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Sul bordo del caos (2020) di Maurizio Frisina – Recensione del libro

L’autore del libro Sul bordo del caos è il Dr. Maurizio Frisina, psicologo e psicoterapeuta, che dirige il servizio U1 della Clinique La Ramée a Bruxelles, centro d’eccellenza per la terapia delle dipendenze. 

 

Il libro è strutturato in tre parti:

Nella prima parte sono esaminate le forme di dipendenza attraverso un sistema che è improntato sul modello delle 3 colline rappresentate dalla dimensione auto-organizzativa, narrativa e temporale.

Nella seconda delinea un modello di classificazione delle dipendenze attraverso la teoria del caos per evidenziare le correlazioni tra lettura del sintomo e del rapporto tra tempo e terapia.

Nella terza descrive le relazioni che si instaurano tra regole e trasgressioni.

Le tre parti del libro sono strutturate attraverso una parte introduttiva che illustra lo stato dell’arte della ricerca relativa alle dipendenze e agli approcci terapeutici per affrontarli e spiega attraverso la descrizione di casi clinici di cui si è occupato l’approccio terapeutico che utilizza per aiutare i suoi pazienti a liberarsi delle proprie dipendenze.

Il linguaggio è molto chiaro e lineare nella prima parte del libro e la presenza di numerosi casi clinici contribuisce ad avere un quadro completo di una serie di dipendenze, di quali siano le implicazioni sulle relazioni sociali del paziente e di quali siano le possibili soluzioni terapeutiche. Nella seconda parte il libro si arricchisce di concetti più tecnici e scientifici allo scopo di illustrare dal punto di vista matematico-fisico la teoria del caos fornendo una chiave di lettura per spiegare la complessità clinica delle dipendenze, approdando nella terza parte ad una visione sistemico-costruzionista della trasgressione. Come detto, anche in queste due parti del libro la parte teorica è supportata ed esplicitata illustrando casi clinici.

Il libro del Dr. Frisina può rappresentare un ottimo supporto non solo per avere un’ampia e innovativa visione delle tipologie e implicazioni delle dipendenze, ma anche perché fornisce una serie di schemi in grado di aiutare il terapeuta ad intervenire con pertinenza, appropriatezza fase-specifica e predittività sullo stato clinico del paziente.

 

Lockdown, cosa abbiamo imparato? – il primo episodio di Caffè Cognitivo

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Caffé Cognitivo”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale.

 

Ai tempi degli aperitivi su Zoom e dei brindisi su Skype, non potevano mancare i caffé virtuali. Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Caffé Cognitivo”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche e argomenti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Ogni incontro ha preso avvio da una conversazione tra due o più clinici di Studi Cognitivi per poi aprirsi alle riflessioni e alle domande del pubblico. Nel primo episodio, dal titolo “Lockdown: cosa abbiamo imparato?”, Sandra Sassaroli e Gabriele Caselli si sono confrontati sulla salute mentale durante la pandemia, in particolar modo sulla paura e sugli aspetti depressivi e ansiosi legati a ciò che abbiamo vissuto, senza tralasciare il dopo: cosa abbiamo imparato e cosa ancora impareremo da questa inaspettata parentesi di vita?

Ma allo stesso modo di un buon caffé, ogni singolo incontro della serie va assaporato e, senza anticipare altro, vi lasciamo alla visione del video sperando che, accompagnati da questo aroma di scambio e confronto, vi gustiate il primo episodio di “Caffé cognitivi” tutto in un sorso!

 

IL LOCKDOWN: COSA ABBIAMO IMPARATO?

Insonnia e Perfezionismo: quanto influiscono le cognizioni disfunzionali relative al sonno nel mediare tra questi due fenomeni?

L’insonnia è un disturbo del sonno che colpisce fino al 10% degli adulti a livello di disturbo e fino al 30% a livello di sintomi (Espie, Kyle, Hame, Cyhlarova, & Benzeval, 2012).

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

I sintomi dell’insonnia (DSM-5, APA, 2013) possono includere difficoltà a iniziare il sonno, a mantenerlo (con frequenti risvegli o problemi a riaddormentarsi dopo essersi svegliati), o risvegli precoci al mattino con incapacità di riaddormentarsi. Le alterazioni del sonno causano disagio clinicamente significativo portando spesso ad una compromissione della qualità della vita di chi ne è affetto (Kyle, Espie, & Morgan, 2010).

Sono stati individuati vari fattori, predisponenti, precipitanti e perpetuanti, che possono influenzare l’insorgenza e l’instaurarsi del disturbo, i quali possono essere di natura ambientale, comportamentale, biologica o psicologica (Spielman, Caruso & Glovinsky, 1987). Fattori ambientali come il rumore, la luce, la temperatura eccessivamente calda o fredda o l’alta quota possono aumentare la vulnerabilità all’insonnia, così come fattori biologici come il genere femminile e l’invecchiamento. Fattori perpetuanti di natura comportamentale quali cattive abitudini come eccessivo uso di caffeina, irregolarità nell’orario del sonno insieme alla paura di non dormire possono favorire l’instaurarsi di circoli viziosi che possono indurre insonnia persistente.

Alcuni fattori temperamentali inoltre, quali profili di personalità, stili cognitivi ansiosi o la tendenza a reprimere le emozioni, possono altresì incrementare la vulnerabilità all’insorgenza del disturbo.

Considerando questi ultimi fattori quindi, si può affermare che la personalità di un individuo può agire intrinsecamente come fattore predisponente in relazione all’insorgenza dell’insonnia.

Il perfezionismo ad esempio è uno tra i numerosi tratti della personalità associati all’insonnia.

Questo costrutto, definito come la tendenza a stabilire standards personali eccessivamente elevati e ad effettuare valutazioni esageratamente critiche di se stessi (Frost, Marten, Lahart.,&  Rosenblate, 1990), è stato frequentemente associato a carenza di sonno e all’insonnia (Akram, Ellis, & Barclay, 2015).

E’ emerso in particolare, in uno studio di Akram e colleghi (2017) che, rispetto agli individui che non riferivano disturbi del sonno, quelli con insonnia riportavano punteggi significativamente più elevati nelle dimensioni del perfezionismo ‘preoccupazione per gli errori’, ‘dubbi sulle azioni’, e ‘critiche genitoriali’ misurate attraverso la Multisimensional perfectionism scale (F-MPS, Frost et al.,1990) e sintomi più gravi di ansia e depressione.

Anche altri studi hanno sottolineato le relazioni esistenti tra insonnia e alcune sottodimensioni del perfezionismo quali ‘dubbi sulle azioni’, ‘critiche genitoriali’, ‘preoccupazione per gli errori’, ‘standards personali elevati’ e ‘perfezionismo prescritto socialmente’ (Azevedo et al. 2010;  Johann et al. 2017; Spiegelhalder et al. 2012).

Inoltre, alcune ricerche hanno dimostrato anche che la già evidenziata relazione tra il perfezionismo e l’insonnia può essere mediata da alcuni fattori quali lo stress emotivo (Jansson-Fröjmark & Linton, 2007), la percezione dello stress e la regolazione emotiva (Brand  et al., 2015) e il pensiero controfattuale (Schmidt, Courvoisier, Cullati, Kraehenmann & Van der Linden, 2018).

E’ anche stato ipotizzato che gli individui perfezionisti mostrerebbero la tendenza ad essere eccessivamente preoccupati delle conseguenze negative che un disturbo del sonno acuto potrebbe avere sulle loro attività quotidiane (Lundh & Broman, 2000). Conseguentemente, di notte, queste preoccupazioni potrebbero assumere la forma di un circolo di pensiero negativo costituito da rimuginio, ruminazione e da convinzioni disfunzionali relative al sonno. A sua volta questo circolo, una volta instauratosi, potrebbe condurre a difficoltà ad iniziare il sonno e a mantenerlo, facilitando il passaggio da un disturbo del sonno acuto a un disturbo cronico (Frost et al. 1990).

Le cognizioni disfunzionali relative al sonno includono aspettative errate sul fabbisogno di sonno, convinzioni esagerate sulle conseguenze diurne di un sonno disturbato, rimuginio e sensazione di impotenza relativi al sonno, credenze errate riguardanti i farmaci per dormire e l’attribuzione biologica dei disturbi del sonno (Morin, Vallières, & Ivers, 2007). Tali credenze possono essere pericolose per lo sviluppo di un disturbo del sonno cronico come l’insonnia. Questo può avvenire attraverso l’interazione tra un’attività cognitiva orientata negativamente (rimuginio e ruminazione ad esempio) e l’iperarousal autonomico che è mediato dalla disregolazione emotiva in termini di emozioni intense ed attivanti (Baglioni, Spiegelhalder, Lombardo, &  Riemann, 2010).

La ricerca si è concentrata sull’esaminare in maniera approfondita la relazione esistente tra perfezionismo ed insonnia mentre il ruolo di mediatore delle cognizioni negative correlate al sonno (ad esempio le preoccupazioni per quest’ultimo e le credenze disfunzionali sulle conseguenze di un sonno insoddisfacente) sono state poco esaminate.

Lo studio di Akram e colleghi (2020) è il primo studio che esamina il ruolo delle convinzioni e degli atteggiamenti disfunzionali riguardo al sonno in relazione al perfezionismo.

La ricerca, in particolare, ha avuto come obiettivo quello di :

  • determinare quali aspetti specifici del perfezionismo siano correlati all’aumento dei sintomi di insonnia segnalati dai soggetti e
  • indagare il ruolo di potenziali mediatori delle cognizioni disfunzionali collegate al sonno e dell’ansia sulla relazione tra dimensioni del perfezionismo e sintomi dell’insonnia.

Nello studio sono stati reclutati 624 soggetti ai quali è stata somministrata la seguente batteria testistica:

  • la Dyfunctional Beliefs and Attitudes About Sleep Scale (DBAS) (Morin et al., 2007) per indagare le convinzioni relative al sonno;
  • l’Insomnia Severity Index (ISI) (Bastien, Vallières, & Morin, 2001), che indaga la gravità dei sintomi dell’insonnia nelle due settimane precedenti, includendo la difficoltà a iniziare o a mantenere il sonno e i risvegli precoci;
  • l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS-A) (Zigmond & Snaith, 1983), per indagare la sintomatologia ansiosa;
  • la Frost Multidimensional Perfectionism Scale (F-MPS) (Frost et al., 1990) per valutare le sei dimensioni del perfezionismo (‘preoccupazione per gli errori’, ‘dubbi sulle azioni’, ‘aspettative genitoriali elevate’, ‘critiche genitoriali’, ‘tendenza all’organizzazione e all’ordine’, e ‘standards personali elevati’.

I risultati dello studio mostrano che gli individui che presentano sintomi di insonnia tendono anche a riportare livelli più elevati nella dimensione ‘dubbi sulle azioni’ (Doubting of actions, D), ‘critiche genitoriali’ (Parental Criticism, PC), e ‘aspettative genitoriali elevate’ (Parental Expectations, PE), e punteggi più bassi nella ‘tendenza all’organizzazione e all’ordine’ (Organization, O); risultati in linea con la già citata letteratura esistente che aveva precedentemente sottolineato una relazione significativa tra il perfezionismo multidimensionale e i sintomi dell’insonnia.

Inoltre, le analisi di mediazione basate sulla regressione, hanno ulteriormente mostrato che, ad eccezione della ‘tendenza all’organizzazione e all’ordine’, sia le cognizioni disfunzionali collegate al sonno sia la sintomatologia ansiosa, hanno mediato significativamente l’associazione tra i sintomi dell’insonnia e le altre tre dimensioni del perfezionismo.

E’ stato evidenziato che gli individui che dubitano eccessivamente delle loro azioni e si preoccupano molto delle critiche genitoriali sperimentano livelli più elevati di arousal nella fase prima di addormentarsi, fattori che contribuiscono all’insorgenza ritardata del sonno (Vincent, & Walker, 2000). Queste preoccupazioni possono assumere la forma di rimuginii e ruminazioni, strategie cognitive che sono state associate ad alti livelli di perfezionismo (Randles, Flett, Nash, McGregor & Hewitt, 2010).

