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Dall’adolescenza all’età adulta: la difficile gestione delle emozioni – Video e report dal webinar organizzato dal CIP Modena

L’evento organizzato dal CIP Modena ha approfondito il tema del delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta soffermandosi sulla difficile gestione delle emozioni.

 

Con il termine adolescenza si intende la fase dello sviluppo che inizia verso i 14 anni e di cui non si riesce a stabilire una fine certa poiché il passaggio all’età adulta può variare notevolmente da un punto di vista temporale.

Il periodo che precede l’adolescenza, invece, viene definito preadolescenza e riguarda la fascia d’età che va dagli 11 ai 13 anni. L’adolescenza è caratterizzata da immaturità e consiste in un periodo di grandi cambiamenti, sia ormonali sia emotivi, che rendono l’adolescente allo stesso tempo vittima ed eroe di tali sconvolgimenti.

Questa fase di sviluppo si suddivide in 3 stadi: la prima adolescenza ha inizio uno o due anni dopo la pubertà ed è caratterizzata da un’imprevedibilità emozionale (scatti d’ira, aggressività, emozioni violente) che si può manifestare solamente all’interno del contesto familiare o estendersi anche all’esterno; durante l’adolescenza media (15-16 anni) si acquisisce il controllo delle emozioni, si sviluppa uno stile di pensiero più raffinato e si assiste a una completa dedizione al gruppo d’appartenenza, con la conseguente messa in secondo piano dei genitori; infine, nella tarda adolescenza (18-20 anni) si forma l’identità (motivo per il quale è possibile diagnosticare disturbi della personalità a partire dai 18 anni) e il ragazzo si trova a dover affrontare scelte professionali importanti.

Durante l’incontro organizzato dal CIP Modena, la Dott.ssa Giannotti ha analizzato più nel dettaglio questi stadi e, ponendoli a confronto, è possibile notare che nella prima adolescenza i cambiamenti corporei sono sconvolgenti e lo sviluppo sessuale è molto rapido mentre nelle fasi successive l’accrescimento corporeo rallenta e si consolidano le esperienze sessuali. Tuttavia è importante segnalare che attraverso il corpo passa la sensazione di sentirsi accettato dai pari e che in questo periodo si assiste a una crisi dell’identità sessuale in cui ci si interroga sul proprio orientamento. Inoltre, durante la prima adolescenza il ragazzo si trova in una situazione di ambivalenza in cui vorrebbe distaccarsi e chiedere maggiore indipendenza dai genitori ma allo stesso tempo ha bisogno di una dipendenza affettiva; nella media adolescenza la necessità di libertà prevale mentre in tarda adolescenza riemergono le competenze che i genitori hanno insegnato loro e i ragazzi diventano autosufficienti.

Per quanto riguarda la relazione con i coetanei, si osserva il bisogno di sentirsi parte di un gruppo, che viene raggiunto imitando gli altri e che causa preoccupazione nei genitori. Nelle prime fasi il ragazzo tenta di assumere ruoli differenti, spesso inadatti e contraddittori, mentre in tarda adolescenza si forma e consolida un’identità sicura. Relativamente all’autocontrollo emozionale, durante la prima adolescenza viene questo visto come una limitazione, per cui il ragazzo sperimenta l’espressione delle sue emozioni (ad esempio con esplosioni di rabbia o risate molto marcate); nella media adolescenza, invece, l’autocontrollo viene riconosciuto come importante, ma risulta difficile da applicare poiché le emozioni sono percepite come molto intense, finché non si arriva alla tarda adolescenza, momento in cui viene raggiunto tale autocontrollo.

In sintesi, l’adolescenza è la fase evolutiva più delicata dell’arco della vita, finalizzata alla conquista dell’autonomia e dell’indipendenza attraverso il superamento di compiti evolutivi fase-specifici: in particolare, la costruzione di una propria identità separata da quella dei genitori e dei pari, l’inserimento in un gruppo di coetanei, la costruzione di un proprio ruolo sessuale, lo sviluppo di un’identità sociale e l’avvio di relazioni sentimentali stabili. Tenendo in considerazione che la trasgressione fa parte del compito di autonomia dell’adolescente e, conseguentemente, che il conflitto è indispensabile, è importante sottolineare come lo stile genitoriale e l’attaccamento determinano percorsi di sviluppo diversi. Infatti, uno stile educativo democratico e autorevole favorisce l’indipendenza tramite la contrattazione di regole con il figlio, mentre uno stile autoritario e autocratico in cui le regole sono imposte dal genitore produce risentimento e poca abilità di autonomia nel figlio. Dal lato opposto uno stile egualitario e permissivo in cui non vengono definite regole causa incertezza sui ruoli ed evitamento delle responsabilità da parte del figlio.

 

DALL’ADOLESCENZA ALL’ETA’ ADULTA:
LA DIFFICILE GESTIONE DELLE EMOZIONI
Guarda il video integrale del webinar:

 

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Stress e depressione gestazionale influenzerebbero lo stato fisico e psichico del nascituro

La letteratura indica che le condizioni psichiche delle donne durante la gravidanza possono influire sulla comparsa di quadri patologici, sia fisici che psichici, del nascituro.

 

Molti studi hanno indagato gli effetti che possono avere lo stress e la depressione durante la gestazione sullo stato di salute dei futuri bambini.

Negli ultimi trent’anni la messa a punto di nuove tecnologie ha incrementato l’interesse scientifico per lo studio della vita fetale. Analizzando la letteratura si trovano ricerche di due diverse tipologie: quelle a carattere biologico, che hanno come oggetto lo sviluppo embrio-fetale in un’ottica organica e con finalità preventivo-sanitarie (Branconi, 1992; Catizone, Ianniruberto, 1989; Pescetto, De Cecco, Pecorari, Ragno, 1989) e quelle che riguardano le teorie psicologiche, che hanno cercato di spiegare la continuità della vita psichica prima e dopo la nascita poiché il bambino, anche prima della nascita, oltre ad essere una realtà fisica è una realtà psicologica (Piontelli, 1987; Pasini, Beguin, Bydlowski, Papiernik, 1989; Della Vedova, Imbasciati, 1998; Righetti, 2000)

Sono numerosi gli studi condotti sui feti che utilizzano l’ecografia, la cardiotocografia e la fetoscopia. Di particolare interesse sono le ricerche che dimostrano come gli stati emotivi della madre si trasmettono al feto e come possono condizionarne lo sviluppo sia fisico che psichico oltre ad incidere sulle complicanze ostetriche (Ianniruberto, Iaccarino, Tajani, 1978; Ianniruberto, Tajani, 1980; Rossi, Avveduti, Rizzo, Lorusso, 1989).

Lo stress materno, se troppo intenso e prolungato, può provocare alterazioni funzionali fetali. Alcuni studi dimostrano che l’iperproduzione di cortisolo durante la gestazione, che si verifica per situazioni stressanti o percepite come tali, si  associa a malattie respiratorie e digestive dei bambini fino all’età di tre anni (Zijlmans et al., 2017). Inoltre, gli alti livelli di cortisolo materno, prodotto a causa dello stress in gravidanza, condizionano la regolazione precoce allo stress determinando, ad esempio, una marcata reattività comportamentale nel  nascituro (Nazzari et al., 2018).

Recenti studi hanno dimostrato che la depressione materna prenatale influenza il temperamento infantile e condiziona la regolazione delle emozioni. Per dimostrare gli effetti dell’esposizione in utero alla depressione materna, nel 2019 è stata condotta una ricerca su donne in gestazione, affette da depressione comparsa in seguito alla supertempesta Sandy, l’uragano che ha colpito la città di New York nel 2012. Lo studio dimostra come l’alterazione del tono dell’umore della madre, durante la gravidanza, influisca sul temperamento infantile e determini livelli più elevati di stress e di paura nel bambino oltre ad una ridotta reattività alle cadute, una minore tendenza a sorridere ed un’inclinazione alla tristezza (Nomura et al., 2019).

Non è infrequente che le donne possano iniziare, sin dal principio della gestazione, a sperimentare sentimenti depressivi e una generale percezione di inadeguatezza. La depressione colpisce circa il 15% delle donne in stato di gravidanza e può determinare la comparsa di difficoltà cognitive, comportamentali ed emotive nei figli (Pearson et al., 2018).

Un gruppo di ricercatori canadesi ha analizzato i dati dello studio All Our Families (AOF), uno studio di coorte di gravidanza, progettato per indagare le relazioni tra il periodo prenatale e la prima infanzia e gli esiti per bambini e madri. La ricerca ha evidenziato che esiste un legame tra i sintomi depressivi della madre, comparsi sia durante la gravidanza che nel primo anno dopo il parto, e la percentuale di disturbi del comportamento internalizzanti (sintomi emotivi / ansiosi e sintomi di ansia da separazione) ed esternalizzanti (iperattività / disattenzione, aggressività fisica) dei bambini all’età di tre anni. La percentuale di entrambi i tipi di disturbi è risultata più elevata nei bambini la cui madre presentava sintomi depressivi più gravi, sia nel periodo prenatale che nell’anno successivo al parto  (Kingston et al., 2018).

Anche la Nakov nel suo scritto La sintonizzazione patologica ritiene che oltre ai rapporti precoci neonatali anche quelli materno-fetali possono influire sulla comparsa di quadri patologici nel nascituro (Nakov A. 1992). La comprensione degli esiti del disagio psicologico materno prenatale sullo sviluppo infantile è fondamentale per la messa a punto di strategie di prevenzione e di intervento precoce.

 

Studenti con DSA. Programmazione e didattica inclusiva evidence based – Report dall’evento

Report dell’evento online Studenti con DSA. Programmazione e didattica inclusiva evidence based organizzato da Erickson in collaborazione con l’Associazione Italiana Dislessia.

 

In Italia si stima che circa il 3-5% degli studenti sia affetto da DSA, se non addirittura una percentuale superiore al 5%. Quali sforzi sono stati fatti fino ad ora per aggiornare i metodi di insegnamento nelle scuole così da rendere la didattica realmente inclusiva? E quale impatto sta avendo in questo periodo la didattica a distanza (DAD) sull’apprendimento degli studenti con DSA? Questi sono alcuni dei temi affrontati durante l’evento STUDENTI CON DSA organizzato da Erickson in collaborazione con l’Associazione Italiana Dislessia il 12 dicembre 2020. Una giornata ricca di spunti di riflessione e consigli utili per chiunque si occupi di scuola e apprendimento: dagli insegnanti agli educatori, dai tutor agli psicologi.

Il primo intervento, a cura di Flavio Fogarolo, ripercorre il dedalo di leggi, decreti legislativi, circolari e normative inerenti il diritto dello studente a una didattica personalizzata. Se con il DPR 275/1999, che disciplinava l’autonomia scolastica, si sanciva la possibilità per le scuole di attivare percorsi didattici individualizzati, con i successivi provvedimenti si è arrivati a tutelare gli studenti con certificazione DSA o disabilità, trascurando di fatto tutti quelli con bisogni educativi speciali (BES) e non. Un passo indietro rispetto a quanto affermato più di vent’anni fa dal DPR 275/1999, che riconosceva invece a tutti gli studenti la possibilità di un percorso di apprendimento personalizzato: una scuola a misura del singolo alunno, il quale dovrebbe essere protagonista del proprio apprendimento; una scuola che non dovrebbe porsi come obiettivo principale di valutare le conoscenze, ma far sì che tutti gli studenti imparino a imparare.

Inoltre la scuola non è mero studio, è anche motivazione, emotività e relazioni sociali, tutti aspetti che non possono e non devono essere ignorati. Di fronte a studenti con difficoltà nell’apprendimento il successo formativo vero è rappresentato dal raggiungimento dell’autonomia nello studio e passa per la realizzazione di una didattica realmente inclusiva e che tenga conto degli aspetti sopra citati. A tal proposito, davvero molto interessante l’intervento del docente Filippo Barbera, che ha raccontato la sua esperienza quotidiana a scuola, i metodi di insegnamento adottati e il costante lavoro svolto per promuovere un metodo di studio efficace, ricordandoci che “la didattica adatta per DSA è funzionale a tutti gli studenti della classe”. Quindi perché non adottarla di prassi?

Diventa pertanto fondamentale elaborare strategie differenti per facilitare l’accesso alla comprensione di bambini/e e ragazzi/e. Ciò significa, specifica l’insegnante Daniela Di Donato, adattare i materiali di apprendimento in base ai diversi livelli di difficoltà e a seconda degli interessi di chi si ha di fronte, utilizzando in aggiunta strumenti e tecnologie innovative (come, per esempio, gli educational role-playing game tipo Classcraft).

