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Un approccio olistico nel trattamento del Binge Eating Disorder: l’utilizzo dello Yoga

Esiste un tipo specifico di Yoga che aiuterebbe i pazienti con Binge Eating Disorder che hanno vissuto un trauma: esso è il Trauma-Sensitive Yoga. È uno stile gentile di yoga che promuove l’equilibrio nella mente e nel corpo attraverso l’uso del respiro, la meditazione e, di particolare importanza in questo ambito, le posture fisiche o “asana”. Tale disciplina parte dal presupposto che i sopravvissuti ad un trauma rivivono la loro esperienza sul corpo giornalmente. In questo senso, il corpo diventa il loro nemico (van der Kolk, 1994), sentono che il corpo li ha traditi nel passato e continua a farlo nel presente.

Roberta Porta, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Binge Eating Disorder: la diagnosi e il trattamento

Il Disturbo Binge Eating, solo recentemente identificato come una diagnosi ufficiale nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, si caratterizza per periodi di assunzione di grandi quantità di cibo, associati a sensazione di perdita di controllo con conseguenti emozioni di vergogna, senso di colpa ed isolamento sociale. Non sono presenti inoltre comportamenti compensativi al fine di regolare il peso e\o l’assunzione di cibo.

Diversi studi evidenziano come il trattamento di eccellenza sia la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), efficace in termini di remissione completa solo però nel 50-60 per cento delle persone. Ciò può portare a pensare che sia necessario ampliare la visione di questo Disturbo Alimentare e conseguentemente i suoi strumenti di cura poiché questi pazienti manifestano anche altre difficoltà in svariati ambiti della loro vita. Raccogliendo l’anamnesi di questi pazienti ciò che emerge è un disagio precoce, molto spesso già in età giovanile in cui ciò che viene evidenziato è il disagio sociale esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali, la difficoltà a gestire le proprie emozioni, il senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso con l’aggiunta della distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza che permane anche nell’età adulta.

La complessità di questo disturbo, e quindi della sua cura, è legata alla elevata numerosità di pazienti che presenta comorbilità con depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Infatti, pazienti con binge eating disorder sono caratterizzati da specifiche caratteristiche di personalità e proprio questi aspetti vengono considerati come fattori di vulnerabilità individuale che la terapia non può non prendere in considerazione per ampliare il suo grado di efficacia.

Vari studi, come quello di Fassino et al., 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge eating disorder (BED) confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e si scoraggiano più facilmente.

Secondo un altro studio (Marcus et al., 1990; De Zwaan el al., 1994; Kirkley et al., 1992) i pazienti Binge Eating Disorder tendono ad ottenere tramite tale strumento bassi livelli di SD (autodirezionalità) e di C (cooperatività) per cui mostrano maggiore immaturità, debolezza, fragilità, tendenza alla colpevolizzazione altrui e scarsa tolleranza allo stress. Oltre agli aspetti caratteriali e temperamentali ciò che emerge dalla letteratura è che i pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata presentano una prevalenza significativa di attaccamento disorganizzato, soprattutto di tipo irrisolto (Barone et al., 2009; Tasca et al., 2014) e tassi particolarmente bassi di attaccamento di tipo B con una ricaduta più frequentemente nello stile di attaccamento insicuro (Tasca et al., 2014), caratterizzato da sfiducia verso le altre persone e aspettative negative nei confronti delle relazioni (Fabbro et al., 2010); inoltre, i soggetti affetti da Binge Eating Disorder sembrano riferire dei tassi di maltrattamento infantile ed altre esperienze traumatiche che correlano con attaccamento di tipo disorganizzato che sono circa due o tre volte superiori a quelli riportati da campioni normativi; in particolare, gli studi condotti da Grilo e colleghi (2001 & 2002) e Becker e collaboratori (2011) hanno evidenziato che l’80% dei pazienti con Binge Eating Disorder tende a riportare almeno un tipo di maltrattamento infantile e Caslini e colleghi (2015) hanno osservato che il Binge Eating Disorder risulta associato a tutte le tipologie di abuso infantile (sessuale, fisico ed emotivo).

Riassumendo possiamo dire che i pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata presentano spesso una comorbilità in Asse I con i disturbi dell’umore (Weightman et al., 2014; Kerr et al., 2003), la dipendenza da alcool (Maurage et al., 2015) e il PTSD (Nazarov et al., 2013). Infine, per quanto riguarda l’Asse II, Friborg e colleghi (2014) e Grilo e collaboratori (2002) hanno riportato che circa il 30% dei pazienti con Binge Eating Disorder presenta almeno un disturbo di personalità e che i disturbi più frequentemente associati sono quelli appartenenti al Cluster C (Evitante e Ossessivo-Compulsivo) e al Cluster B (Borderline). È soprattutto nei pazienti con Cluster B che ritroviamo il deficit di regolazione emotiva.

