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Donne in carriera: perché sono così poche?

Le origini delle differenze di genere relative all’ambito lavorativo sono da ricercare nei primissimi messaggi con cui i bambini vengono bombardati fin dai primi anni di vita. Mentre l’educazione maschile, molto spesso, tende a stimolare comportamenti che, col senno di poi, si riveleranno vincenti in ambito lavorativo (come competitività e raggiungimento di elevati livelli di prestazione), l’educazione femminile privilegia, solitamente, soprattutto i rapporti ed i legami interpersonali e le donne vengono quasi “addestrate”, fin da piccole, al ruolo di madre e moglie.

 

Introduzione

In questi anni il ruolo lavorativo della donna, anche a causa della crisi economica che ha posto la necessità di incrementare le entrate mensili della famiglia, ha acquisito un’importanza fondamentale. Eppure, nonostante questo, permane ancora l’opinione che il lavoro femminile abbia un valore minore rispetto a quello maschile e questa premessa si esprime in modo sottile ma deciso mediante la convinzione che la donna possa essere più flessibile a livello lavorativo, meno ambiziosa e che possa svolgere solo determinate professioni. Eppure secondo i dati Almalaurea e Stella le donne si laureano in tempi più brevi, con voti più alti e continuano a studiare dopo la laurea con master e specializzazioni (57-71%) mostrando quindi altissime potenzialità che potrebbero essere ben sfruttate sul posto di lavoro.

Cosa induce la scelta di percorsi professionali differenziati tra uomini e donne?

Le origini delle differenze di genere relative all’ambito lavorativo sono da ricercare nei primissimi messaggi con cui i bambini vengono bombardati fin dai primi anni di vita. Mentre l’educazione maschile, molto spesso, tende a stimolare comportamenti che, col senno di poi, si riveleranno vincenti in ambito lavorativo (come competitività e raggiungimento di elevati livelli di prestazione), l’educazione femminile privilegia, solitamente, soprattutto i rapporti ed i legami interpersonali e le donne vengono quasi “addestrate”, fin da piccole, al ruolo di madre e moglie. È forse questo il motivo per cui le donne scelgono maggiormente professioni umanistiche? Probabilmente sì, ma ci sono anche altri elementi che concorrono alla scelta di tali percorsi professionali.

Ponendo che la bambina, dopo essere stata “travolta” da messaggi sull’importanza di essere sempre gentile ed amorevole, diventi un’ adolescente ambiziosa (dal punto di vista scolastico e professionale) e giunga al liceo forte delle sue idee e della consapevolezza delle sue risorse, è comunque possibile che tali ambizioni vengano distrutte dal cosiddetto “ambiente zero” (Freeman, 1989), ovvero quel clima di discriminazione passiva che non incoraggia né demolisce la persona, ma finisce semplicemente per ignorarla. Poniamo dunque che la nostra piccola donna ambiziosa alzi la mano per esprimere la sua idea, per dare la risposta ad un quesito, oppure semplicemente per chiedere un chiarimento e venga ignorata. Quanto tempo sarà necessario perché la studentessa non alzi più quella mano? Non molto. E, se il percorso scolastico non fosse stato sufficiente a demolire le speranze della studentessa, un duro colpo verrà certamente sferrato dagli stereotipi che spesso animano il luogo di lavoro in molti settori.

Gli stereotipi sulle donne e l’impatto sulle loro scelte accademiche e lavorative

Kanter, già nel 1977, osservò la presenza, in ambito lavorativo, di quattro stereotipi sulle donne lavoratrici:
La donna madre, ricca di qualità relazionali, capace di cure amorevoli ed interessata al prossimo la quale però, invece di essere apprezzata per tali qualità, viene ad essere intrappolata in ruoli poco ambiti e sottopagati;
La donna bambina, considerata immatura ed incompetente e, dunque, meritevole di ruoli costituiti da scarsa responsabilità e di salari minori rispetto agli uomini;
La vergine di ferro, giudicata come ambiziosa, competitiva e determinata e quindi, proprio per questo, poco rappresentativa del genere femminile, ovvero una sorta di eccezione che confermerebbe la regola;
La donna oggetto, che incarna il classico stereotipo della donna come oggetto sessuale.

Dunque la sopracitata donna ambiziosa che ha studiato, che si è fatta spazio sgomitando tra gli uomini per realizzare le sue aspirazioni, giunge finalmente sul posto di lavoro e non può né sfruttare la sensibilità e le competenze relazionali intrinseche del suo essere donna, né può cercare di somigliare agli uomini. Ancora una volta la donna si ritrova intrappolata tra una serie di ruoli che non ha scelto.

Ma tutto questo cosa produce a livello pratico? Una delle conseguenze più negative è, innanzitutto, l’evitamento della matematica e delle discipline scientifiche in seguito al fatto che le donne vengono solitamente spinte verso percorsi umanistici, e finiscono per applicarsi meno, in termini di tempo, in campo scientifico. L’evitamento della matematica, per quanto possa sembrare innocuo, produce l’esclusione di un gran numero di donne da professioni scientifiche e tecnologiche, che si da il caso siano anche quelle più remunerative e con maggiore offerta di posti di lavoro.

Uno studio di Chipman e Thomas (1985) ha rilevato come, a parità di ore di lezione, non vi sarebbero differenze relative alla competenza matematica tra uomini e donne e dunque, ancora una volta, le possibili risorse della donna verrebbero stroncate sul nascere. Analizzando qualche dato emerso da un’indagine del Ministero della Pubblica Istruzione sull’anno accademico 2014/2015 è evidente che, sebbene le studentesse rappresentino circa il 56% degli studenti universitari, è possibile sottolineare una forte presenza femminile in ambito umanistico (75%) e sociale (61%) contro un misero 31% nel settore “Ingegneria e Tecnologia”.

In secondo luogo la scarsa presenza di modelli di ruolo inerenti carriere non tradizionali (donne ingegneri, fisici, presidenti) produce una percezione di tali percorsi come ancor più “impossibili”.

In terzo luogo la costante sottovalutazione delle proprie competenze genera una scarsa autostima, ridotte aspettative di successo e, dunque, una minore determinazione nell’esecuzione delle attività, correlata ad un livello di performance più basso. Infine le donne sembrerebbero dare un maggior peso, nelle decisioni lavorative e accademiche, agli aspetti relazionali, cercando continuamente un compromesso che non danneggi in alcun modo le persone a loro vicine come il partner o i figli.

Dall’altra parte gli uomini, spesso, sembrano non essere nemmeno consapevoli dell’impatto che i cambiamenti potrebbero avere sulle loro famiglie (Henton, Russel e Koval, 1983), privilegiando l’indipendenza. In particolare ci sarebbe una tendenza femminile a porre una maggiore attenzione agli aspetti relazionali e alla necessità di offrire una risposta ai bisogni altrui, basata anche sulla maggiore capacità empatica delle donne. Al contrario, gli uomini, avrebbero strutturato modelli relazionali che andrebbero a privilegiare aspetti come la reciprocità e l’equità (Lyons, 1983). Di conseguenza l’enfasi posta dal mondo occidentale sull’importanza della separazione e della totale indipendenza potrebbe semplicemente non corrispondere alla natura dell sviluppo femminile. Inoltre molti studi hanno rilevato che le scelte maschili sulla carriera sarebbero correlate soprattutto ad aspetti riguardanti il guadagno ed il prestigio atteso mentre quelle femminili si baserebbero su altri aspetti, soprattutto relazionali, come ad esempio il rapporto con i colleghi (Neil e Snizek, 1987).

Conclusioni

In conclusione è possibile affermare che le carriere femminili verrebbero “sabotate” fin dalla nascita, quasi inconsapevolmente, e che anche laddove la donna riesca a ritagliarsi, con le unghie e con i denti, il suo spazio professionale, dovrà comunque fronteggiare forti stereotipi e potenti pregiudizi. Al giorno d’oggi, con l’importanza che il lavoro ha assunto per ogni cittadino, che sia maschio o femmina, tutti questi processi finiscono per produrre un grande ed inaccettabile spreco di potenziale che dovrebbe essere fronteggiato sì a livello economico, mediante riforme che incentivino il lavoro femminile, ma anche e soprattutto a livello psicologico attraverso una precisa ed approfondita elaborazione e modifica di tutti quegli stereotipi che costituiscono la gabbia dorata in cui la donna vive.

Il guanto di mio fratello: un libro per affrontare il tema della disabilità di un fratello

Le difficoltà quotidiane che le persone affette da disabilità devono affrontare sono notevoli; nondimeno, forse, non si parla abbastanza delle difficoltà dei familiari, dei genitori e dei fratelli. Questo libro illustrato, destinato ai bambini dai 6 anni in su, si rivolge a coloro i quali hanno un fratello disabile. Senz’altro una sfida ardua, specie per un bambino.

Trama

Hina e Tabi sono fratelli; giocano insieme, vanno d’accordo. Fin qui andrebbe tutto bene, se non fosse per un piccolo particolare: Tabi indossa sempre un guanto, un grande guanto rosso che lo rende diverso da tutti gli altri.
Hina comincia ad accorgersi che, quando sono in mezzo alla gente, il guanto attira l’attenzione: le persone lo notano, ne parlano e non in modo positivo: suo fratello non è come gli altri.

Questo non le piace affatto. Si potrà pur fare qualcosa. Hina non si perde d’animo e, insieme con Tabi, decide di partire per un viaggio: devono raggiungere la dimora di un mago, un mago che, si dice, sia dotato di grandi poteri. Hina è sicura che, grazie ai suoi poteri, il mago saprà liberare Tabi dal suo guanto, rendendolo come tutti gli altri.

Ma il viaggio si rivela difficile, pieno di imprevisti e di ostacoli. Hina è stanca, comincia ad abbattersi, se non fosse che, nonostante il fatto che il guanto di Tabi attira l’attenzione (e gli sguardi e le parole possono pesare), tutte le volte che i due fratelli si trovano in difficoltà è proprio il guanto che si rivela un’inaspettata risorsa, grazie alla quale i due piccoli viaggiatori fanno fronte al problema di turno. Come andrà a finire questo viaggio?

Le difficoltà e i vissuti dei bambini con fratelli disabili

Le difficoltà quotidiane che le persone affette da disabilità devono affrontare sono notevoli; nondimeno, forse, non si parla abbastanza delle difficoltà dei familiari, dei genitori e dei fratelli. Questo libro illustrato, destinato ai bambini dai 6 anni in su, si rivolge a coloro i quali hanno un fratello disabile. Senz’altro una sfida ardua, specie per un bambino.
A questo riguardo, mi sembrano molto significative le parole pronunciate da Luca, di quattordici anni -che un ha fratello, Giulio, di due anni più piccolo, affetto da autismo- in risposta ad un insegnante che gli domandava come mai avesse voluto dedicare la tesina di approfondimento per l’esame di terza media al tema dell’autismo:
[blockquote style=”1″]Perché ci sono dentro fino al collo! Sfruttiamo questa opportunità per parlarne.[/blockquote]

Ecco, in casi del genere ci si è dentro fino al collo. Sarebbe troppo facile (e inutile) nascondersi dietro affermazioni retoriche, che non rendono giustizia alle difficoltà, al dolore che si prova, ai momenti in cui ti domandi perché, tra tanti, sia capitato a te.

