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La gestione del caso complesso in età evolutiva – Il primo episodio di Angoli Clinici

I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono stati protagonisti della serie di webinar “Angoli Clinici”: un ciclo di appuntamenti che ha esplorato alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia

 

Il circuito di Scuole di Specializzazione Studi Cognitivi ha organizzato nell’autunno del 2020, per gli allievi e i didatti delle Scuole di Psicoterapia, la webserie “Angoli Clinici”, un ciclo di appuntamenti per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo. La webserie è ora in esclusiva sulle pagine di State of Mind.

Un tema diverso ogni settimana. Per ogni incontro un’intervista a un esperto del team di Studi Cognitivi, condotta dalla Dott.ssa Rossana Piron. Tema del primo incontro è stato la gestione del caso complesso in età evolutiva, discusso dalla Dott.ssa Sara Della Morte.

 

LA GESTIONE DEL CASO COMPLESSO IN ETÀ EVOLUTIVA – Guarda il video:

 

Gli inesplicabili processi psicologici che si celano nel contesto gruppo

L’appartenenza al gruppo permette al singolo di rispecchiarsi nelle persone che ne fanno parte. Il processo cognitivo che vi è alla base è l’identificazione, la persona si comprende cognitivamente membro di quel particolare insieme.


Non è tanto il tipo di persona che un uomo è, ma la situazione in cui si viene a trovare, che determina come si comporterà. (Stanley Milgram)

John Donne afferma «Nessun uomo è un’isola». L’uomo è calato in una interdipendenza necessaria verso gli altri essere umani, ha bisogno di interazioni sociali, di far parte di un gruppo relazionale. Quest’ultimo offre un’illusione di salvezza nei confronti della solitudine, della fragilità e dello smarrimento. Si può affermare che l’appartenenza al gruppo è una caratteristica intrinseca del genere umano (Brewer, 1997). Il gruppo fa da riferimento a un concetto chiave dell’individuo: l’identità sociale, quella parte del concetto di sé che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad un insieme collettivo, unito al significato emotivo associato a tale adesione. Si attiva un processo di categorizzazione in un determinato gruppo in modo da definire la propria identità nella collettività o in un momento specifico. L’appartenenza al gruppo permette al singolo di rispecchiarsi nelle persone che ne fanno parte. Il processo cognitivo che vi è alla base è l’identificazione, la persona si comprende cognitivamente membro di quel particolare insieme. L’individuo si riconosce nelle persone del suo ingroup (assimilazione) e allo stesso tempo si distingue dalle persone che fanno parte dell’outgroup (differenziazione). Per natura, gli esseri umani si trovano a dover soddisfare questi due bisogni tra loro opposti (Brewer, 1991). Questa differenza tra ingroup e outgroup è data dal rapporto di metacontrasto (Turner, 1987) ovvero il rapporto tra le differenze medie intercategoriali e le differenze medie intracategoriali, più alto è questo rapporto e maggiore sarà l’adeguatezza dell’individuo con l’ingroup e la discrepanza con l’outgroup. Questa distinzione cambia a seconda dell’accessibilità di una determinata categoria che può riferirsi ad aspetti legati alle preferenze personali o a fattori di tipo contestuali. Secondo Tajfel (1981) è importante che le percezioni psicologiche degli individui siano sempre contestualizzate e cioè sempre considerate nella specifica situazione sociale in cui sorgono e si sviluppano.

La percezione dell’identità dell’individuo ovvero del proprio sé, della propria autostima dipende da quanto è giudicato positivamente o negativamente l’ingroup. Aspetto chiave che sottende questo processo è il confronto sociale, confronto che avviene con l’outgroup. Data la naturale predisposizione degli individui a ricercare un’immagine di sé positiva, il successivo processo al confronto sociale sfocerà in una valutazione più positiva per l’ingroup piuttosto che per l’outgroup (Voci, 2003). Si è motivati ​​a migliorare l’immagine e lo status del gruppo di appartenenza nei confronti degli altri, in quanto ciò si riflette su di noi.

Nelle singole persone che si ritrovano nel gruppo si consolida un senso di appartenenza, data dall’attrazione reciproca, coesione che è il risultato stesso dell’appartenenza allo stesso gruppo. L’individuo è depersonalizzato in quanto non percepisce più sé stesso come singola unità ma come un tutt’uno con l’ingroup. Turner et al. (1984) considerano questo fenomeno come positivo in relazione all’assimilazione al gruppo, ma va distinto dalla deindividuazione e dalla deumanizzazione. Quest’ultima relega in una sfera sub-umana l’individuo (dell’outgroup), ridotto al rango di oggetto o di essere inferiore. Sparisce l’empatia e il senso di colpa, per far posto ad esecuzioni caratterizzate da atti di violenza nei confronti della “vittima”. Troviamo la deindividuazione per la prima volta nella teoria di Gustave Le Bon (1895), il quale sostenne che la folla tende a far perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, arrivando ad alimentare anche la comparsa di impulsi antisociali. La condotta viene dettata dall’ambiente e dalle situazioni. L’individuo non è più responsabile delle sue azioni, concetto che verrà ripreso da Philip G. Zimbardo (1970-2007) con l’esperimento carcerario di Stanford. Qui emerge il processo psicologico della diffusione di responsabilità (Bandura et al., 1996; Caprara et al., 1996) ovvero quando in uno stato d’emergenza o in una situazione estrema la responsabilità viene divisa tra i partecipanti e di conseguenza, percepita come non appartenente a nessuno, producendo indifferenza. In queste dinamiche psicologiche di gruppo prevale una compromissione dell’azione morale identificata da Alber Bandura nel disimpegno morale. Questi meccanismi inibiscono la censura interna nell’eseguire azioni amorali, liberando l’individuo da sentimenti di autocondanna che sarebbero lesivi per l’autostima, così da mantenere intatta l’immagine di sé. Il comportamento delle persone nel gruppo è affascinante ma allo stesso tempo temibile: produce un’influenza sociale che porta alla modificazione di atteggiamenti, giudizi e condotte degli stessi individui che lo compongono. Influenza che va distinta in influenza informativa e normativa (Deutsch & Gerard, 1955). La prima si riferisce a quando un individuo, trovandosi in situazioni ambigue, confuse, incerte, assume il comportamento degli altri come fonte di informazioni e si adegua a tali condotte, pensando che gli altri possano aiutarlo ad essere nel giusto. La seconda riferisce la tendenza che hanno gli individui a conformare le proprie opinioni e i propri comportamenti al modo di agire e di pensare delle persone che stanno loro intorno, al fine di venirne accettati e apprezzati. Vi è una pressione sociale che porta a un’acquiescenza pubblica, ma non a un’accettazione privata. Nel gruppo si può provare timore della disapprovazione e quindi conformarsi per paura di essa, imitare comportamenti e giudizi dell’insieme a cui si appartiene per pura compiacenza.

Tutti questi processi psicologici danno al gruppo una connotazione negativa meglio identificata con il nome di massa. Massa che identifichiamo come un aggregato di persone facilmente malleabili allo stampo della fonte. In questo senso W. R. Bion (1961) afferma “la massa in quanto tale è sempre priva di mente” cioè acefala. Ci si conforma come pecore di un gregge. Il gruppo crea l’identità sociale dell’individuo e allo stesso tempo il suo anonimato all’interno di esso; non ricorda la differenza, l’eterogeneità che sussiste tra il nome proprio della persona e il numero, andando a confermare l’anonimato del numero. Se da un lato il gruppo garantisce le interazioni necessarie per la socializzazione e l’identificazione sociale, dall’altra parte può portare alla regressione a una condizione infantile, ovvero l’abbandono del pensiero critico.

 

Come madre “Terra”

Il legame madre-bambino è fondamentale per promuovere una crescita sana, incoraggiando, rispondendo, gioendo a ogni gesto spontaneo e creativo del bambino. 

 

Il bambino, fin dalla nascita, è alla ricerca istintiva di una relazione che richiami emozioni positive e sicure che ricerca nella sua figura accudente, la mamma. Come madre ‘Terra’, una mamma è l’origine di tutta la vita, la fonte di ogni nutrimento, che protegge dalle sue stesse calamità; ci sono terreni aridi e terreni umidi, aree sterili ed aree feconde, territori che fruttano un certo tipo di raccolti e territori che ne producono altri.

I sentimenti positivi di una madre per il piccolo possono facilitare i livelli di crescita della materia grigia del cervello limbico, della rappresentazione di sé e dell’altro, con una ristrutturazione dell’autostima e della rappresentazione corporea. Bisogna dare molta importanza anche alla qualità della voce e degli scambi vocali, insieme alle espressioni facciali e alle vocalizzazioni non verbali. Tutto ciò si basa sulla comunicazione tra emisfero destro della madre e emisfero destro del bambino.

Di conseguenza, come scrive Schore, attraverso il collegamento emisfero destro-emisfero destro e le comunicazioni non verbali visuofacciali, tattili-gesturali e auditive-prosodiche, il caregiver e il bambino imparano ognuno la struttura ritmica dell’altro e modificano il loro comportamento per adattarsi a quella struttura, quindi co-creando un’interazione specificatamente adatta al momento per momento (Schore, 2001b, p.203).

Per aiutare i bambini a una sana crescita e allo sviluppo di un vero Sé, come afferma Winnicott, è fondamentale incoraggiare, rispondere, gioire a ogni gesto spontaneo e creativo, evitando di bloccarlo e non interferendo con il giudizio.

Bowlby sottolinea come il bambino, quando non incontra il desideri e l’amore della madre, possa pensare di non essere poi degno di essere amato da nessun altro (Bowlby, 1973), un concetto simile a quello che Ferenczi ha sviluppato ben prima di Bowlby, quando parlava di ‘bambino mai accolto’ (Ferenczi, 1929).

Già dalla gestazione il legame madre-bambino risulta necessario e importante a partire dalla trasmissione delle onde sonore e delle sensazioni tattili al rilascio di ormoni ‘nutrienti al corpo e all’anima’ come la serotonina, l’ossitocina e le endorfine. La madre infatti funziona come ‘regolatore nascosto’ dei sistemi neurobiologici di crescita (Mucci, 2020)

Tra i vari elementi che giocano un ruolo nella costruzione della relazione tra la mamma e il bambino, vi è la rivisitazione da parte della madre stessa della relazione affettiva con la propria madre. Si tratta di una sorta di ritorno alla propria infanzia per comprendere le modalità della propria crescita, delle proprie relazioni, riflettendo su alcuni aspetti che l’hanno caratterizzata. Ricordiamoci che attraverso la crescita del figlio si rivive la stessa fase di crescita percorsa alla stessa età. Se ci si sente arrabbiati, nervosi verso il proprio figlio e non si riesce a dare una spiegazione, in alcuni casi è proprio perché in quel momento, inconsapevolmente, si riattivano una serie di ricordi, richiami alla propria stessa fase evolutiva.

È dalla qualità del rapporto con il genitore che si avvia l’iniziazione del processo di crescita fisico-emotiva del bambino, come un mastro Geppetto costruisce il suo pinocchio.

La violenza delle frustrazioni vissute da una madre che teme o sente di non farcela a occuparsi adeguatamente del figlio può arrivare a mettere pericolosamente in crisi il suo equilibrio personale portandola a reazioni estreme e difficilmente prevedibili di chi le sta attorno (Cancrini, 2017). Pertanto è bene affidarsi ad un esperto se si ha la consapevolezza che qualcosa può sfuggire di mano. Trattiamo bene il ‘nostro essere’, ‘essere figlia’ e il ‘nostro essere genitore’ che a specchio, rivivrà e reagirà nelle dinamiche personali, familiari e interpersonali.

 

Corso Trieste, la nostalgia come perdita del momento attuale – Rubrica Psico-canzoni

Il presente articolo, prendendo in considerazione il brano Corso Trieste del gruppo musicale I Cani, affronta il tema della nostalgia come consapevolezza della finitezza di ogni esperienza.

Psico-canzoni – (Nr.6) Corso Trieste

 

Padri stanchi tornano a casa dal lavoro in moto. È quasi buio, soltanto luci verdi e rosse ed arancioni e gialle e sotto gli alberi non fanno luce neanche quelle. Ho 15 anni e con le mani in tasca sto tornando a casa anche io e in faccia ho freddo mentre sotto la mia giacca sudo e ho un groppo in gola ma non so perché, adesso non ricordo più perché.

  Benché la canzone del gruppo I Cani, a cui appartiene il testo sopra riportato, porti il nome Corso Trieste, le emozioni descritte sono condivisibili da molti adulti, una volta adolescenti, di qualsiasi quartiere o città. Il testo di questo brano è la prova che non serve utilizzare molte parole per trasmettere all’interlocutore quello che si prova. La riuscita di un pezzo sta nella pregnanza del significato, che in questo caso è data dall’introspezione dell’artista e dalla musica di sottofondo.

La scena raccontata è quella di un uomo immerso nei ricordi più teneri dell’adolescenza.

In faccia ho freddo mentre sotto la mia giacca sudo e ho un groppo in gola ma non so perché, adesso non ricordo più il perché

è il momento dove il ricordo si allaccia al pensiero attuale. Niccolò Contessa, il cantautore del gruppo, racconta la propria nostalgia, intesa come senso di tristezza rispetto ad un’esperienza che non può rivivere.

Il groppo in gola in adolescenza poteva essere la litigata con un amico, l’attesa della risposta da parte di una ragazza, una discussione in casa, o più semplicemente un’interrogazione in arrivo. Adesso in età adulta, con un occhio interiore diverso, il groppo rispecchia la consapevolezza della finitezza e dell’irrepetibilità di ogni momento.

Una poetessa dell’antica Grecia scriveva che si è veramente felici solo quando non si sa di esserlo ed è questo il messaggio che sembra donare anche Corso Trieste. Quel ragazzo di 15 anni ci appartiene, siamo tutti noi, chi più chi meno. Ognuno a modo proprio ha sperimentato il cuore pulsante e il sudore sotto il giaccone nella strada per rientrare a casa. Quando si cresce è così difficile lasciar andare quel ragazzo dove erano riposti sogni, speranze, aspettative.

