rischio di perdere qualcosa di valore in base al risultato di un evento in cui la probabilità di vincere o perdere è determinata dal caso. Le modalità di gioco possono essere individuali e sociali ma ogni attività di gioco ha caratteristiche peculiari che possono aumentare o diminuire i fattori di rischio e che possono influire sullo sviluppo delle problematiche associate alla patologia stessa, sul contesto sociale e interpersonale (Jon, E. Grant Marc N. Potenza., 2010)

Il Gioco d’Azzardo Patologico provoca ingenti danni a livello fisico e mentale ed esperienze di dissociazione e alienazione che possono diventare un meccanismo difensivo quasi automatico del dipendente da utilizzare per far fronte anche alle più piccole sofferenze che potrebbero presentarsi nella vita di tutti i giorni. Esso, così come le altre addictions, può modificare l’umore e le sensazioni e spesso, purtroppo, questo ne diventa lo scopo principale. Esso, infatti, non si insidia casualmente nella vita delle persone, ma è una risposta disfunzionale a eventi stressanti della vita o a periodi critici dello sviluppo in cui ci si può sentire sopraffatti da sensazioni ed emozioni intense o ingestibili.

Nella società odierna, con l’avvento delle nuove tecnologie, si assiste in generale ad un rimodellamento della logica e dei processi di pensiero: l’uomo, a causa dell’enorme e improvviso sviluppo delle tecnologie, si è trovato ad essere soggetto passivo di queste anche se illusoriamente convinto di esserne parte attiva. L’uso indiscriminato della rete per giocare on-line ne è un esempio, esso infatti induce spesso negli individui la perdita della capacità critica, danneggia la capacità di attenzione verso determinati stimoli sensoriali e incide negativamente anche sulla capacità di riflessione e concentrazione.

La trance dissociativa nel decorso sintomatologico del Gioco d’Azzardo Patologico

Molte ricerche rilevanti in questo ambito sono state svolte da Cantelmi che, insieme ai suoi collaboratori, nel 2000 iniziò a parlare per la prima volta di quella che viene definita “Internet Related Psychopathology”.

Egli spiegò le psicopatologie ricollegabili all’uso eccessivo e prolungato di Internet attraverso un modello che presume una realtà virtuale caratterizzata dal crescente sviluppo del grado di dipendenza da essa. Infatti il cervello, più è connesso più ha bisogno di rimanere connesso. Alla base di ciò vi è un meccanismo neuro-biologico chiamato di “potenziamento a lungo termine”, cardine del funzionamento di tutte le dipendenze in cui un circuito neuronale più viene stimolato e più viene rinforzato e ha bisogno di essere “nutrito”.

Successivamente, lo psichiatra Caretti (2000) introdusse per la prima volta il concetto di Trance Dissociativa da Videoterminale, descrivendola come “uno stato involontario di trance legato alla dipendenza patologica del computer e caratterizzato da un’alterazione temporanea marcata dello stato di coscienza oppure perdita del senso abituale dell’identità personale con rimpiazzamento o no di un’identità alternativa che influenza e dissolve l’identità abituale”. Egli ne individua tre stadi evolutivi costituiti da: una fase di dipendenza caratterizzata dalla simbiosi ed una sorta di rapporto fusionale con l’oggetto virtuale, la presenza di una relazione ossessivo-compulsiva con il computer, confusione e sostituzione della realtà virtuale con quella vera verso cui il soggetto attua tendenze fobiche; fase della regressione caratterizzata dalla sostituzione di relazioni reali con quelle immaginarie; infine la fase della dissociazione in cui è presente una consistente fragilità dei confini del sé, una diffusione del senso di identità in identità virtuali, depersonalizzazione, esperienze sensoriali bizzarre e percezioni particolari dovute alla perdita dei confini spazio-temporali tipiche del cyberspazio, tendenza all’alienazione, derealizzazione e fuga dalla realtà fino ad un ritorno ad una condizione di normalità accompagnata da amnesia.

Inoltre durante quest’ultima fase di trance si possono riscontrare, attraverso l’uso dell’EEG, un’alterazione dello stato di coscienza molto simile a quella del sonno e contemporaneamente delle onde elettroencefaliche tipiche dello stato di veglia (Lambiase, 2014).

La Trance dissociativa può essere uno dei sintomi più gravi, dal punto di vista psichico, che si può sviluppare nel giocatore d’azzardo patologico che trascorre un periodo di tempo prolungato davanti al monitor di un computer o slot-machine. Viene menzionato dal DSM-IV come Disturbo da Trance Dissociativa è descritto come uno stato involontario di trance non corrispondente e non previsto dalla normale cultura a cui l’individuo appartiene. La trance dissociativa causa un disagio grave notevole ed è perlopiù conseguente all’immersione in una realtà virtuale dovuta all’uso prolungato di video-games, Pc e Slot- machines tipici nella dipendenza da Internet e Gioco d’azzardo Compulsivo.

I sintomi comuni della trance dissociativa sono la derealizzazione e la depersonalizzazione, l’alterazione marcata e momentanea dello stato di coscienza, la perdita del senso d’identità che può essere sostituita, demolita o influenzata da un’altra identità alternativa.

Alcuni studiosi ritengono che ci siano determinate condizioni ambientali che favorirebbero la comparsa dei fenomeni dissociativi, come il basso livello di presenza sociale e ritiro autistico e la sempre maggiore complessità della realtà virtuale in cui il soggetto è immerso.

La relazione terapeutica “complicata”: alcuni casi clinici

 Le conseguenze causate dal trascorrere gran parte del tempo di fronte ad un monitor possono, inoltre, incidere sul rapporto tra paziente e terapeuta in caso di un eventuale trattamento. A tal proposito i casi clinici descritti da Lingiardi (2008), descrivono l’impatto che ha il cyberspazio nella relazione analitica. In tal senso Lingiardi presenta due storie analitiche: la prima storia descrive il caso di una paziente che, ad un certo momento dell’analisi inizia ad inviare e-mail al terapeuta, quasi a voler costruire un setting terapeutico parallelo. Lingiardi descrive il fatto che, la relazione tra terapeuta e paziente, abbia subito una sorta di “irruzione” da e-mail le quali hanno superato i confini della relazione stessa. Il secondo caso riportato riguarda, invece, il caso di un ragazzo venticinquenne affetto da personalità schizoide, il quale utilizza il cyberspazio come “cura” dalla sofferenza. Egli sentirebbe il bisogno di crearsi dei momenti di dissociazione dalla realtà in quanto questi sono vissuti dallo stesso come dei momenti di “pace immobile”, che possono assumere progressivamente le caratteristiche di una trance dissociativa. Il paziente descrive questo momento come “un momento di stop dalla realtà” e la sensazione di avere “l’anima sospesa”, uno stato fra sonno e veglia. In quest’ottica, è possibile notare come il ragazzo, utilizzi il computer come un tentativo di vivere in un oggetto non umano e di proteggere sé stesso dall’angoscia e dalla sofferenza, creandosi una sorta di ambiente protetto attraverso una madre meccanica. Se nel primo caso, la ragazza utilizza la tecnologia per comunicare con il terapeuta e la dipendenza si manifesta palesemente, nel secondo caso lo spazio virtuale viene completamente dissociato e per anni rimane immutato dal percorso terapeutico. Tuttavia, come afferma Lingiardi, in entrambi i pazienti il computer diventa uno strumento per regolare le emozioni e la terapia consiste nel dare a tale strumento un significato relazionale, facilitando così nel paziente, lo spostamento da un uso compulsivo ad un uso diverso e strumentale (Lingiardi , 2008).

Un altro interessante studio è stato effettuato in America da Snodgrass e altri (2011) sulla trance dissociativa nei giocatori abituali di video-games attraverso interviste ed indagini statistiche: essi comunemente riferiscono di raggiungere degli stati dissociativi così profondi a tal punto da estraniarsi completamente dalla realtà, sentirsi i veri personaggi e agire verosimilmente nel gioco virtuale. Il particolare interessante dello studio è l’identificazione emotiva con i personaggi proiettati sullo schermo e come questa identificazione porti, come riferito dai campioni dello studio, ad uno stato di benessere mentale attraverso il raggiungimento di  un “rilassamento psichico” e uno “stress positivo” ma nello stesso tempo a esperienze che inducono dipendenza e danni psicologici gravi (Snodgrass, Lacy, Francois Dengah, Fagan, Most, 2011).

Social network e salute psicologica: meglio postare o star soli? Gli effetti positivi del microblogging su chi soffre di ansia sociale

Il vantaggio del microblogging sta nel poter condividere dei messaggi con un vasto pubblico, senza imporre conversazioni che potrebbero risultare indesiderate. Per questo motivo, i commenti che si ricevono, vengono vissuti come dimostrazioni di supporto più spontanee, rispetto a richieste di ascolto esplicite, quali quelle che si farebbero telefonando o incontrando un amico.

 

Il microblogging è quel fenomeno per il quale si condividono su social network, come ad esempio Facebook o Twitter, degli status.

Spesso le persone condividono dei post quando vivono una brutta giornata, quando, ad esempio, ricevono una cattiva notizia in seguito ad una visita medica, quando discutono con il proprio datore di lavoro, oppure quando litigano con i propri genitori o con i propri partner e così via. Condividere degli status di questo tipo permette loro di ridurre le emozioni negative provate, ripristinando così uno stato di benessere.

Come mai vengono prediletti i social network per comunicare queste notizie ed abbassare la soglia di malessere, piuttosto che chiamare o incontrare un amico? Il vantaggio del microblogging sta nel poter condividere dei messaggi con un vasto pubblico, senza imporre a persone precise delle conversazioni che questi potrebbero ritenere indesiderate. Per questo motivo, le risposte che si ricevono, sotto forma di commenti ai post, vengono vissute come dimostrazioni di supporto più spontanee, rispetto a richieste di ascolto esplicite, quali quelle che si farebbero telefonando o incontrando un amico.

Microblogging e ansia sociale

Lo studio condotto da Buechel ha esplorato quali persone sono più predisposte a servirsi del microblogging anziché delle interazioni di persona. Nel fare questo, nel suo studio sperimentale ha diviso le persone in due gruppi, ai soggetti del primo gruppo è stata mostrata una clip tratta dal film “Il silenzio degli Innocenti”, mentre il gruppo di controllo ha guardato un filmato con immagini dello spazio.

Al termine delle proiezioni a tutti i soggetti è stato domandato come avrebbero preferito comunicare ciò che avevano visto e provato in seguito alla visione, scegliendo tra le seguenti opzioni: microblogging, di persona o tramite messaggio privato online diretto ad una persona specifica. Infine è stato somministrato a tutti i soggetti un questionario sull’ ansia sociale.

In questo disegno sperimentale la ricercatrice ha considerato le conseguenze della visione della clip tratta dal film “Il silenzio degli Innocenti” come un’esperienza negativa. Partendo da questo presupposto e dai risultati ottenuti è emerso come i soggetti che hanno sperimentato emozioni negative (in seguito alla visione della clip) e che hanno ottenuti alti livelli al questionario per l’ ansia sociale hanno mostrato maggiori probabilità di servirsi del microblogging per comunicare il proprio stato emotivo negativo.

Invece, coloro che hanno ottenuto punteggi bassi alla scala per la valutazione dell’ ansia sociale hanno mostrato di esser più portati ad utilizzare l’interazione faccia a faccia o il messaggio diretto per condividere i propri stati negativi.

Nonostante diversi studi riportano come l’interazione faccia a faccia rimanga una forma più ideale di comunicazione (Baym et al. 2004, Trepte et al. 2017), il microblogging si rivela un canale di comunicazione utile a tamponare le emozioni negative di coloro che altrimenti si ritroverebbero a gestirle da soli.

Lo stress in polizia: le strategie di coping e le differenze di ruolo e di genere

Stress in polizia: Come evidenziato dalla ricerca di Cesana (2005), a seguito dell’interazione interpersonale frequente con cittadini/utenti, questa tipologia di lavoro ha le caratteristiche della ‘professione d’aiuto – HCP’ (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali…), ne condivide l’esposizione alla sofferenza umana ed alle situazioni problematiche sia economiche e sia umane, anche con episodi di violenza. Le ricerche di Gächter et al. (2009) e Collins e Gibbs (2003) sottolineano che l’esposizione ad eventi traumatici, alla violenza e sofferenza, sia un fattore di stress in polizia.

 

Lo stress in polizia

La normativa sulla sicurezza sui posti di lavoro in vigore in Italia (Decreto Legislativo 81/08 aggiornato a maggio 2017) dichiara che, a partire dal gennaio 2011, è obbligatorio per le aziende italiane effettuare la valutazione dello Stress Lavoro Correlato.
Gli operatori delle forze dell’ordine rientrano tra le categorie professionali con maggior rischio di incorrere all’esposizione di eventi stressanti.