E’ solo quando si riesce a fare i conti con tutto questo che si trova il modo di trasformare la difficoltà in una risorsa. E’ quello che succede ad Hina, la protagonista del libro. Ed è anche quello che è successo a Giulia Franco, che il libro l’ha scritto prendendo spunto dalla propria personale esperienza di sorella di un ragazzo disabile, con l’obiettivo di aiutare a comprendere meglio questa condizione.

Considerazioni

Giulia, psicologa psicoterapeuta di professione, ha scelto di condividere il suo vissuto e di utilizzare le proprie competenze per aiutare coloro che vivono un’esperienza analoga alla sua. Grazie al suo libro impariamo -un po’ come in un altro bel libro che ho recensito, “Il tesoro di Risolina” di Alberto Pellai- che la diversità, declinata anche in forma di disabilità, può essere letta come una risorsa; il guanto diventa metafora di una condizione ingombrante e ineliminabile, che necessita di un delicato e paziente viaggio di accettazione.

Un viaggio che può essere compiuto fin da bambini. Perché anche ai bambini si può e si deve parlare di esperienze difficili, in modo particolare se queste esperienze li riguardano direttamente- cosa che scrivevo di recente nella recensione di un altro libro ancora, “Mamma uovo. La malattia spiegata a mio figlio”-, in modo da non lasciarli soli e senza supporto rispetto ad un vissuto che è già difficile da fronteggiare per un adulto.
Di certo bisogna trovare il modo giusto per affrontare determinati argomenti e questo libro, complice anche le belle illustrazioni, il modo lo trova, riuscendo ad essere d’aiuto non solo a chi vive la condizione di fratello di una persona disabile, ma di arricchimento per tutti. Perché la diversità è sempre una risorsa.

Personalità ed empatia: la gradevolezza come principale predittore dei comportamenti prosociali

Secondo numerose ricerche alcuni comportamenti prosociali, come ad esempio la volontà di aiutare gli altri, possono essere collegati a specifiche personalità. Sulla base di una nuova ricerca pubblicata dalla Society for Personality and Social Psychology, la gradevolezza risulta essere uno dei migliori predittori del comportamento prosociale.

 

 

Le motivazioni che stanno dietro il comportamento prosociale di una persona, come ad esempio aiutare un estraneo svenuto sulla strada o dedicare volontariamente del tempo a qualcuno che ha da poco perso i genitori, sono estremamente complesse. Le motivazioni che spingono le persone ad aiutare qualcuno solo in alcuni casi, o ad aiutare alcune persone escludendone altre, possono derivare da una miriade di ragioni.

Meara Habashi, l’autore principale dello studio discusso, spiega come per le persone sia comune sperimentare disagio nel vedere una vittima bisognosa di aiuto. Questo disagio può portare alcune persone a fuggire dal problema e ad evitare la vittima. L’angoscia che viene sperimentata dall’osservatore non sempre è causa di fuga e di blocco, spesso risulta essere un primo approccio empatico nei confronti della vittima, come poi la persona che la sperimenta deciderà di agire dipende dal tipo di personalità che la caratterizza.

Pertanto è possibile affermare che la correlazione tra empatia e personalità gioca un ruolo molto importante nella propensione ad aiutare altro.

Sulla base della precedente affermazione, Habashi e colleghi manipolando la variabile empatia hanno evidenziato che la gradevolezza è la dimensione della personalità che risulta essere maggiormente associata alla propensione ad aiutare in seguito a reazioni emotive scaturite da vittime bisognose di aiuto.

Lo studio si è ispirato al modello Big Five dei tratti di personalità. Come è già intuibile dal nome, il modello prevede 5 tratti di personalità: estroversione, gradevolezza, coscienziosità, nevrosi e apertura. Habashi e colleghi sulla base di questa teoria hanno sviluppato un modello con lo scopo di comprendere al meglio quali siano i legami tra i diversi tipi di personalità e i comportamenti prosociali.

Per giungere a questi risultati è stato necessario condurre diverse serie di esperimenti. Nella prima serie i partecipanti sono stati sottoposti all’esposizione di due racconti differenti. Il primo racconto è stato sottoposto per via radiofonica e raccontava di uno studente del college che aveva recentemente perso i genitori e che ora doveva prendersi cura dei suoi fratelli da solo. Il secondo racconto era stato direttamente comunicato dagli sperimentatori, i quali chiedevano ai partecipanti di immaginare di recarsi presso un amico, e durante il tragitto una persona si accascia a terra e non si muove più. Al termine di entrambi gli ascolti è stato chiesto ai partecipanti di valutare le loro emozioni prosociali, tra cui la preoccupazione empatica e l’angoscia, e di riferire come avrebbero o non avrebbero aiutato le vittime protagoniste dei racconti.

I risultati ottenuti hanno mostrato correlazioni tra l’empatia e i tratti di gradevolezza e nevrosi, tuttavia solo coloro che possedevano tratti elevati di gradevolezza avrebbero dedicato volontariamente del tempo alla vittima.

La seconda serie di esperimenti prevedeva uno studio in cui veniva indagata la volontà dei partecipanti di donare denaro ad una vittima.

Le analisi effettuate hanno riconfermato i risultati della serie precedente, aggiungendo però alcune informazioni per quanto concerne il tratto nevrosi. I partecipanti caratterizzati da questo tratto erano maggiormente concentrati su loro stessi, sia per quanto riguardava la possibilità di dedicare del tempo alla vittima, sia per quanto riguardava la possibilità di fare una piccola donazione.

Sulla base dei risultati ottenuti è possibile concludere che le persone che sono caratterizzate da un basso tratto di gradevolezza non sono necessariamente meno empatiche rispetto alle altre, ma semplicemente necessitano di maggiori stimoli prima di rispondere con preoccupazione empatica.

Per tanto Habashi conclude affermando che la propensione all’aiuto da parte di una persona è sia una questione di personalità, che una questione di contesto, in quanto la modalità con cui è strutturata la richiesta di aiuto gioca un ruolo molto importante.

È importante sottolineare che questo studio si è concentrato esclusivamente su un solo comportamento prosociale, ovvero aiutare uno sconosciuto. I comportamenti prosociali sono numerosi e possono ampiamente variare. Inoltre Habashi e colleghi sottolineano come questo esperimento sia stato svolto totalmente in un contesto di laboratorio, e che per tanto sarebbe necessario replicare lo studio in altri contesti. Inoltre la ricerca futura dovrebbe indagare la correlazione tra i tratti di personalità e tutti i comportamenti prosociali senza limitarsi esclusivamente ad uno di essi, come in questo caso.

 

 

La ruminazione associata a diverse forme di disturbi psicopatologici

Un recente studio pubblicato sul Clinical Psychological Science, attraverso l’utilizzo dell’approccio transdiagnostico, ha rivelato che la ruminazione è correlata ad una serie di condizioni psicologiche.

 

Lo studio sulla ruminazione: introduzione

I tradizionali approcci diagnostici si sono concentrati perlopiù sulle differenze esistenti tra patologie psichiatriche, al contrario, l’approccio transdiagnostico ha cercato di comprenderle andando oltre la struttura concettuale fornita dalla nozione di diagnosi, sottolineando i fattori comuni tra disturbi, con l’intento di sviluppare trattamenti utili ad un’ampia gamma di persone.

Un recente studio pubblicato sul Clinical Psychological Science, attraverso l’utilizzo dell’approccio transdiagnostico, ha rivelato che la ruminazione è correlata ad una serie di condizioni psicologiche (Disturbo Depressivo Maggiore, sintomi depressivi, Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbi del Comportamento Alimentare e dipendenza da sostanze). In breve, la ruminazione consiste in un modello di pensiero ripetitivo, ossessivo e auto-diretto, difficile da interrompere, che non porta ad alcuna azione efficace o ad alcuna soluzione dei problemi, ma capace al contrario di aumentare l’angoscia e il pensiero negativo, perpetuare i sintomi, inibire il comportamento strumentale ed alterare la concentrazione e la cognizione.

Il metodo e il campione

La ricerca condotta da Daniel Johnson e colleghi ha utilizzato dati provenienti da 744 partecipanti (365 coppie di gemelli più alcuni soggetti singoli) che sono stati raccolti attraverso questionari self-report. I disegni di studio basati sui gemelli come questo hanno il grande vantaggio di fornire un modo per misurare l’influenza genetica. Sono state ottenute misure riguardanti la ruminazione, l’auto-riflessione, la presenza di sintomi depressivi, patologie alimentari e diagnosi psichiatriche. L’auto-riflessione è stata inclusa come misura di controllo e differenziazione dalla ruminazione.

I risultati

Una complessa serie di analisi statistiche ha dimostrato che la ruminazione è associata a tutte e tre le misure di psicopatologia incluse nello studio (sintomi depressivi, patologie alimentari e altre diagnosi psichiatriche) e che tale associazione non dipende dall’auto-riflessione, ma dalla ruminazione stessa. Le correlazioni tra gemelli hanno dimostrato che tutte queste associazioni hanno una significativa componente genetica, anche se nessuna di esse era così completa da escludere l’incidenza dei fattori ambientali. L’influenza genetica più significativa è emersa tra ruminazione e depressione, mentre l’associazione con le patologie alimentari è risultata moderatamente influenzata dalla genetica e il legame con la dipendenza da sostanze sembra per lo più di origine ambientale.

Discussione

[blockquote style=”1″]I nostri risultati supportano la concettualizzazione della ruminazione come un modello di pensiero ripetitivo e auto-diretto, che costituisce un fattore di rischio unico e specifico per diverse forme di patologia[/blockquote] hanno scritto Johnson e colleghi nel loro studio.

La ruminazione ha dimostrato di avere una significativa associazione con diverse caratteristiche lungo un’ampia gamma di psicopatologie. Includendo un elemento genetico nelle analisi, i ricercatori hanno potuto dimostrare che il rapporto tra i contributi forniti da fattori genetici e fattori ambientali a queste associazioni possono differire a seconda delle variabili misurate (ad esempio, attraverso i tipi di diagnosi).
[blockquote style=”1″]Come primo studio genetico sul comportamento volto a esaminare la ruminazione come un correlato transdiagnostico di psicopatologia, questo studio fornisce una solida base per esplorare nuove vie di ricerca che potrebbero guidare gli sforzi della prevenzione e del trattamento nei soggetti che soffrono di disturbi psichiatrici concomitanti[/blockquote] hanno concluso i ricercatori.

 

I cannabinoidi per rallentare il processo degenerativo nella malattia di Alzheimer

Gli scienziati del Salk Institute (California) hanno trovato prove preliminari riguardanti gli effetti del tetracannabinoide (THC) e di altri composti presenti nella marijuana, che sarebbero efficaci per la rimozione cellulare di beta-amiloide, una proteina tossica associata al morbo di Alzheimer.

 

La ricerca effettuata in laboratorio, può comunque aiutarci a comprendere meglio il ruolo infiammatorio attivo nel disturbo, e potrebbe fornire nuovi indizi nello sviluppo di nuove terapie.

Nello studio pubblicato sulla rivista Aging and Mechanisms of Disease, sono state analizzate le cellule nervose alterate con una sovrapproduzione di beta-amiloide, per simulare la situazione presente durante la malattia di Alzheimer.