È più facile crogiolarsi ne

l’unica vera nostalgia che ho

piuttosto che vedere quello che ancora si è e si può essere. In realtà quel giovane di 15 anni che ci appartiene era solo, disorientato in mezzo alla confusione dei cambiamenti e alla tempesta emozionale ed ormonale tipica di quell’età. Attraverso eventi come l’esame di maturità un adolescente può iniziare a sperimentare che è tutto in divenire e niente resta com’è: il secondo appena trascorso già non c’è più e tutto quello che abbiamo è l’adesso.

La nostalgia raccontata in Corso Trieste è l’amarezza da adulto di non poter più rivivere certi momenti, anche lo stesso groppo in gola, perché è vero che non torneranno più.

Eppure proprio oggi, proprio ora quell’adolescente divenuto il padre stanco che torna dal lavoro in moto può scegliere se andare avanti come se nulla fosse, rimanendo nella nostalgia, o vivere appieno i momenti della vita con gioie e dolori senza far scivolare l’unicità di ogni singolo istante.

 

CORSO TRIESTE – Guarda il video del brano:

 

“Le ali della libertà” (1994) e il potere della speranza – Cinema e psicologia

Le ali della libertà è anche e soprattutto una rappresentazione accurata del concetto di speranza, di come un uomo innocente possa trovare il modo di sopravvivere all’idea che la sua vita gli sia stata rubata e che si ritrovi a pagare per un crimine che non ha commesso.

 

Andy: «Sai io dove andrei? A Zihuatanejo!»
Red: «Zihu… cosa?»
Andy: «Zihuatanejo. È nel Messico, un piccolo porto sull’Oceano Pacifico. Sai che dicono del Pacifico i messicani?»
Red: «No».
Andy: «Dicono che non ha memoria. È lì che voglio vivere il resto della mia vita: in un posto caldo senza memoria». (Le ali della libertà – Frank Darabont, 1994)

  Con questa immagine il protagonista de Le ali della libertà, Andy Dufresne (Tim Robbins) racconta al suo amico Red (Morgan Freeman) la sua idea di libertà, di redenzione. Anche se Andy, che ha trascorso circa vent’anni nella prigione di Shawshank, non ha davvero bisogno di redimersi. Le ali della libertà, film del 1994 diretto da Frank Darabont e basato sul racconto di Stephen King L’eterna primavera della speranza. Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, contenuto nella raccolta Stagioni diverse, è la storia di un uomo, il giovane bancario Andy Dufresne, condannato per l’omicidio della moglie e del suo amante. Pur proclamandosi innocente, Andy si ritrova a scontare la sua pena nel carcere di Shawshank. Ma il film di Darabont non è solo la narrazione delle vicende della vita carceraria. Certo, dipinge le difficoltà e le vessazioni che i nuovi arrivati si trovavano ad affrontare a quel tempo – la vicenda ha inizio nel 1947 – in un istituto di pena del New England; specie i detenuti come Andy che, nonostante tutto, sembra mantenere un’insolita calma per essere in un posto come quello e sapere di doverci restare per sempre. Le ali della libertà è anche e soprattutto una rappresentazione accurata del concetto di speranza, di come un uomo innocente possa trovare il modo di sopravvivere all’idea che la sua vita gli sia stata rubata e che si ritrovi a pagare per un crimine che non ha commesso.

Con queste premesse, si potrebbe pensare che Andy non sia nient’altro che un ottimista, ma – sebbene vicini tra loro – i concetti di ottimismo e speranza non sono esattamente sovrapponibili. L’ottimismo è considerato da alcuni un vero e proprio tratto di personalità che esercita una notevole influenza sul comportamento inducendo la persona ad aspettarsi risultati positivi da ogni tipo di esperienza futura (Laudadio, Mancuso, 2015). La speranza è un costrutto dalle varie sfumature. In psicologia, una delle teorie più conosciute è quella di Snyder, il quale ha individuato tre componenti centrali della speranza: goals, agency e pathways. Nel suo modello, accanto agli obiettivi si pongono l’agency – ovvero la convinzione di poter dare forma alla nostra vita rendendo le cose possibili – e i pathways – i percorsi che seguiamo e i piani che elaboriamo per raggiungere i nostri obiettivi (Weir, 2013). Le componenti agency e pathways si influenzano reciprocamente in modo continuo durante il processo che porta infine al conseguimento dell’obiettivo (Snyder, 2000). Andy sembra avere proprio un obiettivo – che viene rivelato solo alla fine della storia – un piano per raggiungerlo e la consapevolezza di poterci riuscire.

Nonostante viva i primi anni di detenzione vittima di violenza, nonostante la dura esperienza della vita carceraria e sebbene ritrovatosi da solo in quel posto così diverso dalla vita che era abituato a fare, Andy Dufresne riesce sempre a trovare con ostinazione una ragione per andare avanti. Lo fa diventando un punto di riferimento per le guardie della prigione – che, con la sua esperienza da vice direttore di una banca, si rivolgono a lui per fare la dichiarazione dei redditi o qualche investimento sicuro – oppure dando una mano a qualche giovane detenuto che non aveva mai preso il diploma. Andy è diverso da tutti gli altri e per questo viene notato e benvoluto dai suoi compagni e stringe una solida amicizia con Red che, tra tutti gli ospiti di Shawshank, era stato il primo a interessarsi a lui, forse affascinato dalla sua aria quasi spensierata che era difficile vedere da quelle parti. E rimane ancora più sorpreso quando Andy si avvicina a lui – famoso per essere un mago del contrabbando – e gli chiede di procurargli Rita Hayworth e, dopo di lei, altre bellissime attrici da appendere alle umide pareti della sua cella. Red ha trascorso più tempo dentro alle mura di Shawshank che fuori, si definisce un uomo istituzionalizzato e sa che, semmai dovessero concedergli la libertà, non sarà più in grado di vivere nel mondo reale. A Shawshank era utile, era colui che procurava le cose agli altri detenuti; fuori di lì nessuno avrebbe avuto bisogno di lui. Red, come molti altri, aveva riadattato il proprio modo di vivere al contesto istituzionale – quello penitenziario, appunto – con le sue regole – esplicite e non – e lo aveva fatto al punto da perdere la capacità di pianificare e immaginare il suo rientro nella società come individuo utile e produttivo.

Ma a volte la speranza riesce ad insinuarsi dove sembra esserci solo rassegnazione e spesso rappresenta

l’ultima risorsa a disposizione della persona quando questa si trova ad affrontare difficoltà non facilmente superabili. […] l’ultimo baluardo in grado di impedire alla persona di cadere nella disperazione più cupa. (Meazzini, 2017)

Nel corso della storia, Red affronta più volte la valutazione della commissione per la libertà vigilata che ha il compito di decidere se un detenuto possa definirsi riabilitato. Ma Red è cinico e disilluso al riguardo, al contrario di Andy che è forse l’unico uomo in quel posto ancora in grado di conservare una certa luce negli occhi, come chi si aspetta qualcosa di buono ed è consapevole che – con il giusto impegno e un po’ di fortuna – potrà arrivare dove vuole. Andy non smette di sperare durante i lunghissimi anni trascorsi a Shawshank, lo fa impegnandosi per gli altri, o anche semplicemente lavorando le pietre raccolte nel cortile con il suo martello da roccia; spera, fino al giorno in cui il suo piano potrà finalmente realizzarsi. Le ali della libertà non è solo un grande classico del cinema che riesce ogni volta ad emozionare, è molte altre cose: è una storia di amicizia, è il racconto della vita tra le mura di una prigione, è redenzione e, soprattutto, è un ritratto di speranza. Così, sognando un futuro diverso sulle spiagge assolate di Zihuatanejo, Andy spera e, inaspettatamente, riesce a convincere persino il cinico Red che

La speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai. (Le ali della libertà – Frank Darabont, 1994).

 

Tricotillomania e dermatillomania: quali sono i percorsi psicoterapeutici indicati?

La tricotillomania (disturbo da trazione dei capelli o Hair Pulling Disorder, HPD) e dermatillomania (disturbo da escoriazione o Skin Picking Disorder, SPD) sono disturbi del comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo (ing. body-focused repetitive behavior, BFRB) caratterizzati rispettivamente da trazione o rimozione compulsiva di capelli e pelle.

 

Questi disturbi sono accompagnati da disagio e/o compromissione funzionale e spesso sono piuttosto gravosi, nonché notoriamente difficili da trattare. I tassi di prevalenza per Tricotillomania e dermatillomania rientrano tra circa l’1% e il 5%, (Christenson, Pyle & Mitchell, 1991; Hayes, Storch & Berlanga, 2009) e l’età media di insorgenza è tipicamente nella prima adolescenza (Christenson & Mansueto, 1999; Wilhelm et al., 1999). Nell’articolo di Jones, Keuthen e Greenberg del 2018 sono state presentate le raccomandazioni psicoterapeutiche specifiche per queste due tipologie di disturbi (Jones et al, 2018).

Tra le tipologie di trattamento proposte, spicca l’Habit Reversal Training (HRT), tecnica comportamentale di prima linea utilizzabile per tutti i livelli di gravità, che può essere particolarmente utile quando il comportamento dell’individuo affetto da queste patologie presenta una ridotta consapevolezza. L’HRT include tre componenti: formazione alla consapevolezza, rinforzo dei comportamenti incompatibili e potenziamento del supporto sociale. Nell’addestramento alla consapevolezza, l’obiettivo è sviluppare una maggiore attenzione ai propri comportamenti di pulling/picking. Il clinico lavora innanzitutto con il paziente per ottenere una comprensione dettagliata di trazione/escoriazione e gli insegna a notare quando egli svolge questi tipi di comportamento. Successivamente, l’esperto e il paziente lavorano insieme per sviluppare un comportamento incompatibile con il BFRB, chiamato risposta competitiva. La risposta competitiva è un comportamento alternativo a quello patologico che può essere svolto discretamente in pubblico, in modo da poter essere mantenuto per 60-90 secondi. Un esempio di questo esercizio può essere stringere entrambe le mani a pugno per evitare di danneggiare pelle o capelli. Viene infine chiesto al paziente di identificare i supporti sociali da coinvolgere nella risposta competitiva, in modo che questi ultimi possano sostenerlo e motivarlo (Jones et al, 2018). Un primo studio randomizzato e controllato sulla HRT ha mostrato una riduzione significativa delle manifestazioni cliniche di pulling dei capelli del 99% (Azrin, Nunn & Frantz, 1980). Un altro studio randomizzato del 2006 su 25 adulti ha mostrato come la HRT fosse un trattamento efficace anche per l’SPD (Teng, Woods, Twohig, 2006). Infine, uno studio randomizzato del 2011 ha rivelato che i metodi cognitivo-comportamentali risultano essere efficaci per la dermatillomania in appena quattro sessioni, con miglioramenti del trattamento sostenuti a 2 mesi di follow-up (Shuck et al. 2011).

Un altro ottimo metodo utilizzato in terapia comportamentale è l’addestramento al controllo dello stimolo, che implica la modifica dell’ambiente per ridurre gli antecedenti comportamentali e limitare le conseguenze rinforzanti dei comportamenti. La riduzione degli antecedenti può favorire la limitazione dei fattori scatenanti comportamentali (p. es., rimuovere pinzette o specchietti), fornire comportamenti alternativi (p. es., manipolare un antistress), aumentare le barriere per il comportamento (p. es., indossare guanti/cappello o tenere le unghie corte) o potenziare la consapevolezza relativa ai comportamenti patologici (p. es., posizionare un cerotto sul dito o indossare braccialetti che fanno rumore con il movimento del braccio) (Jones et al, 2018).

Trattamenti altrettanto qualificati nella cura di questi disturbi sono la Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ing. Acceptance and Commitment Therapy, ACT) e la Terapia Dialettico Comportamentale (ing. Dialectical Behavioural Therapy, DBT), psicoterapie che possono essere impiegate in concomitanza con la tecnica del controllo dello stimolo, specialmente quando le emozioni negative innescano il pulling o il picking (Hayes, 2004; Linehan, 1993). L’ACT e la DBT implementano impegno e consapevolezza per ridurre l’emozione disfunzionale alla base di queste tipologie di disturbi (Jones et al, 2018). L’ACT utilizza una serie di metafore ed esercizi comportamentali per facilitare l’accettazione delle esperienze interiori negative. Viene posto l’accento su come il BFRB possa essere in conflitto con una “vita di valore” e sottolinea come i mancati tentativi di controllare gli impulsi siano stati spesso infruttuosi. Viene insegnato al paziente a “cavalcare l’onda” dell’emozione fino a quando la sensazione o l’impulso a manipolare/strappare non passa. La DBT utilizza invece un approccio basato sulle competenze, che enfatizza contemporaneamente il cambiamento e l’accettazione del problema. Il protocollo DBT adattato per la tricotillomania è composto da tre moduli: lavoro sulla consapevolezza, regolazione delle emozioni e tolleranza al disagio (Keuthen et al., 2011). Per quanto riguarda la tricotillomania, uno studio ha dimostrato che una combinazione di terapia ormonale sostitutiva e ACT ha portato a una riduzione non solo delle manifestazioni cliniche del pulling, ma anche dell’ansia e delle manifestazioni depressive correlate. I miglioramenti del trattamento sono stati sostenuti al follow-up di 3 mesi (Woods et al., 2006). Inoltre, uno studio del 2010 ha mostrato come utilizzando una combinazione di HRT e DBT si verificasse una riduzione delle manifestazioni cliniche dell’HPD, nonché delle manifestazioni cliniche di ansia e depressione, con un certo mantenimento di benefici al follow-up di 3 e 6 mesi (Keuthen et al., 2011). Per quanto riguarda il disturbo da escoriazione della pelle, uno studio pilota del 2008 ha dimostrato come una combinazione di HRT e ACT fosse efficace per fronteggiare la dermatillomania (Flessner et al., 2008).

In conclusione, la ricerca di Jones e collaboratori ha identificato Habit Reversal Training, Controllo dello stimolo, ACT e DBT come trattamenti maggiormente indicati per problematiche di comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo, come tricotillomania e dermatillomania.

 

Quali sono gli aspetti che determinano il nostro agire? Piani, temi e credenze. Partecipa alla ricerca!

PIANI, TEMI E CREDENZE: QUALI SONO GLI ASPETTI CHE DETERMINANO I NOSTRI MODI DI AGIRE – PARTECIPA ALLA RICERCA!