Inoltre, nel caso di un episodio di sonno disturbato, gli individui che presentano elevati livelli di alcune dimensioni del perfezionismo possono spendere una sproporzionata quantità di tempo valutando criticamente il loro sonno e le loro performance quotidiane (Akram et al., 2015).

In questo caso, preoccupazioni eccessive e rimuginii sulle conseguenze di una perdita occasionale di sonno, sui risvolti negativi sulle attività diurne e sull’attribuzione biologica di questi problemi, potrebbero probabilmente influenzare la valutazione del sonno in modo negativo. A sua volta, la percezione che un sonno scarso ostacoli il funzionamento diurno, potrebbe portare a sperimentare dubbi sulle azioni che devono essere eseguite durante il giorno. I sintomi ansiosi poi possono servire ad esacerbare il rimuginio e la ruminazione preesistenti nei soggetti con insonnia.

Alla fine viene ipotizzato che si instauri un circolo di pensiero negativo, in cui i dubbi sulle azioni e le preoccupazioni sulle performances quotidiane, si sposti durante la notte alimentando di conseguenza l’arousal sperimentato prima di dormire e ritardando l’insorgenza del sonno (Schmidt et al., 2018).

Di conseguenza, quei soggetti che presentano alti livelli sia nello sperimentare tendenze perfezionistiche, sia cognizioni disfunzionali collegate al sonno, possono arrivare ad alterare il loro comportamento (ad esempio aumentando il tempo trascorso a letto facendo dei pisolini o tentando di recarsi a letto più presto rispetto all’orario normale), tutte strategie messe in atto per compensare il loro deficit di sonno e conseguentemente mirare ad avere un ‘sonno perfetto’.

Questi tentativi da parte dei soggetti di ‘forzare’ l’avvio del sonno, si sono dimostrati essere invece controproducenti, favorendo il passaggio da un disturbo del sonno transitorio all’insonnia (Baglioni et al., 2010).

In relazione al trattamento questi dati possono essere utili per formulare alcune riflessioni. Considerando che il perfezionismo può aumentare il rischio di dropout dalla terapia cognitiva-comportamentale per l’insonnia (CBT-I) (Johann et al., 2018), Akram (2018)  ha evidenziato come possa essere utile per questi individui, beneficiare di una terapia modificata della CBT-I che ponga maggior enfasi anche alla correzione dei pensieri disfunzionali e di quelli perfezionistici connessi al sonno e ai sintomi di ansia.

Fornendo questi individui di corrette informazioni sul sonno e sul funzionamento, mettendo in discussione anche quelle convinzioni disfunzionali che favoriscono l’incremento di sforzi comportamentali per dormire, si potrebbe prevenire il passaggio da difficoltà relative al sonno acute o transitorie in problemi a lungo termine o condizioni croniche come l’insonnia.

 

Il fenomeno dei centenari e ultracentenari nel mondo: gli aspetti presi in considerazione

Se ci si concentra all’interno dell’Unione Europea, l’invecchiamento della popolazione è particolarmente rapido, ciò sembrerebbe dovuto alla bassa fertilità e alla riduzione della mortalità per vecchiaia. I paesi europei che hanno il maggior numero di centenari sono Spagna, Francia, Grecia e Italia.

Fontanel Giulia – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Insieme al progressivo invecchiamento demografico degli over 80, anche il numero di centenari nel mondo sta aumentando sempre più rapidamente (Teixeira et al., 2017). Nel 2015, la Population Division of the United Nations (UNDP) stima che nel 1990 si contavano all’incirca 96000 centenari; mentre, nel corso del 21° secolo ci sarà una crescita importante, tanto da stimare oltre 20 milioni di centenari nel mondo nel 2100 (Robine et al., 2017).

Se ci si concentra all’interno dell’Unione Europea, l’invecchiamento della popolazione è particolarmente rapido, ciò sembrerebbe dovuto alla bassa fertilità e alla riduzione della mortalità per vecchiaia (Teixeira et al., 2017). Basti pensare che nel 2006 la popolazione europea costituita da persone centenarie si aggirava a circa 57306 individui e, negli ultimi decenni, ogni dieci anni il numero dei centenari è raddoppiato. I paesi europei che hanno il maggior numero di centenari sono Spagna, Francia, Grecia e Italia, con oltre 20 centenari per 100000 abitanti (Teixeira et al., 2017).

L’Istat nell’ultimo rapporto Cent’anni e non sentirli (2019) mostra come l’Italia sia il paese più longevo d’Europa e con il numero di ultracentenari maggiore: 14456 e la maggior parte di loro, corrispondente all’ 84%, è composto da donne. La maggior parte dei centenari italiani risiede nelle regioni del Nord Italia; in primis, la regione con il più alto rapporto tra semi-supercentenari, ovvero anziani che raggiungono e superano i 105 anni, e popolazione è la Liguria con 3,3 centenari ogni 100 mila abitanti, seguita dal Friuli-Venezia Giulia (3 centenari per ogni 100 mila abitanti). Sempre secondo l’Istat, se si prende in considerazione il rapporto tra semi-supercentenari e la popolazione residente over 80 il Friuli-Venezia Giulia si posiziona al primo posto. Non a caso, nel 2014, a Trieste è stato istituito il progetto CaT: Centenari a Trieste, il cui obbiettivo è quello di raccogliere più dati possibili di tutti i centenari residenti a Trieste e provincia, sulle malattie presenti, passate, sulle loro capacità cognitive e sulla relazione tra caratteristiche biologiche e genetiche (Tettamanti et al., 2018).

Questa veloce crescita da un lato richiede riflessioni urgenti da parte del welfare, dall’altro corrisponde a una sfida, e un interesse, per la psicologia dell’invecchiamento (De Beni et al., 2015).

Ma perché la psicologia è così interessata a questo nuovo fenomeno? Per prima cosa, sarebbe utile comprendere meglio le peculiarità e gli aspetti psicologici, come fattori di personalità, processi cognitivi, aspetti emotivo-motivazionali, che contraddistinguono questa popolazione; in secondo luogo, ci si chiede se è possibile generalizzare e quindi attribuire ai centenari le conoscenze dell’invecchiamento psicologico che si associano alla fascia 65-85 anni (De Beni et al., 2015).

Ci sono diversi modi per classificare gli anziani centenari, uno di questi è quello che prevede l’assenza o presenza di patologie legate all’età di Everts e colleghi (2003). Secondo questa classificazione è possibile distinguere centenari:

  • Survivors – sopravvissuti, anziani ai quali è stata diagnosticata una demenza, o in generale deficit cognitivi, prima degli 80 anni;
  • Delayers – ritardatari, centenari ai quali i deficit sopracitati sono stati diagnosticati all’età di 80 anni o successivamente;
  • Escapers – fuggitivi, ovvero quelle persone che hanno raggiunto i 100 anni “sfuggendo” alle trappole dell’invecchiamento, quindi senza alcuna diagnosi di demenza o deficit cognitivo.

Come sottolineato dal rapporto dell’Istat Cent’anni e non sentirli (2019), vi sono molte più donne che arrivano e superano la soglia dei 100 anni rispetto gli uomini. Però, sebbene le donne abbiano un’aspettativa di vita più lunga rispetto al genere maschile, gli uomini che riescono a raggiungere il secolo mostrano una salute e una performance cognitiva migliore rispetto a quella delle donne.

Infatti, sembra emergere che la prevalenza di differenza di genere nei centenari sia dovuta alla morbilità, ovvero alla presenza in contemporanea di più disturbi, e alla disabilità, ovvero una perdita specifica di funzioni mentali e fisiche. A tal proposito, si osserva una maggiore frequenza di morbilità nelle donne, mentre una maggiore frequenza di disabilità negli uomini (Terry et al., 2008). In altre parole, gli uomini per poter arrivare a quest’età devono essere quasi del tutto indipendenti e in un’ottimale stato di salute rientrando, il più delle volte, nella categoria dei fuggitivi.

Andare ad indagare i profili cognitivi degli anziani centenari non è cosa facile in quanto ci sono diverse difficoltà che i ricercatori devono affrontare, come somministrare test specifici che permettono di valutare le singole funzioni cognitive che solitamente si utilizzano negli anziani più giovani. Un altro problema nel quale si incorre è che molti centenari presentano deficit sensoriali, soprattutto inerenti all’udito e alla vista; anche per questi motivi, in letteratura non ci sono molti studi che indagano ciò.

Luczywek e colleghi (2007) hanno comparato un gruppi di 10 centenari fuggitivi a un gruppo di controllo di 65 anni su una serie di test che vengono utilizzati spesso, con particolare interesse per quelli verbali e visuo-lessicali. Lo scopo era di capire se ci fossero delle differenze nella manipolazione e nel mantenimento dell’informazione tra i due gruppi a confronto.

I risultati hanno mostrato una differenza significativa per i test verbali, mentre nei test visuo-spaziali la performance tra i due gruppi è similare; è importante però sottolineare che l’esecuzione delle prove dei centenari è stata più lenta rispetto al gruppo di controllo.

La longevità è il risultato di un insieme di fattori, come quelli ambientali e genetici, che contribuiscono all’aumento dell’aspettativa di vita. Con il progredire dell’invecchiamento però si può incorrere in diverse malattie e disturbi come infarto, diabete, ictus ecc. Se si vanno ad analizzare gli stili di vita dei centenari si noterà che, all’interno della loro dieta, la verdura ha un grande peso considerando anche il fatto che ai tempi della guerra era difficile o costoso procurarsi carne e/o pesce; l’alcool viene assunto in piccole quantità, solitamente durante i pasti; il fumo è quasi del tutto assente; amano stare in compagnia della propria famiglia e fanno lunghe passeggiate (De Beni et al., 2015). Quello che invece è ancora poco chiaro è cosa determini il mantenimento dei processi cognitivi e perché alcuni centenari, i cosiddetti fuggitivi, mostrino funzioni cognitive intatte, mentre altri incorrano in un deterioramento cognitivo precoce.

E’ stato osservato (Kliegel et al., 2004) che mantenere attivi i processi cognitivi è d’aiuto ai centenari per proteggersi dai deficit tipici della longevità. In particolare, i centenari che non hanno smesso di dedicarsi ad attività intellettive (viaggiare, fare parole crociate, occuparsi dei propri soldi in banca ecc.) sembrano avere un vantaggio importante per il loro stato cognitivo.

Gli obiettivi che i diversi studi dovranno porsi in futuro, molto probabilmente, dovranno concentrarsi sullo studio approfondito delle abilità cognitive, magari ideando e utilizzando test ad hoc per l’età del campione, analizzare più adeguatamente le variabili emotive, di personalità e motivazionali anche tenendo in considerazione il diverso atteggiamento nell’affrontare la vita quotidiana da parte del centenario.

 

A mente accesa. Crescere e far crescere (2020) di Daniela Lucangeli – Recensione del libro

L’autrice di A mente accesa utilizza la tecnica dell’immedesimazione per cercare di aiutare un bambino. Non le basta infatti interfacciarsi con lui, ma trova la soluzione del problema indossando le vesti del ragazzo per poterne carpire il punto di vista e i retroscena.

 

Solo un pesce rosso può capire come si sente un pesce rosso. L’autrice del romanzo Daniela Lucangeli utilizza la tecnica dell’immedesimazione per cercare di aiutare un bambino. Non le basta infatti interfacciarsi con lui, ma trova la soluzione del problema indossando le vesti del ragazzo per poterne carpire il punto di vista e i retroscena. Vesti che la stessa scienziata e docente di psicologia ha indossato in fanciullezza, definendosi lei una persona ‘ipersensibile’. Una spiccata sensibilità, per alcuni più unica che rara, a tal punto da definirla “intelligenza emotiva“, che la Lucangeli ha avuto la fortuna di avere tra i tesori della sua esistenza e che l’hanno aiutata nell’interpretazione di dettagli e percorsi di vita. Il suo studio, rivela, non ha mai seguito un solo filone e una stessa traiettoria, come un tuffatore che saprà già lo svolgimento della sua acrobazia.

