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Sexting e revenge porn: quando ad essere colpevolizzata è la vittima

Uno studio di Scott e Gavin del 2018 ha indagato la percezione di responsabilità attribuita alla vittima di revenge porn che ha precedentemente praticato il sexting, da parte di altre persone non direttamente coinvolte.

 

Il sexting può essere definito come la trasmissione tramite mezzi elettronici di immagini o video sessualmente provocatori o espliciti, che presentano qualcuno noto al mittente e/o destinatario (Lippman & Campbell, 2013).

Secondo la definizione della Lenhart che risale al 2009, il sexting consiste nella creazione e nell’invio di immagini di nudo o seminudo, sessualmente allusive, tramite messaggi di testo.

In lingua inglese, infatti, col termine texting si indica lo scambio di messaggi di testo tramite dispositivi elettronici.

Sexting: che cosa c’entra con il revenge porn?

L’espressione revenge porn sta per revenge pornography e con essa intendiamo divulgazione di immagini o video sessualmente espliciti realizzata senza il consenso delle persone rappresentate (L. 69/2019; Scott & Gavin, 2018).

Questa pratica, in Italia, è stata dichiarata reato dall’estate del 2019 (L. 69/2019).

Che cos’hanno a che fare revenge porn e il sexting?

Spesso, il secondo precede il primo: la vittima, cioè, aveva precedentemente inviato i propri contenuti intimi ad un’altra persona.

Ed è proprio qui che sorge un altro problema: quello del victim blaming.

Sexting e victim blaming

Quando una persona invia ad un’altra immagini sessualmente esplicite, se queste vengono poi divulgate in rete, si può innescare un fenomeno per cui si tende ad attribuire la responsabilità alla vittima.

In gergo tecnico si parla di victim blaming, cioè la tendenza a ritenere la vittima di un reato come responsabile dell’accaduto (Gravelin et al., 2018).

Sexting e revenge porn: la vittima se l’è cercata?

Uno studio di Scott e Gavin del 2018 ha indagato la percezione di responsabilità attribuita alla vittima di revenge porn che ha precedentemente praticato il sexting, da parte di altre persone non direttamente coinvolte.

Gli autori volevano vedere se esistesse un grado differente di colpevolizzazione della vittima tra coloro che, nella loro vita, avevano almeno una volta inviato dei contenuti intimi a un partner sessuale e coloro che, al contrario, non l’avevano mai fatto.

A questo scopo, è stato preso un campione rappresentativo del corpo studentesco di un’università del Regno Unito, composto da 239 studenti (120 di sesso maschile e 119 di sesso femminile) e con un’età media di 20 anni.

A sua volta, il campione è stato diviso tra “sexter” e “non sexter”, cioè persone che avevano fatto o meno esperienza di sexting.

Da questa ricerca sono emersi molti dati interessati.

Ad esempio, il 40% degli intervistati aveva condiviso foto intime con un partner (reale o potenziale) e proprio costoro, cioè i sexters, erano meno propensi a ritenere responsabile la vittima di revenge porn rispetto ai non sexters.

In altre parole: secondo i risultati di questo studio, quando parliamo del reato di revenge porn, chi ha praticato il sexting colpevolizzerebbe di meno la vittima, mentre chi non l’ha mai fatto tenderebbe più facilmente a reagire con un: ‘Se l’è cercata’.

 

Circular Learning Hub Public Workshop: project outcomes and knowledge sharing – Report dall’evento

I docenti Prof. Gianni Brighetti, Rosita Borlimi, Mattia Nese e Greta Riboli dell’Affective Neuroscience Lab della Sigmund Freud University, Milano hanno partecipato al Circular Learning Hub portando le proprie competenze psicologiche e digitali a favore dell’economia circolare, progettando un esperimento con l’ausilio della Realtà Virtuale immersiva. 

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 13) Circular Learning Hub Public Workshop – Report dall’evento

 

Il 18 dicembre 2020 si è svolto il workshop finale del progetto “Circular Learning Hub”, in cui sono stati riuniti formatori, accademici, associazioni, autorità pubbliche perché tutti i partner potessero illustrare i risultati ottenuti nell’arco dell’anno 2019-2020. Il progetto ha coinvolto tre Paesi Europei: Italia, Grecia e Bulgaria ed è stato coordinato dalla professoressa Camilla Mazzoli, dell’Università Politecnica delle Marche, facoltà di economia.

 Circular Learning Hub Public Workshop

Inoltre, il progetto ha visto il sostegno di Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie (Italia), Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile (Italia), Modena Energy and Sustainable Development Agency, Cleantech Bulgaria (Bulgaria, coordinatore del progetto: Hamanova Mariyana) e ATHENA RC (Grecia, coordinatore del progetto: Prof. Phoebe Koundouri, Scuola di Economia e Laboratorio ReSEES, AUEB, Direttore EIT Climate KIC Grecia). È risultato inoltre fondamentale il lavoro svolto da Paola Valandro, Education Lead, di EIT Climate-KIC.

Durante il workshop la dottoressa Papadaki (ATHENA RC), la professoressa Mazzoli (Università Politecnica delle Marche), il dottor Nese (Sigmund Freud University, Milano), il dottor Vasslopoulos (ATHENA RC), la dottoressa Valandro (EIT Climate-KIC), le dottoresse Francesca Cappellaro e Martina Francesca (AESS), e la dottoressa Petkova (Cleantech, Bulgaria) hanno presentato la panoramica dell’esperimento, includendo informazioni sui dati raccolti, l’uso dell’implicit association test, della realtà virtuale e del choice experiment. Inoltre, diversi sono stati gli interventi relativi ai corsi di formazione sull’economia circolare nei diversi stati.

La co-creazione internazionale ha favorito un percorso di consapevolezza, intenzione-azione a una più profonda comprensione del pensiero circolare col fine di incoraggiare coloro che hanno un impatto elevato sull’ecosistema a operare scelte più sostenibili.

In contrasto con il cambiamento climatico, l’implementazione dell’Economia Circolare (CE) nella produzione industriale mira alla riduzione dei rifiuti e delle emissioni di gas provenienti dai processi dei materiali e il ri-orientamento dei capitali verso modelli circolari.

Il progetto è stato ideato col fine di andare a formare investitori e imprenditori circa l’Economia Circolare (CE), in particolare per comprendere e identificare i parametri della CE e per imparare ad apprezzarne i benefici, come ad esempio il risparmio di risorse e l’impatto positivo di questa sia a livello economico sia ambientale.

Una delle sfide di questo periodo, infatti, è portare le persone ad attuare comportamenti a favore dell’ambiente, poiché il cambiamento climatico risulta difficile da immaginare dalla maggior parte degli individui che appare psicologicamente distante dai suoi effetti e percepisce le questioni legate al cambiamento climatico solitamente situate in un tempo e/o in luoghi lontani.

La conoscenza ambientale e sui rischi del cambiamento climatico risulta essere un parametro importante per spiegare il comportamento pro-ambientale. Infatti, gli individui istruiti sono portati ad essere più preoccupati per la qualità ambientale e, quindi, più stimolati ad adottare un comportamento responsabile dal punto di vista ambientale a causa della loro comprensione dei potenziali danni.

Si è notato, inoltre, che per riuscire ad ottenere un maggior coinvolgimento delle persone bisognerebbe rendere più vivido il rischio del danno che il cambiamento climatico può portare.

Per lo scopo designato, i membri dell’Affective Neuroscience Lab, Sigmund Freud University, Milano hanno proposto l’utilizzo della Realtà Virtuale (VR) e più in particolare della VR multisensoriale. La VR multisensoriale prevede, oltre alla stimolazione visiva, l’aggiunta di stimoli appartenenti ad altre modalità sensoriali: stimoli olfattivi, tattili e gustativi. L’arricchimento dell’esperienza virtuale è pensato per esaltare la presenza soggettiva e portare ad un coinvolgimento più profondo, in questo caso relativo alle conseguenze ambientali del cambiamento climatico. L’esperienza di realtà virtuale immersiva andrebbe, quindi, ad agire come una forma di Nudge, ovvero una spinta che va ad incoraggiare l’individuo ad una scelta maggiormente ecologica senza imporla.

Il professore Gianni Brighetti e la professoressa Rosita Borlimi, presenteranno alla European Conference on Digital Psychology le molteplici ed innovative applicazioni della realtà virtuale multisensoriale.

 


 

EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY
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Il peso della sofferenza e la morte della responsabilità: eutanasia e suicidio assistito come tema controverso

A seguito dello sviluppo delle scienze mediche e della sensibilizzazione ai diritti umani, sono sorti molti dilemmi bioetici riguardanti la volontà di morire. Uno dei temi più controversi, infatti, riguarda la legalizzazione dell’eutanasia (Simovic et al., 2017).

 

È importante innanzitutto distinguere l’eutanasia dall’atto suicidario. L’eutanasia è una soppressione intenzionale e deliberata di un essere umano con un’azione diretta, come un iniezione letale o la cessazione di un trattamento farmacologico (Sivakumar et al., 2019). L’eutanasia attiva indica la soppressione – diretta o indiretta – di un paziente tramite l’assistenza di un medico, mentre l’eutanasia passiva indica la sospensione di un trattamento medico, come lo spegnimento di una macchina che mantiene in vita una persona o la cessazione di un trattamento che prolunga la vita di un paziente sofferente o in bilico tra la vita e la morte (Pavlovic, 2020). L’eutanasia volontaria avviene tramite una richiesta espressa dal paziente, mentre l’eutanasia non volontaria è applicabile ad una situazione dove il paziente non è cosciente o altrimenti incapace di intendere e volere, di conseguenza una persona nominata sceglie per quest’ultimo (Pavlovic, 2020).

Il suicidio, d’altra parte, è definito come un intervento deliberato per porre fine alla propria vita, spesso dipendente dall’interazione tra una disposizione suicidaria, una riduzione naturale o acquisita dell’istinto vitale e una maggiore sensibilità psicologica (Pavlovic, 2020). I motivi che portano una persona al suicidio possono essere endogeni – cioè somatici o psichiatrici – ed esogeni – cioè legati a temi affettivi, economici e morali (Zivkovic et al., 2018). Oltre ai tipi di eutanasia sopra elencati, il suicidio assistito viene menzionato come un modo per porre fine alla vita di una persona malata o sofferente attraverso il supporto medico (Groß et al., 2018).

Attualmente l’eutanasia è legalizzata nei Paesi Bassi, in Belgio e Lussemburgo, mentre il suicidio assistito è consentito in Svizzera, in Giappone, in Germania, in Canada e negli Stati Uniti – nello specifico Montana, Oregon, Washington, Vermont e California (Cipriania et al., 2019). Secondo il codice penale serbo, sia l’eutanasia che il suicidio assistito rappresentano atti criminali secondo gli articoli 117 e 119 (Criminal Code, n.s.). Pavlovic e colleghi (2020) hanno scritto un articolo per trattare il tema dell’eutanasia e del suicidio assistito in persone affette da disturbi mentali, tenendo in considerazione i principi fondamentali dell’etica medica contemporanea.

In alcune situazioni, i pazienti psichiatrici sono incapaci di rendersi conto del loro disturbo. In questo caso, è difficile stabilire il rapporto di negoziazione e di codecisione con questi soggetti. Di conseguenza, lo psichiatra spesso si assume una grande responsabilità al fine di proteggere e tutelare il paziente fino alla fine (Pavlovic, 2020). I disturbi mentali sono tra le cause principali di disabilità nel mondo, nonché un importante fattore correlato al rischio di suicidio. Secondo i dati dell’OMS (2014) riportati da Pavlovic e colleghi (2020), in media 800.000 persone all’anno si tolgono la vita a causa di un disturbo mentale: una diagnosi accurata e tempestiva è di grande importanza nella prevenzione del suicidio (Duckers et al., 2019; Mirkovic et al., 2015).

Tale argomento è controverso in quanto emergono diverse questioni al riguardo: 1) dato che l’ideazione suicidaria è legata alla volontà ridotta di vivere, viene contrassegnata come segno di psicopatologia; Pavlovic e colleghi (2020) esplicitano che secondo molte persone l’assistenza psichiatrica nel suicidio assistito rappresenta una violazione della responsabilità morale e professionale. In secondo luogo, 2) diversi autori sostengono che il disturbo mentale non sia una malattia “terminale” o una malattia che esoneri i pazienti dalle loro responsabilità. Per questo motivo, molti non condividono l’idea del coinvolgimento di terzi per l’eutanasia e il suicidio assistito (Simpson, 2018). Questo punto in particolare è molto controverso, in quanto al contempo si è consapevoli che molti disturbi psichiatrici possano compromettere considerevolmente la capacità decisionale: in specifici casi il soggetto è considerato “incompetente” (Sjostrand et al., 2015). La legge belga pone l’accento sui principi essenziali secondo cui una richiesta sull’eutanasia deve essere volontaria, ripetuta, ben considerata e non frutto di pressioni esterne: la persona deve essere in condizioni medicalmente irrimediabili, risultato di sofferenza fisica o psicologica molto grave ove non sono presenti alternative di recupero ragionevoli (Dierickx et al., 2017). Di conseguenza 3) vi sono dei dubbi nell’ambito della chiarezza dei criteri necessari a soddisfare i requisiti elencati sopra: molti autori evidenziano come la psichiatria si trovi in una posizione meno favorevole rispetto ad altri rami della medicina perché il decorso dei disturbi mentali è soggetto a variazioni nel tempo, quindi le previsioni dei trattamenti non sono abbastanza precise per prendere una decisione definitiva (Pavlovic, 2020). I punti elencati sono le ragioni per cui l’eutanasia e il suicidio assistito non sono giustificati nel campo psichiatrico (Dierickx et al., 2017; Verhofstadt et al., 2019). Infine, 4) l’eutanasia non solo viene richiesta in caso di disturbi fisici o psicologici: uno studio condotto nei Paesi Bassi ha dimostrato come la metà delle richieste sono legate all’isolamento sociale e alla solitudine dei soggetti (Kim et al., 2014). Pavlovic e colleghi (2020) sostengono che la richiesta di eutanasia o di suicidio assistito da parte di un soggetto debba essere presa come un segnale essenziale, i medici devono impegnarsi il più possibile per ridurre la sofferenza del soggetto ove possibile attraverso l’attivazione di una rete sociale che possa sostenere e rafforzare le capacità dell’individuo sofferente.

 

Elderspeak: quando la comunicazione con l’anziano è ageistica

Con elderspeak ci si riferisce a uno stile di linguaggio particolarmente utilizzato con gli anziani, spesso in maniera automatica e inconscia, risultando così essere il prodotto di un atteggiamento implicito. Questo linguaggio è simile a quello con cui ci si rivolgerebbe a un bambino.

 

L’invecchiamento della popolazione a cui assistiamo, spiegato da un aumento vertiginoso della speranza di vita e dalla diminuzione del tasso di natalità, porta sempre più in evidenza fenomeni di ageismo.

Con questo termine si intende una combinazione di attitudini pregiudiziali nei confronti di persone di età differente dalla propria (Butler, 1969). A causa di questa forma di discriminazione, è comune pensare che l’anziano sia destinato inevitabilmente a declino fisico e cognitivo, a essere un peso economico e sociale, a vivere in solitudine e per la maggior parte del tempo triste.

Tale stereotipo viene interiorizzato dall’anziano stesso, vivendo così uno stato di vergogna, passività, negazione, perdita di autostima, disprezzo e ritiro (Applewhite, 2017).

Tale visione negativa dell’anziano si manifesta non solo nelle azioni ma anche nelle modalità comunicative che adottiamo con chi è nella terza (anche quarta) età, un esempio è l’elderspeak.

Elderspeak: studi e modelli teorici

Con elderspeak ci si riferisce a uno stile di linguaggio particolarmente utilizzato con gli anziani, spesso in maniera automatica e inconscia, risultando così essere il prodotto di un atteggiamento implicito. Tale linguaggio è caratterizzato da frasi brevi, grammaticalmente semplici, pronunciate ad alta voce e lentamente, accompagnate da gestualità enfatizzate, come se ci si rivolgesse a un bambino. L’elderspeak è, dunque, un linguaggio infantile e semplificato che sottintende la presenza di una difficoltà di comprensione da parte dell’anziano (Applewhite, 2017).