La concettualizzazione del caso in psicoterapia è la cornice delle ipotesi sui problemi del paziente, sulla loro natura e sulle possibili cause. (Horowitz & Eells, 1993). Diversi modelli in psicoterapia cognitivo comportamentale raccomandano l’uso della concettualizzazione del caso per garantire interventi e strategie adeguati alle circostanze specifiche del paziente (vedi Clark & Beck, 2010). I modelli di concettualizzazione si sviluppano quindi parallelamente all’approccio cognitivo comportamentale, per poi evolversi e arricchirsi in base ai progressi della conoscenza in questo ambito. Nel panorama attuale si assiste a una frammentazione di teorie e modelli che ha condotto alla possibilità di formulare numerose concettualizzazioni cliniche differenti, volte spesso a sostenere un tipo di intervento specifico. Manca invece una chiave di lettura comune e trans-diagnostica, “laica” rispetto alla specifica tecnica, che permetta la pianificazione del percorso terapeutico e lo scambio di informazioni tra professionisti, senza tralasciare le variabili di processo che già da tempo la letteratura ha evidenziato come elementi nucleari del funzionamento individuale (Flavell, 1979).

Questa necessità viene colmata dal modello LIBET (Sassaroli, Caselli e Ruggiero, 2016), che nasce dalle intuizioni cliniche e dall’esperienza di ricerca di professionisti di eccellenza nel panorama CBT. Il modello LIBET concettualizza la sofferenza psicologica attraverso due componenti:

(1) i temi di vita, costituiti da stati mentali negativi e aspetti di vulnerabilità verso cui l’individuo si focalizza. Tali stati mentali sono solitamente manifestati attraverso credenze sul sé e sensazioni corporee. I temi di vita sono poi sostenuti da credenze relative alla loro intollerabilità e alla loro capacità di condizionare la vita quotidiana.

(2) I piani sono strategie rigide e volontarie, volte ad evitare il contatto con i temi di vita. I piani vengono adottati a scapito di aree significative dello sviluppo personale e sono sostenuti da credenze relative alla loro utilità, al condizionamento sul presente e alla loro incontrollabilità. Il fallimento di tali tentativi semi-adattivi di gestione di stati negativi – spesso causato da credenze rigide su essi – porterebbe alla sofferenza psicologica.

Per questo motivo Studi Cognitivi, insieme alla Sigmund Freud University di Milano, sta conducendo una ricerca nella popolazione generale che indaga quali siano gli stati d’animo negativi maggiormente diffusi, quali le strategie per gestirli e quali le credenze su questi aspetti, allo scopo di validare il modello e favorire una lettura condivisa in ambito cognitivo comportamentale.

Il tuo contributo è importante, partecipa alla ricerca e aiutaci a diffonderla!


Identikit del paziente a rischio suicidario – Video del Webinar organizzato da Scuola Cognitiva di Firenze

Scuola Cognitiva di Firenze, in associazione con Studi Cognitivi, ha organizzato un incontro formativo sulla tematica del suicidio e del rischio suicidario.

 

Il webinar rientra tra gli incontri formativi gratuiti “Pratichiamo la teoria”, una serie di webinar rivolti a studenti e professionisti della salute mentale (psicologia, psichiatria, medicina), che affrontano ciascuno un argomento di interesse clinico con particolare riferimento alla sfera pratica.

L’incontro, promosso da Scuola Cognitiva di Firenze, si è concentrato sull’identikit del paziente a rischio suicidario e sulla valutazione del rischio suicidario, atto definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come un “attentato alla propria vita con grado variabile di intenzione di morte”, che comprende aspetti biologici, genetici, psicopatologici, sociali, economici e culturali.

Relatrice è stata la dr.ssa Stefania Righini che, dopo un’introduzione teorica, ha presentato anche le principali tappe del trattamento con particolare riguardo alla pianificazione e all’attuazione delle possibili strategie di cura e di prevenzione.

 

IDENTIKIT DEL PAZIENTE A RISCHIO SUICIDARIO – Guarda il video integrale del webinar:

 

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Tecniche immaginative per la stabilizzazione: il posto sicuro

Tra le tecniche di stabilizzazione dei sintomi troviamo anche quelle immaginative che servono al paziente per rientrare nella finestra di tolleranza e abbassare l’attivazione emotiva e fisiologica, come spiegato nell’articolo precedente.

 

In quest’articolo ci focalizzeremo su una delle tecniche immaginative che consiste nel fare visualizzare un posto sicuro al paziente. La tecnica del “posto sicuro” è una delle strategie di grounding possibile da utilizzare sia nel setting clinico che in autonomia quando l’individuo si sente sopraffatto da emozioni e sensazioni soverchianti che lo riportano al momento del trauma. Attraverso questa specifica tecnica il paziente può distogliere l’attenzione dalle reazioni iperattivanti connesse al trauma, dai flashback, dalla sensazione di paura e di impotenza e dai possibili agiti autodistruttivi e impulsivi. Questa tecnica può essere utilizzata nel contesto clinico sia nella fase di stabilizzazione dei sintomi sia quando si inizia a lavorare sulle memorie traumatiche entrando nel vivo del lavoro terapeutico, fase in cui è importante mantenere il paziente in uno stato di attivazione funzionale, evitando l’iperarousal così come l’ipoarousal con i sintomi dissociativi ad essi connessi. Oltre che a distrarre il paziente questa tecnica è molto utile anche per il suo effetto calmante. Illustreremo quindi di seguito cosa dire al paziente nella pratica terapeutica ma anche quello che possiamo dirci in tutte quelle circostanze nel quale ci sentiamo momentaneamente senza via di fuga e esperimentiamo un alto livello di stress.

Immagina un posto sicuro, un posto nella tua vita nel quale ti sei sentito molto tranquillo, al sicuro e protetto. Puoi porre maggiormente attenzione alla sensazione di pace, come per esempio dinnanzi a un bel tramonto sulla spiaggia, oppure sulla sensazione di sentirti al sicuro e protetto, come in un’isola disabitata dove hai la possibilità di avere una vista completa di tutto e tutti. Il tuo posto sicuro può essere un posto di fantasia, dunque creato dalla propria fantasia, o un posto reale dove ti sei messo al sicuro in passato e ti sei sentito protetto. Esempi di posti tranquilli e sicuri possono essere un luogo di montagna dove hai sperimentato una sensazione di bellezza e silenzio, o la tua sedia preferita dove abitualmente ti siedi difronte a un camino, o ancora su di una barca lontana dalla riva in una splendida giornata di sole. Altri esempi di posti sicuri che incontriamo nel mondo reale sono: gli alberi in un bosco o in una foresta, la casa di un nostro parente nel quale fin da bambini ci siamo sentiti protetti e accuditi. Il tuo posto sicuro può includere alcune persone importanti nella tua vita o puoi scegliere di essere solo. Puoi rifugiarti nel tuo posto sicuro utilizzando l’immaginazione per scampare dai ricordi traumatici e le emozioni connesse all’evento traumatico, così come dai trigger e dallo stress. Il tuo posto sicuro può includere qualsiasi cosa e chiunque tu voglia, con tutti i dettagli che preferisci. Più dettagli immagini più sarà facile allontanarti dalle sensazioni di impotenza e terrore connesse al trauma. Chiudi gli occhi se lo desideri e segui la tua immaginazione: viaggia nel posto che vuoi, un posto che ha le condizioni che tu vuoi, pensando che né i soldi né il tempo corrispondono a dei limiti.

Dove sei ora? Immaginati lì. Guardati intorno, poni particolare attenzione a cosa vedi, cosa noti? Cosa guardi? Quello che vedi di bello è qui, notalo, fallo tuo, senti e percepisci che è buono.

Il suono che senti è il suono che vuoi sentire. Cosa senti? Notalo, fallo tuo, senti e percepisci che è buono.

Ciò che osservi in termini di temperatura è esattamente quella che preferisci, come è percipita? Notala, senti e percepisci che è buona, falla tua.

Nota i profumi, sono esattamente quelli che ami. Che odore senti? Cosa percepisci? Sentilo, notalo e fallo tuo. Se vuoi assaggiare qualcosa puoi farlo.

Assaggia qualcosa di buono, quello che vuoi, percepiscilo e senti quanto questo sia buono per te.

Cosa stai facendo? Sei seduto, sei in piedi, o altro? Sai che è esattamente quello che vorresti fare lì in questo momento. Notalo e fallo tuo, senti e percepisci quanto ti faccia sentire bene!

Sei con qualcuno o sei solo? Nota che è esattamente il modo in cui vorresti essere lì e fallo tuo.

Adesso puoi fare tuo e accogliere in te tutto. Senti e percepisci quanto questo sia buono, notalo e fallo tuo. Questo è il tuo posto, puoi venire qui tutte le volte e per tutto quanto il tempo tu lo desideri e quando ne hai bisogno. Quando sei pronto puoi tornare indietro nella realtà, puoi aprire gradualmente gli occhi e riorientarti nella stanza, nel qui ed ora. Puoi ritornare però nel tuo posto sicuro ogni volta tu voglia. Hai un posto sicuro come luogo temporaneo dove andare quando ti senti sopraffatto dalle reazioni connesse al trauma. Non dovrebbe essere utilizzato in modo eccessivo in quanto non è un’alternativa alla sicurezza e alla sensazione di protezione, ma solo un posto per stabilizzarsi temporaneamente. In altre parole le tecniche immaginative non dovrebbero essere usate in modo eccessivo ma piuttosto in modo saggio come modo per distrarsi dalla sensazione di impotenza, emozioni forti e comportamenti impulsivi.

Qualora la persona avesse più “parti” (parti dissociate dell’identità), può lavorare in terapia nel porre tutte le parti in un luogo sicuro dove possono ritornare quando hanno il bisogno di sentirsi protetti dalle diverse situazioni quotidiane che possono essere percepite come prevaricanti. Si può anche pensare di comprendere se già si ha un concreto posto sicuro e qualora non fosse così di stabilirlo nella realtà fisica. Un luogo reale per creare un senso di sicurezza interna dove si può andare quando ci sentiamo particolarmente spaventati o sotto stress, in particolar modo per chi è sopravvissuto al trauma.

Prendiamoci tempo per creare e stabilire il nostro posto sicuro.

 

Ipocondria e paura delle malattie: breve analisi dei principali approcci psicoterapeutici e differenziazioni dell’approccio Breve Strategico

I principali approcci clinici all’etichetta ipocondria sono quello Psicoanalitico, quello della Terapia Cognitivo-Comportamentale e quello della Terapia Breve Strategica. Essi, per quanto differenti, hanno in comune alcuni costrutti sui quali ritengono necessario intervenire nella terapia.

 

Nella medicina ippocratica il termine ipocondria veniva usato per indicare persone afflitte da melanconia, una condizione che, con termini più moderni, potremmo definire di immotivata tristezza, ansia, spavento, depressione e spossatezza psicofisica‘ (Bartoletti, Nardone, 2018). Il DSM-5 ha operato un cambiamento rispetto alla versione precedente, il vecchio termine ipocondria è stato suddiviso all’interno delle classificazioni di Disturbo da Sintomi Somatici e Disturbo da Ansia di malattia. Il primo è un quadro clinico più orientato sui sintomi e il secondo più sugli aspetti di ansia e paura associati anche se le diciture dei criteri appaiono molto simili e nella realtà clinica non offrono grandi soluzioni per la differenziazione. Più che delle categorie vere e proprie sembrano delle osservazioni su un continuum di un quadro con pochi aspetti oggettivi e molti aspetti soggettivi. L’unico criterio utilizzato per la differenziazione pare la presenza di sintomi, che pure sono presenti nel disturbo da Ansia di Malattia. La presenza/assenza di sintomi sembra quindi non differenziare affatto.

Inutile sottolineare ancora che dal punto di vista clinico, queste etichette non sono soddisfacenti. Questo non per una posizione ideologica per appartenenza professionale, nei fatti esse non rappresentano la realtà clinica ma solo una semplicistica riduzione. Anche se è stato fatto un piccolo passo in avanti, siamo ancora in un’ottica che divide mente e corpo.

I principali approcci clinici all’etichetta ‘ipocondria’ sono quello Psicoanalitico, quello della Terapia Cognitivo-Comportamentale e quello della Terapia Breve Strategica. Essi, per quanto differenti (segue un elenco delle principali metodologie) hanno in comune, oltre che l’obiettivo di curare i pazienti attraverso il dialogo clinico, alcuni costrutti sui quali ritengono necessario intervenire nella terapia:

  • Amplificazione somatosensoriale: una tendenza ad amplificare selettivamente i sintomi fisici a causa di tre aspetti correlati e concomitanti, a) un aspetto percettivo per cui il soggetto manifesta un’elevata vigilanza e controllo delle proprie sensazioni fisiche comuni, b) un aspetto cognitivo di attenzione selettiva per cui, nella miriade di sensazioni interne ed esterne che colpiscono una persona, il soggetto è specificamente portato a selezionare quelle oggetto di attenzione; c) un aspetto comportamentale per cui il soggetto reagisce alle inevitabili (perché fisiologiche e perché amplificate dai processi attenzionali di cui sopra) sensazioni somatiche anche deboli e poco frequenti, creando un circolo vizioso automatico (più sono attento, più percepisco le sensazioni che provengono da una o più zone critiche del corpo; e più le percepisco, più sono attento a quando e a come si ripresentano) che le rende sempre più disturbanti. L’amplificazione somatosensoriale può essere un tratto stabile del funzionamento del soggetto o anche uno stato temporaneo (Porcelli, 2014, pagg. 31,32).
  • Ansia eccessiva per la salute: questa condizione, strettamente collegata con la precedente può considerarsi adattiva e funzionale ad esempio in presenza di precedenti episodi di rilevanza medica ma allo stesso tempo condurre ad un’amplificazione somatosensoriale. Quando persiste per lunghi periodi genera un’abitudine disfunzionale verso la ‘catastrofizzazione’ e ad una presenza continua di convinzioni errate sulle proprie sensazioni. Si è così portati ad esercitare un maggiore controllo.

L’approccio Psicoanalitico considera le sintomatologie fisiche non come la risultante di pulsioni rimosse (come nel passato) ma come un equivalente di un’espressione emotiva non esplicitata in un quadro che attribuisce importanza allo studio dei rapporti intercorsi tra il soggetto e il caregiver quale figura fondamentale per comprendere le ambivalenze affettive (un processo ritenuto fondamentale nella differenziazione tra il Sé e gli altri e nella formazione delle ideazioni mente-corpo).