È proprio con continue correzioni che è riuscita ad aggiustare il tiro fino ad un metodo quasi ‘scientifico’. Paziente dopo paziente, errore dopo errore, ogni bambino che non era in grado di aiutare era per lei motivo di studio e lavoro incessante volto alla risoluzione di quell’enigma chiamato psiche. L’enigma si ripete, con diverse incognite e diverse declinazioni in ogni giovane paziente, e lascia strada ogni volta ad aspetti sorprendenti ed inaspettati.

L’autrice non procede prendendo una via strettamente scientifica ma la intreccia ad un’altra emozionale dalla quale è impossibile scollarla. E quando non riesce nell’interpretazione meramente emozionale e allora eccola rituffarsi in spiegazioni scientifiche che fanno dei suoi studi tesoro. Tutto ciò non resta un’aulica dimostranza di nozioni o conoscenze, ma una vera e propria traduzione in un italiano intelligibile ai meno competenti nel campo.

I modi e la voce della Bambina che è stata in prima persona e che avrebbe parlato in questi termini se si fosse trovata a parlarne ormai decine di anni prima. Solo se “ci vediamo” siamo in grado di capire di cosa abbiamo bisogno. In queste parole l’autrice riassume il suo modus operandi, evidenziandoci fin da subito, il filo conduttore del suo romanzo.

 

Quando le ‘delusioni rimangono, l’amore muore’: l’erotomania e la sua relazione con vergogna e narcisismo

L’erotomania è una rara condizione psichiatrica in cui un soggetto sviluppa la convinzione – una credenza persistente e fissa – di essere amato da un’altra persona a distanza (Kelly, 2018).

 

Questo disturbo ha una lunga storia psichiatrica: inizialmente conosciuto come sindrome di de Clérambault e della ‘vecchia follia della cameriera’, il disturbo erotomanico è stato rinominato e classificato come una forma di disturbo delirante nell’ICD-10 (WHO, 1992; Kelly, 2018). Alla fine del ‘900, il disturbo delirante non era comunemente descritto in psichiatria, nonostante tutto era presente un interesse per alcuni sottotipi come l’erotomania primaria e la gelosia patologica (Munro, 1999). Questo disturbo è stato trattato con dei farmaci antipsicotici per la prima volta negli anni ’50 e ’60, oggi si riconosce che l’erotomania è una condizione relativamente rara che ha una relazione con comportamenti di stalking e altri comportamenti offensivi (Kelly, 2018).

La teoria triangolare di Sternberg (2007) sostiene che l’amore può essere compreso in termini di componenti: 1) ‘l’intimità’ comprende sentimenti di condivisione, vicinanza, legame e connessione, 2) la ‘passione’ comprende forme di eccitazione, attrazione fisica e sessualità, infine 3) ‘l’impegno’ comprende, nel breve termine, la scelta di una persona per cui si prova amore, a lungo termine invece riguarda l’impegno nel mantenimento della relazione amorosa attraverso scelte di tipo istituzionale (ad esempio i figli, il matrimonio). I due aspetti dell’impegno non necessariamente si susseguono, in quanto è possibile impegnarsi anche senza una relazione a lungo termine (Sternberg, 1986).

Kelly (2018) propone una revisione della letteratura per comprendere meglio il delirio erotomanico e i possibili tratti associati: da numerosi studi emerge come il concetto odierno di amore è dipendente non solo da fattori culturali, ma soprattutto sociali e politici (Kelly, 2018). Tali fattori darebbero forma anche all’erotomania che spesso si verifica lungo un gradiente sociale reale o percepito, dove le identità sociali e le dinamiche di potere svolgono un ruolo chiave nel generare questa forma di delirio.

Bortolotti (2015) spiegò come alcuni deliri servano a disinnescare le emozioni negative e a proteggere una persona con un’autostima bassa. Lloyd (2017) evidenziò come molte persone si vergognino, si sentano sole e difettose dopo una relazione romantica insoddisfacente: in tali circostanze, l’illusione di essere amati da qualcuno e/o da lontano può compensare i sentimenti di vergogna (Kelly, 2018). Quando si parla di erotomania, questa compensazione viene vista come un’illusione, non come una semplice fantasia o un desiderio: Kraepelin definì l’erotomania come un compenso per le delusioni della vita (Kelly, 2018). Il delirio erotomanico è prevalente nella popolazione femminile e solitamente è diretto verso uomini con posizioni sociali maggiormente elevate, al contempo gli uomini con tale disturbo predominano nei campioni forensi (Kelly, 2018). Dalla revisione della letteratura emerge come costrutti psicologici – vergogna, bassa autostima, fallimento – siano rilevanti anche per i casi di erotomania e non solo per caratteristiche di personalità individuali come il narcisismo. In termini psicologici, alcuni casi di erotomania sono sostenuti da una combinazione tra desiderio, delusione, vergogna e narcisismo in contesti sociali specifici: si ipotizza che esistano differenti gradi di erotomania, più o meno evidenti (Kelly, 2018). Forme minori di delirante esagerazione esistono anche in alcune relazioni stabili, con il fine di mantenere intatto il rapporto affettivo o per conferire vantaggi sociali specifici alle parti coinvolte.

In conclusione, i casi di erotomania diagnosticati necessitano di un trattamento attivo per ridurre i rischi psicopatologici e la sofferenza del soggetto, in quanto si ipotizzano manifestazioni erotomaniche all’interno delle relazioni più di quanto non si sia immaginato.

 

Stare a tavola, come affrontare i pasti condivisi – Report e video del webinar tenuto da CIP Milano

Report del webinar mensile dal titolo Stare a tavola, come affrontare i pasti condivisi tenuto dall’équipe multidisciplinare del Centro Disturbi dell’Alimentazione di Milano (CIPda).

 

Un ciclo d’incontri finalizzato alla gestione delle problematiche alimentari, indirizzato alla popolazione generale e nato per garantire supporto a chi si interfaccia con individui con Disturbi Alimentari, o più in generale con chi mostra criticità verso l’alimentazione e la forma fisica.

L’impostazione dell’incontro si è articolata in 2 momenti: il primo dando voce ai quattro differenti specialisti dell’équipe multidisciplinare del CIPda; il secondo dando spazio al pubblico, tramite domande libere scritte in chat.

Il primo momento è iniziato con una breve introduzione della Dott.ssa Rosaria Nocita (direttrice operativa), che ha introdotto i quattro specialisti e stimolato il loro intervento sui seguenti temi.

Come gestire il momento pre-pasto

Prende la parola la Dott.ssa Ranzini (psicologa-psicoterapeuta) che ha offerto indicazioni pratiche sulla gestione di un momento critico come quello che precede il pasto. La specialista ha illustrato i seguenti punti:

  • Creare un’atmosfera di supporto/incoraggiamento; non lasciando spazio alla critica
  • Garantire al paziente il minor grado di preoccupazione possibile
  • Attuare la procedura dell’alimentazione pianificata e meccanica, ovvero decidere aprioristicamente quali alimenti mangiare; secondo il razionale 3+2 (3 pasti + 2 spuntini)
  • Ridurre la presenza di stimoli alimentari che non richiedono una preparazione
  • Attribuire un’importanza cruciale al luogo del pasto

Il momento del pasto

L’incontro è proseguito con l’intervento della Dott.ssa Tramontano (psicologa-psicoterapeuta), la quale ha sottolineato ulteriormente l’importanza di creare un’atmosfera supportiva, evitando conversazioni concernenti cibo e forma fisica.

Anche la Dott.ssa Tramontano ha offerto un breve vademecum su come comportarsi con il paziente, durante questo momento di ansia acuta:

  • Rimandare il fatto di mangiare senza farsi influenzare da segnali interni erronei quali: pienezza, gonfiore e illusoria sazietà
  • Invitare a focalizzarsi sul momento presente, decentrandosi dal turbinio di preoccupazioni nel qui ed ora
  • Non lasciare che la persona in questione mangi in solitudine
  • Evitare di offrire/far assaggiare cibo alla persona con DA

Come gestire il momento post-pasto

Al termine dell’intervento di due psicoterapeute, segue quello del Dott. Schiena (psichiatra). Quest’ultimo ribadisce l’importanza di essere empatici nei confronti del paziente, specialmente nella fase che segue il pasto; l’empatia viene, infatti, da lui stesso definita come la bussola per orientare il proprio comportamento. La spiegazione di questa raccomandazione si fonda sul nucleo psicopatologico cardine del disturbo alimentare: questi pazienti hanno un sistema valutativo unicamente focalizzato sulle dimensioni del peso, della forma fisica e del controllo alimentare. A tal proposito, questo sistema si attiva notevolmente nel momento del post-pasto, in quanto i pazienti tendenzialmente avvertono una sensazione di gonfiore (causata da un tipico rallentamento dello svuotamento gastrico nei DA); questa sensazione non fa altro che acuire il senso d’angoscia pervasivo che accompagna il pasto.

Lo psichiatra conclude il suo intervento raccomandando di evitare commenti sterili su quanto e come il paziente abbia mangiato che indurrebbero un clima di ostilità. Lo specialista fornisce, infine, una parentesi psicoeducativa inerente alla curva emozionale transitoria: consiglia di rimandare alle pazienti che la sensazione d’angoscia che stanno provando non è infinita, anzi che il lasso di tempo normotipico entro cui l’acuzie emotiva si esaurisce è di circa un’ora.

Affrontare pasti al di fuori del contesto casalingo

L’incontro è proseguito con un contributo della dietista della clinica Dott.ssa Ramponi, la quale ha fornito suggerimenti pratici per gestire specificamente i pasti fuori casa. Tra questi:

  • Organizzare in anticipo il pasto: lasciando libera scelta al paziente in merito al ristorante in cui andare, in modo tale da poter scegliere aprioristicamente la portata del menù stesso
  • Provare a individuare dei criteri di scelta oggettivi (es: criterio economico)
  • Invitare il paziente a non lasciarsi condizionare dal proprio senso di fame e/o di pienezza anche fuori casa
  • Concentrarsi sulla conversazione (rimando sempre valido di evitare i temi ‘cibo’ e ‘forma fisica’)

Il webinar si è concluso con l’invito della Dott.ssa Nocita al successivo incontro sul tema: Il rapporto con il cibo durante le festività: come regolare abbuffate e restrizioni.  Infine il pubblico è stato informato per seguire le video-risposte sulla pagina Facebook del CIPda: spazio in cui i curanti risponderanno a tutte le domande restanti emerse dalla chat dell’incontro odierno.

 

STARE A TAVOLA, COME AFFRONTARE I PASTI CONDIVISI – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Intersoggettività e prime impressioni di affidabilità in età evolutiva

Il volto rappresenta una finestra sull’altro: è universale la tendenza a effettuare inferenze sull’affidabilità, l’aggressività, l’attrattività altrui basandosi sui tratti fisionomici e, inevitabilmente, ne consegue che vi sia una sola possibilità di fare una buona prima impressione.

 

Adolphs e Birmingham (2012) proposero una tassonomia dei segnali socialmente rilevanti, distinguendoli in statici (cues) e dinamici (signals). Ai cues appartengono, ad esempio, il colore della pelle, la forma degli occhi, la larghezza della mandibola, ma anche l’attrattività e l’affidabilità: tali caratteristiche sono infatti immodificabili, poiché l’individuo non possiede alcun controllo su una loro attivazione/disattivazione a seconda delle circostanze e il nostro cervello ha sviluppato meccanismi per l’elaborazione delle informazioni da esse veicolate. Il volto di ogni individuo si caratterizza dunque per una particolare configurazione, la quale viene usualmente processata dal nostro sistema cognitivo in modo olistico (piuttosto che analitico). L’elaborazione dei singoli dettagli avviene quindi tendenzialmente in modo simultaneo (e non caratteristica-per-caratteristica), giungendo a un’integrazione in un unico percetto globale in tempi assai ristretti, motivo per cui tale giudizio non risulta esente da bias.