Kemper (1994) ha dimostrato che i caregiver tendono a ridurre la complessità e la lunghezza delle frasi quando parlano con un gruppo di anziani rispetto a quando si rivolgono a un gruppo di giovani.

Tuttavia, questa forma di linguaggio risulta controproducente, infatti gli anziani riportano che minore complessità grammaticale e maggiore elaborazione semantica sono caratteristiche che rendono la comunicazione efficace, mentre tono di voce alto, utilizzo di molte pause e frasi corte e telegrafiche ne riducono la comprensione (Kemper & Harden, 1999).

Oltre all’efficacia dello scambio comunicativo, l’elderspeak mina il senso di autoefficacia e i bisogni individuali dell’anziano, come delineato da Tom Kitwood nel suo approccio di cura centrato sulla persona (1997). Trattando di demenza, il gerontologo afferma che l’esperienza di malattia non dipende solamente dalla compromissione neurologica, ma anche da una serie di altri fattori come la personalità, la salute fisica, gli eventi di vita e il contesto psicosociale. Relativamente a quest’ultimo fattore, Kitwood con Psicologia Sociale Maligna si riferisce a tutte quelle interazioni svalutanti, condotte spesso in maniera inconsapevole dai caregiver formali e non, che possono minare i bisogni psicologici della persona con demenza (identità, attaccamento, inclusione, conforto, occupazione), aumentandone così i disturbi del comportamento. Tra i 17 approcci negativi individuati dall’autore vi è proprio l’infantilizzazione. L’utilizzo di un atteggiamento paternalistico e di termini come “tesoro”, “caro” o “amore” quando ci si rivolge ad un anziano, che sia sano o con demenza, ne aumentano l’agitazione, l’aggressività e il wandering (Williams et al., 2011).

Risulta, dunque, necessario includere nei percorsi di formazione rivolti a operatori e caregiver familiari temi riguardanti l’ageismo e le sue manifestazioni in contesti di istituzionalizzazione e non.

 

L’utilizzo dei videogiochi per una terapia più efficace del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) – Lo psicologo del futuro

L’uso dei serious games per l’ADHD per migliorare alcune componenti cognitive ed emotive divertendo bambini e ragazzi.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 12) L’utilizzo dei videogiochi per una terapia più efficace del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD)

 

 Il Disturbo da Deficit di Attenzione-Iperattività (ADHD) è uno dei disturbi mentali più diffusi nei bambini, con una prevalenza mondiale stimata intorno al 3-5% degli studenti in età scolare (Thomas et al., 2015). I bambini con diagnosi di ADHD sperimentano disattenzione, comportamento impulsivo; difficoltà di concentrazione e problemi di memoria che ostacolano la fissazione della conoscenza a breve e lungo termine. I bambini non finiscono correttamente le loro attività e si annoiano rapidamente (Metcalf, 2016). Di conseguenza, il loro rendimento in classe è inferiore al previsto per quanto riguarda la loro capacità intellettuale. I bambini con ADHD hanno debolezze in alcune funzioni esecutive come il controllo dell’attenzione, la memoria di lavoro, la metacognizione e l’inibizione (Loe & Feldman, 2007).

Il trattamento psicofarmacologico non è efficace nel 18-36% dei pazienti e può avere gravi effetti collaterali (Schachter et al., 2001; Dittmann et al., 2013). Anche la bassa aderenza ai farmaci è un problema comune tra i bambini con diagnosi di ADHD. Inoltre, l’accesso a screening e trattamenti specializzati è limitato in alcune aree. Ciò richiede una ricerca di alternative per la valutazione e il trattamento di tale disturbo (Marcus & Durkin, 2011).

Senza dipendere dai farmaci, le sessioni terapeutiche potrebbero aiutarlo a migliorare le funzioni esecutive e le abilità come la flessibilità cognitiva, la memoria di lavoro e il controllo inibitorio.

Tuttavia molti bambini con ADHD sperimentano uno scarso coinvolgimento durante la terapia tradizionale, di conseguenza, è necessario creare esperienze più interattive (Culpepper & Mattingly, 2010).

Per affrontare questi problemi, gli autori stanno esplorando approcci alternativi, come l’applicazione di nuove tecnologie nella salute mentale. La salute elettronica (e-Health) potrebbe contribuire alla gestione dell’ADHD nei bambini, oltre a contribuire a colmare il divario nella fornitura di assistenza sanitaria mentale. I videogiochi potrebbero essere particolarmente adatti a questo scopo. Ci si aspetterebbe che i bambini con ADHD presentino difficoltà nell’impegnarsi nei videogiochi a causa della loro scarsa capacità di attenzione. Tuttavia, le persone con ADHD possono concentrarsi per lunghi periodi di tempo sulle attività che apprezzano, un fenomeno a volte noto come “iperfocus”. I videogiochi sono quindi una buona opportunità per aumentare il coinvolgimento con interventi terapeutici (Ashinoff & Abu-Akel, 2019).

I ricercatori hanno proposto interventi attraverso attività strutturate gamificate. In questo senso, c’è stato uno sviluppo significativo nelle terapie basate su giochi educativi coniati come Serious Games (SG). È un approccio promettente che offre un ambiente attraente per l’applicazione dei compiti, il supporto sociale e le strategie comportamentali. Recenti studi di SG hanno riportato vantaggi, attraverso benefici ed efficacia, migliorando la motivazione degli studenti, incrementando atteggiamenti positivi e aumentando i loro approcci alla risoluzione dei problemi (Ferrer et al., 2013).

I vantaggi dei Serious Games (SG) per il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD)

I vantaggi dei Serious Games (SG) possono essere spiegati da diversi meccanismi. Uno di questi meccanismi è la “gamification”, una tecnica di tendenza negli interventi di sanità elettronica che promuove il cambiamento comportamentale e il coinvolgimento degli utenti (Hamari et al., 2014). Nei bambini gli effetti gratificanti dei videogiochi possono essere di particolare importanza per aumentare l’aderenza. I videogiochi potrebbero non essere percepiti come un trattamento o un’imposizione da parte di chi si prende cura di loro, il che può essere meno gravoso per i bambini. I videogiochi possono anche aumentare la partecipazione, la motivazione e il senso di azione. Tuttavia, la ricerca di novità è una caratteristica forte dell’ADHD. Pertanto, l’impegno a lungo termine può essere più problematico, con il rischio di una progressiva riduzione dell’impegno nel tempo.

Diversi studi dimostrano che i videogiochi possono migliorare la cognizione e avere un impatto positivo sulla neurobiologia (Granic et al., 2014; Shams et al., 2015). L’allenamento cognitivo basato sui videogiochi può aiutare nella formazione e ristrutturazione dei percorsi neurobiologici, specialmente nei bambini, che hanno una maggiore neuroplasticità rispetto agli adulti.

Alcuni dei giochi recensiti negli ultimi anni hanno mostrato che l’utilizzo dei Serious Games (SG) nei bambini con ADHD portava ad un miglioramento della concentrazione e una normalizzazione del funzionamento del cervello nei pazienti (Peñuelas-Calvo et al., 2020).

Una sfida critica è lo sviluppo di SG insieme ad approcci di apprendimento potenziati dalla tecnologia come la realtà aumentata (AR). La AR è l’integrazione di informazioni digitali e fisiche in tempo reale che consente l’interazione dell’utente con un mondo virtuale e reale. Questa nuova tecnologia emergente è una grande promessa perché motiva gli studenti con nuove sfide, fornendo un feedback rapido che è adattato agli interessi specifici e alle esigenze individuali. Questi Augmented Reality Serious Games (ARSG) potrebbero catturare la loro attenzione e migliorare il processo di comunicazione utilizzando la sperimentazione e la simulazione manipolate da movimenti fisici (interfaccia), lavorando in ambienti reali con elementi virtuali per ottenere gli effetti aumentati (Peñuelas-Calvo et al., 2020).

Inoltre, vi è un urgente bisogno di cure innovative per i bambini con ADHD, utilizzando una tecnologia che si adatta ai requisiti attraverso il gameplay e il movimento basato su un’interfaccia utente naturale. Gli ARSG, offrono infinite possibilità di interazione più naturale attraverso sensori, che saranno in grado di riconoscere i gesti della mano e del corpo, rendendolo uno strumento ideale per fornire creatività alle attività terapeutiche combinate con ARSG. Grazie alle loro caratteristiche, gli ARSG, possono andare a ridurre la perdita di interesse tipica dei bambini con ADHD e di conseguenza ad incrementare l’impegno a lungo termine (Peñuelas-Calvo et al., 2020).

Serious Games (SG) per bambini con ADHD

Alcuni esempi di applicazioni che utilizzano i SG per l’ADHD che sfruttano ambienti immersivi per valutare i deficit di attenzione nei bambini con ADHD.

In questo contesto, gli studi sull’ADHD si concentrano su più elementi come le funzioni esecutive, la memoria di lavoro e la flessibilità cognitiva:

  • Clinica VR: classroom-CPT, che fornisce collegamenti tra la valutazione neuropsicologica nello studio del neuropsicologo, in un ambiente controllato e dove il bambino viene incontrato da solo, e cosa accade, invece, in un contesto in cui il bambino deve gestire molti tipi di stimoli, come ad esempio a scuola. Appare, quindi, interessante aggiungere questo tipo di analisi clinica al tradizionale processo di valutazione neuropsicologica (Neguț et al., 2017).
  • AULA Nesplora è un Continuous Performance Test (CPT) computerizzato progettato per valutare i processi di attenzione e supportare la diagnosi dei disturbi dell’attenzione. Offre punteggi su: attenzione sostenuta, attenzione divisa (visiva e uditiva); impulsività; attività motoria eccessiva (iperattività); tendenza alla distrazione, velocità di elaborazione, concentrazione sul compito, differenza attentiva tra stimoli visivi e uditivi e tra compiti più e meno stimolanti, attività motoria e affaticamento per i compiti. Distingue anche le tendenze alla distrazione interna o esterna (Areces et al., 2016).

Altri SG, grazie alle loro caratteristiche, permettono ai bambini con ADHD di praticare e implementare le funzioni esecutive, la memoria di lavoro e il livello di attenzione:

  • “Plan-it Commander” è un gioco per computer online che include tre minigiochi e una comunità sociale per far interagire i bambini tra loro durante l’allenamento. Attraverso un labirinto di emozionanti missioni e minigiochi progettati esclusivamente per i pazienti con ADHD, i bambini sviluppano abilità stimolanti che li aiutano nella vita di tutti i giorni. Plan-It Commander ha dimostrato di essere efficace nel migliorare la gestione del tempo, la memoria di lavoro e la capacità di collaborazione (Crepaldi et al., 2017).
  • “Braingame Brian” è un training computerizzato per bambini con ADHD che si occupa di molteplici funzioni esecutive. Accanto alla formazione della memoria di lavoro in Braingame Brian viene estesa la formazione di altre due funzioni esecutive carenti nei bambini con ADHD. Queste difficoltà includono problemi con la regolazione delle emozioni e del comportamento (inibizione della risposta) e la capacità di passare a un diverso modello di pensiero e azione quando una situazione lo richiede (flessibilità cognitiva). Inoltre Braingame Brian prevede il miglioramento della motivazione aggiungendo elementi di gioco all’allenamento. In uno studio controllato randomizzato sono stati mostrati miglioramenti significativi soprattutto nella memoria visuo-spaziale a breve termine e nella memoria di lavoro nei bambini con ADHD (Dovis et al., 2015).
  • In “Harvest Challenge BCI Videogame” il giocatore deve controllare il proprio livello di attenzione, rappresentato dai ritmi EEG, per interagire con il gioco. La dinamica del videogioco stabilisce una modalità di interazione attraverso le particolari fasi mentali: rilassamento e concentrazione. Quando un bambino entra in una specifica fase di concentrazione, il segnale cerebrale viene registrato tramite un sensore BCI portatile che invia i segnali in modalità wireless al videogioco. Lo scopo di questo videogioco è rafforzare le abilità importanti di un bambino come la capacità di attesa, la pianificazione e la capacità di seguire le istruzioni e di raggiungere gli obiettivi. Il progresso in questi quattro aspetti fondamentali potrebbe scatenare in un bambino con ADHD un notevole miglioramento nel controllo dell’impulsività, della disattenzione, una migliore attitudine verso il processo di apprendimento e una significativa diminuzione dell’impatto del disturbo nella popolazione infantile (Rohani et al., 2014).

In generale, tutti i Serious Games elaborati ad hoc, dei quali alcuni citati, hanno soddisfatto sia i pazienti sia i loro terapisti, insegnanti e genitori.

Sono stati identificati, infatti, come strumenti utili e coinvolgenti per il trattamento dell’ADHD.

È auspicabile, visti i risultati positivi, che nel prossimo futuro ci sia uno sforzo più ampio nella possibilità di lavorare per poter implementare più Serious Games che utilizzano la realtà aumentata (ARSG) con diversi livelli di difficoltà per mantenere e catturare l’attenzione dei bambini con ADHD. L’ottimizzazione del software è una priorità per lo sviluppo dei Serious Games (Crepaldi et al., 2017). Un’interfaccia attraente è una caratteristica preziosa, così come un appropriato adattamento del software ai requisiti delle impostazioni sanitarie. Il lavoro avrebbe grande valore aggiunto se tra operatori sanitari e ingegneri informatici si alimentasse una stretta collaborazione volta ad elaborare Serious Games tali da poter raggiungere la qualità e l’interesse delle loro controparti commerciali per poterne aumentare l’uso educativo e di aiuto.


 

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La luce oltre la siepe

Molte azioni, come ad esempio il nostro rapporto con un tempo sempre più accelerato, e comportamenti volti al soddisfacimento di bisogni non essenziali vanno rivisti e forse definitivamente abbandonati. Questa operazione è difficile e dolorosa, soprattutto per noi occidentali, ma non è impossibile da realizzare.

Introduzione

Il titolo di questo articolo riprende quello di un romanzo di Harper Lee, To kill a mockingbird, che in italiano è stato tradotto con Il buio oltre la siepe (2019).

Sin dai primi vagiti di questo maledetto organismo submicroscopico denominato Sars-Cov-2, che tra le caratteristiche delle forme viventi ha solo la capacità di riprodursi (e non è nemmeno capace di farlo da solo! Per riprodursi ha bisogno di infettare un organismo ospite e riprogrammarlo per costringerlo a produrre copie di se stesso. Diciamo che più che un essere vivente è una macchina microscopica capace solo di moltiplicarsi), siamo stati invitati a mettere in atto una serie di comportamenti igienico sanitari per evitare le nefaste conseguenze della sua propagazione (Dcpm del 4 marzo 2020). Con il passare del tempo e la persistenza del virus nella nostra vita, tre di queste misure (utilizzo costante della mascherina, distanziamento fisico ed igiene delle mani) si sono rivelate delle vere e proprie prescrizioni, confermate puntualmente nei successivi decreti. Al momento, sembrano avere qualche possibilità di radicarsi nella nostra vita quotidiana e diventare delle abitudini, dei “comportamenti acquisiti” che vanno a modificare precedenti comportamenti e/o abitudini e a creare nuove abilità. L’abitudine è una tendenza a ripetere determinati atti e a rinnovare determinate esperienze; la ripetizione frequente dell’atto ne permette il consolidamento (Treccani). Con il termine abituazione s’intende invece un tipo di apprendimento molto semplice che consiste nel riconoscere da parte di un soggetto che un dato stimolo è innocuo e di conseguenza viene ignorato e diminuisce la risposta neurale (Kandel, 2010).

