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Disturbo di ansia sociale: dalla diagnosi al trattamento – A Palermo un seminario di studi

Paura intensa del giudizio altrui nelle situazioni sociali, con conseguente evitamento della maggior parte delle comuni attività sociali (parlare in pubblico, esprimere la propria opinione in gruppo) e compromissione globale del funzionamento della persona: questi i tratti caratteristici del Disturbo di ansia sociale, oggetto del seminario che si è tenuto a Palermo lo scorso 30 Novembre presso l’Istituto Gabriele Buccola (IGB), Scuola di Psicoterapia Cognitiva.

 

Il disturbo di ansia sociale: il continuum dalla timidezza al disturbo evitante di personalità

Un evento denso di contenuti, che ha approfondito gli aspetti nosografici, etiopatogenetici e terapeutici di un disturbo a esordio precoce, decorso cronico e con frequenti associazioni con una varietà di disturbi come la depressione e l’abuso di sostanze.

Il disturbo di ansia sociale si pone lungo un continuum ingravescente che parte dalla timidezza come tratto normale di personalità fino al Disturbo Evitante di personalità – spiega Andrea Gragnani, psicologo psicoterapeuta a Roma, Docente IGB e fondatore dell’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo Compulsivo (AIDOC) – Mi voglio qui riferire in particolare alla timidezza patologica come paura eccessiva dell’estraneo che può considerarsi un precursore del Disturbo di ansia sociale se non riconosciuta in tempo”.

Riguardo alla diagnosi differenziale con il Disturbo Evitante di Personalità (DevP) – continua il docente – appare necessaria una corretta distinzione dei due disturbi. Nel disturbo evitante le prime difficoltà sociali sembrano legate più che all’ansia e a esperienze di alienazione dal mondo, con esordio intorno alla prima infanzia, laddove nel Disturbo di ansia sociale l’esordio delle prime difficoltà sociali avviene intorno ai 13 anni”.

Le credenze alla base del disturbo di ansia sociale

Qual è allora, da una prospettiva strettamente cognitiva, il nucleo centrale delle credenze intorno alle quali il Disturbo di ansia sociale si costruisce e mantiene?

La caratteristica centrale del Disturbo di ansia sociale è il timore di manifestare sintomi di ansia, imbarazzo e vergogna che saranno valutati inevitabilmente dagli altri come incapacità o debolezza di carattere, il che può avere un risvolto pratico in occasioni specifiche, come un colloquio di lavoro. Il giudizio degli altri è cruciale nello sviluppo dell’ansia, in quanto esso è il metro della propria autostima. Insomma, l’obiettivo del soggetto è fare bella figura, uno scopo che l’individuo sente minacciato dall’ansia che si presenterà immancabilmente se egli metterà in atto il comportamento problematico, come parlare in pubblico”.

Ansia e vergogna, due cardini del disturbo, a cui si associa un ulteriore aspetto problematico, noto come matavergogna.

La vergogna, insieme all’ansia, segnala all’esterno la consapevolezza del soggetto delle proprie incapacità e debolezze di carattere, del suo essere estremamente dipendente dal giudizio degli altri, che lo ritengono “non in grado di”, da cui il passaggio successivo alla metavergogna, ovvero al provare vergogna della propria vergogna, con un’esplosione vegetativa di tachicardia, tremore, rossore, malessere gastrointestinale, contrazioni muscolari, attivamente evitati con l’uso massiccio dell’evitamento”.

Un problema invalidante che getta le sue radici in fattori di ordine interno ed esterno; nel primo caso, si ricorda il temperamento timido come fattore di rischio per lo sviluppo del Disturbo di ansia sociale e uno stile cognitivo che attribuisce elevato valore al giudizio negativo degli altri, mentre tra i fattori esterni notevole influenza hanno le problematiche familiari a carattere psicopatologico e uno stile educativo improntato all’utilizzo della vergogna.

Un disturbo che comporta notevoli costi sociali, economici e individuali, resistente alla diagnosi e perciò spesso trattato tardivamente.
I pazienti con Disturbo di ansia sociale chiedono raramente aiuto per paura del giudizio altrui, incluso il clinico, e se lo fanno in media saranno passati dieci o quindici anni dall’esordio della malattia – precisa Gragnani – Ecco che la terapia si pone l’obiettivo di modificare la rappresentazione interna di vulnerabilità del soggetto attraverso una ristrutturazione cognitiva dei pensieri ansiogeni (essere scemo, fare una brutta figura) e la loro sostituzione con pensieri più funzionali. Accanto alle strategie più propriamente cognitive si affiancano strategie di tipo comportamentale, quali l’esposizione graduale alle situazioni temute, la conseguente disattivazione dell’evitamento esperienziale quale comportamento protettivo, e l’addestramento al padroneggiamento di abilità relative al contatto oculare, alla voce e alla postura. E’ poi utile abbinare training di rilassamento e respirazione per controllare i sintomi fisici dell’ansia e addestrare il soggetto a sviluppare migliori abilità sociali attraverso role-playing e training specifici svolti in gruppo, anche in vista della gestione delle ricadute nel tempo del disturbo”.

Christmas Blues: affrontare la “malinconia di Natale”

Il “Christmas blues“, o depressione Natalizia, è più frequente di quanto forse si creda. Paradossale, eppure, circondati da luci sfavillanti ed alberelli colorati, a molti capita di sentirsi profondamente tristi.

 

Depressione natalizia: differenze col disturbo affettivo stagionale

Una tristezza, quella da Christmas Blues, che va necessariamente distinta dal disturbo affettivo stagionale, descritto dal DSM5 come “Disturbo depressivo maggiore, ricorrente, con andamento stagionale”. Il DAS riguarda episodi depressivi importanti, aventi esordio stagionale (solitamente in autunno/inverno); non collegabili ad altri fattori stressanti (es. disoccupazione stagionale); con remissioni che avvengono tipicamente in un periodo dell’anno (frequentemente la primavera).

A differenza del disturbo stagionale, il Christmas bluesdepressione natalizia è direttamente collegata al periodo festivo: un vero e proprio “tour de force” di convenzioni sociali e festeggiamenti “obbligati” che, per alcuni, porta con sé ansia, insonnia, crisi di pianto, pensieri negativi, anedonia.

Va detto che, di per sé, i festeggiamenti natalizi comportano una serie di potenziali stressors: frequenti riunioni familiari (che possono tra l’altro coinvolgere persone che ci sono più o meno gradite); liste di regali da individuare ed acquistare (ed eventuali difficoltà economiche); diminuzione degli impegni lavorativi/scolastici in favore del tempo trascorso in famiglia, con conseguente acutizzazione della sofferenza e del senso di solitudine in coloro che affrontano il dolore per una perdita recente (la morte di una persona cara, una separazione o una crisi nell’ambito affettivo-relazionale, un problema legato alla salute) o stanno attraversando un grande cambiamento (ad esempio un trasferimento, un pensionamento, la perdita del lavoro); l’abituale inclinazione a “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (e quindi insoddisfazione e dolore laddove si senta di non aver conseguito i traguardi prestabiliti).

I concomitanti cambiamenti stagionali, quali la diminuzione delle ore di luce e della produzione di Serotonina, possono ulteriormente incidere sullo stato di tristezza della Christmas blues influenzando: umore, ritmo sonno-veglia, sessualità, memoria e altri ambiti associati al nostro benessere.

Come affrontare, dunque, la malinconia del Christmas blues?

Rivolgendosi rapidamente ad un professionista, in tutti i casi nei quali lo si ritenga utile. La consultazione di un esperto può rivelarsi decisiva, in particolare quando la remissione dal Christmas blues non avviene in maniera spontanea e il disturbo da depressione natalizia assume forme ingravescenti o fortemente limitanti.

Può essere d’aiuto attivare qualche strategia di fronteggiamento, quali ad esempio le seguenti:

  1. Allentare la pressione indotta dalle aspettative, dalle convenzioni sociali e dallo stress delle “mille cose da fare”:
    • Organizzarsi per tempo, per non ritrovarsi coinvolti nell’estenuante “corsa ai regali” dell’ultimo minuto; acquistare con criterio, pianificando le spese e stabilendo in anticipo un budget massimo adeguato alle possibilità. Secondo alcuni ricercatori (Kasser e Sheldon), lo shopping natalizio può infatti essere fonte di stress, malessere ed insoddisfazione;
    • Partecipare agli eventi sociali nel rispetto dei nostri “limiti”, imparando a “dire di no” agli appuntamenti con persone che sappiamo ci provocheranno profondo malumore, e cercando di aumentare, invece, gli incontri gradevoli.
  2. Accogliere le proprie emozioni: il fatto che in un clima festoso ci si senta tristi o malinconici non significa che siamo “sbagliati” o che ci dobbiamo sforzare per uniformarci al contesto. Al contrario, ascoltare la nostra tristezza e cogliere il significato del nostro Christmas blues può essere per noi prezioso. Forzarsi di apparire gioiosi per sentirsi “adeguati” comporta infatti un aumento del livello di stress; confidare a persone fidate il proprio stato d’animo, parlare della propria depressione natalizia invece, ci permetterà di sperimentare la condivisione, di lenire il senso di solitudine e di sviluppare resilienza.
  3. Abituarsi a “lasciar andare” i pensieri ricorrenti, abbandonando il rimuginìo sul passato o sui problemi della vita: il pensiero ricorsivo non contribuisce a risolvere i problemi, non aiuta a prendere decisioni, non lenisce l’ansia. Li mantiene, al contrario, continuamente vividi e presenti, col risultato di un aumento dei livelli di ansia e di una riduzione delle abilità di problem solving.
  4. Rimanere agganciati al “qui ed ora”: intorno a noi ci sono cose, emozioni, persone, situazioni, delle quali non riusciamo a godere appieno, se naufraghiamo nei pensieri del passato (e di ciò che abbiamo perduto) o nelle ansie per il futuro (e di quel che potrebbe succedere);
  5. Godere delle ore di luce: una passeggiata di almeno un’ora all’aria aperta, se il clima lo permette, ha effetti positivi sul nostro benessere psicofisico e aiuta a contrastare gli effetti del Christmas blues (al contrario della visione di trasmissioni televisive natalizie, che rischiano di accrescere la malinconia e la depressione natalizia)
  6. Mantenere un contatto con la propria quotidianità: può essere d’aiuto per non lasciarsi travolgere dai ritmi e dagli impegni fagocitanti connessi al periodo, che creano una distanza notevole dalla vita di tutti i giorni (ruoli, attività, impegni lavorativi) e possono acuire il senso di solitudine e di estraneazione tipico del Christmas blues;
  7. Prendersi cura di sé: dedicare del tempo ad attività piacevoli, alla cura del proprio corpo, alla lettura o al cinema, ai propri hobbies. Anche facendosi un piccolo regalo, nei limiti delle proprie possibilità, anziché – magari – attenderlo.
  8. Nutrire la propria flessibilità, ridimensionando l’importanza del periodo natalizio e provando a vivere le Feste non come una imposizione, ma come una scelta, da compiersi in modo coerente con i propri valori.

Un romanzo per parlare dell’autonomia delle donne: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood

Il racconto dell’ancella è un romanzo distopico ambientato in una città di fantasia, collocata in Nord America, che si svolge in un tempo indefinito ma moderno. A seguito dell’inquinamento atmosferico e di numerose guerre, l’assetto sociale moderno che tutti noi conosciamo vive un momento di profonda crisi. La produzione di cibo non contaminato è estremamente difficoltosa e, soprattutto, le scorie radioattive hanno causato il dilagarsi del fenomeno della sterilità mettendo, così, a rischio la continuazione della specie umana.

 

La cronaca attuale delle molestie sessuali di uomini di potere

In questi ultimi giorni sta avendo grande rilevanza la cronaca delle tantissime denunce di molestie sessuali perpetuate da uomini di potere su donne, spesso, conosciute e frequentate sul posto di lavoro.
Ho letto con interesse gli interventi sull’argomento pubblicati su questa rivista del dottor Roberto Lorenzini e della dottoressa Sandra Sassaroli. L’intervento di Sandra, soprattutto nella sua citazione finale della sociologa Camille Paglia, mi ha fatto pensare al libro scritto da Margaret Atwood nel 1985 ed intitolato Il racconto dell’ancella.
La Sassaroli, concludendo il suo articolo, afferma:
“Nulla ci è regalato e occorre, come dice Camille Paglia, non dimenticare che la giustizia non è data, ma dipende da chi la difende in ciascun momento, e quindi da ciascuno di noi”.

Il racconto dell’ancella

Il racconto dell’ ancella è un romanzo distopico ambientato in una città di fantasia, collocata in Nord America, che si svolge in un tempo indefinito ma moderno. A seguito dell’inquinamento atmosferico e di numerose guerre, l’assetto sociale moderno che tutti noi conosciamo vive un momento di profonda crisi. La produzione di cibo non contaminato è estremamente difficoltosa e, soprattutto, le scorie radioattive hanno causato il dilagarsi del fenomeno della sterilità mettendo, così, a rischio la continuazione della specie umana.

In questo contesto avviene una rivoluzione civile al seguito della quale il potere andrà in mano ad una organizzazione chiamata Gallad che darà vita ad un regime totalitario e fortemente teocratico di ispirazione biblica.
Il corpo delle donne, la loro libertà di espressione, la loro identità, viene commissariata per il bene della società, per ristabilire un ordine e per scongiurare l’estinzione della specie.

Tutto nella Repubblica di Gallaad è prestabilito a priori dal regime: i ruoli sociali, la vita privata, l’istruzione. L’identità e la libertà personale sono annullate e la stabilità del regime è mantenuta con la violenza fisica. Ma sono comunque le donne a pagarne il prezzo maggiore.

In questo clima angosciante, che pervade il lettore pagina dopo pagina, la protagonista, Difred, è la voce narrante che ci accompagna nella scoperta del suo mondo sociale ed interiore.