La percezione di affidabilità sembra assolvere a un bisogno evoluzionistico adattivo, legandosi strettamente alla possibilità di inferire le intenzioni minacciose dell’altro in modo rapido, per attuare tempestivamente un comportamento di attacco o fuga. Tale giudizio riflette la presenza nel volto di caratteristiche facciali assimilabili anche alle espressioni emozionali: un individuo viene ritenuto maggiormente inaffidabile se la sua espressione facciale è di rabbia, mentre è giudicato affidabile se la sua espressione è simile a quella relativa all’emozione di felicità (Todorov, Baron & Oosterhof, 2008). Nonostante vi sia, generalmente, un buon accordo tra osservatori nella formulazione di giudizi relativi alle prime impressioni, le caratteristiche di personalità e le esperienze passate degli stessi incidono inevitabilmente sulla valutazione e la salienza delle caratteristiche facciali.

L’influenza delle prime impressioni legate all’apparenza del volto sull’attuazione di un comportamento di fiducia è perciò preponderante negli individui adulti, ma ciò è valido anche per l’età evolutiva? Ewing e colleghi (Ewing, Caufield, Read & Rhodes, 2015), tramite il ricorso al Token Quest, compito sperimentale riconducibile al paradigma del comportamento di fiducia in ambito di investimento economico, rilevarono come già a partire dai 5 anni di età le prime impressioni influenzino l’attuazione o meno di condotte di fiducia, per giungere però solo attorno ai 10 anni di età a osservare un chiaro allineamento al pattern di risposta comportamentale adulto. Sembra inoltre che, nella formazione di prime impressioni di affidabilità, un ruolo centrale sia rivestito dall’attrattività del volto: uno studio di Ma e Xu (2015) dimostra infatti come tale caratteristica sia utilizzata da bambini di età compresa tra 8 e 12 anni come scorciatoia per la formulazione di giudizi sociali. La piacevolezza del volto, in età evolutiva così come in età adulta, risulta quindi un discrimine fondamentale per il soggetto che si trova a scegliere se attuare o meno un comportamento di fiducia verso l’altro.

Il complesso periodo storico che attualmente stiamo vivendo, caratterizzato da inevitabili modificazioni dei codici che usualmente regolano gli scambi intersoggettivi, può condurre potenzialmente allo sviluppo di un generale clima di sfiducia. L’epigenetica spiega come gli esiti evolutivi derivino dalla commistione di fattori genetici e ambientali e infatti, anche per quanto concerne l’affidabilità percepita, risulta centrale il ruolo giocato dalle figure di riferimento del bambino nel sostenere un orientamento alla fiducia/sfiducia nei confronti di individui sconosciuti.

Stolle e Nishikawa (2011) dimostrarono come la trasmissione di un clima di sfiducia avvenga a opera di genitori che non necessariamente giudicano l’altro in modo negativo e non sono sempre orientati da un costante atteggiamento di sfiducia nei confronti del mondo. L’educazione all’inaffidabilità, supportata da un’accurata selezione di fatti di cronaca che contribuiscano a sostenere la creazione del worst-case scenario, legittima però il genitore a compiere nei confronti del figlio una campagna di presa di consapevolezza di tutti i potenziali pericoli, alimentando in lui la percezione di essere una potenziale vittima, specie in virtù della sua vulnerabilità evolutiva e della sua inesperienza nel mondo. Conseguentemente però, tale stile educativo può comportare una diminuzione di comportamenti pro-sociali e di atteggiamenti di cooperazione tra individui anche sconosciuti, aspetti che risulterebbero protettivi per la comunità in periodi storici particolarmente critici.

Sul piano psicologico è essenziale sottolineare che in una ‘società della sfiducia’ dilagano ansia, paura, ricerca di protezione, ossia emozioni biologicamente adattive di fronte a uno scenario realmente pericoloso, ma disfunzionali se esito di pensieri catastrofici e irrazionali, scaturiti dall’inaffidabilità percepita appresa e ostacolanti il comportamento pro-sociale.

 

Storia dell’ipnosi: Franz Anton Mesmer e le origini dell’ipnosi moderna

Franz Anton Mesmer si può considereare uno dei padri dell’ipnosi moderna. Ad oggi è cosiderato, da molti studiosi, il fondatore dell’ipnosi

 

Franz Anton Mesmer è stato un medico tedesco nato nella prima metà del ‘700 ed è oggi considerato da molti il fondatore dell’ipnosi moderna (Crabtree, 1988). Fu, infatti, il primo a cercare di dare una spiegazione ‘scientifica’ dell’ipnosi ed ipotizzò l’esistenza di un ‘fluido magnetico’ che, manipolato dal magnetizzatore, fosse in grado favorire la guarigione di quadri clinici che oggi chiameremmo psicosomatici (Thuillier & Meriggi, 1996).

Il lavoro di Mesmer suscitò clamore in numerose corti europee (Thuillier & Meriggi, 1996) e aprì la strada ad uno studio sistematico delle tecniche ipnotiche da parte di ricercatori che saranno celebri in epoche successive (Mesmer & Grandchamp, 1826).

Di particolare interesse è il fatto che questa tensione tra idee, superstizione e indagine scientifica della materia sarà un leitmotiv che accompagnerà l’ipnosi ancora per molti anni. In un certo senso, si tratta di un dibattito che persino al giorno d’oggi, nonostante la crescita notevole di pubblicazioni scientifiche sull’argomento, non si è ancora esaurito. Anche per questo colpisce la disponibilità del medico tedesco a mostrare il suo lavoro ad un’équipe internazionale di prominenti scienziati dell’epoca (tra cui il noto chimico Antoine-Laurent de Lavoisier e Benjamin Franklin, allora ambasciatore a Parigi) formata specificamente per investigare i suoi metodi (Thuillier & Meriggi, 1996).

La commissione scientifica determinerà che i fenomeni osservati non erano da attribuirsi ad alcun fluido magnetico, bensì a fenomeni che oggi chiameremmo psicologici.

È così che da Mesmer in poi vedremo affermarsi personaggi, magnetizzatori prima ed ipnoterapeuti poi, che dovettero spendere una parte considerevole delle proprie energie a sfatare una molteplicità di miti nati sui palcoscenici dell’Europa del diciottesimo secolo. Facendo un salto in avanti di circa 200 anni infatti, lo stesso Milton H. Erickson si occuperà di istruire colleghi e pubblico su queste tematiche, conscio che solo legittimando questa pratica sarebbe stato possibile diffonderla in ambito sanitario (Haley, 1967).

 

STORIA DELL’IPNOSI: FRANZ ANTON MESMER – GUARDA IL VIDEO:

 

 

Maddalena bipolare (2020) di Ornella Spagnulo – Recensione

Nelle pagine di Maddalena bipolare troviamo la storia di Sabrina, ne ricostruiamo il percorso clinico e di vita, giriamo con lei nei corridoi della clinica psichiatrica e ci immergiamo nella sofferenza umana.

 

Maddalena bipolare è la storia, narrata in prima persona in un misto di prosa e di epistolario, di Sabrina/Maddalena, una giovane trentenne che viene ricoverata ‘nella clinica dei matti’ a seguito di un ennesimo episodio di euforia maniacale che, quando le capita, la porta ad identificarsi con personaggi vari, come per esempio Maria Maddalena, che dà il titolo al romanzo.

‘Mi chiamo Sabrina, ho trent’anni e soffro di un disturbo dell’umore che a volte di aggrava in un disturbo di conversione. E sono anche istrionica, che è un disturbo della personalità‘ (p. 57). Così si descrive la protagonista e appare come un’eterna bambina, seduttiva e drammatica, che nel disperato tentativo di piacere a tutti e di sentirsi amata (‘Mica puoi piacere a tutti. Eh già, ditelo a un’istrionica!’, p. 59), si ritrova sopraffatta da un turbine di emozioni e bloccata nel corpo. In clinica, oltre ad una serie di altri personaggi, appare lo psichiatra Guido, che entrerà nella relazione con la paziente in maniera incauta, innescando un sentimento di innamoramento e attrazione, che si svilupperà nel corso delle pagine. Attraverso la narrazione diretta vediamo esplodere questo moto emotivo e costruirsi nella mente della paziente, trovare forma e giustificazione, coerenza e nutrimento. Sabrina viene dimessa e comincia una corrispondenza epistolare unidirezionale, fino a che uno giorno Guido risponde. Si affida alla lettura il seguito e l’epilogo.

Nelle pagine che scorrono troviamo la storia di Sabrina, ne ricostruiamo il percorso clinico e di vita, la vediamo incontrare Guido, il primario, la sentiamo emozionarsi e perdersi nei suoi pensieri, giriamo con lei nei corridoi della clinica psichiatrica e ci immergiamo nella sofferenza umana; leggiamo poesie. E tra citazioni di Alda Merini – grande esempio di poesia e follia – e riferimenti alla storia tra Jung e Sabina Spielrein ci muoviamo nella franca esperienza della paziente che oscilla tra dramma e tenerezza.

È una storia che con semplicità, ma con accurata precisione, ci ricorda quanto è fragile l’animo che soffre e quanto è importante il tocco di chi cura, che ci racconta della relazione tra chi dà cura e chi la riceve, quella relazione medico-paziente, tanto preziosa quanto delicata e scivolosa, a volte. È un libro che ci fa tornare nelle corsie delle cliniche psichiatriche, tra luci e ombre del trattamento della malattia mentale; che ci fa vedere e sentire la sofferenza dei pazienti e la fragilità che può avvolgerli, tanto da rendere ogni movimento da parte di chi si offre di aiutare necessariamente attento e consapevole.

 

Alzheimer: scoperti i meccanismi delle difese antiossidanti contro la neurodegenerazione – Comunicato stampa

Comunicato Stampa

Un nuovo studio sull’Alzheimer, oltre a far progredire le conoscenze sulla malattia e sul ruolo della prevenzione dello stress ossidativo, come forma di resistenza alla neurodegenerazione provocata dalla patologia, può gettare le basi per nuovi approcci terapeutici alla malattia.

 

Roma, 11 dicembre

I soggetti Non-Demented with Alzheimer Neuropathology (NDAN) hanno la capacità di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace al punto da far fronte alla neurodegenerazione causata dall’Alzheimer.

A dimostrarlo è un nuovo studio pubblicato su The Journal of Neuroscience, dal titolo Oxidative damage and antioxidant response in frontal cortex of demented and non-demented individuals with Alzheimer’s neuropathology, frutto della collaborazione tra la University of Texas Medical Branch, l’Oregon Health & Science University e l’Università degli Studi di Roma Tre.

La demenza è in crescente aumento nella popolazione generale ed è stata definita dal Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di Alzheimer’s Disease International una priorità mondiale di salute pubblica: circa 35,6 milioni di persone nel mondo ne risultano affette, con 7,7 milioni di nuovi casi ogni anno e un nuovo caso diagnosticato ogni 4 secondi. In Italia, secondo l’Istat, circa 1 milione di persone sono colpite da demenza e circa 3 milioni sono direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari. Tra le forme di demenza, la più comune e devastante è la malattia di Alzheimer, i cui casi potrebbero triplicare nei prossimi 40 anni, in relazione al progressivo invecchiamento della popolazione, con costi sociali ed economici elevatissimi.