Anche la valutazione dell’apprendimento non può restare ancorata a una visione della didattica ormai sorpassata, ma da cui in Italia ancora si fatica ad affrancarsi; se ne discute con Luciana Ventriglia, il cui intervento evidenzia come, oggi più che mai, un approccio all’insegnamento così datato mostri tutti i suoi limiti proprio nella DAD: tra ragazzi costretti a sostenere interrogazioni da bendati in stile Guantanamo, compiti in classe sotto l’occhio vigile del Grande Fratello (3 webcam attive: una a inquadrare la parete di fronte, una la mano che scrive e una il volto), verifiche fortemente ansiogene a tempo da svolgere in velocità (deleterie per chi ha un DSA), alcuni docenti sembrano preoccuparsi soprattutto di evitare scopiazzature e di valutare i contenuti appresi. Sarebbe invece più opportuno valutare le competenze acquisite dagli alunni, anziché le conoscenze, e puntare maggiormente sugli ambienti di apprendimento per superare l’apprendimento meccanico, ripetitivo e mnemonico a favore della vera comprensione, dell’utilizzo e della produzione di conoscenza.

Sicuramente la pandemia e i conseguenti lockdown stanno costringendo la scuola a ripensare alle modalità di insegnamento adottate, laddove alla didattica in presenza va ora a integrarsi (non a sostituirsi!) la didattica a distanza. Questa potrebbe davvero essere l’occasione per una vera e propria rivoluzione didattica all’insegna della promozione dell’equità formativa e della inclusività. Le istituzioni e gli insegnanti saranno in grado di raccogliere la sfida?

 

Programma evento

Sessione plenaria – Dalle 10.00 alle 13.00

  • 10.00-10.15: Apertura e coordinamento della sessione – Francesco Zambotti (Erickson, Trento)
  • 10.15-10.45: Quadro normativo e PDP – Flavio Fogarolo (Formatore, Associazione Lettura Agevolata onlus, Vicenza)
  • 10.45-11.15: Suggerimenti e strategie didattiche da un insegnante con DSA per studenti con DSA – Filippo Barbera (Istituto Comprensivo Vicenza N.8)
  • 11.15-11.30: Pausa
  • 11.30-12.00: Facilitare l’accesso alla comprensione: adattare i materiali di apprendimento – Daniela Di Donato (Docente specializzata in didattica inclusiva, formatrice scuola AID)
  • 12.00-12.30: Dalla valutazione formativa alla valutazione autentica – Luciana Ventriglia (Formatrice scuola AID, Associazione Italiana Dislessia)
  • 12.30-13.00: Spazio domande partecipanti

Tavola rotonda a cura dell’Associazione Italiana Dislessia – Dalle 14.30 alle 16.30

  • Didattica inclusiva per una scuola accessibile a tutti – A cura di Paolino Gianturco (Dirigente scolastico e membro scuola del Consiglio Direttivo AID), Maria Rita Salvi (Dirigente scolastico e membro del comitato tecnico scientifico di AID), Cristina Fabbri (Docente e formatrice scuola AID) e Maria Enrica Bianchi (Docente e formatrice scuola AID)

Plenaria finale – Dalle 16.45 alle 17.00

  • Conclusioni: Francesco Zambotti (Erickson, Trento)

Realizzati e consapevoli. Allenamenti mindfulness per trasformare il tuo lavoro e la tua vita – Recensione

Nel libro Realizzati e consapevoli gli autori consigliano quali semi coltivare per il cambiamento e come prendersene cura.

 

E’ questo il momento di tornare a fare le stesse cose o è forse il momento di farle in modo diverso, ispirandosi a un cambiamento?

Questa domanda risuona più che attuale e calata nel nostro tempo. Il libro Realizzati e consapevoli è stato ultimato proprio in piena emergenza sanitaria, lo scorso marzo.

Gli autori si chiesero se fosse il momento opportuno per l’uscita di un libro sull’applicazione della Mindfulness al contesto lavorativo. Io rispondo senza dubbio di sì perché ora è necessario generare trasformazioni ripartendo dalla consapevolezza di ciò che esiste oggi per generare un cambiamento per il domani.

Il libro, come indicano gli autori: ‘Non ha la pretesa di migliorarti ma questo è il momento per cui questo libro è nato. Per un mondo del lavoro più incerto, è possibile una rivoluzione gentile‘. Anche la storia ci insegna che non c’è cambiamento senza rivoluzione, in altre parole qualcosa capace di rompere schemi e cambiare gli sguardi ma non è detto che la rivoluzione non possa essere gentile.

La disponibilità al cambiamento è il terreno, ma occorrono semi da piantare e coltivare con cura.

Gli autori consigliano quali semi coltivare e come prendersene cura, io ve li riassumo brevemente.

Presta attenzione!

Negli ultimi anni la nostra attenzione è stata posta sotto sequestro da migliaia d’input che arrivano rapidamente al nostro cervello e che ci seducono promettendoci cose. Social e applicazioni gratuite ma che in realtà ci rubano tempo e ci fanno lavorare gratuitamente per i loro scopi. ‘Se prima si passava da un dispositivo all’altro ogni tre minuti, adesso avviene ogni 40 secondi; vuole dire che la nostra attenzione ogni 40 secondi deve riprendere il focus’.

Il multitasking non è un vantaggio per il nostro cervello e crea dipendenza.

Le neuroscienze indicano, infatti, che possiamo dedicare attenzione sostenuta solo facendo una cosa alla volta.

Nel libro si propone di coltivare il seme dell’attenzione con diverse pratiche, esercizi utilissimi e soprattutto fattibili.

Sii gentile

Quanti luoghi comuni ancora sulla gentilezza? Segno di debolezza, fragilità che ti porta a essere alla mercé di altri? Gentile è da perdenti?

‘Amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri’ si legge nella Treccani alla voce gentile. Un animo gentile ascolta con garbo e senza giudizio, e prima di tutto sa che essere gentili con se stessi significa osservarsi e ascoltarsi avendo cura di ciò che notiamo e senza porre riflettori su limiti o fragilità.

Un consiglio, se leggendo queste prime righe della mia recensione ti sei distratto, accogli con gentilezza il pensiero, la distrazione e riporta la tua attenzione consapevole al prossimo passo.

Esprimi la creatività

La creatività non riguarda persone speciali, artisti e inventori ma bensì riguarda tutti e ognuno di noi può imparare a esprimerla. ‘Si può essere creativi anche nei gesti quotidiani, nei piccoli cambiamenti interiori ed esteriori che decidiamo di praticare con coraggio‘.

Con queste parole gli autori preparano il lettore a praticare la creatività, a sperimentare uno sguardo diverso di vedere le cose, a provare a fare le cose in modo diverso, per generare un cambiamento. Seguite gli esercizi del libro per scoprire che questo è possibile.

Sperimenta la connessione

Le tecnologie digitali ci permettono una connessione costante e ovunque, ma con chi? Con altri esseri umani, abbiamo bisogno di essere connessi ad altri esseri umani e di certo la pandemia e il conseguente lockdown ci ha fatto percepire questo bisogno. ‘Abbiamo bisogno di definirci attraverso lo sguardo dell’altro, il volto dell’altro. (…) Abbiamo bisogno di essere visti, ascoltati, valorizzati, riconosciuti’. Gli autori ci invitano quindi a scoprire come approfondire le relazioni e a coltivare il seme della connessione.

Allena e manifesta l’intenzione

Bene, ora che gli autori ci hanno invitato a conoscere, piantare e seminare il seme dell’attenzione, della gentilezza, della creatività e della connessione… ora proprio ora! Anzi qui e ora manifestiamo e realizziamo le nostre intenzioni.

Sentire e comprendere le proprie intenzioni, richiede allenamento e pratica. E in questo capitolo troverete i passi e gli esercizi per essere finalmente realizzati e consapevoli!

Termino questa mia breve recensione scegliendo una delle diverse poesie contenute nel testo e opportunamente scelte dagli autori per porre l’accento sui passi del percorso. A proposito questo percorso inizia ora! Qui e ora!

Non sei un essere che deve cambiare,
Sei un essere in continua trasformazione.
Puoi assecondare quella trasformazione,
Vedere dove ti porterà. Sarai più rilassato, sarai in ascolto.
Sarai più gentile con te stesso.

 

Sintomi psichiatrici, stress ed esperienze traumatiche sono implicate nella sindrome dell’intestino irritabile?

La sindrome dell’intestino irritabile (Irritable bowel syndrome; IBS), colpisce dal 5 al 30% della popolazione mondiale (Enck et al., 2016) e consiste in un disturbo funzionale del tratto gastrointestinale che si manifesta con dolore addominale ed alterazione dell’intestino (Longstreth et al., 2006).

 

La sua diagnosi, non basandosi su metodi definitivi o biomarcatori, avviene esclusivamente mediante raccolta anamnestica condotta sul paziente. Gli unici criteri diagnostici oggettivi e riconosciuti ad oggi, sono quelli stabiliti da Roma III, che rimandano alla manifestazione sintomatologica di dolore o fastidio nel tratto addominale (Gwee, 2007).

L’eziologia della sindrome dell’intestino irritabile, probabilmente multifattoriale, coinvolge aspetti di disagio psicologico tra cui disturbi dell’umore, ansia e disturbi somatoformi (Mykletun et al., 2010; Roy-Byrne et al., 2008). Sebbene non emergano prove oggettive a supporto della relazione causale tra sindrome dell’intestino irritabile e psicopatologia, quest’ultima aggrava la condizione sintomatologica dell’intestino, generando ulteriori complicanze come ipocondria, disturbi di somatizzazione e dissociazione (Salmon et al., 2003; Wilhelmsen, 2000).

La gravità dei sintomi della sindrome dell’intestino irritabile aumenta se in passato l’individuo ha vissuto una condizione di stress, subito un trauma o è stato abusato cronicamente (Kanuri et al., 2016; Leserman & Drossman, 2007). Una storia di abuso fisico o sessuale viene riportata di frequente da questi pazienti e contribuisce alla persistenza della sintomatologia.

L’indagine di Torun et al. (2020) si è occupata di valutare i sintomi psichiatrici, tra cui ansia e depressione, in 54 pazienti con sindrome dell’intestino irritabile; indagando il ruolo degli eventi traumatici passati (fisici o psicologici) nella predisposizione della malattia somatica.

Confrontando i pazienti aventi sindrome dell’intestino irritabile con un gruppo di controllo senza alcuna patologia fisica, emergono per i primi, punteggi più alti sulle scale del Symptom Checklist-90-R (SCL-90R; Derogatis, 1977), volto a valutare la sintomatologia psichiatrica. Nel dettaglio, in accordo con la letteratura precedente, riportavano maggiori livelli di somatizzazione, tratti ossessivo-compulsivi, e ostilità nella condizione emotiva di rabbia (Sykes et al., 2003; Whitehead et al., 2002). Tra loro, la tendenza a somatizzare, può aumentare l’impiego dei servizi sanitari e diminuire la risposta al trattamento oltre che l’aderenza allo stesso, con conseguente incremento degli effetti avversi sintomatologici.

Rispetto alle valutazioni dell’ansia effettuate mediante State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger, 2010), emerge che mentre l’ansia di tratto (caratteristica relativamente stabile della personalità) era maggiore tra i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile, l’ansia di stato (sensazione soggettiva di tensione e reattività dovuta alla rottura dell’equilibrio emotivo) era significativamente più alta nel gruppo di controllo. Quest’ultimo risultato, è stato ricondotto alla condizione dei partecipanti che sebbene senza patologia, si trovavano in ospedale e dunque in una condizione potenzialmente stressante.

La presenza di ansia tra coloro con sindrome dell’intestino irritabile è coerente con studi precedenti che riportavano, oltre a questa, maggiori livelli di depressione e somatizzazione (Palsson & Drossman, 2005; Sykes et al., 2003; Whitehead et al., 2002). Anche coloro che con l’insorgenza della malattia non sviluppano una psicopatologia, tenderanno a manifestarla al follow-up dopo diversi anni (Koloski et al., 2012). Secondo la letteratura, i disturbi d’ansia, in comorbilità con la sindrome dell’intestino irritabile nel 30-50% dei casi, svolgono un ruolo rilevante nella patogenesi e nella cronicità dei sintomi gastro-intestinali, stimolando eccessivamente il sistema nervoso autonomo (Agosti et al., 2002).

Coloro con sindrome dell’intestino irritabile ed una storia di abuso fisico alle spalle, avevano punteggi significativamente maggiori sugli indici psicopatologici valutati mediante l’SCL-90-R (somatizzazione, tratti ossessivo-compulsivi, ostilità, sensibilità interpersonale, depressione, ansia, ansia fobica, ideazione paranoide e psicoticismo).

Rispetto all’ansia, l’aver subito un trauma precedente può aver abbassato la soglia di comparsa dei sintomi ansiosi, rendendo l’individuo più vulnerabile.