Come evidenziato dalla ricerca di Cesana (2005), a seguito dell’interazione interpersonale frequente con cittadini/utenti, questa tipologia di lavoro ha le caratteristiche della ‘professione d’aiuto – HCP’ (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali…), ne condivide l’esposizione alla sofferenza umana ed alle situazioni problematiche sia economiche e sia umane, anche con episodi di violenza. Le ricerche di Gächter et al. (2009) e Collins e Gibbs (2003) sottolineano che l’esposizione ad eventi traumatici, alla violenza e sofferenza, sia un fattore di stress in polizia. A questi fattori si affianca anche il rischio di incolumità propria e dei propri colleghi. I disturbi derivanti dall’esposizione ad un evento traumatico sono classificati nel DSM-IV come Disturbo d’Ansia, e la soddisfazione del criterio A del Disturbo di stress Post-Traumatico.

Gli stressor sono riconducibili sia ai conflitti interpersonali (ostilità nei rapporti con superiori e colleghi, supporto inadeguato delle autorità di vigilanza) (Shane, 2010) sia al livello del carico di lavoro dichiarato inaccettabile rispetto alla turnazione, agli straordinari eccessivi, al sovraccarico lavorativo, alle condizioni insufficienti di lavoro e alle interazioni costanti con il pubblico.

Le conseguenze dello stress lavoro correlato possono essere sia di tipo psicologico sia di tipo fisico. Tra i disturbi fisici più frequenti emerge il disturbo del sonno, con conseguenze direttamente imputabili all’organizzazione del lavoro all’interno del dipartimento di appartenenza (stanchezza sul lavoro, difficoltà dell’attenzione prolungata, ecc).

Tra i disturbi di tipo psicologico, sono stati identificati sintomi ansiogeni e depressivi (Morash et al., 2006). Tra i disturbi di tipo fisico, dai dati provenienti da indagini svolte negli USA si evidenzia come gli operatori delle forze dell’ordine dichiarino una incidenza superiore rispetto ad altri lavoratori di disturbi cardiovascolari e gastrointestinali.
Gli operatori delle forze dell’ordine che sperimentano le varie tipologie di stress evidenziate possono chiedere la modifica dei turni di lavoro, sono spesso assenti dal lavoro, sono colpiti da burnout, sono insoddisfatti del proprio lavoro e, a causa dello scarso impegno da parte dell’organizzazione nell’affrontare i disagi dei dipendenti, chiedono il prepensionamento e, sul piano comportamentale, possono manifestare il desiderio di divorziare dal coniuge; nei casi estremi di sofferenza il soggetto potrebbe essere motivato a mettere in atto condotte autolesive o anticonservative (Morash et al., 2006).

Alcuni autori, tra cui Neylan et al (2002), correlano i disturbi del sonno con gli aspetti organizzativi che possono determinare l’esposizione ad uno stress cronico, il quale dipenderebbe da variabili organizzative (es. relazioni con i superiori, condizioni di lavoro), dalle relazioni con le istituzioni (es. magistratura), dal sistema legale, l’opinione pubblica e la stampa.

La ricerca di Garbarino et al. effettuata nel 2013 ha analizzato le condizioni di sofferenza negli appartenenti alle forze dell’ordine con sintomi di depressione, ansia e burnout: i risultati hanno mostrato come gli stressors organizzativi siano associati a livelli più elevati di sintomi depressivi. Suresh et al. (2013) hanno rilevato che i principali fattori di stress sono correlati alla sensazione di essere sempre in servizio, al minor tempo da dedicare alla famiglia, alle pressioni politiche al di fuori del dipartimento di polizia, al salario e alle strutture inadeguati. Tutti questi stressor sono attribuibili all’organizzazione. Curiosamente, l’esposizione al trauma (ad es. soccorrere i feriti in un incidente automobilistico) come fonte di stress implicava una minore percezione di stress (operativo) rispetto alle fonti che comportano stress organizzativo.

Stressor organizzativi in polizia

Secondo Alexander et al (1993), in questa categoria rientrano gli stressor che si originano nel contesto di lavoro: in letteratura emerge che i fattori maggiormente stressanti sono le condizioni di lavoro (carenza di personale e/o risorse inadeguate ad esempio), i rapporti con i superiori e i colleghi (es. mancanza di comunicazione), le relazioni con l’ambiente esterno (es. immagine delle forze dell’ordine, rapporto con i cittadini, senso di efficacia dell’intervento).
Tra gli stressor organizzativi particolarmente problematici per il poliziotto, Pietrantoni et al (2003), indicano la gestione dei turni, il sostegno sociale inadeguato, le norme e i valori che caratterizzano la cultura organizzativa e il clima di genere.

Stressor operativi in polizia

Si riferiscono agli eventi critici legati al lavoro operativo del poliziotto: aggressioni, uccisione e ferimento di terzi, situazioni a rischio di morte, suicidio di un collega, situazioni con rischio di contaminazione biologica (es. HIV), sequestri, presa di ostaggi e barricamenti, interventi nei casi di stupro, violenze e abusi.

Le strategie di coping contro lo stress in polizia

Particolarmente interessanti sono le modalità di fronteggiamento messe in atto dagli operatori delle forze dell’ordine durante le situazioni stressanti; in genere le strategie di coping si categorizzano in base all’attenzione posta sulla risoluzione del problema, alla regolazione delle emozioni emergenti dalla situazione stressante e sulla ricerca del supporto sociale (informativo, materiale, emotivo).
In letteratura, Mazzola et al. (2011) e Pietrantoni (1999) sostengono che le strategie di coping utilizzate possono essere dicotomizzate in adattive e disadattive.

Lo scopo delle strategie di coping adattive è di ottenere supporto sociale e familiare, condividere l’esperienza con gli altri soggetti, il fronteggiamento attivo degli stressor e la reinterpretazione positiva della situazione; mentre tra gli scopi delle strategie di coping disadattive emerge l’intenzione di evitare il problema, l’eccessiva manifestazione delle emozioni e utilizzare modalità autodistruttive per ridurre lo stress, come l’abuso di sigarette o alcol o evitare amici e familiari. He et al. (2005) hanno sostenuto come l’uso delle strategie di coping disadattive contribuisca ad aumentare lo stress in polizia fino a renderlo cronico.

Stress in polizia: differenze di ruolo

Come è stato indicato precedentemente, nelle ricerche svolte presso i dipartimenti di polizia, emerge che gli agenti di polizia sono esposti a stress acuto e cronico durante le ore di lavoro, con conseguenze sul piano del benessere fisico e psicologico.

All’interno della struttura organizzativa spesso ruolo ed aspettative non coincidono. In specifici ruoli è necessario inserire una persona con preciso atteggiamento orientato all’obiettivo e al compito (come ad esempio rafforzare la conformità con il codice della strada); non sorprende che le aspettative di ruolo genere dipendente rispetto alle donne possano determinare un’errata valutazione delle intenzioni operative di esse, bias che trova sostegno dall’errata credenza che le poliziotte utilizzino un approccio orientato alla relazione in maniera solidale, cercando invero di comprendere e soddisfare i bisogni di persone che hanno agito in maniera contraria al codice vigente (come ad esempio soprassedere ad un reato quando è stato commesso in caso di emergenza).

Come descritto da Eagly et al. (2005), l’incongruenza percepita tra genere e ruolo conduce alla formazione di elementi di pregiudizio: il primo elemento conduce a soppesare diversamente le donne nei ruoli considerati tipicamente adatti agli uomini (come nel caso delle forze di polizia); un ulteriore pregiudizio porta a ritenere che quando una donna poliziotto assume comportamenti autorevoli / manageriali (controllo e leadership), questi vengono presi in considerazione in misura minore rispetto a quando promulgato da un collega uomo. Tale incongruenza genera maggiore angoscia nelle donne rispetto agli uomini (Turk et al, 2013).
Riguardo gli anni di servizio, gli agenti con maggior esperienza riportano un minor livello di stress rispetto ai giovani poliziotti, questo si verifica probabilmente in quanto la maggior esperienza sul campo determina l’acquisizione di molte strategie di coping e maggior abilità nel fronteggiare gli eventi traumatici (Lucas et al, 2012; Magnavita et al, 2013).

Stress in polizia: differenze di genere

Le ricerche hanno evidenziato che nelle organizzazioni di lavoro, le donne sono sensibili alla sofferenza (Thoits, 2013) correlata alla vulnerabilità biologica e sociale oltre che una maggiore tendenza alla depressione (Eagly e Wood, 2013).
Riguardo al genere, Berg e collaboratori (2005), riportano che le donne in polizia esprimono maggiori livelli di stress percepito rispetto ai colleghi uomini, nonostante i poliziotti maschi abbiano una maggior esposizione sul campo ad incidenti gravi.
È interessante notare che i poliziotti che sentono di avere il sostegno da parte dei colleghi considerino il loro lavoro meno stressante (He et al., 2002). È importante soprattutto per le donne, poiché i problemi sul posto di lavoro sono frequentemente associati ad atteggiamenti di rifiuto da parte dei colleghi (Morash et al., 2006).

Stress in polizia: differenze di settore

L’appartenenza ad uno specifico settore all’interno dei dipartimenti, incide sulla percezione dello stress; come sostiene Abdollahi (2002), gli operatori incaricati di pattugliare le strade e coloro a cui è richiesto di intervenire nei casi di violenza, risultano essere maggiormente vulnerabili allo stress dei colleghi che lavorano in settori diversi.

Ricerca in Italia sullo stress in polizia

Nel 2011 il gruppo di ricerca guidato dalla Dott.ssa Daniela Acquadro Maran (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino) e composto dal Dott. Massimo Zedda (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Torino), e dalla dott.ssa Antonella Varetto (Città della Salute e della Scienza di Torino), ha attivato un progetto di ricerca per valutare l’impatto dello stress lavoro-correlato presso la polizia municipale operante in una città del nord d’Italia. Un questionario autosomministrato è stato distribuito in tutti i distretti presenti sul territorio cittadino, raggiungendo 1840 poliziotti urbani; il 34% dei questionari è stato compilato e consegnato ai ricercatori, i quali hanno assicurato la massima privacy e anonimato dei soggetti coinvolti.

Il campione è costituito dalle forze operanti attivamente sul territorio, come i poliziotti operanti su strada che vigilano affinché siano rispettate le leggi (es. codice della strada, aspetti amministrativi e burocratici delle attività commerciali), chi interviene direttamente in caso di assalto, gli investigatori oltre ai soggetti che lavorano all’interno dei distretti, i quali hanno ruoli amministrativi o direttivi e responsabilità.
I risultati mostrano che le donne con ruoli operativi sul campo (infrazioni al codice della strada, TSO, ecc) presentano maggiore vulnerabilità verso gli stressor sia operativi e sia organizzativi; maggiori livelli di stress sono stati rilevati tra le donne sottufficiali, ufficiali e poliziotti di pattuglia rispetto ai colleghi maschi operanti negli stessi ruoli.

Gli ufficiali maschi mostrano tratti di ansia che influenzano la percezione delle difficoltà professionali, mentre gli agenti di pattuglia risultano essere maggiormente esposti agli stressor operativi.

Da notare come i sottufficiali maschi e gli agenti di pattuglia di ambo i generi mostrano disagio sia organizzativo sia operativo. Questo risultato ottenuto dal gruppo di ricerca di Torino è interessante in quanto differisce dalle ricerche internazionali (Suresh RS, Anantharaman RN, Angusamy A, Ganesan J., 2013) in cui gli stressor organizzativi sono la fonte principale di disagio.

Tra gli stressors organizzativi, sia uomini sia donne includono la mancanza di competenza, superficialità e inflessibilità delle regole, mentre per quanto riguarda i fattori di stress operativi, le lamentele sono orientate alla sensazione di delegittimazione del loro lavoro da parte degli utenti.
Interessante notare che emergono alcune differenze rispetto alla natura della percezione del pregiudizio: le donne colgono preclusione nei loro confronti come aspetto che sorge dal terreno della mancanza di rispetto per il proprio operato (ad esempio continue richieste di conferma di informazioni che sono già state ricevute), gli uomini invece imputano tale pregiudizio all’interno della cornice di inefficienza del sistema sociale, mancanza di regole e legislazione adeguata.

Le donne esprimono inoltre la difficoltà di gestire le emozioni legate all’inadeguatezza o all’assenza di risposte per le quali si sentono responsabili, sviluppando vissuti di impotenza nel rispondere in modo adeguato alle richieste del pubblico. Così appaiono più fragili a causa delle aspettative di genere sul posto di lavoro, dell’assenza di un network di sostegno interno all’organizzazione, del non riconoscimento delle abilità professionali che permetterebbe loro di essere valutate in linea con i loro colleghi.

Dall’analisi delle strategie di coping messe in atto dal campione studiato, emerge che i dirigenti di genere maschile ed i sottufficiali di genere femminile presentano vulnerabilità agli stressor organizzativi ed operativi; mentre i primi adottano la religione come strategia di coping allo scopo di ridurre il disagio, le donne sottufficiali utilizzano strategie di sfogo attive e di distrazione per ridurre lo stress.