Lo studio contribuisce a chiarire gli eventi molecolari alla base della malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Disease, AD), sottolineando il ruolo delle difese antiossidanti contro la neurodegenerazione in soggetti che invece presentano placche amiloidi e grovigli neurofibrillari nel cervello, tratti istopatologici caratteristici della malattia di Alzheimer. Si sono affrontati i meccanismi per cui un particolare gruppo di individui, indicato come Non-Demented with Alzheimer Neuropathology (NDAN), resiste alla demenza, nonostante i depositi amiloidei e della proteina Tau siano invece indicativi di una sintomatologia di Alzheimer.

Lo studio si basa sull’analisi di 34 campioni post-mortem di corteccia cerebrale di soggetti controllo, alzheimeriani e NDAN sia maschili sia femminili ai quali la University of Texas Medical Branch (UTMB) ha accesso grazie alla collaborazione con la Brain Bank dell’Oregon Health & Science University

afferma il prof. Giulio Taglialatela, vice Chairman del Dipartimento di Neurologia e Direttore del Mitchell Center for Neurodegenerative Diseases della UTMB insieme alla sua equipe composta dalle dott.sse Anna Fracassi (formatasi a Roma Tre conseguendo sia la Laurea Magistrale che il PhD e attualmente post-doc presso la UTMB), Michela Marcatti, Olga Zolochevska, Natalie Tabor.

Nei tessuti dei soggetti NDAN abbiamo scoperto una differente espressione dei fattori che modulano la risposta antiossidante: in particolare, molecole di microRNA regolatrici negative di fattori di trascrizione della risposta antiossidante, sono presenti a basse concentrazioni negli individui NDAN e altamente espresse nei pazienti alzheimeriani. (prof. Giulio Taglialatela)

Da anni il nostro gruppo di ricerca a Roma Tre si occupa del ruolo dei radicali liberi nella fase di innesco e di progressione della malattia di Alzheimer. Oggi abbiamo un’ulteriore conferma del nostro lavoro: lo studio, infatti, rivela la capacità dei soggetti NDAN di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace, per far fronte allo stress ossidativo, che rappresenta uno dei meccanismi primari di danno. Tale resilienza innata sembra così giustificare le abilità cognitive intatte degli NDAN, che in effetti mostrano livelli di danno ossidativo ai neuroni e alla glia più bassi rispetto agli AD, simili invece alla condizione normale di controllo

spiega la prof.ssa Sandra Moreno, docente di Neurobiologia dello Sviluppo presso il Dipartimento di Scienze dell’Ateneo romano e Direttore di un Master in Embriologia Umana Applicata.

Il lavoro, oltre a far progredire le conoscenze sulla malattia dell’Alzheimer e sul ruolo della prevenzione dello stress ossidativo, come forma di resistenza alla neurodegenerazione provocata dalla patologia, può gettare le basi per nuovi approcci terapeutici alla malattia, possibilmente basati sull’attivazione delle difese antiossidanti attraverso un intervento mirato alla modulazione di specifiche molecole di microRNA.

 

 

La gesione dei conflitti in famiglie costituite da genitori omosessuali e bambini adottati

I bambini adottati, compresi quelli che hanno genitori omosessuali, devono affrontare diverse sfide di sviluppo specifiche per comprendere e contestualizzare il loro stato adottivo: questi bambini spendono una certa quantità di tempo e di energia nel pensare alla loro adozione e mostrano anche diversi livelli di curiosità sulle loro origini biologiche, sul loro patrimonio e sui membri della famiglia.

 

Un numero sempre crescente di famiglie negli USA sono costituite da genitori omosessuali e bambini adottati (Goldberg & Conron, 2018). Ricerche volte ad indagare se, ed eventualmente come, l’omosessualità dei genitori influenzi lo sviluppo del bambino hanno rivelato un buon adattamento di quest’ultimo (Farr, 2017; Fedewa, Black, & Ahn, 2015). Tuttavia, meno studi su famiglie composte da genitori adottivi e coppie gay/lesbiche (LG) si sono focalizzati sul funzionamento generale della famiglia e le possibili associazioni con l’adattamento dei bambini. Ciò nonostante, sono emersi tre filoni di ricerca: (a) i genitori LG con figli piccoli si impegnano in pratiche di co-parenting diverse rispetto ai genitori eterosessuali (Farr, 2017), (b) i bambini adottati sono esposti a più fattori di rischio rispetto ai bambini non adottati relativamente ai problemi di esternalizzazione (Grotevant, McRoy, Wrobel, & Ayers-Lopez, 2013) e (c) il conflitto familiare è legato a disadattamento infantile, almeno tra genitori eterosessuali (Davies, Martin, & Cummings, 2018). La teoria dei sistemi familiari afferma che il funzionamento complessivo della famiglia influenza i singoli membri, pertanto gli individui non possono essere esclusi dal contesto familiare (Minuchin, 1988). Ricerche condotte sulle famiglie di genitori eterosessuali suggeriscono che un basso conflitto familiare è legato a un adattamento positivo del bambino nell’infanzia e nell’adolescenza (Cummings, Koss, & Davies, 2015; Demby, Riggs, & Kaminski, 2017), al contrario l’ostilità dei genitori si associa ad esiti negativi circa la regolazione delle emozioni, oltre che una prevalente emotività negativa, nei bambini in tutte le fasi dello sviluppo (Davies, Coe, Martin, Sturge-Apple, & Cummings, 2015). Gli studi osservazionali che si sono concentrati sui modelli di interazione dell’intera famiglia durante il conflitto hanno scoperto che vi sono associazioni tra i bambini preadolescenti con famiglie più positive e più coese (Demby et al., 2017; Shigeto, Mangelsdorf, & Brown, 2014) e minori problemi comportamentali. I bambini adottati, compresi quelli che hanno genitori LG, devono affrontare diverse sfide di sviluppo specifiche per comprendere e contestualizzare il loro stato adottivo: questi bambini spendono una certa quantità di tempo e di energia nel pensare alla loro adozione e mostrano anche diversi livelli di curiosità sulle loro origini biologiche, sul loro patrimonio e sui membri della famiglia (Tan & Jordan-Arthur, 2012). Una comunicazione soddisfacente tra genitori adottivi e figli e la presenza di rapporti positivi tra i membri della famiglia adottiva sono importanti per esiti di sviluppo positivi (Wrobel et al., 2004). Pochi di questi studi si sono concentrati sulle famiglie adottive o le famiglie di genitori LG, infatti nessuno studio ha affrontato in modo specifico argomenti su come le famiglie adottive LG gestiscono i conflitti e su come questi comportamenti possano essere in relazione con gli esiti del bambino. Le ricerche esistenti hanno dimostrato che i bambini (inclusi i bambini adottati) con genitori LG condividono risultati di sviluppo molto simili, o anche più positivi, rispetto ai bambini con genitori eterosessuali. (Fedewa et al., 2015; Golombok et al., 2014).

Il presente studio si è prefissato un duplice obiettivo: (a) esaminare se la positività, la negatività e la coesione durante le interazioni familiari correlano al comportamento dei bambini in età scolare e all’adattamento specifico dell’adozione, e (b) osservare i conflitti familiari, gli esiti dei figli, e se le loro associazioni differivano tra famiglie adottive LG e eterosessuali.

I partecipanti sono stati selezionati da 96 famiglie, ognuna delle quali aveva almeno un figlio adottato, pertanto sono stati considerati 48 femmine e 48 maschi adottati in età infantile. Nessun figlio aveva avuto precedenti collocamenti. Innanzitutto, le famiglie sono state osservate, nelle loro interazioni familiari, presso la propria abitazione: ciò aveva l’obiettivo di esplorare il modo in cui le famiglie affrontano le discussioni e i conflitti. Nello specifico, i ricercatori hanno fornito alle famiglie una lista di problematiche (es. “Come spendere il denaro, “Fare i compiti a casa”, ecc.), questi dovevano segnalare quali di esse erano state oggetto di discussione e quali erano ancora questioni aperte, dopodiché gli è stato chiesto di parlarne. I disaccordi più comuni riguardavano la scuola, i litigi tra fratelli e sorelle e il tempo trascorso in TV, su Internet e sui videogiochi.

Per valutare le interazioni familiari nel contesto dei disaccordi tra genitori e figli, è stato usato il System for Coding Interactions and Family Functioning (SCIFF; Lindahl & Malik, 2001). Lo SCIFF è uno schema di codifica che si è rivelato efficace nell’identificare come i tratti a livello familiare (cioè negatività/conflitto, affetti positivi e coesione) siano collegati all’adattamento comportamentale e alla salute emotiva dei bambini (Demby et al., 2017). La negatività/conflitto valuta il grado di ostilità o di tensione nelle interazioni genitore-figlio, compresi il linguaggio del corpo e il tono della voce. La coesione valuta quanto bene la famiglia lavora insieme per risolvere i conflitti. Infine, l’affetto positivo valuta il tono emotivo piacevole nelle interazioni della famiglia, compreso il linguaggio del corpo, il tono della voce e indicatori come sorrisi e risate. Tutti gli items sono valutati per mezzo di una scala Likert da 1 a 5 (1 molto basso, 5 molto alto). La Externalizing Behavior subscale of the Child Behavioral Checklist for Ages 6 to 18 (Achenbach & Rescorla, 2001) è stata utilizzata per valutare gli esiti comportamentali dei bambini, composta da 42 items che indagavano le problematiche esternalizzanti (es. “Disobbediente a casa”, “Mente o imbroglia”). L’Adoption Dynamics Questionnaire (ADQ; Benson, Sharma, & Roehlkepartain, 1994) ha permesso di valutare i sentimenti dei bambini nei confronti dell’adozione attraverso tre sottoscale: affetto positivo sulla propria adozione (20 items del tipo “Sono felice che i miei genitori mi abbiano adottato”), esperienze negative con l’adozione (7 items del tipo “Mi prendono in giro per essere stato adottato”) e preoccupazione per l’adozione (3 items del tipo “Quanto spesso pensi alla tua madre naturale?”).

I risultati hanno rivelato che generalmente le famiglie avevano un’elevata coesione, un atteggiamento positivo e una moderata negatività/conflitto. Mediamente i comportamenti con problematiche esternalizzanti dei bambini erano al di sotto dei livelli clinici, essi mostravano sentimenti molto positivi, poche esperienze negative e una moderata preoccupazione legata alla propria adozione. Le famiglie con una maggiore espressione di emozioni negative durante i conflitti avevano figli con maggiori problemi di esternalizzazione, al contrario le famiglie più unite e coese durante le discussioni, avevano figli con meno problematiche esternalizzanti. Inoltre, le interazioni familiari conflittuali erano legate a sentimenti di adozione meno positivi e le famiglie che si mostravano più coese durante i conflitti e quelle che avevano una maggiore tendenza ad esprimere emozioni positive avevano figli con sentimenti più positivi nei confronti della propria adozione. Non ci sono state differenze nelle interazioni familiari o negli esiti dei figli in funzione dell’orientamento sessuale dei genitori. I genitori di LG non si sono differenziati dai genitori eterosessuali nella conduzione di discussioni familiari, nei livelli di coesione, negli atteggiamenti positivi e nell’espressione delle emozioni durante i conflitti.

 

Che fatica le relazioni sociali! I meccanismi della dipendenza relazionale – Report e video dall’evento

Report dall’evento online organizzato dal CIP di Modena sul tema delle relazioni sociali, in particolare sui meccanismi che portano a sviluppare una dipendenza affettiva.

 

Uno dei motivi più frequenti di richiesta di inizio di un percorso terapeutico risiede nella difficoltà di regolazione di un’emozione specifica che si ripercuote sulle relazioni interpersonali. La manifestazione di problematiche emotive è dovuta a difficoltà nell’acquisizione della competenza emotiva, ossia la capacità di percepire e riconoscere le emozioni, di discriminarle tra loro e di riuscire a nominarle; aspetto che comporta complicazioni anche per quanto riguarda il riconoscimento delle emozioni negli altri.