A Galaad le donne sono divise in caste: le Mogli (date in sposa a uomini di potere), le Marte (domestiche nelle case dei potenti), le Zie (le istitutrici) e le Ancelle. Queste ultime sono le uniche donne ancora fertili. Sono state scelte dopo accurate selezioni mediche, istruite al silenzio ed alla sottomissione con la forza della violenza e delle minacce. Le ancelle vengono assegnate agli uomini potenti (chiamati comandanti) per permettere loro, nei giorni di fertilità, di avere rapporti sessuali ai fini riproduttivi.

Difred è un’ancella e svela gli orrori, i soprusi ma anche le piccole ribellioni di queste donne (che prima avevano una vita normale: con mariti, figli, compagni o compagne, hobby e soddisfazioni professionali).
Numerosi flash back lungo il romanzo fanno intuire come la Repubblica di Gallaad avrebbe potuto essere evitata se i segnali antecedenti alla guerra civile fossero stati colti e non sottovalutati.

Nel romanzo le donne devono rinunciare a loro stesse ma anche gli uomini devono rinunciare a loro.
In questa società non c’è più spazio per il confronto e lo scontro, la collaborazione, la scoperta e la curiosità. E in queste assenze gli uomini, seppur in una posizione privilegiata, conoscono la solitudine.
Difred non rappresenta solo un monito per le donne, per esortarle a non dare mai per scontati i propri diritti civili e umani. E’ anche un messaggio di speranza. Lungo il suo racconto, infatti, si percepisce sempre la sua vitalità e la sua determinazione a salvarsi.

Ho letto questo libro un po’ di tempo fa, scovato tra gli scaffali di una libreria milanese. Dopo averlo letto ho deciso di eleggerlo a strumento per la mia pratica terapeutica. Ai miei pazienti, sia uomini che donne, consiglio spesso questa lettura per stimolare in loro la riscoperta del concetto di “persona”, aldilà delle differenze di genere, e condurli verso una assunzione di responsabilità personale e sociale.

Da pochi mesi, da questo bellissimo libro, è stata tratta una fortunata serie televisiva dal titolo The Handmaid’s Tale (titolo in lingua originale del libro).

Come apprende il nostro cervello? Adesso lo spiega un algoritmo

In un recente studio pubblicato su eLife, Blake Richards, ricercatore all’Università di Toronto in Canada, insieme ad altri colleghi, hanno creato un algoritmo che utilizza neuroni artificiali multi-compartimento, i quali potrebbero aiutare a capire come la neocorteccia ottimizza i processi neurali.

 

Il campo di ricerca dell’intelligenza artificiale

Da sempre e in diversi modi, molti scienziati hanno sempre provato a comprendere come gli esseri umani apprendano, comprovando molte conoscenze nel campo neuroscientifico. Negli ultimi anni molta enfasi è data all’intelligenza artificiale (AI), campo di ricerca informatico e, ormai, anche neuroscientifico, come nuovo strumento di riproduzione e simulazione dei processi neurali. In tale contesto si trova il campo del deep learning, appartenente al machine learning, il quale a sua volta è una disciplina che costituisce il campo dell’IA.

Il deep learning (o letteralmente tradotto: apprendimento approfondito) consente di creare dei modelli di calcolo composti da più livelli di elaborazione per apprendere le rappresentazioni di dati con più livelli di astrazione. Questi metodi hanno notevolmente migliorato lo stato dell’arte nel riconoscimento vocale, riconoscimento di oggetti visivi, rilevamento di oggetti e molti altri domini come la scoperta di farmaci e la genomica. In profondità l’apprendimento scopre una struttura complessa in grandi set di dati usando l’algoritmo di backpropagation (o letteralmente tradotto: retropropagazione) per indicare come una macchina dovrebbe cambiare i parametri interni che vengono utilizzati per calcolare la rappresentazione in ogni livello dalla rappresentazione nel livello precedente (LeCun, Bengio & Hinton, 2015).

Un algoritmo che riproduce i processi neurali

In un recente studio pubblicato su eLife, Blake Richards, ricercatore all’Università di Toronto in Canada, insieme ad altri colleghi, hanno creato un algoritmo che utilizza neuroni artificiali multi-compartimento, i quali potrebbero aiutare a capire come la neocorteccia ottimizza i processi neurali.

Questa idea di ricerca risale a diversi anni addietro quando pioneri dell’intelligenza artificiale come Geoffrey Hinton, fondatore del programma Learning in Machines & Brains cercarono, non solo di approfondire il campo dell’intelligenza artificiale, ma anche di capire come il cervello umano impara” dice il ricercatore Richards.

Nel 2000, Richards e Lillicrap, ricercatore presso DeepMind di Google, erano convinti che attraverso algoritmi basati sul deep learning si potesse individuare e ricreare qualcosa di realistico basato su come il cervello umano lavora; inoltre, a quel tempo, c’erano importanti sfide per testare l’idea e non era chiaro se il deep learning potesse raggiungere gli stessi livelli delle skills umane.

Attualmente, Richards e un numero di ricercatori stanno cercando un ponte che possa risolvere il gap tra le neuroscienze e l’AI. Questo lavoro si basa su recenti studi effettuati nel laboratorio di Yoshua Bengio, uno dei guru del “deep learning”, e su un algoritmo sviluppato da Lillicrap (2016) che non segue rigidamente alcune delle regole per la formazione delle reti neurali e per individuare un modo più biologicamente plausibile per addestrarle.

Combinando le intuizioni neurologiche con gli algoritmi esistenti, il team di Richards è stato in grado di creare un algoritmo migliore e più realistico per simulare come avviene l’apprendimento nel cervello.
Molti di questi neuroni sono modellati ad albero, con radici in profondità nel cervello e rami vicini alla superficie. Ciò che è interessante è che queste radici ricevono un insieme diverso di input rispetto ai rami che si trovano in cima all’albero” sostiene Richards.

Usando questa conoscenza sulla struttura dei neuroni, Richards e i suoi collaboratori hanno costruito un modello che riceve segnali in compartimenti segregati. Queste sezioni permettono di simulare i neuroni in differenti modelli per collaborare, raggiungendo il deep learning.

E’ soltanto una serie di simulazioni che ci potrebbe dire esattamente cosa sta facendo il nostro cervello, ma suggerisce abbastanza da giustificare un ulteriore esame sperimentale se il nostro cervello può usare lo stesso tipo di algoritmi che usano nell’intelligenza artificiale” continua Richards.

In altri termini, i neuroni di tale modello ricevono informazioni sensoriali e feedback di ordine superiore in compartimenti separati elettronicamente, come avviene per i neuroni piramidali neocorticali responsabili del pensiero di ordine superiore.
Inoltre, il lavoro mostra che certi neuroni dei mammiferi hanno la forma e le proprietà elettriche che sono adattabili per il deep learning e rappresenta attualmente il modo più biologicamente realistico di come il cervello reale potrebbe effettuare il deep learning.

I neuroni neocorticali ad albero sono solo uno dei molti tipi di cellule nel cervello e la ricerca futura dovrebbe modellare diverse cellule cerebrali ed esaminare come potrebbero interagire insieme per raggiungere un “apprendimento profondo”.

Se confermato, il legame tra forma neuronale e il deep learning potrebbe aiutarci a sviluppare migliori interfacce cervello-computer, permettendo alle persone di usare la loro attività cerebrale per controllare dispositivi come arti artificiali. Nonostante i progressi nell’informatica, siamo ancora superiori ai computer quando si tratta di apprendimento. Capire in che modo il nostro cervello mostra un apprendimento profondo potrebbe quindi aiutarci a sviluppare un’intelligenza artificiale migliore, più simile a quella umana in futuro” sostiene il neuroscienziato Richards.

Flusso sanguigno: alterato nel cervello dei neonati prematuri

Secondo un nuovo studio i neonati prematuri soffrono di un flusso sanguigno cerebrale alterato (CBF) nelle regioni chiave del cervello e ciò può contribuire all’insorgere delle complicazioni nella maturazione del cervello.

Lucia Marangia

 

Lo sviluppo del cervello fetale

Catherine Limperopoulos, PhD, autrice dello studio e Direttrice del Laboratorio Di Ricerca Di Sviluppo del Cervello al Sistema Nazionale della Salubrità dei Bambini, ha dimostrato che durante il terzo trimestre di gravidanza il cervello fetale subisce uno sprint di crescita rilevante. Durante questa fase, il flusso sanguigno cerebrale aumenta e fornisce l’ossigeno e i nutrienti, necessari per alimentare il normale sviluppo cerebrale e, di conseguenza, stimolare il processo di crescita.

La ricercatrice ha aggiunto che nel periodo di gravidanza a termine, queste strutture cerebrali critiche maturano all’interno dell’utero protettivo in cui il feto può sentire la madre e il suo battito cardiaco, che stimola un’ulteriore maturazione cerebrale. Per i bambini nati pre-termine, tuttavia, questo processo di maturazione essenziale avviene in ambienti spesso privati ​​di tali stimoli.

Il gruppo di ricerca ha utilizzato principalmente tecniche non invasive come il contrassegno e l’imaging a risonanza magnetica, che permette di tracciare il flusso di sangue nei cervelli degli infanti per dettagliare quali regioni ricevono i quantitativi sufficienti di sangue.

L’alterazione del flusso sanguigno nel cervello dei neonati prematuri

Nel seguente studio, i neonati nati pre-termine hanno mostrato un flusso cerebrale assoluto maggiore rispetto ai neonati nati a termine. All’interno delle regioni dell’insula (una regione critica predisposta ad avvertire emozione), della corteccia cingolata anteriore (una regione fondamentale nei processi cognitivi) e della corteccia uditiva (una regione coinvolta nell’elaborazione del suono) i neonati pre-termine hanno ricevuto un volume significativamente ridotto di sangue rispetto ai neonati nati a termine.

La ricerca ha incluso 98 infanti prematuri, nati fra Giugno 2012 e Dicembre 2015, con un peso inferiore ai 1.500 grammi. I neonati prematuri sono stati confrontati con 104 neonati nati a termine.

Bouyssi-Kobar, M.S., l’autore principale dello studio, ha affermato che, la continua maturazione del cervello del neonato può essere vista nel modello di distribuzione del flusso sanguigno cerebrale, con il maggior volume di sangue che viaggia verso il tronco cerebrale e la materia grigia profonda.
Grazie alla nitida risoluzione fornita dalle immagini ASL-MR, il seguente studio rileva che, oltre al tronco cerebrale e alla sostanza grigia profonda, l’insula e le aree del cervello responsabili delle funzioni sensoriali e motorie sono anche tra le regioni più ossigenate. Ciò evidenzia come lo sviluppo iniziale del cervello avvenga in queste regioni del cervello. Nei neonati pretermine, l’insula risulta essere particolarmente vulnerabile agli stress aggiuntivi della vita al di fuori del grembo materno.

Biblioterapia: quando letteratura e psicologia si incontrano

In ambito psicoterapeutico la biblioterapia si colloca all’interno della relazione terapeutica. Il libro diventa un luogo condiviso da paziente e terapeuta.

 

Che cos’è la biblioterapia

La Webster International nel 1961 ha definito la Biblioterapia come “l’utilizzo di un insieme di letture scelte quali strumenti terapeutici in medicina e psichiatria. E’ un mezzo per risolvere problemi personali grazie a una lettura guidata».

La biblioterapia ha diverse accezioni:
di AUTOAIUTO – uno strumento al di fuori del contesto terapeutico, di autocura e crescita personale;
di PSICOEDUCAZIONE – utilizzato soprattutto nelle scuole, offre percorsi di lettura guidata finalizzati al confronto su un tema e alla socializzazione per promuovere la crescita cognitiva e socio-affettiva;
di TERAPIA – utilizzato all’interno di un contesto psicoterapeutico.

Il primo ad introdurre la pratica di “prescrizione della lettura” ai pazienti, fu William Menninger.
Il dottor Menninger, psichiatra negli anni trenta del novecento presso l’omonima clinica Menninger in Kansas, cominciò ad indicare delle letture ai propri pazienti come supporto al trattamento di diversi disturbi psichiatrici. Il medico proponeva percorsi di lettura scelti e pensati appositamente per il singolo paziente e per il momento che stava vivendo.

Oggi la pratica della biblioterapia è diffusa nel mondo occidentale, soprattutto nei paesi anglosassoni.
In Inghilterra la Book Therapy è stata riconosciuta dal National Health Service (servizio sanitario inglese) come efficace ed indicata soprattutto per la cura dello stress psicologico. Per questo motivo esistono delle biblioteche con sede negli ospedali.

Deborah Fanner, dello Staff Library -Salisbury NHS Foundation Trust, e Christine Urquhart, del Department of Information Studies – Aberystwyth University, di Aberystwyth, hanno condotto nel 2008 una revisione di tutta la letteratura relativa alla pratica della biblioterapia. I risultati di tale lavoro hanno sottolineato l’efficacia della biblioterapia per diversi disagi psicologici (quali depressione, ansia generalizzata, stress) soprattutto se inserita all’interno di un percorso di psicoterapia. Risultano, invece, meno evidenti le prove di efficacia nei percorsi di sola libroterapia tenuti da persone non professioniste della salute mentale.

In ambito psicoterapeutico la biblioterapia si colloca all’interno della relazione terapeutica. Il libro diventa un luogo condiviso da paziente e terapeuta.
Esistono 2 diversi modi di utilizzare il libro all’interno della pratica terapeutica:
– Il biblio-coach, diffuso nella psicologia anglosassone, che ricorre a due tipologie di testi: i libri di psicologia divulgativa e i testi di self help.
– Un uso più «creativo» del libro, che ricorre alla letteratura e ai romanzi.

Letteratura e Psicologia

La letteratura, da moltissimi anni prima della nascita della psicologia, cerca di dare voce e di attribuire significato alla sofferenza psicologica. Attraverso il racconto di una storia, si indaga il vissuto emotivo e cognitivo dei personaggi e si delineano le conseguenze del loro sentire e agire.
Dunque, la letteratura offre vastissime possibilità di analisi e confronto rispetto alle emozioni e vicende umane.
Leggere un libro implica entrare in contatto con un mondo di emozioni intense. Stimola la riflessione grazie all’immedesimazione e al confronto con i personaggi, con i contesti e con le vicende che vivono.
Seguendo questa prospettiva, il ricorso ai casi letterari va compreso come l’utilizzo di uno spazio sperimentale all’interno del quale osservare le variazioni del racconto, i suoi personaggi e i loro vissuti. Rappresenta una sorta di laboratorio che permette di sperimentare e analizzare le svariate sfumature dell’emotività umana e le variegate declinazioni dell’identità.