Gli ufficiali uomini utilizzano uno spettro di strategie di coping adattative (come ad esempio la pianificazione, il supporto strumentale, la riformulazione positiva ed il buon umore), che induce la riduzione del rischio di sofferenza psicologica generale (vedi Elliott e Guy, 1993), e che può quindi essere considerato come un fattore protettivo verso lo stress in polizia sia organizzativo e sia operativo. Tra le strategie di coping disadattive contro lo stress in polizia maggiormente dichiarate, emergono principalmente quelle associate ad evitare problemi e l’auto-colpevolizzazione.

Le strategie di coping usate dalle agenti di pattuglia si inseriscono nella ricerca di supporto emotivo e strumentale, mentre gli uomini con lo stesso ruolo utilizzano comprensione e positività nell’interpretazione critica dei problemi.
Le strategie di coping maladattive delle donne sono espresse attraverso il corpo (correlazione tra auto-distrazione e problemi legati alla fatica e alle preoccupazioni).
Sia gli uomini che le donne presentano autocriticità, la loro valutazione del proprio operato e del contesto in cui lavorano sono filtrate dal pessimismo e auto-biasimo, con livelli più alti di somatizzazione nelle donne.
Infatti, come evidenziato da Burke e Mikkelsen (2006) e Bowler et al. (2010), gli agenti di pattuglia presentano maggior rischio di disagio psicologico.

Un elemento interessante si evince nella ricerca effettuata a Genova durante il G8 del 2001 su 290 agenti del VI Reparto Mobile, Garbarino S. et al. (2012) sostengono che le attività quotidiane sono molto più stressanti rispetto alle attività antisommossa effettuate durante il G8, fatto dovuto alla adeguata formazione per l’evento, presenza di supporto psico-sociale e per l’organizzazione della manifestazione stessa. Dall’analisi si evince che lo stress elevato potrebbe essere prevenuto da una adeguata pianificazione degli eventi ad alto rischio e dall’impiego tattico delle contromisure antisommossa.

Prevenzione dello stress in polizia

La ricerca effettuata in Italia dal gruppo di ricerca (Acquadro Maran, Zedda e Varetto, 2015) ha evidenziato l’importanza fondamentale della riflessione e dello sviluppo di interventi formativi con attenzione al genere e finalizzati a prevenire il fenomeno stress lavoro-correlato nel personale di polizia.

La direzione ha accolto i risultati ed è intervenuta offrendo gratuitamente agli operatori la possibilità di frequentare corsi sull’efficienza fisica (ad esempio tecniche di sicurezza) e sul benessere psicofisico (ad esempio yoga).

Di particolare rilievo è focalizzare l’attenzione all’interno di tutte le forze di polizia sulla variabile di genere nello sviluppo dei corsi di formazione; sia uomini e sia donne potrebbero beneficiare di programmi caratterizzati dalla valorizzazione di autoefficacia, mentre i programmi destinati ad affrontare gli aspetti emotivi sarebbero di beneficio per le donne ufficiali (come ad esempio il debriefing psicologico e la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma).
Come aspetto non secondario, dal punto di vista macroscopico, accrescere la capacità di affrontare lo stress in modo efficace conduce ad incrementare lo standard di servizio percepito dal pubblico.

Per concludere

In ultima analisi, dai risultati della ricerca effettuata in una forza di polizia municipale in una grande città del Nord Italia si evince che i corsi di formazione e il supporto rivolti agli operatori devono essere inseriti in un quadro in cui il genere, il ruolo e il tipo di lavoro in cui è coinvolto il personale sono aspetti da prendere in considerazione per la strutturazione di programmi preventivi o di intervento sui fattori di stress che caratterizzano il lavoro quotidiano della polizia stessa. Inoltre, i corsi di formazione ed i programmi di supporto potrebbero essere strumenti utili ed efficaci per prevenire il disagio prima che esso emerga dallo sfondo dei vissuti come figura di stress cronico.

A supporto di tale affermazione, una ricerca svolta da Bengt (2013) in Svezia su 85 ufficiali volontari dell’Accademia di Polizia Svedese in formazione, dimostra che nell’ottica dell’acquisizione di conoscenza, inserire moduli formativi per la gestione di eventi violenti ed inerenti al ruolo previene lo stress nei partecipanti. Emerge inoltre che i livelli di stress lavoro-correlato non raggiungono livelli elevati e come tale aspetto perduri nel tempo per un periodo successivo di 18 mesi in cui gli ufficiali operavano direttamente sul campo. Tale periodo è superiore a quello riscontrato dal gruppo di controllo in cui tale modulo formativo non era previsto. Lo studio è stato predisposto proponendo ai partecipanti un protocollo di training basato sull’immaginazione su tematiche relative a 10 scenari riguardanti situazioni concrete. Non solo si è ridotto l’impatto dell’esposizione allo stress, ma ha anche sviluppato maggior fiducia nelle proprie capacità.
Quindi l’esposizione a scenari di difficoltà reale durante la formazione del personale con la possibilità di elaborare i vissuti ed interiorizzare capacità di mastery, produce un beneficio concreto sulla salute psicofisica del poliziotto, con risvolti positivi anche sulla qualità del servizio e dell’organizzazione in generale.

Gli effetti psicologici dell’infertilità maschile

Psicologicamente l’ infertilità maschile e femminile crea una condizione che può essere definita come una “crisi di infertilità”. Tale stato provoca sensazioni di perdita di salute, perdita di autostima, sentimenti di lutto, depressione e di colpa. Creando condizioni sociali di isolamento e problemi nella vita lavorativa della persona.

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Salire su una montagna passo dopo passo con l’obiettivo di raggiungere la cima; vale a dire avere un figlio e quindi, una famiglia con un figlio

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’ infertilità maschile come l’incapacità di ottenere un concepimento dopo almeno dodici mesi di rapporti sessuali regolari con una donna fertile, senza utilizzare alcun metodo anticoncezionale.

Si parla di infertilità primaria quando l’ uomo non ha mai indotto una gravidanza mentre si parla di infertilità secondaria quando l’uomo ha già indotto una gravidanza.

Psicologicamente l’ infertilità crea una condizione che può essere definita come una “crisi di infertilità”. Tale stato provoca sensazioni di perdita di salute, perdita di autostima, sentimenti di lutto, depressione e di colpa. Creando condizioni sociali di isolamento e problemi nella vita lavorativa della persona.

Infertilità maschile: i vissuti psicologici dell’uomo che non può avere figli

Ma cosa prova emotivamente l’uomo di fronte a una diagnosi di infertilità?

È diffusa ormai la convinzione nella nostra società moderna che per l’uomo la sessualità è sinonimo di virilità.

A tal proposito, la letteratura clinica sembra dedicare ampio spazio alle ripercussioni psicologiche dell’ infertilità femminile mentre l’esperienza vissuta dall’uomo della propria infertilità sembra essere trascurata a causa di una conoscenza limitata sull’ infertilità maschile poiché ci sono pochi studi che si occupano di questo problema.

Da alcuni studi si evince che l’ infertilità influenza negativamente la qualità della vita delle donne, ma i risultati degli studi sulla qualità della vita degli uomini non hanno mostrato la stessa concordanza.

Uno studio italiano sulla qualità della vita degli uomini prima del loro trattamento con FIV ( fecondazione in vitro) condotto da Ragni et al. (2005) non ha riportato differenze rispetto a un gruppo di controllo ma segni di depressione e ansia sono stati segnalati in uno studio brasiliano – canadese come principali fattori di previsione della qualità della vita negli uomini durante l’indagine di infertilità (Chachamovich JL, Chachamovich E, Ezer H, Cordova FP, Fleck MM, Knauth DR, Passos EP, 2010).

In alcuni studi si evidenzia che l’ infertilità maschile non influenza il benessere e la sofferenza psicologica degli uomini ma altri studi hanno riportato un maggiore senso di colpa e una bassa autostima rispetto agli uomini in coppia con diagnosi di infertilità.

Un senso di profondo dolore e di perdita è stato trovato tra gli uomini che non avevano biologicamente generato un bambino.

Nonostante le diverse ricerche condotte risulta esserci un’insufficiente conoscenza di come gli uomini con una severa diagnosi di infertilità maschile sperimentino la loro condizione.

A tal proposito, restringendo il campo sarebbe opportuno prendere in considerazione la ricerca condotta da  Webb RE e Daniluk JC (1999)  il cui scopo era quello di descrivere l’esperienza degli uomini riguardo la loro infertilità con azoospermia ostruttiva vale a dire con la presenza di un’ostruzione a livello della via seminale che impedisce agli spermatozoi di poter essere espulsi con il resto del liquido seminale, dopo il trattamento ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi) fallito nel sistema sanitario pubblico svedese.

Essere informati sull’assenza di spermatozoi nell’eiaculazione è stato descritto come il colpo più duro nella vita dell’uomo e la notizia peggiore che avessero mai ricevuto. Il senso di inadeguatezza provato dagli uomini si è rivelato molto prevalente in questa esperienza.

La possibilità della paternità biologica è stata percepita come inesistente e sono emersi sentimenti di impotenza e il sentirsi come diversi:

Non posso fare nulla al riguardo … Puoi agire parecchio su altre cose … Ma qui ero completamente impotente.”

Ha molto a che fare con gli stereotipi maschili e femminili … In qualche modo, se vuoi i bambini o no, è un segno della qualità maschile.”

Gannon et al. (2004) hanno riferito che l’ infertilità maschile è stata percepita come una minaccia per quel che riguarda le concezioni convenzionali della mascolinità. Vale a dire, gli uomini con problemi di infertilità si sentivano stigmatizzati e percepivano ciò come la perdita di mascolinità (Nachtigall RD, Becker G, Wozny M., 1992).

In uno studio fenomenologico delle coppie (Phipps SA., 1993) il desiderio di avere bambini biologici è stato descritto da Langdridge et al. (2000) come un bisogno di creare qualcosa che sia parte dell’uomo e della donna e che il risultato finale sia la realizzazione di una famiglia. Nello studio di Webb RE e Daniluk JC (1999) gli uomini hanno provato una sensazione di rimedio quando si è trovato sperma epididimo importante per la loro autostima e la speranza di diventare un padre biologico con il supporto delle tecniche di procreazione assistita (ART), è ricomparsa.

Un altro elemento centrale è la dimensione di responsabilità per il benessere del partner (Phipps SA, 1993): dallo studio è emerso che le reazioni degli uomini erano principalmente correlate alle reazioni delle donne piuttosto che considerare cosa significhi per loro personalmente.

Un’altra componente della condizione di infertilità emersa è stato lo sforzo di trovare soluzioni al problema, ovvero quello di creare una famiglia con bambini, simile a un progetto con un piano ben preciso da seguire. A tal fine, gli uomini avevano bisogno di conoscenze su diverse soluzioni alternative. La decisione, l’adozione o il ricorso a tecniche di procreazione assistita, non era facile e affermavano che indipendentemente dal modo in cui avevano scelto di avere figli questo doveva essere sperimentato da un lato come scelta.

Gli autori racchiudono lo studio dell’esperienza maschile di azoospermia servendosi di una metafora:

“salire su una montagna passo dopo passo con l’obiettivo di raggiungere la cima; vale a dire avere un figlio e quindi, una famiglia con un figlio”.

Dalle informazioni disponibili si evince che l’ infertilità ha un impatto sul funzionamento psicologico e sembra che l’esperienza dell’ infertilità maschile possa essere più o meno patogena in relazione ad una quantità di fattori individuali, cognitivi ed emotivi, medici e sociali.

In conclusione, gli effetti sul funzionamento psicologico sono quindi una complessa materia di studio influenzata da molte variabili che includono la durata dell’ infertilità, le procedure diagnostiche, il sesso dei soggetti, il fatto che l’ infertilità sia attribuita all’uomo o alla donna, la natura della diagnosi e la prognosi.

Come è stato dimostrato da Link (1986), l’ infertilità non può essere trattata al pari di ogni “malattia”, in quanto va a toccare l’essenza della femminilità e della mascolinità e l’intrusività fisica e psicologica che accompagna il trattamento può mettere in discussione l’immagine di sé e di dar luogo a squilibri emozionali e psicosociali. Ciò indica il fatto che la componente medica e quella psicologica non possono essere separate in quanto, una persona che vive un’esperienza di infertilità dovrà affrontare temi importanti quali quelli biologici, psicologici, sociali ed etici.

Un approccio più integrato alle cure dei pazienti si ritiene che aumenti i risultati positivi, che aumenti la soddisfazione del paziente e del team, e che riduca le reazioni psicologiche negative ed aiuti meglio i pazienti a concludere la loro esperienza (Covington et. al, 1999).

Lo scopo principale di qualsiasi sostegno psicologico è quello di assicurarsi che i pazienti comprendano le implicazioni delle loro scelte di trattamento, che ricevano un adeguato sostegno emotivo e che possano far fronte in modo sano alle conseguenze dell’esperienza dell’ infertilità.

Differenze cerebrali nei bambini con sintomi ossessivo compulsivi subclinici

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori del Bellvitge Biomedical Research Institute (IDIBELL) e dell’Institute of Global Health of Barcelona (ISGlobal) i bambini con sintomi ossessivo compulsivi presenterebbero differenze anatomiche a livello cerebrale.