Anche se altri studi hanno già offerto prove che i cannabinoidi potrebbero essere neuroprotettivi contro i sintomi del morbo di Alzheimer, riteniamo che il nostro studio sia il primo a dimostrare che i cannabinoidi possano influenzare i processi infiammatori e agire sull’accumulo di beta-amiloide delle cellule nervose – Spiega David Shubert, autore principale dello studio.

La malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa progressiva del cervello, che porta alla perdita di memoria e compromette in modo ingravescente la vita quotidiana delle persone che ne sono affette.

Secondo il National Institutes Of Health, colpisce più di 5 milioni di americani, rappresenta la principale causa di demenza e si stima che la sua incidenza dovrebbe triplicare nei prossimi 50 anni.

Il team di Salk, nel loro studio, ha scoperto che l’esposizione neuronale ad alti livelli di beta-amiloide è associata ad una più alta risposta infiammatoria ed a un più elevato tasso di mortalità dei neuroni. Tuttavia, esponendo le cellule a THC, i livelli di beta-amiloide si abbassavano riducendo la risposta infiammatoria delle cellule nervose causata dalla proteina, permettendo così ai neuroni di sopravvivere.

L’infiammazione cerebrale rappresenta una componente importante dei disturbi associati al morbo di Alzheimer. Quando siamo stati in grado di identificare le basi molecolari della risposta infiammatoria a beta-amiloide, è diventato chiaro che i composti di THC possono essere coinvolti nel proteggere le cellule neuronali dalla morte – ha detto Antonio Currais, ricercatore che ha partecipato allo studio.

Shubert ha sottolineato che i risultati ottenuti attraverso modelli di laboratorio, dovranno poi essere replicati in studi clinici ulteriori per verificarne l’efficacia.

 

 

 

Gli spoiler non rovinano le storie (ma le amicizie sì!)

Oltre l’immagine. Inconscio e fotografia (2015) – Recensione

Psicologia e fotografia: “Oltre l’immagine”, uscito nel 2015 edito da Postcart è un libro scritto da un affiatato team di psicoterapeute (Maria Aliprandi, Francesca Belgioioso, Serena Calò, Agata D’Ercole, Chiara Gusmani e Gabriella Gilli) e da una photoeditor affermata, Sara Guerrini.

Psicologia e fotografia

Da questo particolare connubio, psicologia e fotografia, ecco nascere un libro diverso che attraverso l’analisi psicologica delle opere cerca e trova la chiave del movente inconscio, ma non troppo, dei meccanismi e sentimenti che hanno concepito e realizzato queste meravigliose opere.

Fotografia e psicologia non sono due mondi cosi estranei. Esiste una scuola precisa che da anni cura i pazienti attraverso i principi della fototerapia, ispirati dall’opera di Judy Weiser, affermata psicologa che da qualche decennio attraverso l’uso delle foto personali e familiari dei pazienti, ricrea sentimenti, memorie, pensieri e informazioni, e usandole come catalizzatori per la comunicazione terapeutica, attua il processo di cura. Non troppo distante è la fotografia concettuale, strumento che gli autori utilizzano per parlare di sé, della personale visione del mondo, di un loro stato traumatico, di alcuni pensieri e sentimenti personali o sociali che siano.

Partendo da artisti selezionati e tematiche ben suddivise troviamo Antoine D’Agata, Michelle Sank, Molly Landreth per il tema identità e corpo, Arno Rafael Minkkinen, Julia Kozerski, Liu Bolin per l’autoritratto, Elinor Carucci, Natasha Caruana, Diana Markosian per le relazioni, Phillip Toledano, Moira Ricci, Peter Van Agtmael per il tema Morte ed infine Guido Guidi, Paolo Ventura, Todd Hido per l’interpretazione dei luoghi.

Le immagini e le interviste

Solo lo sfogliare le immagini di questo libro ci mette già di fronte la diversa sensibilità artistica ed emotiva degli artisti, il confronto tra gli autori chiarifica il diverso modo di scattare, pensare e si può cogliere il vissuto attraverso delle immagini che vanno oltre la tecnica, immagini loquaci, immagini significanti. Leggendo poi le interviste abbiamo la conferma, che un occhio sensibile poteva aver già colto, che in quasi tutte le opere si celi o in alcuni casi si manifesti un nodo interiore enorme che alcuni autori attraverso la creazione di questi lavori hanno cercato o stanno cercando di sciogliere.

Conclusioni

Nel libro quindi sono stati individuati i temi più ricorrenti contenuti nelle opere, con il preciso intento, attraverso il dialogo tra psicologo e fotografo, di soffermarsi sugli aspetti più significativi delle opere stesse e sulle diverse implicazioni che le vite degli autori hanno determinato per la nascita di questi progetti. Tantissime interpretazioni diverse di uno stesso tema. L’uso dell’immagine quando le parole non bastano più.

L’inaspettata relazione tra il disturbo bipolare e il corpo striato

Il disturbo bipolare è una delle malattie psichiatriche più studiate, è però possibile che gli scienziati abbiano trascurato l’implicazione di una parte importante del cervello nello sviluppo di tale disturbo.

 

Gli scienziati hanno mostrato per la prima volta che le cellule all’interno del corpo striato, una parte del cervello che coordina molti aspetti primari del nostro comportamento, come la pianificazione motoria e delle azioni, la motivazione e la percezione delle ricompense, potrebbero essere profondamente coinvolti nel disturbo bipolare. La maggior parte degli studi moderni sul disturbo bipolare si sono concentrati sulla corteccia cerebrale, la più grande parte del cervello negli esseri umani, associata all’azione e al pensiero di livello superiore.

La presente ricerca è il primo vero studio che analizza l’espressione genetica nello striato in correlazione allo sviluppo del disturbo bipolare: un aspetto importantissimo per avere a disposizione una fotografia istantanea dei geni e delle proteine ​​espresse in quella regione. Tale studio fornisce anche indicazioni sui diversi percorsi possibili come potenziali trattamenti per tale disturbo.

Il disturbo bipolare è una malattia mentale che colpisce circa il 2,6 per cento della popolazione adulta degli Stati Uniti, circa 5,7 milioni di americani, con una maggioranza considerevole di questi casi classificati come gravi. La malattia ha una familiarità, infatti secondo l’Istituto Nazionale di Salute Mentale, più di due terzi delle persone con disturbo bipolare hanno almeno un parente stretto con la malattia o con depressione maggiore.

Nella presente ricerca, sono stati analizzati campioni di tessuto provenienti da 35 soggetti con disturbo bipolare e soggetti di controllo. Il numero di geni presenti nei campioni di tessuto dei due gruppi si è rivelato sorprendentemente piccolo, solo 14 in tutto. Tuttavia, l’analisi di alcuni network ha rivelato due moduli di geni interconnessi tra loro che erano particolarmente ricchi di varianti genetiche associate con il disturbo bipolare: tale dato è suggestivo di un ruolo causale di tali geni nella malattia. Uno di questi due moduli è stato particolarmente sorprendente perché sembrava essere altamente specifico all’interno del corpo striato.

La scoperta di un legame tra disturbo bipolare e corpo striato a livello molecolare completa gli studi che dimostrano, a livello anatomico, il coinvolgimento  della stessa area cerebrale nel disturbo bipolare, compresi gli studi di imaging funzionale che mostrano un’attività alterata nello striato in soggetti bipolari durante compiti che coinvolgono la valutazione del rischio e l’analisi della ricompensa. L’analisi delle reazioni al rischio era importante perché i pazienti bipolari possono agire impulsivamente e impegnarsi in attività ad alto rischio durante i periodi di mania.

L’analisi ha anche riscontrato modificazioni dei geni legati al sistema immunitario, della risposta infiammatoria del corpo e del metabolismo energetico delle cellule.

In conclusione, non è ancora chiaro se questi cambiamenti siano una causa della malattia o la manifestazione della malattia stessa, ma forniscono conoscenze molto importanti sui marcatori genetici del disturbo bipolare che potrebbero avere notevoli implicazioni a livello diagnostico e riabilitativo.

Il legame esistente tra cortisolo e obesità nei pazienti con disturbo bipolare

Un recente studio svolto presso l’Università di Umeå, in Svezia e pubblicato sul Journal of Affective Disorders ha dimostrato che bassi livelli di cortisolo (ormone dello stress) si associano ad obesità, alti livelli di grassi nel sangue e sindrome metabolica nei pazienti con depressione ricorrente cronica o disturbo bipolare.

 

 

I risultati ottenuti forniscono indizi per capire meglio la forte prevalenza di malattie cardiovascolari nelle persone che soffrono di depressioni ricorrenti o disturbo bipolare. Tali scoperte potranno in futuro fornire contributi efficaci nel trattamento di questi disturbi per una migliore prevenzione delle malattie cardiovascolari ad essi associate – ha detto Martin Maripuu, autore principale dello studio.

Il disturbo bipolare e la depressione ricorrente cronica sono malattie che si associano ad una riduzione di circa 10-15 anni nell’aspettativa media di vita. Uno dei fattori primari che contribuisce a questa condizione è la grande prevalenza di malattie cardiovascolari. Lo stress, la scarsa attività fisica e l’alto consumo energetico sono tutti elementi caratteristici di uno stile di vita che aumenta il rischio di malattie cardiovascolari.

Relativamente al fattore stress, uno dei sistemi più importanti che lo regola è denominato asse HPA (dall’inglese Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis, in italiano asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Questo sistema regola la produzione e i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. L’esposizione a lungo termine allo stress potrebbe costituire uno dei principali fattori eziologici sia per i disturbi metabolici che per l’ipocortisolismo (ridotto livello di cortisolo).

Prima che quest’ultima condizione si sviluppi, l’attività dell’asse HPA e i livelli di cortisolo possono fluttuare dalla normalità all’eccesso. Lo stress normalmente determina un aumento dell’attività dell’asse HPA, che a sua volta determina un aumento dei livelli di cortisolo. Se lo stress aggiuntivo è però prolungato nel tempo e si cronicizza, l’attività del sistema paradossalmente si riduce, con conseguenti bassi livelli di cortisolo.

Per studiare il legame tra livelli di cortisolo e malattie metaboliche sono stati analizzati 245 pazienti con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti e 258 persone del gruppo di controllo. I ricercatori hanno misurato i livelli di cortisolo dei soggetti dopo aver condotto il cosiddetto test di soppressione del desametasone (farmaco corticosteroide simile al cortisolo) che viene utilizzato per rilevare la presenza di una produzione anomala di cortisolo.

Quello che i ricercatori Umeå ora sono in grado di dimostrare è che i pazienti con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti con bassi livelli di cortisolo soffrono in misura maggiore rispetto ad altri di:

  • Obesità (34% rispetto al 11% degli altri pazienti)
  • Dislipidemia -alti livelli di grassi nel sangue- (42% rispetto al 18%)
  • Sindrome metabolica (41% rispetto al 26%).

I risultati mostrano che la regolazione del cortisolo è legata al peggioramento della salute fisica nelle persone con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio queste associazioni – afferma Martin Maripuu.