L’apprendimento di una nuova abilità richiede la ripetizione, talvolta fino al punto di trasformarsi in un rituale. […] Molte delle nostre abitudini implicano la ripetizione e il rituale. (Lally et al. (2010), studiando i processi di formazione dell’abitudine, sottolineano l’importanza della ripetizione costante del comportamento in contesti specifici per un lungo periodo di tempo, rilevando una tempistica media di 66 giorni. Questo dato assume importanza a livello motivazionale, laddove ci si aspetti di ottenere cambiamenti consistenti in periodi più brevi. Gli autori hanno inoltre rilevato che omettere saltuariamente il comportamento non compromette l’intero processo.)  […] Tuttavia, una volta che il comportamento è diventato abituale, si sedimenta nelle regioni cerebrali controllate dal sistema dopaminergico. (Panksepp, 2014, pag. 121)

Anche se

[…] L’immaginazione attiva può facilitare e raffinare la performance, è la pratica nell’esecuzione di una sequenza procedurale a renderla parte del nostro apparato ben oliato di abitudini motorie. Tipicamente raffiniamo l’esecuzione di nuove abilità senza pensarci sopra. Pensare a quello che si sta facendo, infatti, disturba effettivamente l’esecuzione. (ibidem, pag. 230)

Le molte abitudini quotidiane ci permettono di economizzare le nostre risorse cognitive in modo tale che il processo di elaborazione delle informazioni si velocizzi notevolmente. Come detto, l’abitudinarietà comporta l’automatismo del processo e una scarsa influenza delle intenzioni del momento sull’emissione del comportamento (Gardner, 2012); Mandar et al. (1999) ipotizzano l’esistenza di un vero e proprio circuito neuronale dell’abitudine.

L’epidemia che ci ha investito ci obbliga a cambiare abitudini e pensieri e a rinunciare, sia a livello individuale sia a livello collettivo, a molte routine, e ciò richiede uno sforzo mentale enorme (di Diodoro, 2020). A questi mutamenti è necessario fornire una risposta adattativa anche da parte delle nostre comunità che

[…] devono iniziare a cambiare per adattarsi alle mutate circostanze esterne. Al centro di questa risposta non può non esserci uno sforzo cooperativo che ci deve spingere tutti a fare ciascuno la propria parte. (Pelligra, 2020)

La distanza

La distanza è un concetto fisico che, nel caso dell’essere umano, assume anche implicazioni psicologiche che ben si ritrovano nelle due espressioni colloquiali di uso quotidiano come “mantenere le distanze” o “avvicinarci” ad una persona. Si parla poi anche di “prendere le distanze” da una situazione o da una persona. Ma che significato ha la distanza nella nostra vita sia in termini fisici sia psicologici? Ciascuno di noi ha i propri spazi e li rappresenta in maniera specifica, stabilendo un preciso grado di distanza fisica nelle proprie relazioni sociali; si parla anche di uno spazio vitale individuale. La prossemica è quella disciplina che studia il significato che assume la distanza nel comportamento sociale dell’uomo, quella che l’individuo frappone tra sé e gli altri e tra sé e gli oggetti, e quindi, più in generale, il valore attribuito da gruppi sociali, diversi culturalmente o storicamente, al modo di porsi nello spazio e di organizzarlo.

Il modello delle distanze interpersonali, elaborato da E. T. Hall (1969) e ripreso da E. Goffman (1971), individua quattro tipologie di distanza:

  1. Intima (0 – 45 cm): spazio che può essere condiviso solo da persone con cui si ha un rapporto molto intimo e affettivo (un familiare o il partner).
  2. Personale (45 – 120 cm): nel mondo occidentale rappresenta la distanza ideale per buona parte delle interazioni, e coincide con la distanza necessaria per una stretta di mano. Solitamente indica che tra i due interlocutori esiste un rapporto di amicizia e confidenza.
  3. Sociale (120 – 300 cm): viene adottata da due persone che intrattengono un rapporto formale (colloqui di lavoro o trattative importanti).
  4. Pubblica (oltre 3 m): viene adottata nelle conversazioni in pubblico in cui è praticamente impossibile interagire con il singolo (comizi o spettacoli).

Queste distanze non si misurano soltanto con i centimetri che separano una persona dall’altra, ma anche dai gesti, tono di voce e posizione adottata. Williams e Bargh (2008) sostengono che le rappresentazioni percettive e motorie della distanza fisica influiscano sui pensieri e i sentimenti delle persone. Ciò significa che la sfera affettiva di una persona dipende anche dalla distanza fisica con gli altri.

La distanza spaziale è l’unica esperibile direttamente tramite i sensi (Lakoff & Johnson, 1980; Boroditsky, 2000) e permette lo sviluppo nell’infanzia di tutte le altre forme di distanza più astratte e complesse, come ad esempio, il tempo.

Distanziamento fisico, attaccamento e dolore sociale

Il distanziamento fisico (il passaggio obbligato da una distanza intima o personale ad una sociale) – erroneamente detto “sociale” -, imposto dal Covid-19 e che purtroppo è ancora necessario, può essere assimilato al concetto di «sospensione» o «epochè» culturale così come l’ha concettualizzato Remotti.

Le sospensioni culturali vengono definite come situazioni di interruzione, di immobilizzazione, di non intervento, o di perdita e deterioramento di processi culturali. In base alla loro programmabilità possono essere classificate in: (a) intenzionalmente organizzate e (b) subite. (Tarallini & Bello, 2020, pag. 157)

Nel primo caso rientrano i periodi di vacanza o riposo, nel secondo le conseguenze di un fenomeno esterno all’individuo come l’attacco sferrato dalla pandemia al nostro tessuto sociale.

L’uomo, come gli altri primati, presenta delle disposizioni o tendenze biologicamente determinate e selezionate su base evolutiva che regolano la condotta in funzione di particolari mete e sono in stretta relazione con l’esperienza emotiva. Queste tendenze, che nel comportamento presentano una certa variabilità individuale, sono dei veri e propri algoritmi per l’elaborazione dell’informazione sociale. Sono denominate Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) e

[…] possono essere concepiti come moduli specializzati in funzioni essenziali per la sopravvivenza e per la vita sociale, ciascuno dei quali è funzionalmente indipendente da ciascun altro. […] Ogni modulo di questo tipo, una volta attivato, organizza le funzioni mentali e la condotta nella direzione della meta del corrispondente sistema motivazionale, fino a che tale meta non è raggiunta o abbandonata. A quel punto, in funzione dei cangianti contesti ambientali o dei mutevoli bisogni corporei e relazionali, un diverso sistema motivazionale interviene in genere a organizzare, in direzione di una nuova meta, comportamento, emozioni e contenuti cognitivi. (Liotti, 2011, pp. 66-67)

Nell’uomo sono presenti almeno cinque SMI (detti anche limbici) che operano prevalentemente al di fuori della coscienza: attaccamento, accudimento, agonistico, sessuale e cooperazione paritetica. Ognuno di questi sistemi presenta un preciso attivatore e una specifica meta (Liotti, 2005). Il sistema motivazionale più interessante per le nostre riflessioni è quello dell’attaccamento che è attivato dalla fatica, dal dolore, dalla paura, dalla solitudine, dalla vulnerabilità e volendo esprimere le sue regole

[…] nel linguaggio umano, suonerebbero più o meno così: «Quando ti trovi in difficoltà avvicinati ad un membro conosciuto del tuo gruppo sociale che ti appaia più forte e più saggio di te». (ibidem, pag. 49)

Ed è proprio l’alterazione dei meccanismi dell’attaccamento – come ad esempio il contatto fisico -, dovuta al confinamento e al distanziamento fisico imposto dal Covid-19, che produce notevoli sofferenze emotive, poiché per gli esseri umani l’appartenenza sociale è un bisogno fondamentale che riveste un ruolo importante nella costruzione della nostra identità sociale. A tale proposito, i neuroscienzati hanno coniato il termine di dolore sociale per indicare quel tipo di sofferenza che si verifica in condizioni di isolamento, esclusione sociale o di perdita. Il dolore sociale può risultare emotivamente stressante tanto quanto quello fisico perché entrambi reclutano le stesse aree cerebrali (Eisenberger, 2012).

Da un punto di vista evoluzionistico, l’idea che la mancanza di legami sociali sia dolorosa ha senso. Come mammiferi, gli esseri umani nascono relativamente immaturi, senza la capacità di nutrirsi o di badare a se stessi e si affidano quasi completamente ad una persona che si prenda cura di loro. A causa di questo prolungato periodo, il sistema di attaccamento sociale – che promuove il legame sociale – potrebbe essersi sovrapposto al sistema del dolore fisico, prendendo in prestito il segnale del dolore stesso per indicare quando le relazioni sociali sono minacciate, promuovendo così la sopravvivenza. In altre parole, nella misura in cui la separazione da un caregiver rappresenti una minaccia così grave per la sopravvivenza, essere “feriti” da esperienze di separazione sociale può essere un modo adattivo per prevenirle. (ibidem, pag. 126)

Portano a simili conclusioni i risultati delle ricerche di Morese e collaboratori (2019) che, utilizzando la risonanza magnetica funzionale (Fmri), hanno dimostrato che il supporto sociale può alleviare le conseguenze negative dell’esclusione sociale. Nello specifico, il tocco delicato di una persona cara sembra avere il potere di diminuire sia le emozioni negative sia l’attivazione delle aree cerebrali coinvolte nell’esperienza dolorosa (è talmente importante accarezzarsi, toccarsi ed abbracciarsi, soprattutto quando si è sofferenti e malati, che in alcune Residenze Sanitarie Assistite (RSA) dell’Italia del Nord sono state allestite le “stanze degli abbracci.” In queste stanze, gli ospiti possono abbracciare i propri familiari senza correre il rischio del contagio da Covid-19 – ANSA). Inoltre, lo studio fornisce prove di neuroimaging sul fatto che le esperienze di sostegno sociale possano modulare le regioni del cervello reclutate durante il dolore sociale ed eventualmente responsabile per codificare la valenza negativa e l’intensità dell’esperienza emotiva. Morese et al. ritengono che

Gli effetti del sostegno sociale emotivo sull’esperienza del dolore sociale assomigliano ai risultati riportati sul dolore di natura fisica (Coan et al., 2006; Younger et al., 2010). […] Inoltre, per la prima volta, abbiamo dimostrato che questo effetto può essere diverso a seconda del tipo di supporto ricevuto. I nostri risultati evidenziano molte caratteristiche comuni al dolore sociale e al dolore fisico, dall’uso di parole simili (ad es., mi sento ferito, provo un forte malessere, dolore) ai meccanismi biologici. (Morese et al., 2019 pp. 633-643)

Un recente studio osservazionale, condotto da ricercatori della UCL e della York University del Canada (Jones et al., 2021), ha scoperto che il modo in cui il cervello neonatale elabora uno stimolo nocivo (un’iniezione medica dolorosa) è influenzato dal tipo di contatto che il bambino ha con la madre. In particolare, essere tenuti a contatto pelle a pelle riduce l’elaborazione cerebrale di livello superiore in risposta al dolore. Anche se però non è possibile confermare se il bambino senta effettivamente meno dolore, i risultati di questa ricerca rafforzano l’importante ruolo del contatto tra i genitori ed i loro neonati.

Fin qui le caratteristiche della nostra specie che rendono possibile, anche se complicato e doloroso, l’adattamento alle misure di contenimento della pandemia, passiamo ora ad esplorare le risorse disponibili per provare ad affrontarla.

Cooperazione ed altruismo

Ormai ci sono pochi dubbi che anche il comportamento umano sia il prodotto dell’evoluzione ed è altrettanto chiaro che l’essere umano, a differenza di altri animali, trasmetta l’informazione di generazione in generazione soprattutto attraverso il linguaggio e l’apprendimento culturale; quest’ultimo risulta essere

[…] cumulativo (ereditabile) e produce differenze culturali. La diversità e l’ereditabilità creeranno automaticamente pressioni sulla selezione, sia nel caso di ereditabilità genetica sia nel caso di ereditabilità culturale. (Cortina & Liotti, 2017, pp. 24-25)

Il concetto di altruismo è uno dei rompicapo degli scienziati sin dai tempi di Darwin e vari sono stati i tentativi di spiegare il perché un animale si trovi a procurare benefici ad un altro pagandone il prezzo. Gli studiosi hanno individuato tre tipologie di comportamento altruistico negli animali: la selezione parentale (aiutare a sostenere la sopravvivenza e il successo riproduttivo dei familiari); l’altruismo reciproco che Trivers (2013) indica come il vantaggio di aiutare altri animali con i quali non si è imparentati come se ci fosse la certezza di esserne in seguito ripagati. In questo modo i vantaggi si bilancerebbero. Il terzo tipo di altruismo è detto mutualismo, quando due animali cooperano per raggiungere un obiettivo che porta contemporaneamente vantaggi ad entrambi. La caccia cooperativa ne è un esempio poiché

[…] due animali che cooperano possono essere in grado di uccidere una preda ben più grossa di quanto sarebbero capaci di fare da soli. (Dunbar et al. 2012, p. 33)

Per quanto riguarda gli esseri umani,

[…] il sistema cooperativo paritetico è attivato dalla percezione di obiettivi che, anziché configurarsi come risorse limitate per l’accesso alle quali è necessario competere, appaiono ai due individui interagenti come meglio perseguibili attraverso un’azione congiunta. (Liotti & Farina, 2014, pag. 30)

Come può essere osservato già in bambini di 18 mesi (Tomasello, 2009), gli esseri umani forniscono aiuto spontaneo ad estranei in difficoltà o si prendono cura di malati e disabili senza alcuna aspettativa di reciprocità. Questa disponibilità verso altri membri della propria specie con i quali non vi sia una stretta relazione genetica non si riscontra in nessun’altra specie (Cortina & Liotti, 2014).

Secondo Tomasello (2009), l’azione cooperativa si basa su un fine congiunto fra tutti i partecipanti e un impegno congiunto a perseguirlo insieme, con una mutua comprensione del fatto di condividere sia il fine sia l’impegno comune.

Avinum et al. (2011) hanno individuato un gene, denominato Avpr1a, che regolerebbe nel cervello gli ormoni legati ai comportamenti sociali, incluso l’altruismo e lo spirito cooperativo. Usando la tecnologia di risonanza magnetica che consente di raffigurare in immagini la nostra attività cerebrale, gli scienziati hanno osservato che ad ogni atto di generosità, il gene Avpr1a rilascia neurotrasmettitori simili alla dopamina, che producono una sensazione di benessere fisico. A questo proposito, ci sembra importante segnalare anche il ruolo significativo giocato dalla dopamina, non solo nel ricercare e produrre situazioni di piacere, ma anche nell’evitamento del dolore (Wenzel et al., 2018). Quindi l’azione cooperativa potrebbe configurarsi come una modalità con cui possa essere affrontata la percezione del dolore.

Apprendimento e neuroplasticità

L’apprendimento è il processo mediante il quale acquisiamo nuova conoscenza, e la memoria è il processo con il quale conserviamo nel tempo questa conoscenza. (Kandel, 1992, pag. 49)

[…] Merzenich e colleghi hanno dimostrato che le mappe corticali sono costantemente soggette a modifiche in base all’uso delle vie sensoriali. (ibidem, pag. 59)

La capacità del cervello di modificare la propria struttura e il proprio funzionamento in risposta all’esperienza e all’esercizio viene denominata neuroplasticità; questo termine è stato coniato dal padre delle neuroscienze, Santiago Ramon y Cajal (1852-1934) che ha descritto i cambiamenti non patologici nella struttura cerebrale degli adulti.

Alla base dell’apprendimento e potenziamento delle capacità del cervello (nonché del recupero funzionale nelle lesioni) si trova un continuo rimodellamento delle sinapsi, o meglio di singoli neuroni che possono venire modificati durante le fasi dello sviluppo, come reazione a un trauma e durante l’apprendimento stesso.

L’idea che il cervello possa cambiare la propria struttura e funzione attraverso pensiero ed esercizio è, credo, il cambiamento più importante nella nostra visione del cervello da quando abbiamo abbozzato per la prima volta la sua anatomia di base e il funzionamento del suo componente, il neurone. (Doidge, 2018, pag. 9)

Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000, studiando il cervello di una lumaca di mare (l’Aplysia) ha dimostrato che l’apprendimento può attivare geni in grado di modificare la struttura neurale. L’Aplysia per attivare l’azione riflessa di protezione della sua branchia può contare su 24 neuroni sensitivi e 6 neuroni motori. Nonostante però questo semplice organo nervoso, se adeguatamente istruita, essa è in grado di imparare che quando riceve uno stimolo su una certa parte del corpo deve proteggere la branchia ritraendola. Sfruttando la semplicità del suo organo nervoso, i neuroscienziati sono riusciti a capire che lo stimolo ripetuto può attivare uno specifico gene che porta alla crescita di nuove connessioni tra il neurone sensoriale e quello motorio. Pertanto, il più importante meccanismo di plasticità è rappresentato dalla possibilità dei neuroni di modificare la loro capacità di comunicare l’uno con l’altro (Kandel, 1992; Kandel et al., 1994; Uff et. al. 2011; Siegel, 2013; Doidge, 2018; Edelman, 2018).