Gli eventi quotidiani stressanti sono quantitativamente maggiori nell’arco della vita tra coloro con sindrome dell’intestino irritabile (Bradford et al., 2012); punizioni fisiche, abusi emotivi e sessuali esacerbano la sintomatologia intestinale, determinando un uso più frequente dei servizi sanitari (Lackner & Gurtman, 2004; Sperber et al., 2012). Inoltre, ad aggravare la loro condizione, questi soggetti possiedono funzioni gastro-intestinali più sensibili allo stress (Brandt et al., 2008).

L’indagine di Torun et al. (2020), ha riportato punteggi maggiori sugli indici psicopatologici anche tra i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile e una storia familiare di malattia psichiatrica tra i parenti di primo grado. Secondo la letteratura, è più comune l’incidenza di disturbi psichiatrici tra i parenti di pazienti con sindrome dell’intestino irritabile rispetto a quelli di pazienti sottoposti a colecistectomia (Woodman CL, Breen K, Noyes R, Moss C, Fagerholm R, Yagla SJ, 1998). Oltre ad una maggiore incidenza del disagio psicologico, la letteratura riporta come tra i parenti di primo grado sia presente spesso una storia di abuso di alcol (Knight et al., 2015).

La presente ricerca ha rilevato come il disagio psicologico, oltre ad essere un importante fattore di rischio implicato nello sviluppo, nella persistenza ed esacerbazione dei disturbi funzionali intestinali, può influenzarne notevolmente l’esito compromettendo e condizionando negativamente la relazione tra medico curante e paziente (Addolorato et al., 2008).

I pazienti che sperimentano sindrome dell’intestino irritabile necessitano di essere valutati negli aspetti psicologici che sono spesso di ostacolo alla guarigione. Perciò, si rende necessario un approccio di valutazione olistico e multidisciplinare della sindrome, grazie al quale poter migliorare la qualità della vita dei pazienti, riducendo i costi di trattamento ed il tempo necessario alla guarigione.

 

Essere una donna infertile nel XXI secolo: vissuti psicologici e stigma sociale

I vissuti di inadeguatezza, incompletezza, impotenza e perdita di speranza e la comparsa di ansia, depressione e pensieri suicidari spingono le donne infertili in una crisi che invade la sfera personale e relazionale e che deve fare i conti con un evidente stigma sociale.

 

I tempi sono cambiati: i modelli culturali attuali sono diversi da quelli del secolo scorso e le donne hanno più spazi per affermarsi nel mondo del lavoro, per acquisire un ruolo sociale e professionale che le soddisfi e per mirare a una gratificazione personale non connessa unicamente alla cura dei figli, della famiglia e della casa. Le nuove scelte di vita tuttavia, per ragioni di tipo economico o legate all’ampliamento delle proprie opportunità educative e occupazionali, posticipano il periodo di vita in cui il desiderio di gravidanza insorge e si traduce in un progetto (Kelly-Weeder, Cox, 2008).

La principale causa di infertilità femminile è l’età. Si registra un incremento di donne infertili sopra i 35 anni, età oltre la quale la capacità riproduttiva si riduce: è necessario più tempo per concepire, la frequenza dei rapporti sessuali tende a diminuire, l’ovario diventa meno efficiente, la probabilità di anormalità cromosomiche incompatibili con la vita aumenta e si riscontra un incremento di aborti spontanei, il 50% dei quali è rilevato dopo i 40 anni (Roupa, Polikandrioti, Sotiropoulou, Faros, Koulouri, Wozniak, Gourni, 2009).

In contrasto con la tendenza a posticipare la maternità, in molte culture la genitorialità è considerata ancora oggi un’importante transizione di vita e di conseguenza l’esperienza stressante dell’infertilità femminile è associata a un ampio spettro di disagi e problematiche psicologiche. Le donne infertili tendono a provare sentimenti negativi nei confronti di loro stesse e degli altri, appaiono più vulnerabili degli uomini agli stimoli ambientali correlati alla riproduzione – come la vista di un’altra donna incinta – ed è probabile che sviluppino pensieri dolorosi e intrusivi legati all’infertilità (Agarwal, Gupta, Sharma, 2005). Tendono a perdere il supporto sociale e ad avere problemi nelle relazioni a causa dello spiccato senso di vergogna per essere incapaci di concepire un figlio, che talvolta combattono sviluppando un “sense of entitlement”, cioè l’idea che ogni cosa nel mondo sia loro dovuta (Akhter, Jebunnaher, 2012).

In seguito al fallimento della procreazione medicalmente assistita, la maggior parte delle donne presenta elevati livelli di ansia e in un quarto di esse si rileva la presenza di pensieri suicidari; il maggiore impatto emozionale si verifica in seguito al fallimento del primo ciclo del trattamento e può persistere per settimane, nonostante l’intensità sia determinata da variabili individuali, come una maggiore predisposizione all’ansia o la presenza di sintomi depressivi precedenti al trattamento (Ardenti, Campari, Agazzi, Battista, 1999).

I vissuti di inadeguatezza, incompletezza, impotenza e perdita di speranza e l’insorgere di ansia, depressione e pensieri suicidari comportano il profilarsi di aspettative negative rispetto al futuro; sono inoltre considerati un importante fattore nei trattamenti all’infertilità, poiché riducono sia la collaborazione e le possibilità di successo del trattamento, sia la capacità di superare l’evento e ricostruire la propria vita rinunciando all’aspetto della maternità (Patel, Sharma, Kumar, 2018). Le difficoltà psicologiche, a livello di emozioni negative o di sintomi psicopatologici, sono accresciute dal fatto che le donne spesso si trovano ad affrontare lo stigma sociale.

In culture anche molto diverse fra loro, infatti, un fallimento nella riproduzione può esporre socialmente a una forte disapprovazione. La letteratura scientifica ha evidenziato l’importanza del contesto socioculturale nel definire l’esperienza vissuta di infertilità, che è più difficile in società che enfatizzano la centralità della genitorialità per la definizione dell’identità femminile (Missmer, Seifer, Jain, 2011). In Turchia, ad esempio, uno studio evidenzia come la diagnosi di infertilità crei stigmatizzazione ed esposizione a un linguaggio negativo (Kaya, Oskay, 2019). Le donne infertili in Giordania sono descritte come se avessero le “ali spezzate”; sono definite donne a metà, rami secchi e alberi privi di vita (Daibes, Safadi, Athamneh, Anees, Constantino, 2018). Nella cultura nigeriana le donne devono avere figli per poter comprendere la loro femminilità, mentre se restano prive di figli sono escluse dalla partecipazione alle attività sociali ed è loro proibito toccare i bambini (Hollos, Larsen, Obono, Whitehouse, 2009).

La visione della donna infertile nella società occidentale è caratterizzata da idee di anormalità ed emarginazione. In Italia, in particolare, la forte influenza religiosa porta le donne che non possono realizzare il proprio desiderio di maternità a sentirsi incomplete e inadeguate, nonostante la tendenza attuale conduca molte di loro a posticipare l’età in cui diventare madri.

I vissuti psicologici ed emotivi delle donne infertili sono molteplici e pervasivi in ogni sfera di vita. È importante pertanto che la psicologia si ponga come ausilio nella legittimazione sociale di questa condizione che riguarda uno spaccato sempre più ampio dell’universo femminile e che sostenga le donne infertili nell’elaborazione dei vissuti negativi, promuovendo il recupero di un livello di benessere tale da permettere alle donne di reinvestirsi in altre aree progettuali e generative della vita.

 

Funzioni Cognitive e igiene orale negli anziani: una ipotetica relazione

Gli anziani che soffrono di demenza sembrano avere un rischio maggiore per quanto riguarda i problemi legati ad una incorretta igiene orale, in quanto può venire trascurata a causa del declino correlato alla cura personale e alle capacità motorie.

Fontanel Giulia – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

Con il termine demenza si fa riferimento a un gruppo di sintomi che causano un progressivo declino cognitivo tale da compromettere le attività di vita quotidiana. Nel 1982, il Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians britannico, definisce la demenza come una compromissione delle funzioni corticali superiori, comprendendo la memoria, la capacità di far fronte alle richieste della vita quotidiana, di svolgere azioni motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento socialmente adeguato e si far fronte alle proprie reazioni emotive. Inoltre, tale condizione è spesso degenerativa: irreversibile e progressiva (Faggian et a., 2013).

Nel 2012, l’Organizzazione mondiale della sanità (WHO) e Alzheimer’s Disease International (AID) definiscono la demenza come una “priorità della sanità pubblica”. Infatti, la continua crescita della popolazione anziana, con il rischio di incorrere in compromissioni delle funzioni cognitive e manifestazioni neuropatologiche, in futuro potrebbe portare a un aumento della spesa economica da parte dei sistemi sanitari (Prince et al., 2013).

Negli ultimi anni, tra le diverse tematiche riguardanti l’invecchiamento, diversi studi hanno iniziato a indagare la possibile relazione tra decadimento cognitivo e igiene orale nella popolazione anziana. L’OMS ha definito la salute orale come

uno stato di assenza di dolore cronico alla bocca e al viso, neoplasie al cavo orale e alla gola, infezione orale e piaghe, malattia parodontale, carie, perdita di denti e altre malattie e disturbi che limitano la capacità dell’individuo di mordere, masticare, sorridere, parlare e mina il benessere psicosociale.

Una buona igiene orale dovrebbe quindi portare a una condizione del cavo orale che, se in buono stato, permette all’individuo di mangiare, parlare e socializzare senza dolore, malattie e imbarazzo (Kaufman et al., 2014). In questi studi ci si domanda se una cattiva igiene orale possa rappresentare un fattore di rischio per l’insorgenza di deficit cognitivi e conseguentemente un rischio per l’insorgenza di demenza (Wu et al., 2016).

Nel 2013, negli Stati Uniti, si è stimato che il 70% della popolazione con più di 65 anni ha usufruito visite dentistiche; la maggior parte degli over 65, inoltre, pari al 70%, ha ancora i propri denti, rispetto al 54% di 20 anni fa (Brennan et al., 2014). Le persone anziane che soffrono di demenza sembrano avere un rischio maggiore per quanto riguarda i problemi legati ad una incorretta igiene orale, in quanto può venire trascurata a causa del declino correlato alla cura personale e alle capacità motorie (Brennan et al., 2014). Al contrario, non è ancora chiaro se una cattiva igiene orale possa essere un fattore di rischio per l’insorgenza di deficit cognitivi. I problemi legati all’igiene orale nella popolazione anziana il più delle volte sono carie, flusso salivare ridotto, lesioni alla mucosa, infiammazioni e parodontite (Gonsalves et al., 2008). Le persone anziane, ad ogni modo, non sembrerebbero lamentarsi spesso dei problemi dentali, indicando un punto doloroso o infiammato. Alcuni studiosi hanno dimostrato che molto spesso le persone anziane con un deficit cognitivo lieve tendono a sottostimare i propri problemi dentali. A tal proposito, Brody e colleghi (1985), in un loro studio, stimano che il proprio campione di anziani, con declino cognitivo, riporta solo l’1% di 2000 sintomi.

Alla luce di ciò, è importante che vi sia un intervento precoce negli anziani, soprattutto laddove c’è un deficit cognitivo o una demenza lieve. Risulta più semplice sia per i caregiver che per i dentisti intervenire nelle fasi iniziali del declino, poiché man mano che c’è un peggioramento è più difficile gestire la situazione a livello comportamentale e dentale. E’ possibile, infatti, che le persone con demenza, con il peggiorare della propria condizione, non comprendano o non si fidano, ostacolando così l’eventuale intervento del dentista (Brennan et al., 2014).

Wu (2016), insieme ai suoi collaboratori, in una review prende in esame 16 studi longitudinali sviluppati in tutto il mondo. Il dato più comune in questi studi è la perdita di denti, unita spesso a una relazione significativa con deficit cognitivo.

Per valutare l’igiene orale delle persone, nella maggior parte degli studi presi in esame da Wu e colleghi (2016), si utilizza una valutazione dell’igiene orale unita alle volte dalle impronte dentali. Inoltre, vengono considerate tutta una serie di informazioni come: numero di denti cariati, denti mancanti, la presenza di placca, malattia paradontale. (Jones et al., 1993; Ship et al., 1994; , Stewart et al., 2013; ,Ellefsen et al., 2009). Alcuni studi includono anche dati forniti dai partecipanti circa il dolore, eventuale sanguinamento e l’uso di protesi (Shimazaki et al., 2001; Arrivè et al., 2012;  Paganini-Hill et al., 2012).

Per quanto riguarda la valutazione cognitiva dei partecipanti, generalmente si somministra il Mini-Mental State Exam (MMSE) in aggiunta ad altri eventuali strumenti utili ad una valutazione neruopsicologica più completa.

