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Violetta: una vita senza amore – Centro di Igiene Mentale – CIM Nr.16 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

Centro di Igiene Mentale: lo scopo di Violetta era di essere amata, solo se occupava completamente la mente di qualcun altro sentiva di esistere

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 18 Nov. 2014

Aggiornato il 15 Giu. 2015 10:38

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile.

Il parco auto a disposizione del CIM acquistato al momento della fondazione, invecchiava inesorabilmente come gli operatori e la carenza di fondi rendeva le riparazioni un evento straordinario quando invece auto guidate da moltissime persone richiederebbero una manutenzione assidua e affettuoso.  I più utilizzavano per le trasferte le macchine private con un rimborso chilometrico di 50 cent, ma i pazienti non potevano assolutamente esservi trasportati non essendo protetti da assicurazione.

Al lettore sembrerà sciocca una tale divagazione sui mezzi in ciò dimostrando la sua ignoranza sull’operatività di un CIM soprattutto di una grande provincia che avviene prevalentemente sul territorio con grandi spostamenti. Il lettore porterà dunque pazienza se tarderò ancora un po’ a riportarlo nel palpitare dell’attività clinica. Le auto erano due fiat tipo bianche con le insegne della Asl, un pulmino ford transit azzurro per le attività di gruppo e la cosiddetta ammiraglia della flotta. L’ammiraglia era una Fiat bravo nera usata per i viaggi più lunghi o quando c’era fretta essendo più potente e sicura. Sapendo quanto Biagioli ci tenesse tutti gli operatori gli avevano regalato  per i suoi cinquant’anni un autoradio che era stato montato sulla “Bravo”. Il vero regalo consisteva soprattutto nell’aver seguito le procedure per poter ottenere il montaggio. Chi non ha avuto esperienza di ASL non può immaginare quanto sia difficile non soltanto ottenere qualcosa dalla ASL (ad esempio un pagamento per forniture) ma anche donarle qualcosa. Quell’autoradio rappresentava una vittoria contro la burocrazia ed era motivo di orgoglio di tutti.

Essendo  i presenti piuttosto ridotti dalla coda delle ferie della seconda metà di agosto, la scelta ricadde facilmente sulle più disponibili e la dottoressa Mattiacci e la dottoressa Filata furono subito lanciate sulla superstrada che portava fuori provincia verso l’ospedale di Montello. Il rombo del motore 1.9 turbo diesel  disturbava le canore dichiarazioni di Vasco Rossi circa il desiderio di  una vita spericolata. Lina e Maria, praticamente coetanee, al contrario si raccontarono  per buona parte del tragitto quante spericolatezze avrebbero volentieri cancellate dalle proprie vite.

Lina avrebbe volentieri fatto a meno del brivido di andare a ricercare per le campagne di Monticelli il padre demente del suo convivente assurgendo, come era successo una volta, agli onori di “chi l’ha visto?” Avrebbe anche volentieri evitato le continue discussioni con il suo compagno vedovo che, pur non volendola sposare per rispetto della povera Assunta, voleva un figlio con il sistema dell’utero in affitto. Lina sospettava che la fecondazione del suddetto utero dovesse essere nelle intenzioni di Riccardo piuttosto tradizionale: passava le notti in rimuginii e le giornate in controlli. Maria attraversava un tribolatissimo inizio di menopausa: si accorgeva di essere diventata invisibile agli uomini e inutile per i suoi due ragazzoni. Bravissimi a scuola ed ora avviati ad una duratura disoccupazione avevano occhi e attenzioni solo per le due ragazze che si erano appropriate del loro cuore e delle loro camere senza mai porsi il problema di dare una mano. Il pensionato era aumentato da due a quattro ospiti e la collaborazione già scarsa dimezzata “hanno altro per la testa”.  Giovanni che non amava la confusione ed i piena crisi di andropausa era sempre più assente e distratto. Su questo tema che potremmo definire di gelosia le preoccupazioni di Lina e Maria si allearono rinforzandosi reciprocamente. Se le avesse fermate un poliziotto maschio lo avrebbero probabilmente insultato e preso a schiaffi.

