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Le demenze e il Morbo di Alzheimer

La riabilitazione e il training cognitivo consento a chi soffre del morbo di Alzheimer di mantenere una buona autonomia nonostante l'avanzare della demenza.

Di Angela Lucia Pia Nicastro

Pubblicato il 09 Lug. 2019

Il morbo di Alzheimer è la forma più diffusa di demenza neurodegenerativa e progressiva. I primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi l’esordio può avere inizio già durante la mezza età.

 

Con il termine demenza senile si indica una sindrome clinica, che colpisce soprattutto i soggetti anziani, che si manifesta con cali di funzione in vari domini cognitivi tra cui la memoria, il ragionamento, il criterio di giudizio, il linguaggio, abilità visuo-spaziali, attenzione, percezione e così via. Questi cambiamenti cognitivi possono essere anche associati a cambiamenti nel comportamento o nella personalità.

Il termine demenza racchiude un ampio spettro di gravità che va da una severa menomazione ad una live disabilità. Ci sono diversi sottotipi eziologici della demenza, tra cui si distinguono le demenze neurodegenerative, le demenze vascolari e le demenze miste.

  • Demenze neurodegenerative: sono caratterizzate da un aumento sproporzionato del processo di apoptosi cellulare (morte programmata della cellula). Tra le demenze neurodegenerative quella più frequente è la demenza di Alzheimer, la seconda in ordine di frequenza è la demenza di Lewy, mentre più rara è la demenza fronto-temporale.
  • Demenze vascolari: sono determinate dal ripetersi di “ictus”, cioè continue lesioni cerebrali che si verificano in seguito ad un’alterata circolazione sanguigna. Tra le cause più comuni di demenze vascolari ritroviamo il diabete, l’aumento della pressione arteriosa e alcune malattie sanguigne e cardiache.
  • Demenze miste: si verificano in seguito all’associazione di demenze vascolari e neurodegenerative.

Il morbo di Alzheimer

Nel 1907 Alois Alzheimer descrisse, per primo, un caso di demenza che oggi porta, appunto, il suo nome. Si trattava di una donna di mezza età che presentava disturbi di memoria e un indebolimento progressivo delle capacità cognitive.

Uno dei primi sintomi che la signora presentò fu la presenza di alcuni sospetti ingiustificati circa il comportamento del marito. Con il passare del tempo le sue capacità mnestiche divennero sempre più precarie, al punto che non riusciva più a orientarsi in casa, nascondeva oggetti nel suo appartamento e, a volte, credeva perfino che il marito volesse ammazzarla. La paziente fu in seguito ricoverata in un ospedale psichiatrico dove morì cinque anni dopo l’inizio della malattia.

All’autopsia, furono ritrovati nel cervello della paziente quelli che oggi vengono descritti come i principali fattori caratterizzanti il morbo di Alzheimer, vale a dire, ammassi neurofibrillari e placche senili localizzate nel neocortex e nell’ippocampo.

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa cronica e progressiva che si osserva nelle persone anziane. Colpisce all’incirca il 7% di soggetti che hanno superato i 65 anni e circa il 40% di quelli che hanno superato gli 80 anni. Attualmente, negli Stati Uniti, cinque milioni di persone sono affette da questo tipo di demenza e nei prossimi 25 anni si ritiene che il numero di persone malate si triplicherà.

Annualmente i costi associati al disturbo di Alzheimer sono stimati tra i 105.2 miliardi e i 160 miliardi di euro in Europa e tra i 183 miliardi e i 385 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Pertanto, allo stato attuale, in ogni società il morbo di Alzheimer costituisce uno dei principali problemi della sanità pubblica.