Alcuni di questi studi presi in considerazione nella review di Wu e colleghi (2016) concludono che non c’è una relazione significativa tra la perdita di denti e declino cognitivo. Altri, invece, individuano una relazione tra una igiene orale carente e un declino cognitivo, in alcuni casi anche associato a demenza. In molte ricerche prese in esame i risultati, in base al numero della perdita di denti e presenza di carie, insieme ad un campione alle volte non adeguatamente numeroso, risultano contrastanti o non statisticamente significativi. Nonostante ciò, alcune ricerche, seppur in maniera debole, sembrano indicare che una buona igiene orale e visite dentistiche regolari possono ridurre il rischio di deficit cognitivo, demenza compresa. Alla luce di questi risultati contrastanti è difficile avere una visione chiara e non permettono di affermare con sicurezza che una cattiva igiene orale faccia aumentare il rischio di insorgenza di demenza (Wu et al., 2016).

Concludendo, diversi studi sostengono che mantenere una sana igiene orale, in età avanzata, sia vantaggioso da diversi punti di vista: funzionale e psicosociale (Müller et al., 2017; Masood et al., 2017). E’ altrettanto vero che una recente ricerca (Delwel et al., 2018) conferma che tra gli anziani, gli individui con diagnosi di demenza hanno un rischio più elevato di sviluppare malattie orali come carie, parodontite, perdita dei denti e lesioni alla mucosa. Allo stesso modo però, non è chiaro ancora oggi se una incorretta igiene orale possa aumentare il rischio di insorgenza di demenza.

 

Più si sa, più si è solo più sicuri di sé: il Paradosso dell’Expertise Teorica e Predittiva

Una comprovata conoscenza teorica e pratica è una base fondamentale per esser considerati, ed essere reputati, degli esperti. Questo rapporto però non è sempre causale, soprattutto nei campi riguardanti le previsioni e le analisi di lungo periodo via scienze analitiche matematiche.

 

Attualmente una delle maggiori discussioni riguarda la considerazione verso il concetto di meritocrazia conseguente un duro e comprovato lavoro. Come determina il professore Tom Nichols nel suo noto articolo The Death of Expertise (2014), attualmente l’expertise, nella sua serie di definizioni a seconda della semantica (Herling, 2000), è minata a causa della considerazione da parte della cultura odierna e del knowledge management odierno. Questi ultimi infatti sono maggiormente orientati verso elementi alternativi al comprovato lavoro teorico e pratico per scegliere e considerare una risorsa un successo lavorativo, come la visibilità mediatica (Allocca, 2018) e la sola capacità di gestire gli aspetti interpersonali (Casciaro, Lobo, 2005).

Sebbene Nichols sottolinei come questa considerazione possa minare il rapporto conoscenza teorica – conoscenza pratica come principale e sano elemento meritocratico, questa discussione controversa ha portato a sviluppare altre ottiche di analisi verso il concetto dell’expertise, talvolta criticando direttamente il concetto moderno della stessa meritocrazia (Del Rey, 2013).

Fra gli aspetti più criticati dell’expertise c’è quello riguardante l’expertise teorica e legata alla capacità di previsione. Come descrive Nassim Nicholas Taleb, matematico dell’incertezza ed umanista, il concetto stesso di esperto dell’incertezza è un paradosso fuorviante, vista la cecità della struttura neuropsicologica umana nei confronti dell’incertezza.

Lo studioso levantino nella sua opera magna, Il Cigno Nero (2014), indica come l’evoluzione umana, per affrontare i pericoli dell’ambiente e del non conosciuto, ha sviluppato il sistema attacco – fuga, il quale ha permesso alla razza umana di sopravvivere, a costo però di sviluppare meccanismi di difesa ciechi nei confronti degli aspetti astratti del futuro.

Per questo Taleb si mostra critico nei confronti dell’expertise finanziaria ed in genere legata alla ricerca di contestualizzare il futuro attraverso le scienze dure, poiché tali risultati sono altamente influenzati dai vari bias che contraddistinguono la vita psichica umana.

Utilizzando come esempio accademico i risultati di ricerca di Stuart Oskamp (1965), Taleb mostra come l’aumento delle informazioni disponibili agli esperti sottoposti all’esperimento non provoca un miglioramento delle loro capacità predittive, ma solo quello della loro fiducia in se stessi. Questa azione è riconducibile così all’expertise bias, ovvero l’uso inconscio del proprio bagaglio di conoscenza e di cultura per proteggere l’ego dalle minacce, anche a costo di non riconoscere e sottovalutare l’errore oggettivo (Kornell, 2010).

Attualmente la previsione degli eventi è un bisogno insito dell’essere umano, in maniera che il suo sistema psichico possa attivare un sistema di compensazioni per rilasciare la tensione ed avere una vita emotiva stabile (Presti, 2018).

Oltretutto, la previsione analitica ed economica permette l’idea di una struttura verificabile, elemento chiave per la stabilità economica ed umana (Muradoglu, Harvey, 2012).

Tuttavia, come contestualizza il già citato Taleb, molti degli eventi che han fatto la storia dell’Essere Umano, da lui rinominati cigni neri, sono stati completamente imprevedibili e sono stati contestualizzati solamente dopo con il processo della letteratura storica.

Per questo, in conclusione, il professore levantino si aggiunge ad altri studiosi come Michael Wheeler (2013) invitando ad avere una predisposizione critica nei confronti dell’expertise analitica e teorica, introducendo le variabili del caso e della fortuna come elementi fondamentali per il successo lavorativo e per la ricerca.

 

Lo Sport di domani (2020) di Flavio Tranquillo – Recensione del libro

L’autore sviluppa un ragionamento solido su come costruire una nuova cultura sportiva partendo dalla situazione attuale e definendo la trasversalità della questione.

 

La cultura sportiva del nostro Paese è un tema indubbiamente complesso, che nel tempo siamo riusciti a complicare.

Lo sport di domani è un libro scritto da Flavio Tranquillo, in maniera accurata, edito da add editore e proposto in un momento storico cruciale per il progresso al quale lo sport deve tendere.

Le tematiche sono ben congegnate all’interno di una tripartizione calibrata che consente di distinguere in maniera netta: “sport-cultura”, “sport-dilettantistico” e “sport-professionistico”.

La meticolosità dell’Autore nel ricorrere ai dati e ai fatti per espandere i ragionamenti e dribblare qualsiasi formula preconfezionata caratterizza i contenuti in maniera convincente.

Oltre a definire e affermare la dimensione economica dello sport nelle sue varie declinazioni, il testo offre con estrema puntualità il quadro generale delle criticità presenti e gli elementi necessari per creare un valore sostenibile.

Le immagini e i grafici utilizzati soprattutto nella prima parte facilitano la comprensione delle riflessioni di partenza, e permettono di assimilare riferimenti, definizioni e terminologie specifiche, volte a coniugare i diversi piani considerati: culturale, giuridico, economico e politico, con accenni ad aspetti psicologici e pedagogici.

La capacità di Flavio Tranquillo di analizzare le organizzazioni sportive, prescindendo dalle nazioni di appartenenza e alternando nozioni storiche e sociologiche, arricchisce la prospettiva ed esclude una visione miope delle difficoltà da superare.

I dati utilizzati sono estremamente aggiornati, il testo è scorrevole e completo e questo consente una valutazione critica dei fatti esposti e la possibilità di stimolare un ragionamento collettivo volto a una rinascita culturale.

La forza de Lo sport di domani risiede nella competenza, nella precisione e nell’apertura mentale di un Autore che è riuscito a tradurre il suo amore per lo sport in un’indagine lucida e neutrale sullo stato dell’arte.

 

L’appello dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna alla Regione: “Inserire la categoria nel Piano Vaccini” – Comunicato stampa

Comunicato Stampa

Inserire al più presto gli psicologi nel Piano Vaccini regionale. E’ quanto chiede l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna alla Regione, che a oggi non prevede canali di somministrazione agevolati per la categoria, nonostante le richieste avanzate dai suoi rappresentanti.

 

“E’ giusto attribuire priorità agli operatori sanitari e socio-sanitari “in prima linea”, ma non dimentichiamo che tutti gli psicologi sono professionisti della salute, indipendentemente dal loro contratto di lavoro, e meritano tutela”. (Gabriele Raimondi, presidente dell’Ordine)

Se i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche o del privato accreditato hanno ricevuto o sono in lista per ricevere il vaccino, infatti, la maggior parte dei professionisti risulta esclusa dal piano regionale.

“Anche coloro che operano in regime di libera professione o come dipendenti in ambito non sanitario, ogni giorno incontrano cittadini con importanti fragilità. Pensiamo ad esempio a chi lavora nel supporto domiciliare a famiglie con disabili o anziani, nei contesti scolastici e a chi tutela la salute psicologica dei cittadini offrendo il suo prezioso contributo negli studi privati”. (Gabriele Raimondi, presidente dell’Ordine)

Del tema si parlerà venerdì in un incontro con l’Assessorato alle Politiche per la Salute della Regione, ottenuto anche a seguito di richieste specifiche e sollecitazioni dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna all’Ente.

“Riconosciamo il grande lavoro svolto dalla Regione in questo difficile momento storico e auspichiamo che anche i nostri ottomila iscritti siano tutelati e che dunque le nostre richieste siano accolte. L’emergenza sanitaria è anche emergenza psicologica e come professionisti, al pari di tutte le altre professioni sanitarie, vogliamo continuare ad offrire il nostro pieno contributo alla salute dei cittadini in un contesto di totale sicurezza per loro e per noi”. (Gabriele Raimondi, presidente dell’Ordine)

 

L’ansia da separazione e il potere della persuasione

Le persone con disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta nutrono un eccessivo disagio quando sperimentano o prevedono la separazione dalla propria casa o dalle proprie figure di attaccamento. Saranno più inclini ad esserse persuasi da pubblicità che richiamano il concetto di essere a casa?

 

Nel corso del tempo, rispetto all’ansia, i ricercatori si sono sempre concentrati sull’eziologia dei disturbi ad essa connessi, sulla diagnosi differenziale, sulla comorbilità, sulle sue conseguenze socio-emotive e sull’efficacia dei trattamenti. Gli autori di uno studio preso in esame hanno deciso, invece, di prendere in considerazione un focus differente: si sono chiesti se la sintomatologia ansiosa possa rendere gli individui particolarmente suscettibili a specifici tentativi di persuasione.

Nello specifico, gli autori si sono concentrati sul disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta, una patologia caratterizzata da un’eccessiva paura di separarsi da coloro ai quali l’individuo è legato (Boelen, Reijntjes & Carleton, 2014). I soggetti affetti da questo disturbo nutrono un eccessivo disagio quando sperimentano o prevedono la separazione dalla propria casa o dalle proprie figure di attaccamento (American Psychiatric Association, 2013). Quando gli individui si trovano in uno stato ansioso, sono motivati a sopprimere questa sensazione di disagio (Battista et al., 2015) e ricercano qualsivoglia tipo di soluzione che consenta loro una via di fuga. Di conseguenza, se un soggetto affetto da agorafobia sarà portato ad evitare i luoghi pubblici, un individuo adulto con disturbo d’ansia da separazione tenterà di ridurre la distanza percepita, fisicamente o psicologicamente, da casa e dai propri cari. Gli autori hanno dunque ipotizzato che coloro che presentano sintomi correlati all’ansia da separazione, rispetto a coloro i quali non manifestano tale sintomatologia, sarebbero stati particolarmente attratti da pubblicità che richiamano il concetto di essere a casa, in quanto strettamente allineate con le loro propensioni motivazionali.

Al fine di testare le loro ipotesi, i ricercatori hanno condotto un’indagine su un campione costituito da 216 studenti universitari. Avendo ipotizzato che gli individui avrebbero mostrato reazioni differenti rispetto al tema pubblicitario, in funzione della propria sintomatologia ansiosa, è stato necessario includere nello studio partecipanti con sintomi di differente entità e gravità e dunque condurre uno studio su un campione non clinico.

Ai partecipanti è stato detto che avrebbero preso parte ad uno studio intitolato Personalità e preferenze dei consumatori e, successivamente, è stato chiesto loro di compilare il Severity Measure for Separation Anxiety Disorder-Adult (Craske, Wittchen, Stein, Andrews & Lebeu, 2013), uno strumento di autovalutazione che consente di misurare la frequenza con cui i soggetti manifestano i sintomi correlati all’ansia da separazione. In un secondo momento, gli studenti sono stati impegnati in un compito di interferenza, il cui scopo era quello di distrarre i partecipanti, prima di passare allo step successivo. È stato dunque richiesto di compilare un questionario riguardante le preferenze dei consumatori. Al termine del suddetto compito, ai partecipanti è stato chiesto di osservare attentamente la pubblicità di una compagnia aerea, il cui nome era stato adeguatamente oscurato, e di rispondere alle successive domande, selezionando le caselle che meglio rappresentano la propria opinione. Nello specifico, la pubblicità mostrava l’immagine di una giovane donna sorridente che guarda dal finestrino di un aereo. I ricercatori hanno manipolato il testo dell’annuncio al fine di creare le due condizioni sperimentali; di fatti, nel primo caso l’annuncio affermava “Tornare a casa dalla mia famiglia…la miglior sensazione del mondo”, mentre, nel secondo caso “Vedere nuovi posti…la miglior sensazione del mondo”. È bene specificare che i partecipanti sono stati assegnati in maniera casuale alle due condizioni. Successivamente è stata valutata l’opinione dei soggetti rispetto all’annuncio (MacKenzie & Lutz, 1989).