Spensero Vasco mandandolo a quel paese e si lasciarono cullare dai saliscendi e dalle curve  in un paesaggio che sotto il verdeggiare rigoglioso degli alti fusti mostrava a terra  screpolature e siccità per una estate torrida che non accennava a placare le sue fiamme. Se fosse andato a fare la spesa Vasco si sarebbe accorto come fosse spericolato già l’acquistare le verdure di stagione che avevano dovute essere annaffiate tutti i giorni.  Per rendere più spericolato l’inizio della giornata e grazie ai saliscendi e alle curve. Maria vomitò per metà oltre la portiera del passeggero ma per l’altra metà sulla moquette interna della Bravo con l’autoradio prediletta da Biagioli.

Violetta era ricoverata all’ospedale di Montello perché avevano tardato ad intervenire. Dalla vigilia di ferragosto i vicini erano allarmati per quella signora stravagante che aveva intensificato le minacce di suicidio, isteriche a detta di tutti, da quando Elio il marito ingegnere edile era stato licenziato ed era partito per la Germania dove conosceva un cognato. Lei era convinta che non avrebbe trovato soltanto lavoro e già si viveva come abbandonata. Non c’erano i figli a trattenerlo in Italia e i genitori di lui erano morti l’anno passato. I genitori di Violetta invece vivevano nella capitale e si occupavano esclusivamente dei due gemelli disabili (oligofrenici gravi) nati dieci anni dopo di lei ed ora quarantenni a totale carico degli anziani genitori cui mancava lo spazio per altro dolore.

Per essere sinceri i vicini di Violetta non erano davvero preoccupati per lei considerata una stravagante rompiscatole sempre in cerca di affetto e dunque talvolta pericolosamente equivoca con i mariti del circondario. Temevano semplicemente che un tentativo di suicidio maldestro (gas) potesse trasformarsi in una tragedia.

In anamnesi aveva un T.S. con l’ingestione di aspirine, un TS con numerosi tagliuzzi sull’avambraccio ed un quasi coma alcolico. Tutti i tentativi erano stati fatti nell’immediatezza del ritorno a casa del marito. Insomma l’intenzionalità suicida non sembrava molto forte. Siccome non si sa mai il CIM era stato avvertito più volte daquelli rimasti nel palazzo nonostante il periodo estivo. Tutto si era acquietato con la partenza di Violetta per la casa di campagna della zia a Montello. Problema risolto. Invece  si era ingozzata un flaconcino di pillole per il cuore della vecchia ed era giunta al pronto soccorso per miracolo. Prima di raggiungere il letto di Violetta bisognava attraversare e chiedere informazioni a metà ospedale affrontando lo sguardo rimproverante dei sanitari che costretti a lavorare per un paziente fuori zona accusavano i colleghi locali di non aver fatto bene il loro lavoro. Persino in cartella avevano scritto “nonostante le ripetute segnalazioni dei vicini……”.

Andò avanti la dottoressa Mattiacci che alimentando volontariamente il pensiero dell’utero ricercato da Riccardo aveva un aspetto che sconsigliava il contraddirla. La dottoressa Filata, al seguito, incontrava sorrisi e gentilezza in sovrappiù come da chi esagera per compenso e per scusarsi dopo un deciso rimprovero. Una solerte caposala attrezzò una stanzetta essenziale (tre sedie e una scrivania) tranquilla e riservata più di quelle di  cui usufruivano al CIM di Monticelli.