Un contributo importante nell’acquisizione della competenza emotiva è svolto dalle esperienze infantili precoci, in particolare dalla relazione di attaccamento con figure di riferimento e da un ambiente validante. Infatti, l’attaccamento rappresenta il comportamento che spinge il bambino a cercare la vicinanza delle persone che si prendono cura di lui nel momento in cui vive emozioni spiacevoli. Si tratta di un comportamento innato che si ripercuote sulla modalità di gestione delle emozioni anche in età adulta, in base alla risposta del genitore ricevuta in infanzia. Un atteggiamento validante invece risulta benefico poiché permette al bambino di provare sia emozioni positive sia negative, di riconoscerne le funzioni e le relative modalità di espressione più adeguate.

Con il termine personalità si intende il modo di vedere, comprendere e relazionarsi con il mondo esterno, così come la modalità in cui una persona vede se stessa. La personalità si forma a partire dall’infanzia dall’interazione di fattori ereditari ed ambientali e determina il modo in cui una persona pensa, sente, percepisce e si comporta. Quando la modalità di esperienza interiore e di comportamento è pervasiva, inflessibile, stabile e causa una sofferenza che condiziona il funzionamento della persona si parla di disturbo della personalità. Per dipendenza invece si intende una condizione in cui l’organismo ha bisogno di una determinata sostanza, persona o attività per funzionare; le caratteristiche principali consistono nel non riuscire a rinunciare alla sostanza o al comportamento senza sperimentare disagio ed apprensione e la centralità che tale sostanza o comportamento assume nella vita dell’individuo. Tutti dipendono da qualcuno o qualcosa nei momenti di vulnerabilità, ciò che distingue una dipendenza sana da una problematica però riguarda il mantenimento della propria identità nel primo caso; in altre parole l’assenza di una persona significativa può provocare mancanza affettiva ma non condiziona l’individuo, non gli impedisce di funzionare. Nel caso del disturbo di personalità dipendente invece la dipendenza relazionale è patologica poiché si osserva un intenso timore dell’abbandono, un atteggiamento passivo e sottomesso ai desideri dell’altro e una richiesta costante di rassicurazioni.

Ma come si configura un disturbo di personalità dipendente? I fattori relativi alla predisposizione genetica (timidezza) e alle esperienze infantili (relazioni trascuranti, di solitudine) fanno sì che si sviluppino credenze centrali su di sé e sugli altri (solo, non amato, incapace), rispetto alle quali l’individuo mette in atto delle strategie disfunzionali di fronteggiamento, vale a dire comportamenti di sicurezza che hanno lo scopo di impedire l’attivazione delle credenze (cercare qualcuno a cui appoggiarsi). Tuttavia quando queste credenze e strategie si cronicizzano, diventando rigide e pervasive possono configurarsi in un disturbo di personalità dipendente. Le persone che soffrono di questo disturbo di personalità sperimentano spesso ansia, che tendono a gestire attraverso l’evitamento; il loro attaccamento con le figure di accudimento è frequentemente di tipo insicuro-ambivalente o resistente (C), per cui il genitore si è dimostrato imprevedibile, capace di fornire vicinanza e protezione ma non sempre disponibile a concederle. Conseguentemente il bambino si attribuisce la colpa o il merito di conquistare la vicinanza del genitore tramite le prestazioni (“se faccio il bravo la mamma mi abbraccia”) e il giudizio sulla propria amabilità dipende dalla risposta del genitore, aspetto che impedisce al bambino di costruirsi un’immagine di sé stabile. Nello specifico, il bambino tenderà a ricercare la vicinanza rinunciando all’esplorazione dell’ambiente e a considerare l’intimità come intensamente desiderabile e allo stesso tempo temibile, per paura di venire rifiutato perché considerato non amabile. Inoltre, tenderà a utilizzare come strategia comportamentale l’evitamento, richiudendosi in poche relazioni più prevedibili. In sintesi, un individuo con un disturbo di personalità dipendente tendenzialmente si considera debole, incompetente, non amato e vede l’altro come capace, supportivo e protettivo. Pertanto si appoggia a un’altra persona e solo vicino a qualcun altro si sente sicuro, con la conseguenza di essere disposto a tutto pur di mantenere la relazione.

Come pensa, si sente e vive le relazioni una persona con disturbo di personalità dipendente? Lo stato desiderato è l’autoefficacia, ovvero la rappresentazione di sé come competente, che raggiunge solo in presenza di una relazione solida; quando una persona si allontana infatti sperimenta un vuoto disorganizzato con sintomi depressivi, ansiosi e apatici. Avendo diverse relazioni di riferimento da mantenere l’individuo si trova in una condizione di overwhelming, cioè possiede una rappresentazione caotica di molteplici scopi e compiti, a volte contraddittori, dato che ha il desiderio di accontentare tutti, finendo per provare confusione ed abbattimento. L’individuo presenta la tendenza a soddisfare i bisogni altrui, tuttavia quando le proprie aspettative sono incompatibili con quelle altrui sperimenta un senso di obbligo a cui si ribella emotivamente con rabbia (ribellione alla coercizione); a tale rabbia però segue senso di colpa e timore dell’abbandono poiché vede l’altro sofferente. Le relazioni interpersonali dunque sono caratterizzate da oscillazioni tra accudimento e aiuto negato perché l’altro non è sempre disponibile a soddisfare il bisogno di continue rassicurazioni del paziente.

Per quanto riguarda le linee di intervento, il lavoro terapeutico parte dall’aiutare a rendere consapevole il paziente del proprio funzionamento e ad identificare le proprie credenze disfunzionali; in seguito lo si aiuta a vedere come la strategia di fronteggiamento che utilizza (dipendenza) gli arrechi dolore e a cercare alternative di regolazione più funzionali, incrementando l’autonomia. Per raggiungere questi obiettivi, è possibile integrare una serie di tecniche di intervento, quali: Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), Terapia Metacognitiva (MCT), Skills Training, validazione della Terapia Dialettico-Comportamentale (DBT) e Mindfulness.

 

CHE FATICA LE RELAZIONI! ANALIZZIAMO I MECCANISMI DELLA DIPENDENZA RELAZIONALE

Guarda il video integrale del webinar:

 

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Metacognizione, rimuginio e sintomi ansiosi nei bambini – Partecipa alla ricerca!

Studio esplorativo su metacognizione, rimuginio e sintomi ansiosi nei bambini (9-13). Che cosa intrappola i bambini ansiosi nei meccanismi di ricorsività del pensiero, quali rimuginio e ruminazione?

La presente ricerca online, condotta dal Child and Youth Lab della Sigmund Freud University e approvata dal Comitato Etico della stessa università, si occupa di indagare determinati processi cognitivi, come rimuginio e ruminazione, e le credenze metacognitive. Con i termini rimuginio e ruminazione si indicano due forme diverse di pensiero ripetitivo, il primo orientato verso possibili minacce future, il secondo su eventi accaduti in passato e sullo stato emotivo attuale. La metacognizione, invece, può essere definita come la conoscenza del proprio sistema cognitivo, dei fattori che influenzano il proprio funzionamento cognitivo, e la regolazione dei propri pensieri (Wells, 1995).

La precedente letteratura scientifica sembrerebbe mostrare come proprio le credenze metacognitive giochino un ruolo cruciale nella persistenza del rimuginio e della ruminazione nei bambini ansiosi. Secondo il modello della funzione esecutiva di autoregolazione (S-REF) di Wells e Matthews (1994, 1996), le credenze metacognitive contribuirebbero a mantenere attiva la sindrome cognitiva attenzionale, mettendo in atto strategie di regolazione disfunzionali quali rimuginio, ruminazione, maggiore focalizzazione su sé stessi e monitoraggio della minaccia.

Le metacredenze possono essere positive o negative (Wells, 2000): quelle positive ci fanno ritenere utile impegnarsi in processi cognitivi disfunzionali (es. “Se mi preoccupo sarò pronto al peggio”), mentre quelle negative ci fanno pensare che il rimuginio sia incontrollabile (es. “Non ho il controllo sui miei pensieri”). Un bambino ansioso potrebbe essere convinto che se rimugina sarà preparato al peggio, ma in realtà, rimuginando in continuazione, non fa altro che intrappolarsi in un circolo vizioso che potrebbe apparire senza via di uscita. Un intervento che tenga in considerazione anche le credenze metacognitive potrebbe dunque aiutare i bambini a riconoscere i propri stati mentali disfunzionali, così da abbassare anche i livelli d’ansia esperiti e sentirsi meglio.

L’obiettivo principale di questo studio è quindi valutare rimuginio, ruminazione e le credenze metacognitive nei bambini, anche considerando la presenza di sintomatologia internalizzante.

Il seguente questionario della durata di circa 30 minuti, è rivolto sia ai genitori che ai loro bambini di età compresa tra i 9 e i 13 anni e ci aiuterà a comprendere meglio e a trattare con maggiore efficacia i disturbi d’ansia.

Grazie a chi vorrà partecipare!!


La comunicazione degli occhi

Artisti e filosofi si sono spesso soffermati sulla comunicazione che avviene attraverso gli occhi, sulle informazioni riguardo alla persona che questi trasmettono, oltre che sui suoi pensieri e sulle sensazioni, fino a giungere alla conclusione che gli occhi sono lo specchio dell’anima.

 

Gli occhi riflettono il mondo interiore della persona e, a volte senza volerlo, questa ci dice molto di più quando guarda che quando parla. Così, spesso ci troviamo a cercare lo sguardo dell’altro per capire se quella che esprime è reale gioia, tristezza o paura, o per scorgere una menzogna ben mascherata con le parole giuste.

Molti ricercatori si sono per questo soffermati sulla comunicazione degli occhi, dimostrando come le loro caratteristiche, o meglio le variazioni di queste, diano a chi li guarda importanti informazioni circa la salute, l’eccitazione, le emozioni che il soggetto sta provando, oltre a generare una maggiore o minore attrazione sessuale nell’osservatore.

Nell’esperimento di Caryl, fatto nel 2009, il ricercatore si è soffermato sulle preferenze che gli uomini e le donne hanno verso la dimensione delle pupille di persone del sesso opposto. Questo lavoro infatti parte dalle indicazioni emerse in esperimenti e studi precedenti, come quello di Hess (1965), il quale dimostrò che gli uomini trovavano le fotografie delle donne più attraenti se le pupille delle stesse venivano ritoccate per sembrare più grandi.

Autori come Tombs e Silverman (2004) hanno confermato tale tendenza, mostrando tuttavia come la stessa generalizzazione non poteva essere fatta per quanto riguarda le preferenze delle donne. In quest’ultimo caso, difatti, la situazione appariva più complessa in quanto chiamava in ballo altre variabili che potevano orientare la scelta delle donne per un viso o per un altro.

In due esperimenti Tombs e Silverman notarono che le donne tendevano a preferire visi di uomini con una dimensione media delle pupille. Questi infatti arrivarono ad ipotizzare che una maggiore grandezza delle pupille indicava livelli di arousal maggiori a livello sessuale, e che quindi tale caratteristica fosse interpretata dalle donne come il segnale di un uomo tendenzialmente possessivo, geloso o promiscuo. Qualche donna appariva fortemente attratta dall’ampiezza delle pupille dei visi presentati nell’esperimento, dichiarando inoltre di preferire il genere di uomo che stereotipicamente veniva definito nelle relazioni sentimentali come ‘bad boy’.

Da questo esperimento i ricercatori conclusero che il giudizio delle donne non era semplicemente mediato dalle caratteristiche fisiche degli stimoli, in questo caso la grandezza delle pupille, ma anche da circostanze transitorie e dall’orientamento socio-sessuale. Come emerso in questa e in altre ricerche (Simpson & Gangestad, 1991; Caryl, 2009) le donne sembrano reagire alla grandezza delle pupille degli uomini come se queste corrispondessero ad un’alta qualità della relazione.

Nell’esperimento di Caryl, rimanendo in tema del giudizio delle donne in base alla grandezza delle pupille, si è voluto indagare su quanto le loro scelte fossero influenzate dalle variazioni dei livelli di fertilità, dallo status relazionale e dall’orientamento socio-sessuale delle stesse.