I disturbi psicosomatici vengono intesi quindi come diretta conseguenza di qualcosa che è accaduto nel passato ed espresso nel presente come un deficit relazionale. La terapia psicoanalitica quindi è focalizzata sulla relazione con il terapeuta che da una parte dovrà svolgere una funzione di ‘contenitore’ emotivo delle parti scisse dell’Io e dall’altro educare a riconoscere e differenziare gli affetti. Si parla in questo caso di alessitimia proprio per riferirsi ad un deficit di elaborazione cognitiva delle emozioni. Per questa corrente teorica le relazioni precoci problematiche diventano importanti poiché si ritiene che risposte inadeguate alle emozioni del bambino influenzino in modo determinante la sua capacità di autoregolare sia gli stati emotivi che quelli neurobiologici (Porcelli, pag.41, pag.92, in Zacchetti, Castelnuovo, 2014).

La terapia Cognitivo Comportamentale considera invece la storia evolutiva del soggetto psicosomatico non come unica determinante della personalità ma come una delle componenti che hanno costruito il modo di pensare, di elaborare le informazioni, di vivere le emozioni e comportarsi. In questo approccio ricorrono alcune dimensioni che si pensa contribuiscano alla somatizzazione come ad esempio fattori genetici, locus of control esterno, alessitimia e aspetti cognitivi.

Il paziente psicosomatico ‘costruisce’ il disturbo partendo dal circolo vizioso percezione-cognizione-comportamento dove l’attenzione a sensazioni somatiche è molto alta ed alimenta cognizioni distorte di malattia, legate a convinzioni di essere necessariamente predisposto a patologie gravi. La terapia è incentrata a modificare questa cognizione distorta della realtà e ad acquisire maggiore auto-consapevolezza (Zacchetti, Castelnuovo, 2014).

Il terapeuta cognitivo comportamentale guida il paziente attraverso un processo basato sulla consapevolezza e sullo sforzo volontario a imparare come combattere o gestire il disturbo. Le tecniche dell’approccio cognitivo comportamentale derivano dalle teorie dell’apprendimento‘ (Bartoletti, Nardone, 2018).

Zacchetti scrive: ‘come acutamente osserva Porcelli non si sono sviluppate nell’ambito della psicosomatica moderna delle tecniche specifiche per questi disturbi, soltanto delle teorie che in ambiti diversi (psicoanalisi e cognitivismo) hanno cercato di spiegare ed interpretare i sintomi psicosomatici‘ (Zacchetti, 2014).

La Terapia Breve Stategica evoluta, pur avendo alcuni aspetti in comune con la Terapia Cognitivo Comportamentale, si discosta nettamente dagli approcci sopracitati. A differenza degli altri impianti teorici la Terapia Strategica non solo non è interessata al passato ma soprattutto non ‘interpreta’ i fenomeni. La Terapia Breve Strategica in funzione alle diverse logiche sottostanti, procede alla risoluzione dei problemi in tentativi d’errore progressivi sino allo sblocco. Una volta che le stesse strategie sono risultate efficaci per la stessa classe di problemi, si struttura un nuovo protocollo operativo. E’ la soluzione che ‘spiega il funzionamento del problema, e non la teoria che ne è a monte‘.

La T.B.S. si differenzia dagli approcci Psicodinamici e Cognitivo-comportamentali i quali considerano parte fondamentale della terapia la ristrutturazione cognitiva del sintomo che inevitabilmente avviene anche nell’approccio strategico ma solo successivamente; cioè dopo essere passati attraverso l’azione ed aver esperito concretamente un cambiamento. Il cambiamento effettivo e duraturo non può avvenire per ‘sforzo’ volontario ma solo dopo aver esperito concretamente qualcosa di diverso: una vera e propria ‘esperienza emozionale correttiva’.

Il cambiamento effettivo prevede non solo il cambiamento delle cognizioni ma soprattutto quello delle percezioni le quali innescano emozioni che a loro volta influenzano le cognizioni ed i comportamenti. Tale cambiamento per essere effettivo deve passare attraverso concrete esperienze‘ (Nardone, 1995).

Si rende necessario, quindi, che un intervento finalizzato a produrre un cambiamento di tale portata (cioè di secondo tipo) debba riuscire a creare nella percezione del soggetto un’esperienza diversa nella realtà che egli vive. A livello operativo si sostanzia una terapia in grado di influenzare il paziente nella direzione di esperienze concrete da vivere che permetteranno il ‘cambio di schema’ necessario per il superamento del problema attraverso l’uso terapeutico di tecniche suggestive e stratagemmi che ricalchino la logica a volte paradossale a volte contraddittoria degli schemi che reggono il problema.

Questo tipo di intervento è reso possibile dall’adozione, nell’elaborazione delle strategie, di modelli logici inediti che vanno oltre la logica ordinaria e che si fondano su logiche non-ordinarie come paradosso, contraddizione e credenza‘.

L’essere umano costruisce il proprio comportamento sulla base delle proprie e personali percezioni in un dinamismo a causalità circolare. Agendo sulle ‘tentate soluzioni disfunzionali’ bloccando o modificandone la ricorsività, potremmo bloccare il circolo vizioso che alimenta e sostiene il problema e creare un cambiamento all’interno dell’omeostasi del sistema percettivo reattivo (SPR).

In questo processo di scoperta, le soluzioni che hanno funzionato, hanno rappresentato successivamente uno strumento esplorativo e laddove hanno portato all’estinzione completa del disturbo ne hanno spiegato il funzionamento e la logica sottostante.

Le principali ‘tentate soluzioni’ riscontrabili in quadri ipocondriaci sono: evitamento totale e/o precauzioni circa le situazioni o pensieri che scatenano reazioni fobiche o all’opposto eccessivo ricorso ad esami clinici. Continua richiesta di rassicurazione tramite sfogo relazionale, attenzione focalizzata sul controllo dei parametri fisiologici e sulle sensazioni fisiche, difficoltà a stabilire un contatto sereno e prolungato con le proprie sensazioni.

A partire dallo studio dei sistemi percettivi reattivi sottostanti possiamo parlare di tre copioni ipocondriaci principali: un’ipocondria fobica, una classica ed una somatica. Si tratta di una distinzione operativa ovvero dettata dalle diverse tipologie di ‘tentate soluzioni’ che, nel corso dell’esperienza clinica sono risultate come quelle messe in pratica maggiormente dai pazienti e ‘rotte’ le quali, si è arrivati alla risoluzione del disturbo. Ancora una volta, la soluzione ha spiegato il problema e non la teoria a monte.

Se per la terapia Psicoanalitica e per la Terapia Cognitivo-comportamentale le somatizzazioni, le fibromialgie e le espressioni psicosomatiche in genere sono trattate allo stesso modo all’interno del rispettivo impianto teorico, questo non accade per la Psicoterapia Breve Strategica poiché l’esperienza suggerisce che esistono diversi ‘copioni ipocondriaci’, ognuno con delle tentate soluzioni prevalenti che reggono e alimentano il disturbo le cui logiche sottostanti rispondono a criteri completamente diversi:

  • Ipocondria classica: (sistema percettivo reattivo ossessivo) ansia eccessiva per la salute e amplificazione somatosensoriale prodotte principalmente dalla continua e costante richiesta di rassicurazione per mezzo di socializzazione del problema, consulto medico, richiesta esami diagnostici. Paura costante in assenza di espressioni sintomatiche. Si è in continua ricerca dell’etichetta diagnostica che possa spiegare. Non sono presenti condotte di evitamento. Il desiderio principale del paziente è trovare qualcuno o qualcosa che possa sciogliere il dubbio ossessivo ed esercitare il controllo.
  • Ipocondria fobica o patofobica (sistema percettivo reattivo fobico ossessivo) ansia eccessiva per la salute e amplificazione somatosensoriale prodotte principalmente da condotte di evitamento a base fobica. Il solo nominare le malattie crea attivazione sensoriale per cui si evita la socializzazione come le visite diagnostiche perché troppo paurose. La paura e l’attenzione sono concentrate spesso su una sola malattia o su un solo organo bersaglio. Per il paziente l’obiettivo principale è evitare qualsiasi situazione ritenuta rischiosa.
  • Ipocondria somatica: (sistema percettivo reattivo ossessivo compulsivo) ansia eccessiva per la salute e amplificazione somatosensoriale, sono presenti espressioni sintomatiche. Queste si presentano in più zone diverse del corpo e i sintomi variano con alta frequenza anche in brevi periodi di tempo. Il problema principale è rappresentato dal dolore/fastidio, ipervigilanza sulle sensazioni nocicettive, il controllo è diventato compulsivo e occupa tempi significativi nella routine del soggetto. Spesso i fastidi/dolori hanno carattere migratorio e non sono percepiti quando il paziente è cognitivamente impegnato nell’esecuzione di compiti complessi. Si è in continua ricerca di qualcosa che elimini il sintomo e/o il fastidio, non dell’etichetta che fornisce spiegazione. Non sono presenti condotte di evitamento.

In tutti i casi sono presenti le dimensioni della paura e del controllo ma la preponderanza dell’uno o dell’altro e le specifiche tentate soluzioni suggeriscono l’intervento di tecniche e strategie diverse.

Per ognuna delle tre diverse tipologie di ipocondria l’esperienza clinica strategica utilizza delle manovre specifiche ‘ad hoc’ che mirano a sbloccare le diverse tentate soluzioni responsabili del mantenimento/peggioramento del disturbo: ‘ritualizzazione del rituale’ (Nardone, Portelli, 2013), il ‘check up’ (Bartoletti, Nardone 2018), la ‘worst fantasy’ (Nardone, 1995).

 

Synchronicity: The Epic Quest to Understand the Quantum Nature of Cause and Effect (2020) di Paul Halpern – Recensione

Synchronicity riflette su come la storia della scienza conosca diversi casi in cui intuizioni geniali vennero a lungo dimenticate sulla base di confutazioni solo apparentemente definitive.

 

Empedocle comprese che la velocità della luce fosse limitata, mentre Aristotele argomentò che doveva essere infinita, altrimenti, per esempio, guardando il sole dovremmo vedere ‘avvicinarsi’ la sua immagine. Talora è accaduto che grandi scienziati compissero importanti scoperte e allo stesso tempo credessero a idee pseudo-scientifiche. Newton si dedicò all’alchimia. Alfred Russel Wallace, ricorda Paul Halpern, scoprì indipendentemente da Darwin l’evoluzione da selezione naturale ma credeva nella realtà dei fenomeni medianici e nella veridicità delle sedute spiritiche. Più di recente, potremmo aggiungere, scienziati vincitori di premi Nobel hanno propalato le idee più bizzarre (si pensi a come Luc Montagnier abbia sostenuto l’uso papaya per curare il Parkinson, l’esistenza della memoria dell’acqua che proverebbe la fondatezza dell’omeopatia o la possibilità che i vaccini provochino l’autismo). All’inverso, è accaduto che ipotesi poi rivelatesi come empiricamente solide fossero sostenute in origine da argomenti cervellotici: un esempio classico è la nascita del modello planetario di Keplero sulla base di convinzioni a priori sulla necessaria armonia universale. Insomma, come scrive sempre Paul Halpern: ‘anche gli scienziati non sempre sono in grado di separare il reale dall’illusorio’.

Un caso particolare di come un’intuizione rivelatasi poi feconda sia nata in modo singolare è quella di sincronicità (dalla quale prende il nome il libro di Halpern):

Il termine venne coniato nel 1930 dallo psicologo svizzero Carl Jung, come un ‘principio di connessione acausale’. Per quanto riconducesse l’idea a discussioni con Einstein a proposito della relatività, oltre che a analisi personali di sogni, coincidenze e archetipi culturali, la nozione prese il volo a partire da dialoghi con Pauli a proposito di nuovi aspetti della fisica quantistica, che la distinguevano dal classico determinismo meccanicistico. Retrospettivamente, gli insight di Jung a proposito del bisogno di un nuovo principio acausale nella scienza erano brillanti e anticipatori. D’altra parte, la sua bassa soglia [rispetto alla necessità di verifica] nell’accettare prove aneddotiche sulle ‘coincidenze significative’, senza applicare l’analisi statistica per escludere le correlazioni spurie era un serio limite al suo lavoro. Jung credeva alla sua intuizione rispetto a come le cose risultavano connesse. Ma alla luce della capacità della mente di costruire talvolta falsi legami, la pura intuizione in sé non è scienza genuina (p. 16).

Ma chi erano Jung e Pauli, quando si incontrarono e cosa li aveva fatti incontrare negli anni trenta?

Carl Gustav Jung era uno dei più importanti psicoterapeuti del secolo. Dopo l’incontro con Freud nel 1906 e un breve periodo di collaborazione che ebbe termine nel 1913, Jung aveva fondato la psicologia analitica. Pur avendo tratti in comune con la psicoanalisi, la teoria di Jung se ne distaccava per molti versi. Essenzialmente: (1) non considerava la sessualità come unica base motivazionale del comportamento umano (onde la libido non andava considerata come ‘energia sessuale’ ma come ‘energia psichica’); (2) specialmente non considerava la psicosi come riconducibile a problematiche sessuali (vedi già Jung, 1907); (3) riteneva che l’inconscio non fosse solo individuale, ma conservasse tracce comuni in tutti gli esseri umani (Jung, 1912); (4) considerava ogni teoria psicologica il frutto della soggettività (o al massimo del tipo psicologico) del proprio autore e quindi auspicava la possibile convivenza del modello di Freud, di quello di Adler, del proprio e di futuri modelli che fossero nati in seguito (Jung, 1913; 1921). Freud, che aveva già mal tollerato i primi tre punti, non perdonò a Jung quest’ultima presa di posizione, alla quale seguì una vera e propria scomunica, con il violento pamphlet Per la storia del movimento psicoanalitico (Freud, 1914). Quando ebbe modo di incontrare Wolfgang Pauli, nel 1930, Jung era nel pieno delle sue riflessioni sulla natura degli archetipi, ovvero dei contenuti dell’inconscio collettivo. Tali riflessioni lo avevano condotto a spedizioni antropologiche (si vedano Jung, 1925; 1961) e lo portavano a confrontare le leggende dei popoli cosiddetti primitivi, i simboli dei sogni di pazienti moderni e quelli contenuti, per esempio, in antichi testi cinesi come l’I King e Il segreto del fiore d’oro, o nelle opere degli alchimisti occidentali, che fino ad allora erano apparsi agli storici come meri balbettamenti iniziali di una scienza, la chimica, ancora in fase preistorica.