 

Binge eating disorder: i fattori determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo

Tra i fattori che la letteratura recente indica come determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo vi sono l’esperienza e la regolazione disfunzionale delle emozioni: le persone a rischio di questi disturbi spesso presentano difficoltà nella gestione delle emozioni, sperimentano frequentemente emozioni negative molto intense e utilizzano il cibo per regolarle (Polivy e Herman, 2002; Bardone-Cone e Cass, 2006; Macht, 2008).

Inoltre, si è osservato in uno studio condotto da Carano, De Berardis, Gambi, et al., (2006) che ha indagato la relazione tra immagine corporea e presenza del costrutto alessitimico nei soggetti con Binge Eating Disorder, che questi ultimi mostrano una maggiore gravità del disturbo alimentare (indici di massa corporea più elevati) e una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo rispetto ai pazienti non alessitimici.

I soggetti Binge Eating Disorder alessitimici rispetto ai soggetti BED non alessitimici rispondono meno ai trattamenti psicoterapeutici e nutrizionali, mostrando elevati tassi di drop-out. Nello specifico, i pazienti BED alessitimici hanno difficoltà a identificare e a descrivere sentimenti ed emozioni senza presentare caratteristiche di pensiero orientato esternamente. Come affermano Taylor e al., (1997), le persone affette da BED sono fondamentalmente alessitimiche, in quanto presentano deficit nel riconoscimento dei propri stati interni (fame, sazietà, senso di vuoto), nell’esplorazione del proprio mondo interiore e nella competenza necessaria per riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. La mancanza d’informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacola la creazione di confini stabili con gli altri, aumentando, di conseguenza, la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze. Quindi emerge in tali pazienti una mancanza di consapevolezza enterocettiva, con conseguente confusione e incertezza nel riconoscere e rispondere in modo preciso agli stati emotivi. Al fine di favorire il processo di cura anche di questi pazienti con caratteristiche ben specifiche si è ipotizzato di inserire un percorso di Yoga nel trattamento CBT già in uso al fine di favorire il potenziamento della attenzione consapevole, intenzionale e non-giudicante nel momento presente.

Inoltre lo scopo principale è quello di aiutare il paziente, che spesso ha dimenticato il suo corpo fisico (soprattutto se in anamnesi troviamo episodi legati al trauma) a relazionarsi con esso e a riconoscere, ascoltare e rispettare i ritmi naturali del proprio corpo e aumentare così la propria consapevolezza enterocettiva. Durante la lezione di Yoga si eseguono pratiche che vengono appositamente organizzate in modo tale da concentrare l’attenzione del paziente al presente: le asana, esse sono caratterizzate da benefici e controindicazioni, che vengono considerati durante ogni lezione in modo tale da rendere ogni paziente partecipante attivo ai benefici sulla propria salute.

Il secondo obiettivo che ci si propone di favorire è la riduzione dello stress e la produzione di un aumento graduale dello stato di rilassamento. Ciò viene favorito dalla sensazione di equilibrio psicofisico, imparando ad entrare in contatto con se stessi, sperimentando lo stato di calma, grazie alle tecniche di rilassamento guidato ed a convivere con i propri limiti corporei cercando di generare importanti benefici sull’allungamento muscolare e sulla mobilità del corpo tramite le asana contrastando i problemi su muscoli e scheletro provocati dal comportamento alimentare che ha generato lo stato di sovrappeso\obesità.
Il terzo e ultimo obiettivo è il miglioramento della coordinazione e della capacità respiratoria.

 

La pratica dello yoga

La pratica dello yoga nasce 5000 anni fa in Oriente, ed è una disciplina che armonizza tecniche di respirazione, postura, allungamento muscolare e meditazione. Esistono diversi tipi di yoga: il più diffuso e praticato in Occidente è l’Hatha yoga, finalizzato a un benessere tanto fisico quanto mentale.