Edelman (2018), premio Nobel per la biologia nel 1972, nel formulare la cosiddetta teoria della selezione dei gruppi neuronali, sostiene che l’esperienza e l’interazione con l’ambiente producano nel neonato configurazioni sinaptiche individuali non riconducibili al dettato genetico, attraverso un lavoro selettivo di rafforzamento o indebolimento dei gruppi neurali funzionali ad una migliore risposta adattiva (questa teoria si fonda sul cosiddetto darwinismo neuronale (o neurodarwinismo), ossia sull’idea secondo la quale le funzioni cerebrali superiori sarebbero il risultato di una selezione che si attua sia nel corso dello sviluppo filogenetico di una data specie, sia sulle variazioni anatomiche e funzionali presenti alla nascita in ogni singolo organismo animale). Per riassumere questa complessa competenza delle cellule nervose cerebrali, Edelman descrive un processo diverso da quello del feedback e cioè quello del rientro che rappresenta un

[…] importante principio del darwinismo neurale che scaturisce da connessioni reciproche temporalmente sincronizzate tra aree corticali e sottocorticali. (ibidem, pag. 467)

Il rientro consiste nella formazione di circuiti cosiddetti rientranti che rappresentano il modo costruttivo di cui dispone il nostro cervello per comunicare soprattutto con sé stesso.

Gli stimoli esterni, quindi, producono una successiva elaborazione a livello neurale, come una sorta di auto-organizzazione del cervello stesso, che rafforzerà quegli scambi incessanti di connessioni sinaptiche che si affermeranno, attraverso una scarica simultanea, come quelle più adeguate a rispondere all’esigenza di adattamento, selettivamente orientata. Risulta quindi estremamente importante l’attività stessa di sincronizzazione di gruppi di neuroni di diverse aree e regioni cerebrali che aprono vie e configurazioni determinate sotto la spinta delle connessioni rientranti che produce la conseguente risposta adattiva e funzionale. (Volpe, 2020)

Il nostro cervello quindi è quotidianamente chiamato a formulare e riformulare schemi mentali e motori che innescano nuove connessioni e vie neuronali. In aggiunta a ciò, possiamo affermare che anche

[…] la mielina, considerata a lungo un isolante inerte degli assoni, abbia un ruolo centrale nell’elaborazione dell’informazione e nell’apprendimento, controllando la velocità con cui i segnali viaggiano nei circuiti neurali. (Fields, 2020, pag. 73)

In questo lavoro di riformulazione cerebrale forse rientra anche l’incorporazione delle tre regole fondamentali imposte dal Covid-19 e tanti altri cambiamenti spaziali che stiamo sperimentando. Ne valga come esempio quello delle nuove piste ciclabili transitorie studiate dal comune di Roma per favorire la mobilità in bicicletta e monopattino durante la cosiddetta fase 2 della pandemia. Si tratta di ciclovie verniciate di giallo larghe due metri e delimitate da strisce bianche che seguono il percorso della carreggiata su strada. Nelle strade più larghe la corsia di parcheggio è stata spostata verso il centro strada. Da sempre lasciamo le nostre vetture parcheggiate parallelamente al marciapiede (o a “spina di pesce”) che in questi casi smette di essere un riferimento spaziale. Il problema più grosso però è per chi guida che, se non è a conoscenza del cambiamento o è leggermente distratto, potrebbe accodarsi ad una macchina parcheggiata o persino tamponarla. Non è un cambiamento da poco per la nostra organizzazione percettiva e spaziale che, come abbiamo visto, quando ha consolidato uno schema, lo persegue in modo automatico.

Un altro cambiamento importante dovuto alla pandemia è la riduzione della nostra frequentazione degli spazi pubblici a cui consegue una maggiore dipendenza da quello virtuale. Internet, nonostante il suo potere di influenzare le dinamiche cerebrali che governano le relazioni fra gli individui (Gallese, 2020), resta fondamentale per continuare molte delle nostre attività professionali e sociali. Poiché l’altro in questo momento rappresenta una potenzialmente fonte di paura e pericolo, non possiamo vivere pienamente la piazza e sperimentare tutte quelle emozioni che il poeta Benedetti (1974) riassume in un solo mirabile verso: per la strada fianco a fianco siamo molto più di due. Abbiamo paura di abbracciare e di stringere la mano ai nostri simili. La stretta di mano è un antichissimo gesto di saluto che affonda le sue origini nella cultura babilonese ed egiziana, mentre i romani e i greci si salutavano stringendo forte il polso o l’avambraccio. Lasciare libera e visibile quella parte del corpo significava anche che non c’erano armi nascoste. Fino a pochi mesi fa, questo semplice gesto era segno di vicinanza, fiducia ed intesa mentre oggi potrebbe essere portatore di contagio.

D’altra parte, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i comportamenti cooperativi potrebbero rappresentare il versante positivo di questo complesso processo di adattamento ancora in atto. I prodigiosi meccanismi della neuroplasticità potrebbero aiutarci a rendere spontanee ed automatiche anche le nuove ed insolite modalità cooperative legate alla pandemia.

Conclusioni

Per molto tempo ancora dovremmo confrontarci con paura, incertezza, dolore, distanziamento fisico e morte. E alla fine saremo molto cambiati, la nostra stessa essenza risulterà inevitabilmente variata. Il rispetto delle tre regole per salvare noi stessi e le società in cui viviamo è fondamentale, ma forse non è sufficiente se non riflettiamo criticamente anche

[…] sulle nostre vite, sulla nostra relazione con il mondo e sul mondo stesso

e se la politica e l’economia non abbandonano il

[…] pensiero disgiuntivo e riduttivo. (Morin, 2020, pag. 24)

Molte azioni – come ad esempio il nostro rapporto con un tempo sempre più accelerato – e comportamenti volti al soddisfacimento di bisogni non essenziali vanno rivisti e forse definitivamente abbandonati. Questa operazione è difficile e dolorosa, soprattutto per noi occidentali, ma non è impossibile da realizzare. Come abbiamo cercato di spiegare in questo articolo, possediamo, a livello individuale, collettivo, genetico e culturale, tutte le caratteristiche necessarie per operare un cambiamento di rotta che sia sostenibile e vitale oltre che capace di dare nuovo senso alla nostra esistenza.

Se consideriamo che il ben-essere di una società si realizza nella misura in cui si sviluppa la funzione partecipativa di mutualità (Bertini, 2012), è probabile che la regolare messa in atto di comportamenti cooperativi, capaci di lenire il dolore per quanto stiamo vivendo possa rendere questa pandemia un’occasione ineguagliabile per un altro importante passo nella via dell’evoluzione.

Concludiamo citando a tal proposito David Grossman (2020) che, chiedendosi quale contributo gli scrittori, ma anche ognuno di noi possa dare per

[…] contrapporre qualcosa di significativo al senso di restrizione e di annientamento generato dalla pandemia,

individua la risposta nella nostra capacità di osservare.

[…] Il modo in cui guardiamo il mondo e descriviamo ciò che vediamo. L’osservazione è il fulcro della nostra arte. Ciò che fa di noi degli scrittori e forse le persone che siamo. E c’è molto da osservare. E da raccontare. In quasi tutti gli ambiti della vita avvengono, e avverranno, cambiamenti. Sistemi economici, politici, sociali, culturali collasseranno o assumeranno nuove fisionomie. Probabilmente anche i rapporti tra le persone, tra famigliari, tra amici, tra coppie muteranno. Forse la prossimità alla morte farà sì che donne e uomini, dopo la pandemia, vedano la loro vita in una luce diversa e non vogliano più accettare compromessi. E forse scopriranno quanto siano significativi e importanti i rapporti di amicizia e d’amore.

 

Manuale di Psicologia in Farmacia. Volume 1 (2020) di Fiorella Palombo Ferretti – Recensione

Il Manuale di Psicologia in Farmacia nasce dall’esigenza di illustrare e promuovere le fondamenta teoriche e le linee guida pratiche dell’iniziativa “Lo Psicologo in Farmacia”, ideata dalla Dott.ssa Fiorella Palombo e già sperimentata con successo in numerose città italiane.

 

Negli ultimi trent’anni la concezione di medicina è cambiata: si è passati dal considerarla come ambito che riguarda unicamente la malattia ad una prospettiva più ampia che comprende anche la promozione della salute. La responsabilità della salute si configura contemporaneamente come un bene collettivo ed individuale ed è, quindi, qualcosa di più della semplice assenza di malattia.

Tutto ciò, sommato agli importanti mutamenti demografici ed epidemiologici degli ultimi anni, ha innescato una radicale modifica delle necessità assistenziali spostando sul territorio la risposta ai nuovi e molteplici bisogni della popolazione.

Proprio in quest’ottica, e grazie alla presenza capillare sul territorio, la farmacia di comunità diventa un luogo privilegiato di ascolto.

La normativa recente, DLgs 153 del 2009, definisce la farmacia un presidio socio-sanitario e le riconosce un ruolo più complesso ed esteso rispetto a quello solitamente attribuitole di “dispensazione di farmaci”: essa può ora proporre progetti di prevenzione e di promozione della salute al fine di garantire ed implementare una continuità socio sanitaria territoriale, fondamentale in questo senso una mappatura ed un collegamento con i servizi territoriali.

Nasce in risposta a questa esigenza l’iniziativa “Lo Psicologo in farmacia” che presuppone il lavoro sinergico di Farmacisti e Psicologi, i quali diventano promotori di benessere individuale e collettivo secondo il modello bio-psico-sociale ed in ottica multidisciplinare.

Essi hanno il compito, lavorando in team con gli altri operatori, di accogliere, ascoltare ed indirizzare, prevenendo e intercettando il disagio psicologico tramite differenti strategie. Questa attività si svolge all’interno della farmacia in un setting nel setting, e prevede un numero massimo di tre incontri con una progettazione ed una restituzione finale calibrate sul singolo utente.

Si tratta di un servizio di primo livello, non specialistico, in cui lo Psicologo fa una prima valutazione secondo un approccio multidimensionale alla persona. Il professionista si avvale dell’ascolto attivo, che prevede l’ascolto dell’altro a tutto campo con un atteggiamento non giudicante, interessato, attento e gentile, attraverso modalità come il colloquio clinico ed il counseling in cui un ruolo fondamentale è assunto dalla motivazione del paziente. L’intenzione comunicativa, però, non è espressa solamente dalle forme verbali, anche i messaggi analogici arricchiscono gli scambi relazionali; il silenzio diventa, dunque, parte integrante dello scambio verbale che si ha nel corso del colloquio e può acquistare significati molto differenti.

Compito dello psicologo è mettere la persona in condizione di comprendere appieno la propria situazione e saperla gestire facendo ricorso alle proprie risorse emotive, affettive e cognitive. Fondamentale è considerato lo stile di vita individuale che si traduce in comportamenti e scelte in grado di incidere sulle condizioni di salute in positivo o in negativo. Viene così introdotto il concetto di Empowerment che presuppone un approccio proattivo anziché reattivo da parte del cittadino, per la promozione del benessere attraverso un processo che rende in grado le persone di aumentare il controllo sulle determinanti della propria salute e di migliorarla.

 

La Red Bull non mette davvero le ali. Alcolici + Energy Drink: quali sono gli effetti psicologici?

Red Bull ha affrontato una causa collettiva di 13 milioni di dollari portata avanti da querelanti che l’accusavano di fare pubblicità falsa: la red bull non “dà le ali” come proclama (Careathers contro RedBull GmBh, 2016).

 

Il caso è stato particolarmente degno di nota perché l’alcol miscelato con bevande energetiche (AMED), come Red Bull, è consumato dal 50% degli studenti universitari americani ed europei, a cui sono inoltre associati numerosi comportamenti antisociali (Miller, 2013). Rispetto alle persone che bevono bevande alcoliche, quelle che lo mescolano con bevande energetiche hanno il doppio del rischio di subire o commettere un’aggressione sessuale, o di avere un incidente automobilistico legato all’alcol (Howland & Rohsenow, 2013). Il tribunale, in questo caso, non ha considerato gli effetti psicologici che le bevande energetiche possano avere, specialmente se mescolate con l’alcol, tuttavia il presente studio lo fa (Comil, Chandon e Krishna, 2017). Precedenti ricerche sul comportamento dei consumatori hanno dimostrato che le azioni di marketing possono provocare “effetti placebo” (Plassmann & Wagner, 2014). Per esempio, i prezzi, i loghi e le etichette delle bevande energetiche possono avere un impatto sui riflessi fisici e sulla guida (Brasel & Gips, 2011).

Comil e colleghi. (2017) hanno voluto esaminare gli effetti placebo percettivi, attitudinali e comportamentali creati dall’etichettatura di AMED. Alla base vi era l’ipotesi che la semplice enfatizzazione della presenza di una bevanda energetica nell’etichetta usata per l’AMED (ad esempio “vodka-Red Bull” piuttosto che “Cocktail ai frutti esotici”) fa sentire i giovani più ubriachi, più sicuri di sé sessualmente, più propensi ad assumere rischi nel gioco d’azzardo, ma anche più propensi ad aspettare prima di guidare. Gli effetti placebo possono essere causati da credenze esplicite create dalle informazioni o dall’osservazione (la “teoria dell’aspettativa” degli effetti placebo), ma anche da risposte condizionate create dall’esperienza (la “teoria del condizionamento” degli effetti placebo). Generalmente, queste due fonti si rafforzano a vicenda (Stewart-Williams & Podd, 2004).

Come già detto, le persone non si sentono più intossicate dopo aver consumato AMED rispetto all’alcol puro quando non sanno cosa stanno bevendo (Benson et al., 2014), ma la maggioranza degli studenti crede esplicitamente che gli energy drink aumentino gli effetti intossicanti dell’alcol (Peacock et al., 2013). Pertanto, gli autori hanno ipotizzato che gli effetti placebo delle etichette sull’intossicazione percepita siano moderati solo dalla convinzione che le bevande energetiche aumentino l’intossicazione da alcol, e siano indipendenti dall’esperienza passata di intossicazione. Diversi studi hanno scoperto che le persone associano esplicitamente l’intossicazione da alcol con l’impulsività e l’assunzione di rischi (ad esempio Corazzini, Filippin, & Vanin, 2014), nonché con la disinibizione sessuale (George & Stoner, 2000). Per esempio, gli uomini si sentono più sicuri di sé parlando con le donne quando credono di aver consumato alcol (Bègue, Bushman, Zerhouni, Subra, & Ourabah, 2013). Lo studio ha coinvolto 154 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Questi sono stati assegnati in modo casuale a una delle tre condizioni sperimentali che manipolavano l’etichetta usata per descrivere la bevanda: la prima condizione enfatizzava la presenza di alcol ed energy drink etichettando la bevanda come “Vodka-Red Bull cocktail”, la seconda condizione enfatizzava solo l’alcol riferendosi alla bevanda come “Vodka”, la terza non enfatizzava né l’alcol né la bevanda energetica riferendosi alla bevanda come un “Cocktail di frutta esotica”. Gli sperimentatori hanno poi ricreato una normale situazione di consumo in un bar, ai partecipanti è stato chiesto di finire il cocktail entro 10 minuti mentre guardavano i video musicali mostrati lì, al fine di mascherare lo scopo dello studio. Dopodiché hanno eseguito una serie di compiti al computer per circa 30 minuti. La pre-screening survey ha misurato l’esperienza di intossicazione dei partecipanti, sommando i punteggi del questionario AUDIT (“AUDIT-C”; Bush, Kivlahan, McDonell, Fihn, & Bradley, 1998), le credenze dei partecipanti sugli effetti dell’intossicazione da alcol sui riflessi (1 item), la disinibizione sessuale (2 item), e l’impulsività (1 item). Successivamente, durante lo studio effettivo (dopo aver bevuto), sono state misurate: l’aggressività sessuale con una scala già consolidata (Ariely & Loewenstein, 2006), composta da 3 item; l’assunzione generale del rischio è stato valutato con il Ballon Analogue Risk Task (BART; Peacock, Bruno, & Martin, 2012); la capacità percepita delle persone di guidare chiedendo loro quanto tempo avrebbero aspettato (numero di minuti) per “smaltire la sbornia” prima di guidare; l’intossicazione percepita (4 domande); la convinzione che le bevande energetiche incrementino l’intossicazione da alcol; l’autostima sessuale per mezzo di una serie di vignette che descrivevano la socializzazione sessuale e romantica nei bar. Nello specifico, sono state mostrate ai partecipanti (maschi eterosessuali), le foto di 15 giovani donne, e successivamente hanno risposto a due domande che misuravano la fiducia in se stessi a livello sessuale: (a) la loro intenzione di avvicinarsi e parlare con la donna attraente rappresentata nella foto, e (b) la loro previsione se la donna avrebbe “accettato le sue avances” e condiviso il suo numero di telefono. Alla fine, è stata misurata l’effettiva concentrazione di alcol nel sangue (BAC) dei partecipanti con un etilometro elettronico.