Coerentemente con quanto ipotizzato, i risultati hanno mostrato come gli individui che avevano manifestato livelli più elevati di una sintomatologia connessa all’ansia da separazione hanno mostrato atteggiamenti più favorevoli nei confronti della pubblicità caratterizzata dal tema della casa rispetto all’altra. Al contrario, gli individui che avevano mostrato livelli di ansia da separazione bassi o inesistenti, non hanno mostrato questa reattività differenziale rispetto all’annuncio contenente il tema casalingo. I risultati appena esposti potrebbero suggerire un’opportunità per i professionisti operanti nel settore marketing ma, allo stesso tempo, possono riflettere una minaccia per coloro che soffrono di un disturbo d’ansia da separazione con esordio in età adulta. Di fatti, per questi individui, essere a conoscenza delle proprie vulnerabilità rispetto a certi tipi di manipolazione potrebbe consentire loro di evitare di cadere in queste ultime (Wood & Quinn, 2003; Xu & Wyer, 2012). D’altro canto, un terapeuta che abbia in cura questa tipologia di pazienti potrebbe fornire maggiori informazioni rispetto alle suddette vulnerabilità, sia attraverso sedute individuali che attraverso interventi psicoeducativi.

 

La domanda sessuologica in psicoterapia – VIDEO

Il 19 ottobre si è tenuta la presentazione online della Scuola di Specializzazione “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca” di Mestre. L’incontro è stato accompagnato da un webinar sulle disfunzioni sessuali e la domanda sessuologica in psicoterapia. Pubblichiamo, per i nostri lettori, il video del webinar.

 

 Le disfunzioni sessuali possono essere all’origine di diversi sintomi psicologici come ansia, depressione o stress. A volte costituiscono la domanda di psicoterapia, altre volte non vengono riconosciute come problema e sono di difficile argomentazione sia per il paziente sia per il giovane terapeuta che si trova a entrare nell’intimità del paziente.

Nel webinair sono state discusse in generale le disfunzioni sessuali ed è stato illustrato il protocollo di intervento della Terapia Mansionale Integrata fondata sulla prescrizione di mansioni a seconda del tipo di disturbo portato dal paziente, orientate alla scomparsa del sintomo e al mantenimento del risultato. L’obiettivo dell’intervento è quello di promuovere una conoscenza di sé e di sé attraverso l’altro anche in un’ottica di relazione di coppia, una maggiore conoscenza del proprio piacere e del piacere dell’altro.

 

LA DOMANDA SESSUOLOGICA IN PSICOTERAPIA – Guarda il video:

 

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Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre - PTCR

 

La Terapia Metacognitiva (MCT) applicata al Disturbo da Stress Post traumatico

Prove preliminari da una serie di casi controllati, un trial non controllato e un trial pilota controllato e randomizzato (RCT) supportano l’efficacia potenziale della MCT nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico (Wells & Colbear, 2012; Wells & Sembi, 2004b, Wells et al. 2008).

Elisa Petetta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto 

 

La caratteristica essenziale del disturbo da stress post-traumatico (DPTS) è lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione a uno o più eventi traumatici (DSM-5, American Psychiatric Association, 2013).

L’esposizione può essere diretta o indiretta attraverso l’esser venuti a conoscenza di un evento traumatico accaduto a un familiare o amico stretto, o attraverso l’esperienza ripetuta o estrema ai dettagli crudi dell’evento. Il DSM 5 distingue essenzialmente quattro domini per quanto riguarda il ventaglio della sintomatologia esperita individuando:

  • sintomi di natura intrusiva (flashback, sogni, ricordi, immagini intrusive);
  • sintomi di evitamento (di stimoli, persone, luoghi e situazioni connessi all’evento traumatico);
  • sintomi cognitivi-affettivi (sentimenti di distacco verso gli altri, convinzioni negative su di sé, gli altri o il mondo, riduzioni di interessi o incapacità di provare emozioni positive);
  • sintomi di iperarousal e reattività (ad esempio ipervigilanza, problemi di concentrazione e memoria o difficoltà relative al sonno).

La manifestazione clinica del DPTS è molto variabile, con individui in cui può essere predominante il rivivere con paura i sintomi emotivi e comportamentali, con alcuni che mostrano preminentemente sintomi di arousal e reattività, mentre in altri possono presentarsi anche sintomi dissociativi o varie combinazioni di questi pattern sintomatologici (DSM- 5, APA, 2013).

Nel panorama attuale per il trattamento del DPST ci sono alcuni interventi di comprovata efficacia.

Robuste evidenze empiriche sottolineano l’efficacia dell’esposizione, della terapia cognitiva focalizzata sul trauma e dell’eye-movement desensitation and re-processing (EMDR), (Bisson et al., 2007; Bradley, Greene, Russ, Dutra, &Wetsern, 2005). Questi ultimi rimangono i trattamenti di eccellenza raccomandati anche dalle linee guida Nice (National Institute of Clinical Excellence, 2005). Ognuno di questi approcci utilizza l’esposizione alle memorie traumatiche come una delle componenti principali all’interno dell’intervento. L’efficacia di questi trattamenti è supportata da un gran numero di studi che mostrano equivalenti livelli di esito senza evidenziare significative superiorità tra i diversi trattamenti (Bisson et al., 2007). Il trattamento erogato attraverso la procedura EMDR in particolare si basa sull’assunto che i sintomi esperiti dai soggetti con DPST siano causati da esperienze traumatiche memorizzate in maniera non elaborata, disconnessa dalle reti di memoria esistenti (Shapiro, 2001). Durante il trattamento EMDR al paziente viene chiesto di focalizzarsi sulle immagini, sulle cognizioni negative e sulle sensazioni corporee esperite connesse al trauma, e si concentra contemporaneamente sulla stimolazione bilaterale fisica operata dal terapeuta. L’ingrediente specifico dell’EMDR è costituito da movimenti oculari orizzontali che il paziente esegue seguendo il dito indice del terapeuta che si muove rapidamente da destra verso sinistra; i movimenti oculari guidati dal terapeuta faciliterebbero il processo cognitivo scatenato dal trauma e il corretto processamento delle memorie traumatiche nei circuiti neurali.

Sebbene l’importanza dei movimenti oculari bilaterali sia stato spesso evidenziata, esiste ancora una sostanziale controversia circa la sua specificità in termini di efficacia (Devilly, Ono, & Lohr, 2014; Lee & Cuijpers, 2013).

La terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) è uno tra i più recenti approcci al trattamento del DPST. L’obiettivo della MCT è quello di rimuovere quelle specifiche barriere che si contrappongono al processo di guarigione spontanea che occorre in seguito ad un evento traumatico. Il modello metacognitivo proposto da  Adrian Wells si basa sull’assunto che i sintomi esperiti dai pazienti siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento traumatico. Sintomi come pensieri intrusivi, reattività eccessiva ed un generale incremento di arousal fanno parte di un processo interno di adattamento psicologico definito processo di adattamento riflessivo (RAP;  Wells & Sembi, 2004a). Il RAP è responsabile della modificazione di cognizione e attenzione in modalità tali da sviluppare delle routines di controllo esecutivo per supportare l’implementazione di nuove strategie di coping.

Questo processo dovrebbe procedere normalmente senza ostacoli e l’individuo riuscirebbe a venir fuori dal ciclo dell’ansia mentre la cognizione torna a essere priva di quei meccanismi orientati al processamento della minaccia. Il modello metacognitivo di Wells si basa quindi sull’assunto che la maggior parte delle persone, a seguito di un evento traumatico, possieda la capacità di riadattarsi e, successivamente, non vada incontro allo sviluppo di particolari disturbi (Wells, 2009).

Questo processo di ‘guarigione spontanea’, tuttavia, può essere ostacolato o bloccato dall’attivazione di uno specifico stile di pensiero che conduce ad estendere oltre il processamento delle informazioni connesse al trauma e/o quelle di natura minacciosa. Questo stile cognitivo disfunzionale, definito sindrome cognitiva attenzionale (CAS), consiste in un pensiero ripetitivo che può assumere la forma di rimuginio e/o di ruminazione, perpetrati dal soggetto per cercare di trovare dei significati a quanto è accaduto, prevenire danni in futuro o colmare le lacune presenti nei ricordi. La CAS è costituita anche dal ‘monitoraggio della minaccia’, un processo di scannerizzazione dell’ambiente orientato alla ricerca di pericoli potenziali e finalizzato inoltre a cercare di rilevare, evitare o sopprimere pensieri ed emozioni disturbanti e angoscianti.

I sintomi del DPTS persisterebbero perché la CAS impedisce la flessibilità individuale verso stati di elaborazione privi di minaccia. In particolare a supporto di questo stile di pensiero ci sarebbero delle credenze metacognitive di natura positiva e negativa. Alcune meta credenze positive (ad es. ‘Analizzare i miei errori mi aiuterà a prevenire pericoli futuri’) supportano alcuni processi della CAS come il rimuginio, la ruminazione, il tentativo di colmare le lacune presenti nei ricordi e il monitoraggio della minaccia. Le meta credenze negative concernono l’incontrollabilità di alcuni processi di pensiero e il significato attribuito agli eventi cognitivi ( ad es. ‘Se continuo a pensare in questo modo potrei impazzire’), le quali contribuiscono alla percezione presente e futura della minaccia.

Il modello meta cognitivo applicato al DPTS suggerisce che il trattamento dovrebbe avere come obiettivo la destrutturazione della CAS (rimuginio, ruminazione e il monitoraggio della minaccia) e le meta credenze cognitive che sono a supporto di questi processi piuttosto che focalizzarsi sui contenuti delle memorie traumatiche o sull’utilizzo dell’esposizione prolungata col fine di rivivere gli episodi traumatici.

La MCT non impiega l’esposizione ai ricordi traumatici o la manipolazione delle immagini connesse al trauma né ha come obiettivo quello di disputare e ristrutturare i pensieri connessi all’evento. La MCT aiuta i pazienti a rispondere ai pensieri o alle immagini intrusive che sperimentano in una maniera diversa, la quale limita l’estensione dei processi di pensiero collegati all’evento traumatico, riducendo il rimuginio e la ruminazione connessi e rimovendo il monitoraggio della minaccia e le altre strategie di coping disfunzionali come gli evitamenti o la soppressione del pensiero.

L’efficacia della MCT per il DPTS è stata esaminata in diversi studi.

Prove preliminari da una serie di casi controllati, un trial non controllato e un trial pilota controllato e randomizzato (RCT) supportano l’efficacia potenziale della MCT nel trattamento del DPTS (Wells & Colbear, 2012; Wells & Sembi, 2004b, Wells et al. 2008).

Wells e Sembi (2004b) hanno trattato in maniera consecutiva sei pazienti con diagnosi di DPTS in base ai criteri richiesti dal DSM-IV, tramite uno studio a disegno A-B su casi singoli. I pazienti della ricerca erano tutti stati esposti a crimini volenti o sessuali e avevano sofferto del disturbo per un periodo oscillante tra i 3 e i 10 mesi. In tutti i soggetti dello studio è stata evidenziata un’ampia riduzione dei sintomi da stress post-traumatico, della depressione e dell’ansia. Attraverso la somministrazione dell’Impact of Events Scale (IES; Horowitz, Wilner, & Alvarez, 1979 ) si è potuto rilevare un livello medio di miglioramento dell’83% mentre quello documentato tramite il Penn Inventory (Hammarberg, 1992) è stato del 69%. Rivalutati poi con dei follow-up a 3 e a 6 mesi di distanza, e anche considerando un arco di tempo più esteso, nessun soggetto è risultato più affetto dal disturbo.

Wells et al. in un open trial del 2008 hanno voluto indagare l’efficacia della terapia metacognitiva per il DPTS cronico. Hanno somministrato il trattamento (con una media di 8,5 sedute) a 12 pazienti che manifestavano il disturbo da un lasso temporale compreso tra i 6 e i 39 mesi riscontrando dei miglioramenti statisticamente significativi nei sintomi da stress post-traumatico, nell’ansia e nella depressione. Ad un follow-up a sei mesi l’89% dei soggetti è risultato molto migliorato o guarito, secondo i punteggi ottenuti dalla IES.