Pauli, iniziato alla fisica giovanissimo addirittura da Ernst Mach, che era un amico di famiglia, aveva rivelato assai presto il suo enorme potenziale redigendo a 21 anni un’esposizione sintetica della Teoria della relatività che lo stesso Einstein apprezzò enormemente (Pauli, 1921). A 25 anni aveva formulato il ‘principio di esclusione’, per il quale due elettroni o due protoni non possono occupare simultaneamente lo stesso ‘stato quantico’ (cioè gli stessi valori per i ‘numeri quantici’ fino ad allora conosciuti e per una quarta misura che introdusse egli stesso, cioè lo spin o rotazione). In seguito si scoprì che lo stesso principio valeva anche per i neutroni, dei quali non si conosceva ancora l’esistenza, e che lo stesso Pauli contribuì a far scoprire. La formulazione del principio di esclusione era valsa a Pauli una fama immediata e universale tra i fisici (gli avrebbe assicurato il Nobel nel 1945) ma la sua vita privata non procedeva in maniera altrettanto brillante. Il suo matrimonio con una ballerina di cabaret, nel 1930, durò in pratica poche settimane. Già provato dalla morte della madre, Pauli fu preda di una grave depressione e iniziò a bere. Consigliato dal padre, si rivolse a Jung per aiuto. Nella convinzione che Pauli dovesse innanzi tutto risolvere problemi con le figure femminili, Jung lo affidò alle cure di una sua allieva, Erna Rosenbaum, che in effetti lo aiutò rapidamente a risollevarsi dalla propria condizione e a recuperare una condizione creativa. Nel 1931, in effetti, Pauli avanzò un’altra congettura destinata a far progredire ulteriormente la fisica: l’esistenza di una nuova particella subatomica (le cui caratteristiche corrispondono a quello che oggi è chiamato ‘neutrino’).

Pauli decise nondimeno di incontrare periodicamente in persona lo stesso Jung fra il 1932 e il 1934. Per l’entusiasmo di Jung, il brillante fisico si caratterizzava per una produzione onirica enorme ed era in grado di ricordarla in ogni dettaglio. Già nell’analisi con Erna Rosenbaum, Pauli riferì centinaia di sogni, nei quali ricorrevano motivi simbolici che colpirono Jung per la rassomiglianza con quelli ricorrenti nell’alchimia. Dato che neanche Erna Rosenbaum era ancora a conoscenza delle ricerche di Jung in questo ambito, questi poteva essere in effetti convinto di non avere influenzato la vita onirica di Pauli neanche indirettamente.

Molti dei sogni di Pauli vennero riprodotti in sequenza (all’epoca anonimamente) all’interno di una delle opere più note di quello che si potrebbe definire il ‘secondo Jung’, ovvero Psicologia e alchimia (Jung, 1943) e inoltre nelle lezioni tenute all’ETH di Zurigo (ancora in parte inedite, in corso di pubblicazione nella Philemon Series di Princeton University Press). I sogni di Pauli costituivano, ad avviso di Jung, una testimonianza particolarmente significativa di come gli archetipi dell’inconscio collettivo trovassero espressione nel mondo onirico, variando singoli elementi eppure riproponendo simbolismi assai simili attraverso lo spazio e il tempo. La circostanza che attraverso l’alchimia lo studio della materia riconducesse allo studio della psiche affascinò anche Pauli, che si propose di contribuire come fisico al rinnovarsi di un simile scambio. La psicologia analitica diveniva così, per Jung e Pauli, una sorta di equivalente moderno dell’alchimia.

Il rapporto tra Jung e Pauli è testimoniato da un ampio epistolario, disponibile anche in traduzione italiana (Jung e Pauli, 2016). Pauli, all’inizio del carteggio, pur essendo uno scienziato già noto, si rapporta a Jung come a una figura paterna (Jung del resto era di venticinque anni più anziano). Le sue considerazioni riflettono un’accettazione convinta della psicologia analitica junghiana. Nelle primissime lettere emergono sia alcuni problemi nevrotici già affrontati e risolti nel percorso analitico (come la fobia delle vespe), sia alcune ipotesi interpretative su di sé e sul rapporto con la compagna nelle quali Pauli adotta una terminologia specificamente junghiana (Animus, Ombra etc.). Tuttavia, fin da subito il più giovane fisico si dimostra tutt’altro che passivo di fronte alle interpretazioni junghiane del proprio universo onirico: per esempio propone delle chiavi di lettura diverse da quelle junghiane proprio per i sogni destinati alla pubblicazione.

Jung, da parte sua, considerava l’incontro con Pauli un’occasione fondamentale per mettere alla prova nel dialogo con un illustre esponente delle scienze hard alcune delle proprie ipotesi più speculative sulla natura della mente e sul rapporto tra mondo psichico e mondo fisico. Va rilevato, da questo punto di vista, che l’atteggiamento di Jung è molto cauto, nelle opere edite, a proposito della natura degli archetipi dell’inconscio collettivo. Lo psicologo svizzero sembra oscillare tra l’idea che l’essere umano possa ereditare dei contenuti appartenenti all’esperienza umana primordiale e l’idea che l’ereditarietà sia soltanto la potenzialità di tali contenuti. Come Freud, Jung sembra attratto dalle ipotesi lamarckiane ma cauto di fronte alle stringenti riserve opposte dai biologi evoluzionisti (mi permetto di rimandare a Innamorati, 2013).

Pauli però si mostrò molto incline a sostenere Jung anche istituendo parallelismi tra la psicologia analitica e la fisica teorica (p. es. Jung e Pauli, 2016, pp. 60-61). Trovando in uno scienziato un interlocutore così vicino alle proprie posizioni, Jung si mostrava pronto a sviluppare una sorta di metafisica psicologica universale. Si prenda in considerazione questo passo:

In generale ci si immagina l’inconscio come un dato di fatto psichico di un individuo. L’autoraffigurazione elaborata dall’inconscio a partire dalla sua struttura centrale non si accorda tuttavia con questa versione, bensì tutto indica che la struttura centrale dell’inconscio collettivo non può essere fissata spazialmente, ma si configura come esistente dappertutto, in modo sempre identico a se stessa, che deve essere pensata come aspaziale e quindi, se proiettata nello spazio, deve trovarsi ovunque nello spazio (Jung a Pauli, 14/10/1935, in Jung e Pauli, 2016, p. 63).

Jung e Pauli condivisero anche la convinzione che i fenomeni parapsicologici fossero reali (all’epoca, del resto, le dimostrazioni di J. B. Rhine venivano da molti considerate scientificamente solide). Pauli, per esempio, considerava non casuale il fatto che assai spesso le apparecchiature destinate a esperimenti di fisica applicata presentassero dei guasti; ancora oggi, del resto, la circostanza che esperimenti falliscano a causa di un guasto tecnico in presenza di un fisico teorico viene scherzosamente chiamata un esempio di ‘effetto Pauli’. Jung ipotizzò l’esistenza di legami ‘significativi a-causali’ tra fenomeni, per spiegare l’esistenza di nessi razionalmente inspiegabili ma comunque reali. L’effetto Pauli non costituiva altro che un esempio di tali nessi, che Jung definiva sincronistici. Fu proprio Pauli a insistere perché Jung organizzasse i propri pensieri sulla sincronicità in un testo (Jung e Pauli, 2016, p. 89), che vide infine la luce nell’unica pubblicazione che Jung e Pauli firmarono insieme: Naturerklärung und Psyche (Spiegazione della natura e psiche; Pauli e Jung, 1952). I due saggi che componevano il libro originale sono stati tradotti in italiano ma separatamente: lo scritto di Jung nel volume 8 delle Opere (Jung, 1952) e quello di Pauli nella raccolta Psiche e natura (Pauli, 1952).

Il libro di Halpern racconta il rapporto tra i due grandi pensatori e lo inserisce nella storia della fisica, spiegando come alcuni aspetti del dialogo tra Jung e Pauli abbiano in effetti anticipato in parte, sia pure in maniera congetturale, aspetti della ricerca contemporanea di una teoria unificata del mondo fisico, nella quale il concetto di causalità assume delle piegature incomprensibili al senso comune.

 

Il peso delle variazioni ormonali nell’attrazione della donna

Prenderemo in esame alcune ricerche che hanno indagato se variazioni ormonali date dall’assunzione di contraccettivi o derivate dal ciclo mestruale possono modificare la preferenza per un determinato tipo di partner, il giudizio della propria soddisfazione sessuale, l’attrazione o i livelli di gelosia nelle donne.

 

Molte volte ci sarà successo di considerare il comportamento di un’altra persona ragionando sugli aspetti razionali che hanno potuto guidarla verso una determinata scelta. Ci siamo perciò chiesti cosa abbia pensato quella persona in quel dato momento per prendere quella strada o per scegliere di parlare con quella persona.

L’importanza che diamo all’elaborazione delle informazioni disponibili ci fa infatti credere che ogni scelta nostra o dell’altro sia generalmente ponderata sulla base dei benefici e dei potenziali rischi: questo modo di pensare e di pensarci come esseri prettamente razionali presuppone che, prima della scelta, possiamo sempre disporre di tutte le informazioni necessarie su un determinato evento od oggetto. In verità il più delle volte non è così.

Noi infatti costruiamo le nostre scelte mediante informazioni parziali e previsioni incerte, anche quando ci sentiamo decisi. Arricchiamo le nostre decisioni sommando alla componente razionale, anche la componente emotiva, cosicché ogni nostro salto nel vuoto sarà supportato tanto dai calcoli che abbiamo fatto quanto dall’emozione che tale oggetto o fenomeno ci ha suscitato.

Ma c’è dell’altro?

Questo articolo vuole essere un’occasione per soffermarsi su una componente che non abbiamo ancora nominato: quella biologica. Ponendo quindi l’accento sulle variazioni biochimiche che avvengono nel nostro corpo ci chiediamo se queste, o più specificatamente, i cambiamenti ormonali, possano influenzare i nostri giudizi, i nostri pensieri e le nostre decisioni su un determinato stimolo.

Muovendo dalla premessa che i livelli ormonali nelle donne influenzano la loro preferenza e scelta del compagno (Gildersleeve, Haselton, & Fales, 2014; Jones et al., 2018), in quest’occasione prenderemo in esame alcune ricerche che hanno indagato se variazioni degli ormoni date dall’assunzione di contraccettivi o derivate dal ciclo mestruale possono modificare la preferenza per un determinato tipo di partner, il giudizio della propria soddisfazione sessuale, l’attrazione o i livelli di gelosia nelle donne.

I contraccettivi ormonali, come la pillola o il cerotto, sono pensati per ridurre il rischio di gravidanze indesiderate. Questi ormoni hanno ripercussioni sia fisiche che psicologiche, per cui sembra ragionevole chiedersi quanto le variazioni nei livelli di estrogeni e di progesterone causate da questi prodotti possano influenzare il modo in cui la donna vive la relazione sentimentale ed il sesso.

L’ipotesi su cui molte ricerche hanno basato il loro lavoro in quest’ambito viene chiamata ipotesi della congruenza (HC): secondo questa ipotesi le donne che cambiano l’uso dei contraccettivi ormonali durante una relazione possono andare incontro a variazioni entro la sfera relazionale con il proprio partner, diminuendo l’interesse sessuale, l’attrazione ed i livelli di gelosia.

Tale ipotesi quindi genera due gruppi: le donne che fanno un uso congruente dei contraccettivi e quelle che invece ne fanno un uso incongruente. Si fa così rientrare nella categoria ‘congruenti’ donne che continuano a fare lo stesso uso dei contraccettivi sia all’inizio che durante una relazione, mentre la categoria ‘incongruenti’ viene composta da tutte quelle donne che riportano variazioni dell’uso dei contraccettivi ormonali durante la relazione.

Anche se una recente linea di ricerche ha confermato questa ipotesi (Roberts, Cobey, Klapilová, & Havlíček, 2014), affermando che le variazioni ormonali date da un uso incongruente dei contraccettivi abbiano delle ripercussioni negative nella relazione con il proprio partner, la nostra attenzione andrà verso la ricerca di Jern (2018), di Marcinkowska (2014; 2018) di Jones (2017) e di Junger (2018) che vanno esattamente nella direzione opposta.

Perché questa scelta? Questi ultimi studiosi hanno provato a falsificare la tesi dei ricercatori sopra esposti, riproponendo i loro esperimenti con delle variazioni che potessero rendere ancora più attendibili i loro risultati: sono stati usati difatti campioni più ampi. È stata fatta un’analisi più attendibile dei livelli ormonali delle donne che facevano parte del campione per meglio usare tale variabile nello studio, ed è stata arricchita la casistica suddividendo i due gruppi (‘congruenti”/”incongruenti’) in 4 sottogruppi: all’interno della categoria ‘congruenti’ infatti vi erano sia soggetti che non avevano mai alterato il loro uso dei contraccettivi, sia donne che non avevano mai fatto uso di questi contraccettivi. Allo stesso modo nel gruppo ‘incongruenti’ vi erano sia soggetti che avevano smesso di prendere i contraccettivi ad un certo punto della relazione, sia donne che ad un certo punto della relazione avevano iniziato a farne uso.

Queste quattro tipologie di donne non solo differivano molto nei risultati, ma anche nel loro numero. La divisione di queste due categorie in 4 sottogruppi apportata negli ultimi esperimenti, ha permesso quindi non solo di rendere il loro numero più omogeneo, ma anche di osservare meglio le differenze entro le due categorie originarie (Jern, 2018).

Nell’esperimento di Jern (2018), che ha preso in considerazione un campione di 948 donne, non è stata evidenziata nessuna correlazione tra variazione nell’uso di contraccettivi ormonali e cambiamenti all’interno della relazione delle donne. Le persone che infatti ricadevano nella categoria ‘incongruenti’ non dimostravano di avere importanti variazioni nel desiderio sessuale e nel giudizio del loro partner una volta interrotto il loro regolare uso dei contraccettivi.