Violetta giunta in emergenza aveva un abbigliamento rimediato dalle infermiere e donato da qualche altra paziente, non dunque il consueto pigiama d’ordinanza o le consuete tute che popolano le corsie ospedaliere. L’insieme comunque era stato da lei scelto e assemblato con cura tanto da conferirle un certo fascino sbarazzino e zingaresco. La casacca verde da infermiere di sala operatoria troppa larga era cinta in vita da una kefiah palestinese a disegni rossi che drappeggiava sopra dei pantaloncini corti che considerati i ricami dovevano essere stati delle mutande di una nonna della bella epoque. I piedi curatissimi e smaltati di un rosso ferrari  in sandali di cuoio che si arrampicavano oltre la caviglia.  Non mancava nessun accessorio utile a identificarla come una ex ragazza della generazione del boom economico e della rivoluzione hippy:  collane di pietre coloratissime intrecciate tra loro tre orecchini per orecchio assolutamente diversi tra loro, un tatuaggio piccolo del segno “fate l’amore e non fate la guerra sul polso destro ed un inconfondibile profumo di Paciuli  che attivò nelle due dottoresse un ondata di ricordi, come solo i profumi sanno fare, e la meraviglia che ancora fosse in commercio.

Violetta era pressoché coetanea delle due dottoresse.  Avrebbe compiuto 50 anni nel mese di settembre. Lo stile generale del suo aspetto sembrava orientato con molta attenzione a far vedere che non si curava. Insomma quella seduttività da “gatta morta” che  spesso inganna i maschi ma non sfugge alle altre donne provocandone l’irritazione in quanto considerata concorrenza sleale. Di poco sotto il metro e settanta aveva però tutti i tratti della femminilità solidi e ben conservati segno di una attenta politica di conservazione. Non li mostrava ma era molto attenta a verificare che fossero intuiti e apprezzati. Capelli biondi da paggetto e grandi occhi azzurri velati di una malinconia straziante che, di tanto in tanto si inumidivano  senza decidersi alle lacrime vere e proprie. Musetto imbronciato in cui si mischiavano producendo uno strano effetto tre emozioni. Il dolore per una perdita. La rabbia per un torto subito. Le scuse per aver osato chiedere ciò che non le spettava. Insomma un bambino capriccioso che si dispera per essere stato sgridato e fermamente convinto di avere ragione. 

Quasi per non creare disturbo Violetta dichiarò subito che il tentativo di suicidio era stato un momento di debolezza per lo sconforto di non riuscire a parlare con Elio che arrivato in Germania da una settimana  ancora era irraggiungibile dovendo modificare il contratto del cellulare. Le era sembrata una grave disattenzione nei suoi confronti e si era presa l’intera boccetta delle pilloline di Cuorenorm della zia Matilde. Per rassicurare le due dottoresse aggiunse che aveva lasciato la porta di casa spalancata e sapeva che la zia sarebbe tornata dopo mezz’ora.

Tanta volontà di normalizzare il gesto e di rassicurare le due dottoresse ottenne l’effetto opposto. Consultatesi con la scusa di un caffè al distributore automatico concordarono sulla sensazione di un dolore profondo inconsolabile che doveva venire da ben più lontano. Avevano l’impressione che volesse rassicurarle per liberarsene e portare a termine il progetto iniziato e, infine che  in due erano troppe e concordata la terapia farmacologica con il reparto si potevano proporre le dimissioni  e poi proseguire con una psicoterapia  affidata alla dottoressa Filata con cui sembrava esserci un particolare feeling. Avvertirono telefonicamente Biagioli perché facesse  vedere con grande evidenza che d’ora in poi Violetta sarebbe stata seguita assiduamente dal CIM. Insomma doveva fare “la moina” per rassicurare i coinquilini e diminuire così l’ostracismo nei suoi confronti. I farmaci si limitarono a blandissimi ansiolitici. La Mattiacci non amava sparare pesantemente sui sintomi senza aver prima capito i motivi profondi di un disagio.

La stanza della Filata  dove avvenivano i colloqui se si eccettua l’odore di Paciuli  sottolineava le radici culturali e generazionali comuni e le metteva a proprio agio. Naturalmente le due cornici con i figli di Maria finirono in un cassetto  dopo un bacio di saluto e di scuse della madre.