 

I sintomi subclinici del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) sono molto più comuni rispetto ai casi più gravi che necessitano di attenzione medica e psicologica. Il DOC vero e proprio interessa all’incirca tra l’1 e il 2% dei soggetti, i sintomi lievi invece possono essere presenti in quasi un terzo della popolazione.

Bambini con sintomi ossessivo compulsivi lievi: come si rilevano?

Questi sintomi possono includere ad esempio, pensieri ricorrenti circa il timore di contaminazione dopo essere stati a contatto con oggetti in luoghi pubblici oppure la paura di aver compiuto inavvertitamente un comportamento potenzialmente dannoso (come aver lasciato la porta di casa aperta dopo essere usciti) o ancora il bisogno di sistemare gli oggetti in perfetto ordine e simmetria. Queste paure sono spesso accompagnate da comportamenti compulsivi quali la pulizia ripetitiva o comportamenti organizzativi non necessari che per quanto il soggetto consideri eccessivi risultano incontrollabili. Sebbene la maggior parte di questi sintomi non interferisca con la vita quotidiana, in alcuni casi si può assistere alla comparsa di una condizione più grave che può sfociare nel disturbo vero e proprio.

Carles Soriano-Mas, autore principale dello studio, ha detto “L’infanzia è un periodo particolarmente sensibile per lo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi. È relativamente normale che i bambini allineino le scarpe in un certo modo o ripetano ad alta voce il numero di targa delle automobili, in una piccola percentuale di casi però questi sintomi possono essere indicatori di un potenziale rischio d’insorgenza del disturbo”.

Bambini con sintomi ossessivo compulsivi e le caratteristiche cerebrali

255 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni senza alcuna diagnosi di disturbo mentale hanno partecipato allo studio. Ai ragazzini è stato chiesto di rispondere a un questionario circa la presenza di lievi sintomi ossessivo compulsivi e di sottoporsi ad una risonanza magnetica strutturale. Questa particolare tecnica permette di esplorare in modo dettagliato l’anatomia cerebrale, in particolar modo i ricercatori hanno osservato con attenzione il lobo frontale (sede di processi quali la percezione, l’immaginazione, il pensiero, il giudizio e la decisione) e le aree ad esso connesse.

Confrontando i risultati del questionario con i dati della risonanza, si è visto che i diversi sintomi osservati per quanto lievi potrebbero essere associati a specifiche caratteristiche cerebrali” ha detto Soriano-Mas che ha continuato “è interessante notare che queste stesse caratteristiche anatomiche sono state osservate anche in pazienti con una diagnosi di DOC. Ovviamente è necessario considerare altri fattori di varia natura come ad esempio quelli sociali, educativi e il benessere generale per comprendere il perché in alcuni casi questi sintomi evolvano verso forme più gravi che richiedono interventi specifici”.

I risultati, pubblicati sul Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, suggeriscono che alcuni disturbi, incluso il DOC, potrebbero essere considerati una manifestazione estrema di alcune caratteristiche che spesso compaiono nella popolazione generale.
La scoperta potrebbe avere un impatto positivo sullo sviluppo di strategie di prevenzione a lungo termine per i diversi disturbi. L’anatomia del cervello potrebbe essere monitorata con maggiore attenzione in bambini ad alto rischio (come i figli di genitori con disturbi psichiatrici) in modo da stimare la probabilità di sviluppare una condizione patologica che potrebbe interferire con il normale sviluppo.

La Deep Brain Stimulation migliora le prospettive di vita per i malati di Parkinson

Un nuovo trattamento chiamato deep brain stimulation (DBS), letteralmente tradotto stimolazione cerebrale profonda, potrebbe prolungare la vita delle persone con malattia di Parkinson.

 

I ricercatori del Edward Hines, Jr. VA Hospital in Illinois hanno identificato che i pazienti che sono stati sottoposti alla stimolazione tramite un dispositivo impiantato a livello cerebrale, avevano un modesto vantaggio di sopravvivenza rispetto a quelli trattati solamente con i farmaci.

I risultati sono stati pubblicati il 18 novembre 2017 dalla rivista Movement Disorders. Precedenti studi hanno dimostrato che la deep brain stimulation può migliorare la funzione motoria nelle persone con la malattia di Parkinson. Il trattamento prevede l’installazione di elettrodi inseriti attraverso una operazione chirurgica in specifiche aree del cervello. Una batteria di generatore di impulsi – simile a quella usata nei pacemaker – viene impiantata anche sotto la clavicola o nell’addome. La batteria crea impulsi elettrici che gli elettrodi rilasciano al tessuto cerebrale.

La malattia di Parkinson, oltre i farmaci: quando ricorrere alla deep brain stimulation

La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Colpisce i neuroni nel cervello che producono dopamina. La sua causa è attualmente sconosciuta e finora non esiste una cura. Il morbo di Parkinson non è fatale, ma le complicazioni legate alla malattia spesso portano alla morte. I sintomi più comuni della malattia di Parkinson comprendono tremore, lentezza del movimento, rigidità degli arti e problemi di deambulazione ed equilibrio. Le persone con malattia di Parkinson hanno un’aspettativa di vita più breve rispetto a quelle senza malattia.

Mentre i farmaci possono gestire i sintomi della malattia, non è stato dimostrato come si possa migliorare la vita dei pazienti con Parkinson. Come spiega Weaver, i pazienti di solito subiscono un intervento di deep brain stimulation quando il farmaco non è più efficace.

L’intervento chirurgico può riportare i pazienti nel punto in cui si trovavano quando il farmaco era efficace, ovvero la DBS è in genere efficace quanto il farmaco – se il farmaco continuava a funzionare – afferma.

La dott.ssa Frances Weaver, autrice principale dello studio, ha spiegato il beneficio della deep brain stimulation:

Nel complesso, la chirurgia deep brain stimulation è stata considerata abbastanza positivamente sia dai pazienti che dagli operatori, soprattutto per l’ effetto immediato che questa ha sulla funzione motoria dei pazienti: la discinesia [movimenti muscolari involontari] si riduce notevolmente e il paziente può muoversi e fare movimenti che prima non era in grado di fare.

Mentre la deep brain stimulation sembrerebbe migliorare le funzioni motorie nei malati di Parkinson, rispetto ai pazienti che non la ricevono, esistono poche prove sul fatto che il trattamento abbia dei benefici sull’aspettativa di vita. Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 611 anziani con malattia di Parkinson a cui era stato impiantato il dispositivo di stimolazione cerebrale profonda. Successivamente, i ricercatori hanno confrontato i dati emersi da questo campione con i dati raccolti su 611 anziani con Parkinson ma senza il dispositivo e hanno scoperto che i pazienti trattati con la deep brain stimulation sono vissuti in media per 6,3 anni dopo l’intervento, contro i 5,7 anni per i pazienti senza il dispositivo DBS, una differenza di otto mesi.

I ricercatori avevano accoppiato ciascun paziente DBS con un paziente non-DBS clinicamente e demograficamente simile – per esempio, in termini di età e gravità dei sintomi – e monitorato la sopravvivenza dalla data in cui si è verificato l’intervento chirurgico per il gruppo DBS o che avrebbe potuto aver avuto luogo in maniera teorica per il gruppo non-DBS.

L’età media dei veterani nello studio era di 69 anni, sulla base della maggiore prevalenza di Parkinson tra le persone anziane. L’età più avanzata del gruppo di studio potrebbe aver portato a più morti per condizioni legate all’età, ma i ricercatori sottolineano che la maggior parte delle cause di morte per coloro che sono morti durante il periodo della ricerca erano legati alla malattia di Parkinson.

Mentre il margine di sopravvivenza nel gruppo con deep brain stimulation è risultato modesto, i ricercatori sottolineano che la qualità della vita è migliorata anche dopo la stimolazione, soprattutto perché il trattamento può aiutare a controllare i sintomi come i tremori e le rigidità.

Nonostante i risultati suggeriscono che la deep brain stimulation potrebbe migliorare i tassi di sopravvivenza per i pazienti con malattia di Parkinson, i ricercatori notano alcune limitazioni allo studio. Spiegano che è possibile che i pazienti con stimolazione cerebrale profonda fossero più sani delle loro controparti nel gruppo con solo farmaci. I pazienti con il dispositivo chirurgico impiantato avevano più probabilità di essere monitorati da vicino, quindi altre condizioni croniche sarebbero potute essere diagnosticate e trattate in maniera precoce. Inoltre, è da sottolineare che il campione dello studio era per lo più di sesso maschile, in quanto la maggior parte della popolazione anziana è in prevalenza maschile, il che significa che i risultati non possono essere generalizzati alle donne con malattia di Parkinson.

I ricercatori ritengono che sia necessaria una maggiore ricerca per stabilire se la deep brain stimulation possa prolungare l’aspettativa di vita nella malattia di Parkinson. Non è chiaro se il trattamento modifichi la malattia attuale, o semplicemente aiuti a controllare le condizioni correlate che possono ridurre la vita. Secondo Weaver, la migliore qualità della vita dopo la deep brain stimulation può migliorare la sopravvivenza. È anche possibile che il monitoraggio continuo richiesto con DBS implichi che i pazienti ricevano più cure mediche in generale, portando a cure migliori. Sono necessarie ulteriori ricerche per vedere quale effetto diretto ha la deep brain stimulation sulla neuroplasticità o la funzione cerebrale.

 

 

La vita non è un paese per ossessivi

Le persone con tratti ossessivi corrono sostanzialmente su due binari: la ricorsività e il senso di giustizia, entrambi finalizzati a mantenere il controllo (o una parvenza di controllo). La ricorsività è quella cosa che ci fa dire che se dopo A è sempre venuto B, allora questa è la regola. Ogni volta che vedo un A mi devo aspettare da lì a breve un B, la cosa diventa prevedibile e non ci sono possibilità di variazione sul tema. Il senso di giustizia è quella strana idea per cui se una cosa è sbagliata, allora non succederà.

Le caratteristiche degli ossessivi e la difficoltà a tollerare i cambiamenti

Nelle mille e una applicazioni della psicologia alla lettura del contesto sociale, si ragiona spesso rispetto a quali caratteristiche individuali (quali tratti di personalità, quali psicologici mattoncini lego) vengono accettate, legittimate, addirittura premiate nella società per come si struttura oggi. Così, si è spesso discusso di come le dinamiche che, se espresse a un livello patologico, rientrano nel disturbo narcisistico di personalità, in realtà vengano incentivate e continuamente rinforzate dal contesto sociale e culturale in cui ci troviamo, fatto di corse all’ obiettivo, una certa propensione all’individualismo e al raggiungimento di posizioni che garantiscano un rango superiore.

E se ci trovassimo a ragionare sulle caratteristiche individuali che vengono invece maggiormente penalizzate e frustrate una volta che si confrontano con la realtà attuale? Beh, sicuramente i tratti ossessivi ci fregano, ci illudono, ci prendono a cazzotti e se la ridono mentre cerchiamo di ricollocarci in un contesto che abbia un senso.

Le persone con tratti ossessivi corrono sostanzialmente su due binari: la ricorsività e il senso di giustizia, entrambi finalizzati a mantenere il controllo (o una parvenza di controllo). La ricorsività è quella cosa che ci fa dire che se dopo A è sempre venuto B, allora questa è la regola. Ogni volta che vedo un A mi devo aspettare da lì a breve un B, la cosa diventa prevedibile e non ci sono possibilità di variazione sul tema. Il senso di giustizia è quella strana idea per cui se una cosa è sbagliata, allora non succederà. Un terzo binario, che mescola i primi due, è l’idea che ci sia una precisa ricompensa per ogni preciso sacrificio: se mi comporto in un modo corretto e moralmente giusto, allora le cose andranno bene e mi potrò aspettare qualcosa indietro.

Ecco perché non è un Paese per ossessivi. Perché purtroppo spesso quel segmento di spazio e di tempo in cui viviamo si configura più come un Wisconsin Card Sorting Test, un test neuropsicologico in cui il soggetto deve comportarsi secondo regole precise (che lui non conosce) ma che cambiano in continuazione. Se ci mette 5 minuti a imparare la regola implicita secondo cui dopo la carta rossa deve venire una carta verde, dopo poco tempo la regola cambia, per cui dopo la carta rossa deve venire la carta blu. È un continuo procedere per tentativi ed errori, e rendersi conto man mano che quello che ha funzionato fino a poco prima ora sembra non funzionare più. È un continuo rimettere in discussione tutto, ricominciare a imparare daccapo, in parte dimenticarsi di quello che si era dato per scontato fino ad allora. Non abbassare mai la guardia e contemporaneamente abbassarla sempre, perché se comunque può succedere di tutto, tanto vale procedere passo passo e vedere dove ci portano le cose.