Le uniche differenze sostanziali che sono emerse dall’esperimento non si sono riscontrate tra le due macrocategorie, ma bensì non appena lo sperimentatore ha suddiviso il campione nei quattro sottogruppi prima descritti: così è risultato che le donne che facevano un uso congruente dei contraccettivi, usandoli tanto all’inizio della relazione quanto durante, hanno dimostrato di avere livelli di gelosia più alti rispetto a quelle che non avevano mai fatto uso dei contraccettivi.

Inoltre, sempre basandosi sulle differenze riscontrate all’interno della categoria ‘congruenti’, quelle che avevano fatto sempre lo stesso uso dei contraccettivi dichiaravano una vita sessuale più soddisfacente rispetto a quelle che non ne avevano mai fatto uso.

Tale risultato trova riscontro nella ricerca di Jones (2018), il quale ha dimostrato che i livelli di ormoni più alti hanno un effetto positivo sul desiderio sessuale e, quindi, indirettamente, sulla soddisfazione.

Tuttavia, come specifica Jern nell’elaborare tale risultato, tanto il suo esperimento quanto quello di Jones non prendono in considerazione variabili importanti che potrebbero spiegare o influenzare tale risultato: nessuno dei due esperimenti fa ad esempio riferimento alla variabile dell’orientamento socio-sessuale.

Le donne con un orientamento ‘ristretto’ hanno meno probabilità di incorrere nel sesso occasionale e quindi possono essere motivate a fare meno uso dei contraccettivi ormonali. I loro risultati in termini di soddisfazione sessuale possono essere perciò l’espressione di un certo orientamento socio-sessuale piuttosto che una questione ormonale.

L’esperimento di Macinkowska (2014) invece ha voluto constatare se i cambiamenti ormonali portati dall’assunzione orale di contraccettivi ormonali poteva modificare le preferenze estetiche delle donne verso gli uomini. L’obiettivo era quello di falsificare l’idea che le donne che fanno uso di contraccettivi ormonali tendano a preferire visi di uomini meno mascolini se paragonate a quelle che invece non fanno uso di contraccettivi.

La sperimentatrice ha quindi testato un campione di 6842 donne eterosessuali, organizzate in due gruppi: il primo era composto da 1857 donne che facevano regolare uso di contraccettivi, il secondo invece era composto da 4625 donne che non usavano alcun contraccettivo.

La ricerca non ha rivelato nessuna evidenza del fatto che le donne che fanno uso di contraccettivi ormonali per via orale preferiscano uomini meno mascolini e che viceversa donne che non ne fanno uso preferiscano uomini più mascolini.

Ma cosa possiamo dire invece dei cambiamenti ormonali portati dal ciclo mestruale nella donna?

Recenti ricerche di Macinkowska (2018), Jones (2017) e Junger (2018) si sono mosse proprio da questo interrogativo: il loro obiettivo era quello di vedere se durante il periodo di ovulazione o durante il ciclo mestruale, momenti in cui quindi vive una variazione ormonale importante, la donna reagisse in maniera diversa alla visione di corpi o visi maschili.

L’esperimento di Macinkowska non mostra nessuna significativa variazione nelle preferenze sessuali delle donne del campione durante i periodi di intensa modificazione ormonale. Le uniche differenze sono emerse non in base ad una questione ormonale, ma in base alle relazioni sessuali delle donne.

Difatti, le donne che avevano dichiarato di avere una relazione duratura al momento della sperimentazione, durante il ciclo mestruale mostravano una maggiore preferenza verso visi di uomini più femminili, mentre le donne single mostravano una tendenza opposta, preferendo visi più mascolini.

Come sostiene lo stesso Gilbert (2000), questa tendenza delle donne accompagnate può essere motivata dal fatto che, in un periodo di bassa fertilità, le donne dirigono la loro attenzione più verso le abilità di genitorialità dell’altro sesso e verso la stabilità familiare, preferendo queste caratteristiche alla mascolinità dell’uomo, che simboleggia forza, ma anche instabilità della relazione.

Inoltre, come è emerso anche nella ricerca di Jones (2017) e in quella di Junger (2018), anche questo esperimento mostra come la donna sia più attratta dal corpo e dal viso maschile durante il periodo di ovulazione, ma senza dimostrare differenze di preferenza per particolari caratteristiche fisiche o fisionomiche come la mascolinità o la femminilità.

Differenze per quanto riguarda la preferenza di una fisionomia o un’altra non sembrano tanto legate quindi alla questione ormonale. È da sottolineare tuttavia come la maggior parte delle donne in generale preferisca la mascolinità nell’uomo ai tratti femminili, e tale affermazione è ancora più forte se si considera l’orientamento socio-sessuale delle donne: quelle infatti con un orientamento ‘non ristretto’, che sono più inclini ad essere coinvolte in rapporti sessuali occasionali, sono maggiormente attratte da uomini con tratti più mascolini, in confronto alle donne con un orientamento socio-sessuale ristretto (Jones, 2017).

Se è vero che quindi la componente biologica gioca un ruolo essenziale sul comportamento e sulle scelte del soggetto, le ricerche cui abbiamo prestato attenzione ci dimostrano che le variazioni ormonali indotte da sostanze assunte, come nel caso dei contraccettivi, o generate dal corpo stesso, come nel caso del ciclo mestruale, non si traducono in variazioni particolari sulla scelta delle caratteristiche di uno stimolo. Tutti questi esperimenti ci dimostrano quindi come la scelta o il giudizio femminile verso un tipo di uomo non segua le temporanee oscillazioni ormonali che si manifestano nel suo corpo.

 

L’erotomania: indicazioni per il trattamento

Per erotomania si intende la convinzione infondata che un’altra persona, che riveste un ruolo sociale di maggior rilievo, nutra dei sentimenti amorosi nei propri confronti (de Clérambault, 1942).

 

Si tratta di un’ideazione delirante che può manifestarsi in coloro i quali si percepiscono come socialmente respinti e che, di fronte a tale rifiuto, ricorrono alla fantasia che un essere umano, riconosciuto come superiore, le ami.

Il desiderio di essere amati è una motivazione centrale dell’essere umano (Baumeister & Leary, 1995) e l’attrazione aumenta in base alla desiderabilità di un partner, rispetto a differenti ambiti, dall’attrattività fisica allo status socioeconomico.

Le persone socialmente isolate, con poca esperienza relazionale, finiscono dunque con il mal interpretare un’espressione facciale (Edwards, Jackson & Pattison, 2002) o fraintendere il significato di uno sguardo (Bora et al., 2006) e sono pertanto suscettibili ad un’interpretazione idiosincratica dei sentimenti e delle intenzioni altrui.

L’esordio di tali convinzioni deliranti può essere ricondotto a condizioni caratterizzate da un disagio emotivo (Hanssen et al., 2005), come la recente perdita di una figura di attaccamento (Sbarra & Hazan, 2008). Ciò non sorprende in quanto, nelle suddette situazioni, spinti da ragioni di sicurezza, gli esseri umani sono motivati a ricercare la vicinanza con un’ulteriore figura di attaccamento che fornisca loro sicurezza (Vogel & Wei, 2005).

La convinzione delirante, inoltre, rafforza l’autostima del singolo, che tende a “proiettare” su di sé le qualità della persona idealizzata. In questo senso, l’erotomania è un delirio grandioso (Knowles, McCarthy & Rowse, 2011), che talvolta risulta essere un ostacolo per lo sviluppo di un processo terapeutico, in quanto, il miglioramento dell’umore e l’aumento dell’autostima generati dall’illusione, rendono superfluo qualsiasi intervento. Difatti, l’isolamento protegge la convinzione erronea da domande e revisioni e anche gli eventi di vita quotidiana vengono letti come segnali di conferma dell’amore da parte della persona prescelta (Startup, Bucci & Langdon, 2009). Dunque, gli stimoli che gli altri considererebbero come neutri, vengono vissuti come dotati di un significato personale. Si tratta quindi di un errore cognitivo, definibile come bias egocentrico (Beck, 2002), che corrisponde all’assunzione che ogni evento si riferisca a sé stessi, accompagnato da un bias intenzionale (Beck, 2002), che fa sì che gli oggetti appaiano disposti secondo uno schema volto a trasmettere un messaggio personale.

Secondo la letteratura, l’erotomania caratterizza una significativa fascia della popolazione; difatti, circa l’1-3% della popolazione non clinica manifesta questa convinzione delirante. Data la significatività del fenomeno, alcuni ricercatori si son posti l’obiettivo di revisionare sei casi clinici, in modo da mettere in luce i dettagli sull’insorgenza e la progressione di tale delirio, affinché gli interventi terapeutici possano essere più efficaci.

Uno stato di eccitazione ha preceduto tutti e sei i deliri. Le pazienti hanno descritto tale stato d’animo come insolito generato da paura, febbre, disidratazione, farmaci o altre combinazioni di agenti alteranti, come l’alcol. Quest’ultimo infatti – o le sostanze ad esso correlate – consente ai soggetti introversi di immergersi in contesti sociali ma, allo stesso tempo, crea un terreno fertile per l’insorgenza di deliri e/o allucinazioni. Durante l’eccitazione, vengono rilasciate le catecolammine che rendono più acuta la percezione di sensazioni somatiche. L’accelerazione del battito cardiaco, il respiro affannoso, il rossore, che accompagnano l’eccitazione, venivano prontamente associati a sentimenti di amore (Dunn, Dalgleish & Lawrence, 2006) ed attribuiti, tramite un processo di proiezione, ad una persona ritenuta più idonea nell’immediata vicinanza. Come precedentemente esposto, la persona prescelta era una figura rispettosa o un soggetto che incarnava una condizione desiderata. In due casi, gli oggetti dei deliri coincidevano con due medici. Ciò può essere dovuto al fatto che il comportamento benevolo e attento dei medici, nei confronti dei pazienti, può determinare un’interpretazione erronea dell’intento, poiché la stessa benevolenza viene percepita come interesse erotico (Hammett, 1961). La convinzione che la persona appena incontrata si sia innamorata, può essere in parte attribuita a difficoltà preesistenti rispetto alla comprensione degli stati altrui (Frith & Frith, 1999), ad un’errata interpretazione delle espressioni facciali e dei gesti (Bucci et al., 2008) o a bias cognitivi. La tendenza ad utilizzare un certo tipo di ragionamento può essere innata o svilupparsi nel tempo a causa di un apprendimento errato o di un’esperienza aberrante. A volte si riceve un rinforzo inconsapevole dal mondo esterno ma, molto preso, è il paziente che inizia a fornire il proprio rinforzo tramite un’interpretazione soggettiva degli eventi. Inoltre, l’erotomania, la sensazione di essere amati, porta con sé un beneficio secondario e fornisce gioia e significato alla vita (Jordan et al., 2006). Tale ricompensa è così grande che, quando l’illusione svanisce, possono derivarne depressione e, nei casi più gravi, suicidio.

Le persone inclini ad un pensiero referenziale mostrano elevate difficoltà nell’accettare qualsiasi prova che potrebbe disconfermare ciò che ritengono che sia vero (Woodward et al., 2007) e parte della fermezza delle convinzioni deliranti è stata ricondotta ad una mancanza di autostima (Warman & Lysaker, 2011).

Dal momento in cui tali convinzioni risultano essere una sorta di strumento di compensazione rispetto a sentimenti di indegnità, rifiuto e solitudine, i soggetti potrebbero non sentire il bisogno di cercare aiuto, se non a seguito della sollecitazione altrui. Sarà dunque fondamentale costruire un’alleanza terapeutica (Horvath & Luborsky, 1993) per consolidare il legame di fiducia. Prima di affrontare la condizione di delirio del paziente, sarà necessario lavorare sull’autostima di quest’ultimo e, successivamente, analizzare i suoi bias. A tal proposito, gli autori consigliano l’utilizzo di strumenti come la Metacognitive Assessment Scale (Lysaker et al., 2010).

La terapia cognitivo-comportamentale è da considerarsi come la più efficace nel trattamento dell’erotomania (Hurley, 2012) ma, allo stesso tempo, potrebbe essere necessario affiancarla ad una terapia farmacologica, che preveda l’utilizzo di antipsicotici, antidepressivi e/o ansiolitici. Infine, poiché in alcuni casi i deliri erotomanici possono dar luogo a casi di molestie e di stalking, la gestione di tali rischi è da considerarsi come parte integrante di una strategia di trattamento globale (Kelly, 2005).

 

Il secretive eating e il binge eating disorder

Il Binge Eating Disorder (BED) è il disturbo alimentare che si riscontra più frequentemente (Hudson, Hiripi, Pope, & Kessler, 2007) ed è associato a gravi conseguenze sulla salute di chi ne è affetto e ad una compromissione della qualità di vita (Grilo, White, & Masheb, 2009).

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Il secretive eating, che possiamo tradurre in italiano come ‘mangiare di nascosto’, è uno specifico pattern alimentare nel quale l’individuo consuma i pasti furtivamente, nascondendo o cancellando le prove o i resti di ciò che ha mangiato. Il fenomeno del secretive eating ha ricevuto poca attenzione in letteratura nonostante venga riconosciuto come un aspetto molto problematico dai familiari dei pazienti (Tester, Lang, & Laraia, 2016) e dai clinici (Fairburn, Cooper, Doll, & Davies, 2005).

Mangiare di nascosto o in solitudine, a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando, è uno tra i criteri richiesti per fare diagnosi di disturbo da binge eating (DSM-5, APA, 2013), insieme a:

Ricorrenti episodi di abbuffata, dove quest’ultima prevede il mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore rispetto a quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in simili circostanze, con la sensazione di perdita di controllo durante l’episodio;

Gli episodi di abbuffate si possono associare, oltre al mangiare da soli, ad almeno altri 2 o più aspetti

  • estrema rapidità,
  • mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni,
  • mangiare grandi quantità di cibo anche senza sentirsi affamati,
  • provare disgusto verso se stessi, sentirsi depressi o in colpa dopo l’episodio.

Deve inoltre essere presente marcato disagio riguardo alle abbuffate, le quali devono verificarsi almeno una volta alla settimana per 3 mesi e non devono essere seguita da condotte compensatorie inappropriate come ad esempio accade nella bulimia nervosa (DSM-5, APA, 2013).