Partendo dai lavori che dimostrano come la donna nel periodo di maggiore fertilità del ciclo mestruale preferisca nell’uomo alcune caratteristiche piuttosto che altre, come i tratti del viso più mascolini (Penton-Voak et al., 1999; Roney & Simmons, 2008; Welling et al., 2007) e un tono della voce più profondo (Feinberg et al., 2006; Puts, 2005), mentre nei periodi di minore fertilità sia più incline verso caratteristiche quali la salute e l’affinità, sono state misurate le oscillazioni delle preferenze delle donne in merito all’ampiezza delle pupille in base al ciclo mestruale. Le preferenze appena elencate, analizzate nel periodo di massima fertilità della donna, sono state indicate come criteri che designano, a livello adattivo, il maschio con migliori geni (Garver-Apgar, Gangestad, & Thornhill, 2008; Waynforth, Delwadia, & Camm, 2005). Questo esperimento voleva così osservare se anche la grandezza delle pupille fosse una caratteristica sensibile alla variazione della fertilità nella donna.

Ciò che è emerso è interessante, in quanto è stato osservato che durante la fase follicolare, che va dal sesto al quattordicesimo giorno del ciclo mestruale e rappresenta il periodo di massima fertilità, le donne del campione tendevano ad avere un maggiore incremento dell’indice LPP (preferenza per pupille grandi). Tale risultato era ancora più evidente tra le donne impegnate in una relazione sentimentale, rispetto a quelle single. Nelle prime sembra infatti che le variabili di fertilità abbiano un impatto significativo sull’indice LPP, mentre nelle donne single ad avere un impatto maggiore sull’indice LPP è il loro orientamento socio-sessuale e non il loro livello di fertilità. Le donne che invece assumevano contraccettivi ormonali non mostravano alcuna variazione di preferenza per la grandezza delle pupille nelle diverse fasi del ciclo mestruale.

Tale risultato sembra andare nella direzione della mixed mating strategy, secondo la quale le donne per ragioni adattive tenderebbero ad adottare una strategia mista che permetta loro di generare una prole con i geni migliori e nello stesso tempo poter contare sulla protezione di una relazione stabile. Secondo tale teoria infatti la donna con un partner può voler ricercare rapporti occasionali al di fuori della coppia con uomini migliori del proprio partner per migliorare le caratteristiche della prole, pur conservando la relazione con l’uomo più adatto a crescerla (Thornhill & Gangestad, 2003). Tale teoria sembra supportata dal fatto che, come quest’esperimento ci dimostra, le donne impegnate in relazioni durature mostrano una maggiore oscillazione nella preferenza dei criteri di buoni geni precedentemente esposti, se confrontate con donne single (Havlicek, Roberts, & Flegr, 2005).

Ma non è solo l’ampiezza della pupilla ad aver richiamato l’attenzione nell’ambito della ricerca. Ricercatori come Provine (2011) si sono focalizzati sul giudizio che le persone davano ai visi delle persone che riportavano una sclera, la parte bianca dell’occhio che circonda l’iride, rossa o arrossata.

Gli occhi rossi sono principalmente il risultato di una dilatazione dei vasi sanguigni superficiali della congiuntiva, la membrana trasparente che protegge la sclera. Gli occhi rossi sono un sintomo facilmente visibile e possono essere legati ad un ampio ventaglio di patologie, che va da quelle più leggere quali irritazione, congiuntivite, a disturbi più gravi, includendo anche l’effetto da uso di sostanze stupefacenti quali ad esempio la marijuana (McLane & Carroll 1986).

L’esperimento di Provine ha cercato di capire come le persone con gli occhi arrossati venivano percepite dagli altri. In linea con precedenti lavori scientifici, i quali dimostravano come gli occhi con una sclera bianca fossero associati a criteri di bellezza e sinonimo di salute (Symons 1979; Etcoff 1999; Thornhill & Gangestad 1999; Langlois et al. 2000; Sugiyama 2005; Johnston 2006; Rhodes 2006; Little et al. 2007), Provine ha dimostrato che i visi con gli occhi rossi, presentati durante l’esperimento, erano associati sia da donne che da uomini a peggiori livelli di salute e ad emozioni negative, specialmente alla tristezza. Mentre tali risultati sono emersi in egual misura sia nel campione composto dalle donne, sia in quello degli uomini, questi due gruppi tendevano a differire sul discorso dell’attrazione. Se si può notare una significativa correlazione tra visi con gli occhi rossi e bassa attrazione da parte delle donne, questa correlazione, seppur presente, appariva assai più debole nei giudizi degli uomini.

Se consideriamo inoltre che gli occhi con una sclera bianca, oltre a funzionare come criteri di salute, sono anche associati alla giovinezza, in quanto l’invecchiamento comporta, tra le altre cose, anche l’ingiallimento della sclera (Broekhuyse 1975; Watson & Young 2004), ci appare abbastanza evidente come le persone possano esprimere la loro preferenza verso visi che riportano un colorito più bianco della sclera.

A conferma del fatto che gli studi rivolti alla comunicazione e al grado di preferibilità che le persone hanno verso gli occhi degli altri si siano focalizzati sulla totalità delle componenti manifeste di questa parte del corpo, vediamo come autori come Peshek (2011) e Brown e colleghi (2017) abbiano dedicato i loro studi all’anello limbale. L’anello limbale è quel cerchio scuro che si trova intorno all’iride e ne disegna i confini. Questo può essere poco distinguibile nelle persone con gli occhi scuri, in quanto tende a confondersi con l’iride, ma è facilmente visibile nelle persone con gli occhi più chiari.

L’esperimento di Peshek ha dimostrato che solitamente, anche se a volte in modo automatico, le persone, se messe di fronte ad immagini di visi, tendano a preferire quelli che riportano un anello limbale più scuro e definito rispetto agli stessi visi a cui era stato alterato il colore dello stesso verso tonalità più uniformi all’iride.

Anche Brown (2017) ha voluto vedere l’effetto che un’alterazione della tonalità dell’anello limbale poteva provocare nella percezione e nel giudizio dei rispondenti; in questo caso è stato preso un campione di 150 persone. Oltre ad esserci la stessa generale tendenza nei partecipanti a preferire visi con un anello limbale più scuro, è emerso che le persone facevano corrispondere tale caratteristica alla salute.

Tuttavia vi sono state delle variazioni in base al genere dei rispondenti: le donne sembravano infatti quelle più influenzate da tale caratteristica, mentre gli uomini difficilmente sembravano dare la stessa attenzione nel loro giudizio. Interessante è il fatto che le donne più interessate ad una relazione breve e occasionale tendevano a giudicare i visi degli uomini con un anello limbale più scuro come più attraenti.

Ma qual è il motivo di tale preferenza?

Sembra che l’anello limbale sia collegato con la salute in quanto è stato studiato come questo tenda ad essere più scuro e definito nelle persone giovani (Peshek, 2013) ed in persone che hanno un cuore ed un sistema circolatorio sano. Un colore dell’anello limbale meno definito, o più simile se vogliamo al colore dell’iride, sembra essere associato, tra le altre cose, a bassi livelli di accumulazione di fosfolipidi, caratteristica connessa ai disturbi cardiovascolari in una persona (Ang et al., 2011; Fernandez et al., 2009).

Tutti questi esperimenti ci hanno mostrato che tutte le caratteristiche degli occhi che generalmente tendono ad essere associate a stati di salute migliore erano anche associati ad un grado di piacevolezza maggiore da parte dei partecipanti all’esperimento. Sebbene i gusti e le preferenze seguano sempre direzioni tanto soggettive quanto sociali, in base ai canoni di bellezza che una determinata società condivide in un determinato spazio e in un determinato tempo, sembra che la giovinezza e la salute siano criteri che non passano mai di moda, in quanto, a livello evolutivo, vengono associati ad una migliore fitness riproduttiva (Symons 1979, 1995; Etcoff 1999; Sugiyama 2005; Johnston 2006) e quindi tendono ad avere la precedenza tra le cose che soggettivamente si scelgono.

 

Maternità e sessualità – Moms, una rubrica su maternità e genitorialità

Il presente articolo affronta il tema della sessualità per una donna divenuta madre e per la coppia, attraverso l’interpretazione del sesto episodio della serie tv Netflix Workin’ Moms.

Moms – (Nr.7) Moms – Maternità e sessualità

 

In che rapporto è la sessualità con il ruolo genitoriale?

Dopo la nascita di un figlio il rapporto di coppia viene fortemente sacrificato, per la mancanza di tempo e forze fisiche. Diviene difficile per entrambi i membri della coppia potersi concedere lo spazio di cui necessitano. Nei primi mesi di vita del bambino, con scarso tempo e un nuovo ruolo a cui adattarsi, il bisogno messo maggiormente da parte è quello sessuale, tanto per le mamme quanto per i papà.

L’episodio della serie tv Workin’ Moms mette in luce l’umano bisogno sessuale e le diverse fantasie di ogni donna del gruppo post-partum. Si mostra fondamentale per ogni madre poter comunicare a se stessa e all’altro i propri vissuti interiori senza giudicarsi né essere giudicata.

In particolare nel gruppo viene introdotta con naturalezza la preferenza di ognuna rispetto ad un diverso tipo di cinematografia pornografica. Il telefilm canadese si rivela geniale anche stavolta nel non sottoporre la questione pornografia secondo il criterio di giusto o sbagliato, ma attraverso la stessa spontaneità che può esserci nella scelta della bevanda con cui accompagnare il pasto.

La protagonista Kate preferisce i cartoni giapponesi, noti come Hentai, mentre Jenny, altro elemento del gruppo post-partum, ama giocare con il capo dell’ufficio.

In una cultura occidentale che ancora a volte presenta il sesso come tabù, il diritto di una donna divenuta madre ad avere desideri sessuali rischia di essere messo in secondo piano se non è la madre stessa la prima a riconoscerlo. I personaggi di Kate e Jenny mostrano lo Sliding Doors, (riprendendo il celebre film di Peter Howitt con Gwineth Paltrow) di una relazione di coppia.

Kate più spontanea rispetto a Jenny non teme di raccontare al marito le proprie preferenze sessuali, mentre Jenny più artificiosa nega le difficoltà di comunicazione con il marito e il proprio bisogno di ricreare l’intimità, che sposta poi sul capo dell’ufficio. Con lo stesso capo Jenny non riesce ad essere diretta, ma deve sempre ricorrere ad escamotage e giochi affinché lui capisca il suo interesse, probabilmente perché lei stessa fa fatica a riconoscersi e ad esternare i propri bisogni sessuali in modo spontaneo.

Kate e Nathan, il marito, vincono perchè non sono soggetti a giudizi inconsci nè a tabù. Entrambi riescono a riconoscere e a dare spazio ai propri bisogni sessuali con naturalezza.

Jenny invece sembra ritenere che vi sia un copione nell’accoppiamento, dove donna e uomo sono personaggi con le parti già assegnate. Questo ostacola la comunicazione con il marito e rende possibile quella con il capo, fintantoché la recita può durare.

L’insegnamento che dona la serie tv in questo caso è che non c’è nulla di più spontaneo e naturale della sessualità, che nella relazione di coppia si incastra con aspetti comunicativi e individuali. Essere genitori vuol dire essere umani e spesso membri di una coppia, che ogni tanto per il benessere proprio e dell’altro dovrebbe permettersi di chiudere la porta della stanza e lasciare fuori i figli.

 

Il buco (2016) di Anna Llenas – Recensione del libro

Il Buco è una storia che parla di resilienza e dell’essenza di due discipline: la pedagogia e la psicologia.

 

Il Buco di Anna Llenas è un libro ricco di colori, testi e immagini originalissime che hanno una grande potenza simbolica come potenti sono i colori. Una storia che parla di resilienza, affrontando un tema importante come il dolore e non solo, perché in questo libro è possibile ritrovare l’essenza di due discipline: la pedagogia e la psicologia.