Violetta riferiva una assoluta mancanza di senso dell’intera sua esistenza. Vivere non era tanto doloroso quanto soprattutto inutile e siccome molto spesso faticoso non vedeva che senso avesse affaticarsi tanto per nulla. Il desiderio di non essere mai nata l’aveva accompagnata sin dalla prima infanzia. Usava come fantasia consolatoria nei momenti bui l’immagine di lei rannicchiata dentro una bara tre metri sottoterra  con tutto il mondo che continuava ad affaccendarsi sopra di lei. Donna colta con due lauree (scienze della formazione e sociologia) ed un diploma da logopedista, aveva già fatto due psicoterapie tra i venti ed i trent’anni quando erano gli attacchi di panico a dominare la scena.

La prima junghiana era stata interrotta per esplicite molestie sessuali del terapeuta. La seconda freudiana di tre anni aveva ben identificato il nucleo problematico nella sua famiglia d’origine. Attualmente si guadagnava da vivere lavorando come logopedista in una struttura convenzionata e la partenza del marito la metteva in serie difficoltà economiche. Il nucleo del suo problema era facilmente riassumibile quanto difficilmente modificabile avendo radici profonde nelle esperienze familiari della prima infanzia. Violetta pensava di non valere niente o peggio, di essere un elemento dannoso che rovinava tutto ciò con cui veniva in contatto, la cosiddetta “mela avariata” che fa marcire tutto il paniere.

Il senso di essere sbagliata, fuori posto, dannosa non è riferito a uno o più comportamenti ma propriamente alla sua essenza. E’ un difetto di fabbrica ineliminabile e del quale, contraddittoriamente, si sente anche colpevole. Per placare questa percezione di difettualità avrebbe bisogno di sentirsi amata. Per cercare di ottenere questo amore cerca di non dare mai fastidio (non richiedere niente) e rendersi utile. Quando tuttavia le attenzioni e i riconoscimenti arrivano li riferisce ai suoi comportamenti e non incidono dunque sull’essenza di difettualità. Non ritenendosi amabile  e certa che l’altro prima o poi scoprirà il bluff e quanto sia disgustosa non si lascia avvicinare confermando l’idea di indesiderabilità.

Oltre la professione d’aiuto che svolge è sempre stata impegnata  nel volontariato  con persone e soprattutto animali (più rassicuranti) che avessero un tale stato di bisogno da ritenerla indispensabile e dunque non lasciarla. Primogenita ha da subito dovuto occuparsi dei due fratelli più piccoli dopo l’allontanamento del padre violento e alcolista che ha lasciato la madre, quando lei aveva tre anni, in uno stato di indigenza economica e di grave depressione da cui è uscita ponendo cinicamente se stessa e i suoi bisogni al centro dell’universo. Violetta è sempre stata convinta di essere la causa dell’allontanamento del padre.

Durante l’adolescenza ha scoperto che un altro tipo di accondiscendenza con cui ottenere attenzioni e affetto era quella sessuale. Ha vissuto un periodo eroico e rischioso per promiscuità e droghe. Non che godesse. Per lei si trattava sempre di un impegnativo lavoro in vista di un riconoscimento e di un amore che curasse quella sua difettualità originaria. Non può dire di non essersi anche divertita ma quel suo disagio, quel senso di inutilità non l’ha lasciata un istante. Ed ora è stanca, tanto stanca.