Quindi, se ci troviamo in questo posto strano, che è la nostra esistenza, in cui non c’è una norma che valga per sempre e non c’è un criterio affidabile, come possiamo reagire quando la vita cambia le regole? Quando tu giochi la carta verde che ha sempre funzionato, ma stavolta non funziona più. Qui le alternative sono molteplici, nonché tutte attuabili in progressione e in ordine sparso. Possiamo bloccarci, rimanere nello stupore dato dalla novità, non essere capaci di cambiare punto di vista o prospettiva. Possiamo arrabbiarci, perché accidenti se ci ho messo così tanto a capire che la successione giusta era quella, adesso non puoi cambiarla! Possiamo mugugnare, iniziando con un 50% a prendere atto della necessità del cambiamento, ma continuando con l’altro 50% a non essere d’accordo. Possiamo, e prima o dopo è quello che facciamo tutti, raccogliere tutte le nostre belle convinzioni e certezze e idee di prevedibilità e salutarle, perché si cambia. Diversamente sarebbe come uscire di casa con l’ombrello aperto solo perché hanno messo pioggia. Se quando esco di casa non piove, l’ombrello lo chiudo, al massimo lo porto con me perché non si sa mai, ma mi sento libero di camminare senza nulla, perché non c’è nulla che può bagnarmi.

L’importanza dell’accettazione e del cambiamento

Questa è un po’ l’essenza di quella che viene chiamata accettazione (per cui si vedano, molto più chiare e esaustive in merito, le tribolazioni di Lorenzini. In che cosa consiste l’accettazione? In nulla. No, davvero. Nulla. Che è poi la parte più difficile. Niente recriminazioni, niente lamentele, niente restare accozzati mani e piedi a “come le cose sarebbero dovute andare”, niente rivalse, niente rimuginio. Niente. Prendere atto e ripartire, sapendo peraltro che ripartiremo mille altre volte, che cambieranno ancora le regole e i contesti e le priorità e che magari alla prossima dovremo calare la carta rossa dopo la carta rossa, anche se sembra davvero un’assurdità.

Ma se ci pensiamo, la vera assurdità è pensare che rimanendo ancorati a vecchie modalità o a vecchi schemi di risposta le cose possano tornare a funzionare. Sarebbe come cambiare casa, andare a vivere in una casa più piccola e pretendere di farci stare tutti i mobili che arredavano la casa più grande. Sarebbe come pretendere di salire e scendere le vecchie scale se la nuova casa ha un solo piano. Una follia, insomma.

Per crescere bisogna cambiare, ma chissà perché questa cosa ci sembra chiarissima se prendiamo in considerazione i bambini e ci sembra così assurda per gli adulti. Ci illudiamo di arrivare a un momento della nostra esistenza in cui le cose “le abbiamo fatte”, e magari anche bene, e allora pretendiamo di raccogliere, di essere ripagati. Ma ci sfugge che il cammino si ripaga da sé, che non c’è nessuna ricompensa, se non quella che sta dentro ogni momento. E Piaget l’aveva detto nel secolo scorso, proprio parlando dello sviluppo cognitivo dei bambini, che si procede per assimilazione e accomodamento. In pratica, per poter passare a uno stadio successivo dobbiamo essere capaci (e essere disposti) ad assimilare nuove informazioni e accomodare le nostre teorie, i nostri schemi, rivedere quello che fino a poco prima sembrava scolpito nella pietra e modificarlo.

Questo procedimento non termina mai: se vogliamo continuare a crescere (da ogni punto di vista), dobbiamo essere disposti a mettere in dubbio tutto, cambiare idea e ristrutturarci. Prima ancora di Piaget, l’idea che cambiare ci salva la vita (letteralmente) l’ha suggerita Darwin, quando ha detto che “non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente ma la specie che risponde meglio al cambiamento.

Ne deriva che, dal momento in cui nessuna certezza è possibile e nessun assunto è per sempre, conviene imparare a navigare nell’incertezza di fondo, che come abilità è piuttosto difficile ma dà anche grandissime soddisfazioni. Perché se in un primo momento può risultare frustrante non avere un bel pacchetto di assunti sempre veri e validi, in seguito sapere che tutto potrebbe cambiare (noi compresi) da un momento all’altro, dà una sensazione di libertà assoluta e ci consente anche di apprezzare maggiormente la quotidianità, come una scoperta sempre nuova che ieri non esisteva e forse domani non esisterà più (almeno non in questa forma).

Per dirla con la filosofia, “Il vero cambiamento, la vera rivoluzione avviene abbandonando il noto per l’ignoto, dove non esiste alcuna autorità e dove potreste andare incontro al fallimento completo; sostituire al noto qualcos’altro che conosciamo non è un cambiamento” (Krishnamurti).

Ripensare la natura della cognizione: l’importanza del corpo in robotica

Nell’ultimo decennio si è ridato valore al ruolo del corpo e dell’ambiente fisico per la cognizione, anche grazie all’affermarsi dell’ embodied cognition e dunque dell’idea che la cognizione è embodied (dove emerge l’aspetto corporeo), oltre che grounded (che racchiude i sistemi sensomotori, il corpo e l’ambiente fisico e sociale). Prende così importanza la Robotica, il connubio tra cognizione (intelligenza artificiale) e corpo (supporto fisico).

 

La scrittrice Gertrude Stein nella parte finale della sua vita, riferendosi alla sua compagna, chiese: «Qual è la risposta?»,
ed ella disse: «Come faccio a risponderti se non conosco la domanda?».
La scrittrice ribatté «Allora qual è la domanda?».

 

L’importanza del corpo in robotica: introduzione

Prima di occuparci di specifici problemi, dovremmo essere in grado di formularli in maniera adeguata, ovvero intrecciando tutte le dimensioni che li costituiscono.

In questa frase si possono rappresentare i vicoli ciechi dell’ intelligenza artificiale durante la sua “infanzia”: il tentativo di ricreare l’ intelligenza umana in un sistema cibernetico (il robot), abbinare un sapere di tipo corporeo a quello meramente cognitivo. Per tale motivo, da una ricerca impegnata pesantemente sul perfezionamento di programmi di intelligenza artificiale, si è volto lo sguardo anche a fili, sensori, attuatori, arti, testa… al corpo del robot.

L’ embodied cognition

Il cognitivismo classico, di stampo computazionalista, ha rappresentato la dottrina dominante nel mondo delle scienze cognitive della seconda metà del ‘900, riferimento generale per la spiegazione dei processi cognitivi. Tuttavia, oggi sta ricevendo sempre più credito la teoria dell’ Embodied Cognition (EC – ‘Cognizione Incorporata’) (Shapiro 2007, 2011; Wilson, 2002; Wilson, Foglia 2011; Zipoli, Caiani, 2013; Bermúdez, 2014).

Per i cognitivisti (Neisser, 2014; Fodor, 1981; Johnson-Laird, 1990) la mente può essere totalmente disincarnata dal suo supporto fisico perché l’attività mentale non è che l’insieme delle operazioni computazionali rese possibili da rappresentazioni proposizionali-inferenziali dell’ambiente esterno, che possono essere realizzate in diversi dispositivi materiali.

L’intelligenza Artificiale è stata utilizzata per riprodurre l’intelligenza umana col fine di creare macchine utili: tentare di imitare il comportamento di un cervello umano (emulazione) o imparare ugualmente qualcosa di importante sul funzionamento del cervello stesso (Penrose, 1992). Ma progetti come quelli che mirano a riprodurre l’intero cervello umano in un computer non ci fanno capire il cervello, perché per capire il cervello bisogna capire come produce i comportamenti che produce (Parisi, 2013).

Per tale motivo nell’ultimo decennio si è ridato valore al ruolo del corpo e dell’ambiente fisico per la cognizione, anche grazie all’affermarsi dell’idea, ampiamente rappresentata da vari contributi, che la cognizione è embodied (dove emerge l’aspetto corporeo) e grounded (che racchiude i sistemi sensorimotori, il corpo e l’ambiente fisico e sociale).

Prende così importanza la Robotica, il connubio tra cognizione (intelligenza artificiale) e corpo (supporto fisico).

Secondo l’ embodied cognition i processi cognitivi non sono limitati alle operazioni istanziate all’interno del sistema cognitivo, ma comprendono più ampie strutture corporee e processi d’interazione con l’ambiente (Lakoff, Johnson, 1999; Noë, 2004; Clark, 2008; Chemero, 2009). Parafrasando Mallgrave (2015) «Siamo esseri incarnati (‘embodied beings’), in cui menti, corpi, ambiente e cultura sono connessi tra loro a livelli diversi».

Per l’ embodied cognition la mente è un qualcosa che dipende in maniera costitutiva dal supporto che la realizza. Per questo, essa non può essere il risultato di rappresentazioni proposizionali e computazioni che possono essere indifferentemente passate da un supporto ad un altro (Ferretti, 2016). In altri termini la teoria dell’ embodied cognition ha come perno della riflessione l’idea che i processi cognitivi sono soggetti a vincoli propri del mondo fisico che includono, ma non si esauriscono, nei vincoli del sistema sensorimotorio (Caruana, Borghi, 2013).

Ripensare la natura della cognizione

La natura della cognizione viene ripensata. Invece di sottolineare le operazioni formali sui simboli astratti, il nuovo approccio suggerisce che la cognizione è piuttosto “un’attività individuale” e che gli esseri di pensiero dovrebbero pertanto essere considerati innanzitutto come “esseri che agiscono” (Anderson, 2003).

L’approccio dell’ embodied cognitition afferma che mente e corpo non siano separati e distinti, come erroneamente pensava Cartesio (Damasio, 1995), ma che il nostro corpo, e il cervello come parte del corpo, concorra a determinare i nostri processi mentali e cognitivi (Borghi, 2015).

Negli ultimi 10-15 anni, l’approccio cognitivo embodied si è sempre più diffuso nei settori legati alla scienza cognitiva e neuroscienza e sono stati raccolti molti dati empirici a supporto di tali teorie (Parisi, 2013).

L’attribuzione di comportamento intelligente all’automa, infatti, avviene attraverso l’impiego di un vocabolario mentalistico e intenzionale che si avvale di locuzioni come “diretto allo scopo”, “desidera”, “evita”, senza che tali termini facciano parte di un’unità rappresentazionale interna, quale potrebbe essere qualcosa di analogo a una memoria a lungo termine dei sistemi di Intelligenza Artificiale classica, né, tantomeno a un sistema di comunicazione di informazione simbolicamente espressa all’interno del robot. «Il mondo costituisce il miglior modello [di sé stesso, per l’ automa]», così afferma Brooks, discutendo la prima delle caratteristiche su cui sono costruiti questi modelli: l’essere situati (‘situatedness’) in un ambiente reale con cui interagiscono e nel quale sono messi alla prova. Inoltre, essenziale in questo tipo di impostazione è che tali sistemi abbiano un rapporto col mondo attraverso il loro corpo (embodiment), che garantisca un riferimento esterno fisso ed effettivo (un “significato”) alle operazioni interne del robot (problema del grounding) e determini il prodursi di un comportamento intelligente, seppur tale solo per chi osserva dal di fuori l’agire dell’automa (Bianchini, 2007).

Conclusioni

I robot sono un nuovo modo di esprimere le teorie della psicologia (Parisi, 2013). La dimensione dell’ embodied cognition risulta fondamentale nella storia sia della psicologia che della robotica poiché ha permesso di comprendere che la cognizione non è circoscritta all’attività mentale, ma si estende in tutto il corpo. Nell’uomo molti stati mentali esistono a partire dall’ esperienza corporea (toccare, odorare, sentire, ecc., quindi immaginare, apprendere, pensare, ecc.) la quale media, consente e crea l’esperienza reale.

Da qui prende senso la teoria della grounded cognition che sostiene – oltre all’esperienza corporea – l’importanza dell’ambiente fisico e sociale, ovvero dove il corpo è immerso e l’interazione con gli enti circostanti (“oggetti” dell’ambiente fisico) o la rappresentazione di altri (peculiarità dell’ambiente sociale).

In vista di questi la mente non può essere disincarnata dal suo supporto fisico, dal corpo che lo contiene, poiché lo stato mentale spesso emerge da uno stato corporeo.

Alleniamoci ad essere più saggi con gli altri

Un recente articolo riportato sulla rivista Proceedings of the Royal Society B mostra come la saggezza, e non l’intelligenza o uno status economico-sociale, possa fare la differenza nei rapporti interpersonali, amicali, affettivi e professionali.

 

L’importanza della saggezza nella gestione dei conflitti

Esiste un apparente paradosso nella nostra società moderna: più questa diventa nel suo complesso sempre più “smart” e “social” consentendoci di interagire con chiunque, in ogni parte del mondo e in qualsiasi momento, più le persone si allontanano le une dalle altre senza riuscire ad andare d’accordo.

Partendo da questo paradosso, lo psicologo Igor Grossmann dell’Università di Waterloo in Canada si è chiesto come sia possibile, nonostante l’avanzamento tecnologico e possibilità maggiori di interazione tra persone, che nella nostra moderna e tecnologica società 2.0 si creino più conflitti interpersonali rispetto al passato.