 

Dopo la caduta dei confini: l’illusione di un mondo in-finito

Il confine come concetto psicologico svolge una funzione fondamentale di costruzione e protezione dell’identità, spesso dimenticata da una società che non ha più il senso del limite. Un confronto tra due psicopatologie di ieri e di oggi può aiutarci a inquadrare com’è cambiata la sua funzione nel corso del tempo.

 

Nel 1989 cade il muro di Berlino. Con esso cadono molti dei pilastri che hanno puntellato, definito e oppresso, il secolo Novecento e la storia precedente. Cade perché le persone ne hanno abbastanza delle frontiere, e se ne liberano come di lacci fastidiosi. Esse si ritrovano improvvisamente a passeggiare tra i cocci dei confini di ieri, a contemplare al di là il ‘dolce naufragar nell’infinito‘. Ma è davvero così dolce?

 

 

Cos’è il confine

Il confine, in senso etimologico, indica il termine, il limite estremo che separa una proprietà di qualsiasi tipo, territoriale, linguistica, sociale, da un’altra.

In biologia esso diventa la membrana di passaggio tra interno ed esterno, regolatrice di omeostasi corporea. Tale funzione vitale viene mantenuta in ambito psicologico: lo psicoanalista Anzieu definisce tale membrana come ‘la prima invenzione della vita sia sul piano biologico che sul piano psichico‘. Per l’economia psichica, infatti, il confine è il concetto fondamentale che delimita il bordo della nostra identità, separando ‘ciò che è dentro‘ da ‘ciò che è fuori‘.

In senso speculare, ‘senza confini‘ significa, banalmente, illimitato. Ed è esattamente ciò a cui sembra aspirare l’umanità da un po’ di tempo in qua. L’insofferenza per le barriere di qualsivoglia genere è evidente nell’abbattimento reale delle frontiere geografiche e sociali, ma anche nelle tendenze di massa, negli slogan pubblicitari che incitano a sfidare i propri limiti, in sport estremi e pratiche giovanili all’insegna di un disprezzo euforico del rischio, o nelle pratiche mediche che sembrano spesso sottintendere una negazione dei limiti biologici della vita, della vecchiaia e della morte. Anche la storia della psicopatologia può fornire un’utile lettura del fenomeno: da sempre essendo plasmata da fattori sociali oltre che biologici, la sua evoluzione è il riflesso in negativo dell’evoluzione sociale contemporanea.

 

 

La psicopatologia di ieri: l’isteria come confine da spezzare

Ci sono differenze sostanziali tra la psicologia praticata da Freud e quella richiesta ai terapeuti contemporanei, e ciò dipende dalle diverse patologie portate dai pazienti di ieri e di oggi ai rispettivi lettini: in tale metamorfosi del disturbo mentale può giocare un ruolo esplicativo anche la diversa collocazione del confine psicologico, in un caso castrante, nell’altro troppo labile.

Il paziente di Freud si presentava alla sua porta oberato dal peso dei propri confini: si trattava perlopiù di donne dalla sessualità contratta e di uomini schiacciati dal peso di un padre dominante. Lo scrittore Kafka, impietoso illustratore del mal di vivere primo novecentesco, esprime attraverso i suoi personaggi un’autorità patriarcale capace di trasformare il figlio in uno scarafaggio; e poi ci furono le guerre, i totalitarismi, padri-padroni per eccellenza di una supremazia sconfinata e mortifera.

Il complesso di castrazione, grande explanans di Freud, rappresenta la metafora psichica di ciò che separa il possibile dal proibito, e che con ciò fa risolvere la fase edipica e nascere l’Inconscio rimosso; solo che se la rimozione è eccessiva, causa psicopatologia. La patologia con cui nasce la creatura psicoanalitica è l’isteria: essa rappresenta la ribellione del rimosso e la presenta nel corpo, nel quale ciò che è compresso dalla colpa preme contro i confini per uscirne, per espandersi ed assaporare la libertà. Ciò si traduce in sintomi corporei di conversione di stati emozionali intensi, che non trovano sfogo in un Io cosciente costretto alla passività e si rivolgono all’Io somatico investendolo di furia rivoluzionaria. Il corpo è per l’isterica il confine da spezzare.

 

La psicopatologia di oggi: l’anoressia come confine da costruire

Freud era impreparato alle psicopatologie postmoderne, con tale termine intendendo tutte quelle patologie mentali che rivendicano un’importanza epidemiologica dal secondo dopoguerra, e per curare le quali la psicoanalisi dovette piegare parzialmente i suoi paradigmi clinici.

Egli maneggiava con padronanza la depressione del malinconico, generata dalla colpa schiacciante di un Super-Io sadico, ma si disorientava davanti alla depressione del narcisista, indotta da un vuoto esistenziale senza colpa, senza senso e senza confini. Non è più l’oppressione di Kafka, è il relativismo di Pirandello, nato da un cielo svuotato di Dio, che vuoto rimane. Dal dopoguerra in poi, moti di liberazione politici e sociali accelerano in modo vertiginoso l’abbattimento dei dogmi iniziato tanto tempo prima dall’Illuminismo. ‘Cadono i tabù, cadono i totem’. Cade anche il muro di Berlino.

Sotto l’apparenza di un’euforica libertà, però, serpeggia l’allarme di un benessere psichico ancora palesemente assente. Una caratteristica definitoria delle psicopatologie postmoderne, quelle della dopo-modernità, del dopo-Freud, del dopo –  senza nemmeno più bisogno di un prima, è proprio l’assenza di confini.

Ciò si vede chiaramente nel disturbo borderline, dove gli stati emotivi entrano ed escono senza controllo. Una psicopatologia postmoderna per eccellenza è l’Anoressia Nervosa, il grande contraltare dell’isteria: in essa come nell’isteria, svolge un ruolo di primo piano il corpo come confine. In questa grave condizione psichiatrica però, il corpo non è più il confine da spezzare dell’isterica, bensì il confine da costruire. Non si tratta più della dialettica ribellione-schiavitù di un rimosso oppresso che si rivolge contro il limite: è un limite da erigere nell’assenza di dialettica, a costo di sforzi titanici.

Quello dell’anoressica è un corpo fatto di spigoli e ossa eretti a baluardo protettivo, l’unico possibile, poiché l’unico dotato del realismo della tangibilità, in un vuoto senza appigli. Non più un muro da abbattere per liberare il rimosso, bensì un muro da costruire per sorvegliarlo in modo estremamente rigoroso: è il Super-Io sadico dei totalitarismi, che grida alla disciplina in mezzo al dilagare di un’indifferenziazione inconsapevole.

Come l’esperienza dell’isterica denunciò a Freud il disagio della civiltà primo novecentesca, il prezzo da scontare per una ferrea disciplina, forse l’esperienza anoressica può aiutarci a demistificare il prezzo da pagare per la libertà da ogni disciplina, il disagio della post-modernità?

 

 

Confine come identità e protezione: cosa ci può insegnare l’anoressia

Il confine delimita, ma anche protegge. Esso è il muro che fa guardare all’esterno con bramosia, ma è anche la sentinella che ci cammina sopra, e che difende l’interno. Senza il muro, non ci sono più nemmeno le sentinelle, nessuno ad avvertirci se c’è pericolo o meno. In psicologia, l’accettazione del limite è il primo passo verso l’età adulta.

Secondo Freud, la frustrazione derivante dallo scoprire che il bambino ‘non può tutto’ era il primo blocco nella costruzione del senso di Sé. Il bambino immaturo infatti, sperimenta un’onnipotenza senza limiti né confini, un Sé Maestà che tutto può e in rapporto al quale tutto il resto del mondo è costituito da oggetti-sé creati per servirlo, come evidenziano gli studiosi dell’età evolutiva come Melanie Klein. L’esperienza del proibito, definisce per rapporto ‘ciò che si può’, la perdita definisce per rapporto ciò che si ha.

Secondo Margaret Mahler, nella psicosi, la relazione simbiotica con la madre impedisce al bambino di sperimentare sufficiente separazione per poter stabilire dei limiti solidi tra ciò che si è e ciò che non si è: egli avrà per sempre bisogno di oggetti-sé che gli ricordino il suo essere infinito a cui non sa rinunciare. Ma lo psicotico, ahimè, non è l’unico a credersi infinito di questi tempi.

Lo psichiatra Louis Sass introduce un inquietante parallelismo tra follia e modernità: se nella follia è il delirio di essere Napoleone, o di cader vittima di complotti organizzati dalla CIA, nella modernità è la mania ipertrofica del progresso di aver sconfitto Dio, l’allucinazione onnipotente della medicina di poter vivere per sempre, di un’umanità convinta di potere tutto e allergica al limite, persino a quello della morte.

In questo senso, l’euforia generata dal crollo dei confini potrebbe non essere altro che l’euforia megalomane dello schizofrenico, l’euforia di onnipotenza della non-separazione infantile, del tutt’uno che però non si individua mai, che non avrà mai un’identità. È esattamente contro la schizofrenia che l’anoressica si difende, per rivendicare a duro prezzo una propria identità, per definirsi, in mancanza di una divisione tra dentro e fuori, tra bene e male; l’anoressica forse riesce a intuire dietro all’abbattimento dei confini i rischi letali di un’indifferenziazione acefala e invasiva, ci vede l’ abbattimento della dialettica in nome di un’affermazione dionisiaca, vorace ed orale, bulimica. Il suo è il tentativo disperato di re-instaurare una dialettica, di erigere un tribunale dell’Inquisizione per discernere nell’epoca del non discernimento. Essa vuole un confine che la protegga, e per fare ciò delimita, costruisce con il corpo un padre persecutore e castrante. L’anoressica diventa confine, per non diventare schizofrenica, e sembra avvertire che un mondo senza limiti e senza confini è un mondo schizofrenico.

Leopardi naufragava nell’infinito, ma la dolcezza del suo naufragare non era già più la malinconia tragica della colpa di Edipo, era bensì il tedio della mancanza di senso, il vuoto esistenziale dell’anti-eroe moderno, che ha tutto, e non è niente, l’angoscia di fronte alla quale la siepe dell’ermo colle appare ben misera protezione. Siamo davvero sicuri di voler naufragare in questo infinito?

La cura di sé in contesti terapeutici non convenzionali (2016) – Recensione

Il volume affronta, in un’ottica squisitamente sistemica, i processi terapeutici che si innescano attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti terapeutici non convenzionali e la funzione terapeutica del gruppo per lo psicoterapeuta in formazione.

 

Il volume curato da Baldascini L., Di Napoli I., Rinaldi L. e Troiano D. rappresenta una guida utile per gli operatori impegnati nella professione d’aiuto e per i terapeuti all’inizio della carriera. Esso affronta, in un’ottica squisitamente sistemica, i processi terapeutici che si innescano attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti terapeutici non convenzionali e la funzione terapeutica del gruppo per lo psicoterapeuta in formazione.

La prima parte dello scritto, che raccoglie i contributi di Baldascini L., Cassaglia B., Salzano A., Giordano A., Esposito M., Di Nocera R., Lagnena M. A., Pecoraro N., Troiano D., Menna L. F. e Marino S., descrive le implicazioni, nell’ambito di prassi eterogenee, di uno dei principali cardini della cultura sistemico relazionale: la necessità di riconnettere in ogni fenomeno le parti al tutto, considerando quest’ultimo come diverso dalla somma delle parti stesse.