I risultati hanno rivelato che la maggior parte dei partecipanti era in grado di identificare la presenza di alcol nel drink, indipendentemente dalla manipolazione dell’etichetta, così come la quantità percepita di alcol. L’etichetta influiva esclusivamente sulla percezione della presenza di una bevanda energetica nel drink. L’esperienza di intossicazione non era significativamente correlata con le credenze sulle bevande energetiche, mentre l’etichetta Energy Drink aumentava significativamente l’intossicazione percepita rispetto alla condizione di controllo (precisamente del 51%), inoltre, la presenza di Red Bull nel cocktail aumentava significativamente l’intossicazione percepita dei partecipanti che avevano una forte o media convinzione che le bevande energetiche aumentino l’intossicazione da alcol, ma non nei partecipanti con una debole credenza. L’esperienza di intossicazione ha avuto un effetto fortemente negativo sull’intossicazione percepita: le persone che sono più abituate (vs. meno abituate) al consumo di alcol, si sentono meno ubriache. Appare evidente che le credenze esplicite incrementano l’effetto placebo dovuto all’etichetta Energy Drink sull’intossicazione percepita, al contrario dell’esperienza di intossicazione che non ha alcun effetto. L’etichetta Energy Drink ha aumentato la probabilità di assunzione del rischio, la fiducia sessuale in se stessi, e le intenzioni di aspettare di più prima di guidare, rispetto ai controlli. Al contrario, non ha avuto alcun effetto sulle valutazioni di attrattività delle donne mostrate nelle foto, sulla fiducia in se stessi con donne ritenute meno attraenti e sulle intenzioni di impegnarsi in comportamenti sessualmente aggressivi.

 

Video Game Therapy: quando il gioco diventa cura

Il potere dei videogiochi non risiede solo nella loro capacità di intrattenere le persone.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 11) Video Game Therapy: quando il gioco diventa cura

 

 Come dimostra il recente interesse per i “serious games” (giochi progettati a fini educativi), molte aree possono beneficiare del carattere accattivante dei videogame; una di quelle aree che ha ricevuto una certa attenzione dai ricercatori è quella delle sedute terapeutiche (Ceranoglu, 2010). Analogamente all’importanza che le nuove tecnologie stanno assumendo all’interno del contesto di cura, anche le psicoterapie stanno sempre più includendo l’utilizzo del gioco nella loro pratica. L’utilizzo dei videogiochi come opzione di trattamento della salute mentale ha le sue radici nella teoria dei giochi, introdotta già nel 1975 (Ceranoglu, 2010). I giochi consentono ai pazienti di sentirsi liberi dalle normali pressioni quotidiane, con conseguente capacità di fare più liberamente e esprimere loro stessi. Questo fatto può aiutare i terapeuti e altri professionisti della salute mentale ad arrivare alla radice del disturbo di un paziente, portando a un trattamento più efficace. La terapia del gioco si è rivelata particolarmente utile nel trattamento dei giovani, che sono abituati a interagire con la tecnologia quasi costantemente nel corso della giornata (Ceranoglu, 2010).

Solitamente quando si pensa ai videogiochi è facile pensare alle loro conseguenze negative, che includono la dipendenza, una maggiore aggressività e differenti effetti medici e psicosociali (Griffiths, 2004). Nonostante ciò, dai primi anni ’80 le ricerche su questo tema hanno costantemente dimostrato che giocare ai videogame (indipendentemente dal genere) produce un incremento dei tempi di reazione, una migliore coordinazione oculo-manuale e aumenta l’autostima dei giocatori. Inoltre, anche la curiosità, il divertimento e la natura della sfida sembrano aumentare il potenziale terapeutico di un gioco. Comunemente, i videogiochi sviluppati specificamente per interventi terapeutici o per assistenza sanitaria (spesso indicati come “good games” o serious games) sono stati utilizzati in terapia. Tuttavia, alcuni di quelli commerciali sono stati adattati e utilizzati anche per scopi terapeutici. Infatti, in generale, i giochi consentono ai partecipanti di sperimentare novità e sfide quando sono impegnati in attività di fantasia, senza sperimentare conseguenze nella vita reale (Washburn & Gulledge, 1995). Il videogioco è stato utilizzato anche per stabilire un’efficace relazione paziente-terapeuta, in particolare con i giovani (Ceranoglu, 2010). Attraverso l’immersione nel gioco, ai pazienti ansiosi possono essere presentati stimoli avversivi per eliminare progressivamente la loro ansia e l’adozione di ruoli immaginari è stata utilizzata anche per incoraggiare la pratica di comportamenti sani e sviluppare abilità sociali (Lieberman, 2001). Inoltre i videogiochi hanno un potenziale rilevante anche nel campo della ricerca, in quanto possono fornire ai ricercatori un ampio spettro di profili di persone e loro differenti caratteristiche come ad esempio, età, sesso, etnia, stato di istruzione; in particolare, con le implementazioni di videogame online in contesti clinici, è possibile facilitare l’accesso a persone situate in luoghi fisici diversi e / o fornire terapia a coloro che hanno difficoltà a frequentare i servizi sanitari (Washburn & Gulledge, 1995).

Alcune evidenze scientifiche suggeriscono che abilità importanti possono essere costruite o rafforzate dai videogiochi. La recente videogame therapy è stata utilizzata con successo in numerosi contesti riabilitativi, educativi e terapeuti, che verranno ora brevemente delineati:

Videogiochi e riabilitazione cognitiva

Le aree che possono essere implementate includono disturbi percettivi, pensiero concettuale, attenzione, concentrazione, memoria, cognizione spaziale, calcolo, creatività, plasticità visiva, funzionamento esecutivo, velocità di elaborazione, intelligenza fluida e prestazioni cognitive soggettive e difficoltà con il linguaggio (Reijnders, van Heugten e van Boxtel, 2013).

Videogiochi e disturbi dell’impulsività / deficit di attenzione

Ricerche recenti (Wright, 2001) suggeriscono che i videogiochi, collegati a biofeedback, possono aiutare i bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD). Il biofeedback insegna ai pazienti a controllare le funzioni corporee normalmente involontarie come la frequenza cardiaca, fornendo in tempo reale le prestazioni di tali risposte, mentre determinati videogame incremento i livelli di attenzione e lavorano sulla componente impulsiva. Con una formazione sufficiente, i cambiamenti diventano automatici e portano a miglioramenti nei voti, nella socialità e nelle capacità organizzative.

Videogiochi e benefici terapeutici negli anziani

Si potrebbe sostenere che i produttori di videogiochi hanno fatto molto poco per considerare le persone anziane come potenziali utenti. Ciò potrebbe essere diverso se fossero consapevoli che esiste un numero crescente di prove rispetto agli effetti terapeutici benefici di questi prodotti per gli anziani: dato che giocare ai videogiochi implica concentrazione, attenzione, coordinazione occhio-mano, memoria, capacità decisionale e reazioni rapide, l’attività può essere di grande beneficio per questa particolare coorte. I ricercatori che lavorano in quest’area hanno postulato che il declino intellettuale che fa parte del naturale processo di invecchiamento può essere rallentato (e forse contrastato) coinvolgendo gli anziani come utenti attivi della tecnologia (Farris, Bates, Resnick e Stabler, 1994). Ad esempio, un gioco semplice come Tetris, può coinvolgere la mente in un divertente esercizio di risoluzione dei problemi. La tecnologia con gli anziani può quindi favorire una maggiore indipendenza e può essere utilizzata per scopi terapeutici.

Videogiochi in contesti psicoterapeutici

I terapeuti che lavorano con i bambini hanno utilizzato a lungo i giochi per interagire con i piccoli pazienti. Il gioco è stato una caratteristica della terapia sin dai lavori di Anna Freud e Melanie Klein ed è stato utilizzato per promuovere l’espressione della fantasia e l’esplorazione del sentimento. La recente esplosione tecnologica ha portato a una proliferazione di nuovi giochi che i terapeuti affermano di essere un ottimo rompighiaccio e costruttore di alleanza terapeutica (Gardner, 1991). Gardner (1991) ha affermato che l’uso dei videogiochi nelle sue sedute di psicoterapia forniva un terreno comune tra lui e i suoi piccoli clienti e anche eccellenti opportunità di osservazione comportamentale. Sebbene altre tecniche fossero utilizzate come coadiuvante nella terapia di Gardner (ad esempio, raccontare storie, disegnare, altri giochi ecc.), l’autore ha affermato che fossero i videogiochi i fattori più utili per il miglioramento. La tesi di Gardner è che le tecniche cliniche tendono a cambiare in funzione delle tendenze dei tempi, sebbene gli obiettivi rimangano gli stessi. Attività più lente e più tradizionali possono allungare il tempo necessario per formare una relazione terapeutica, in quanto il bambino potrebbe percepire il terapeuta come distante e non in grado di comprenderlo. Spence (1988) è un altro sostenitore del valore terapeutico dei videogiochi e li ha incorporati nel suo repertorio di tecniche di gestione del comportamento. Spence ritiene che essi possano essere utilizzati strumentalmente per apportare cambiamenti in una serie di aree e ha fornito esempi di casi di studio per ciascuno di questi cambiamenti. Per esempio:

  • I videogiochi possono essere usati per fornire le basi per sviluppare una relazione terapeutica, fornendo una “via di mezzo” accettabile per entrambe le parti per “incontrarsi”.
  • I videogiochi possono essere usati come “mezzo di contrattazione” per motivare i bambini a svolgere delle attività richieste.
  • I videogiochi possono essere utilizzati per sviluppare abilità sociali ed elicitare la cooperazione negli individui.
  • I videogiochi possono essere utilizzati per “abbassare le tensioni” e ridurre gli agiti aggressivi, cioè, le persone possono giocare ai videogiochi quando arrabbiate in modo che il “danno” sia inflitto ai personaggi fittizi piuttosto che ad altri o a se stessi.
  • Poiché i videogiochi sono basati su abilità e forniscono punteggi, questi possono essere confrontati e fornire una base per obiettivi futuri; ad esempio, superare i punteggi più alti personali può aumentare l’autostima dell’individuo.

Come si può vedere dai punti delineati da Spence (1988), i benefici delineati sono simili a quelli sostenuti da Gardner (1991). I giochi terapeutici possono aiutare i terapeuti a strutturare le sessioni di terapia e predispongono al trattamento dei vari disturbi.

Nel giusto contesto, i videogiochi possono avere un beneficio terapeutico positivo per una vasta gamma di diversi sottogruppi. In termini di compiti di distrazione, sembra probabile che gli effetti possano essere attribuiti alla maggior parte dei videogiochi disponibili in commercio. Tuttavia, uno dei problemi principali è che gli effetti positivi riportati provengono da videogiochi appositamente progettati per il trattamento di un determinato target piuttosto che da quelli già disponibili in commercio. È quindi difficile valutare il valore terapeutico dei videogiochi nel loro complesso. Come per la ricerca sugli effetti più negativi, può darsi che alcuni videogiochi siano particolarmente vantaggiosi, mentre altri abbiano un beneficio terapeutico minimo o nullo. Ciò che è chiaro dalla letteratura empirica è che le conseguenze negative del gioco dei videogiochi coinvolgono quasi sempre persone che sono utenti eccessivi. È probabilmente giusto dire che i benefici terapeutici possono essere ottenuti giocando moderatamente.

Chiaramente ci sono aree potenzialmente interessanti per la futura ricerca e lo sviluppo di questa tematica. I videogiochi hanno già trovato impiego in campo medico come strumento riabilitativo o psico-educativo, e il loro utilizzo in psicoterapia resta da esplorare. È necessario esaminare da vicino i fattori che facilitano i benefici terapeutici della Videogame Therapy in primo luogo, poiché essi (come, per esempio, l’apprendimento educativo) dipendono anche da altri fattori oltre alla natura del videogioco stesso. I game designer dovrebbero mantenere le esigenze di tutti gli utenti, inclusi coloro che necessitano di un aiuto clinico, mentre continuano a sviluppare nuovi giochi ed esperienze coinvolgenti, e i professionisti terapeuti dovrebbero integrare la terapia del gioco nei loro attuali piani di trattamento in modo che ulteriori studi possano essere sviluppati. In questo modo, le collaborazioni tra medici/terapeuti e progettisti di videogiochi produrranno probabilmente giochi specifici da utilizzare in psicoterapia. Se un individuo soffre di ansia, ADHD o un’altra forma di malattia mentale, i videogiochi e la terapia del gioco possono essere la chiave per la gestione dei sintomi.

 


 

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Aggiornamento sulle linee guida per ansia e depressione – Il secondo episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del secondo incontro: l’aggiornamento sulle linee guida per ansia e depressione, discusso dal Dott. Filippo Turchi.

 

AGGIORNAMENTO SULLE LINEE GUIDA PER ANSIA E DEPRESSIONE:

 

 

La Realtà Virtuale (VR): un valido aiuto per i malati oncologici – Lo psicologo del futuro

C’è un crescente interesse nell’uso di terapie basate sulla Realtà Virtuale nella gestione multidisciplinare dei sintomi per affrontare la riduzione del dolore, l’affaticamento correlato al cancro, l’ansia, la depressione e la disfunzione cognitiva.

LO PSICOLOGO DEL FUTURO – (Nr. 10) La Realtà Virtuale (VR): un valido aiuto per i malati oncologici

 

L’incidenza del cancro è in aumento a livello globale e, purtroppo, i malati di cancro soffrono di un gran numero di sintomi fisici e psicologici intensi, inclusi dolore e ansia, che sono accompagnati da un calo della salute fisica e psicologica indipendentemente dallo stadio della malattia. In circa il 50% dei pazienti oncologici che soffrono di dolore, pochi degli antidolorifici disponibili offrono un adeguato sollievo (Wiederhold et al., 2014).

Ovayolu et al. (2013) hanno mostrato che il dolore dovuto al cancro è complesso e ha componenti multidimensionali comportamentali, emotive, cognitive e sensoriali. Un trattamento inadeguato per il dolore tra i pazienti adulti con cancro porta al deterioramento della salute e al trattamento difficile della malattia. La gestione di questo include metodi farmacologici, che prevedono l’utilizzo di farmaci tra cui analgesici non oppioidi, adiuvanti e oppioidi, da soli o in combinazione con altri tipi di terapia.

Sono molti però gli effetti collaterali di tali farmaci includendo costipazione, che è la più comune, nausea e vomito, secchezza delle fauci, depressione respiratoria, sedazione, allucinazioni, sonnolenza, orticaria, prurito e spasmi mioclonici.

Recentemente, la ricerca sulla gestione del dolore ha iniziato a prestare maggiore attenzione agli interventi non farmacologici (Shahrbanian et al., 2009).

Questi hanno due classificazioni: la prima riguarda le terapie periferiche che hanno agenti fisici come il trattamento caldo-freddo, la stimolazione elettrica transcutanea del nervo, l’agopuntura, la digitopressione, il massaggio, l’idroterapia e l’esercizio. La seconda classificazione si interessa delle terapie cognitivo-comportamentali come rilassamento, meditazione, yoga, ipnosi, biofeedback e distrazione (Demir, 2012).

La distrazione è qualcosa che intrattiene una persona e rende difficile prestare attenzione o pensare a problemi o dolori. La distrazione è una semplice tecnica non farmacologica che non necessita di alcuna formazione specifica e può essere implementata dagli infermieri. Inoltre riduce la percezione del dolore alterando le risposte nocicettive.