Per trovare una soluzione a questo interessante dilemma, Grossmann e colleghi (2017) hanno condotto uno studio chiedendo a 2145 studenti statunitensi di partecipare ad un’indagine online in cui si domandava loro di ricordarsi una recente discussione o conflitto interpersonale (ad esempio con il proprio partner, con un amico, con il datore di lavoro o con i propri genitori) e di rispondere a 20 domande.

Queste chiedevano se nella situazione di conflitto portata dallo studente, il partecipante era stato in grado di considerare la prospettiva dell’altro, il tempo impiegato per cercare di comprendere il punto di vista dell’altro e se aveva mai preso in considerazione l’idea che lui stesso e non l’altro potesse essere in errore.

Grossmann e colleghi (2017) hanno poi analizzato i dati provenienti dall’indagine, cioè le risposte degli studenti, sulla base di come essi avevano interpretato ed erano riusciti a gestire il conflitto interpersonale su una scala che andava da “con giudizio” a “senza giudizio” e sulla base del loro status sociale, “alto/basso”.

I ricercatori hanno trovato che gli studenti che possedevano uno status sociale più basso, un’educazione meno prestigiosa e più preoccupazioni in termini di denaro, avevano un punteggio molto più alto nella gestione “giudiziosa” del conflitto interpersonale, rispetto agli studenti con uno status economico e sociale più alto. (Grossmann, Brianza et al., 2017).

Il legame tra la saggezza e lo status sociale e il quoziente intellettivo

Nella seconda parte dello studio per approfondire i risultati preliminari, i ricercatori hanno inoltre reclutato 200 persone che hanno sottoposto ad un test di intelligenza e a cui hanno poi chiesto di leggere tre lettere pubblicate sulla posta di “Dear Abby”, un noto blog americano in cui le persone, afflitte da un problema di qualsiasi genere, chiedono consiglio per risolverli.

Ai partecipanti veniva chiesto di leggere la prima lettera mandata a “Dear Abby” che conteneva un problema interpersonale tra amici e scegliere di schierarsi per l’uno o l’altro amico; ogni partecipante poi discuteva con un intervistatore su come avrebbe affrontato il conflitto se fosse stato nei panni di uno dei due amici.

Gli intervistatori davano poi un giudizio circa le risposte offerte dai partecipanti allo studio per offrire una valutazione dell’argomentazione portata dal soggetto per risolvere il conflitto interpersonale, su una scala che andava da “molto giudizioso” a “poco giudizioso”.
Se il soggetto sperimentale offriva una soluzione basata non solo sul suo punto di vista, ma integrando questo con quelli dei due amici coinvolti nel conflitto raggiungeva un punteggio alto nella scala del giudizio nella soluzione proposta, diversamente dalla situazione in cui il soggetto ne proponeva una considerando solo il suo punto di vista.

Come nella prima parte dell’esperimento, coloro che avevano uno status sociale ed economico più basso, avevano alti punteggi nella “scala del giudizio”, rispetto a soggetti con uno status sociale più alto e questo indipendentemente dal loro quoziente intellettivo (Grossmann, Brianza et al., 2017).

Grossmann, tramite questo studio, ha trovato una probabile risposta al paradosso: non è l’intelligenza o una situazione sociale ed economica più alta e agiata a consentire al soggetto di risolvere i conflitti interpersonali ma la sua capacità di mettersi nei panni dell’altro, comprendere le sue ragioni e raggiungere con lui un compromesso.

Secondo i ricercatori le migliori capacità di decentramento e di teoria della mente, sarebbero presenti nei soggetti con uno status sociale ed economico medio-basso, in quanto essi sono stati abituati fin dall’infanzia a condividere e ad affinare i conflitti con il gruppo di pari sviluppando maggiormente le loro abilità di problem solving piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulla loro educazione, a differenza delle persone con uno status e un QI più alto.

Per migliorare le proprie capacità di problem-solving interpersonale e aumentare la propria saggezza, i ricercatori consigliano di provare, all’interno di un conflitto, ad adottare la prospettiva di una terza persona che osserva il conflitto tra noi ed un altro, quasi costringendoci a vedere la situazione come farebbe un altro esterno.

Like or swipe? La prima impressione è quella che conta? – Tinder e i suoi effetti psicologici

Come funziona Tinder, la maggior parte di noi lo sa, ma quali sono i suoi effetti a livello psicologico? Una recente ricerca sembrerebbe collegare una percezione negativa e distorta dell’immagine corporea all’utilizzo di dating app (app di incontri), tra le quali spicca Tinder. 

Eva Ciampelli e Carol Giannotti

 

Come funziona Tinder, la maggior parte di noi lo sa, ma quali sono i suoi effetti a livello psicologico? Una recente ricerca sembrerebbe collegare una percezione negativa e distorta dell’immagine corporea all’utilizzo di dating app (app di incontri) come Tinder (Strubel & Petrie, 2017). Precedenti ricerche si sono focalizzate sull’analisi della relazione tra l’utilizzo di alcuni tipi di Social Network e l’impatto che possono avere sul benessere dell’individuo, mostrando come gli stessi possano avere una connessione diretta con disturbi alimentari, preoccupazioni sull’immagine corporea e distress psicologico (Holland e Triggemann, 2016). Effetti molto simili sembrerebbero essere provocati anche dall’uso dell’app Tinder.

Cos’è e come funziona Tinder?

Tinder è un’applicazione per incontri online che ha riscosso un progressivo successo e che conta attualmente circa 50 milioni di iscritti. Ma perché questo successo e come funziona Tinder? Il motivo sottostante l’utilizzo sempre crescente di questa dating app tra i giovani adulti sembrerebbe essere non tanto il cercare un partner per sesso occasionale, quanto, nella maggior parte dei casi, la ricerca di una relazione sentimentale (Sumter, Vandenbosch & Lictenberg, 2017).

Uno dei motivi che potrebbero avere contribuito al suo successo, è dovuto a come funziona Tinder, il suo utilizzo infatti è semplice e intuitivo: l’utente che decide di iscriversi crea un profilo fornendo i propri dati personali e una serie di foto che rispecchino al meglio la sua personalità. L’utente ha così la possibilità di stabilire i criteri di scelta di un eventuale partner, tra i quali il range di età e la distanza massima desiderata. Tinder selezionerà automaticamente i profili che rientrano nei criteri forniti dalla persona, la quale a questo punto potrà scegliere: se il profilo che visualizza è di suo gradimento lo esprimerà scegliendo il tasto “like”, altrimenti l’utente premerà sul tasto “swipe” passando al profilo successivo. Se anche la persona apprezzata restituisce il “like”, Tinder farà in modo di metterla in contatto con l’utente (e avremo il cosiddetto “match”) con il quale potrà iniziare una conversazione.

L’impatto psicologico dell’uso di Tinder

Capire da un punto di vista pratico come funziona Tinder è dunque facile e immediato, ma come funziona Tinder da un punto di vista psicologico? In un recente studio condotto da Strubel e Petrie nel 2017 sono stati indagati gli effetti che l’ utilizzo di Tinder sembrerebbe avere su vari costrutti quali la soddisfazione corporea, la tendenza a confrontarsi con altri, l’internalizzazione di determinati canoni estetici, il monitoraggio corporeo, body shame e autostima.

I risultati della ricerca hanno mostrato come coloro che usufruiscono dell’ app riportino livelli di soddisfazione per il loro aspetto estetico minore, body shame più intensa e una maggiore tendenza all’auto-monitoraggio corporeo, prendendo in considerazione una prospettiva sia interna che esterna. Infine, sembra essere presente una forte internalizzazione degli ideali estetici dettati dalla società e un confronto maggiore della loro apparenza fisica con quella altrui. Una particolarità riscontrata dallo studio riguarda l’autostima: sembrerebbe che l’uso di Tinder impatti di più in senso negativo sugli utenti di sesso maschile.

Caricare le proprie foto su Tinder e la costante prospettiva di valutazione che ne deriva può condurre alla tendenza di monitorare spesso il corpo. Gli autori sopracitati hanno infatti notato come questa applicazione tenda ad incoraggiare l’auto-oggettivazione della persona. Con questo concetto si intende l’interiorizzazione di un punto di vista esterno che porta l’individuo a un aumento dei livelli di auto-monitoraggio e di controllo sul proprio corpo. Ciò verrebbe esacerbato dal modo in cui funziona Tinder poiché l’altro, tramite lo swiping, viene apprezzato o scartato basandosi interamente sulla mera apparenza fisica.

Gli autori hanno evidenziato come, da un lato, il ricevere apprezzamenti favorisca tendenze narcisistiche, dall’altro però il solo fatto di essere valutati, scrutinati e oggettivati porti gli individui a essere eccessivamente consapevoli del proprio corpo e questo possa sfociare in ansia, sintomi depressivi, sentimenti di vergogna, disfunzioni sessuali, disturbi alimentari e distress psicologico.

Gli uomini e le donne che utilizzano Tinder si sentirebbero in sostanza privati dei propri tratti individuali, concentrandosi infatti solo sugli aspetti sessuali della relazione; potrebbero inoltre essere più critici nei confronti del proprio corpo e adottare la convinzione che potrebbe esserci sempre qualcosa di meglio da cercare, contemporaneamente mettendo in dubbio anche il proprio valore. Questo a sua volta potrebbe diminuire la motivazione personale, la consapevolezza e il controllo sugli stati corporei interni (Strubel & Petrie, 2017).

In conclusione, l’attività specificatamente più dannosa legata alle dating app potrebbe essere quella di visualizzare e caricare le proprie foto cercando un feedback di approvazione dall’altro. Questo creerebbe un link tra Tinder e i più importanti Social Network, in cui si ritrovano le stesse tematiche di auto-oggettivazione e di monitoraggio estremo del corpo che sembrerebbero essere associate a una maggiore insoddisfazione corporea e a maggiori probabilità di sviluppare disturbi del comportamento alimentare. A sostegno di ciò una review sistematica ha mostrato come all’aumentare del tempo totale speso sui Social Network, della frequenza dell’apertura delle pagine dei profili social e al crescere del numero di amici/followers su piattaforme come Facebook e Instagram aumenti anche a distanza di poche settimane l’insoddisfazione nei confronti del proprio corpo, esponendo così a una maggiore vulnerabilità a disturbi del comportamento alimentare (Holland & Tiggemann, 2016).

Esporre e caricare online il proprio corpo, anche se in formato JPEG, potrebbe essere dunque il trigger che accomuna Facebook, Instagram etc. alle dating app e che allo stesso tempo provocherebbe una serie di meccanismi che porterebbero a un impoverimento del benessere psicologico dell’utente.

 

 

Mangiare pesce migliora il sonno dei bambini e aumenta la loro intelligenza

Secondo uno studio condotto dalla University of Pennsylvania e pubblicato sulla rivista Nature Scientific Reports mangiare pesce una volta a settimana, migliora il sonno dei bambini e potrebbe aumentarne il quoziente intellettivo.

Lucia Marangia

 

In passato diversi studi hanno collegato la carenza di sonno a minori capacità cognitive nei bambini, nonché ai disturbi anti-sociali. Altri studi hanno collegato il consumo di grassi omega-3, di cui è ricco il pesce, a migliore qualità del sonno e miglioramento dei disturbi anti-sociali.

I ricercatori americani in questo studio hanno voluto vedere se in qualche modo il pesce – proprio perché ricco di omega-3 – potesse rappresentare un fattore nutrizionale chiave per migliorare sonno e capacità cognitive del bambino.

La ricerca ha coinvolto 541 bambini di 9-11 anni in Cina, il 54% dei quali maschi. I bambini hanno compilato questionari alimentari per valutare la frequenza di consumo del pesce. I piccoli dovevano dire quante volte mangiassero il pesce, da circa una volta a settimana a mai o quasi mai. I rispettivi genitori nel frattempo hanno compilato un altro questionario, sulla qualità del sonno dei loro bambini, rispondendo a domande su durata del sonno, frequenza dei risvegli notturni, sonnolenza diurna. Infine i bambini sono stati sottoposti a un test classico per misurare il quoziente intellettivo.

Ciò che è emerso, è che i bimbi che dichiaravano di mangiare pesce almeno una volta a settimana (a parità di altri fattori influenti quali condizioni socioeconomiche della famiglia e livello di istruzione dei genitori) dormivano meglio e avevano in media 4,9 punti in più di quoziente intellettivo rispetto ai coetanei che non consumavano quasi mai il pesce.

Secondo i ricercatori il nesso tra consumo di pesce e intelligenza passa proprio per gli effetti positivi esercitati dal consumo di questo alimento sul sonno che contribuirebbe, quindi, (attraverso il suo contenuto in omega-3) a un migliore sviluppo cognitivo.

 

Miglioramento delle abilità cognitive: la rivalsa dei videogiochi d’azione

Una nuova ricerca effettuata a livello internazionale mostra che alcuni videogiochi, in particolare i videogiochi d’azione, influenzano le abilità cognitive come la percezione, l’attenzione e i tempi di reazione.