Biblioterapia in Psicoterapia

Il compito della psicoterapia è quello di
– accogliere il dolore,
– aiutare il paziente a comprendere se stesso e ad essere consapevole del suo funzionamento generale nonché dei meccanismi che implicano il perdurare di questa sofferenza,
– accompagnare e stimolare un cambiamento che induca un nuovo modo di essere più funzionale.

La biblioterapia , in ogni fase di questo percorso, può essere un valido strumento del terapeuta.
Può aiutare chi legge a dare parole e un senso alla propria sofferenza. Può aiutare a rendere consapevole il lettore/paziente dei suoi meccanismi e di come agisce la sua sofferenza nella vita. Può essere uno stimolo al cambiamento e, infine, può essere uno stimolo per favorire una continua riflessione su di sé e per il mantenimento di uno stato di benessere.
Affinché la lettura abbia una funzione terapeutica, e sia un vera e propria tecnica terapeutica, questa deve essere guidata e proposta da uno psicoterapeuta.

La biblioterapia diventa, quindi, in mano del terapeuta, una tecnica per favorire l’introspezione nel paziente.
Il racconto permette di esporsi ad emozioni che magari riguardano da vicino ma che non si ha il coraggio di affrontare, proprio perché è più facile riconoscerle in qualcosa che è “altro da sé” piuttosto che su se stessi.
Il libro, dunque, è a tutti gli effetti uno strumento di cura.

Perché prescrivere un libro?

Un libro, anche lo stesso, può essere consigliato con diverse finalità:
– creare e/o rafforzare una buona relazione ed alleanza terapeutica;
– introdurre un argomento che si vuole affrontare in terapia;
– curare una particolare sintomatologia esponendo il paziente, in maniera guidata e controllata, alle proprie paure.

La finalità, in ogni caso, è quella di promuovere una maggiore consapevolezza di sé e spingere il paziente verso un cambiamento.
L’indicazione di lettura è, perciò, un vero e proprio homework.

Il contributo più importante del terapeuta consisterà, quindi, nelle scelte che saprà fare delle letture da proporre ai pazienti e nella capacità di accompagnare quest’ultimo, nel corso della lettura, nel processo di costruzione di significato.
Non ci sono libri «universali» che vanno bene per tutti i pazienti e che curano efficacemente un determinato disturbo. I libri possono fare anche male, va valutato in senso clinico quale lettura è indicata per ogni nostro paziente.

Ciononostante, in commercio, esistono diversi libri, che possono guidare il clinico nella scelta delle opere più significative e terapeutiche.
Ne costituiscono degli esempi il testo di Ferdinando Galassi, che propone sia libri sia film adatti alla “cura della mente”. Il testo di Régina Detambel, intitolato “I libri si prendono cura di noi. Per una biblioterapia creativa”. Oppure il famoso testo di Ella Berthoud e Susan Elderkin, edito dalla Sellerio, intitolato “Curarsi con i libri: Rimedi letterari per ogni malanno”.

In ogni caso, è sempre bene che il terapeuta legga in prima persona il libro che intende suggerire al paziente, per valutarne la sua funzione clinica. E per la scelta dei testi è sempre consigliabile seguire la propria curiosità, oltre che i consigli della letteratura in merito.

I barbiturici: dalle proprietà ansiolitiche alla dipendenza – Introduzione alla Psicologia

I barbiturici rappresentano una classe di farmaci liposolubili derivanti dall’acido barbiturico, essi possiedono proprietà ansiolitiche, ipnotiche, anticonvulsivanti, sedative, anestetiche e analgesiche. Essi possono provocare dipendenza, sia fisica che psicologica. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

I barbiturici rappresentano una classe di farmaci liposolubili derivanti dall’acido barbiturico, ascrivibili alla classe delle diaciluree, in grado di deprimere il sistema nervoso centrale. Essi possiedono proprietà ansiolitiche, ipnotiche, anticonvulsivanti, sedative, anestetiche, analgesiche e, inizialmente, erano utilizzati in associazione agli antinfiammatori non steroidei (FANS) per il trattamento del mal di testa.

I barbiturici possono provocare dipendenza, sia fisica che psicologica.

Attualmente, sono stati sostituiti dalle benzodiazepine nel trattamento dell’ ansia e dell’ insonnia, poiché meno pericolose in caso di sovradosaggio. Nonostante ciò, i barbiturici sono ancora utilizzati in anestesia generale, per l’ epilessia, per il trattamento di emicrania acuta e (dove legale) per il suicidio assistito e l’eutanasia.

Storia dei barbiturici e del loro utilizzo

Adolf von Baeyer, nel 1863, sintetizzò per la prima volta l’acido barbiturico a partire dall’urea e dall’acido malonico. Il nome deriva dalla moglie di von Baeyer, che si chiamava Barbara, più il suffisso che ricordava la derivazione dall’urea.

Nel 1903 Emil Hermann Fischer e Joseph von Mering prepararono il barbital, il primo vero e proprio barbiturico, che fu commercializzato con il nome di Veronal, derivante dalla trasformazione dell’acido dietil-barbiturico.

Nel 1912 fu introdotto sul mercato un nuovo barbiturico ad attività sedativo-ipnotico, il fenobarbital con il nome commerciale di Luminal.

Il dottor Willcox, negli anni Venti in Gran Bretagna scatenò la battaglia contro i barbiturici, poiché provocavano diversi effetti collaterali dannosi per la salute e fino al 1918, in Inghilterra, l’acquisto e la vendita di questi farmaci non erano regolamentati da nessuna prescrizione medica.

Nel 1964, negli Stati Uniti, una grossa fetta di popolazione assumeva barbiturico per dormire o come tranquillanti e sedativi. Nel 1960, la Commissione per gli stupefacenti dell’ONU raccomandò che i barbiturici fossero assoggettati all’obbligo della prescrizione medica e nel 1971, a seguito della Convenzione di Vienna, furono introdotti nell’elenco dei prodotti ad azione stupefacente.

In Italia la Legge 685/1975 regolamentava la produzione e la fabbricazione dei barbiturici e ne vietava la libera vendita.

Attualmente, la prescrizione di barbiturico è limitata e si favoriscono a essi le Benzodiazepine che danno gli stessi risultati ma con minori effetti collaterali.

Forma dei barbiturici

I Barbiturici si trovano sotto forma di pastiglie, capsule con gel, e solitamente si assumono per via orale. In rari casi, però, è possibile assumerli per via iniettiva, malgrado questa modalità d’assunzione risulti estremamente pericolosa poiché ha effetti gravissimi sul sistema circolatorio ed aumenta sensibilmente il rischio di overdose.

Meccanismo d’azione dei barbiturici

I barbiturici esercitano un’azione deprimente, ipnotica e narcotica, sul sistema nervoso centrale, inibendo l’attività de neuroni, della muscolatura liscia, della muscolatura scheletrica e quella del miocardio.

I barbiturici agiscono aumentando il segnale del GABA, neurotrasmettitore inibitorio del cervello, attivando una cascata di segnali inibitori, con conseguente aumento della risposta inibitoria GABA-ergica. Essi, dunque, si legano a un particolare sito di legame presente sul recettore per il GABA, il sito utilizzato anche dalla picrotossina, fitotossina estratta dalla pianta rampicante Anamirta cocculus, avente proprietà convulsivanti ed eccitatorie sul centro del respiro e sul centro vasomotorio del cervello e, per questo, può essere utilizzata come rimedio nell’intossicazione acuta da barbiturici.

Classificazione ed effetti dei barbiturici

I barbiturici si classificano in base alla durata d’azione, ottenendo di conseguenza barbiturici a durata d’azione ultrabreve (20 minuti circa), come il tiopental; a durata d’azione breve (3-4 ore), come il pentobarbital e il secobarbital; a durata d’azione intermedia (4-6 ore come l’amobarbital e il butabarbital; ad azione prolungata (6-12 ore), come il primidone e il fenobarbital. I barbiturici producono principalmente due effetti: riducono il ritmo cardiaco e la respirazione, con conseguente diminuzione della pressione arteriosa. Elevate dosi di barbiturico portano sonnolenza e torpore.

Effetti desiderati e indesiderati

Dal punto di vista terapeutico alcuni barbiturici sono usati per il trattamento di alcune forme di epilessia comprendenti le crisi parziali e le crisi tonico-cloniche generalizzate.

I barbiturici, insieme alle benzodiazepine e ai calcioantagonisti, se assunti accidentalmente o deliberatamente prima dell’arresto cardiaco, riducono il metabolismo e il fabbisogno di ossigeno del cervello, aumentando le probabilità di sopravvivenza senza grave encefalopatia anossica.

L’intossicazione, invece, da barbiturico può causare convulsioni, delirio e allucinazioni. Alcuni effetti, però, sono prettamente soggettivi e possono essere: depressione, spossatezza e violenti cambi di umore. Inoltre, essendo vasodilatatori, possono provocare la perdita di calore corporeo, rallentamento del metabolismo con conseguente rischio di crisi di freddo.

Il consumo prolungato determina l’insorgenza di uno stato di tolleranza e di dipendenza, per questo possono indurre tremore, atassia, confusionale mentale, alterazioni della capacità di giudizio, incapacità di concentrarsi, vuoti di memoria e crisi respiratorie e polmonari.

La sindrome d’astinenza da Barbiturici è considerata più intensa e duratura di quella provocata dall’ eroina, e si manifesta a distanza di otto-sedici ore dall’ultima assunzione. Gli effetti principali della crisi di astinenza sono: l’insonnia, l’ansia, le vertigini, la nausea e le convulsioni; dopo il secondo giorno si manifestano delirio con allucinazioni; al terzo giorno possono insorgere profonde alterazioni della psiche, come episodi di paranoia e schizofrenia. La forma più grave di una crisi di astinenza da Barbiturico è uno stato psicotico e psicomotorio paragonabile all’astinenza da alcol, noto con il termine di delirium tremens.

I Barbiturici possono provocare un’overdose con possibili conseguenze fatali e la morte sopraggiunge per arresto cardio-respiratorio per assunzione di quantitativi superiori alla dose terapeutica consentita di quindici o venti volte.

I barbiturici possono provocare danni al fegato e ai reni in seguito a un uso prolungato. Di conseguenza, ad alte dosi in combinazione con un miorilassante, sono usati per praticare l’eutanasia.

I Barbiturici in quanto depressori del Sistema Nervoso Centrale non possono essere assunti insieme ad altre sostanze, come alcolici, benzodiazepine, eroina e oppiacei e tranquillanti.

I barbiturici se somministrati a dosi molto basse provocano effetti paradosso, quali ipereccitazione e agitazione.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbi d’ansia: una valutazione encefalografica può predire se sono più efficaci i farmaci o la psicoterapia

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università dell’Illinois a Chicago, pubblicato recentemente sulla rivista Neuropsypharmacology, ha trovato che una breve misurazione e analisi encefalografica può aiutare a determinare se un antidepressivo o la terapia cognitivo-comportamentale stia risultando efficace nell’alleviare i sintomi ansiosi in pazienti con disturbi d’ansia.

 

Il trattamento con antidepressivi e terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia

Gli antidepressivi della classe degli SSRI (Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e la terapia individuale cognitivo-comportamentale (CBT) sono posti come trattamenti evidence-based di prima scelta dalle linee guida mondiali per il trattamento farmacologico e psicologico dei disturbi d’ansia (Bandelow et al., 2002; Clarck, 2011), in quanto gli SSRI agiscono modificando la trasmissione della serotonina a livello dei circuiti neurali, mentre la CBT aiuta i pazienti a modificare i pensieri e i comportamenti disfunzionali e poco adattivi sostituendoli con nuove tecniche cognitive e comportamentali per la gestione dei sintomi ansiosi e dell’umore.

Entrambi sono ugualmente efficaci per alleviare i sintomi ansiosi pervasivi e persistenti, tuttavia non è ancora chiaro il motivo per cui, in alcune situazioni, l’uno sembra essere più efficace dell’altro.

Stephanie Gorka, assistente professore al dipartimento di Psichiatria dell’UIC College of Medicine, ha mostrato come un’elevata attività cerebrale correlata all’errore (ERN) fosse associata con una maggiore severità dei sintomi ansiosi (Gorka, Burkhouse et al., 2017) e che pertanto questa potesse rappresentare un neuromarcatore biologico dell’ansia.

I meccanismi cognitivi dell’ansia

In uno studio precedente (Gorka, Burkhouse et al., 2017) ricercatori avevano concluso che le persone che soffrono di disturbi d’ansia mostravano una risposta neurale esagerata nel momento in cui commettevano un errore, come se avessero costantemente attivato un allarme biologico interno che segnala loro di aver commesso un errore e di dover quindi modificare subito il loro comportamento affinché non si presenti di nuovo lo stesso.
Questa tipologia di pazienti infatti tende a prestare maggiore attenzione in modo automatico agli indizi negativi presenti nell’ambiente, a sovrastimare i potenziali pericoli e a sottostimare erroneamente le risorse e capacità che potrebbero mettere in campo per fronteggiarli mettendo quindi in atto comportamenti di sicurezza come l’evitamento o il rimugino continuo per cercare di distaccarsi e controllare l’ambiente valutato come minaccioso (Caselli, Ruggiero et Sassaroli, 2017).

L’elettroencefalografia rivela l’efficacia della CBT nel trattamento dei disturbi d’ansia

Da queste conclusione l’idea che la misurazione dell’onda cerebrale ERN correlata all’errore, misurata tramite elettroencefalografia, potrebbe essere utilizzata per la valutazione della gravità del disturbo ansioso: tanto più l’onda è grande tanto più è aumentata la risposta cerebrale quando viene commesso un errore.