A causa dei recenti progressi tecnologici, lo sviluppo e l’applicazione della tecnologia moderna nel campo dell’assistenza sanitaria offre approcci nuovi e non invasivi per la gestione dei sintomi correlati al cancro (Chirico et al., 2016).

C’è un crescente interesse nell’uso di terapie basate sulla Realtà Virtuale nella gestione multidisciplinare dei sintomi per affrontare la riduzione del dolore, l’affaticamento correlato al cancro, l’ansia, la depressione e la disfunzione cognitiva.

La realtà virtuale (VR) include un computer in grado di eseguire animazioni in tempo reale, controllato da una serie di dispositivi di input sensoriali, un tracker di posizione e un dispositivo montato sulla testa per l’output visivo.

I sistemi di realtà virtuale sono classificati in due tipi, immersivi e non immersivi (Chirico et al., 2016). La VR immersiva è caratterizzata da una full immersion, raggiunta tramite un display montato sulla testa e permette di distrarre il paziente grazie ad un coinvolgimento totale in un mondo generato dal computer (Chirico et al., 2016).

Differentemente nella VR non-immersiva la persona può comunicare con il mondo esterno nello stesso momento in cui è connesso al mondo virtuale (Chirico et al., 2016).

Il primo studio sull’uso della VR nei malati di cancro è stato pubblicato nel febbraio 1999 sulla rivista Cyberpsychology & behavior di Oyama et al. Lo studio ha mostrato una significativa diminuzione delle emozioni negative, del dolore e dell’ansia a seguito del trattamento VR in un paziente durante l’infusione di chemioterapia. Dopo questo studio, molti altri hanno analizzato l’efficacia dell’intervento VR durante il trattamento del cancro (cioè, al fine di ridurre i sintomi correlati al trattamento, o il dolore). In particolare, la VR è stata utilizzata principalmente durante le seguenti procedure o condizioni:

  • Chemioterapia. I sintomi frequentemente riportati associati alla chemioterapia antitumorale sono nausea e vomito. Altri sintomi fisici e psicologici comuni associati alla chemioterapia includono anoressia, affaticamento ed ansia (Chirico et al., 2016). La VR è stata introdotta durante l’infusione della chemioterapia al fine di ridurre l’esperienza dei sintomi acuti e cronici causati sia dai trattamenti spesso tossici impiegati nell’assistenza oncologica sia dalla loro malattia sottostante. Diverse ricerche hanno riscontrato una riduzione del disagio dei pazienti in termini di sintomi correlati al cancro, inoltre, con l’utilizzo della VR, è stata rilevata una significativa diminuzione dell’ansia, dell’angoscia e dell’affaticamento subito dopo le sessioni di chemioterapia (Schneider et al., 2011; Chirico et al., 2016). In particolare, Schneider (2011), nei suoi studi, ha anche focalizzato la sua attenzione sulla percezione del tempo mostrando che la VR agisce su questa riducendo l’impressione che il paziente ha sulla durata delle sessioni di chemioterapia.
  • Procedure dolorose. Durante lo svolgimento del trattamento per problemi oncologici, i pazienti devono spesso sperimentare procedure dolorose. Diversi metodi psicologici sono stati utilizzati con successo per ridurre il dolore, comprese le procedure cognitivo-comportamentali e l’ipnosi. Anche la distrazione è un intervento psicologico ben consolidato volto a ridurre il dolore. Pertanto, è stata studiata una varietà di diversi interventi di distrazione, tra cui esercizi di respirazione profonda, ascolto di musica rilassante e visione di video (Malloy e Milling, 2010). Poiché gli esseri umani hanno risorse attenzionali limitate, si ritiene che un compito di distrazione che consuma una parte di quelle risorse lasci meno capacità cognitive disponibili per elaborare il dolore. La VR è stata introdotta durante procedure dolorose al fine di avere un metodo più efficace per diminuirlo, riscontrando una significativa riduzione di questo durante la procedura assistita da VR. In altri studi, oltre alla percezione minore del dolore anche gli stati di angoscia, dovuti al doversi sottoporre a procedure dolorose, tendevano ad essere inferiori per i pazienti grazie trattamento con l’utilizzo della VR (Gershon et al., 2003; Chirico et al., 2016).
  • Ricovero. Un’altra condizione che può causare diversi livelli di disagio è il ricovero in ospedale. Questa condizione può essere considerata come estremamente stressante perché è dovuta ad un cambiamento negativo dello stato di salute e anche perché spesso implica condizioni di mancanza di autonomia e di intimità. Molti studi hanno dimostrato che l’utilizzo della VR agisce positivamente su aspetti dello stato emotivo dei pazienti in termini di riduzione dei sintomi correlati al cancro (ansia, depressione e affaticamento), migliorando le emozioni positive oltre a ridurre le emozioni negative (Espinoza et al., 2012; Baños et al., 2013).

Ponendo l’attenzione sulle diverse variabili legate al disagio durante le procedure di cura del cancro nonché del vissuto della persona durante il periodo della malattia, gli aspetti maggiormente valutati dell’intervento VR sono principalmente quello psicologico e quello fisiologico.

L’instabilità fisica e quella psicologica, infatti, possono aumentare la durata della procedura e la quantità di farmaci richiesta, in caso di terapie dolorose. Inoltre, un paziente teso può trovare problematico affrontare il trattamento e/o collaborare con il team sanitario, aggiungendo così difficoltà alle procedure (Chirico et al., 2016).

Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, il disagio dovuto alle condizioni del cancro è stato spesso correlato ad ansia e depressione o altri sintomi connessi al suo trattamento come affaticamento, dolore, disturbi del sonno e umore basso.

Molti studi hanno valutato l’efficacia della VR su diverse di queste variabili psicologiche e hanno riscontrato una differenza significativa o, più in generale, un disagio inferiore quando si utilizza un intervento VR su questi pazienti.

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto fisiologico si è notato che i pazienti sottoposti a trattamenti contro il cancro sono spesso spaventati e ansiosi, il che può influenzare le risposte fisiologiche, come la frequenza respiratoria, la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, la percezione del dolore e la concentrazione degli ormoni dello stress (Tan et al., 2010).

Molti studi hanno preso in considerazione la frequenza cardiaca come misura dell’eccitazione, valutando anche varie misure come la pressione sanguigna, l’ECG, il pattern respiratorio e il volume del flusso sanguigno. Questi studi hanno rilevato nel gruppo sottoposto al trattamento di procedure dolorose con l’utilizzo della VR una frequenza cardiaca inferiore e quindi uno stato di ansia e paura minore rispetto al gruppo di controllo (Gershon et al., 2004; Wolitzky et al., 2005).

Nonostante siano necessari ulteriori studi per analizzare a fondo il ruolo che la realtà virtuale può avere nella cura e gestione del cancro, sembra essere realmente un valido aiuto per i malati oncologici nell’affrontare buona parte di quei disturbi sia fisici, sia psicologici, che accompagno la persona affetta da cancro nel percorso della cura della malattia indipendentemente da risvolti positivi o negativi che questa può portare.

 


 

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Questioni di tempo – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente lavoro si sofferma sulla rilevanza della qualità del tempo rispetto alla quantità. Il tempo, infatti, per una madre in quanto tale, come per ogni essere umano, viene ottimizzato nel momento in cui ogni attimo è vissuto appieno sia da sole, sia nella relazione con i propri figli.

Moms – (Nr.8) Moms – Questioni di tempo

 

Abraham Lincoln diceva che ciò che conta non sono gli anni della propria vita, ma la vita che si mette in quegli anni. Questa frase rimanda alla concezione di tempo. Una giornata è scandita da ventiquattro ore, ma per un essere umano a volte sembrano non bastare, in particolar modo per una madre, che si trova a conciliare ed integrare il proprio ruolo materno con tutto il resto, ovvero il lavoro, le relazioni sociali e il tempo per se stessa.

Il settimo episodio di Workin’ Moms prende forma quando nel gruppo post-partum viene introdotto il tema dello spazio temporale che ogni madre concede a se stessa durante la giornata. Qualcuna parla di massaggi, qualcun’altra di 20 minuti trascorsi a pensare, e qualcun’altra ancora di qualche minuto sui social network. Non tutte però riescono a concedersi questo spazio.

Il senso di colpa in questo caso gioca un ruolo essenziale e il pianto del bambino, il giudizio del partner e i feedback altrui accendono un fuoco laddove già è presente la paglia. Il fuoco diventa talmente dilagante dentro di sé che si rischia di polverizzare ogni rimasuglio di autenticità e spontaneità.

Ogni parte del settimo episodio di Workin’ Moms mostra come sia possibile per una madre ritagliarsi uno spazio per sentirsi donna, anche fosse solo al lavoro, poiché prendere del tempo per sé può risvegliare dei sensi di colpa. L’ambiente lavorativo è un luogo dove, per quanto a volte sia presente un clima di inevitabile tensione emotiva, si ha la possibilità di intrattenere rapporti sociali, riflettere, pensare, prendersi la pausa per un caffè e magari fare anche quello che si ama. Tutto questo è possibile senza doversi prendere cura di qualcun altro.

La serie tv porta alla luce il senso di colpa materno e l’eterna lotta interiore delle donna tra il bisogno di un proprio spazio, che può coincidere o collidere con il lavoro, e il bisogno di trascorrere del tempo con i propri figli.

Il personaggio di Jenny esprime a parole la lotta interiore che alcune donne non riescono nemmeno a portare alla consapevolezza:

Mio marito sta con nostra figlia e io vado al lavoro dove mi ritrovo a pensare e a sentire che sto cercando qualcosa, ma non so neanche che cosa. Torno a casa dal lavoro e trovo mio marito che lega con mia figlia in modi che ho sempre immaginato di poter fare io…

Dentro alcune madri c’è il desiderio di poter conciliare il proprio essere donna con la possibilità di creare dei momenti di intimità e complicità con il proprio o i propri figli, che va al di là del pratico cambio di pannolino o dell’allattamento. La relazione tra due persone è come un fiore che riceve acqua dall’autenticità di ognuno dei componenti e dalla possibilità di viverla liberamente senza sensi di colpa, così è anche quella tra madre e figlio. Quindi, per quanto sia complesso, è importante che ogni donna dia maggior peso alla qualità del tempo e alla dimensionalità del proprio desiderio di essere presente nel momento che vive. La relazione con un figlio può godere di autentico e spontaneo benessere quando la madre può sentirsi libera dai sensi di colpa.

 

Arrugas (2011) di Ignacio Ferreras – Recensione del film di animazione e spunti per la formazione

Arrugas è un filmato estremamente indicato per esplorare i vissuti dell’anziano istituzionalizzato e dei familiari nonché un’occasione di riflessione sulle modalità di assistenza spesso adottate nei servizi alla persona.

 

Arrugas (Rughe) è un film di animazione spagnolo del 2011 diretto da Ignacio Ferreras, tratto dalla graphic novel di Paco Roca del 2007.

Già dal titolo è chiaro il tema della storia: la vecchiaia, il tempo che scorre e i segni che esso lascia. Il protagonista è Emilio, ex direttore di banca, portato dal figlio in una casa di riposo poiché non più in grado di occuparsene. Nella struttura Emilio conosce il suo compagno di stanza Miguel e altri ospiti con cui passa la quotidianità, condividendo con essi il timore di passare prima o poi per l’ultimo piano, ovvero il reparto dei non autosufficienti. Emilio fa ingresso in struttura affetto da una forma iniziale di Alzheimer che poi, nel corso del film, peggiorerà progressivamente.

Arrugas è sicuramente adatto come materiale di formazione per caregivers, formali e non, che si occupano di persone affette da Disturbo Neurocognitivo Maggiore (DNC).

Fin dai primi minuti affronta il tema del caregiver burden e della decisione sofferta dei familiari di istituzionalizzare il proprio malato, specie a seguito della comparsa dei primi disturbi del comportamento, nel caso di Emilio le allucinazioni.

Nel corso del film vengono rappresentati i tipici sintomi del DNC e il loro progressivo aggravamento: allucinazioni, anomie, disorientamento, tremori, deliri di latrocinio, perdita di memoria e delle ADL (attività di vita quotidiana, nel caso di Emilio il vestirsi autonomamente).

Tramite un tour divertente della struttura organizzato da Miguel, emergono forti critiche all’organizzazione e alle relazioni di cura nelle strutture assistenziali. Emerge chiaramente una organizzazione che predilige un modello di tipo bio-medico (Lyman, 1989) e non di cura centrata sulla persona (Tom Kitwood, 1997). L’ospite non ha possibilità di scelta, le attività proposte sono poche e il focus del personale è sui soli bisogni fisiologici (esplicativa è la frase di Miguel “si mangia, si dorme, si caga”).

Emblematica è la scena dell’attività motoria proposta dalla fisioterapista: un’attività di gruppo che non tiene conto dei diversi deficit sensoriali che caratterizzano i vari ospiti, dove il vissuto di fallimento è dietro l’angolo.

È, invece, fondamentale promuovere e incoraggiare il mantenimento delle abilità della persona e la sua autonomia, il successo e la cura di sé, cercando di evitarle sensazioni di sconfitta.

Di primaria importanza è proporre, alla persona con demenza, attività che incrementino il senso di autoefficacia (Bandura, 1997), tramite esperienze di padronanza e successo resi possibili dalla proposta di obiettivi raggiungibili.

Altro aspetto degno di riflessione è quello riguardante gli orari dei pasti e della messa a letto, spesso non in linea con le abitudini degli ospiti e rispondenti più a esigenze organizzative del personale.

A ciò si aggiunge anche la tendenza a sostituirsi all’anziano, per velocizzare le azioni, disincentivando così il mantenimento delle abilità.

Risulta, dunque, evidente la necessità di promuovere un modello di cura centrata sulla persona (Kitwood, 1997), basato su un approccio di tipo biopsicosociale, che tenga conto della “personhood” (= essere persona) dell’individuo.

Nella demenza la cura si basa sulla relazione e modalità svalutanti di interazione con l’anziano (la Psicologia Sociale Maligna di Kitwood, 1997) possono minare i suoi bisogni psicologici, aggravando il quadro clinico.

Un altro punto su cui riflettere sono le modalità con cui spesso vengono condotte le valutazioni periodiche dei pazienti. In Arrugas un professionista valuta lo stato cognitivo di Emilio nella sala comune, interrotto da numerosi elementi di confusione. Spesso, in strutture assistenziali di questo tipo, le valutazioni avvengono nella stanza dell’ospite, nella sala d’aspetto o addirittura lungo i corridoi poiché le limitazioni motorie impediscono all’anziano di muoversi autonomamente. In queste occasioni gli elementi distraenti sono molteplici così come le interruzioni da parte degli altri residenti e del personale. È importante, dunque, tenere presente le difficoltà attentive tipiche di questa tipologia di pazienti così come le limitazioni sensoriali che le possono accompagnare, individuando la situazione più adatta per condurre un colloquio o una valutazione neuropsicologica.

In conclusione, Arrugas è un filmato estremamente indicato per esplorare i vissuti dell’anziano istituzionalizzato e dei familiari nonché un’occasione di riflessione sulle modalità di assistenza spesso adottate nei servizi alla persona, la cui visione è consigliata sia all’interno di percorsi di formazione del personale sia di intervento e sostegno rivolti ai caregivers informali.

 

“Per favore, non lasciarmi!”: Ansia da Separazione e tratti correlati nel Disturbo Borderline di Personalità

Alla luce dell’apparente somiglianza tra sintomatologia del Disturbo d’Ansia da Separazione (SAD) ed ansia/insicurezza da separazione proprie del Disturbo Borderline di Personalità (BPD), Matthies e colleghi hanno creato una review che fornisce una panoramica completa sull’argomento.