Così, nell’ambito della prassi medica, viene sottolineata l’esigenza di andare oltre una visione parcellizzata dell’ ‘organo malato’ per comprendere la mente sofferente e, con essa la soggettività e la storia della persona. Un tale atteggiamento epistemologico richiede, evidentemente, un’integrazione di mente e corpo intesi come vertici di osservazione del medesimo fenomeno invece che alla stregua di entità legate da un rapporto di causalità lineare: tra mente e corpo,  detto in altri termini, citando il titolo di un testo di Luigi Solano (2013), più che dalla mente al corpo come riterrebbe una concezione ormai obsoleta della psicosomatica.

I contributi del testo partono dalla premessa secondo la quale l’origine della patologia si situerebbe in un senso di disconnessione della persona nella relazione con gli spazi intrapsichici ed interpersonali. La meditazione, l’arteterapia, la zooterapia, il rito, il processo di fiabazione divengono strumenti che hanno la potenzialità di facilitare, tramite modalità diverse, il ripristino di legami tra il sé ed il mondo esterno, inteso come sistema di relazioni (famiglia, pari, adulti) ed altresì come ecosistema.

Il processo di consapevolezza di sé e dei propri posizionamenti viene assimilato nel testo, per alcuni aspetti, alla filosofia intesa da Simona Marino come pratica di cura di sé e della vita che implicherebbe, nella formazione del futuro psicoterapeuta, il liberarsi dai pregiudizi e dai modelli precostituiti.

L’articolo di Simona Marino introduce alla seconda parte del volume che raccoglie i contributi di Pannone F., Mastrangelo M. S., Campobasso M.,  Cortese R., Montella F., e che risulta particolarmente interessante per l’essersi concentrata sul dispositivo del gruppo di formazione dei futuri psicoterapeuti e sui processi trasformativi che esso comporta per gli allievi.

Gli articoli e le riflessioni discusse dagli autori in questa seconda parte del volume sono il frutto della pluriennale esperienza di formazione sistemica realizzata dall’Istituto di Psicoterapia Relazionale (IPR) di Napoli diretto da Luigi Baldascini e fanno riferimento anche alle acquisizioni tratte dalla ricerca realizzata presso l’ IPR relativa alle motivazioni degli allievi sottostanti la scelta di diventare psicologo e poi psicoterapeuta. La pluralità delle voci degli autori ritorna su un altro pilastro della teoria sistemica: il coinvolgimento dell’osservatore nella realtà osservata che implica un’attenzione alla soggettività degli operatori impegnati nelle professioni d’aiuto.

I guaritori da guarire, così definisce con un emblematico paradosso Maria Campobasso gli allievi del training in psicoterapia sistemico relazionale, ponendo enfasi sul percorso emotivo che conduce l’allievo ad un’evoluzione della sua domanda formativa, inizialmente per buona parte inconscia ed incentrata sulla richiesta di strumenti e tecniche per curare sé o la propria famiglia, ad un riconoscimento, e ad un graduale superamento, del vissuto di onnipotenza che sorregge un tale bisogno a favore della costruzione di una domanda formativa più consapevole.

L’utilizzo di tecniche quali la scultura nell’ambito del processo formativo e di supervisione è concepita come ottima occasione per l’allievo in formazione di poter riapprendere la propria esperienza personale attraverso uno sguardo distanziato che consenta di leggere e di rimettere in discussione i propri posizionamenti nel sistema di relazioni familiare, con evidenti risvolti anche sul piano dell’operatività clinica. Ciò è reso possibile proprio per mezzo e grazie al gruppo che, attraversando diverse fasi evolutive, diviene un contenitore relazionale e mentale in cui si possono realizzare trasformazioni emotive e cognitive.

Il training e la supervisione dei futuri psicoterapeuti, impostati secondo un’ottica sistemico relazionale, vengono presentati nel testo come principalmente finalizzati al raggiungimento, da parte degli allievi stessi, della capacità di costruire una relazione trasformativa con il paziente, come la definisce Luigi Baldascini. Un tale obiettivo può esser raggiunto, secondo gli autori, a patto che ci si discosti dall’inconscia tendenza a reagire in maniera reattiva a quanto il paziente porta in terapia sulla base di una dimensione di dipendenza emozionale dalla familiarità dei vissuti e delle esperienze proprie del terapeuta stesso. Seguendo questa linea, il cambiamento per il paziente e per il futuro psicoterapeuta viene definito in modo originale nell’articolo di Felice Pannone non già come un essere sé stessi bensì come uno scardinare l’abitudine ad essere sé stessi, che sembrerebbe porsi come un invito alla creatività intesa come possibilità di esplorazione e di costruzione di nuovi modi di sentire, pensare ed agire e come strumento per costruire la salute, sia del terapeuta che dei pazienti con i quali egli si confronta.

La terapia cognitivo comportamentale e il suo rapporto con la Politica e l’economia – EABCT 2016

La terza giornata del congresso EABCT – Stoccolma 2016

EABCT 2016

Anche nella terza giornata del 46esimo congresso della società europea delle terapie comportamentali e cognitive (EABCT, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) ha fatto capolino l’argomento ricorrente di questo congresso, il rapporto tra terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT), economia e politica.

Il clou della giornata è stata una tavola rotonda a cui hanno partecipato Stephen Barton (Newcastle University, UK), Astrid Beskow (Centro CBT di Gothenburg, Svezia), Edward Watkins (Exeter University, UK) e Terence Wilson (Rutgers University, USA). Il tema era il rapporto tra competenza e uso dei manuali, ma ben presto questo argomento è sfociato in quello dell’economia e della politica. L’uso dei manuali, infatti, implica l’uso di procedure standardizzate e controllate che fanno sempre più a pugni con la tendenza naturale degli psicoterapeuti a esercitare la loro arte in maniera personalizzata e quasi privata, nell’isolamento della stanza di lavoro con il paziente. Tendenza comprensibile ma sempre più inaccettabile in un mondo dove la psicoterapia è una prestazione pagata dal paziente stesso o dallo Stato, prestazione la cui efficacia va provata. L’uso dei manuali è stato uno dei primi strumenti per diffondere questa tendenza e Wilson ne ha difeso il valore contro le consuete obiezioni di meccanicità ed eliminazione della creatività.

Tutto vero, ma c’è da dire che lo stesso Wilson, così come Clark il giorno prima, in fondo sono a loro volta a metà strada. Come aveva scoperto Clark nel 2004, i manuali non bastano.  Occorrono centri di addestramento che forniscano non solo controllo e supervisione dell’applicazione dei manuali, ma anche formazione continua, aggiornamento e soprattutto un senso di affiliazione e di fedeltà. Solo così si evita il rischio delle esecuzioni troppo personalizzate delle terapie. E, d’altro canto, è nel rapporto concreto con un Istituto garante che fornisce supervisione e formazione aggiornata che una terapia manualizzata sfugge al rischio della meccanizzazione incarnandosi in terapie concrete in cui i limiti dei manuali sono affrontati nel qui e ora in maniera condivisa e formalizzata e non autoreferenziale e autarchica.

La situazione paradossale della CBT standard, che a mio parere corrisponde più ai protocolli del gruppo di Oxford per i disturbi d’ansia che a quelli di Beck (senza negarne le forti somiglianze), è che essa difetta di un Istituto madre europeo che garantisca l’apprendimento fedele e al tempo stesso fornisca quel servizio di supervisione costante e formazione permanente che consentirebbe di superare le secche della meccanizzazione manualizzata. Clark e Wilson hanno citato –con la gioia degli esploratori che hanno scoperto un nuovo mondo- i motti economicisti dei coniugi Clinton: “It’s the economy, stupid!” e “Show me your money!”. Tanto realismo riformista è benvenuto, specie in tempi in cui ci si torna troppo spesso a bearsi di estremismi vari, ma non basta. Non basta avere demandato tutto al servizio sanitario pubblico britannico. La CBT come può diffondersi in maniera affidabile fuori dal Regno Unito? Le terapie post-CBT hanno proposto il modello degli Istituti privati che erogano supervisione e formazione permanente garantita da un Istituto madre. Certo, è una svolta privata, multinazionale, aziendalistica e –diciamolo- capitalista che può spaventare un professore universitario protetto e coccolato dall’ambiente accademico. La risposta però è semplice: “It’s the economy, stupid!” e “Show me your money!”

 

Le tecniche esperienziali per la CBT

Ora però basta con l’economia e la politica e torniamo alla cara vecchia CBT. Nella seconda giornata si è vista la forza della Schema Therapy. Nella terza ho assistito a un altro possibile sviluppo della CBT, la cosiddetta Cognitive Bias Modification o CBM, una serie di tecniche esperienziali ad elevata tecnologia, che utilizzando strumenti informatici che permettono ai pazienti di addestrare le funzioni cognitive distorte, a iniziare dall’attenzione, in maniera più funzionale. Se ne è parlato in una tavola rotonda in cui era ancora presente Edward Watkins. Di un argomento simile, l’uso delle tecniche di imagery, ha parlato in una plenaria Emily Holmes, ricercatrice svedese-britannica molto in vista in questo congresso. Ed è un po’ anche la risposta fornita dagli italiani presenti al congresso, come Antonio Pinto, Lucio Sibilia, Tullio Scrimali e Michele Procacci, che hanno aggiunto alle tecniche di imagery anche la consueta attenzione per il paziente psicotico, le disfunzioni transdiagnostiche, le tecnologie di biofeedback e la metacognizione.
L’uso della Cognitive Bias Modification, dell’imagery con o senza tecnologia e della metacognizione è una buona risposta della CBT alle critiche che sta ricevendo da alcuni anni a questa parte ed è anche la quadratura del cerchio ai rischi di snaturamento. Queste novità, infatti, sono innestate su concettualizzazioni del caso che rimangono ortodossamente CBT. Ecco quindi scampato il rischio della perdita d’identità. Al tempo stesso, però, queste novità consentono alla CBT di inglobare quelle tecniche esperienziali sempre più in voga. È un po’ la stessa forza della Schema Therapy di cui abbiamo parlato nella seconda giornata: rinsanguare la CBT con tecniche più intense di tipo esperienziale. C’è di buono che in tal modo la CBT evita le secche della relazione, secche in cui secondo me rischia di incagliarsi Judith Beck. E c’è di buono che tutto questo consente alla CBT di aggiornarsi. Per ora va bene così. Ci vediamo nel 2017 a Istanbul

E’ più facile diventare peccatori che santi: come la propria percezione morale si trasforma in reputazione altrui

Secondo il recente studio ‘The Tipping Point of Moral Change: When Do Good and Bad Acts Make Good and Bad Actors?‘ condotto da Nadav Klein e Ed O’Brien è molto più facile che un pettegolezzo si trasformi in reputazione anziché riuscire a liberarsi di esso.

In particolare nello studio viene mostrato come sia più difficile migliorare il proprio carattere agli occhi degli altri piuttosto che screditarlo. Difatti per portare ad un miglioramento della percezione morale sono necessarie numerose prove che lo dimostrino, mentre per ottenere un’opinione negativa sono sufficienti pochi eventi.

Klein e O’Brien hanno cercato di individuare quale sia il punto di svolta morale dal quale dipende la valutazione degli altri. Nello specifico si sono chiesti quante azioni una persona deve compiere o cessare per essere percepito come possedente di un carattere considerato morale.