Nella maggior parte dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, i primi sintomi si manifestano nel corso della settima decade di vita, ma in alcuni casi le prime manifestazioni del disturbo hanno inizio già durante la mezza età. L’esordio è abbastanza subdolo: i familiari notano dei cambiamenti ma, di solito, non li attribuiscono mai alla malattia bensì a stress e stanchezza e anche il malato, dal canto suo, non sembra essere consapevole che tali cambiamenti sottendono una malattia. I sintomi più comuni riguardano difetti di memoria. Il paziente tende, infatti, a ripetere spesso le stesse domande e sembra non ricordare eventi avvenuti di recente; alterazioni nel linguaggio, spesso tendono a perdere il “filo del discorso”; sono presenti difficoltà nella risoluzione di problemi e nell’esecuzione di calcoli e, a volte, anche incongruenze nel comportamento. In alcuni pazienti sono presenti anche sintomi psicotici sotto forma di allucinazioni o di percezioni illusive. Il malato, nel primo periodo di insorgenza, è ancora autonomo ma con il passare del tempo perde gran parte della sua indipendenza diventando incapace di svolgere le normali attività quotidiane e lavorative fino ad arrivare agli ultimi stadi della malattia in cui non parla più ed è costretto a letto. La morte sopraggiunge, solitamente, in seguito alla presenza concomitante di altre patologie.

Le regioni cerebrali coinvolte nella patogenesi del morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è caratterizzato da varie alterazioni che coinvolgono i neuroni di specifiche regioni cerebrali, tra cui in particolare, l’ippocampo, il neocortex, l’area entorinale, l’amigdala, il nucleo basale, la porzione anteriore del talamo e nuclei monoaminergici del tronco encefalico. La distribuzione e la diffusione di queste alterazioni presentano diverse caratteristiche che sono specifiche per ogni neurone e quindi per ogni area cerebrale.

Si pensa che le alterazioni della corteccia entorinale, dell’ippocampo e di altri circuiti della corteccia mediotemporale siano determinanti nell’insorgenza dei deficit di memoria che caratterizzano questo tipo di demenza.

Problemi legati, invece, al comportamento e agli stati emozionali che si osservano in alcuni pazienti, sono probabilmente connessi ad alterazioni della corteccia limbica, dell’amigdala, del talamo e di vari sistemi monoaminergici del tronco dell’encefalo che proiettano alla corteccia dell’ippocampo.

Le alterazioni più comuni riscontrabili nel morbo di Alzheimer sono la presenza di placche senili (o neuritiche) e matasse neurofibrillari. Le regioni cerebrali colpite dal morbo di Alzheimer, infatti, contengono diverse placche senili in cui possiamo osservare depositi extracellulari di sostanza amiloide che sono a loro volta circondati da assoni distrofici, da astrociti e dagli elementi della microglia. Il costituente principale dell’amiloide è un peptide di 4 kDa, detto amiloide Aβ . L’amiloide Aβ deriva dall’idrolisi di una proteina precursore di maggiori dimensioni detta anche proteina precursore dell’amiloide (APP). Questo tipo di placche le ritroviamo anche nel cervello di persone anziane sane ma in numero più ridotto.

L’alterazione più comune del citoscheletro è caratterizzata, invece, dalla presenza di matasse neurofibrillari, costituite da fasci di filamenti elicoidali nei corpi cellulari e nella parte prossimale dei dendriti. Le prime matasse compaiono spesso nei neuroni della corteccia entorinale per poi estendersi a tutto il neocortex. La funzione del citoscheletro è quella di garantire il mantenimento strutturale dei neuroni e gli spostamenti degli organuli intracellulari e delle proteine, compreso anche il trasporto assonale. Pertanto, è probabile che le anomalie del citoscheletro ostacolino il trasporto assonale compromettendo così le funzioni sinaptiche e la vitalità stessa dei neuroni. Infine, le cellule colpite da queste alterazioni muoiono interrompe, ovviamente, anche l’arrivo delle informazioni sinaptiche alle regioni cerebrali la cui funzione è fondamentale per lo svolgimento delle normali attività cognitive e per la memoria.

Gli interventi di riabilitazione e training cognitivo nel morbo di Alzheimer

Anche se si dovessero trovare in breve tempo farmaci più efficaci per risolvere le lesioni di ordine neurocellulare, resta comunque di grande importanza provare e predisporre interventi assistenziali e riabilitativi sempre più efficaci, che oggi risultano l’unico baluardo possibile nei diversi momenti che la malattia struttura ed impone.

L’approccio riabilitativo mira al rallentamento del declino cognitivo, al controllo del comportamento-problema, all’orientamento delle funzioni e al miglioramento del rapporto soggettivo con la propria esistenza, inoltre ha il merito di aver dato un concreto aiuto ai caregivers e ai familiari.