 

Il Disturbo d’Ansia da Separazione è caratterizzato da un’estrema paura o ansia connessa alla separazione dalle principali figure di attaccamento, come genitori, fratelli, figli, partner o coniugi, e le caratteristiche comuni tra questa patologia e il disturbo borderline di personalità comprendono esperienze di eccessivo disagio quando si anticipa o sperimenta il distacco da persone vicine, paura di essere soli, eccessiva preoccupazione per le figure di attaccamento, ed evitamento della separazione da queste ultime, comportamenti che portano a menomazioni sociali, professionali, accademiche o relative ad altre aree di funzionamento (Baldwin et al., 2016). Solo pochi studi fino ad oggi hanno indagato la relazione tra queste due psicopatologie. Questo collegamento, tuttavia, è suggerito dal fatto che “l’intollerabilità all’essere soli” così come i punteggi elevati sui tratti di ansia e insicurezza da separazione costituiscono i principali criteri nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) per il disturbo borderline di personalità (Miller et. al., 2012; American Psychiatric Association [APA], 2013). Altri criteri necessari per soddisfare la diagnosi di BPD includono sforzi frenetici per evitare l’abbandono reale o immaginario e intense paure di abbandono e rabbia inappropriata, anche di fronte ad un distacco realisticamente limitato nel tempo. Nella III sezione del DSM-5, uno dei criteri diagnostici proposti per il disturbo borderline coincide con il tratto “Insicurezza da separazione”, posto all’interno del dominio dei tratti “Affettività negativa”. Qui, l’insicurezza da separazione è definita attraverso paure di rifiuto da parte di persone significative, associate a paure di eccessiva dipendenza e completa perdita di autonomia (APA, 2013). Diversi studi hanno evidenziato come questa caratteristica sia connessa con i criteri categoriali per la diagnosi di BPD, ed in particolare con la paura dell’abbandono (Bach & Sellbom, 2016; Sellbom et al., 2014). In questo senso, le esperienze di eventi di separazione, i sentimenti di solitudine/vuoto, così come l’incapacità di stabilire la costanza dell’oggetto, possono essere considerati sintomi fondamentali del BPD, e allo stesso tempo possono essere osservati in pazienti con Disturbo d’Ansia da Separazione.

Alcune ricerche epidemiologiche confermano le similitudini sintomatologiche tra questi due disturbi. Tra queste, spicca lo studio retrospettivo di Osone e Takahashi, da cui è emerso che il 44,8% dei pazienti con disturbo d’ansia ha sofferto di almeno un disturbo di personalità, ed in particolare l’11,2% era affetto da un disturbo di personalità del cluster B, che racchiude i disturbi borderline, antisociale, narcisistico ed istrionico di personalità. In questo studio, è stato inoltre osservato che i pazienti con disturbo d’ansia in comorbilità con disturbi di personalità mostravano punteggi più alti rispetto al gruppo di pazienti senza disturbi di personalità nel Separation Anxiety Symptom Inventory, questionario che misura il Disturbo d’Ansia da Separazione infantile (Osone et al., 2006; Silove et al., 1993).

Le patogenesi di questi due psicopatologie sono guidate da molteplici fattori di rischio biologici, psicosociali e ambientali, che interagiscono tra loro. Uno studio che ha indagato la relazione tra questi due disturbi dai punti di vista genetico e ambientale, ha rivelato che una diagnosi di disturbo borderline può predire il rischio di disturbo d’ansia, suggerendo fattori di rischio familiari condivisi, così come fattori ambientali specifici non condivisi per la comorbilità di disturbi d’ansia e BPD (Welander-Vatn et al., 2016).

Per ciò che concerne invece gli eventi di separazione presenti nella vita degli individui, uno studio empirico ad impronta psicosociale riportava che i pazienti con BPD avevano sperimentato un numero di separazioni statisticamente maggiore rispetto ai soggetti sani prima dei 5 anni (Bradley, 1979). Inoltre, è stato riportato che si verificava un’eccessiva ansia da separazione significativamente più spesso nell’infanzia e nell’adolescenza dei pazienti con disturbo borderline di personalità (38%) rispetto ai rispettivi fratelli non-BPD (7%), e ciò può costituire un predittore significativo per la diagnosi di disturbo borderline (Goodman et al., 2013). A conferma di ciò, nello studio di Reich e Zanarini i pazienti con disturbo borderline hanno riportato maggiori difficoltà con la separazione da persone care tra i 6 ei 17 anni di età rispetto ai pazienti con altri disturbi di personalità (Reich et al., 2001).

Per quanto riguarda le evidenze emerse dallo studio dei circuiti neurali, è stato dimostrato che ansia da separazione e sensazioni di solitudine nel Disturbo Borderline e nel Disturbo d’Ansia da Separazione si riflettono in una disfunzione della rete neurale parzialmente condivisa: in uno studio con tomografia a emissione di positroni (PET) è stato chiesto a pazienti con disturbo borderline di leggere copioni relativi all’esperienza di abbandono (Schmahl et al., 2003). Con la PET è stato rilevato un significativo aumento dell’attività corticale prefrontale dorsolaterale, area adibita a funzioni come regolazione del controllo emotivo e cognitivo, e flessibilità nel mutare il proprio comportamento a seconda delle circostanze. È stata inoltre evidenziata un’attivazione significativamente ridotta del cingolo anteriore destro, adibito alla motivazione e alla modulazione delle risposte emotive. Questo risultato è in accordo con uno studio PET su scimmie rhesus, che ha portato alla luce una maggiore attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale destra dei cuccioli dopo la separazione dalle loro madri (Rilling et al., 2001). Ciò potrebbe indicare un aumento del coinvolgimento di quest’area nella riduzione del controllo dell’ansia (Bandelow et al., 2016).

In conclusione, l’innovativo punto di vista multidimensionale di Matthies e collaboratori descritto nella review di cui sopra potrebbe portare a nuove strade preventive e terapeutiche, guidando lo sviluppo di interventi mirati al Disturbo d’Ansia da Separazione e ai problemi legati alla separazione nel Disturbo di Personalità Borderline. L’ansia da separazione può costituire una caratteristica fondamentale rilevante per la patogenesi, il mantenimento e il trattamento del disturbo borderline di personalità.

 

Invecchiare con successo – VIDEO dal webinar organizzato da Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto ha organizzato il webinar “Invecchiare con successo” volto ad affrontare le tematiche di invecchiamento e potenziamento delle funzioni cognitive.

 

Le evidenze scientifiche documentano come il processo di sviluppo delle abilità cognitive, emotive e interpersonali avvenga lungo tutto l’arco di vita, anche nell’invecchiamento che risulta essere così caratterizzato da perdite e da guadagni. Il sistema nervoso anche negli anziani è caratterizzato da una intrinseca plasticità che ne permette la riorganizzazione funzionale in risposta a stimoli senso-motori e cognitivi.

È quindi possibile invecchiare con successo promuovendo mediante interventi di potenziamento cognitivo l’incremento o la riattivazione delle abilità di risoluzione di problemi, soprattutto per le funzioni mentali di base come la memoria o l’attenzione per favorire l’efficacia e l’efficienza nella quotidianità e mantenere anche da anziani un’immagine del sé positiva e flessibile.

Il webinar, di cui pubblichiamo il video, è stato condotto dalla Dott.ssa Sciore Roberta – Psicologa, Psicoterapeuta, Esperta in Psicologia dell’Invecchiamento e Co-didatta presso Studi Cognitivi.

 

INVECCHIARE CON SUCCESSO – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Coco (2017): un esempio di Death Education – Recensione del film di animazione

Coco è un film d’animazione della Pixar uscito nel 2017, diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina e premiato con due Oscar, sia come miglior film d’animazione che come miglior canzone originale.

 

Esso è ambientato in Messico e vede come protagonista Miguel Rivera, un dodicenne con la passione per la musica e desideroso di diventare un giorno un musicista rinomato come il suo idolo Ernesto de la Cruz. A questo sogno però si oppone l’intera famiglia del bambino, poiché porta alle spalle un vissuto di abbandono legato proprio alla musica: il padre della bisnonna Coco lasciò, infatti, la famiglia per fare il musicista.

Durante l’intero film si assiste alla celebrazione del Dia de Muertos (o Giorno dei Morti), una delle feste messicane più conosciute in assoluto. Durante tale festività, Miguel si intrufola nel mausoleo del suo idolo e suona la sua iconica chitarra, catapultandosi in una dimensione alternativa in cui non può essere né visto né sentito dai vivi ma solo dai morti. Qui conosce i suoi parenti defunti e scopre di essere stato maledetto e di avere tempo solo fino all’alba per ritornare nel regno dei vivi, altrimenti rimarrà intrappolato in questa dimensione per sempre. Da questo momento iniziano per Miguel una serie di avventure che lo porteranno a scoprire la verità sul passato della sua famiglia. Ma non è questo il punto. Il tema centrale di tutta la storia è la morte, rappresentata al pubblico più giovane in maniera diversa rispetto ai precedenti film Disney proprio grazie all’espediente dell’ambientazione messicana.

Coco diviene un’occasione per i più piccoli – e non solo – di approcciarsi alla morte senza immagini orrorifiche e “non detti”: essa non deve essere un tabù ma un evento naturale che necessita di essere normalizzato. La perdita di persone care è infatti un’esperienza dolorosa che prima o poi ognuno di noi deve affrontare nel corso della propria esistenza.

La celebrazione del Giorno dei Morti e Death Education

Il Dia de Muertos è una celebrazione messicana che ha luogo a inizio novembre, in concomitanza con la celebrazione cattolica dei defunti. La festa viene celebrata con musica, cibi tradizionali, bevande e numerose rappresentazioni caricaturali della morte. È tradizione far visita ai cimiteri e adornare le tombe dei propri cari con candele, fiori e piatti speciali in onore degli antenati. Per l’occasione vengono allestiti degli altari (gli ofrendas) in salotto o sala da pranzo, facendo attenzione a rappresentare i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) ed esponendo le foto di coloro che si vuole ricordare (Fig.1). Si tratta, dunque, di una cultura che non occulta la morte ma la rappresenta ed espone, anche ai più piccoli.

Coco 2017 un esempio di Death Education Recensione del film Disney Fig 1

Fig.1 Altare preparato dalla famiglia di Miguel

Generalmente gli adulti tendono a nascondere la dipartita ai bambini, ad esempio tramite la congiura del silenzio o la loro esclusione dai riti religiosi, con lo scopo di proteggerli dal dolore e dall’angoscia. Questi comportamenti, però, anche se condotti a fin di bene, non fanno altro che ostacolare l’elaborazione del lutto e dare vita a un’immagine terrificante della morte stessa.

Come sappiamo dalla letteratura, la consapevolezza della propria finitudine è causa per l’essere umano di uno stato di ansia opprimente e meno chiaramente è compresa l’idea di morte maggiore è la paura a essa associata (Cotton & Range, 1990; Ollendick, 1983; Slaughter & Griffiths, 2007).

Arriva così in soccorso la Death Education, attività educativa rivolta a tutte le età, sviluppatasi in alcune culture piuttosto che in altre, finalizzata a rendere gli individui più consapevoli e competenti nella gestione della propria e altrui morte.

Secondo la Death Education risulta necessario avvicinare gli individui fin dalla tenera età al concetto di finitudine, rendendoli partecipi ai rituali e spiegando loro l’accaduto, con un linguaggio idoneo all’età e con la giusta vicinanza fisica ed emotiva. Dal momento che i bambini riescono a cogliere gli stati emotivi del familiare, è bene che chi si prende la responsabilità di orientare i più piccoli circa queste tematiche abbia adeguatamente elaborato il lutto e sia il grado di supportare chi ha di fronte.

Il concetto di morte nel bambino

Coco si dimostra essere un ottimo strumento per parlare con i bambini di morte, tenendo ovviamente in considerazione la fase di sviluppo del piccolo. Per i bambini, infatti, la morte non è un concetto facile da capire e impiega alcuni anni prima di consolidarsi. Secondo Maria Nagy, ad esempio, è possibile individuare tre stadi di maturazione del concetto, connessi allo sviluppo stadiale delle abilità di ragionamento. Tra i 3-5 anni la morte viene rappresentata dal bambino come una semplice temporanea assenza, dunque uno stato reversibile. Tra i 6-9 anni la morte viene associata a figure terrorizzanti come scheletri e mostri, vissute però allo stesso tempo come vincibili poiché non realmente esistenti. Inoltre, sempre in questa fase l’individuo inizia a intuire l’irreversibilità della morte. Infine, tra i 9-12 anni si comprende l’universalità di tale evento.

Il ricordo di chi non c’è più

Coco insegna che si può e si deve parlare dei defunti e ricordarli, essi sono con noi anche se non fisicamente presenti.

Il ricordo è, infatti, un’altra grande tematica del film: Miguel scopre che i morti continuano a “vivere” nell’aldilà proprio tramite il ricordo dei vivi. La morte, quindi, per quanto inevitabile, non è definitiva infatti i nostri cari non ci lasceranno mai del tutto finché noi ne manterremo vivo il ricordo. Questa tematica, inoltre, è resa ancor più evidente dal personaggio Coco, la bisnonna di Miguel, affetta da demenza.

Durante il Dia de Muertos il ricordo dei defunti è sostenuto dall’esposizione delle loro fotografie negli ofrendas e proprio questo tipo di supporto viene spesso utilizzato negli interventi di Death Education (Testoni, Abrami, Matanza & Marchetti, 2003; Testoni, Ancona & Ronconi, 2015).

 

Riflessi Neonatali, risposta immediata o pensata?

Per anni i riflessi neonatali sono stati considerati secondo un’ottica stimolo-risposta, data dall’immaturità cerebrale e la prevalenza delle aree sottocorticali su quelle corticali, ma gli ultimi studi sembrerebbero ribaltare tali ideologie sui riflessi neonatali, a favore della visione di neonato competente.

 

Secondo quest’ottica si tratterebbe di comportamenti funzionali, risultato di un’iniziativa autonoma del feto/neonato nella sua interazione con l’ambiente uterino ed extrauterino (Milani Comparetti,1982)

Il Grasping Reflex è indubbiamente uno dei riflessi più affascinanti e appaganti per il neo genitore. Si evoca comprimendo la regione medio palmare della manina del neonato, che, flettendo le dita, afferra il dito dell’adulto. È un movimento che tende a scomparire intorno i 3/4 mesi, lasciando spazio alla prensione volontaria di oggetti. Tale riflesso si configura come un’attività ben sperimentata e funzionale già nella vita intrauterina: infatti il feto, giocherellando con il cordone ombelicale, automatizza tale movimento, che dunque continua a compiere nelle prime settimane di vita (Boris M. Petrikovsky,1993).

Il movimento che il neonato compie non appena le sue superfici plantari sfiorano un piano, nominato riflesso della marcia automatica, è molto simile a quello che caratterizza la deambulazione: una flesso-estensione degli arti inferiori, con schema alternato. Tale attivazione muscolare durante la vita intrauterina, nelle prime settimane gestazionali, viene sfruttata dal feto per “camminare” sulle pareti dell’utero così da cambiare posizione.

A non comparire in epoca prenatale come i due precedenti è Il riflesso di Moro. Quest’ultimo si manifesta in risposta all’assenza di gravità con iniziale adduzione rapida ed estensione degli arti superiori, seguita da abduzione. Alle risposte motorie, si associano segnali di comunicazione non verbale nel neonato, come movimenti di rotazione del capo, di direzione dello sguardo verso il care-giver, faccia angosciata e spesso pianto. Ciò ha permesso agli studiosi di ipotizzare che sia un riflesso legato alla paura (Pierre V Rousseau et al ,2017), che il neonato non esperirebbe nella vita intrauterina grazie al contenimento stesso dell’utero.

Questi aspetti sottolineano, quindi, il potenziale adattivo e non di semplice substrato sottocorticale alla base dei riflessi. Infatti, seppur vero che si tratti di gesti perlopiù sempre uguali a sé stessi, è vero anche che questi contestualizzati al vissuto del neonato assumono un significato del tutto nuovo, all’avanguardia e al passo con la visione ben lontana da quella di scatola vuota, da dover plasmare.

 

Arpa terapia. Suoni che curano l’anima

Da tempo desidero scrivere sull’arpa terapia, disciplina con origini antiche, che si perdono nella notte dei tempi, ma altrettanto nuova perché solo in questi ultimi anni si sta diffondendo non solo in America, ma anche in Italia e in Europa.