Le evidenze scientifiche derivanti da diversi studi hanno evidenziato cambiamenti significativi tra prima e dopo la pratica di Yoga. Nei gruppi di studio si sono registrati punteggi più alti per qualità di vita, emotività e autoconsapevolezza, mentre sono diminuiti i punteggi riguardanti ansia, panico e stress autopercepito (Amber W.Li, 2012) . Alcuni studi hanno preso in considerazione anche parametri di controllo biochimici: ai soggetti sono state misurate le concentrazioni di cortisolo (ormone dello stress), DHEA (ormone che promuove la lipolisi), melatonina e GABA (la prima regola il ritmo sonno-veglia e il secondo è connesso al rilassamento). I ricercatori non hanno trovato cambiamenti significativi nei livelli di cortisolo e DHEA, mentre sono leggermente aumentati quelli di melatonina e GABA: lo yoga sembra dunque promuovere la secrezione di sostanze collegate allo stato di calma mentale e fisica. Inoltre in un altro studio è stato analizzato l’effetto dello yoga sulla secrezione di leptina e adiponectina e ciò che è emerso è una correlazione tra il tempo da cui si praticava yoga e lo stato di benessere: le praticanti yoga da più tempo mostravano che il profilo dei marker antinfiammatori erano correlati a un minor rischio per la salute cardiovascolare e il diabete.

Parallelamente a questo studio, una review ha dimostrato che lo yoga permette di normalizzare i livelli di pressione arteriosa, di colesterolo e di glucosio nel sangue (Kiecolt-Glaser JK, Christian LM, Andridge R, Hwang BS, 2012). Gli studi sottolineano comunque che chi pratica yoga è anche più attento ad altri fattori che influenzano il benessere e la salute, come ad esempio la dieta, la scelta di alimenti biologici e di stagione, la gestione dello stress, l’astensione dal consumo di alcol e fumo.

 

Lo yoga con i pazienti con Binge Eating Disorder

Esiste un tipo specifico di Yoga che aiuterebbe i pazienti con Binge eating disorder che hanno vissuto un trauma: esso è il Trauma-Sensitive Yoga. È uno stile gentile di yoga che promuove l’equilibrio nella mente e nel corpo attraverso l’uso del respiro, la meditazione e, di particolare importanza in questo ambito, le posture fisiche o “asana”. Tale disciplina parte dal presupposto che i sopravvissuti ad un trauma rivivono la loro esperienza sul corpo giornalmente. In questo senso, il corpo diventa il loro nemico (van der Kolk, 1994), sentono che il corpo li ha traditi nel passato e continua a farlo nel presente.

In uno studio di Van der Kolk si è visto come le donne che ricevevano il Trauma-Sensitive Yoga riportavano diminuzioni significative nella disregolazione emotiva e aumenti nelle attività di riduzione della tensione e dell’hyperarousal corporeo (van der Kolk et al., 2014). Un corso di 10 settimane di TSY è associato a una diminuzione significativa nei sintomi del PTSD nei sopravvissuti al trauma con un PTSD complesso. Al fine di aiutare il paziente nel percorso di cura sono stati studiati gli effetti della disciplina sui livelli dei neurotrasmettitori (nello specifico, il GABA) associati al PTSD complesso. Il GABA (acido γ-aminobutirrico) è il principale neurotrasmettitore inibitorio nel cervello; il suo rilascio, infatti, impedisce all’impulso nervoso di propagarsi da un neurone all’altro. Il GABA ha profondi effetti ansiolitici e smorza le risposte comportamentali e fisiologiche ai fattori di stress. Si è notato in diversi studi scientifici che i livelli di questo neurotrasmettitore sono particolarmente bassi nei soggetti con disturbi d’ansia e con PTSD complesso, come se si perdesse la capacità chimica di limitare la risposta allo stress.

In uno studio del 2007 si è rilevato (attraverso metodiche di neuroimaging) che i livelli di GABA nel cervello aumentano dopo una sessione di yoga. Il concetto che dalla letteratura emerge con interesse maggiore collegato a questi dati è quello relativo al fatto che alcuni pazienti con Binge Eating Disorder cronici hanno in anamnesi il PTSD complesso: si tratta, cioè, di bambini che hanno fatto esperienza di [blockquote style=”1″]eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, soprattutto di natura interpersonale e ad esordio precoce, spesso nel loro sistema di accudimento primario[/blockquote] (Cook et al., 2005).