Prima di Elio ha avuto altre due importanti storie inconsapevolmente scelte per confermare  la sua idea di difettualità. Renato un tossico gravissimo che  l’ha sempre lasciata al secondo posto dopo l’eroina. Gianni che per sette anni le ha detto che la moglie non contava niente per lui e aspettava solo di andarsene e nel mentre ci ha fatto altri due figli. Freud chiamava “coazione a ripetere” il riproporsi nella vita delle persone sitazioni analoghe, dolorose e dichiaratamente non volute. Più modestamente la dottoressa Filata pensava che faccia meno paura un male conosciuto piuttosto che l’ignoto. Infine era arrivato Elio  il classico buon partito, buona laurea, buon lavoro, solida famiglia alle spalle. Disposto a prendersela nonostante dopo la storia con Renato fosse molto chiacchierata. Per lei era una scelta protettiva e di stabilità dopo il periodo di follie, qualcuno con cui invecchiare serenamente.

In realtà Elio era rimasto figlio della sua famiglia d’origine senza mai proiettarsi nella nuova. A 35 anni comunicò di non volere figli perché in futuro si sarebbe dovuto occupare della cura dei propri adorati genitori. Violetta accettò perché da parte sua si riteneva incapace di procreare qualcosa di buono e tanto meno di accudirlo. Oggi il rimpianto per quella scelta la devasta. L’assoluta anaffettività di Elio se da un lato era motivo di sofferenza dall’altro suonava come conferma della sua non amabilità e dunque la giustificava ampiamente: era ciò che si meritava e non poteva pretendere di più.

Violetta aveva molti amici  a motivo della sua oblatività coatta.  Il suo dramma che la spingeva al suicidio lo descriveva dicendo che non tollerava di vivere senza essere la cosa più importante per qualcuno. Si descriveva come un pappagallo che ha bisogno di un trespolo su cui posarsi. Non lo trova ed è sempre più stanco. Siccome frugando su internet e ricordando i suoi studi di psicologia si era diagnosticata una “depressione anaclitica” caratteristica dei bambini privati di cure materne e che per tutta la vita cercano qualcuno cui appoggiarsi sentendo altrimenti di non esistere, si accordarono di chiamare questo vissuto  che la assillava “Anacleto”.

Lo scopo di Violetta era di essere amata solo se occupava completamente la mente di qualcun altro sentiva di esistere. Altrimenti non c’era. Che dico?magari non esserci. Il suo vissuto era quello di un morire infinito, un affogare senza mai toccare il fondo. Uno spasmo fisico le asserragliava il torace. Per spiegarlo a Maria disegnava una bambina su un foglio e mentre la cancellava diceva di sentirsi così. La paura di scomparire non veniva dismessa dal suo accadere. A precipizio seguiva precipizio e il terrore di cadere rimaneva intatto. L’atrocità stava nella lucidissima consapevolezza dell’imminenza della fine che non arrivava mai. Immagina, diceva,il vissuto di una partita di roulette russa o la tortura della finta esecuzione.

La gravità del caso era spesso oggetto di discussione nelle riunioni cliniche del CIM su esplicita richiesta di Mattaccini e Filata sempre più preoccupate. I pareri discordi si estremizzavano a diventare partiti. Per Irati, per la prima volta in assoluto d’accordo con una psicologa nella persona della dottoressa Daniela Ficca, era semplicemente una isterica anzi una “istericona” come si usava dire quando la categoria diagnostica veniva usata in termine dispregiativo nel senso di esagerata, commediante, viziata, manipolatrice e persino un po’ mignotta (come se chi avesse bisogno di fare tutto ciò per ottenere attenzione non fosse grandemente sofferente).