Per elicitare i soggetti a sbagliare, gli autori dello studio presente (Gorka, Bunkhouse, Klumpp, 2017) hanno utilizzato un compito che richiedeva di indicare accuratamente e nel minor tempo possibile la direzione di una freccia posta al centro di uno schermo e circondata da altre frecce che fungevano da distrattori.

Nello stesso momento in cui i soggetti indicavano la direzione della freccia tramite un bottone, appariva un altro schermo costringendo i soggetti a dare la risposta sbagliata.

Per lo studio vennero reclutati 60 volontari con una diagnosi di disturbo d’ansia e 27 senza alcuna diagnosi di disturbo psicologico pregresso.
Tutti i soggetti completavano il compito mentre indossavano un casco con elettrodi che misurava online l’attività cerebrale dei partecipanti.
Nella seconda sessione dello studio, in modo casuale, i soggetti con disturbo d’ansia vennero divisi: ad una parte venne prescritto un antidepressivo SSRI da assumere per 12 settimane, l’altra venne sottoposto a diverse sedute di CBT con uno psicoterapeuta per lo stesso periodo di tempo.

A seguito dei trattamenti, a tutti i soggetti venne sottoposto di nuovo il compito della freccia mentre veniva registrata loro l’attività cerebrale tramite elettroencefalogramma.

I ricercatori dello studio trovarono che un aumento dell’onda ERN all’inizio del trattamento era associata ad una grande riduzione dei sintomi ansiosi per coloro che erano stati sottoposti a sedute individuali di CBT e non per coloro che avevano assunto l’antidepressivo.

Nei soggetti che avevano assunto il farmaco SSRI per 12 settimane non si era osservata una riduzione dell’onda ERN alla fine del trattamento (Gorka, Bunkhouse, Klumpp, 2017).
La riduzione dell’onda ERN, a seguito di un trattamento psicologico, è stata spiegata alla luce del fatto che la CBT, differentemente dal farmaco, aiuta i soggetti ad apprendere nuove modalità di pensiero e comportamentali per ridurre l’ansia invasiva, anziché ridurre semplicemente i sintomi.

In aggiunta l’analisi dell’onda ERN ha aiutato i ricercatori a predire quali pazienti avrebbero tratto giovamento a seguito di un trattamento specifico (CBT o SSRI); quest’informazione è estremamente utile in quanto, rispetto al farmaco, la CBT è meno impegnativa in termini di tempo e non è associata a effetti indesiderati come accade invece con gli antidepressivi.

Inoltre l’utilizzo dell’elettroencefalogramma e la registrazione dell’ERN prima di iniziare un trattamento, fornisce un metodo semplice o oggettivo per selezionare e indirizzare i pazienti verso un giusto trattamento personalizzato riducendo la probabilità che si verifichi il drop-out nel momento in cui i pazienti non percepiscono la riduzione dei loro sintomi a seguito del trattamento terapeutico.

Un altro punto importante da sottolineare è che la quantità di tempo impiegata per la registrazione dell’attività cerebrale e per il completamento del compito è stata relativamente breve (circa 30 minuti); questo permette di concludere che tale metodo può essere utilizzato anche nel setting terapeutico per avere una misura oggettiva dell’efficacia o meno del trattamento.

Telepatia? Semplicemente sincronizzazione delle onde cerebrali adulto-bambino

Per quanto riguarda l’interazione caregiver-bambino, è un dato assodato il fatto che vari aspetti del loro comportamento possono essere sincronizzati: le emozioni, lo sguardo e la frequenza cardiaca. Eppure, nessuno studio ha indagato con successo la sincronizzazione dell’attività cerebrale caregiver-bambino, così i ricercatori della Baby-LINC Lab all’Università di Cambridge si sono occupati di questo aspetto.

 

Studi precedenti hanno dimostrato che, quando due adulti si parlano, la comunicazione ha più successo se le loro onde cerebrali sono in sincronia. Le onde riflettono l’attività cerebrale di milioni di neuroni e sono coinvolte nel trasferimento di informazioni tra le diverse regioni.

Per quanto riguarda l’interazione caregiver-bambino, è un dato assodato il fatto che vari aspetti del loro comportamento possono essere sincronizzati: le emozioni, lo sguardo e la frequenza cardiaca. Eppure, nessuno studio ha indagato con successo la sincronizzazione dell’attività cerebrale caregiver-bambino, così i ricercatori della Baby-LINC Lab all’Università di Cambridge si sono occupati di questo aspetto.

Lo studio è stato svolto con 36 bambini ed i rispettivi caregiver. Lo strumento utilizzato è stato l’elettroencefalogramma (EEG, misura l’attività elettrica del cervello) secondo due modelli sperimentali differenti.

Nel primo modello sperimentale l’interazione adulto-bambino è avvenuta tramite video. Ovvero, il bambino è stato posto innanzi ad un filmato in cui vi era ritratto l’adulto che canticchia delle filastrocche. L’attività cerebrale dell’adulto era stata registrata precedentemente, durante la registrazione del video.

Questo primo modello era costituito di tre fasi: una prima in cui l’adulto guardava direttamente il bambino, una seconda in cui voltava il capo leggermente per distogliere lo sguardo dal bambino continuando a canticchiare filastrocche ed infine, un’ultima fase, in cui l’adulto voltava la testa da una parte, ma con gli occhi continuava a guardare direttamente il bambino.

I risultati tratti dal tracciato EEG mostrano come le onde cerebrali dei bambini erano più sincronizzate con quelle degli adulti quando lo sguardo di entrambi si incrociava. Il risultato più interessante si riferisce alla terza fase, ovvero quando gli sguardi si incrociano, ma la testa rimaneva spostata (rispetto ad una prima fase in cui anche il volto era direzionato verso il viso del bambino). In questa terza fase i risultati EEG hanno riportato la più grande sincronizzazione delle onde cerebrali.

Questo importante risultato viene spiegato dai ricercatori in termini di una maggiore intenzionalità. Quando, nonostante il volto sia spostato, lo sguardo è intenzionalmente diretto al bambino, esso può esser percepito come un forte segnale di volontà di comunicazione caregiver-bambino.

Nel secondo modello sperimentale non vi era più un video, ma l’adulto presenziava direttamente davanti al bambino e le onde cerebrali di entrambi venivano registrate in vivo, contemporaneamente.

Tale modello ha previsto solo due fasi: una prima, in cui l’adulto guardava direttamente il bambino ed una seconda fase in cui l’adulto distoglieva lo sguardo, continuando a canticchiare.

I risultati di questo secondo modello hanno mostrato come la sincronizzazione dell’attività cerebrale di entrambi è stata registrata quando vi era contatto visivo reciproco, nonostante i bambini continuassero a guardare il viso dell’adulto, anche quando esso spostava lo sguardo altrove.

Anche questo secondo dato prosegue nella direzione del risultato emerso nel primo modello sperimentale, ovvero che la condivisione dell’intenzione di comunicare è l’elemento fondamentale perché la sincronizzazione avvenga.

La ricercatrice Victoria Leong dichiara che il fatto che sia il cervello dell’adulto sia quello del bambino rispondono ad un segnale di sintonizzazione potrebbe preparare genitori e bambini a comunicare, sincronizzando i turni del parlare e dell’ascoltare. Questo aspetto renderebbe anche l’apprendimento più efficace.

Per futuri studi rimane però aperta la seguente domanda: “Esattamente, come lo sguardo e le vocalizzazioni creano sincronizzazione?

Neurobiologia delle emozioni: le strutture neurali implicate nella regolazione emotiva

Dal punto di vista neurobiologico, le emozioni sono delle risposte ad eventi di rilievo personale caratterizzati da particolari vissuti soggettivi e da particolari modificazioni biologiche; l’insieme di queste reazioni è connessa all’attivazione di strutture del sistema nervoso che fanno capo ad una rete di strutture corticali e sottocorticali definite “sistema limbico”. Esistono delle strutture predisposte anche a regolare le risposte emotive ed il comportamento che ne deriva.

Virginia Valentino

 

Gli studi sulle basi neurobiologiche delle emozioni

Lo studio delle basi neurobiologiche dei processi mentali in generale e dei processi regolativi delle emozioni in particolare, è fondata sull’idea della perfetta corrispondenza tra i fatti mentali ed i fatti neuronali ma non dobbiamo ritenere questa associazione in termini strettamente causali (Grossi e Trojano, 2009). L’attivazione combinata di una serie di strutture celebrali sia sottocorticali che corticali è tipica delle emozioni e queste strutture sono connesse tra di loro da una fitta rete di proiezioni che consente una contemporanea e rapida risposta. Tuttavia ciascuna struttura svolge un ruolo specifico e differenziato a seconda dei tipi di emozione. È bene sottolineare che i circuiti neuronali sono fasci di fibre presenti sia nel primato che nell’uomo e collegano strutture nervose anche lontane tra di loro (Brodal, 2003). Oltre ai più famosi sistemi di indagine strutturale e funzionale come la risonanza magnetica funzionale o la tomografia a emissione di positroni un’applicazione ancora più innovativa è quella della Diffusion tensor imaging (Catani, 2008) che valuta, appunto, i circuiti di fibre ed il loro funzionamento.

Le strutture cerebrali considerate cruciali per l’elaborazione della regolazione emozionale sono identificate come appartenenti al lobo limbico che è situato in profondità, nella parte più interna, cioè mediale, dei lobi temporali e frontali di ciascun emisfero. All’inizio si pensava che il lobo limbico fosse implicato solo nella percezione olfattiva ed il primo ad ipotizzare che fossero determinanti anche nell’elaborazione delle emozioni fu James Papez nel 1937 grazie a studi di anatomia comparata. Papez individuò che le strutture del lobo limbico fossero interconnesse per fermare un vero e proprio circuito che oggi viene chiamato “il circuito di Papez”. In questo sistema, devono essere incluse di diritto l’amigdala e l’insula che non erano considerate parte del lobo limbico e questo ci fa capire l’alto grado di interazione con molte aree anche distanti tra loro.

Il ruolo prioritario dell’amigdala

La struttura nervosa che rappresenta la base neurologica per eccellenza degli stati emotivi è l’amigdala. È molto complessa ed è costituita da diversi nuclei interconnessi tra di loro; da essa partono tante vie di connessione con l’ipotalamo e con il tronco celebrale importanti per l’innesco di reazioni motorie vegetative ed endocrine correlate all’emozione. L’ipotalamo attiva il sistema nervoso autonomico delle sue due componenti simpatica e parasimpatica che determinano una cascata di reazioni come le modificazioni del battito cardiaco, della pressione, della salivazione, del ritmo del respiro ecc.

L’amigdala si attiva per esperienze emozionali molto intense ed è soprattutto legata ad una tonalità affettiva negativa ma è anche implicata nella decodifica di informazioni sociali salienti e per l’elaborazione di espressioni facciali ambigue (Phan et al, 2004). L’ippocampo coinvolto nei processi di memoria è connesso con l’amigdala e questo collegamento è fondamentale per la formazione delle paure apprese contribuendo al richiamo di ricordi emotivamente significativi. Fanno parte di questo circuito anche l’insula che ha un forte ruolo per tutti i processi interocettivi ed il senso del sé ed è una struttura fortemente coinvolta nelle emozioni del disgusto e per il riconoscimento di espressioni facciali di disgusto.

Ad esempio le aree anteriori dei lobi frontali consentono la valutazione dello stato emozionale, la selezione dei comportamenti adeguati, la risoluzione dei conflitti tra stato interno ed esterno ed infine l’elaborazione cognitiva dei vissuti emozionali. La corteccia prefrontale mediale è stata dimostrata essere implicata nella elaborazione di diversi processi emotivi affettivi giocando un ruolo strategico nella regolazione delle emozioni grazie alle sue connessioni con strutture corticali e sottocorticali. La parte più rilevante è la corteccia frontale inferiore detta anche corteccia orbitofrontale. Damasio nel 1994 mette a punto un modello noto come “ipotesi di segnali somatici” in cui si esplicita che ogni decisione è guidata da segnali somatici. Le esperienze sono immagazzinate dalle aree prefrontali orbitomediali e sono in grado di guidare la condotta di un soggetto anche senza essere evocate in modo consapevole.

Le capacità di controllare e contenere le risposte emotive è alla base di un comportamento adattivo e della mediazione sociale. La regolazione delle emozioni implica, infatti, l’attivazione di risposte emotive o la variazione di quelle già messe in atto al fine di impedire il comportamento più adeguato alle condizioni ambientali.

Conclusioni: il funzionamento delle strutture deputate alla regolazione emotiva

Potremmo ricapitolare il funzionamento delle strutture deputate alle emozioni a partire da quella centrale che è sicuramente l’amigdala la quale riceve informazioni dal talamo, dalle aree corticali sensoriali e che rappresenta la maggiore via di attivazione dell’ipotalamo del mesencefalo per l’innesco di reazioni vegetative ormonali, correlate alle emozioni. La cascata di modifiche biologiche connesse alle emozioni appare stereotipata poiché l’attivazione del sistema autonomico simpatico sembra prevalere in tutte le emozioni indipendentemente dalla loro valenza affettiva mentre quello che differenzia le risposte emozionali tra loro è l’interpretazione soggettiva (Grossi e Trojano, 2009).

La funzione modulatrice per eccellenza è sicuramente deputata alla corteccia prefrontale orbito mediale soprattutto dell’emisfero di destra che presenta connessione bidirezionale con l’amigdala. In virtù di tali rapporti reciproci, da un lato l’amigdala, dopo aver integrato l’informazione sensoriale mnestica, aggiorna la corteccia prefrontale circa l’attuale stato emotivo e dall’altro la corteccia prefrontale modula il grado di attivazione dell’amigdala. In base alle informazioni relative al contesto ambientale, socioculturale ed eventualmente interpersonale si selezionano i comportamenti che implicano l’inibizione o la liberazione di condotte comportamentali e la modulazione di stati interni. Le risposte emozionali possono essere modulate anche attraverso l’uso di strategie fondate su processi cognitivi detti “re-appraisal” grazie alla capacità delle regioni prefrontali di influenzare la reattività dell’amigdala e dunque di regolare le emozioni.
Quindi potremmo dire che nel corso dell’evoluzione il sistema di attivazione spesso stereotipato ed indifferenziato è stato affiancato da un meccanismo di risposta più evoluto e flessibile, squisitamente cognitivo che richiede, però, tempi di elaborazione più lunghi (Oatley e Johnson-Laird, 1987).