E’ stato sottolineato in letteratura che il binge eating è correlato e concettualmente distinto dal secretive eating. Mangiare di nascosto non è necessariamente un pattern comportamentale sperimentato da tutti gli individui con BED, ma ha un forte valore predittivo nell’identificare casi di binge eating rispetto ai controlli (White & Grilo, 2010).

Inoltre, i pasti, possono essere consumati di nascosto anche quando non si denotano come abbuffate. Pertanto, nella ricerca e nella pratica clinica, è utile valutare la presenza del secretive eating ed è importante chiarire se gli episodi di abbuffata sono preclusi quando si quantifica la frequenza di pattern alimentari connessi al fenomeno (Fairburn & Beglin, 1994).

Diversi studi hanno evidenziato come nella popolazione giovanile, il secretive eating sia relativamente comune con tassi che variano tra il 18.1% al 27.2% nei bambini (Sonneville et al., 2013; Stice, Agras, & Hammer, 1999) e del 34% negli adolescenti (Knatz, Maginot, Story, Neumark-Sztainer & Boutelle, 2011) e come questo si associ spesso alla presenza di disturbi alimentari (Fairburn et al., 2005; Kass et al., 2017) e alla depressione (Kass et al., 2017) in questa fascia di popolazione. Il secretive eating può presentarsi in risposta ad emozioni di vergogna collegate all’alimentazione o alle forme del proprio corpo, ed è stato trovato in associazione alla depressione anche negli adolescenti sovrappeso o obesi in particolare (Knatz et al., 2011).

Il fenomeno è stato inoltre concettualizzato in modalità differenti, come una manifestazione clinica collegata al binge eating (Marcus & Kalarchian, 2003) e all’emotional eating (Ganley, 1989), ed è stato associato all’espressione di emozioni di vergogna e messo in relazione ad episodi di abbuffate e comportamenti compensatori nella bulimia nervosa (Kass et al., 2017).

Molte evidenze empiriche quindi, suggeriscono che il secretive eating potrebbe essere un fattore di rischio e/o un indicatore precoce di sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare conclamato (Fairburn et al., 2005; Kass et al., 2017; Marcus & Kalarchian, 2003).

Nonostante la rilevanza clinica di questo fenomeno, riscontrata nei bambini e negli adolescenti, questo particolare pattern ha ricevuto ancora pochissima attenzione, da parte della ricerca, presso la popolazione adulta, inclusa quella affetta da un disturbo del comportamento alimentare.

In uno studio di stampo qualitativo del 2016 Tester e colleghi hanno indagato alcuni pattern alimentari presso famiglie con problemi di sicurezza alimentare. Molti genitori riportavano che i loro bambini mangiavano in segreto e nascondevano o accumulavano cibo, rivelando poi che essi stessi erano coinvolti nei medesimi pattern alimentari.

In uno studio prospettico di due anni di Fairburn e colleghi (2005) su individui a dieta considerati a maggior rischio di sviluppare un DCA, il secretive eating è stato trovato essere un segnale di futura psicopatologia in ambito alimentare.

Una ricerca di Wilfley e colleghi (2000), che ha impiegato un campione aggregato di soggetti affetti da DCA alla ricerca di trattamento, aveva come obiettivo identificare le caratteristiche cliniche di pazienti adulti affetti da binge eating (includendo tra le variabili indagate anche il secretive eating). I risultati hanno messo in luce come gli episodi di alimentazione nascosta erano più frequenti presso gli adulti con BED piuttosto che in quelli affetti da anoressia nervosa o bulimia, che a loro volta avevano un maggior numero di  episodi caratterizzati da tale pattern rispetto ai soggetti di controllo sani.

Rilevando questa carenza di evidenze empiriche sul secretive eating presso la popolazione adulta e la potenziale sovrapposizione tra tale fenomeno e il binge eating, un recente studio (Lydecker & Grilo, 2019) ha voluto esaminare le differenze esistenti tra adulti che presentavano o meno il secretive eating, in un ampio campione di pazienti affetti da BED in cerca di trattamento.

Gli autori, basandosi sui risultati emersi nelle precedenti ricerche sulla popolazione giovanile e su quelle che avevano comparato adulti con diagnosi di BED con soggetti sani, avevano ipotizzato che quei soggetti che dichiaravano di attuare il secretive eating potessero essere caratterizzati da quadri psicopatologici più severi (maggiori restrizioni dietetiche, maggiori preoccupazioni riguardo l’alimentazione, il peso, le forme del corpo, depressione e episodi di abbuffate più frequenti) rispetto a quei soggetti affetti da BED che non lo presentavano.

I partecipanti allo studio erano 755 soggetti tra i 18 e i 65 anni con diagnosi di BED in base ai criteri del DSM-IV per tale disturbo. Il 74,2% era costituito da donne e il 76,8% da bianchi, appartenenti a varie classi sociali. Gli autori hanno impiegato, oltre ai criteri richiesti dal DSM per fare diagnosi, anche altri strumenti di valutazione: il Beck Depression Inventory (BDI, Beck & Steer, 1987), l’indice di massa corporea (BMI) e l’Eating Disorder Examination interview (EDE, Fairburn & Cooper, 1993) per confermare la diagnosi e caratterizzare in maniera più dettagliata il quadro alimentare psicopatologico. Quest’ultima è un’intervista semistrutturata che indaga in maniera approfondita anche la frequenza di tre tipologie di pattern alimentari disfunzionali: gli episodi di abbuffate oggettivi (OBEs, ossia mangiare inusuali grandi quantità di cibo sperimentando perdita di controllo), gli episodi di abbuffata soggettivi (SBEs, descritti come mangiare piccole o normali quantità di cibo percependo la perdita di controllo) e gli episodi di oggettivi eccessi alimentari (OOEs, che corrispondono al mangiare grandi quantità di cibo senza percepire la perdita di controllo su quanto si sta mangiando). L’EDE viene impiegata anche per discriminare gli OBEs e gli OOEs dagli episodi di secretive eating concettualizzati come episodi in cui l’atto del mangiare è svolto in maniera furtiva e che i pazienti tentano di celare perché non vogliono essere visti mangiare.

I risultati dello studio hanno evidenziato innanzitutto come il secretive eating sia un pattern molto comune nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare, sperimentato da più della metà dei soggetti adulti affetti da BED (411 vs. 341) in cerca di trattamento .

Lo studio provvede inoltre a fornire nuove informazioni circa il fenomeno.

I soggetti con BED  e secretive eating ad esempio risultano avere in generale un quadro psicopatologico più grave (misurato attraverso il punteggio di gravità globale (Global severity score) dell’EDE e presentano maggiori preoccupazioni relative alla forma fisica, al peso e alla dieta (corrispondenti  alle 3 sottoscale dell’EDE che indagano questi ultimi fattori), mentre non differiscono dai soggetti che non presentano secretive eating  per la sottoscala della “restrizione”. Presentano inoltre livelli più elevati di depressione rispetto ai  pazienti che non si ingaggiano nel fenomeno.

Anche se i pazienti che manifestano secretive eating mostrano quadri più gravi del disturbo alimentare, è importante sottolineare che non si sono riscontrate differenze statisticamente significative per quanto riguarda il BMI tra i soggetti che manifestano e non manifestano secretive eating, né nella frequenza degli OBEs  e degli OOEs. I soggetti con secretive eating riportano più SBEs invece rispetto ai secondi. Da notare che non tutti i pazienti che dichiarano SBEs riportano anche episodi di secretive eating (24,2% del campione), mentre il 31,4 % riporta entrambi.

In conclusione, i dati preliminari di questa ricerca, suggeriscono quindi che il secretive eating sia un pattern distinto dal BED dal momento che non è sempre presente. Tuttavia, laddove lo sia, conduce a quadri psicopatologici più severi per quanto concerne alcune caratteristiche del disturbo come le preoccupazioni per il cibo, il peso e  per la forma fisica.

Prendere in considerazione, in fase di assessment, anche la presenza di questo particolare pattern alimentare, potrebbe essere un fattore utile per i clinici, per determinare la severità del disturbo e per impostare poi il piano per il trattamento.

 

Tecniche di stabilizzazione con pazienti sopravvissuti al trauma

La stabilizzazione è il primo passo da farsi con un individuo che abbia una sindrome post traumatica.

 

Infatti nel modello trifasico utilizzato nella cura dei pazienti sopravvissuti al trauma è essenziale trovare dei metodi e degli strumenti per abbassare l’arousal nel setting terapeutico e fuori e di conseguenza le condotte impulsive e autodistruttive strettamente connesse ai sintomi. Sarà necessaria questa prima fase tenendo conto anche delle risorse dell’individuo per poi passare alle seconda fase, quella della rielaborazione delle memorie traumatiche. Ovviamente le tre fasi non seguono un andamento lineare ma è fondamentale che sia il paziente a dettare i tempi e che il modello tenga conto delle peculiarità della persona che abbiamo difronte.

Addentrandosi nei diversi strumenti di stabilizzazione, esistono:

  • l’approccio farmacologico, utile sopratutto nei casi più complessi;
  • l’approccio relazionale/interpersonale, espedienti di natura interpersonale per esempio contatto fisico e compagnia ma anche il riuscire a stabili confini chiari e appropriati entro i quali l’individuo rispetta se stesso e l’altro;
  • l’approccio autonomo/regolativo, quello sul quale ci soffermeremo su questo articolo, è utile per la persona per riuscire a gestire in autonomia i propri sintomi e le emozioni soverchianti. In questo approccio vi sono diversi tipi di strumenti che si possono utilizzare come la psicoeducazione, la mindfulness, esercizi di riorientamento, il grounding, il respiro.

La psicoeducazione è utile per normalizzare i sintomi e le reazioni del paziente spiegando all’individuo i meccanismi neurobiologici ed evoluzionistici che vi sono alla base. Mentre gli esercizi di riorientamento e grounding sono utili per riportare il paziente nel qui ed ora qualora fosse uscito dalla finestra di tolleranza e stia manifestando sintomi dissociativi. Gli esercizi di centratura servono al paziente per recuperare il contatto con il corpo e recuperare l’equilibrio. Bisogna dunque aiutare il paziente a percepire il centro di gravità del corpo che è posto a circa a 10 cm al di sotto dell’ombelico. Infatti un esercizio che si può proporre è quello di riporre le mani sul basso ventre e notare le sensazioni che si sentono nel corpo. Un’altra zona efficace per la centratura è il petto e uno degli esercizi utili da proporre al paziente consiste nel fargli porre una mano vicino al cuore l’altra sulla pancia e osservare le sensazioni sperimentate. Un altro esercizio sempre nella zona del petto consiste nel fare una leggera pressione con le mani sul petto osservando anche in questo caso gli effetti sul corpo. Alcuni degli individui sopravvissuti al trauma possono provare disagio nel toccare il proprio corpo e quindi può essere utilizzato uno strumento che medi tra le mani e le parti del corpo sopracitate, come una pallina di gomma o un cuscino.

Le tecniche di grounding risultano invece molto efficaci per rendere la persona consapevole di essere nel momento presente e quindi presente nel qui ed ora. Puo essere utile far poggiare al paziente i piedi bene a terra per stabilire un senso di stabilità e sicurezza per poi notare che effetto ha sul corpo; può essere efficace anche toccare le pareti per ristabilire un senso di radicamento. Il terapeuta può anche consigliare al paziente di massaggiare piedi e gambe, meglio se seduti a terra, e di abbandonare qualsiasi tipo di pensiero giudicante ma restare con la mente sul proprio corpo. Le tecniche basate sul respiro sono funzionali per aiutare la persona a tornare nel momento presente e regolano l’attivazione neurofisiologica. Questa è una brevissima sintesi dei diversi strumenti di cui il clinico dispone per la stabilizzazione ma è fondamentale ricordare che esse corrispondono solo a una parte dell’intervento per i sopravvissuti all’abuso e che un approccio integrato di più tecniche è quello più utile per prendersi cura di essi. Sarebbe molto utile e arricchente per la pratica clinica, così come per la ricerca, che ogni terapeuta prenda spunto da queste tecniche evidence-based e dalle ricerche empiriche per arricchirle con spunti creativi e personalizzati, ricordandoci che il paziente è al centro dell’intervento terapeutico. Nei prossimi articoli mi soffermerò su alcune delle tecniche di stabilizzazione proposte dall’ESTD (European Society of Trauma and Dissociation) soffermandomi su aspetti maggiormente pratici.

 

Aspetti metodologici nella pratica clinica con l’anziano

A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del conseguente aumento dei tassi di prevalenza dei disturbi neurocognitivi, la figura dello psicologo e le sue competenze sono sempre più richieste, in termini di prevenzione, diagnosi, percorsi di abilitazione-riabilitazione e di sostegno ai caregivers.

 

Il professionista che lavora con la terza età è tenuto, secondo le linee guida pubblicate dall’Ordine degli Psicologi del Veneto (Copes et al., 2013), a riconoscere i propri atteggiamenti e le proprie credenze, spesso stereotipate, sull’invecchiamento e ad avere consapevolezza delle dinamiche sociali e psicologiche, oltre che dei cambiamenti fisiologici, che caratterizzano questa fase di vita.

Dal punto di vista cognitivo, l’anziano presenta un declino di memoria di lavoro, intelligenza fluida, velocità di elaborazione e attenzione, mentre l’intelligenza cristallizzata rimane costante (De Beni & Borella, 2015). Questi cambiamenti dipendono da normali mutamenti cerebrali di tipo strutturale e funzionale.

Dal punto di vista emotivo, con l’aumentare dell’età si manifesta una migliore regolazione emotiva, come dimostrato dalla teoria della selettività socio-emotiva (Carstensen, 1999), mentre dal punto di vista motivazionale l’individuo deve spesso fare i conti con un ambiente demotivante e controllante, permeato di ageismo e che tende a sostituirsi all’anziano invece che incentivarne l’autonomia.

Infine, da un punto di vista fisico, si possono manifestare cambiamenti sensoriali e di efficienza dei sistemi muscolo-scheletrico, cardiovascolare, respiratorio e digestivo, influendo negativamente sulla qualità di vita della persona anziana (De Beni & Borella, 2015).

Essendo il paziente geriatrico tendenzialmente polipatologico è imprescindibile l’utilizzo di un approccio multidimensionale, sia nella valutazione che nell’intervento, che tenga conto dei fattori sopracitati.