Per la Mattaccini ed il dottor Cortesi si trattava di un disturbo bipolare dell’umore e lo sbarco farmacologico in grande stile era stato fin troppo e rischiosamente rimandato. Chi sembrava capirla perfettamente era il dottor Biagioli appoggiato come al solito da Luisa Tigli. Lui che aveva sofferto da piccolo di una fortissima ansia da separazione non stentava a mettersi nei suoi panni .Spiegava agli altri che quella mancanza è un dolore muto, non riesce a dispiegarsi in parole, soffoca, svuota dal di dentro, ti lascia vivere da morto. Era pessimista, diceva che solo l’amore l’avrebbe potuta curare senza tuttavia guarirla mai ma quell’amore non era un servizio fornito dal CIM. Secondo i vecchi militanti dell’antipsichiatria ( Giovanni Brugnoli,Antonio Nitti e Maria detta Gilda) era una crisi esistenziale da menopausa ed il CIM doveva proporle una serie di attività che dessero un senso alla sua esistenza. A loro avviso si doveva puntare ad utilizzare l’oblatività coatta di Violetta e fecero numerose proposte. Volontariato nell’hospice “Exit” che operava a domicilio dei terminali, operatrice retribuita con un sussidio ASL nel centro per  homeless che il CIM aveva appena aperto nei locali della parrocchia di San Carluccio. Corso di danza africana (di cui era esperta) per i pazienti del centro diurno regolarmente in sovrappeso per i farmaci.

Violetta obbediente si sperimentava con senso del dovere in tutte queste proposte ma il senso di inutilità non si modificava. Non voleva aiutare gli altri, voleva disperatamente essere amata. Dopo che Elio le comunicò con una raccomandata A/R che non aveva intenzione di tornare chiedendole di inviare ad un indirizzo di Amburgo le sue poche cose Gilda rispolverò il suo orgoglio femminista e tutta la sua spregiudicatezza e partì all’attacco. La spinse a frugare su internet alla ricerca di occasioni di incontro per cinquantenni “ben tenute”.

In terapia alla dottoressa Filata riportava l’universo di solitudine e di squallore che le si era parato innanzi. Se si escludeva il settore delle coetanee a caccia di sesso virtuale e, se fortunate, di cazzi a tempo determinato. Era un mondo molto popolato dove riconobbe sotto nickname improbabili alcune amiche felicemente sposate e sorprendentemente una certa Makeba28GR che scoprì essere sua madre. Chi non era impegnato in safari genitali ambo i sessi si dedicava a tutto quel mondo che andava dall’astrologia, alle pratiche magiche nord europee e più o meno animiste. C’erano gruppi per ogni cosa. Vergini attempate che accoglievano la primavera danzando la notte nei boschi. Sette religiose e alimentari di ogni genere che giuravano di aver trovato il senso dell’esistenza nel quotidiano lavaggio intestinale, nell’assoluta astinenza da tutti i derivati della soia o nel rifiuto del sapone e i suoi derivati. Non ce la poteva fare. Si accusava di essere forse troppo snob ma non erano cose per lei.

Il costante peggioramento della situazione  rendeva concreto il rischio suicidiario e, di nuovo si crearono due partiti. Quelli favorevoli al ricovero immediato in trattamento sanitario obbligatorio perchè Violetta non voleva saperne e coloro che ritenevano fosse diritto di ognuno decidere per la propria vita e non ci fossero criteri esterni e oggettivi per stabilire se fosse o meno degna di essere vissuta.

Perchè di fronte ad una SLA terminale senza possibilità di comunicare con gli altri o in una “sindrome locked in” si è disposti a prendere in considerazione l’eutanasia o perlomeno la cessazione delle cure ed in una vita ritenuta intollerabile perchè senza amore no? Non c’è forse una impropria sovrapposizione dei criteri dei curanti su quelli del paziente per espropriargli una sua decisione? I dibattiti filosofici lasciarono il passo alla consuetudine clinica ormai guidata soprattutto dall’evitare questioni medico legali (la cosiddetta medicina difensiva schierata a proteggere le terga dei medici) e Violetta fu ricoverata con ordinanza del sindaco e sospiro di sollievo dei coinquilini presso l’ospedale territoriale di Vontano. Qualche piccola rogna la passò invece l’infermiere del reparto che nel tentativo di trattenerla rimase con uno di quei suoi deliziosi sandali in mano. Ma loro hanno una assicurazione specifica e prendono anche una  cospicua indennità di rischio quasi come i radiologi.

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