 

La scoperta deriva da un’analisi di oltre 15 anni di dati raccolti da un team di psicologi, guidati dall’università di Ginevra (UNIGE), in Svizzera. Gli esperti spiegano che il cervello umano è malleabile: apprende e si adatta. Numerosi studi di ricerca si sono focalizzati sull’impatto dei videogiochi d’azione sul cervello misurando le abilità cognitive ma, nella nuova ricerca, i ricercatori hanno cercato di quantificare come i videogiochi d’azione abbiano un impatto cognitivo.

La valutazione ha portato a due meta-analisi, pubblicate nel giornale Psychological Bulletin, attraverso le quali è emerso un significativo miglioramento nelle abilità cognitive dei giocatori.

Gli psicologi hanno studiato l’impatto dei videogiochi sulla mente umana in dati risalenti alla agli anni ’80, quando Pacman fu creato e molti altri giochi si diffusero.

I videogiochi d’azione influenzano le abilità cognitive dei giocatori?

Il presente studio si focalizza su uno specifico genere di videogioco, definito d’azione che comprende videogames da guerra, da combattimento, lotta in arena, sparatoria e corse di macchine.

I ricercatori hanno cercato di rispondere a una domanda centrale all’interno della ricerca:

I videogiochi d’azione influenzano le abilità cognitive dei giocatori? […] Abbiamo deciso di assemblare tutti i dati rilevanti dal 2000 al 2015 nel tentativo di rispondere a questa domanda, in quanto era l’unico modo per avere una visione d’insieme del reale impatto dei videogiochi d’azione – dichiara la il ricercatore Bavelier, professore alla sezione di Psicologia all’UNIGE.

Gli psicologi dell’UNIGE, della Columbia University, Università della California e dell’Università del Wisconsin hanno analizzato la letteratura pubblica nel corso di un anno (articoli, tesi e abstract di conferenze). Inoltre, gli studiosi hanno contattato oltre 60 professori, chiedendo loro per dei dati non pubblicati che potrebbero apportare dei chiarimenti sul ruolo dei videogiochi d’azione nelle abilità cognitive. Due meta-analisi sono emerse dalla ricerca.

Nella prima meta-analisi sì è evidenziato che un totale di 8,970 individui compresi tra un’età di 6 anni a una di 40, comprendendo giocatori d’azione e non giocatori, hanno effettuato numerosi test psicometrici in studi condotti da laboratori di tutto il mondo allo scopo di valutare le loro capacità cognitive. L’assessment includeva l’attenzione spaziale (ad esempio individuare velocemente un cane in un insieme di animali) così come valutare le loro skills nel gestire simultaneamente task multipli e il cambio dei loro piani in accordo con regole predeterminate. E’ stato trovato che la cognizione dei giocatori d’azione era migliore di metà di una deviazione standard rispetto ai non giocatori.

Ad ogni modo, questa prima meta-analisi non è riuscita a rispondere alla domanda centrale.

Era necessario individuare il profilo tipico del giocatore – sottolinea Benoit Bediou, ricercatore della sezione di psicologia. – Giocano ai videogiochi d’azione perché hanno già alcune abilità cognitive che li rendono buoni giocatori? Oppure, al contrario, sono le loro alte capacità cognitive che si sono effettivamente sviluppate giocando ai videogiochi?

Gli psicologi hanno proceduto ad analizzare gli studi di intervento come parte di una seconda meta-analisi che comprendeva 2,883 (maschi e femmine) giocatori per un massimo di un’ora a settimana, le cui abilità cognitive erano testate prima del training e successivamente gli stessi erano divisi in due gruppi in maniera random: un primo gruppo giocava ai videogiochi d’azione (war e shooting), il secondo ai giochi di ruolo o di altro genere (SIMS, Puzzle, Tetris). Entrambi i gruppi accumulavano almeno otto ore di gioco per una settimana e almeno un tot di ore superiore alle 50 ore per 12 settimane. Alla fine del training, i partecipanti venivano sottoposti a un ulteriore un test cognitivo per verificare se ci fossero stati effettivi cambiamenti nelle loro abilità cognitive.

L’obiettivo era scoprire se gli effetti del videogioco d’azione sul cervello era casuale o meno […] Ecco perché questi studi di intervento confrontano e contrappongono sempre un gruppo che è spinto a giocare a un gioco d’azione con uno spinto a giocare a un videogioco di ruolo, in cui i meccanismi sono molto diversi. Questo gruppo di controllo assicura che gli effetti risultanti dal gioco d’azione derivino davvero dalla natura di questo tipo di gioco.

I risultati erano fuori discussione: gli individui che giocavano ai videogiochi d’azione aumentavano le loro abilità cognitive più di quelli che giocavano ad altri tipi di giochi. La differenza delle abilità cognitive tra questi due gruppi di allenamento era uguale a un terzo di una deviazione standard.

La ricerca, che è stata condotta in diversi anni in tutto il mondo, dimostra i reali effetti dei videogiochi d’azione sul cervello e apre la strada all’utilizzo di videogiochi d’azione per espandere le capacità cognitive – sottolinea Bediou.

Nonostante le buone notizie per i giocatori accaniti, vale la pena sottolineare che questi effetti benefici sono stati osservati in studi che chiedevano agli individui di spendere del tempo per un gioco per un periodo di molte settimane o mesi piuttosto che impegnarsi in una grande quantità di giochi in una singola seduta. I ricercatori spiegano che, come è vero in qualsiasi attività di apprendimento, brevi periodi di pratica ripetuta adeguatamente sono preferiti rispetto agli episodi saltuari o ossessivi.

The place (2017): riflessioni sul film – Cinema e Psicologia

The Place: Un uomo seduto a un bar, sempre allo stesso posto; intorno a lui, una ruota di persone in attesa, tutte con dei desideri da realizzare, con qualcosa da recuperare o da conquistare, che si alternano, in evidente ansia o determinazione, a quel tavolo. Donne e uomini disposti a qualunque cosa pur di ottenere quel che il loro cuore desidera, per sé o per i propri cari. Il nuovo film di Paolo Genovese, The Place, già dalle prime scene appare denso di enigmi, carico di domande a cui l’uomo comune stenterebbe a dare una risposta decisa, convinta, senza ripensamenti.

 

Riflessioni psicanalitiche sul film The Place

“Cosa siete disposti a fare per ottenere ciò che volete? Io vi dico quello che dovete fare e, se lo porterete a termine, otterrete quello che desiderate” è la cantilena dell’uomo seduto che, come l’Es di freudiana memoria, contiene, giustifica ed esalta l’Eros di quella molteplicità di storie e personaggi (la donna che progetta di ottenere un bacio all’insegna del tradimento per far ingelosire il proprio uomo e far rinascere la passione scemata, l’uomo che vuole possedere una donna da copertina solo per una notte, la donna che si vede brutta ed è disposta a compiere una rapina a danno di una cara amica per pagare la costosissima operazione chirurgica che le cambierà la vita, la donna a cui viene chiesto di fabbricare una bomba da far esplodere in un luogo pubblico per far guarire il marito dall’Alzheimer), raffigurando nel contempo le richieste brutali e sanguinarie del Thanatos, chiamato all’appello come garanzia di appagamento per quell’Eros frustrato.

Serbatoio di amore e morte, quell’uomo seduto allo stesso posto, che ascolta pazientemente i dettagli più macabri, senza mai scomporsi “come uno psicologo che vuole creare un ambiente amichevole” e registra giornalmente i progressi nella realizzazione di ciascun desiderio, testimoniando le tappe di un dialogo diabolico tra desiderio cieco di possesso o rivincita e limite morale.

E qui riecheggia nitidamente l’Ombra cara a Jung, proiettata sull’uomo seduto, di cui nulla è dato di sapere della storia personale, proprio come la forma indistinta e anonima di un male dalle sembianze insospettabili, innocue e perciò stesso pericolosissimo.
Perché, se forse non tutti saranno disposti a fare ciò che la grande agenda da cui l’uomo dispensa le prove e i premi dispone per ciascuno (compito maledetto in cambio della realizzazione del desiderio bramato) tutti sono disposti a puntare il dito sulla malvagità inaccettabile di quell’uomo sapiente, magico, “che sa quello che chiede” eppure “che chiede cose così orrende”.

Ecco però che l’Ombra, proiettata su uno sconosciuto e colpevolizzata delle peggiori mostruosità, replica alle accuse, chiarendo subito “Chiedo queste cose solo perché c’è chi è disposto a farle; tu hai ucciso per te, non per me” riportando l’attenzione sulla dualità intrinseca del bene e del male che appartiene alla natura umana, e sulla partecipazione del soggetto alla scelta del male.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

C’è qualcosa di terribile in noi. Non sempre siamo liberi di scegliere” qualcuno riconoscerà infatti a un certo punto dando avvio ad alcuni interrogativi che si snodano per tutta la durata del film: che ruolo ha l’Io freudiano e il censore Super Io nell’inibire l’espressione indiscriminata del male in nome di un bene egoistico? E’ davvero l’Io impotente, schiavo, di fronte all’urgenza dei desideri, cedevole in nome di essi nel sacrificare elementi quali la civiltà, il buon senso e l’altruismo, e il Super Io del tutto inefficace a regolare il narcisismo insito in certe scelte personalistiche? Si può ancora parlare di libertà come svincolo da un destino di barbarie e violenze, come compromesso tra i propri e gli altrui diritti di godimento e sicurezza? Che ruolo ha la profezia che si autoavvera di Merton nel determinare l’ineluttabilità di un destino segnato dalla strage, causato nient’altro che dalla (disperata?) assenza di soluzioni alternative al “male a fin di bene?”.

E’ possibile astenersi dal male?

E allora tutta la portata psicologica di The Place consiste a mio avviso nella soluzione a questi due interrogativi. E’ davvero possibile astenersi coscientemente dal male? Come equipaggiarsi di un Io robusto, cosciente del male attuabile e di cui deve rispondere in prima persona, e “custode di altre alternative possibili” in nome di una libertà che salva dall’“essere noi stessi il mostro che additiamo negli altri”? Quanto invece è inevitabile disconoscere l’Ombra, e quanto tale negazione/proiezione gioca un ruolo determinante nel deresponsabilizzare l’Io nella scelta di dire NO, in un nome di un destino (di comodo) fondato sul meccanismo psicologico della diffusione della responsabilità, che permette all’Es di travalicare le barriere della piena responsabilità morale?

Riuscirà insomma alla fine del film The place, la donna traditrice a riconquistare il proprio uomo macchiando il proprio amore di tradimento e sottraendo con l’inganno un altro uomo a una donna ignara? E l’uomo avido di sesso, dichiaratamente preferito alla costruzione di una famiglia che non saprebbe gestire, riuscirà a trascorrere una notte di passione senza freni, anche se sarà messa a repentaglio la vita di una bambina? Ancora ce la farà la donna che si crede poco avvenente a derubare una cara amica pur di raggiungere il suo scopo? E la povera moglie che farebbe di tutto per restituire la salute al marito malato cederà al mostro interiore che le indica la via della strage di poveri innocenti quale soluzione al dolore che la attanaglia e che la renderà “non più lei?”.

Tutti allora al cinema per un finale che riserva (forse) sorprendenti alternative!

Attraverso 50 anni di psicologia italiana di Cesare Cornoldi (2017) – Recensione

Cesare Cornoldi racconta 50 anni di psicologia italiana nel volume intitolato a se stesso e pubblicato da Erickson quest’anno. Attraverso 50 anni di psicologia italiana è un racconto che genera curiosità e che mostra con chiarezza come la psicologia, da che era una sorta di specializzazione della filosofia e della sociologia, si sia emancipata passando per lo stadio della psicoanalisi freudiana per poi approdare alla psicologia scientifica, comportamentale e poi cognitiva.

 

La biografia di Cesare Cornoldi in ” Attraverso 50 anni di psicologia italiana “

Seguiamo Cesare Cornoldi nei suoi studi e lo vediamo incrociare vari momenti significativi della storia d’Italia e molti dei futuri maestri della psicologia italiana.

Nato e cresciuto a Padova, già al Liceo incontra il coetaneo Ezio Sanavio, il futuro importante esponente della psicologia cognitiva clinica italiana, al giornalino studentesco. Dopo la maturità si iscrive a sociologia a Trento, lì dove sarebbe scoppiato dopo pochi mesi il ’68 italiano. A Trento assiste a qualche lezione di uno dei primi psicologi italiani, Fabio Metelli. Tuttavia, deluso dalla sociologia, in poche lezioni Cornoldi passa subito a filosofia a Padova. Nel corso di filosofia s’imbatte nel trattato di psicoanalisi di Cesare Musatti e, attraverso lui, familiarizza con Freud e i primi rudimenti in psicologia.

L’interesse di Cesare Cornoldi per la psicologia comportamentale e cognitiva raccontato in Attraverso 50 anni di psicologia italiana

Dopo la laurea entra nella scuola di specializzazione in psicologia di Milano, dove incontra Cesare Musatti in persona tra i docenti. La psicoanalisi, però, lo convince sempre di meno, e passa alla psicologia comportamentale e poi cognitiva, incontrando altre figure storiche, come Marcello Cesa-Bianchi maestro di metodologia, Paolo Bozzi psicologo della Gestalt ed Ettore Caracciolo che introduce il comportamentismo in Italia e polemizza appassionatamente con la psicoanalisi. Incrocia anche Mario Capanna in una manifestazione studentesca. È curioso anche apprendere che negli anni milanesi era suo coinquilino quell’Ezio Sanavio, suo amico fin dai tempi del Liceo a Padova.