Date queste premesse, è necessario che il professionista presti attenzione a una serie di aspetti metodologici fondamentali per la buona riuscita della propria pratica clinica.

Il colloquio

Il colloquio clinico è l’asse portante dell’esame psicodiagnostico, strumento di indagine finalizzato a raccogliere informazioni. Prendendo come punto di riferimento la teoria sulle tecniche del colloquio di Semi (1985), nella pratica clinica con l’anziano risultano determinanti la ridefinizione del setting e la regola del linguaggio.

Che si tratti di un contesto di istituzionalizzazione o meno, è importante prima di tutto assicurarsi che vi sia una buona illuminazione e, nel caso di ipoacusia, attrezzarsi di un amplificatore. Se l’individuo presenta limitazioni fisiche o è allettato, il colloquio può essere condotto a domicilio o nella stanza del paziente in caso di istituzionalizzazione. In quest’ultima circostanza è assai frequente la conduzione di colloqui e valutazioni psicodiagnostiche in corridoi o stanze comuni, ostacolati da numerose interferenze e interruzioni. Il consiglio è, dunque, quello di individuare una situazione il più libera possibile da distrattori, essendo l’anziano caratterizzato da una minore attenzione.

Per quanto riguarda il linguaggio, come suggerito da Semi, è necessario adeguare il proprio lessico a quello del paziente. Il più delle volte l’anziano può presentare una bassa scolarità per cui è fondamentale adeguarsi al suo registro e livello socioculturale.

In presenza di disturbi neurocognitivi è bene tenere a mente che con la progressione della patologia si assiste a una maggiore difficoltà di comprensione e produzione del linguaggio, per cui è da preferire la comunicazione non verbale.

I test

La scelta dei test nella valutazione dell’anziano è piuttosto limitata sia per aspetti psicometrici che per le condizioni fisiche del paziente. Spesso, infatti, a causa di deficit sensoriali (ipovisus, ipoacusia ecc.) o motori (artrite reumatoide, parkinsonismi, paralisi ecc.) la maggior parte del materiale testistico deve essere escluso.

Inoltre, le condizioni cliniche del paziente geriatrico presentano il più delle volte repentini cambiamenti che riducono l’affidabilità della valutazione.

L’aspetto sicuramente più limitante è la scarsa validità della maggior parte dei test: essi, infatti, vengono standardizzati prevalentemente su campioni normativi che non includono gli ultranovantenni. Ad esempio, uno dei test di screening più utilizzati per lo stato cognitivo, il MMSE (Folstein et al., 1975), presenta nelle tarature italiane norme statistiche fino a solo 89 anni (Magni et al., 1996).

Visto il progressivo invecchiamento della popolazione e la maggior presenza di grandi vecchi (85-99 anni), risulta necessario aggiornare le norme statistiche e condurre un lavoro di taratura dei test più diffusi che tenga conto di questa fascia di età.

 

Aspetti neuropsicologici e dinamiche familiari in genitori di bambini con disturbo dello spettro autistico

Ricerche che hanno indagato le difficoltà legate alla gestione di un figlio con disturbo dello spettro autistico (ASD), riportavano tra i parenti di primo grado, in particolare le madri, elevati livelli di stress e minore senso di benessere che si ripercuotevano negativamente sulla qualità della vita dei loro figli.

 

L’impatto della disabilità di un individuo nel contesto familiare, varia a seconda delle caratteristiche specifiche e della condizione sindromica esaminata.

Ricerche che hanno indagato le difficoltà legate alla gestione di un figlio con disturbo dello spettro autistico (ASD), riportavano tra i parenti di primo grado, in particolare le madri, elevati livelli di stress e minore senso di benessere che si ripercuotevano negativamente sulla qualità della vita dei loro figli (Benjak et al., 2009; Phetrasuwan & Shandor Miles, 2009; Schieve et al., 2007).

Secondo la letteratura, i genitori di bambini con ASD hanno spesso difficoltà emotive; mostrando tratti alessitimici, ridotta consapevolezza emotiva, difficoltà nel mentalizzare, percepire, riconoscere e descrivere verbalmente i propri ed altrui sentimenti (Szatmari et al., 2008). Inoltre, riportando un tasso più elevato di ansia sociale e depressione, necessitano anch’essi un supporto psicologico da parte dei servizi di cura (V. Goussé et al., 2011).

Nei genitori sono state riscontrate anche problematiche neuropsicologiche, ricondotte all’ipotetica presenza di un “fenotipo allargato” (broad phenotype; Véronique Goussé et al., 2002; Klusek et al., 2014; Shi et al., 2015), implicato nell’origine dell’autismo. In virtù della ancora oscura eziologia che determinerebbe la patologia nel figlio; questo fenotipo spiegherebbe la presenza in forma lieve nei familiari del soggetto affetto, di tratti sintomatologici del disturbo (S. Folstein & Rutter, 1977; Le Couteur et al., 1995), dando la possibilità di individuare i meccanismi genetici alla base ed effettuare una buona diagnosi differenziale.

Alcune problematiche riportate dalla letteratura rimandano a deficit cognitivi, del linguaggio, delle funzioni esecutive, della working memory (Gokcen et al., 2009), degli aspetti pragmatici della comunicazione (Pickles et al., 2000), problematiche nell’articolazione, nella lettura e nell’ortografia; con punteggi significativamente più bassi nei test di intelligenza verbale (S. E. Folstein et al., 1999).

Esplorando ulteriori aspetti, come le dinamiche riscontrate nel nucleo familiare di soggetti con ASD, sono stati individuati fattori potenzialmente interferenti nella relazione genitore-figlio, che possono compromettere il percorso riabilitativo di quest’ultimo.

In particolare, in la letteratura, le madri di bambini autistici venivano descritte con tratti maggiori di rigidità; mentre i padri venivano delineati come più distaccati (Seidman et al., 2012).

Lo studio di Zingale et al. (2017), ha indagato le caratteristiche cognitive, emotive e relazionali peculiari in 30 genitori di bambini affetti da autismo e associata disabilità intellettiva (DI); confrontandole con quelle emerse da 22 genitori di bambini affetti dalla sindrome di Prader-Willi  (PWS) e DI associata. La PWS, ad eziologia nota, si caratterizza per iperfagia, comportamenti ossessivi, impulsività, instabilità emotiva, disabilità intellettiva (Angulo et al., 2015) e, similmente all’ASD, comporta un elevato carico emotivo da parte della famiglia. Anche la DI si ripercuote sui genitori; provocando restrizione nelle attività del nucleo, oltre che problemi di stress e sintomi depressivi (Mulroy et al., 2008).

Dall’indagine, non sono emerse differenze tra i genitori con figli affetti da ASD e quelli con Prader-Willi rispetto al quoziente intellettivo misurato con la WAIS-R (Wechsler Adult Intelligence Scale-Revised; Wechsler, 1981) nelle sue componenti verbali ed esecutivo-pratiche.

Tuttavia, andando a verificare le risposte date in alcuni subtest, questi avevano riportato migliori abilità di ragionamento verbale, di giudizio sociale e orientamento nella realtà.

Nel complesso, queste prime valutazioni del funzionamento cognitivo, non confermano il profilo dei genitori di soggetti con ASD riportato dalla letteratura in termini di presenza di un fenotipo allargato; in quanto oltre a maggiori deficit nelle componenti verbali dell’intelligenza (Piven & Palmer, 1999), avrebbero dovuto mostrare compromissione delle funzioni esecutive e delle abilità di memoria (Gokcen et al., 2009), anch’esse non riscontrati nella presente indagine.

I genitori di bambini affetti da ASD hanno riportato caratteristiche peculiari nel test CBA (Cognitive Behavioural Assessment; Zotti et al., 1995), che indaga alcuni costrutti psicologici. Tra questi è emersa maggiore ansia, paura per il sangue/medici, pensieri intrusivi e ruminazione; mentre non sono emersi sintomi depressivi riscontrati in letteratura (V. Goussé et al., 2011; PIVEN et al., 1991).

Per quanto concerne le dinamiche familiari, valutate con il FACES IV (Olson, 2008); famiglie con bambini affetti da ASD sperimentavano minore soddisfazione; essendo meno coese, più disimpegnate e caotiche nella distribuzione dei ruoli, rispetto a quelle aventi un membro affetto da sindrome di Prader-Willi.

Nonostante lo studio presenti alcuni limiti riguardanti la ridotta numerosità dei campioni e l’impossibilità di fare un confronto con la letteratura sulle varabili neuropsicologiche di genitori di bambini con ASD e PWS, poco indagate, sono stati esplorati aspetti rilevanti. Tra questi, il ruolo delle dinamiche familiari, che potendo interferire con le abilità di coping adattive messe in campo per fronteggiare la patologia, andrebbero esplorate ulteriormente in campioni più grandi e con diversi quadri sindromici.

In tutti i casi, la disabilità di un membro della famiglia impatta notevolmente sui processi transazionali della stessa; sulle dinamiche e gli aspetti della sfera emotiva espressi dagli individui che ne sono coinvolti. Con lo scopo di porre al servizio della crescita evolutiva le strategie di coping e incrementare i fattori di resilienza della famiglia, si rendono necessari programmi di intervento che non coinvolgano solo il membro affetto da disabilità, ma che prevedono la presa in carico di tutto il sistema familiare.

 

Cognitivismo clinico: l’utilizzo della Schema Therapy – Editoriale

Questo numero monografico di Cognitivismo Clinico nasce con l’intento di raccogliere diversi contributi collocati all’interno della cornice teorica della Schema Therapy (ST; Young, Klosko & Weishaar, 2007).

Barbara Basile, Olga Ines Luppino

 

La Schema Therapy consiste in un approccio di terapia integrato che negli ultimi 20 anni ha ricevuto molta attenzione e consenso sia negli USA, dove si è sviluppato, che in Europa, in particolare nei Paesi Bassi e in Germania. Pur essendo nata come modello terapeutico con l’intento di curare i disturbi di personalità, la Schema Therapy ha sempre più negli ultimi anni trovato applicazione nel trattamento dei disturbi di Asse I, in particolare nei casi di cronicità e di resistenza agli interventi standard di terapia cognitivo-comportamentale, con prove di efficacia ad oggi piuttosto promettenti.

Il contributo di Alessandra Mancini apre questo numero speciale offrendo una breve rassegna della letteratura relativa alle principali aree di intervento clinico della ST: la modifica degli Schemi Maladattivi Precoci, l’intervento sugli Schema Mode, la relazione terapeutica (il limited reparenting e il confronto empatico) e il cambiamento del significato delle esperienze traumatiche operato tramite la tecnica dell’Imagery with Rescripting. In particolare l’autrice intende soffermarsi su quest’ultima tecnica emotivo-esperienziale che rappresenta la principale promotrice di cambiamento, avanzando l’ipotesi che alla base della sua efficacia vi sia la risoluzione del problema meta-emotivo, comunemente noto in terapia cognitiva come problema secondario. Un contributo molto interessante dunque che intende avanzare ipotesi volte a comprendere meglio i meccanismi che regolano il funzionamento e gettano luce sull’efficacia di questa tecnica.

Il secondo contributo di De Sanctis e Basile, si concentra sull’applicazione della Schema Therapy a pazienti in età geriatrica, focalizzandosi sui possibili accorgimenti e ri-adattamenti delle tecniche utilizzate all’interno del modello con questa tipologia di pazienti. Gli autori offrono una breve panoramica sullo stato dell’arte e, tramite alcune esemplificazioni cliniche, indicano come sia possibile mutuare la formulazione del caso e adattare gli interventi clinici a pazienti geriatrici, in particolar modo quando presentano residui di tratti di personalità disfunzionali. Il terzo e il quarto contributo, rispettivamente di Tenore et al., e di Luppino et al., presentano una proposta di concettualizzazione del funzionamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo nata da un lavoro di traduzione del modello cognitivo-comportamentale, come proposto da Mancini (2018), nel lessico della Schema Therapy, più in particolare nei termini del modello dei Mode. Oltre ad approfondire il ruolo svolto da specifiche tipologie di esperienze precoci nel contribuire allo strutturarsi della vulnerabilità del paziente con DOC, le autrici si sono proposte di offrire, nell’ordine, una sintesi della prospettiva teorica nata dalla loro opera di integrazione e una proposta di rationale terapeutico inerente il lavoro con i singoli Mode coinvolti nell’esperienza ossessiva. A ciò fa poi seguito un approfondimento inerente la specificità dell’utilizzo della tecnica di Imagery with Rescripting con il paziente ossessivo e una sua declinazione a partire dall’integrazione con il lavoro di Esposizione con Prevenzione della Risposta.

Il quinto contributo, di Basile et al., nasce dalla collaborazione con i colleghi Simona Calugi e Riccardo dalle Grave dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura di Villa Garda (VR). Lo studio presentato ha l’obiettivo di valutare gli schemi maladattivi individuali e gli schemi genitoriali disfunzionali in pazienti con anoressia e bulimia nervosa ricoverate presso un reparto specializzato nel trattamento dei Disturbi Alimentari. I risultati della ricerca evidenziano che i pazienti presentano schemi precoci individuali più disfunzionali rispetto a quelli rilevati in un campione non clinico, appaiato per sesso ed età. Inoltre, esaminando gli schemi genitoriali dei pazienti, si distingue il ruolo della figura paterna, descritta come maggiormente invalidante e carente sul piano emotivo. Effettuando ulteriori confronti tra i due sottogruppi di pazienti, gli autori rilevano ulteriori differenze interessanti che vengono coerentemente discusse nella parte conclusiva del lavoro.

A chiudere questo numero dedicato alla ST, il contributo di Giulia Signorini, volto all’analisi degli schemi maladattivi precoci e degli stili di coping in un campione di psicoterapeuti in formazione. In linea con la limitata letteratura sul tema, gli schemi di Standard Severi, Autosacrificio e Ricerca di Approvazione risultano essere i più diffusi nel campione esaminato, con delle strategie di fronteggiamento volte alla iper-compensazione degli stessi. In altri termini, i giovani terapeuti sembrano essere particolarmente sensibili alla prestazione (valutata tramite standard interiori e riconoscimenti esterni) e maggiormente orientati all’appagamento dei bisogni altrui, a discapito dei propri. Secondo l’autrice, questi dati suggeriscono la rilevanza nell’affrontare questi temi all’interno dei percorsi di supervisione.

 

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