Il tutto è stato indagato tramite una serie di esperimenti. I ricercatori hanno creato storie e personaggi che riflettessero azioni della vita quotidiana. All’interno di queste storie inventate i personaggi potevano comportarsi sia in un modo considerato morale che immorale. Ai partecipanti è stato chiesto di leggere questi racconti e di individuare quelle situazioni in cui vi era declino o miglioramento morale.

In un esperimento, è stata proposta la storia di una persona inventata chiamata Barbara la quale lavorava in un ufficio. La protagonista del racconto a volte si comportava bene, ad esempio tenendo la porta aperta ai suoi colleghi o facendo loro un complimento, altre volte invece manifestava comportamenti negativi come escludere i colleghi o raccontare pettegolezzi su di essi. Ai partecipati era stato poi chiesto di immaginare sia un cambiamento positivo che uno negativo nel comportamento di Barbara.

I ricercatori hanno così monitorato quanto tempo occorresse a Barbara per migliorare o peggiorare la percezione del proprio comportamento agli occhi dei partecipanti, e di quanto tempo essi avrebbero avuto bisogno per definirlo morale o immorale. Ciò che è stato osservato è che erano sufficienti un paio di comportamenti negativi per diagnosticare un peggioramento comportamentale, e che anche se Barbara smetteva di mettere in atto tali azioni non riusciva a ricevere alcun credito da parte dei partecipanti. Nel momento i cui Barbara ha iniziato a comportarsi correttamente, invece, ci sono volute numerose azioni considerate positive prima che i partecipanti le attribuissero un miglioramento morale.

Dai risultati ottenuti è emerso che da parte del campione vi era una maggior velocità nell’individuare e nell’attribuire un declino morale, è una lenta tendenza nell’attribuire un miglioramento. In altre parole, secondo quella che è l’opinione pubblica, è molto più facile diventare un peccatore che un santo.

La cosa interessante è che le implicazioni di questo studio vanno ben oltre le semplici impressioni dei colleghi di ufficio, portando alla luce le motivazioni che spingono la gente a non dare una doppia possibilità a coloro che godono di una reputazione negativa.

Si tratta di informazioni molto importanti e preziose, non solo per l’ambito della psicologia, ma anche a livello giuridico, in quanto potrebbe spiegare alcuni dei meccanismi sottostanti alle decisioni prese da giudici e politici nelle diverse situazioni.

L’energia relazionale positiva sul posto di lavoro è una risorsa per l’azienda

Lavorare con persone positive rende il lavoro più piacevole. Una nuova ricerca ha evidenziato che l’energia relazionale positiva di un manager o di un leader migliora direttamente la produttività e l’impegno dei dipendenti, riducendone tra l’altro l’assenteismo.

 

I ricercatori della University of Michigan hanno inoltre scoperto che lavorare con questo tipo di leader rende le persone più inclini a svolgere mansioni che vanno oltre quelle descritte dal contratto e ad essere più soddisfatte della loro vita familiare.

Nel nuovo studio, Kim Cameron, Wayne Baker e i colleghi Brad Owens della Brigham Young University e Dana Sumpter della California State University, Long Beach hanno esaminato e approfondito il costrutto di energia relazionale, quella energia che si ottiene quando si passa del tempo con persone che ti fanno sentire bene durante l’interazione.

 

Energia Relazionale: effetti sulle organizzazioni lavorative

L’energia relazionale è diversa dal carisma o dalla personalità, non coincide con l’estroversione, è semplicemente il modo in cui le persone si sentono dopo aver interagito con loro. E costituisce una risorsa importante per le aziende.

I ricercatori hanno utilizzato pregresse indagini e 4 studi sul campo per documentare come funziona questa energia relazionale e quale effetto produce sulle organizzazioni lavorative.

I risultati indicano che più un leader trasuda energia relazionale, maggiore è la probabilità che i dipendenti ottengano buoni risultati in termini di produttività, ridotto assenteismo, impegno e mantenimento del posto di lavoro. L’energia relazionale positiva sembra influenzare anche la qualità generale della vita, traducendosi in una maggiore cooperazione tra dipendenti ed una spinta volontaria allo svolgimento di attività che esulano dalle mansioni prettamente inerenti al ruolo lavorativo ricoperto.

Uno degli studi esaminati di Cameron, Baker e colleghi ha inoltre evidenziato che l’energia relazionale induce una vita migliore anche in ambito domestico.

Quando interagiamo con le persone, alcune di esse ci esaltano, ci caricano, mentre altre ci portano verso il basso, deprimendoci. Quando siamo esaltati tendiamo a portare quello slancio anche a casa – ha detto Baker.

La ricerca ha quindi scoperto un modo completamente gratuito attraverso cui un leader può migliorare i risultati e la fedeltà dei suoi dipendenti, creando un ambiente di lavoro positivo. Il punto cruciale è individuare i centri di energia positiva all’interno dell’azienda.

Le scoperte fatte da Cameron, Baker e colleghi renderanno capaci i manager di condurre un’indagine dell’energia relazionale sul luogo di lavoro, disegnare una mappa di tale energia e mostrare le parti luminose (punti di forza) della loro organizzazione e i buchi neri (punti deboli).

È difficile capire cosa sta succedendo prima di aver visto una mappa. È come guardare una radiografia – ha detto Baker.

Le aziende devono cominciare a riconoscere l’energia relazionale e trovare il modo di farla funzionare a proprio vantaggio.

Le persone vengono promosse o assunte per la loro energia positiva? No, non è nemmeno all’ordine del giorno – ha detto Cameron – Quindi, ecco una risorsa che è stata ignorata, ma è un importante predittore delle prestazioni.

 

 

Binge eating infantile: il ruolo delle famiglie, dell’alimentazione e dei sentimenti

Il Binge Eating Disorder è il disturbo alimentare più diffuso in termini di etnia, età e genere e, sorprendentemente, è stato riportato anche nei bambini di 5 anni. Con lo scopo di contestualizzare il binge eating infantile, una recente e sistematica revisione della letteratura scientifica, condotta dalla University of Illinois, ha individuato due potenziali fattori di rischio nei bambini: il non-coinvolgimento /mancanza di risposta emotiva genitoriale e le prese in giro sul peso del bambino all’interno della famiglia.

 

Il Binge Eating Disorder

Il Binge Eating (“alimentazione incontrollata”) non corrisponde alla sensazione di aver mangiato troppo durante una cena, al contrario, è un problema più profondo: [blockquote style=”1″]Nel Binge Eating si avverte una sensazione di non-controllo mentre si mangia, si sente che si sta mangiando oltre il punto di pienezza e fino al punto di disagio, e ciò comporta un elevato stress emotivo[/blockquote] spiega Jaclyn Saltzman, autrice principale della ricerca. Il Binge Eating è stato associato a depressione e obesità, pertanto intervenire precocemente su di esso può aiutare non solo a prevenire l’emergere di un disturbo alimentare, ma anche a scoraggiare l’adozione di abitudini alimentari malsane.

L’influenza della famiglia sul Binge Eating infantile

Saltzman e Janet M. Liechty, co-autrice della ricerca, hanno revisionato una serie di studi, scoprendo però che pochissime ricerche, negli ultimi dieci anni, avevano approfondito le influenze del contesto familiare sul Binge Eating infantile, soprattutto in confronto al più vasto corpo di conoscenze riguardante le influenze delle cognizioni e dei comportamenti. [blockquote style=”1″]Abbiamo pensato che ci fosse bisogno di una comprensione più articolata del contesto in cui il Binge Eating si sviluppa[/blockquote] ha affermato Saltzman. Inizialmente, le ricercatrici hanno identificato oltre 700 studi, che si sono ridotti a 15, dopo aver applicato rigorosi criteri di inclusione per individuare solo quelli che avessero prodotto risultati nei bambini sotto i 12 anni con l’utilizzo di strumenti affidabili.

La perdita di controllo durante le abbuffate

Nella loro revisione le autrici si sono concentrate, inoltre, sulla perdita di controllo, tradizionalmente considerata un sintomo dell’età adulta. Saltzman ha spiegato però che, in base alle recenti ricerche, la perdita di controllo viene utilizzata come indicatore anche nelle abbuffate dei più piccoli, nonostante questo non sia ancora stato ufficialmente riconosciuto nei manuali diagnostici. L’idea è che la compulsione, ovvero la quantità di cibo che il bambino assume, sia meno importante della sensazione di perdita di controllo o dello stress derivante dell’abbuffata, soprattutto nei bambini più piccoli, che mostrano meno controllo sul cibo. Lo scarso controllo delle emozioni infatti li induce a sperimentare la perdita di controllo durante l’abbuffata.

Conclusioni

Nonostante il comportamento dei genitori e dei famigliari rappresenti un fattore contestuale importante nel Binge Eating infantile, ciò non significa che i genitori siano da biasimare per i comportamenti alimentari malsani dei figli. Sarebbe controproducente e non corretto incolparli.

[blockquote style=”1″]Vogliamo sottolineare ai genitori che il peso non è l’unica cosa che conta e che concentrarsi troppo sul peso può essere dannoso. Invece, concentrarsi sul dare ai bambini gli strumenti necessari per gestire le proprie emozioni, in particolare le emozioni riguardanti il cibarsi e il peso, può aiutare a rafforzare le capacità di coping dei bambini in modo che ci siano meno probabilità di aver bisogno di mangiare in modo incontrollato[/blockquote] ha affermato Saltzman.

 

Il costrutto di speranza: quale ruolo nei percorsi di cura?

Oggi, la letteratura offre diverse ragioni per cui la speranza debba essere considerata come variabile centrale nei processi di ripresa, intesa sia come fattore di avviamento che fattore di mantenimento di un circolo positivo di cambiamento.

Roberta Casadio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

 

Il concetto di Speranza nel corso della storia

Il concetto di Speranza è da sempre stato presente sin dalla storia dei popoli ed il suo significato ha assunto declinazioni diverse nei tempi e nelle culture, come testimoniato dalla sterminata letteratura teologica, filosofica, religiosa e psicologica ad esso dedicata.

Nella mitologia greca Elpìs (Greco antico ελπίς, ελπίδος) era la personificazione dello spirito della speranza. A questa epoca risale il mito di Pandora, a cui Esiodo, nella sua teogonia risalente al VII secolo avanti Cristo, faceva derivare tutte le afflizioni del genere umano.

La storia racconta di Pandora, la prima donna dell’umanità creata per ordine di Zeus per punire la razza umana in seguito al furto del fuoco operato da Prometeo. La fanciulla, come descritta, possedeva grande grazia e bellezza, ma era anche scaltra e menzognera. Essa infatti, cedendo alla sua curiosità, scoperchiò il vaso che le era stato proibito di aprire: ne fuoriuscirono ogni sorta di malanni, che si sparsero per il mondo ponendo fine alla vita beata dei mortali. Pandora si affrettò a chiudere il vaso e dentro rimase la Speranza, l’unico bene restato agli uomini.

Secondo una variante più tarda del mito, il vaso conteneva invece tutti i beni dell’umanità, che per colpa della curiosità di Pandora se ne tornarono agli dei e solo la speranza restò come conforto agli uomini. Tattavia, alcune interpretazioni del mito sono discordanti e vedono la speranza come ‘un male come tutti gli altri: un affetto senza fondamento, una misera e illusoria consolazione’.