Nel PTSD complesso si evidenziano (van der Kolk et al., 2005):
1. la regolazione delle emozioni e il controllo degli impulsi: le persone non riescono a gestire emozioni intense e improvvise (come la rabbia) e mettono in atto condotte auto-distruttive (auto-lesionismo, abuso di sostanze,abbuffate, ecc.) quando iniziano a percepire come intollerabili e opprimenti anche minimi fattori di stress;
2. l’attenzione e la consapevolezza: presenza di episodi dissociativi, amnesia e incapacità di focalizzarsi su uno stimolo rilevante, che rappresentano delle risposte emesse dagli individui per sottrarsi ai pensieri/ricordi e sensazioni fisiche/emozioni legati alle esperienze traumatiche;
3. la percezione di sé: le vittime di esperienze traumatiche sviluppano una visione di se stesse come indesiderate, deboli, impotenti, “danneggiate” e provano senso di colpa e vergogna cronici perché, nella maggior parte dei casi, si ritengono responsabili dell’abuso che hanno subìto;
4. i rapporti interpersonali: incapacità di fidarsi o di entrare in intimità con gli altri, elevata sospettosità e isolamento sociale;
5. i sistemi di significato: le persone iniziano a pensare che la vita non abbia più senso e che non saranno mai in grado di apportare dei cambiamenti positivi alla propria vita, come se osservassero se stessi, gli altri e il mondo attraverso delle “lenti di colore nero”;
6. la somatizzazione: presenza di sintomi cronici a livello somatico (dolori addominali, nausea, vomito, mal di testa, ecc.) che non sono riconducibili a delle cause mediche, ma che sono il risultato di alterazioni neuro-biologiche causate dalle esperienze traumatiche (iper-attivazione del sistema nervoso centrale, eccessiva produzione delle catecolamine, bassi livelli di serotonina, ecc.) e che sembrano rappresentare una modalità inconsapevole per comunicare il dolore emotivo (che i sopravvissuti a eventi traumatici non riescono a esprimere con le parole, né a se stesse né agli altri).

Tutti questi sintomi rientrano nel costrutto diagnostico chiamato CPTSD/DESNOS (Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso/Disturbo da Stress Estremo non Altrimenti Specificato, dalla denominazione inglese Complex Post-Traumatic Stress Disorder / Disorder of Extreme Stress Not Otherwise Specified). Alcuni studi (p.e., van der Kolk et al., 2005) hanno riscontrato che il 25-45% delle persone che avevano subìto un trauma e il 68% tra coloro che avevano subìto abusi sessuali mostravano sintomi di CPTSD/DESNOS. La spiegazione va ricercata nella natura del trauma.

I traumi, infatti, possono essere distinti in due macrocategorie:
– Traumi con la T maiuscola o “grandi” traumi corrispondenti a “esperienze traumatiche di natura estrema” che comprendono la percezione di pericolo al corpo, attacco al sé, che portano alla morte o minaccia all’integrità fisica propria o delle persone care;
– traumi con la t minuscola o “piccoli” traumi che corrispondono a “esperienze traumatiche non estreme” che implicano eventi di vita meno catastrofici, con una percezione intensa di pericolo ma non per questo meno traumatici se costanti e ripetitivi. Secondo Judith Herman (Emerson, 2015) il trauma che si verifica nel contesto delle relazioni e che si prolunga nel tempo, come nei casi di abusi sessuali infantili, rientra nel Trauma con la T maiuscola.
Le persone con storie di traumi interpersonali, eventi traumatici multipli e/o traumatica esposizione di lunga durata sono quelle che con maggiore probabilità presentano i sintomi di CPTSD/DESNOS (p.e., Jagodzinski, 2011).

 

Efficacia dello yoga come trattamento per il PTSD

È proprio partendo da queste premesse che van der Kolk e coll. (2014) hanno pubblicato i risultati di un trial controllato e randomizzato finalizzato a valutare l’efficacia dello yoga come trattamento per il PTSD, e i disturbi d’ansia.

Un campione di 64 donne con PTSD cronico, refrattario al trattamento (le partecipanti infatti si erano sottoposte ad almeno 3 anni di terapia finalizzata al trattamento del disturbo PTSD), è stato assegnato casualmente a due gruppi (gruppo di yoga vs. gruppo di educazione alla salute), ognuno dei quali prevedeva un incontro alla settimana per 10 settimane. Le ipotesi dei ricercatori erano che le donne traumatizzate, assegnate alla condizione yoga, avrebbero mostrato un miglioramento clinico significativo in termini di riduzione della sintomatologia PTSD al post-trattamento, come pure un incremento nelle capacità di regolazione emotiva. I risultati dello studio hanno rilevato che il 52% delle pazienti nel gruppo yoga, rispetto al 21% di quelle nel gruppo di controllo, non soddisfaceva più i criteri del DSM per il PTSD. Entrambi i gruppi di pazienti mostravano cambiamenti significativi nella sintomatologia post-traumatica durante la prima metà del trattamento, ma questi miglioramenti erano mantenuti solo nel gruppo yoga. La conclusione degli autori è che la pratica di yoga, focalizzandosi sul respiro e su esercizi fisici che combinano movimento, rilassamento muscolare e meditazione, possa aumentare la capacità di accettare e tollerare le esperienze fisiche e sensoriali associate alle emozioni, migliorandone la regolazione.