Prosopagnosia acquisita e congenita: tante facce nessun volto

Vi sono soggetti che presentano un’incapacità di riconoscimento di volti familiari su presentazione visiva: tale deficit selettivo è detto prosopagnosia. Nei casi più gravi il paziente non è in grado di identificare il volto del proprio partner e nemmeno la propria immagine riflessa in uno specchio

Francesca Maria Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

… Dai cinque agli undici anni ho frequentato una piccola scuola di paese. La scuola contava cento bambini e nella mia classe eravamo in diciotto. Durante il penultimo anno l’insegnante mi chiese di restituire ai miei compagni i compiti in classe appena corretti: fui in grado di assegnare la corretta faccia ai nomi che leggevo solo in sei casi. Non avevo problemi con la ragazza dai capelli lunghi e rossi e con quella dai capelli biondi molto chiari. Tuttavia c’erano almeno sei ragazze della classe che mi sembravano totalmente identiche. Per i ragazzi era ancora peggio: tutti avevano capelli corti e biondi (“Il caso di Tiffany” – Rivolta, 2012).

Riconoscimento dei volti: cosa si intende con prosopagnosia?

I volti rappresentano uno stimolo fondamentale per l’interazione sociale, ci informano sull’identità del nostro interlocutore, ossia genere, età, razza; inoltre dal volto deduciamo indicazioni relative al tono dell’umore, all’attrattiva e l’approcciabilità di una persona.

Studi recenti hanno dimostrato come, nonostante gli esseri umani siano considerati esperti riconoscitori di volti, vi sono importanti differenze interindividuali nella capacità di elaborare l’identità dei volti (Palermo et al., 2016): vi sono i super-recognizer, soggetti estremamente abili nel riconoscimento dei volti e persone con scarse competenze di riconoscimento degli altri tramite il volto.

Vi sono soggetti che presentano un’incapacità di riconoscimento di volti familiari su presentazione visiva: tale deficit selettivo è detto prosopagnosia. Nei casi più gravi il paziente non è in grado di identificare il volto del proprio partner e nemmeno la propria immagine riflessa in uno specchio (Vallar & Papagno, 2007).

Mentre la patologia fu studiata approfonditamente già nel XVIII secolo, il termine prosopagnosia deriva dal greco prosopon (faccia) e a-gnosisi (senza conoscenza) e fu coniato nel 1947 dal neurologo tedesco Joachim Bodamer il quale descrisse alcuni casi tra cui quello di un giovane uomo di 24 anni che, in seguito a una ferita da arma da fuoco alla testa, aveva perso la capacità di riconoscere i volti. Ciononostante egli era in grado di identificare le persone utilizzando altre modalità sensoriali quali udito e tatto o indizi extra-facciali come andatura e taglio di capelli. I soggetti con prosopagnosia infatti non sono in grado di riconoscere più i volti delle persone care, perdendo talvolta anche la sensazione di familiarità per i visi conosciuti, ma individuano le persone note dalla voce o da qualche accessorio caratteristico, per esempio i capelli (Grossi & Trojano, 2002). In alcuni casi la difficoltà è limitata al riconoscimento di persone viste meno frequentemente in contesti inaspettati, per esempio quando si incontra un vicino al supermercato (Rivolta, 2014).

Esiste una convergenza tra studi sugli animali e sull’uomo che indicano come l’analisi dei volti sia mediata da meccanismi neurali dedicati e specifici, confermando l’ipotesi che i volti rappresentino stimoli “speciali” non solo a livello cognitivo ma anche neurale (Rivolta, 2012).

Secondo il modello neurale proposto da Haxby e colleghi (2000) il riconoscimento dei volti è mediato da diverse aree cerebrali; la prima area coinvolta è la Occipital Face Area (OFA), che rappresenta la porta d’ingresso del sistema visivo di analisi dei volti, in cui lo stimolo visivo è giudicato come “faccia” o “non faccia” e dove gli elementi costitutivi sono analizzati. Questa informazione è poi inoltrata al Superior Temporal Sulcus (STS) per l’analisi delle espressioni facciali e degli aspetti “variabili” del volto e verso la Fusiform Face Area (FFA), dove hanno luogo i processi olistici. Per ultimo, nel Anterior Temporal Face Patch (ATFP) avviene il riconoscimento dei volti familiari.

Prosopagnosia acquisita e prosopagnosia congenita

Si parla di prosopagnosia acquisita, acquired prosopagnosia (AP), quando una lesione cerebrale danneggia in un determinato soggetto l’abilità di riconoscere i volti noti. Tale deficit cognitivo può avere varie origini tra cui stroke sia di tipo ischemico che emorragico coinvolgete bilateralmente le aree occipito-temporali; tra le possibili diagnosi eziologiche si annoverano anche traumi cranio-encefalici, lobectomie finalizzate all’asportazione di focolai epilettogeni, disturbi degenerativi, avvelenamento da monossido di carbonio (Rivolta, 2012).

Negli ultimi 20 anni i ricercatori hanno focalizzato la propria attenzione su un’altra forma di prosopagnosia che si manifesta senza apparenti cause ed è nota come forma congenita o ereditaria (Rivolta, 2014). Tale tipologia di deficit nel riconoscimento dei volti noti, in inglese developmental prosopagnosia (DP), può essere descritta come un disturbo del neurosviluppo, conseguente pertanto dal fallimento nello sviluppo dei meccanismi cognitivi necessari per il riconoscimento dell’identità dei volti (Dalrymple & Palermo, 2016; Rivolta, Palermo & Schmalzl, 2013; Susilo & Duchaine, 2013). I soggetti con developmental prosopagnosia manifestano da sempre nella quotidianità severe difficoltà nel riconoscimento di volti noti, nonostante non presentino lesioni cerebrali note o rilevabili, abbiano normali abilità visive e intellettive (Bate, 2014; Behrmann & Avidan, 2005; Dalrymple & Palermo, 2016; Palermo & Duchaine, 2012; Rivolta, Palermo, & Schmalzl, 2013; Susilo & Duchaine, 2013). Si stima che tale forma congenita interessi circa il 2–2.9% della popolazione (Bowles et al., 2009; Kennerknecht et al., 2006). La developmental prosopagnosia è descritta come un deficit di memoria del viso e i casi di developmental prosopagnosia sono confermati usando compiti basati sulla memoria (Dalrymple & Palermo, 2016). Nella vita quotidiana, la condizione pregiudica principalmente la capacità di una persona di riconoscere i volti delle persone note, ma data la difficoltà nel creare test ad hoc per ogni singolo paziente (utilizzando volti noti a quel singolo soggetto), vengono tipicamente utilizzati test di riconoscimento di volti famosi, come il Macquarie Famous Face Test- 2008 (Palermo et al.,2011). Un altro metodo comune per misurare le capacità di apprendimento e memoria di volti in soggetti con developmental prosopagnosia è il Cambridge Face Memory Test (CFMT, Duchaine & Nakayama, 2006). In questo test standardizzato, i partecipanti studiano le immagini di sei maschi sconosciuti e viene successivamente valutata l’accuratezza di riconoscimento dei volti studiati in precedenza ma sottoposti a cambiamenti quali differenti punti di vista, diversa illuminazione o aggiunta di elementi visivi di interferenza (White et al., 2017).

Crescere affetti da prosopagnosia congenita: le conseguenze psico-sociali

Gli studi sulle conseguenze psicosociali di soggetti affetti da developmental prosopagnosia in adulti e bambini indicano che la presenza di una selettiva difficoltà nel riconoscimento di volti familiari può avere un profondo impatto sul funzionamento psicologico e sociale, creando le difficoltà nello stabilire e mantenere relazioni o nel partecipare alle attività sociali (Dalrymple & Palermo, 2016).

Molto precocemente i bambini fanno riferimento al volto per identificare i propri caregiver ed interagire con loro. Nell’infanzia, l’abilità di riconoscere i volti è importante per creare amicizie e per lo sviluppo delle capacità sociali. Con il maturare, tale competenza svolge un ruolo nella ricerca partner, nella costruzione di una carriera professionale e nel mantenimento delle relazioni sociali (Dalrymple et al., 2014). Interferendo nelle interazioni sociali, la presenza di prosopagnosia congenita potrebbe predisporre allo sviluppo di psicopatologie quali ansia sociale, caratterizzata da paura e conseguente evitamento di situazioni sociali che potrebbero essere potenziale causa di imbarazzo o umiliazione per il soggetto (Antony, 1997; Yardley et al., 2008).

Diaz (2008) presentò il caso di un bambino di 13 anni, Steve, affetto da prosopagnosia congenita. Egli utilizzava indizi visivi non legati al volto per l’identificazione delle persone a lui note, come elementi di abbigliamento o l’acconciatura. Tramite un’intervista semi-strutturata, il ragazzo riportò elevati livelli di preoccupazione inerenti le proprie competenze accademiche, le interazioni sociali e la propria sicurezza. L’autore concluse che i bambini affetti da proposopagnosia raramente sono in grado di creare gruppi di amicizie, poiché troppo difficili da sviluppare e mantenere (Diaz, 2008).

Yardley e collaboratori (2008) intervistarono 25 soggetti affetti da prosopagnosia congenita per analizzare se come difficoltà nel riconoscimento dell’identità dei volti possa impattare nel funzionamento psico-sociale dei soggetti che ne sono affetti. La maggior parte dei partecipanti riportarono esempi vividi di episodi imbarazzanti e spesso traumatici di errori, per esempio salutare sconosciuti confusi per persone note o evidenti fallimenti nel riconoscere persone familiari, ripresentandosi a riunioni di famiglia o al gruppo di amici. Una partecipante ha descritto il senso di panico causato dal pensiero di non essere in grado di riconoscere le sue amiche se perse in mezzo alla folla (Yardley et al., 2008). A lungo termine tali fallimenti possono portare ad attuare comportamenti di evitamento, come sfuggire ad incontri casuali ed evitare il contatto visivo con altre persone. In casi estremi, la presenza costante di uno stato d’ansia nel contesto sociale può esitare in isolamento sociale, riduzione dell’opportunità di impiego e perdita di fiducia in sé stessi (Dalrymple et al., 2014).

Nell’analizzare le conseguenze psicosociali del deficit in bambini con prosopoagnosia congenita sono state ipotizzate alcune tematiche principali: consapevolezza della difficoltà, utilizzo di strategie di coping, implicazioni sociali della difficoltà di identificazioni dei volti noti (Dalrymple et al., 2014). In particolare, è emerso come la maggior parte dei bambini sia consapevole delle proprie difficoltà o necessiti solo di una breve introduzione sul tema per poter parlarne approfonditamente. Le strategie di coping citate variavano notevolmente per quanto concerne il grado di complessità, dal chiedere sempre il nome all’ interlocutore, allo sfruttare informazioni provenienti dal contesto o utilizzare indizi “non volto”: memorizzare vestiti, colori dei capelli, oppure indizi più stabili come forma e dimensione del viso o indizi uditivi quali la voce. Un tema significativo identificato da Dalrymple e collaboratori (2014) riguarda il fatto che, nonostante per le altre persone gli episodi di mancati o erronei riconoscimenti possano risultate perfino buffi, per i soggetti prosopagnosici sono invece situazioni frustranti e emotivamente forti e intense. Vi sono quindi evidenze di un forte disagio e distress sperimentato dai soggetti con prosopagnosia congenita, con conseguenze importanti sul piano sociale e psicologico.

Interessante è inoltre capire, nel caso di bambini con prosopagnosia congenita, come tale difficoltà venga vissuta dai genitori: Dalrymple e collaboratori (2014) hanno evidenziato come tutti i genitori da loro intervistati abbiano espresso vissuti di sofferenza circa la scarsa conoscenza delle difficoltà dei propri figli e la mancanza di comprensione dell’impatto emotivo che tali difficoltà hanno sul bambino. I genitori hanno espresso inoltre ansia relativa a come le loro preoccupazioni e la situazione fosse vissuta dagli altri genitori e caregiver. Tale studio riguarda la situazione di bambini affetti da prosopagnosia congenita, interessante sarebbe vedere come evolvano le difficoltà di natura psicologica e sociale con l’età. Gli autori hanno ipotizzato infatti che tali conseguenze si facciano più severe in adolescenza (Dalrymple et al., 2014), un periodo di importante maturazione sia personale che relazionale, di ridefinizione di ruoli sociali e di significative transizioni scolastiche (Roeser, Eccles & Sameroff, 2000; Eccles et al., 1993).

Complessivamente, i risultati di numerosi studi suggeriscono come la prosopagnosia congenita possa avere gravi conseguenze psicologiche a breve e lungo termine. È necessario quindi incrementare le conoscenze circa la patologia e il suo impatto psicologico, in modo da fornire sostegni adeguati per la sperimentazione di interazioni sociali più facili e, specialmente nei casi di contesto evolutivo, aiutare i genitori a sostenere adeguatamente i propri figli (Dalrymple et al., 2014).

…Un giorno mio fratello stava giocando a casa con il suo amichetto Richard, che era anche nostro vicino. Una donna suonò alla porta e io, vedendola, credetti si trattasse della madre di Richard che era venuta a riprenderselo. Si trattava invece di una donna che abitava nella nostra via e che mi chiedeva se potevo fare la babysitter da lei questo weekend. Conoscevo entrambe queste donne da più di sei anni e non sono mai riuscita a distinguerle (Il caso di Tiffany – Rivolta, 2012).

11 mesi: un romanzo sulla sofferenza psicologica e la psicoterapia – Recensione

11 mesi è un romanzo appassionante, attraverso il quale il lettore può sentirsi guidato all’interno di un mondo tanto complesso come quello della sofferenza psicologica e della sua cura. Adatto a chi questo mondo lo vive con dedizione ogni giorno ma anche a chi di psicoterapia non conosce ancora nulla, l’autrice Angela Ganci ci accompagna in un viaggio non sempre semplice ma sicuramente affascinante, alla scoperta di quelle verità difficili che non appartengono solo alla protagonista ma rispecchiano il vissuto profondo di ciascuno di noi.