A questo mito si sono susseguiti filosofi, teologi, sociologi, politici e scienziati che hanno fatto della speranza l’elemento centrale dei loro interessi.

 

 

Il costrutto di Speranza in psicologia

Tuttavia, essa è stata soggetto di ricerca medica e psicologica solamente a partire dagli anni ’50 quando Karl Menninger, definendola come ‘aspettativa positiva di ottenimento di un obiettivo‘, l’ha introdotta a pieno titolo nei processi terapeutici di cambiamento (Menninger, 1959).  In accordo, Erikson (1959), ne sottolinea il ruolo primario nell’evoluzione biologica e nello sviluppo della personalità. Oggi, la letteratura offre diverse ragioni per cui la speranza debba essere considerata come variabile centrale nei processi di ripresa, intesa sia come fattore di avviamento che fattore di mantenimento di un circolo positivo di cambiamento (Bonney & Stikley, 2008).

Stotland (1969) propone un primo tentativo di descrivere la speranza integrando approcci psicologici, sociali e clinici definendola come ‘una aspettativa maggiore di zero di raggiungere un obiettivo nel futuro‘. Essa sarebbe quindi il risultato dell’interazione di diversi fattori: motivazione a raggiungere un obiettivo, l’importanza dell’obiettivo per il soggetto, il disagio relativo al fatto di non raggiungerlo.

Negli anni ‘70 la speranza diventa un costrutto empiricamente quantificabile (Eliott, 2005) il che è testimoniato dalle numerose pubblicazioni sulla misurazione del costrutto e sulla sua correlazione con altre variabili psico-sociali.

Gli anni ’80 vedono una proliferazione di teorie e tentativi di misurazione poiché si afferma sempre più il crescente interesse nella dimensione affettiva della vita umana come espressione di una distanza critica dall’approccio razionalistico delle scienze cognitive alla mente e ai comportamenti.

Nel 1991, un gruppo di studiosi (Snyder, Irving e Anderson) declina la Speranza come costrutto multidimensionale, definita nella Theory of Hope come:

uno stato motivazionale positivo che si basa sull’interazione tra il senso di successo nel produrre i percorsi cognitivi o le strategie cognitive da utilizzare nel conseguire un determinato fine desiderato e il senso di successo nel produrre l’energia mentale nell’utilizzare tali percorsi o strategie per realizzare la finalità desiderata.

Secondo questa teoria, la speranza rispecchia le percezioni individuali rispetto alla capacità dell’individuo di formulare degli obiettivi chiari, di sviluppare strategie specifiche (Pathways Thinking) e di avere e sostenere la motivazione nell’utilizzare queste strategie (Agency Thinking).

 

 

Le componenti della Speranza

Specificamente, le tre componenti che caratterizzano la speranza sono:

  1. Obiettivi: si considerano tali qualsiasi cosa che l’individuo desideri esperire, creare, fare o diventare. Secondo la teoria, un obiettivo può essere perseguito durante tutto l’arco di vita,  oppure essere di tipo situazionale. Gli obiettivi si distinguono anche per la loro probabilità di ottenimento. Inoltre, poiché un obiettivo possa essere considerato tale, deve essere ottenibile ed allo stesso tempo non certo, ovvero, il soggetto deve detenere una certa dose di incertezza in merito alla eventualità di realizzarlo. Al contrario, il livello di motivazione alla base dell’azione tenderà a diminuire. Tuttavia, se l’obiettivo è irraggiungibile, allora esso demoralizzerà la persona. Per concludere, gli obiettivi come considerati in questa formulazione, riguardano quegli eventi o beni ritenuti importanti dal soggetto ed intermedi nella loro probabilità di ottenimento.
  2. Pathways thoughts: perché un soggetto prenda azione, esso deve credere di essere in grado di formulare percorsi efficaci per il raggiungimento di un dato obiettivo. In particolare, in questa teoria ci si riferisce alla percezione che l’individuo ha in merito alla propria abilità di formulare strategie possibili ed efficaci. Sebbene un soggetto tipicamente si focalizzi su una strategia in particolare, se questa si rivela non percorribile, allora sarà necessario elaborare delle strategie alternative poiché la speranza sia sostenuta.
  3. Agency thoughts: oltre ad una elaborazione mentale di strategie e percorsi possibili per raggiungere un dato obiettivo, è necessario avere quella motivazione sufficiente a prendere e mantenere un’azione coerente con gli scopi. Con il termine agency ci si riferisce quindi alla credenza che un soggetto possa intraprendere e mantenere un dato percorso, seguendo la strategia pensata, verso un dato obiettivo. Inoltre si intende la credenza che il soggetto possiede in merito alla propria capacità di incanalare la motivazione positiva per percorrere strade differenti quando si presentano barriere od ostacoli.

Sebbene questa teoria, derivane dalla Psicologia Positiva, sia tra le maggiormente accreditate in campo scientifico, è da sottolineare come negli stessi anni lo stesso costrutto sia stato definito in maniere diverse tra le quali: un fenomeno positivo, una caratteristica dell’individuo, uno stato di coscienza, un potere interiore, una energia, un forza dinamica della vita, uno stato emozionale e motivazionale, un’attitudine emotiva, una emozione positiva, una credenza, una rappresentazione mentale, una componete dell’empowerment, una misura dell’ottimismo e più frequentemente, una aspettativa (Shrank et al. , 2008).

Emerge quindi chiaramente la mancanza di un comune accordo su come descriverla, nonché la necessità di distinguere tale concetto, da altri simili presenti in letteratura. A questo proposito, un’attenzione particolare va posta sul concetto di Aspettativa positiva con la quale spesso viene confusa.

 

 

Speranza e aspettativa positiva: quale differenza?

Secondo Miceli e Castelfranchi (2010), la speranza si differenzia dalla aspettativa positiva in funzione di alcune proprietà peculiari. Una aspettativa consiste in una previsione che (non-)p avvenga insieme al desiderio che (non-)p avvenga. La forza dell’aspettativa dipende sia dal grado di certezza della previsione di (non-)p, sia dal grado della importanza soggettiva che (non-)p avvenga.

A differenza, la speranza necessariamente implica il desiderio o l’obiettivo che (non-)p avvenga, tuttavia è meno che un aspettativa poiché non è implicata una previsione. Diremmo infatti che la la speranza implica che (non-)p sia possibile, insieme al desiderio che (non-)p avvenga. Se la possibilità diventa una previsione allora la speranza diventa un’aspettativa. La speranza può infatti coesistere con un’aspettativa negativa. Un’aspettativa positiva non può coesistere con un’aspettativa negativa.

Un elemento distintivo tra i due concetti, è inoltre il fatto che la speranza implica il confronto con la limitazione del proprio potere o controllo.  Nel caso dell’aspettativa positiva, la probabilità che (non-)p avvenga è più alta e quindi, sebbene possa esserci un elemento di incertezza riguardo proprio potere o controllo sulla possibilità che (non-)p avvenga, essa è meno significativa che nella speranza. E’ quindi più facile deludere una aspettativa positiva che una speranza poiché nel primo caso il sentimento è quello di perdita, di essere stati deprivati di (non-)p, un senso di ingiustizia per non averlo ottenuto.

Nel caso della speranza, il sentimento di perdita dovuto al non ottenimento di (non-)p non è altrettanto severo ed è presente una maggiore resilienza poiché la speranza è l’ultima a morire. Anche nel caso di ottenimento di (non-)p il sentimento cambia. Nel caso di un’aspettativa positiva è presente un senso di sollievo (prevention focus secondo la teoria di Higgins, 1998), mentre nel caso di una speranza il sentimento non è quello di un fallimento evitato, quanto quello di un vero e proprio successo (Miceli & Castelfranchi, 2010).

 

 

Speranza e benessere psicologico

Il raggiungimento degli obiettivi è stato associato con emozioni positive (Snyder et al., 1996), mentre ostacoli agli obiettivi sono solitamente legati ad emozioni negative (Diener, 1984); tuttavia, gli studi mostrano che non è sempre il caso. I soggetti con un alto indice di speranza reagiscono agli impedimenti in una maniera diversa da coloro con un basso indice, infatti, essi tendono a vedere le barriere come sfide da superare ed utilizzano li loro capacità di pianificazione per ideare strategie nuove e alternative di ottenimento dell’obiettivo (Snyder, 1994).

La ricerca mostra che in soggetti in salute, come in soggetti con malattie fisiche severe, la presenza di Speranza è correlata a un miglior funzionamento psicosociale, minore reattività allo stress e più strategie di coping funzionali (Vaillot, 1979), soddisfazione per la vita, benessere, migliore qualità di vita (Menninger, 1959bis).

In soggetti con diagnosi di disturbo mentale, in particolare psicosi o schizofrenia, la ricerca evidenzia come la speranza sia correlata negativamente con depressione, ansia, problemi familiari e barriere all’impiego mentre positivamente correlata con resilienza, self-efficacy, spiritualità, empowerment, supporto sociale e benessere soggettivo (Duggleby & Wright, 2005).

Queste correlazioni mettono in luce l’importante ruolo della speranza nei processi di ripresa e recovery. Mary Ellen Copland, esperta per esperienza nonché autrice del Programma per la Ripresa e del Benessere WRAP al Centro di formazione per la Guarigione in Arizona, pone la speranza tra i 5 principi fondamentali per la guarigione insieme alla responsabilità personale, alla conoscenza, alla difesa dei propri diritti e al sostegno. Sulla speranza scrive:

Speranza. Ci vuole molta speranza. Chi di noi vive l’esperienza di avere sintomi psichiatrici raggiunge e rimane in una condizione di benessere per lunghi periodi

Tuttavia, ancora scarsa è la letteratura che possa fare luce con maggior chiarezza sui meccanismi di funzionamento della speranza nei processi di recovery.  Sebbene benessere e speranza siano costrutti che correlano (i.e. Kilma et al. 2006), non è ancora chiaro quale sia il rapporto causale tra i due. Come impatta la speranza nei processi di ripresa? Quali atteggiamenti e attitudini possono incrementare la speranza in persone affette da grave disturbo?

Comprendere il meccanismo di funzionamento della speranza nei processi di ripresa, identificandone il nesso causale con la comparsa di disagio ed il suo attraversamento, avrebbe notevoli implicazioni dal punto di vista epistemologico, pratico e di organizzazione dei servizi di salute mentale in quanto ciò avrebbe a che fare con un radicale cambiamento nel modo di pensare alla malattia mentale e alla persona, la quale, specialmente se con diagnosi di schizofrenia, viene spesso considerata come soggetta ad una condizione cronica ed inguaribile.

Quest’ultimo elemento rappresenta di fatto una sfida che chiama a oltrepassare un paradigma che troppo spesso converge verso varie forme di riduzionismo: un cambiamento che superi quindi il concetto di disease management verso quello di centralità della persona, dei suoi bisogni desideri e della sua vita oltrepassando la definizione di malato cronico.

L’efficacia della Schema Therapy e il problema dell’adesione ai protocolli per la CBT

La seconda giornata del congresso EABCT 2016

EABCT 2016

Meno celebrativa della prima, questa seconda giornata del 46esimo congresso della società europea delle terapie comportamentali e cognitive (EABCT, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies). Meno celebrativa e quindi meno necrofila, anzi vitale e perfino aggressiva e vogliosa di nuove conquiste. La terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT) dopo essersi congratulata con se stessa, ha iniziato a mostrare le sue forze.