Il libro affronta non un dolore qualsiasi ma quel dolore, legato ad un lutto o ad un evento traumatico, che lascia il segno, nel nostro caso un buco, nella pancia di Giulia: la bambina protagonista della storia. E’ un libro semplice e per questo capace di arrivare dritto al cuore, o alla pancia, dei bambini (dai 3 anni in su) e dei grandi, in particolare quando si trovano a vivere la sensazione di smarrimento esistenziale, che sopraggiunge a seguito della rottura di un equilibrio, di una grave perdita o di quella metaforica ‘caduta dal Paradiso’ che trascina con sé tutte le nostre certezze e i nostri riferimenti, come nel caso del lutto che consegue una separazione o un divorzio.

Questo libro attrae subito per la copertina, rigida con un buco al centro, poi sfogliando le pagine, di buchi se ne trovano tanti, di tante dimensioni e colori, e poi colpisce una frase, presente prima di iniziare il racconto: ‘Per te, affinché trovi quello che stai cercando…’, la frase è una dedica e ognuno può sentirla sua, è indirizzata ad ognuno di noi, con i suoi buchi, colmi di bisogni, debolezze, vuoti e mancanze. Non è spiegato il perché di questo buco, ma solo le sensazioni che procura: entra freddo, escono mostri, ecc. Quando sentiamo un vuoto, solitamente, cerchiamo di colmarlo con ‘tappi’, e questo è ciò che fa Giulia, talvolta i tappi sono buoni, talvolta ingannevoli, finchè arriva il momento in cui Giulia rinuncia, smette di cercare una soluzione.

Un fortunato giorno però, qualcuno le suggerisce di guardare in se stessa, così facendo Giulia si accorge di avere in sé un mondo pieno di sorprese, di emozioni, pensieri, e che questo mondo che non sapeva di possedere la può avvicinare nuovamente agli altri, anche loro con un buco nella pancia, un dolore alle spalle, anche loro con un mondo da condividere.

E qui possiamo rintracciare il cuore della pedagogia, la disciplina umanistica che studia l’educazione e la formazione, educare significa: trarre fuori, condurre, portare la persona a guardarsi dentro, a comprendere se stessa, i propri obiettivi e le proprie potenzialità, per riuscire a fronteggiare le incertezze e le difficoltà del vivere quotidiano.

Psicoterapia breve strategica del trauma psicologico

Non solo Giulia guarda dentro il buco, ma lo attraversa imparando a conviverci e a capirne il significato per trarne nuove sintesi. In questo cercare di capire troviamo la psicologia, una scienza che studia i processi psichici, coscienti e inconsci, cognitivi (percezione, attenzione, memoria, linguaggio, pensiero ecc.) e dinamici. In particolare, nell’atto di attraversamento troviamo l’approccio breve strategico, perché quel buco richiede di passarci attraverso, di non ignorarlo, o il freddo continuerà a sentirsi e i mostri verranno fuori. Richiede di ammettere che nel vuoto si avranno le vertigini, ma poi la vista sarà più ampia.

L’approccio breve strategico, a seguito di un forte trauma, come ad esempio quello che sta vivendo in questi mesi il personale medico e paramedico in seguito alla pandemia da Covid-19 o tutte le persone colpite da un lutto che non hanno avuto la possibilità di elaborarlo, propone come strategia il ripercorrere per scritto il tragico evento, per potersi distaccare gradualmente dalla paura, dal dolore e dalla rabbia che questo ha provocato. La parola ‘trauma’ deriva dal greco ‘foro, perforamento’. In ambito psicologico, ci si riferisce al trauma come ad un evento particolarmente spaventoso, tale da lasciare uno strascico emotivo ed esperienziale che si estende al di là dell’evento stesso. Un ‘solco’ quindi, una profonda messa in crisi dell’equilibrio precedente, tale da lasciare separati un prima e un dopo che poco interagiscono, poco si accomunano, poco comunicano. Chi, infatti, ha vissuto un forte trauma, si trova ad essere inondato di ricordi, immagini, suoni, odori, flashback, che impediscono alla persona di proseguire il suo cammino verso il futuro.

Secondo Nardone ed altri (2007) le strategie di gestione messe in atto da chi accusa i sintomi di Disturbo Post-Traumatico sono raggruppabili in tre tipologie: il tentativo di controllare i propri pensieri e cancellare l’esperienza traumatica, l’evitamento delle situazioni associabili al trauma, la richiesta d’aiuto, di rassicurazioni e le lamentele.

Nell’illusione di poter in qualche modo ‘dimenticare’ il trauma vissuto e tenere sotto controllo le spaventose sensazioni ad esso correlate, la persona sperimenta la situazione paradossale per cui più cerca di dimenticare, più finisce per ricordare sempre di più.

Secondo l’approccio della psicoterapia breve strategica diviene importante non evitare la crisi ma attraversarla, come diceva il poeta Robert Frost: ‘Se vuoi venirne fuori, ci devi passare in mezzo’. In Psicoterapia Breve Strategica, la tecnica di elezione per il trattamento del trauma è quindi basata sulla scrittura, il cosiddetto Romanzo del trauma (Cagnoni, Milanese, 2009). Attraverso la narrazione scritta è possibile innescare la metabolizzazione dell’esperienza e una diminuzione delle emozioni correlate. Inoltre, richiamando volontariamente questi pensieri, non li si vivono più come incontrollabili e intrusivi, ma come gestibili. Successivamente è possibile diminuire progressivamente gli evitamenti, in modo da ripristinare la funzionalità di vita presente prima dell’episodio traumatico.

In questo modo la ferita del trauma si trasforma a poco a poco in una cicatrice che, pur non scomparendo completamente del tutto, permette alla persona di riappropriarsi della propria naturale capacità di resilienza.

 

Intolleranze e allergie alimentari negli studenti universitari: esiste una relazione con ansia e depressione?

Per gli studenti con una malattia cronica, come un’allergia o un’intolleranza alimentari, il periodo di transizione rappresentato dall’università può comportare responsabilità aggiuntive, relative all’autogestione della malattia, che possono avere un impatto negativo sul benessere generale.

 

L’università è un importante periodo di transizione per molti giovani adulti, durante il quale questi ultimi ottengono un’indipendenza senza precedenti e affrontano sfide di adattamento significative, come lo sviluppo di nuove relazioni (Ravert, Boren, & Wiebke, 2015) e l’adattamento all’elevata domanda accademica (Ross, Niebling, & Heckert, 1999). Tali sfide possono aumentare la loro vulnerabilità e portare a problemi di salute mentale legati allo stress come ansia e depressione (Shin & Liberzon, 2009). Secondo alcuni studi, i sintomi depressivi sono associati a una diminuzione delle prestazioni accademiche (American College Health Association, 2014) e ad un aumento del rischio di autolesionismo (Taliaferro e Muehlenkamp, ​​2014) tra gli studenti universitari. Gli studenti con sintomi ansiosi hanno maggiori probabilità di soffrire di malattie infettive acute (Adams et al. 2008) rispetto alle loro controparti meno ansiose. In effetti, la ricerca mostra che la prevalenza di depressione e ansia è in aumento tra gli studenti universitari (Schwanz et al. 2016), colpendo circa il 22,1% (ansia) e il 18,1% (depressione) dei giovani accademici statunitensi (American College Health Association, 2015). In particolare, per gli studenti universitari con una malattia cronica, come un’allergia alimentare (ing. Food Allergies, FA) o un’intolleranza, questo periodo di transizione può comportare responsabilità aggiuntive relative all’autogestione della malattia, che possono avere un impatto negativo sul benessere generale (Greenhawt, 2016; Warren et al. 2016).

L’allergia alimentare è una malattia cronica derivante da reazioni immunitarie avverse a specifiche proteine ​​alimentari che possono variare da lievi eruzioni cutanee ad anafilassi potenzialmente letali (Herbert, Shemesh & Bender, 2016). Simile all’FA, l’intolleranza alimentare è una reazione avversa a specifici cibi, che può portare a una vasta gamma di sintomi come indigestione e diarrea (Nettleton et al., 2010). Alcuni studi hanno rivelato che gli adulti con FA e/o intolleranza sono a maggior rischio di sviluppare ansia e/o sintomi depressivi (Dunjic, 2015; Molzon et al., 2011; Yang et al., 2013).

Chen e colleghi hanno incentrato il loro studio del 2020 sulle implicazioni psicologiche negative correlate ad allergie e/o intolleranze alimentari (Chen et al., 2020). L’obiettivo dello studio era quello di determinare la prevalenza di allergie e intolleranze alimentari e di stimare le associazioni di queste con ansia e depressione in un campione di 1574 giovani universitari. I risultati ottenuti da questa ricerca hanno indicato come la prevalenza di FA diagnosticate dal medico era del 7,6% (n = 119), mentre il 14,6% (n = 227) ha riportato un’intolleranza alimentare. Le allergie più segnalate sono state noci (3,1%) ed arachidi (2,6%). Dalle analisi è emerso che l’FA era associata a punteggi più alti dei sintomi depressivi, mentre le intolleranze alimentari erano associate a punteggi più alti di sintomi depressivi e ansia. Questa ricerca ha mostrato come il gruppo di universitari statunitensi che conviveva con una specifica allergia al cibo e/o con un’intolleranza presentava maggiori sintomi interiorizzati di tipo depressivo o ansioso (Chen et al., 2020).

Il meccanismo attraverso il quale la FA e l’intolleranza sono collegati ad ansia e/o a depressione rimane poco chiaro. È possibile che, poiché queste patologie sono associate a livelli di stress più elevati (Dunjic, 2015), ciò possa predisporre gli adulti a maggiori rischi di sviluppare ansia e depressione (Khan & Khan, 2017; Shin e Liberzon, 2009). Una teoria dominante sull’associazione tra FA e depressione è l’ipotesi delle citochine proinfiammatorie, molecole proteiche generalmente prodotte in risposta a un qualche stimolo, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo della depressione (Maes et al., 2008). In effetti, è stata osservata una maggiore produzione di citochine proinfiammatorie tra pazienti allergici ad alimenti (Bartuzi et al., 2000). Il mantenimento di un microbioma intestinale sano promuove il normale sviluppo e funzionamento del sistema immunitario (Purchiaroni et al., 2013). Recenti studi su modelli animali hanno dimostrato che la disregolazione del microbioma intestinale è associata a una varietà di condizioni psichiatriche tra cui ansia e depressione (Sharon al., 2016). L’intolleranza alimentare può disturbare il normale microbioma intestinale attraverso l’induzione di sintomi fisiologici avversi come diarrea e generazione di sostanze tossiche (Campbell et al., 2010), fornendo una potenziale spiegazione della sua associazione con depressione e ansia.

Per quanto riguarda la connessione tra intolleranze alimentari ed ansia, è possibile ipotizzare un’ulteriore spiegazione assumendo un punto di vista psico-fisiologico, per cui le sensazioni fisiche di fastidio e/o dolore provocate dalle intolleranze potrebbero essere male interpretate da chi le sperimenta, che potrebbe confonderle con sintomi ansiosi o di panico, innescando un vero e proprio stato d’ansia. È infatti noto che l’ansia può manifestarsi sotto forma di somatizzazione corporea, tale per cui la sofferenza psicologica può emergere mediante sensazioni fisiche: il soggetto con intolleranze a specifici cibi potrebbe male interpretare i segnali corporei provenienti dall’addome risultanti dall’ingestione di cibi tossici per il suo organismo, etichettandoli come sintomi ansiosi, oppure correlati ad un attacco di panico.

Ad ogni modo è importante tenere a mente che ad intolleranze alimentari ed FA potrebbero conseguire sintomi ansiosi e depressivi; in tal caso sarebbe bene rivolgersi a specialisti nel settore psicologico per intraprendere un percorso psicoterapeutico in grado di ripristinare il benessere soggettivo percepito.

 

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