 

Il personaggio di Silvia nel romanzo 11 mesi

In un susseguirsi rapido di vicende, a volte surreali, impariamo ben presto a conoscere e ad affezionarci ai vari personaggi di questa storia, in primis Silvia, attorno alla quale si intreccia tutta una trama di profondo dolore ma anche di rivincita, rinascita e cura. A letto da settimane, vittima di dolori lancinanti che le impediscono il più piccolo movimento, Silvia rifiuta qualsiasi aiuto. Ma è proprio di fronte all’ennesimo tentativo, senza speranza, che è possibile per lei ritrovare una via di guarigione grazie all’incontro con l’Altro, o sarebbe meglio dire, con gli Altri.

Se tale incontro costituisce la conditio sine qua non per generare il cambiamento, fin dalle prime pagine del libro 11 mesi è chiaro anche che la relazione terapeuta/paziente non può costituire l’unica via di accesso all’elaborazione dei vissuti dolorosi del paziente. L’autrice ci apre verso un modello di terapia fatto dall’unione stretta e originale tra psicologia, medicina e religione. Ciò che vuole suggerirci è che la psicoterapia non è un mondo chiuso, a sé stante, ma è proprio nel dialogo con le altre discipline che ha modo di rifiorire e dare spazio a quello che è un reale processo di guarigione la cui forza risiede nella creatività in cui l’incontro terapeutico può avvenire.

È in questo modo che Silvia riesce a compiere il proprio viaggio. Sulla scena, un medico, una psicoterapeuta esperta e una suora dalle strabilianti abilità, definite da alcuni persino miracolose. Ciascuno di questi personaggi in maniera diversa, diretta e indiretta, influenzano il suo percorso agendo sempre in modo coordinato e sinergico verso l’obiettivo comune di permettere l’espressione e la rielaborazione di un dolore che per molto tempo non ha trovato altro veicolo che il corpo sofferente della nostra protagonista.

La ricchezza che ne deriva è racchiusa nella possibilità di prendersi cura da più fronti di quell’Io ferito che la paziente ci racconta parola dopo parola, ma anche, e soprattutto, nei suoi lunghi silenzi.

Le emozioni come fulcro del disturbo e della guarigione

Per quanto riguarda nello specifico il processo terapeutico, corpo ed emozioni diventano il fulcro del lavoro con questa paziente. Ritroviamo in ciò molto degli approcci di ultima generazione, in cui le emozioni vanno a ricoprire una posizione di grande potere, tanto nella genesi del disturbo quanto nell’attivazione di un processo trasformativo e di guarigione. Si tratta di emozioni bloccate e bloccanti, emozioni congelate, che sono sempre state lì determinando un tilt del sistema. Ma attenzione! La nostra autrice ci ricorda brillantemente attraverso le riflessioni sapienti della terapeuta, Anna, che questi Blocchi, senz’altro dannosi, hanno avuto un perché, una loro originaria utilità. Anche se a prima vista potrebbero sembrare del tutto nocivi, sono serviti, in un determinato periodo della vita, a reagire nel modo migliore a una situazione altrimenti impossibile da attraversare, troppo dura anche per i caratteri più forgiati.

Appare chiaro pertanto perché il cambiamento possa essere tanto difficile e doloroso.

Proprio per questo motivo, diviene fondamentale per il paziente fare esperienza di un clima di profondo rispetto e accettazione. All’interno di questa cornice è possibile per il paziente, e lo ritroviamo nel racconto di Silvia, comprendere come i sintomi e il dolore che esprime costituiscono qualcosa che ha certamente un senso all’interno della propria storia di vita. È una scoperta necessaria, che consente di trovare un nuovo collegamento tra parti di sé rimaste per lungo tempo frammentate e non integrate.

Come in ogni viaggio che si rispetti, la riconquista di sé ha inizio dalla propria stessa persona, dal proprio corpo: via d’accesso privilegiata, sempre a disposizione e in continua comunicazione con noi, nonostante i tentativi ostinati di ignorare i suoi messaggi. Da questo importante punto di partenza la prospettiva si allarga e, nel percorso terapeutico descritto dall’autrice, ritroviamo temi importanti come il controllo, la rigidità, elementi fondanti di molti quadri psicopatologici.

Come lettori non possiamo che sentirci partecipi di questo viaggio, vicini tanto a Silvia quanto anche agli altri personaggi del racconto. Eredità personale, a conclusione di una lettura che si fa sempre più incalzante via via che ci accorgiamo di essere prossimi all’epilogo della vicenda di 11 mesi, è dunque, per citare le parole di Albert Camus, la scoperta che proprio nelle profondità dell’inverno possiamo imparare alla fine che dentro di noi c’è un’estate invincibile.

Il contatto fisico tra neonato e caregiver può lasciare tracce sui geni dei propri figli – Il primo studio condotto sugli esseri umani

Un nuovo studio della British Columbia University e del Children’s Hospital Research Institute ha dimostrato come la quantità di abbracci e tocchi confortanti tra bambini e caregiver comporti conseguenze radicate sull’espressione genica dell’infante.

 

Lo studio è partito dalla rilevazione di cellule con un profilo molecolare sottosviluppato per l’età anagrafica esaminata, in quei bambini che hanno ricevuto, all’inizio della propria vita, scarsi contatti fisici dai propri caregivers . Tale aspetto potrebbe corrisponderebbe a una sorta di ritardo biologico del soggetto.

In passato questo tipo di ricerche erano state condotte sui roditori. In questo studio, il primo del genere ad essere invece condotto su esseri umani, sono stati coinvolti 94 neonati. In particolare i genitori di questi 94 neonati hanno riportato su un diario per cinque settimane il comportamento dei propri figli (ritmi del sonno, nutrizione, etc.) e la durata dei momenti in cui vi era contatto fisico tra bambini e caregiver.

In seguito, al compimento dei quattro anni e mezzo, i ricercatori hanno prelevato il DNA dei bambini, tramite un tampone applicato sul tessuto interno alla guancia.

I ricercatori hanno trovato consistenti differenze di metilazione (una modifica biochimica, in cui alcune parti del cromosoma sono marcate con piccole molecole di idrogeno e carbonio) in cinque diversi siti genici specifici del DNA tra i bambini che hanno ricevuto un alto numero di contatti fisici e quelli che invece ne hanno ricevuti pochi.

L’intenzione dei ricercatori è quella di verificare se l’immaturità biologica registrata nel gruppo dei bambini che hanno ricevuti scarsi contatti fisici all’inizio della propria vita abbia implicazioni sulla loro salute, e in particolare sul loro sviluppo psicologico.

Se future ricerche confermeranno tale risultato, si avrà conferma di quanto fornire un contatto fisico ai neonati, specialmente nei casi di bambini in difficoltà, sia di fondamentale importanza.

 

L’ascesa della tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS) per i disturbi mentali gravi farmaco-resistenti: una questione controversa

Attualmente l’uso della Deep Brain Stimulation è stato allargato al trattamento dei disturbi psichiatrici che si sono rivelati persistenti nel tempo e che non rispondono più ad alcun tipo di dosaggi farmacologico e terapia di qualunque genere.

 

La tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS)

La tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS) è stata approvata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1997 dalla FDA, la Food and Drug Administration, per il trattamento di numerose condizioni neurologiche associate alla malattia di Parkinson come i tremori incontrollabili e la distonia, l’epilessia, la sindrome di Tourette (Perlmutter & Mink, 2006).

Il trattamento con la Deep Brain Stimulation consiste nell’impianto chirurgico di elettrodi in specifiche regioni cerebrali, coinvolte nel disturbo, con lo scopo di stimolarle elettricamente attenuando e migliorando i sintomi del paziente; è bene sottolineare tuttavia che il meccanismo per il quale la tecnica neurochirurgica sembra funzionare è ancora scarsamente conosciuto anche se è noto che la Deep Brain Stimulation agisce tramite meccanismi multimodali che non sono limitati all’inibizione o all’eccitazione dei circuiti (Askan, Roger et al., 2017).

È stato postulato che l’efficacia della Deep Brain Stimulation nell’attenuare i sintomi del paziente e di migliorarne la qualità di vita sia dovuta al fatto che gli impulsi elettrici, rilasciati dagli elettrodi impiantati, modulino l’attività neurale.

Ad esempio, è stato osservato come durante la Deep Brain Stimulation per il trattamento di tremori invalidanti caratterizzanti la malattia di Parkinson, il semplice impianto di un elettrodo nel talamo ha determinato l’immediata riduzione di questi (Benabid, 2003).

Gli elettrodi vengono impiantati tramite una procedura neurochirurgica e sono collegati ad un device simil-pacemaker che viene posto sottopelle al di sotto della clavicola; una volta che il paziente viene dimesso, l’apparecchio pacemaker viene programmato e regolato per far si che gli elettrodi rilascino corrente elettrica con una frequenza e un voltaggio specifici in modo tale da ottenere la miglior riduzione possibile dei sintomi (Askan, Roger et al., 2017).

Attualmente l’uso della Deep Brain Stimulation è stato allargato al trattamento dei disturbi psichiatrici che si sono rivelati persistenti nel tempo e che non rispondono più ad alcun tipo di dosaggi farmacologico e terapia di qualunque genere, come ad esempio alcune forme di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo molto gravi e che non mostrano alcun tipo di miglioramento dei sintomi nel tempo (Fitzgerald & Segrave, 2015).

Deep Brain Stimulation: gli sviluppi

Recentemente, il gruppo di ricercatori statunitensi del Defence Advanced Research Projects Agency (DARPA) in collaborazione con i ricercatori dell’Università di San Francisco e dell’ospedale di Boston, ha presentato per la prima volta alla società di neuroscienze (SfN), un progetto di ricerca preliminare che si prefigge lo scopo di testare la Deep Brain Stimulation per identificare e registrare online pattern di attivazione cerebrale associati specificatamente ai disturbi mentali ed eventualmente trattarli sulla base delle informazioni raccolte tramite gli elettrodi impiantati.

La Deep Brain Stimulation infatti non solo è in grado di modulare l’attività elettrica delle aree cerebrali coinvolte e di interesse per il disturbo ma anche di registrarla online (Perlmutter & Mink, 2006).

Il gruppo di ricerca ha sviluppato tale progetto sperimentale partendo dagli studi su soggetti con epilessia che già avevano impiantati elettrodi per tracciare i momenti in cui avvenivano gli attacchi epilettici; tramite la Deep Brain Stimulation i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le informazioni provenienti dagli elettrodi impiantati per registrare online cosa stava accadendo nel cervello di questi pazienti ed intervenire con stimoli elettrici solo al momento del verificarsi di un attacco epilettico.

I ricercatori inoltre hanno avuto modo di accedere all’attività cerebrale non legata agli episodi epilettici ma comunque registrata dagli elettrodi e di poter rilevare nel dettaglio anche l’umore dei pazienti per un periodo di tre settimane.

La loro idea innovativa è stata quella di mettere in relazione i due tipi di informazioni, l’attività cerebrale registrata dagli elettrodi e le rilevazioni dell’umore, creando uno specifico algoritmo in grado di decifrare i cambiamenti dell’umore utilizzando l’attività cerebrale delle aree associate.

L’intenzione alla base dello studio non è stata quella di identificare un particolare disturbo mentale e ridurne i sintomi ma di “mappare”, tramite la Deep Brain Stimulation, l’attività cerebrale dei soggetti associata con delle funzioni compromesse dal disturbo dell’umore come ad esempio la capacità di concentrazione: gli studiosi hanno utilizzato l’algoritmo da loro sviluppato per capire quando stimolare le aree cerebrali legate all’attenzione “alterata” nel momento in cui il soggetto si distraeva da un compito, come ad esempio l’identificazione di espressioni facciali emotive.

I ricercatori hanno trovato che trasmettere impulsi elettrici alle aree cerebrali coinvolte ad esempio nel decision-making migliorasse significativamente la prestazione dei soggetti ai compiti; l’equipe inoltre ha avuto modo di registrare l’attività cerebrale mentre le persone cominciavano a distrarsi o a rallentare mentre svolgevano un compito e di conseguenza intervenire con una stimolazione.

Mi auguro che questa stimolazione possa in futuro rappresentare un trattamento a lungo termine per quei pazienti con disturbi dell’umore farmaco resistenti, in parte perché l’uso di questo trattamento è personalizzato e basato su specifici segnali cerebrali dell’individuo anziché sui giudizi del medico – afferma Wayne Goodman, psichiatra al Baylor College di medicina di Houston, Texas.

Questo trattamento solleva certamente delle questioni etiche notevoli e complesse da tenere in considerazione in quanto il passo successivo sarà la possibilità di “correggere” al momento le emozioni o le decisioni delle persone o di registrare ciò che l’individuo sta provando andando al di là di ciò che è osservabile tramite le espressioni del volto o il comportamento e riferibile dal soggetto.

Sarà forse possibile in futuro accedere all’attività cerebrale che codifica le emozioni delle persone; la cosa affascinante riguardo queste tecnologie è che per la prima volta siamo in grado di aprire una finestra sul cervello e sapere cosa sta accadendo al momento con la possibilità di intervenire e prevenire ricadute – afferma Alik Widge, neuroingegnere e psichiatra all’università di Harvard

Le scelte intertemporali: i meccanismi psicologici che le determinano

L’uomo di oggi ha frequentemente necessità di prendere delle decisioni intertemporali. Con tale costrutto si intendono quelle scelte che il soggetto fa e che daranno i loro frutti in tempi differenti dal presente. Affinché possa compiere una scelta intertemporale, la persona ricerca con accuratezza le informazioni relative alla decisione da prendere, considerando più fattori. Il reperimento di tali notizie avviene attraverso l’utilizzo di due strategie, ovvero la strategia comparativa e la strategia integrativa. Inoltre, la capacità di compiere delle scelte intertemporali è legata ad alcuni tratti caratteriali, come l’abilità di essere pazienti, che è presente in alcuni individui ed assente in altri.

 

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Decisioni intertemporali: che cosa sono?