In uno studio randomizzato Wells & Colbear (2012) hanno inserito casualmente i pazienti oggetto della ricerca in lista d’attesa o nel protocollo del trattamento. I soggetti della prima condizione hanno mostrato un miglioramento pressoché nullo mentre il gruppo che aveva ricevuto il trattamento (8 sessioni) aveva ottenuto punteggi più bassi a tutte le misurazioni con una riduzione statisticamente significativa della sintomatologia post-traumatica, della depressione e dell’ansia. In base ai punteggi ottenuti alla IES, l’80% dei soggetti trattati con il protocollo è risultato andare incontro a guarigione e il 10% a un significativo miglioramento, mentre nella condizione di controllo solo il 10% dei pazienti è risultato migliorato e nessuno è guarito. Inoltre, tassi di guarigione dal 60 all’80% sono stati ottenuti al follow-up di 6 mesi in base ai punteggi ottenuti attraverso la Postraumatic Stress Diagnostic Scale (PDS; Foa, 1995) e l’Impact of Events Scale (IES). Gli autori hanno evidenziato anche la buona tollerabilità al trattamento con solo il 10% di dropout. Questo studio dimostra l’efficacia della MCT confermando i tassi di recovery documentati precedentemente (Wells & Sembi, 2004b).

L’efficacia  della terapia Metacognitiva è stata recentemente testata anche attraverso la comparazione con altri trattamenti.

Wells, Walton, Lovell e  Proctor nel 2015 hanno condotto un trial parallelo controllato confrontando la MCT con l’esposizione prolungata (PE). I soggetti dello studio erano 32 pazienti con diagnosi di DPTS cronico. I partecipanti sono stati assegnati a 8 sessioni di terapia (MCT o PE) o a una condizione di lista di attesa di 8 settimane. Entrambi i trattamenti sono risultati efficaci laddove comparati con il gruppo in lista d’attesa, con una riduzione statisticamente significativa della sintomatologia post-traumatica, dell’ansia e della depressione. I tassi di guarigione sono risultati essere elevati in entrambi i gruppi che hanno ricevuto il trattamento, tuttavia i miglioramenti nel gruppo MCT sono stati più rapidi. Al post-trattamento la MCT è risultata superiore rispetto alla PE per quanto riguarda la riduzione sintomatologica (misurata attraverso la IES e la Post-traumatic Stress Diagnostic Scale – PDS) e superiore alla condizione lista d’attesa per quanto riguarda le misure oggettive di iper arousal rilevate attraverso la frequenza cardiaca dei soggetti.

Nel protocollo di studio per un trial parallelo randomizzato di superiorità di Nordahl, Halvorsen, Hjemdal, Ternava e Wells (2018) si sta confrontando per la prima volta l’efficacia della MCT con l’EMDR. Lo scopo principale di questo studio, sottolineano gli autori, è quello di testare l’efficacia di un trattamento, la MCT, che, contrariamente all’EMDR, non prevede l’esposizione come ingrediente specifico, sulla scia dei risultati ottenuti nello studio precedentemente citato (Wells et al., 2015) che la metteva a confronto con la PE.

Il non includere né l’esposizione né il rivivere le memorie traumatiche potrebbe essere un fattore vantaggioso, secondo gli autori, nel ridurre le avversità al trattamento, sia da parte dei terapeuti che dei pazienti.

Nel protocollo di studio verranno inclusi 100 pazienti con una diagnosi primaria di DPTS cronico i quali saranno assegnati a due condizioni, ricevendo 12 sessioni di uno dei due trattamenti. L’outcome primario sarà la gravità dei sintomi post traumatici misurata attraverso la Posttraumatic Diagnostic Scale (PDS) misurata al post trattamento (dopo 3 mesi). Gli outcomes secondari includono gravità dei sintomi trauma correlati (sempre valutati attraverso la scala PDS), i livelli di ansia e depressione e la valutazione delle credenze metacognitive misurate a follow up di 3 e 12 mesi. I risultati dello studio ci forniranno dati importanti sulla comparazione di efficacia della terapia metacognitiva confrontata con l’EMDR e la stabilità dei risultati nel tempo.

 

L’ efficacia dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in pazienti oncologici con diagnosi prevalente di carcinoma mammario

Di seguito vengono analizzati i risultati di efficacia emersi da una review sistematica sull’utilizzo di un protocollo di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in adulti sopravvissuti al cancro.

 

Si stima che nel 2020 saranno 377 mila le nuove diagnosi di cancro nel nostro Paese, di cui 195 mila negli uomini e 182 mila nelle donne. Lo riferisce il rapporto I numeri del cancro in Italia 2020, presentato l’8 ottobre all’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Un numero assoluto in aumento, a causa dell’invecchiamento della popolazione italiana.

Un altro dato importante è quello relativo alla riduzione dei tassi di mortalità stimati per il 2020 rispetto al 2015: sono in diminuzione sia negli uomini (-6%) che nelle donne (-4,2%), legati ai progressi ottenuti in ambito diagnostico-terapeutico. Continuano quindi ad aumentare i prevalenti, cioè le persone che vivono dopo aver avuto una diagnosi di tumore.

Tali dati, se da un lato indicano un miglioramento in campo diagnostico, terapeutico e di prevenzione (primaria e secondaria), dall’altro spostano l’attenzione sulla necessità di gestire una maggior richiesta di supporto dopo la diagnosi e durante e dopo il trattamento oncologico. La diagnosi oncologica e le sue conseguenze, possono avere un forte impatto negativo sulla vita dei malati e delle loro famiglie. Lo sviluppo di sintomi depressivi ed ansia, a seguito di una diagnosi oncologica, correla con un decorso peggiore della malattia (J.R. Satin, W. Linden, M.J. Phillips, 2009; Y.H. Wang et all. 2019).

Gli studi in letteratura sul carcinoma mammario, evidenziano come tale diagnosi si associ a disabilità fisiche, sociali e psicologiche, così come a problemi di adattamento, difficoltà interpersonali e sintomi depressivi o ansiosi (Nasser M. et all., 2007). E’ stato osservato che fattori di stress emotivi e psicologici, incrementano l’esperienza di dolore nelle pazienti e riducono complessivamente la performance sociale, rappresentando un fattore di rischio per lo sviluppo di ideazione e comportamenti suicidari (Zabora et all., 2001). A conclusione del trattamento oncologico primario (chemioterapia e/o radioterapia), un altro importante fattore da considerare è l’impatto della paura di una recidiva (Fear of Cancer Recurrence – FCR), che compare all’incirca nel 70% delle pazienti, con conseguenze importanti nel lungo periodo (Thewes et al., 2014; Thewes et al., 2012). In quasi la metà dei lungo-sopravviventi, pensieri intrusivi sulla malattia e sul trattamento (pensieri, immagini e memorie indesiderate) si sono verificati a distanza di anni dalla conclusione della terapia (Bleiker et al., 2000). In ultimo, fatigue e problemi del sonno, sono sintomi clinicamente significativi in circa il 60% delle pazienti, con una conseguente riduzione della qualità di vita (QoL) (Rosedal M., 2009).

Alla luce di tali premesse, gli interventi basati sulla Mindfulness (MBI Mindfulness-Based Interventions) hanno dimostrato la loro efficacia nel fornire utili strategie di coping con conseguente riduzione di ansia, stress, fatigue, problemi del sonno, miglioramento del tono dell’umore ed incremento generale della qualità di vita (QoL) (Bartley, 2011).

Jon Kabat Zinn, pioniere dell’applicazione terapeutica della Mindfulness, la definisce come “un processo di consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione al momento presente, attraverso un’osservazione non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza, momento per momento’’ (Kabat Zinn, 2003). Si tratta, quindi, di un processo psicologico fondamentale, che può modificare il modo in cui rispondiamo alle inevitabili difficoltà della vita, non solo alle sfide esistenziali quotidiane, ma anche a problemi psicologici gravi (Segal, Williams e Teasdale, 2002; Didonna, 2009). Quando la Mindfulness viene adattata allo scopo di alleviare specifiche condizioni cliniche, inizia ad includere, oltre alla consapevolezza, attenzione e ricordo, anche qualità come il non giudizio, compassione e accettazione.

Acceptance e Compassion rientrano nei focus esperienziali degli interventi basati sulla Mindfulness (MBI) (es. pratica della gentilezza amorevole; Kabat Zinn 1990). Le pratiche basate sull’accettazione favoriscono l’apertura, in modo consapevole e non giudicante a sentimenti, sensazioni, impulsi ed emozioni dolorosi: ‘abbandoniamo la lotta con loro, diamo loro qualche spazio di respiro e permettiamo loro di essere come sono. Piuttosto che combatterli, resistere, scappare via o rimanere invischiati o sopraffatti, apriamoci a loro e lasciamoli essere quello che sono‘ (Harris, 2016). Gli interventi basati sulla Compassion, si focalizzano piuttosto sullo sviluppo delle abilità che ci consentono di ‘entrare in contatto con la sofferenza, di comprenderla e dalla nostra capacità e impegno nell’alleviarla‘ (Gilbert e Choden 2013).

Di seguito analizzeremo i risultati di efficacia emersi da una review sistematica sull’utilizzo di un protocollo di Acceptance and Commitment Therapy (ACT) in adulti sopravvissuti al cancro (Mathews et all., 2020).

Cos’è l’ACT?

L’ACT è un intervento psicoterapeutico ad orientamento cognitivo comportamentale, ideato da Steven Hayes (2006). Alla radice, l’ACT è una terapia comportamentale: si tratta di agire; ma non si tratta di un’azione qualsiasi. In primo luogo, riguarda un’azione guidata dai valori: per che cosa vogliamo vivere la nostra vita? Quali sono i desideri più profondi rispetto a chi vogliamo essere e a che cosa vogliamo fare durante il nostro breve tempo su questa terra. L’individuazione di questi valori fondamentali consente di guidare, motivare ed ispirare il cambiamento comportamentale. In secondo luogo, riguarda l’azione consapevole, l’azione che intraprendiamo con piena consapevolezza, aperti all’esperienza e pienamente coinvolti nel qui ed ora. L’ACT prende il nome da uno dei suoi messaggi fondamentali: accettare ciò che è fuori dal controllo personale ed impegnarsi nell’intraprendere azioni che arricchiscono la propria vita. Lo scopo è quello di aiutare a creare una vita ricca, piena e significativa, mentre accettiamo il dolore che la vita inevitabilmente porta (Harris, 2016).

I sei processi fondamentali nell’ACT sono: il contatto con il momento presente (Essere qui adesso), la defusione (Osservare il proprio pensare), l’accettazione (Aprirsi), il sé come contesto (Pura consapevolezza), i valori (sapere ciò che è importante) e l’azione impegnata (fare ciò che conta) (Hayes et al., 2006). Tali passi non sono da considerarsi come processi separati; insieme portano alla Flessibilità Psicologica: abilità di essere nel momento presente con piena consapevolezza e apertura all’esperienza, intraprendendo azioni guidate dai valori. Allo sviluppo di tale abilità, ne consegue un graduale miglioramento della qualità di vita, poiché si è in grado di rispondere molto più efficacemente ai problemi e alle sfide che la vita porta inevitabilmente con sé (Harris, 2016).

Il protocollo ACT, nel perseguire gli scopi sopra citati, si avvale prevalentemente di tecniche esperienziali, esercizi di mindfulness, metafore e richiede impegno e allenamento costante nella vita quotidiana.

Diversi studi, hanno dimostrato l’efficacia dell’ACT nel trattamento del dolore cronico, mostrando miglioramenti significativi nel dolore e nel funzionamento sociale, fisico ed emotivo con una stabilizzazione dei risultati sino ai 3 mesi successivi al trattamento (Vowles KE, Sowden G., Ashworth J., 2014; Johnston et all, 2010; McCracken LM, Velleman SC, 2010). Alla luce di tali evidenze, c’è stato un incremento sempre maggiore dell’applicazione dell’ACT tra gli individui con diagnosi oncologica, negli ultimi dieci anni. Una recente review sistematica dimostra che i pazienti con cancro sottoposti ad interventi basati sull’ACT hanno mostrato miglioramenti significativi rispetto allo stato emotivo, qualità di vita, e flessibilità psicologica (Mathew et all., 2020). Gli autori propongono un modello concettuale per descrivere quali sono i possibili fattori che influenzano un intervento basato sull’ACT nei pazienti oncologici, coloro che hanno superato la fase acuta e vengono considerati i sopravvissuti.

I fattori da considerare sono i seguenti:

  • Contesto dell’intervento: ambiente socio culturale e demografico, rigore metodologico nell’applicazione del modello, setting clinico dell’intervento (casa vs ambiente clinico – sanitario (es.ospedale); intervento individuale piuttosto che di gruppo);
  • Caratteristiche del clinico: orientamento terapeutico, materiali e protocolli utilizzati nella presentazione del modello, complessivamente il livello di aderenza alle procedure ACT;
  • Caratteristiche dei partecipanti: livello di comprensione del modello e delle istruzioni veicolate dal clinico, capacità di base richieste dalla pratica ACT, accettazione e rigore nella pratica esperienziale al di fuori della sessione clinica.