 

La schema therapy per i disturbi di personalità

Era tempo, l’eccesso di complimenti stava diventando sospetto e difensivo. La giornata è iniziata con Arnout Arnzt, che ha presentato i più recenti dati di efficacia fortissimi della Schema Therapy per i disturbi di personalità. Dati meta-analitici e di “survival analysis” rigorosi, ma non chiedetemi chiarimenti sulla statistica. Da questi dati la Schema Therapy esce fuori nettamente vincitrice e in grado di lasciarsi alle spalle i concorrenti. Ovvero la Dialectical Behavior Therapy (DBT) di Marsha Linehan e la Mentalization Based Therapy (MBT) di Peter Fonagy. Nelle parole di Arnzt è un regolamento di conti definitivo, una candidatura finale della Schema Therapy al ruolo di trattamento di elezione per i disturbi di personalità.

Non basta. La Schema Therapy non solo invoca il primato, ma evidentemente proclama la sua appartenenza alla corrente standard della CBT. A differenza di altre terapie derivate dalla CBT e definite di terza corrente, la Schema Therapy non si è separata dalla CBT. E nemmeno, che io sappia, è stata oggetto di troppe manovre di rigetto. Arnzt e gli altri esponenti della Schema Therapy continuano a partecipare ai congressi cognitivi e a mostrare un senso di appartenenza al mondo CBT. Questo consente alla CBT di avocare a sé il successo della Schema Therapy. Ed è un dato scientifico e politico importante, perché in tal modo la CBT può avanzare la sua candidatura a psicoterapia quasi universale, applicabile ai due principali campi diagnostici dove le psicoterapie rivaleggiano e operano: disturbi d’ansia e disturbi di personalità.

I dati di Arnzt, lo ripeto, sembrano davvero forti. Come numerosità dei campioni e degli studi, come aderenza e fedeltà di applicazione dei protocolli e come rigorosità dei metodi. D’ora in poi chiunque vorrà trattare i disturbi di personalità dovrà tenere conto che la Schema Therapy potrebbe diventare presto il golden standard. È un dato scientifico, ma anche politico ed economico.

 

Il programma IAPT e l’adesione ai protocolli

E di politica ed economia ha parlato David Clark, che ha raccontato come è avvenuto che la CBT è stata adottata dal servizio sanitario pubblico inglese come trattamento di elezione per i disturbi d’ansia e depressione finanziato dallo stato sociale. È il cosiddetto programma IAPT, Improving Access to Psychological Treatment. Sembrerebbe un nuovo episodio celebrativo, ma non è stato così. Clark non è stato futilmente aneddotico, ma ha raccontato una storia importante e istruttiva. Ovvero come lui, entrando in contatto con la politica, abbia dovuto abbandonare la sua visione naif dell’avanzamento scientifico e della diffusione del sapere. Di come, di fronte alla possibilità di erogare concretamente psicoterapia nel servizio pubblico, i suoi libri e i suoi articoli fossero del tutto insufficienti. Assicurarsi che migliaia di operatori fossero capaci di eseguire correttamente i protocolli, protocolli pagati dallo Stato, si dimostrava uno sforzo erculeo. Illudersi che fosse sufficiente scrivere tutto su alcuni testi che poi tutti avrebbero letto, imparato e applicato fedelmente era illusorio in maniera quasi infantile. Anzi, sicuramente infantile. Occorreva invece organizzare percorsi di apprendimento e addestramento rigidi e controllati, in cui si imparavano poche cose e le si ripetevano decine di volte finché non venivano bene. L’apprendimento teorico dai libri di centinaia di nozioni astratte era inutile. Anzi controproducente. Come suonare la musica è fatto più di quotidiane e ripetitive esercitazioni sullo strumento che di studi teorici di armonia, così doveva essere per l’applicazione dei protocolli.

E così è avvenuto che la CBT diventasse davvero standard e protocollata, definitivamente e sul serio. E questo è accaduto da poco, da molto meno tempo di quanto pensiamo. Dal 2005 quando è iniziato il programma IAPT e non dagli anni ’80, come pensavamo. Negli anni ’80 furono solo pubblicati i primi protocolli, che poi erano applicati solo nelle università, negli studi sperimentali che li testavano, ma non nella realtà clinica a cui erano destinati.

Il fatto curioso, però, è che questa applicazione ora avviene solo nel servizio sanitario inglese. Al di fuori la CBT è ancora applicata in modalità naif. E questo è vero non solo per paesi tradizionalmente giudicati meno aggiornati, come i paesi mediterranei che usualmente immaginiamo arrancare nelle retrovie, ma anche in paesi ritenuti avanzati, come i paesi scandinavi. Che però in questo caso non sono avanzati affatto. Ognuno ha imparato la CBT sostanzialmente dai libri e poi in ogni paese la si applica con regole locali e autarchiche. Certo, lo si fa più rigorosamente in alcuni paesi e più lassamente in altri; ma nel primo caso si tratta comunque di una rigorosità personale, autarchica, auto-referenziale e non controllata dai centri dove sono stati elaborati questi protocolli. Che sono i centri inglesi.

Insomma, siamo ancora tutti naif. E questo pone la CBT in una posizione davvero paradossale. Mentre molte nuove terapie, come l’EMDR, la stessa Schema Therapy o la Sensorimotor sono consapevoli del problema dell’aderenza e hanno fondato istituti privati che erogano formazione proceduralizzata e formalizzata in maniera replicabile e controllabile, la CBT non ha un suo centro madre che eroghi l’insegnamento dei suoi protocolli più efficaci. Certo, c’è l’Istituto Beck in USA, ma così dimentichiamo che i protocolli CBT più efficaci sono quelli inglesi del gruppo Clark di Oxford. Protocolli beckiani, certo, ma non di Beck. Quindi non propriamente insegnati all’Istituto Beck, anche se sicuramente molto simili.

Queste considerazioni naturalmente non finiscono qui e meritano ulteriori approfondimenti. Ne parleremo ancora.

La famiglia del paziente affetto da Binge Eating Disorder – Magrezza non è bellezza Nr. 23

I fattori genitoriali predisponenti a questa patologia sono: la disarmonia, l’atteggiamento repressivo verso il sesso, la scarsa empatia, il poco affetto, la diminuzione delle attenzioni rivolte e l’elevata età anagrafica dei genitori. Inoltre, se in queste famiglie sono presenti l’abuso di alcol e disturbi psichiatrici, sono maggiori le probabilità di sviluppare un BED.

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi alimentari: La famiglia del paziente affetto da BED (Nr. 23) 

Come insorge il BED durante l’adolescenza

Il BED (Binge Eating Disorder) insorge di solito negli anni dell’adolescenza. In questo periodo, si manifestano i primi interessi sessuali e ha inizio la costruzione del proprio valore personale basata su una valutazione socioculturale della forma fisica.

Una ragazza proveniente da una famiglia disorganizzata, che usa il cibo per consolarsi nei momenti difficili, si trova di fronte a un dilemma. Alimentarsi rappresenta il suo supporto emotivo, ma forma e peso del corpo sono in contrasto con questo comportamento. Un conflitto grave, che apparentemente si potrebbe risolvere continuando ad assumere dosi eccessive di cibo, non può più essere gestito attuando questa strategia, giacché il rischio dell’aumento ponderale porta allo stigma sociale nel gruppo dei coetanei.

In questa fase, se la ragazza non decide di controllare il peso attraverso le condotte di eliminazione (vomito, eccessivo esercizio fisico ecc.), va incontro al BED.

Le caratteristiche della famiglia del paziente affetto da BED

I fattori genitoriali predisponenti a questa patologia sono: la disarmonia, l’atteggiamento repressivo verso il sesso, la scarsa empatia, il poco affetto, la diminuzione delle attenzioni rivolte e l’elevata età anagrafica dei genitori. Inoltre, se in queste famiglie sono presenti l’abuso di alcol e disturbi psichiatrici, sono maggiori le probabilità di sviluppare un BED.

Un altro fattore da considerare è la carenza di comunicazione sulle questioni emozionali (la capacità di comunicare costituisce un’abilità fondamentale per permettere di sopportare e superare positivamente le liti coniugali). Questi dati suggeriscono che i fattori rilevanti per la famiglia riguardano le dinamiche di gestione e di regolazione del sistema familiare; più in particolare, l’espressione e la risoluzione di conflitti emozionali, piuttosto che l’eccesso di stress.

È altresì importante prestare attenzione alle dinamiche relazionali e sociali che si verificano in queste famiglie in cui la percezione della propria immagine corporea potrebbe giocare un ruolo fondamentale per la genesi del disturbo alimentare.

Il criticismo genitoriale e il conseguente perfezionismo

Il criticismo genitoriale consiste nell’essere costantemente soggetto a critiche da parte di altri considerati significativi, importanti per la persona (Frost et al. , 1991; Huprich, 2003). Evidenze cliniche e sperimentali supportano l’ipotesi in base alla quale il criticismo percepito è un fattore di rischio per lo sviluppo del perfezionismo clinico nei disturbi alimentari.

Alcuni dati derivanti dall’ambito clinico in relazione alle emozioni e ai disturbi d’ansia, supportano l’associazione tra le critiche emesse da parte dei genitori e la presenza di propri schemi cognitivi negativi negli adulti. È possibile che personalità affette da perfezionismo possano, in una qual certa misura, aver influenzato la vulnerabilità, la percezione delle critiche subite e la sopravvalutazione delle critiche passate.

Dati recenti confermano l’ipotesi secondo la quale il criticismo percepito precede il perfezionismo maladattivo nel processo psicologico, portando alla formazione del controllo ossessivo del peso e della forma fisica nella mente delle persone affette da disturbo alimentare. In questo caso, è possibile immaginare il perfezionismo maladattivo come una sorta di reazione all’estremo dolore provocato dalle critiche recepite, che a loro volta hanno stimolato, in individui poveri di risorse cognitive e di un sostrato familiare adeguato, lo sviluppo di un controllo o di un discontrollo sul cibo, sulla forma fisica e sulla fatuità del proprio essere.

È possibile inferire che il criticismo percepito possa essere il fattore razionale che facilita la trasmissione transgenerazionale del perfezionismo in soggetti con disturbo alimentare, in accordo con quanto sostengono alcuni autori (Kawamura et al. , 2001; Soenens et al., 2005; Sassaroli et al., 2011).

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che queste conclusioni potrebbero essere confermate solo attraverso uno studio longitudinale. Le implicazioni cliniche di questi risultati suggeriscono che il terapeuta potrebbe presumere che il perfezionismo è il moderatore cognitivo che collega il criticismo ai sintomi di restrizione alimentare. In questo caso, l’intervento dovrebbe essere focalizzato sulla valutazione della sofferenza in relazione ai conflitti verificatisi con i genitori e potrebbe aiutare il paziente nel riconoscere il perfezionismo come strategia per affrontare il dolore generato dalle critiche subite. Si ricorre a un intervento di questo tipo quando il paziente non riconosce o nega l’influenza del criticismo subito.

 

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

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