La passione per gli studi sull’apprendimento

Dopo la specializzazione Cornoldi torna a Padova con una borsa e inizia a collaborare con Giuseppe Mosconi –già incontrato nel corso a Milano- fondatore della psicologia del pensiero in Italia. Cornoldi inizia allora ad appassionarsi di apprendimento, che sarà la sua linea di ricerca di una vita. Gli anni passano e progredisce la carriera accademica di Cornoldi fino alla cattedra, sempre a Padova. Prosegue anche il racconto con altri incontri con importanti figure della psicologia italiana, come ad esempio Paolo Legrenzi e Guido Petter e altri ancora. A ognuno di questi personaggi storici il libro dedica delle vignette concise e informative.

La storia prosegue con i successivi studi di Cornoldi, la sua partecipazione all’importazione della rivoluzione cognitiva in Italia, i suoi studi sull’apprendimento dapprima da un punto di vista cognitivo e poi, più recentemente, metacognitivo (è questa la parte più istruttiva del libro) e i suoi incontri con personaggi importanti sia in Italia che all’estero e che qui è inutile elencare. Li troverete tutti nel libro, descritti in rapidi bozzetti e in piccoli episodi di vita vissuta.

La corteccia somatosensoriale – Introduzione alla Psicologia

La corteccia somatosensoriale, nota anche come area S1, è posizionata nel lobo parietale del cervello ed è imputata alla ricezione degli stimoli sensoriali. Ogni area sensoriale possiede una mappa somatotopica chiamata homunculus sensoriale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ homunculus della corteccia somatosensoriale primaria consiste in una rappresentazione non proporzionata del corpo umano, a esempio la bocca e le dita sono grandi, poiché ci sono molti neuroni sensibili a queste parti del corpo imputati alla ricezione degli stimoli provenienti da esse, mentre il tronco e gli arti sono piccole, poiché esistono meno neuroni adibiti alla sensibilità di queste parti. Le dimensioni della corteccia correlata ad un’area del corpo sono direttamente proporzionali alla densità delle proiezioni sensoriali afferenti e all’importanza degli impulsi sensoriali ricevuti da quella specifica zona del corpo.

L’ area somatosensoriale primaria è situata nella corteccia telencefalica, posteriormente alla scissura centrale, o di Rolando, e si estende nel lobo parietale fino all’altezza della scissura di Silvio. La corteccia somatosensoriale primaria corrisponde all’area 3b di Brodmann e occupa il giro postcentrale. Essa confina anche con l’ area motoria primaria, posteriormente con le aree sensitive secondarie ed associative del lobo parietale e temporale. Le altre aree che elaborano le informazioni somatosensoriali sono le aree 3a, 1 e 2 nel giro postcentrale e le aree 5 e 7 nella corteccia parietale posteriore.

Le aree 3a e 3b ricevono la maggior parte delle informazioni sensoriali che, successivamente, sono inviate, attraverso i neuroni cortico-corticali, alle aree 1 e 2 e alle aree motorie.

Dettagliatamente, l’area 3A riceve informazioni di tipo propriocettivo dai fusi neuromuscolari e dagli organi tendinei del Golgi. Le informazioni propriocettive comprendono lo stato di tensione delle articolazioni e informano il cervello della posizione occupata dal corpo nello spazio. L’area 3a proietta anche all’area motoria primaria (area 4) per integrare le informazioni relative alla volontà del movimento con quelle della propriocezione. L’area 3b, invece, riceve informazioni somatosensoriali relative al tatto, fine e grossolano, temperatura, dolore, pressione ecc., ed invia fibre efferenti all’area 1, riguardanti la tessitura degli oggetti, liscio o ruvido, e all’area 2 riguardante forma e dimensione.

Gli strati cellulari e le cellule della corteccia somatosensoriale

La corteccia somatosensoriale, esattamente come le altre aree, è formata da sei strati di cellule. Quindi, la maggior parte delle fibre afferenti proiettano al IV strato cellulare, costituito dai granuli interni, della corteccia somatosensoriale. Nell’area 3, invece, il III strato è più spesso rispetto agli altri per la presenza dello strato piramidale interno e per numerose fibre efferenti alle altre aree della corteccia.

In periferia, l’informazione sensoriale è recepita dai neuroni di primo ordine che la trasportano fino all’interno del midollo osseo. Il soma dei neuroni di primo ordine è presente al livello del ganglio, mentre all’interno del midollo avviene una sinapsi con i neuroni di secondo ordine che fuoriescono dalla sostanza grigia in formazioni, definite fasci che, unendosi, formano le colonne dorsali, che decussano e ascendono direttamente a livello del talamo, trasportando informazioni sensoriali.

I neuroni di secondo ordine, della via della colonna dorsale, ricevono sinapsi a livello del nucleo gracile e del nucleo cuneato, ambedue presenti nel midollo. Da qui, immediatamente, decussano, e si spostano controlateralmente rispetto alla colonna dorsale. A seguito della decussazione, la via prende il nome di lemnisco mediale. Il neurone di secondo ordine, giunto nel talamo, fa sinapsi con il neurone di terzo ordine, a livello di specifiche aree talamiche definite nuclei, che innervano direttamente la corteccia somatosensoriale.

Unità sensoriali, campi recettivi e fascicoli

Una unità sensoriale è costituita dall’insieme dei recettori sensoriali e dal suo neurone afferente che trasporta le informazioni ascendenti. Un campo recettivo, invece, è costituito da una regione circoscritta dai recettori di una unità sensoriale. Tanto più grandi sono i campi recettivi, tanto minore è la sensibilità specifica della zona; ad esempio la zona del viso è molto sensibile poiché possiede un buon numero di campi recettivi.
L’inibizione laterale determina la prevalenza di uno stimolo forte, rispetto ad altri deboli applicati a zone che possiedono più campi recettivi in comune. In questo modo, l’organismo, è informato dello stimolo in modo più preciso giacché i campi laterali poco sollecitati sono silenziati. L’inibizione si realizza grazie ad una collaterale del neurone primario che fa sinapsi con un interneurone inibitorio il quale, a sua volta, esercita la sua azione inibendo la trasmissione sinaptica tra un neurone primario adiacente e uno secondario.

Il fascicolo gracile riceve e trasporta le informazioni di natura epicritica, ovvero finemente localizzata, relative alla pressione, alla propriocezione e agli stimoli meccanici in generale. L’area di copertura del fascicolo gracile è molto vasta, giacché riceve stimoli degli arti inferiori fino all’addome.

Il fascicolo cuneato, invece, al pari del gracile, riceve informazioni epicritiche e di natura meccanica dall’addome trasportandoli fino agli arti superiori.

Le funzioni e le diverse vie della corteccia somatosensoriale

Le principali funzioni svolte dell’area S1 sono: la localizzazione dello stimolo periferico, la valutazione dell’intensità dello stimolo, la propriocettività e il riconoscimento della forma degli oggetti

Inoltre, le vie somatosensoriali trasferiscono l’informazione sensoriale dagli arti alla corteccia somatosensoriale. Il sistema di trasporto prevede un iniziale recettore sensoriale, che può appartenere alla classe dei nocicettori, dei termorecettori o dei meccanorecettori, che trasferisce una serie di potenziali d’azione fino alla corteccia.

Le differenti vie, divergono per il tipo di stimolo trasportato, per lo spessore delle fibre, per la diversa velocità e per il messaggero utilizzato a livello delle sinapsi.

Gran parte degli stimoli sensoriali periferici giungono nell’area S1 attraverso i sistemi lemnisco mediale e anterolaterale.

La via della colonna dorsale, che diventa del lemnisco mediale, è una fondamentale via sensoriale che trasporta informazioni localizzate, derivanti da stimoli di natura meccanica. Le fibre della colonna dorsale sono definite, in base alla dimensione, spesse e conducono velocemente l’impulso nervoso. Il mediatore chimico utilizzato per codificare l’impulso è il glutammato.

Vie anterolaterali o spinotalamiche

Le vie anterolaterali o spinotalamiche trasportano informazioni recepite dai nocicettori, o recettori del dolore e altri stimoli derivanti dal tatto. A differenza della via della colonna dorsale, la qualità delle informazioni è definita protopatica poiché la definizione delle stesse non è accurata e dettagliata. Esattamente come per la via della colonna dorsale, l’informazione nervosa decussa. Pertanto l’informazione sensoriale sarà elaborata dalla corteccia destra e viceversa. Il mediatore chimico, a livello delle sinapsi, è di natura peptidica e prende il nome di sostanza P.

La via anterolaterale può essere inibita a livello della sinapsi tra neurone di primo e neurone di secondo ordine. Dai centri di controllo superiori, provenienti dal sistema nervoso centrale, possono discendere dei neuroni primari che, a loro volta, fanno sinapsi con un interneurone inibitorio. L’interneurone inibitorio blocca la liberazione di sostanza P, mediante un rilascio di encefalina, che è un potente inibitore del rilascio del peptide a livello sinaptico.

Dolore localizzato e dolore riferito

Gli stimoli percepiti dai nocicettori di alcuni organi interni, a esempio il cuore, possono convergere sulle vie del dolore che trasportano le informazioni provenienti dalla cute. Il dolore, però, può assumere due diverse connotazioni. Esso può essere localizzato o riflesso e rappresenta il dolore reale relativo un distretto anatomico specifico, ad esempio la mano o la coscia; mentre si definisce riferito quando si traduce da un organo interno a un altro distretto del corpo.

In caso di amputazione di un dito, o di un arto in generale, si è visto che la corteccia adibita al dito amputato risponde comunque alla stimolazione delle dita vicine. Queste sensazioni che provengono dall’arto mancante è definita dell’arto fantasma. Il fenomeno dell’arto fantasma si verifica perché nella corteccia sopravvive la rappresentazione dell’arto deafferentato, nonostante l’amputazione di un arto induce cambiamenti plastici nella corteccia adiacente a quella addetta all’arto mancante portando al verificarsi del fenomeno dell’invasione.

La sensazione dell’arto fantasma è una consapevolezza non dolorosa dell’arto amputato, talvolta accompagnata da lievi parestesie, sensazione di formicolio, bruciore, etc. La maggior parte degli amputati avverte questa sensazione per mesi o anni, ma essa di solito scompare senza trattamento; in altri soggetti perdura il dolore, dovuto al mal riorganizzazione del sistema deafferentato che ha quindi attività anomala.

La sensazione dell’arto fantasma non è pericolosa; tuttavia gli amputati, senza pensarci, spesso tentano di alzarsi con entrambe le gambe e cadono, soprattutto quando si svegliano durante la notte. Il dolore dell’arto fantasma si verifica più frequentemente se il paziente presenta una condizione dolorosa prima dell’amputazione o se il dolore non è stato adeguatamente controllato.

Vari trattamenti, come gli esercizi simultanei dell’arto amputato e di quello controlaterale, il massaggio del moncone, la percussione del moncone con le dita, l’uso di vibrazioni e gli ultrasuoni sono utili, come anche alcuni farmaci tipo gli antidepressivi triciclici e la carbamazepina.

Il lobo parietale

Il lobo parietale posteriore che ospita l’area S1 è un’area associativa, in cui flussi semplici e separati di informazioni sensoriali convergono per generare rappresentazioni neurali particolarmente complesse. I suoi neuroni hanno ampi campi percettivi i cui stimoli preferenziali sono difficili da caratterizzare, poiché complessi. Questa area è correlata non solo alla sensazione somatica, ma anche agli stimoli visivi e alla pianificazione del movimento.

Un danno alle aree parietali posteriori può generare particolari disordini neurologici. Ricordiamo l’agnosia, cioè l’incapacità di riconoscere gli oggetti anche se le capacità sensoriali di base appaiono normali. I soggetti che soffrono di stereoagnosia o agnosia tattile non riescono a riconoscere al tatto oggetti comuni anche se il loro senso del tatto è normale, nonostante non abbiano problemi a riconoscere l’oggetto con la vista o con l’udito. I deficit di solito sono limitati alla parte controlaterale rispetto alla sede del danno ed è dovuta principalmente a lesioni parietali postcentrali e parietali posteriori. Inoltre, lesioni della corteccia parietale possono anche causare la sindrome di negligenza spaziale o del neglect, nella quale una parte del corpo o del mondo è ignorata o soppressa, al punto di negarne l’esistenza.

In generale la corteccia parietale posteriore sembra essenziale per la percezione ed interpretazione delle relazioni spaziali, per un’esatta rappresentazione del proprio corpo e per l’apprendimento delle funzioni coinvolte nella coordinazione del corpo nello spazio. Ciò richiede una complessa integrazione delle informazioni somatosensoriali con quelle di altri sistemi, in particolare del sistema visivo.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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