Tali fattori, vengono considerati fondamentali nella valutazione degli esiti della procedura ACT, sia nel breve termine (incremento della flessibilità psicologica) che nel lungo periodo (riduzione dei sintomi fisici e psicologici, in generale un miglioramento nella qualità di vita). Il protocollo basato sull’ACT si è dimostrato efficace nell’incoraggiare tale popolazione di pazienti ad accettare la realtà e compiere azioni in linea con i propri valori, piuttosto che continuare ad impegnare la propria esistenza in strategie di evitamento della sofferenza (Mathew et all, 2020). Tali evidenze, possono avere importanti implicazioni per i professionisti che si occupano della cura dei pazienti oncologici, più specificatamente, indicano che anche i soggetti sopravvissuti al cancro con componenti di ansia, depressione e timore di recidiva a livelli clinicamente significativi, possono trarre benefici dal modello ACT.

Tuttavia, gli autori sostengono che si rendono necessarie ulteriori ricerche, specie nella raccolta di evidenze e studi di efficacia dell’ACT, tra la popolazione dei sopravvissuti al cancro, nella riduzione del dolore, disturbi del sonno e fatica e nell’approfondire la valutazione dei fattori che influenzano il miglioramento degli esiti (Mathew et all., 2020).

 

Mindfulness-Based Cognitive-Therapy for OCD, di Fabrizio Didonna – Recensione del libro

In Mindfulness-Based Cognitive-Therapy for OCD Fabrizio Didonna spiega con precisione cosa vada fatto per trattare il Disturbo Ossessivo Compulsivo, perché vada fatto (prove empiriche incluse) e come farlo, utilizzando uno stile esplicito e diretto e servendosi di interessanti proposte.

 

Ho approfittato della quarantena impostami al rientro da Londra (Natale con figlie) per godermi con calma le 430 pagine del Manuale per il trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (OCD), edito da Guilford nel 2020. Piena soddisfazione, il 2020 ha almeno prodotto eccellenti novità in campo clinico.

Fabrizio Didonna non è nuovo a queste titaniche imprese, ha già curato il fondamentale manuale clinico di Mindfulness, ma in questo volume si espone in prima persona con una dettagliata descrizione del suo metodo originale di trattamento dello OCD. Il riferimento esplicito è al Mindfulness-Based Cognitive Behavioural Therapy (MBCBT) for Depression di Segal, Williams e Teasdale, pubblicato nel 2014 in Italia da Bollati Boringhieri col titolo semplificato in Mindfulness dal curatore Fabio Giommi nella Serie di Scienza Cognitiva da me diretta. Lo stesso Mark Williams ne scrive una esaustiva introduzione, considerando il programma sull’OCD una importante estensione del proprio lavoro sulla utilizzazione della Mindfulness per il trattamento della depressione.

Abbiamo qui due libri in uno, scritti dai due Sé ben differenziabili dello stesso autore, il Sé accademico e il Sé terapeutico di Fabrizio. Il Sé accademico svolge le prime cento pagine, in cui offre una spiegazione di cosa sia l’OCD e di cosa sia la Mindfulness, e di come e perché possa essere utilizzata per curarlo. Questa prima parte è forse indispensabile per i lettori che non sappiano cosa siano né l’OCD né la Mindfulness, ma non entusiasma Didonna, obbligato a riassumere idee altrui in poco spazio. Le ipotesi esplicative si susseguono, da quelle neurobiologiche a quelle evoluzionistiche, epidemiologia, diagnostica, processi emotivi e cognitivi. L’autore cerca di comprimere OCD e Mindfulness in cento pagine, mission impossible svolta con impegno ma con ridotto entusiasmo, modalità anomala per Fabrizio, terapeuta appassionato.

Che sia una imposizione esterna (dell’editore?) cui l’autore si assoggetta? Il dubbio viene perché la seconda parte scorre invece fluida, ricca, piena di spunti originali: il vero libro è questo, questo è ciò che con piacere raccomando ai colleghi di leggere. Le trecento pagine preziose le scrive il Sé terapeutico, finalmente libero di mostrare il valore del proprio lavoro, spiegando con precisione cosa vada fatto, perché vada fatto (prove empiriche incluse) e come farlo. Didonna utilizza uno stile esplicito e diretto che molto apprezzo, si trovano di continuo proposte interessanti anche se non si intenda seguire interamente il programma disegnato. Si tratta di 11 dettagliate sessioni, che iniziano col tradizionale Body Scan per terminare con la pratica del perdono a se stessi.

Il legame con la già citata MBCT di Segal, Williams e Teasdale e con il programma di Mindfulness-based stress reduction (MBSR) si rafforza, una serie di passaggi riproducono con le necessarie varianti la procedura usata per la depressione. A questa sequenza si aggiunge con particolare intensità la pratica sulla Compassione, come impostata da Paul Gilbert. Il percorso completo è frutto esclusivo di Didonna, che usa tutto quel che gli serve per rendere efficace il suo programma. Ogni sessione dettaglia i passaggi necessari, con una serie di indicazioni sia per il terapeuta che per i pazienti.

L’autore non ha paura di mostrare quanto sia in debito con la tradizione meditativa Vipassana, quella da cui è partito originariamente Kabat-Zinn. Si percepisce una profondità di pratica contemplativa che lo mette in diretta connessione con i grandi autori che lo precedono, praticamente tutti quelli che ho finora menzionato. Sono ammirato dal loro lavoro, anche se non mi appartiene lo stile di utilizzare a fini terapeutici qualcosa che è intrinsecamente priva di obiettivo, la meditazione qui e ora. Ma le storie individuali sono diverse, ognuno di noi segue la propria strada, riconoscendo appena possibile la qualità e i benefici ottenuti dagli altri.

Critiche specifiche alla parte teorica introduttiva sarebbero facili per l’ossessivo che dormicchia dentro ciascuno di noi (se l’ipotesi evoluzionistica viene compressa in un paio di pagine immaginate le imperfezioni!), ma immagino che l’autore ne sia pienamente consapevole. Comunque, l’indicazione sarebbe di abbreviarla drasticamente, non di ampliarla in un impossibile tentativo di completezza. Come detta il famoso koan Zen: ciò che non si può dire in cento pagine tanto vale non dirlo in cento righe.

La seconda parte è piacevolmente difficile da criticare, si coglie bene il complesso lavoro di raccordo con le procedure già esistenti in letteratura e si apprezza sia la competenza con cui sono costruite le sessioni originali sia la precisione con cui vengono esplicitate. Il risultato è uno strumento potente, usabile da ciascuno secondo la propria sensibilità clinica, ma col vantaggio di potersi riferire a un manuale di istruzioni assai ben disegnato. Unico concreto suggerimento (nella augurabile ipotesi di una traduzione italiana) è che a un testo di tale ampiezza sia indispensabile aggiungere un indice dettagliato, da porre rigorosamente all’inizio, che aiuti il lettore a ritrovare la parte che gli serve nel momento in cui gli serve.

Questo testo, assieme a quello edito da Mancini (La mente ossessiva, 2016), rappresenta oggi un completo panorama di diagnosi e trattamento, con tecniche diverse, dello OCD. Se trattate pazienti ossessivi, con questi due libri avete in mano tutto quel che vi serve sapere, e come si fa a metterlo in pratica. Che si tratti di autori italiani, e che il loro ambizioso lavoro sia di alta qualità clinica, mi rende orgoglioso e grato. Buona lettura a tutti voi, cari colleghi, per iniziare al meglio il neonato 2021.

 

Fine vita: cosa succede in una famiglia? Analisi sistemica degli aspetti psicologici

Il concetto di morte è un tema che accompagna l’intero arco della vita e possiamo assistere a diverse rappresentazioni di questo evento dall’infanzia fino all’età adulta. Cosa accade nel sistema familiare nel momento in cui avviene un processo di cambiamento legato alla sofferenza e alla perdita?

 

J. K. Rowling, nota per aver dato vita alla saga di Harry Potter, scrive:

In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura.

Quello del fine vita è un argomento molto delicato e studiato per i suoi aspetti psicologici soprattutto nell’ambito della psicologia della salute.

Il concetto di morte è un tema che accompagna l’intero arco della vita e possiamo assistere a diverse rappresentazioni di questo evento dall’infanzia fino all’età adulta. Nella prospettiva della psicologia della salute, la morte costituisce un momento della vita stessa e, come se fossimo protagonisti di un paradosso, non si è più vivi di quando ci avviciniamo alla fine della vita. Questa ottica, a cavallo tra psicologia e filosofia, ci offre una serie di considerazioni importanti, su quanto sia fondamentale la persona che si avvicina alla fine della propria vita e dell’intero nucleo familiare che le sta vicino, con lo scopo di agire per la costruzione del benessere dell’intero sistema familiare.

Le fasi del fine vita

La psicoanalista Elizabeth Kübler-Ross, pioniera nello studio e nella ricerca legati alla morte, ha individuato un modello che espone le cinque fasi che le persone attraversano mentre si avvicinano al momento della loro morte (Taylor, 2018). Queste fasi possiamo osservarle anche nei familiari prima e dopo la perdita del proprio caro. È importante anche affermare che queste non seguono pedissequamente l’ordine stabilito dalla Kübler-Ross usato a scopo esplicativo, ma sono reazioni che vengono comunemente sperimentate anche contemporaneamente e in un ordine diverso o intermittente (Taylor, 2018).
Le cinque fasi sono:

  • Negazione: è un meccanismo di difesa attraverso il quale le persone evitano le implicazioni di una malattia. Queste persone possono agire come se la malattia non fosse grave o non avesse effetti a lungo termine. In casi estremi, il paziente può persino negare di avere la malattia, nonostante gli siano state fornite informazioni chiare sulla diagnosi. È, dunque, un tentativo difensivo di bloccare la piena realizzazione della realtà e della malattia. Questo meccanismo, tuttavia, può essere anche utile dal momento che può proteggere il paziente dalla piena realizzazione della morte imminente (Taylor, 2018).
  • Rabbia: la domanda tipica di questa fase è “Perché io?”. La reazione tipica è quella del risentimento verso chiunque sia sano, come il personale dell’ospedale, i familiari, gli amici. I pazienti che non possono esprimere la loro rabbia direttamente possono farlo indirettamente mostrandosi amareggiati. Questi mostrano risentimento attraverso battute sulla morte o con osservazioni puntuali su tutte le cose eccitanti che non saranno in grado di fare perché avverranno dopo la loro morte. La rabbia è una delle risposte più difficili da affrontare per la famiglia e gli amici, potrebbero sentirsi accusati dal paziente di godere di ottima salute. La famiglia ha bisogno di sapere che il paziente in realtà non è veramente arrabbiato con loro ma con il destino a cui va incontro (Taylor, 2018).
  • Contrattazione: il paziente abbandona la rabbia a favore di una strategia diversa, ovvero quella di adottare una buona condotta in cambio di una buona salute. Qui emerge un forte impatto della sfera spirituale, poiché il paziente accetta di impegnarsi in opere di bene o almeno di abbandonare i modi egoistici in cambio di una salute migliore o di più tempo da vivere (Taylor, 2018).
  • Depressione: è caratterizzata da una perdita del controllo con cui il paziente inizia a fare i conti. Arriva la consapevolezza che il tempo è finito e che si può fare poco per fermare il corso della malattia. Questa presa di coscienza può coincidere con un peggioramento dei sintomi, con la prova tangibile che la malattia non verrà curata. I pazienti possono sentirsi nauseati, senza fiato e stanchi, possono avere difficoltà a mangiare, controllare l’eliminazione, focalizzare l’attenzione e sfuggire al dolore o al disagio. Si definisce questa fase come un momento di “dolore anticipatorio”, in cui i pazienti piangono la prospettiva della propria morte. Questo processo di lutto può avvenire in due tempi, poiché prima si fanno i conti con la perdita di attività passate, poi si inizia ad anticipare la futura perdita di attività e relazioni. La depressione può essere però anche funzionale nei termini di una preparazione a ciò che avverrà (Taylor, 2018).
  • Accettazione: in questa fase, considerata quella finale nella teoria della Kubler-Ross, il paziente potrebbe essere troppo debole per provare rabbia o troppo abituato all’idea di morire per essere depresso. Può scendere una calma stanca, pacifica, anche se non necessariamente piacevole. Alcuni pazienti usano questo tempo per prepararsi all’evento, decidere come dividere i loro beni rimanenti e salutare i vecchi amici e i familiari (Taylor, 2018).

I sopravvissuti: elaborazione della perdita nel sistema famiglia

La morte di un membro della famiglia può essere l’evento più sconvolgente e temuto nella vita di una persona. In alcuni casi, diventa anche una prospettiva più terrificante della propria morte o malattia (Taylor, 2018). Quello che è riscontrabile è che la perdita di un membro della propria famiglia comporta un cambiamento dell’intero sistema familiare (Taylor, 2018).