Tra le tecniche applicate sinora, la più conosciuta è sicuramente la Reality Orientation Therapy (ROT), proposta come metodica cognitiva-comportamentale e come intervento riabilitativo psico-sociale rivolto alla persona. Questo metodo nasce negli Stati Uniti ad opera di Folsom (1958) per i veterani di guerra, come tecnica specifica riabilitativa in pazienti confusi e, solo più tardi, fu utilizzata per i pazienti con demenza. Il presupposto della sua utilizzazione è che il paziente abbia sufficienti capacità di comunicazione verbale e gestuale. Essa, pertanto, può essere proposta solo ai soggetti con un indebolimento cognitivo lieve o moderato e con funzioni sensoriali non compromesse in modo significativo. La ROT si basa infatti sull’ipotesi che la stimolazione neurosensoriale attivi connessioni nervose scarsamente utilizzate e/o ne favorisca lo sviluppo in una sorta di vicarianza funzionale. Fornendo punti di riferimento spaziali, relazionali e temporali, la ROT permette al paziente di riappropriarsi di quegli strumenti che gli consentono di ritrovare un rapporto con se stesso e con le dimensioni spazio-temporali. Sul piano operativo prevede: attività di orientamento temporale (vengono fornite informazioni sul tempo cronologico, stagionale e metereologico); attività di orientamento spaziale (viene richiamata l’attenzione sulla sede degli incontri, percorsi abituali e luoghi familiari); attività di riappropriazione corporea (si porta il paziente a focalizzare l’attenzione sul proprio corpo attraverso tecniche di toccamento e concentrazione); attività di stimolazione sensoriale (si riporta il soggetto, in modo progressivo, a contatto con l’ambiente circostante). Nella ROT ci sono due modalità di intervento: un metodo informale, in cui stimolazioni di orientamento temporo-spaziali vengono effettuale in contatto con operatori, assistenti e caregivers, ed un metodo formale (in classe), in cui il riorientamento si svolge insieme ad altri pazienti. Anche se questo metodo viene molto utilizzato per la sua facilità di applicazione va purtroppo sottolineato che i benefici della terapia della realtà sono assicurati solo nel momento in cui si protrae l’intervento, mentre non sono stati dimostrati effetti a lungo termine.

L’altra tecnica di intervento maggiormente utilizzata è il Memory Training. Prima di esporre in cosa consiste tale tecnica, occorre distinguere, nelle demenze, tra due tipi di perdita di memoria: quella semantica, che è precoce, e quella procedurale che, invece, viene persa solo nelle fasi più avanzate della malattia. Il Memory Training si inserisce tra gli interventi di tipo cognitivo e consiste nell’utilizzare strategie esterne per rendere le attività da svolgere meno dipendenti dalla memoria. L’intervento propone due obiettivi: migliorare la memoria procedurale del paziente coinvolgendolo nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana e formare il familiare del paziente affinché possa apprendere le tecniche di stimolazione necessarie per poter proseguire l’intervento a casa. Diverse sono le attività svolte di Memory Training tra cui: attività di cura e igiene personale, attività di cucina, attività legate all’abbigliamento e attività legate alla comunicazione con l’ambiente esterno. Tuttavia, diversi studi hanno mostrato inconsistenti i risultati ottenuti con tali tecniche e hanno ribadito la loro applicabilità solo agli stadi iniziali della malattia.

Una figura fondamentale in questo tipo di malattia è sicuramente quella del caregiver proprio perché il paziente non essendo autosufficiente ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Il peso dell’assistenza ha portato a definire la malattia come una “malattia familiare” ( in senso sociologico). Alcuni dei problemi a cui i caregiver vanno incontro riguardano: modificazioni della routine familiare, modificazioni della qualità delle relazioni familiari, modificazioni delle relazioni sociali, diminuzione del tempo libero e dei tempi di riposo, difficoltà sul piano lavorativo. Importanti conseguenze, potrebbero “colpire” anche i figli dei caregiver che potrebbero sentirsi trascurati o essere coinvolti loro stessi nell’assistenza al malato e potrebbero, inoltre, emergere conflitti con gli altri membri della famiglia meno coinvolti nell’assistenza. Va sottolineato che l’attività di caregiving perdura per tutto il tempo della malattia e quindi sarebbe opportuno che la famiglia non venga lasciata sola e che chieda aiuto, laddove sia necessario, a strutture e figure più competenti.

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