L’uomo di oggi ha frequentemente necessità di prendere delle decisioni intertemporali. Con tale costrutto si intendono quelle scelte che il soggetto fa e che daranno i loro frutti in tempi differenti dal presente (Delfino, 2011). Queste opzioni investono diversi settori della vita dell’individuo. Nello specifico, possono riguardare la salute, come, per esempio, mettersi a dieta per preservare il proprio benessere futuro, la propria formazione orientata al successivo esercizio di una professione, piani di risparmio finalizzati all’accumulo di un certo capitale da utilizzare come pensione integrativa, il rispetto delle norme ecologiche per preservare l’ambiente da lasciare in eredità alle nuove generazioni.

I meccanismi che determinano le decisioni intertemporali

Quali meccanismi psicologici spingono gli individui ad investire le loro forze e risorse in progettualità che si realizzeranno in un tempo futuro lontano?

Affinché possa compiere una scelta intertemporale, la persona ricerca con accuratezza le informazioni relative alla decisione da prendere, considerando più fattori. Diverse ricerche, soprattutto in ambito economico (Ainslie, 1975; Laibson, 1997), nel corso del tempo si sono occupate di capire la motivazione che spinge gli individui a compiere delle scelte di lungo periodo, che richiedono dei sacrifici, piuttosto che godere nel breve termine delle loro risorse.

Da questi studi quello che si evince è che la capacità di compiere delle decisioni intertemporali è legata ad alcuni tratti caratteriali, come l’abilità di essere pazienti, che è presente in alcuni individui ed assente in altri (Golsteyn e al., 2014; Reimers e al., 2009).

Si definiscono anomalie della scelta intertemporale (Loewenstein e Prelec, 1992) quelle condizioni nelle quali la finalità della progettualità a lungo termine viene meno, in quanto cambiano gli scenari emotivi, economici e di vita, che hanno dato origine alla decisione intertemporale.

Relativamente al tempo, solitamente gli individui tendono a fare delle scelte che riguardano il tempo presente o al massimo il futuro prossimo, essendo spesso spaventati dall’imprevedibilità di una prospettiva futura molto lontana, come messo in evidenza dalle sperimentazioni di Ainslie (2005). La difficoltà a fare delle scelte temporali di lungo periodo è definita miopia temporale (Strotz, 1956). A determinare la miopia temporale concorrono diversi fattori, fra cui spicca l’impulsività e la mancanza di autocontrollo (Wittmann e Paulus, 2008).

Nel convincere gli individui a prendere decisioni intertemporali un posto di rilievo lo occupa la comunicazione di chi propone le opzioni fra cui orientarsi. In pratica, laddove il frutto delle scelte intertemporali viene presentato come un qualcosa di estremamente desiderabile e positivo, questo inficerà la scelta intertemporale stessa, in quanto la desiderabilità e positività della meta, che si potrebbe raggiungere nel lungo periodo, stimola l’impazienza del soggetto, che non è disposto ad aspettare così a lungo per raggiungerla (Mischel e al., 1989).

Sulle decisioni intertemporali intervengono negativamente quelli che Loewenstein (1996) definisce gli imperativi biologici, per cui la non soddisfazione dei bisogni primari (fame, sete ecc.) e alcune emozioni come la paura fanno venir meno la capacità del soggetto di fare delle scelte intertemporali.

Altra variabile che incide sulla capacità degli individui di prendere decisioni ad ampio respiro è rappresentata dalla percezione soggettiva del tempo. In pratica, ci sono individui che attribuiscono un alto valore emotivo alle cose che possono essere ottenute nell’immediato e scarsa considerazione per tutto quello che può essere conquistato in un tempo futuro indefinito. In ragione di ciò, cambia la percezione soggettiva del tempo, per cui all’immediato viene attribuita un’alta pregnanza emotiva, cosa che non accade per la dimensione futura (Ebert e Prelec, 2007).

Una recente ricerca (Reek e al., 2017) ha convalidato la tesi che gli individui per compiere una scelta intertemporale cerchino di reperire più informazioni possibili. Il reperimento di tali notizie avviene attraverso l’utilizzo di due strategie, ovvero la strategia comparativa e la strategia integrativa.

Con la prima il soggetto compara le diverse informazioni, cercando di immaginare le conseguenze future di un’eventuale scelta, attraverso le varie opzioni legate alla scelta stessa. In altre parole, l’individuo immagina che cosa accadrebbe se invece di accantonare 100 € al mese per i successivi 10 anni, ne mettesse da parte 200 o 300 € al mese.

Nella strategia integrativa la persona raccoglie più informazioni relative ai probabili scenari futuri a cui potrebbe andare incontro la sua scelta attuale. In questa prospettiva, in pratica, l’individuo immagina come la sua scelta di accantonare 100 € al mese per i prossimi 10 anni possa risentire dei probabili scenari economici differenti (periodi di crisi economica, instabilità della fonte di reddito ecc.).

Secondo questa ricerca i soggetti che utilizzano la strategia comparativa sono caratterialmente più pazienti e risentono maggiormente delle influenze contestuali nell’ambito della decisione da prendere, mentre quelli che scelgono la strategia integrativa sono meno pazienti e risentono meno delle suggestioni ambientali.

In conclusione, la capacità decisionale intertemporale di un individuo dipende da diversi fattori sia ambientali che personali. L’abilità di essere pazienti e il possedere una prospettiva temporale ad ampio respiro sembrano incentivare la competenza decisionale intertemporale.

Come risponde l’amigdala alla disuguaglianza economica e il rischio di depressione

Pensiamo che essere altruisti, responsabili e onesti porti a una vita felice. E se ci sbagliassimo? Un nuovo studio pubblicato su Nature Human Behavior suggerisce che chi apprezza l’equità economica, ha una maggiore probabilità di soffrire di depressione, invece, chi preferisce ottenere sempre il massimo per sé, tendenzialmente è più felice e meno soggetto a sviluppare sintomi depressivi.

 

Il modello dell’orientamento del valore sociale: le reazioni all’inequità economica

In accordo con il social value orientation model (SVO), letteralmente tradotto come modello dell’orientamento del valore sociale, che è relativo a quanto peso una persona attribuisce al benessere degli altri in relazione al proprio, le persone possono essere divise approssimativamente in tre categorie basate sulla loro reazione all’inequità economica: il 60% delle persone sono prosociali e preferiscono che le risorse economiche vengano distribuite egualmente tra tutti; il 30% sono individualisti, i quali cercano di massimizzare le risorse economiche per loro stessi. Infine, circa il 10% delle persone sono competitive e per queste il risultato più importante è avere più degli altri.

Il ruolo dell’amidgala nel comportamento prosociale

Nel 2010, il Dr. Masahiko Haruno, neuroscienziato del Tamagawa University Brain Science Institute in Giappone, pubblicò nella rivista Nature Neuroscience, che una delle strutture più antiche del cervello, l’ amigdala, ha un ruolo chiave nell’influenzare il comportamento prosociale ed è associata all’attivazione automatica di sentimenti in risposta allo stress. Il suo gruppo di ricerca trovò che le persone prosociali, quando sono esposte a una situazione di differenza di equità economica, hanno una forte attivazione dell’amigdala. In altri termini, in una simulazione dove altri individui ricevono più soldi di quelli che le persone prosociali hanno ricevuto, l’amigdala viene attivata. Inoltre, si osserva che l’attivazione dell’amigdala si attiva quando sono loro stessi a ricevere più soldi rispetto ad altri durante la simulazione. Questo suggerisce che l’attivazione dell’amigdala è legata anche a sentimenti di colpa.

Di contro, le persone individualiste, hanno una attivazione dell’amigdala soltanto quando si sentono vittime in una situazione di inequità e restano relativamente insensibili, invece, quando ottengono più denaro ingiustamente rispetto ad un’altra persona.
Entrambi i gruppi mostrano, quindi, un’amigdala sensibile a una situazione in cui si è vittime, ma, in relazione all’inequità economica dovuta a un maggiore ricchezza economica nei propri confronti, le persone prosociali sono le uniche che mostrano un’attivazione dell’amigdala dovuta a sensi di colpa.

Il rischio di depressione in persone prosociali e individualiste

In un nuovo studio, pubblicato in Nature Human Behavior , il gruppo del Dr. Haruno si è proposto di indagare se questi pattern di attivazione del cervello inerenti la sfera prosociale, siano correlati a sintomi clinici di depressione a lungo termine, analizzando il cervello sia di persone prosociali sia di persone individualiste attraverso la risonanza magnetica funzionale, una tecnica che permette di osservare quali aree del cervello si attivano durante una specifica situazione.

Come previsto, le persone prosociali mostrano una maggiore attivazione dell’amigdala quando esposti a situazioni nelle quali i soldi sono distribuiti in maniera diseguale. Questo si verifica sia quando sono loro a ricevere più soldi sia quando lo sono gli altri. Nuovamente, gli individualisti hanno una maggiore attivazione dell’amigdala soltanto quando gli altri sono beneficiari di una maggiore quantità di soldi.

Per verificare se questi pattern di attivazione del cervello siano associati alla depressione, i ricercatori hanno usato il questionario “Beck Depression Inventory”, che permette di misurare i sintomi clinici della depressione in relazione alle ultime due settimane prima della somministrazione.
In merito a ciò, il gruppo di Haruno ha trovato che chi possiede dei pattern di attivazione del cervello inerenti la sfera prosociale riscontra una maggiore tendenza alla depressione, che viene ulteriormente confermata quando gli stessi soggetti vengono sottoposti al follow-up un anno dopo.

Un dato da sottolineare è che i partecipanti allo studio appartengono a una fascia di età tra i 18 e i 26 anni e i ricercatori, grazie alla tecnica della risonanza magnetica, hanno osservato che la corteccia prefrontale dei soggetti è pienamente matura solo all’età di 26 anni. Tale osservazione ha spinto, attualmente, il Dr. Haruno e il suo team a indagare se questi risultati siano applicabili alle persone meno giovani, le quali presentano una corteccia prefrontale completamente sviluppata.

Il risultato sperato è che una corteccia prefrontale completamente sviluppata possa proteggere gli anziani dalla depressione dovuta alla percezione di una situazione di disuguaglianza.

Nonostante la relazione con la depressione, i risultati della ricerca possono essere visti come una opportunità per allenare i processi cerebrali di livello superiore come la corteccia prefrontale e imparare a controllare queste emozioni e combattere la depressione.

Le alterazioni del tono dell’umore nel paziente afasico

L’ afasia è definibile come un disturbo della formulazione e della comprensione di messaggi linguistici, conseguente a lesioni focali cerebrali. L’ afasia provoca disturbi più o meno gravi, a seconda della grandezza della lesione, nel parlare, nel capire, nel leggere e nello scrivere.

Francesca Maria Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

…Immagina che improvvisamente tutte le persone intorno a te – le persone a te più care, gli amici, gli estranei – si mettano a parlare una lingua a te sconosciuta; non sei più in grado di capire cosa ti dicono e non riesci a far loro capire quello che dici tu. Vedi il quotidiano che leggi regolarmente da anni e ti accorgi che anche quello, pur sembrando il solito giornale, è scritto in una lingua a te ignota. 

Sei spaventato, non sai cosa fare e inoltre ti rendi conto di essere in ospedale. Perché? Cosa è successo? Ti si avvicina gente ignota (apparentemente un medico, infermieri), ti fanno delle cose, ti parlano ma tu non sei in grado di chiedere, di capire cosa ti dicono. Finalmente arriva tuo figlio; ti bacia, ti guarda… e parla anche lui questa nuova lingua a te ignota!! Piano piano ti rendi conto che non è il mondo che è cambiato, sei tu a essere cambiato. (Basso Anna (n.d.) in “L’ afasia – La persona afasica e la riabilitazione”)

La comunicazione interrotta: cos’è l’ afasia?

La comunicazione tra individui di una specie animale è fondamentale per lo scambio di informazioni necessarie alla sopravvivenza come singoli e come specie. Tuttavia, esclusivamente gli esseri umani comunicano utilizzando simboli convenzionali, arbitrari, altamente diversificati tra popolazioni ed etnie e in evoluzione costante (Vallar & Papagno, 2007). Il linguaggio ci permette quindi di parlare di cose presenti, passate o future, di cose vere o inventate, utilizzando solo alcune decine di suoni con i quali vengono formate migliaia di parole collegate tra di loro da regole grammaticali.

Un atto comunicativo in quanto tale necessita che vi sia un individuo che produce un messaggio, ossia codifica un pensiero in una forma linguistica, e un soggetto destinatario che decodifica il messaggio, comprendendone quindi il significato.

L’ afasia è definibile come “disturbo della formulazione e della comprensione di messaggi linguistici, che consegue a lesioni focali cerebrali, in persone che avevano in precedenza acquisito un uso normale del linguaggio” (Vallar & Papagno, 2007).  L’ afasia provoca disturbi più o meno gravi, a seconda della grandezza della lesione, nel parlare, nel capire, nel leggere e nello scrivere.

Il deficit consegue solitamente a una lesione cerebrale nell’emisfero sinistro, coinvolgendo le diverse unità del linguaggio, sia a livello orale che scritto. Nella maggioranza dei soggetti destrimani il linguaggio è lateralizzato nell’emisfero di sinistra; una localizzazione del linguaggio a destra è rara e riguarda circa il 5% dei casi: un disturbo del linguaggio causato da una lesione cerebrale emisferica destra in soggetti destrimani è detto afasia crociata. Nel caso dei soggetti mancini, nel 60% si ha una lateralizzazione a sinistra, mentre nel restante 40% esso si trova localizzato a destra o in entrambi gli emisferi.

Inizialmente era stata proposta una dicotomia diagnostica che contrapponeva deficit in produzione ai deficit in comprensione. Essa origina dal diagramma di Wernicke e Lichtheim, contrapponente deficit di linguaggio conseguenti a lesioni temporali a quelli da lesioni frontali sinistre (Làdavas, 2012). Tale classificazione è risultata incongruente con i dati derivanti dall’osservazione clinica: produzione e comprensione del linguaggio sono solitamente compromesse in modo relativamente congruente. La dicotomia produzione/comprensione venne quindi sostituita da una differenziazione tra aspetti qualitativi della produzione orale: si parla quindi di deficit fluenti e non fluenti.