Un punto di vista interessante è quello di vedere la famiglia come un sistema interpersonale considerato un circuito di retroazione dove il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento degli altri componenti del sistema.

Adesso la domanda da porsi è: cosa accade nel sistema nel momento in cui avviene un processo di cambiamento legato alla sofferenza e alla perdita?

Possiamo rispondere al quesito con alcuni principi esplicativi:

  • Tutti i membri del sistema familiare sono interconnessi e interdipendenti. Con questo si intende che davanti ad una situazione di cambiamento non cambia solo l’individuo ma l’intero sistema di relazioni in cui è inserito. Un sistema è composto da soggetti in costante connessione tra loro: se una persona si ammala nel sistema famiglia questo implica un cambiamento.
  • Le famiglie tendono a mantenere il loro equilibrio omeostatico. Ognuno di noi tende a mantenere il proprio equilibrio, la posizione in cui si trova. Anche all’interno del sistema ognuno ha il proprio ruolo e tutto si muove in funzione del mantenimento del ruolo di ciascuno. La vita, però, è in costante cambiamento e noi tendiamo a resistergli, ad opporci a questo, provocando sofferenza.
  • Quando un membro della famiglia prova dolore tutti i membri della famiglia provano una qualche forma di dolore. Se tutti i membri del sistema sono interconnessi è chiaro che il dolore provato da uno di questi membri coinvolge anche gli altri. Il dolore non sarà mai lo stesso, ognuno avrà la propria dimensione, ma allo stesso tempo ci saranno dei fattori comuni al dolore che prova la persona in questione.
  • Ciascun membro della famiglia ha la sua narrazione da fare e deve essere ascoltato empaticamente. La narrazione è fondamentale per il sistema di credenze. Racconto una serie di esperienze che mi permettono, in qualche modo, di declinare, secondo il mio sistema cognitivo, l’esperienza. Ogni membro della famiglia ha il suo punto di vista e quindi questa narrazione va sempre e comunque considerata e ha bisogno di essere accolta. Le difficoltà emotive e pratiche che un membro della famiglia può incontrare, insieme alle narrazioni, hanno necessità di essere accolte, ascoltate. Uno dei problemi centrali è proprio non elaborare e non narrare, e quindi non sapersi raccontare rispetto all’esperienza che si sta attraversando.
  • Il cambiamento di un membro del sistema favorirà il cambiamento degli altri membri del sistema famiglia. È chiaro, a questo punto, che favorire il cambiamento di uno, favorisce il cambiamento dell’intero sistema.
  • Ciascuna persona è responsabile del proprio comportamento. Spesso l’azione dello psicoterapeuta è quello di togliere il noi, favorire l’io e favorire l’assunzione di responsabilità individuale.

A questi sei principi corrispondono altrettanti possibili interventi in ambito psicologico e terapeutico:

  1. Aiutare a districarsi dai sentimenti troppo interconnessi e a lasciare il senso di essere un sé separato. Dato che esiste un’interconnessione eccessiva che diventa molto vincolante tra i membri di una famiglia, l’intervento terapeutico è quello di districarsi dai sentimenti e iniziare ad essere un Sé separato, favorire l’uso dell’Io. L’Io è l’assunzione di una responsabilità. L’uso del Noi è confusivo, nasconde l’Io e il mito della simbiosi di coppia è fonte di nevrosi che impedisce al Sé separato di scegliere e di agire. Il compito del terapeuta è quello di districare il groviglio del Noi a vantaggio del filo dell’Io. Proprio perché Sé separato, questo è in grado di legarsi all’altro.
  2. Tentare di rompere un equilibrio che ha avuto conseguenze negative. Lo sforzo nel mantenere l’equilibrio del sistema, spesso, implica delle sofferenze e meccanismi di tipo disadattivo. È nell’ambivalenza delle cose che c’è lo sforzo. Cercare di mantenere un equilibrio che non può essere più mantenuto è fonte di grande sofferenza. Allora, questa rigidità nell’essere ancorati al sistema che non è più funzionale alla nuova situazione va infranta, perché lo sforzo non è quello di mantenere l’equilibrio ma di trovarne uno nuovo che risponda ad aspetti adattivi e funzionali. Districare il groviglio del Noi a favore del Sé va nella direzione di un nuovo equilibrio. Si possono negare i cambiamenti proprio perché il nostro sistema cognitivo è ancorato ad uno stadio antecedente rispetto ai cambiamenti, ad esempio, i figli che vedono il genitore che non è più autonomo possono rispondere a questo cambiamento rimproverandolo. È un lavoro faticoso perché significa rivedere tutta l’organizzazione della famiglia, anche dell’assistenza della persona. L’eccessivo coinvolgimento è, comunque, fonte di sofferenza.
  3. Incoraggiare la condivisione del dolore. Incoraggiare la condivisione significa verbalizzare il dolore, parlare a me stesso e agli altri perché ci sia ascolto ed espressione del dolore ed accoglierne le diverse declinazioni che la famiglia esprime ed elabora. Il dolore ha bisogno di essere ascoltato. La specie umana ha bisogno per sopravvivere di essere gruppo e comunità, di solidarietà. Lo spazio di condivisione del dolore è importante perché favorisce l’espressione del Sé in una dimensione di ascolto. Il fatto di affermare, da parte di tutti i membri della famiglia di provare lo stesso dolore, può essere considerato un meccanismo difensivo, perché si favorisce il Noi al posto del Sé. Per questo si richiede un racconto personale a tutti i membri della famiglia, di narrare in senso personale la propria esperienza.
  4. Richiedere un racconto personale. Il racconto personale che è anche il senso personale che si attribuisce all’esperienza permette di dire a sé stessi cosa si sta attraversando, di aprire lo spazio alla crescita e non mantenere lo status quo, ma affacciarsi alla dimensione iniziale soggettiva.
  5. Il cambiamento della persona anticipa e può essere concomitante con quello degli altri. Il cambiamento dei comportamenti e dei sistemi di credenze di uno dei membri della famiglia implica il cambiamento degli altri, lo anticipa, può essere concomitante e lo può favorire. Significa che il lavoro dello psicologo con una persona, comporta un cambiamento in quella persona e di conseguenza può favorire quello dell’intero sistema. Cambiare significa muoversi in una direzione e questo implica che tutto il sistema si muova, a meno che non si manifestino condizioni psicopatologiche per cui l’intero sistema resiste al cambiamento. Allora, compito dello psicologo è quello di favorire e promuovere i processi di cambiamento.
  6. Incoraggiare l’indipendenza, la responsabilità e la padronanza. Ogni persona è responsabile del proprio comportamento. L’uso dell’Io significa assumersi l’unica responsabilità dell’essere Sé e quindi assumere padronanza di Sé.

Conclusioni

Per elaborare i vissuti di perdita appare molto utile la narrazione che il soggetto fa di questa esperienza. La narrazione permette di elaborare storie attraverso le quali costruiamo una versione di noi stessi nel mondo, una versione verosimile con cui ricostruiamo il significato delle nostre azioni e le leghiamo al senso della vita vissuta (Cardinale, 2012).

Le strutture narrative sono forme universali attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che consentono agli uomini di interagire con il sistema di convenzioni culturali all’interno del quale essi vivono (Cardinale, 2012).

Il pensiero narrativo consiste nel raccontarsi all’altro e a sé stessi. Narrare significa saper dare forma all’esperienza, organizzarla, interpretarla in modo da poterla comunicare e condividere con chi ci ascolta. Diventa uno strumento per creare una memoria (Cardinale, 2012).

In ambito terapeutico, la narrazione dell’esperienza personale dovrebbe avere un ruolo significativo nelle relazioni di cura perché la sofferenza richiede di essere inserita in racconti reali per acquisire un senso preciso, diventare condivisibile e trasformarsi in risorsa (Cardinale, 2012).

Il modo in cui il paziente racconta la propria esperienza è un metodo che può essere applicato ad ogni forma patologica.

 

Sempre più vicini e più distanti

I cellulari non solo contribuiscono a cambiamenti psicologici, bensì contribuiscono alla modificazione della comunicazione relazionale per cui i soggetti faticano a comunicare con individui co-presenti mantenendo interazioni con altre persone assenti fisicamente.

 

Gli strumenti tecnologici alterano il comportamento umano e modificano il modo in cui gli individui comunicano, sia fisicamente che a distanza (Allred & Atkin, 2020). L’accesso alla tecnologia dei dispositivi mobili è in costante aumento. Nel 2016, l’utilizzo di dispositivi mobili da parte della popolazione americana ha superato l’80% ed è stato stimato che raggiungerà l’82,7% nel 2020 (Anderson, 2019). Secondo il Pew Research Center, in media un bambino riceve il suo primo cellulare a 10 anni e ha un account di un social media intorno ai 12 anni (Anderson, 2019). Anche quando si trovano nella stessa casa, il 31% dei genitori utilizzano messaggi di testo per comunicare con i propri figli (Influence Central, 2016). I cellulari non solo contribuiscono a cambiamenti psicologici, bensì contribuiscono alla modificazione della comunicazione relazionale per cui i soggetti faticano a comunicare con individui co-presenti mantenendo interazioni con altre persone assenti fisicamente (Gergen, 2002). Il lavoro di Leung e Wei (2000) suggerisce come i dispositivi mobili agevolino una comunicazione a distanza e inibiscano l’efficacia di una conversazione faccia a faccia (Przybylski e Weinstein, 2013). La comunicazione faccia a faccia è un aspetto importante dello sviluppo relazionale (Berger e Calabrese, 1975). Il grado di comunicazione varia e la volontà di comunicazione rappresenta la predisposizione a parlare con un’altra persona tramite un incontro faccia a faccia (McCroskey e Baer, 1985). Nonostante siano due costrutti diversi, ansia e disponibilità a comunicare sembrano essere correlati (McCroskey, 1992): individui che provano ansia generalizzata tendenzialmente sono meno disposti a comunicare di persona.

La teoria cognitiva sociale (SCT) di Bandura (1986) presenta una spiegazione dell’azione e della motivazione umana da una prospettiva socio-cognitiva, secondo cui le conoscenze di un individuo possono essere correlate all’osservazione degli altri nel contesto di interazioni sociali, esperienze ed influenze esterne ai media (Bandura, 2008).

Riprendendo la SCT di Bandura, lo studio di Allred e Atkin (2020) esamina l’effetto dei cellulari sulla volontà di comunicare e sull’ansia. I risultati ottenuti da un sondaggio online – su un campione composto da 498 soggetti – indicano una correlazione significativa tra cellulare e ansia. L’ansia sarebbe negativamente associata alla volontà di impegnarsi in una conversazione di persona (Allred & Atkin, 2020).

I risultati della regressione lineare non hanno indicato una relazione tra dipendenza da cellulare e disponibilità a comunicare di persona. Infine, è stato utilizzato un modello di effetti indiretti per osservare se l’ansia media la relazione tra dipendenza da cellulare e disponibilità a comunicare: i risultati ottenuti suggeriscono un piccolo ma significativo effetto indiretto (Allred & Atkin, 2020). I risultati delle due ipotesi significative confermano come i cellulari siano utilizzati per rimanere in contatto con persone lontane e come siano una potenziale minaccia alla comunicazione con altre persone co-presenti (Allred & Atkin, 2020).

 

COVID-19, operatori sanitari sotto pressione. Comunicato Stampa di UGL

COMUNICATO STAMPA

La pressione cui sono sottoposti quotidianamente gli operatori sanitari non si allenta e sono sempre maggiori i casi di professionisti che non riescono a sostenere lo stress sul posto di lavoro. “Se prima dell’esplosione della pandemia – commenta Gianluca Giuliano, Segretario Nazionale della UGL Sanità – erano le aggressioni fisiche, verbali e sui social la causa principale del disagio ora bisogna aggiungere il Covid-19. Il rischio del contagio, la carenza di personale che, unita ai turni massacranti, costringe i lavoratori a allontanarsi dalle proprie famiglie si fonde alla paura delle sempre più frequenti rivendicazioni di carattere legale e economico derivanti da denunce a carico dei professionisti da parte di pazienti o loro famigliari. Tutti questi fattori sono la causa dell’aumento dei casi di burnout, lo stress patologico che si accusa sul posto di lavoro. E’ notizia proprio di questi giorni del suicidio in Calabria di un responsabile della campagna vaccinale. E’ un evento drammatico, purtroppo non il primo di questo genere dall’esplosione della pandemia”. L’esigenza primaria è quella quindi di supportare chi è in prima linea. “C’è assoluto bisogno- conclude Giuliano –  che in ogni struttura venga creata una figura di riferimento per i casi di burnout che coordini dei centri di ascolto psicologico. Ma non basta.  Chi sta combattendo contro il virus deve essere tutelato e messo in sicurezza per poter poi svolgere nel miglior modo possibile, con l’adeguato riposo che la situazione attuale richiede, il proprio compito al servizio della nazione”.


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