 

La prima domanda che immagino sorgere nel lettore è: Perché si parla di arpa terapia e non di musicoterapia con l’arpa? E poi, se esiste l’arpa terapia esiste anche la violino terapia, la piano terapia, l’oboe terapia? Cosa c’è di così unico nel suono dell’arpa tanto da affiancare la parola “terapia” per designare questo modo particolare di curare con i suoni? E quindi, da ultimo, che cos’è l’arpa terapia? Quali sono i suoi principi costitutivi e i suoi ambiti d’intervento?

Sono arpista e musicoterapeuta. Dopo trent’anni di esperienza in musicoterapia mi sono affacciata al mondo dell’arpa terapia studiando e diplomandomi presso l’International Harp Therapy Program creato da Christina Tourin (la sua storia e la sua attività sono consultabili sul sito).

Prima di addentrarmi nella magia del suono dell’arpa, vorrei spendere due parole su ciò che arpa terapia non è, per fare pulizia di idee e di linguaggio.

Innanzitutto arpa terapia non è concertismo, nemmeno pensato al letto di un malato o in una hall di un ospedale. Nel libro Arpa terapia. Suoni che curano l’anima ho scritto:

Arpa terapia è qualcosa di unico, come un abito fatto su misura. Sebbene anche una buona musica ascoltata in un concerto possa far bene ed abbia sicuramente dei risvolti terapeutici, l’arpa terapia è qualcosa di altro e di più.

E’ suonare, improvvisando, la musica adatta alla persona, per favorirne il rilassamento, il lasciar andare le tensioni, l’affidarsi per rigenerarsi. E’ creare uno “spazio sacro”, una “culla del suono” che abbracci, accolga, custodisca il paziente/cliente. Perché il suono dell’arpa crea emozione, rilassamento, benessere, ottenuto da un profondo e tranquillizzante effetto sonoro, un vero e proprio massaggio corporeo semplice e naturale, compiuto dalle potenti ed avvolgenti vibrazioni che scaturiscono dallo strumento, quando l’arpa terapista improvvisa e suona ascoltando profondamente la persona che gli è affidata.

Arpa terapia è quindi fare musica con il cuore, creando momento dopo momento le sonorità adatte a generare benessere in chi ascolta. Il dialogo sonoro nasce ricalcando il ritmo respiratorio, trasformando con suoni e ritmi la corporeità della persona, le sue tensioni o rigidità, la sua postura, il timbro vocale, la gestualità, la mimica. E il dialogo, se è veramente tale, si trasforma, non è monologo a senso unico, ogni frase tiene conto della risposta dell’altro, vi si adegua, ascolta, accoglie, e lentamente conduce alla trasformazione, a modificare lo stato tonico-emotivo e a favorire la guarigione, intesa non come riduzione dello stato di malattia, ma come acquisizione di benessere fisiologico e interiore, pur persistendo, nella maggioranza dei casi, la patologia.

Infatti, l’etimologia della parola guarire è riconducibile all’antico germanico warjan = mettere al riparo, difendere, proteggere, a sua volta, dalla radice var- = guardare o anche coprire (entrambi nel senso di curare, proteggere). Identica radice si trova nell’inglese to ware = curare, proteggere. (Etimologia tratta da etimo italiano. Consultato il 2 gennaio 2021)

La guarigione è un quindi un duplice processo in quanto dipende sia dal malato che si lascia “guardare, proteggere, curare”, sia dall’arpa terapista che con la sua musica può mettere al riparo, custodire, sostenere e comprendere chi vi si affida.

Inoltre arpa terapia non è musicoterapia.

Usare l’arpa in musicoterapia è auspicato per generare un’attenzione d’ascolto profonda, intensa. L’arpa ha un timbro poco conosciuto, può stupire, incantare, proprio come il mito di Orfeo ci ricorda. Può penetrare in dialogo sonoro con il pianoforte a coda per amplificare l’effetto della risonanza e infondere una benefica energia in chi ascolta seduto sopra la sua casa armonica.

Ma usare l’arpa in musicoterapia non significa fare arpa terapia perché le due discipline, per quanto possano apparire differenti solo nell’uso dello strumento principale, hanno scopi e modi di approccio distinti.

L’arpa terapia non ha finalità che riguardano il cambiamento del comportamento della persona. Non si preoccupa che il bambino impari a parlare, o che la persona riprenda a camminare. È un “qui ed ora” in cui si crea una “Culla del suono” che agisce sul respiro, sul dolore, sul malessere dell’individuo e li trasforma. L’obiettivo principale riguarda prevalentemente la sfera emotiva che si manifesta nella fisiologia della persona. L’intervento non è continuativo come quello della musicoterapia e il beneficio che si ottiene dipende dalla qualità particolare del timbro del suono.

Ecco perché si parla di arpa terapia. Il potenziale curativo della terapia con i suoni dell’arpa sta proprio nella particolare caratteristica del timbro di questo strumento e del modo in cui le corde vengono pizzicate (Fig. 1)

Arpa terapia la musica e il suono come strumenti di cura Psicologia Fig 1

Fig. 1: L’arpa

Senza addentrarci nel difficile linguaggio della fisica acustica e in contenuti troppo specialistici, ci basti in questa sede ricordare che l’arpa è uno strumento a corde pizzicate con caratteristiche specifiche. La corda è pizzicata circa a metà della sua lunghezza. Questo crea un suono particolare (viene annullato il secondo armonico) che al nostro orecchio appare particolarmente puro, cristallino, angelico. Ogni corda pizzicata continua a vibrare a lungo a meno che non la si smorzi. La somma delle vibrazioni di una corda dopo l’altra e di più corde simultaneamente crea un impasto sonoro che avvolge la persona in ascolto.

I suoni si intrecciano, gli effetti di risonanza si sommano e raggiungono la persona che ascolta penetrando in profondità.

Non tutti i suoni risuonano nel corpo allo stesso modo. Non tutti i suoni raggiungono tutte le parti del corpo. Se mi pongo in ascolto, sia mentre suono, sia mentre ascolto, mi accorgo dei diversi punti di risonanza.

I suoni gravi convibrano nelle parti centrali e basse del corpo (addome, gambe, piedi), quelli più acuti li sentiamo nel torace, collo, testa. Anche noi siamo uno strumento musicale, decisamente il più bello e il più completo. Anche noi non possiamo sfuggire alle leggi di risonanza.

Inoltre nell’arpa non c’è mediazione tra dito e corda. Il dito trasmette alla corda l’intenzione e lo stato d’animo di chi suona. Le dita stringono e lasciano andare le corde in un gioco di tensione/rilassamento da cui scaturiscono i suoni.

Suonare è lasciare andare. Se dita, mani, braccia, spalle, schiena, sono tesi, il suono che si produce è teso, aspro. Come arpa terapista devo costantemente essere attenta a me stessa: come e con quanta profondità entro nelle corde? Come attacco il suono? Sono connessa con il mio corpo? Come posso rilassarmi per migliorare il mio suono?

E, nel momento in cui il suono esce dalle dita, dove e come si propaga? Sono in ascolto?

In arpa terapia è quasi più importante lo spazio e il tempo fra un suono e l’altro.

La fisica acustica diventa vita, relazione, compartecipazione, dialogo. Il dito che pizzica la corda fa sì che l’arpa diventi e sia lo specchio della mia anima. Non ci sono intermediari. Come sto? Che emozione voglio trasmettere?

Quando si pensa alla terapia, si immagina di solito un recuperare uno stato di salute che ci permette di condurre (nuovamente) una vita attiva, dinamica.

La terapia con l’arpa è innanzitutto un’occasione per ritrovare sé stessi. Curare con i suoni significa permettere alla persona di fare esperienza di tranquillità, serenità, pace, amore, speranza.

Gli effetti benefici non riguardano solo la sfera emotivo-esistenziale, ma anche – e di pari passo, direi – quella più strettamente fisiologica. Numerosi studi riportano infatti miglioramenti sia immediati, sia protratti nel tempo, come un maggiore rilassamento, miglioramento del sonno, diminuzione del dolore e dell’ansia, stabilizzazione dei parametri vitali e dell’umore. Ma non è tutto. A seconda dell’ambito di applicazione dell’arpa terapia, sono stati riscontrati effetti positivi specifici.

Ed arriviamo all’ultima domanda che mi sono posta all’inizio dell’articolo, quali sono gli ambiti di intervento dell’arpa terapia?

L’elenco è lungo perché man mano che questa disciplina si diffonde, si sperimenta in svariati contesti educativi, terapeutici e sociali ottenendo sempre ottimi risultati, oggi supportati anche da ricerche scientifiche. La rivista americana Harp Therapy Journal creata nel 1996 da Sara Williams raccoglie ogni anno studi, esperienze, ricerche all’avanguardia nell’ambito dell’arpa terapia.

Sicuramente un ambito molto importante è quello ospedaliero, a più livelli. L’arpa terapia fa bene al malato, ai famigliari e anche allo staff medico e sanitario.

L’arpa terapia trova applicazione in patologia neonatale, in pediatria, in cardiologia, in oncologia, in geriatria e nei reparti di lungo degenza.

La dolcezza del suo suono e il modo particolare in cui si propaga nello spazio, fanno dell’arpa uno strumento particolarmente adatto a

creare un ambiente rilassante per pazienti, famiglie, visitatori e personale,

-permettere ai pazienti ospedalieri e alle famiglie di concentrarsi su qualcosa di bello per distrarli dal dolore e donare loro speranza,

-vibrare e penetrare nei tessuti e nelle cellule del corpo,

-fornire una stimolazione sensoriale positiva,

-fornire cure palliative per i pazienti ospedalieri e per quelli in fase di transizione,

-migliorare gli effetti fisiologici, come tensione muscolare rilassata, maggiore ossigenazione, battito cardiaco più lento, abbassamento della pressione sanguigna.

L’arpa terapia può essere utilizzata in ambito educativo con bambini anche molto piccoli che frequentano l’asilo nido e la scuola dell’infanzia. Ascoltare con le mani o con i piedini le vibrazioni dell’arpa che si trasmettono alla cassa armonica è un’esperienza molto coinvolgente per i piccoli, è un modo per guidarli ad un ascolto profondo di sé, a percepire il proprio corpo, a familiarizzare con il suono e la musica. Chi è agitato si calma, chi è timido lentamente si avvicina e si lascia coinvolgere, chi proprio non riesce a star fermo, catturato dal suono, comincia ad avvertire le “formichine” o il solletico sotto le dita, si incuriosisce, si ferma, comincia ad ascoltare. E poi la magia della vibrazione delle corde, l’arte di pizzicarle per produrre suono, mette in atto la coordinazione occhio-mano, raffina la percezione fino alla punta delle dita, crea circuiti neuronali nuovi e prepara in modo naturale ad un uso sempre più preciso delle mani e delle dita che diventeranno prensione, manipolazione, scrittura.

Per i bambini della scuola primaria l’arpa terapia è un’occasione preziosa per prendere contatto con sé stessi. Sospendere le attività didattiche quotidiane e immergersi nella musica d’arpa, distende anche gli animi più turbolenti, favorisce il rilassamento, l’autoascolto. Migliora la respirazione, distende il tono corporeo, solleva l’umore. E quando il clima è più disteso, si osserva un notevole beneficio anche dal punto di vista della relazione tra compagni, perché la musica dona pace interiore, smorza le tensioni, facilita l’accoglienza reciproca.

Un altro importante ambito di intervento riguarda la disabilità. Almeno per due motivi, entrambi di natura fisico-acustica. Il primo è la risonanza, cioè il modo in cui le vibrazioni sonore si trasmettono al nostro corpo e lo fanno convibrare. In musicoterapia umanistica si parla di risonanza corporea. Il bambino seduto o sdraiato sul pianoforte è immerso nei suoni che la musicoterapeuta improvvisa calibrando ritmi, melodie e armonie in base alla situazione relazionale che si genera. Sono suoni che cullano, accarezzano, massaggiano, fanno sentire al bambino il proprio corpo e gli danno la percezione fisica ed emotiva di essere accolto, ascoltato, valorizzato per ciò che è, prima ancora che per quello che fa.

La trasmissione del suono dell’arpa è diversa da quella percepibile attraverso il coperchio del pianoforte a coda. Non si sta sopra il generatore del suono (lo strumento musicale), ma a fianco. Le onde sonore dell’arpa si propagano in tutto lo spazio circostante ed avvolgono, per risonanza, la persona. L’arpa poi si può abbracciare, se ne può sentire la vibrazione con le mani, i piedi, la testa, la pancia la schiena. La sensazione è quella di un massaggio sonoro che scioglie le tensioni, che libera, rilassa e rigenera. Immaginiamo allora come possano essere coinvolti in questo ascolto bambini con sordità, tetraparesi spastica, prematurità, autismo, difficoltà di attenzione, sindromi genetiche, ritardi psicomotori, ma anche del linguaggio, perché il suono entra nel profondo e favorisce il desiderio di aprirsi e comunicare.

Il secondo elemento è il timbro del suono unico dell’arpa (Fig. 2). Nei miei trent’anni di esperienza nell’ambito della musicoterapia ho sperimentato più volte la potenza del suono dell’arpa per superare le memorie del dolore. Ho lavorato con bambini down e cardiopatici che hanno subito importanti interventi chirurgici. Ebbene il suono dell’arpa, per lo più sconosciuto ai bambini o sicuramente meno noto di quello del pianoforte, ha favorito la rottura dello schema musica = dolore, innescato dalla scorpacciata di musica classica in filo diffusione subita durata il ricovero in terapia intensiva. Il timbro dell’arpa favorisce immagini emotive nuove (un bimbo cieco mi disse “la doccetta!” ascoltando in braccio a me il suono dolce delle melodie che improvvisavo per lui), stuzzica la curiosità generando un profondo rilassamento. E’ difficile resistere e persistere nelle proprie chiusure. Ricordo in pediatria un bimbo sfiancato dalla tosse persistente che durava da giorni. Avvicinatami con la mia arpa a lui, corse in braccio alla mamma e l’abbracciò forte. Smise di tossire e quasi si addormentò, con la mamma incredula e felice per quel momento di pace che nessuna medicina purtroppo aveva potuto darle.

Arpa terapia la musica e il suono come strumenti di cura Psicologia Fig 2

Fig. 2: Particolarità dello strumento

Altri ambiti di intervento dell’arpa terapia sono le carceri, dove è possibile attivare progetti per la riabilitazione dei detenuti sia attraverso l’ascolto della musica d’arpa, sia attraverso l’insegnamento dello strumento stesso.

Anche sugli anziani la musica d’arpa ha un effetto notevole, sia in sessioni individuali che come terapia di gruppo.

Per questo l’arpa terapia si sta diffondendo anche in Italia nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa). Non mi soffermo ora su questo tema perché merita una trattazione a parte. Vorrei solo avviarmi alla fine di questa carrellata citando l’ambito del fine vita e delle cure palliative, contesto in cui l’arpa terapia sta prendendo piede anche in Italia accompagnando con delicatezza e dolcezza tante persone a concludere il loro cammino terreno nel migliore dei modi.

Infine non posso non fare cenno del vasto ambito dello stress, dell’ansia, delle nevrosi in cui l’arpa terapia è un ottimo strumento per ritrovare serenità e lasciar andare le tensioni. Si lega a questo il contesto dello yoga e della meditazione, ambiti in cui la musica e il raccoglimento, l’autoascolto, la riflessione, si fondono in un tutt’uno rigenerante che porta a un nuovo equilibrio interiore.

Anche la preghiera, la contemplazione, sono arricchite dal suono dell’arpa, perché la musica che si diffonde nella chiesa calma anche gli animi più inquieti, dona pace, sollievo, serenità e apre le porte all’Infinito.

Concludendo, l’arpa terapia pur essendo una disciplina antica, si sta diffondendo solo da pochi decenni come trattamento complementare (non sostitutivo) alla medicina ufficiale. I suoi benefici effetti, oggi studiati e “misurati” in ricerche scientifiche, ne attestano la validità ed efficacia.

Molti sono gli ambiti in cui viene utilizzata e sicuramente molti altri sono ancora da esplorare.

Saper suonare l’arpa non basta per fare terapia. E’ la base di partenza, una buona partenza. Poi è necessaria una formazione seria e mirata, perché, come dicevo all’inizio, una cosa è suonare, un’altra è saper creare una “culla del suono” capace di accogliere la persona e di contribuire al suo processo di guarigione.

 

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