Un deficit fluente (conseguente a lesione cerebrale posteriore) è caratterizzato da eloquio abbondante, emesso senza significative difficoltà articolatorie, frasi relativamente lunghe e sintatticamente complesse ma che possono esitare in una produzione incomprensibile a causa di errori quali sostituzioni di funtori e morfemi grammaticali.

L’ afasia non fluente, conseguente a lesioni anteriori, è caratterizzata da un eloquio lento e scandito, con produzione articolatoria laboriosa, frasi brevi e frequenti omissioni di funtori e morfemi grammaticali. A tale principio diagnostico si affianca ora una descrizione dei deficit di linguaggio che tenga conto della principali componenti della linguistica descrittiva (fonologia, lessico, morfosintassi) e delle unità di elaborazione della psicolinguistica cognitiva. Molti studi ora sono in direzione di individuare con maggior dettaglio forme afasiche in cui i deficit dissociano per categoria o per classe grammaticale (Vallar & Papagno, 2007). Dal punto di vista eziologico, la maggioranza delle afasie sono su base vascolare, seguite da patologia traumatica o neoplastica.

Afasia e alterazioni del tono dell’umore

Già da tempo vi sono evidenze del fatto che alterazioni del tono dell’umore e disturbi depressivi possano considerarsi conseguenze frequenti di lesioni cerebrali sia in fase acuta che cronica, fino a 1 o 2 anni di distanza dall’onset (Robinson et al., 1983;1984;1987). Ulteriori studi individuarono una maggior presenza di alterazioni di natura depressiva in seguito a lesioni dell’emisfero sinistro (Robinson et al., 1984). Per primo Gainotti (1972) osservò difatti che pazienti affetti da lesioni cerebrali sinistra manifestavano reazioni emozionali di tipo “catastrofico” ai fallimenti rispetto ai test cognitivi o sintomatologia ansioso-depressiva.

Herrmann e colleghi (1993) in un campione di soggetti afasici a seguito di ictus cerebrale, individuarono differenze significative nel profilo dei sintomi depressivi: i soggetti con afasia in fase acuta riportavano punteggi superiori per quanto riguardava gli indicatori fisici di depressione, mentre i soggetti con afasia in fase cronica sentivano con maggior peso le alterazioni delle funzioni cicliche.

Negli ultimi decenni la ricerca sta orientando la propria attenzione allo studio delle alterazioni del tono dell’umore a seguito di eventi neurologici acuti come l’ictus, sia per la comprensione dei meccanismi sottostanti sia con finalità riabilitativa (Herrmann, Bartels & Wallesch, 1993). Tuttavia, l’utilizzo di strumenti di misura e indicatori di patologia mutati dagli studi sulle patologie psichiatriche ha reso spesso i risultati molto eterogenei e poco generalizzabili. È difatti discutibile la proposta di valutare in maniera valida e affidabile pazienti con importanti deficit linguistici utilizzando scale o procedure di valutazione standard che si basino su di una intensa comunicazione verbale. Alterazioni del tono dell’umore, stati depressivi o sintomatologia ansiosa sono frequenti conseguenze di patologie quali stroke. Le persone con afasia sono escluse tipicamente dagli studi sulle conseguenze psicologiche della patologia neurologica, ciò a causa della loro difficoltà nel rispondere a scale self-report indaganti il tono dell’umore o interviste cliniche strutturate (Hilari et al., 2010).

La qualità della vita è fortemente correlata allo stato di salute: si parla di health-related quality of life (HRQL), intesa come percezione e soddisfazione di un individuo relativamente al proprio funzionamento fisico, mentale, emotivo e sociale (Berzon et al., 1993). L’intervento riabilitativo post ictus ha infatti tra i vari obiettivi lo scopo generale di migliorare il senso di benessere percepito e di qualità di vita (Party, 2012). La capacità di comunicare è quindi fondamentale non solo per il processo di riabilitazione ma anche in vista del reinserimento del soggetto nella propria comunità (Rombough et al., 2006).

Nonostante le difficoltà di inserimento in studi clinici sulle alterazioni del tono dell’umore, soggetti affetti da afasia risultano inseribili in tali studi utilizzando metodologie adattate quali osservazione clinica, uso di informatori esterne, misure basate su informazioni visive (Hilari et al., 2010).

La scala Stroke and Aphasia Quality Of Life scale (SAQOL-39g) è stata adattata per l’utilizzo con soggetti affetti da afasia, con risultati forti in termini di affidabilità, validità e sensibilità (Diaz et al., 2013; Caute at al., 2012). Comprende 39 item che coprono sottodomini fisici, psicosociali e di comunicazione.

In particolare, i risultati di alcuni lavori hanno dimostrato che la capacità di comunicare in maniera funzionale e, in misura minore, le abilità linguistiche generali sono implicati e influenzano la qualità di vita percepita dal soggetto afasico e la partecipazione ad attività sociali e di comunità (Cruice et al., 2003).

Un ulteriore strumento utile è la Visual Analogue Scales (VASs), una misura a single-item verosimilmente poco adatto all’indagine di costrutti complessi quali la qualità di vita, ma che si adegua per semplicità a particolari situazioni, per esempio con soggetti con grave compromissione cognitiva o afasia (Hilari & Boreham, 2013).

In uno lavoro osservazionale prospettico (longitudinale) del 2010 Hilari e collaboratori hanno studiato i fattori predittivi di distress nei primi sei mesi dopo l’ictus in un campione comprendente soggetti afasici. Come elementi di allarme hanno individuato la gravità dell’ictus alla baseline, il basso sostegno sociale a tre mesi; la solitudine e la scarsa soddisfazione nelle relazioni sociali a sei anni mesi. Nonostante la presenza di afasia non poteva essere considerata predittore di disagio, a tre mesi dall’evento acuto il 93% dei soggetti con afasia sperimentava significativo distress rispetto al 50% dei soggetti con ictus e senza afasia. Gli autori hanno concluso quindi che, nonostante i fattori che contribuiscono al distress psicologico dopo l’ictus varino nel tempo, solitudine e scarsa soddisfazione rispetto al contesto sociale risultano particolarmente importanti, contribuendo al mantenimento di disturbi psicologici a lungo termine (Hilari et al., 2010).

Un lavoro del 2000 di Kauhanen e collaboratori individua tra le singole complicanze neurologiche dell’ictus, l’ afasia come un  importante fattore predittivo di depressione: nello studio il 70% dei pazienti afasici soddisfaceva infatti i criteri diagnostici del DSM-III-R per la depressione a 3 mesi e il 62% a 12 mesi dallo stroke; la prevalenza della depressione maggiore aumentava inoltre dall’11 al 33% durante il periodo di follow-up di 12 mesi.

Inoltre, le persone con afasia spesso riferiscono di sentirsi ansiosi quando usano il linguaggio durante la comunicazione (Cahana-Amitay et al., 2011). Gli autori sostengono difatti che, qualora le persone con afasia sperimentassero l’uso del linguaggio come un evento stressante, con effetto cumulativo tale da determinare uno stato ansioso, potrebbero esperire l’uso della lingua come una minaccia, con conseguenze comportamentali e fisiologiche nelle situazioni in cui sono tenuti a parlare fino a veri evitamenti. È come se si potesse parlare di uno stato emotivo di linguistic anxiety o ansia linguistica. In particolare, una persona con ansia linguistica presenterebbe ansia anticipatoria rispetto all’errore e paura del fallimento che diventano fattori di minaccia alla produzione linguistica.

Misurare le risposte fisiologiche di stress in questi soggetti (ad esempio la pressione arteriosa) potrebbe offrire una modalità di determinazione della misura in cui l’ansia deve essere regolata in un determinato paziente, e quindi consentire al riabilitatore di “tagliare” un intervento terapeutico “su misura” delle particolari esigenze del singolo soggetto.

Comprendere pertanto l’impatto delle sequele emotive dell’ictus nelle persone con afasia continua a rappresentare una sfida e al tempo stesso una risorsa che faciliterebbe la terapia e riabilitazione (Code, 2003; Damico et al., 2010).

Cinque falsi miti sul metodo di studio

Non si può parlare di metodo di studio come mero elenco di “cosa”, se è necessario il “come”. Ogni persona, ogni studente ha una modalità di apprendimento (visivo, letterale, globale, analitico, ecc.) che non può essere ridotta ad un modello standard di azioni da applicare pedissequamente: lo studio è un universo dinamico, flessibile, ricco, dotato di senso che richiede spirito critico e curiosità, capacità che, al giorno d’oggi, vengono continuamente impoverite a fronte di un metodo di studio (se esiste) scarno, meccanico, arido.

“Sto ancora imparando”
(Michelangelo all’età di 87 anni)

 

Quante ore abbiamo passato sui libri a preparare esami ed interrogazioni? Quante ore di sonno perse a rincorrere voti e rimpiangere una vita sociale?
Il segreto per ottimizzare il proprio tempo e le proprie energie cognitive è un buon metodo di studio, ma non tutti sanno che averlo non è una cosa così semplice come viene descritta.

Così, per esperienza (e anche per curiosità), ho girovagato per il web per capire quali fossero i consigli più “gettonati” per avere un buon metodo di studio e ho provato a commentarli (non tutti, sia chiaro, ci vorrebbero manuali per descrivere quali siano i fattori che rendono buono un metodo di studio), per sfatare alcuni miti che ruotano attorno ad esso.

Alcuni falsi miti sul metodo di studio

1. Essere organizzati.
Una delle caratteristiche più sdoganate è quella dell’organizzazione. E’ da anni che la moda del planning ha preso piede anche nel nostro paese insieme a migliaia di blog che insegnano a suddividere, secondo una scala di priorità, le proprie giornate, per poi passare all’organizzazione settimanale e mensile.
Attenzione! L’organizzazione è quasi sempre una trappola per chi non è abituato a farlo o deve conciliare lavoro, famiglia e studio ed è fondamentale distinguerla dalla pianificazione. La rigidità dell’organizzazione può generare senso di frustrazione nel momento in cui non si riesce a concludere ciò che si era previsto, per cui è consigliabile un mix di organizzazione basic e flessibilità.

2. Imparare a sottolineare.
Utilizzare la matita o, ancora meglio, evidenziatori o pastelli per sottolineare ciò che è importante è fondamentale, ma spesso ci si ritrova a dover sottolineare tutto perché non si sa cosa realmente sottolineare. La sottolineatura, infatti, indica quali siano i punti più importanti da evidenziare ma se questo passaggio non è chiaro si rischia di ridurre il libro ad un esercizio di arteterapia. Gli elementi chiave da tenere in considerazione sono: chi, cosa, dove, perché e come un dato fatto (evento storico, formulazione di una teoria, ecc.) è avvenuto.

3. Fare dei riassunti (o degli schemi).
Riassumere (o schematizzare) è un’arte. E come tutte le arti necessita di impegno, applicazione e concentrazione. Riassumere non significa ridurre il numero di parole di un testo perché il riassunto (e la successiva schematizzazione) deve essere dotato di senso per la nostra memoria. Il contenuto, infatti, deve essere significativamente saliente per poter essere immagazzinato, altrimenti si riduce ad un lavoro di copia ed incolla che non è funzionale per il nostro studio. E’ necessario anche distinguere mappa mentale da mappa concettuale, termini spesso utilizzati come sinonimi ma che hanno significato (e struttura) differente.

4. Fare delle pause.
Se l’organizzazione non è il nostro forte (ed è anche umano pensarlo, visto che siamo costantemente supportati dagli apparecchi elettronici che programmano la giornata al posto nostro), le pause sono un diritto.
Attenzione! Non bisogna esagerare con intervalli frequenti e lunghi, perché si rischia di perdere la concentrazione e le energie. Organizzare l’ora di studio secondo pause regolari è un buon modo per allenare la concentrazione, anche se uno studente adulto può tranquillamente gestire i momenti di intervallo (possibilmente brevi) in maniera autonoma, a seconda del suo sentire. Per pausa s’intende fare un piccolo spuntino, una breve passeggiata, qualche minuto di meditazione. Sconsigliato mandare messaggi, accendere la TV o fare telefonate: il cervello ha bisogno di ricaricarsi positivamente senza ulteriore dispendio di energie cognitive.

5. Essere motivati.
Facile a dirsi, difficile da farsi.
Non si può parlare di metodo di studio trascurando la motivazione. Se la maggior parte degli articoli dà per scontato questo fattore è perché è seriamente difficile ridurre a poche parole la complessità e l’importanza della motivazione. Da essa dipendono l’andamento della nostra concentrazione, le capacità di immagazzinamento in memoria e il raggiungimento degli obiettivi quotidiani in agenda, ma viene spesso messa in secondo piano, come un dato di fatto. E’ il perno (e l’inghippo) sul quale ruota gran parte dell’apprendimento (e quindi del metodo di studio).

Conclusioni

In conclusione, non si può parlare di metodo di studio come mero elenco di “cosa” se è necessario il “come”. Ogni persona, ogni studente ha una modalità di apprendimento (visivo, letterale, globale, analitico, ecc.) che non può essere ridotta ad un modello standard di azioni da applicare pedissequamente: lo studio è un universo dinamico, flessibile, ricco, dotato di senso che richiede spirito critico e curiosità, capacità che, al giorno d’oggi, vengono continuamente impoverite a fronte di un metodo di studio (se esiste) scarno, meccanico, arido.

I libri devono essere vissuti, interrogati, compresi per poter apprendere efficacemente.
Quali sono, infine, i consigli di un esperto in apprendimento?
Non abbiate fretta. Il metodo è un processo che si acquisisce nel corso dell’esperienza, spesso per tentativi ed errori. Seguire uno schema valido per tutti non è un buon modo per capire come funziona il proprio apprendimento: spesso passano mesi e anni per capire quali siano le strategie più funzionali per ottenere il successo scolastico e accademico.
Imparate ad interrogarvi su ciò che state leggendo, fate domande per approfondire le vostre conoscenze, provate a fare esempi concreti, discutetene con altre persone, approfondite su altri testi. Insomma, siate curiosi.

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