Lo scopo del trattamento delle memorie traumatiche è ricostituire l’interezza degli eventi vissuti, associandone le diverse componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva) e permettendone l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente. Poiché le memorie traumatiche provocano emozioni soverchianti le capacità dell’individuo di farne fronte, è necessario che tale lavoro di integrazione sia preceduto da quello sulla regolazione delle emozioni.

Gli interventi mente-corpo, come la mindfulness e lo yoga, incoraggiano nel paziente una posizione da osservatore, finalizzata a mantenere l’attenzione su ciò che accade nel momento presente, senza giudizio, con apertura, accettazione e curiosità. Tali pratiche che stimolano la consapevolezza aumentano l’accettazione e la tolleranza di emozioni, migliorandone di fatto la regolazione emotiva. Secondo questi approcci la disregolazione emotiva, che abbiamo visto essere una caratteristica tipica dei pazienti traumatizzati, potrebbe essere proprio la conseguenza evoluzionistica dell’attivazione, anche in situazioni non pericolose, dell’esperienza sensomotoria vissuta al tempo del trauma. In questi casi le strutture corticali non hanno influenza su quelle sottocorticali come l’amigdala e l’organismo non permette una regolazione top-down. Inoltre, l’orientamento verso l’esperienza del qui e ora stimola proprio la presentificazione (Janet, 1928), vale a dire l’azione mentale di essere saldamente radicati nel presente, integrando il proprio passato, presente e futuro. Il lavoro clinico con questa tipologia di pazienti non può dunque prescindere dal prendere in considerazione la dimensione del corpo, soprattutto per ciò che concerne le connessioni con gli effetti dei traumi.

Per i motivi sopra citati si potrebbe pensare di poter inserire all’interno del percorso riabilitativo delle pazienti affette da disturbo da alimentazione incontrollata una sessione di 10 incontri di yoga al fine di aumentare e migliorare il già efficace trattamento CBT.

Gli zuccheri? Una droga!

Guardatevi intorno, quanto zucchero trovate? Vi siete mai accorti di essere costantemente bombardati da cibi pieni di zucchero! E lo sapevate che mangiare troppo zucchero fa male? 

Ebbene, sì: lo zucchero fa male, è risaputo, sia alla forma fisica sia alla psiche. Pare si possano avere notevoli ripercussioni negative sia sulle funzioni cognitive sia sul benessere psicologico. In che modo? Scopriamolo insieme!

Le sostanze dolcificanti, chiamate anche glucosio, fruttosio, melata e sciroppo di mais, si trovano nel 75% dei cibi confezionati presenti nei supermercati. E nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandi di fare in modo che solo il 5% delle calorie assimilate quotidianamente provenga dagli zuccheri, in una tipica dieta il 13% delle calorie assunte ogni giorno proviene dai dolcificanti. Caspita, quanto zucchero!

Guardiamo più da vicino cosa succede. Gli zuccheri attivano le papille gustative presenti sulla lingua, esattamente come ogni altro alimento, ma subito dopo il segnale è inviato in una parte del cervello particolare: quella imputata alla ricompensa. In questo modo si attiva la produzione di una serie di ormoni associati alla sensazioni di benessere, uno fra tutti la dopamina che innesca un meccanismo a cascata di perdita di controllo sull’ingestione di zucchero portando la persona a continuare a cercare e ricercare ancora l’ennesima dose, di zucchero ovviamente.

Chiaramente, il problema nasce quando si stimola questo meccanismo costantemente, poiché solo in questo caso possono cominciare i problemi.
Attivare questo sistema di ricompensa in maniera incontrollata provoca una serie di infelici conseguenze: perdita di controllo, desiderio irresistibile di assumere sostanze zuccherine e l’incremento della tolleranza verso gli zuccheri stessi. Praticamente una catena di eventi simili a quelli delle droghe!
Insomma, guardiamo nel dettaglio cosa succede e “gustiamoci” la visione di questo video.
“Buona visione!”

 

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Ruminazione: basta un poco di zucchero e la pillola va giù? 

Sogno, mito, poesia. Tre saggi di Otto Rank – Recensione

I saggi racchiusi nel libro Sogno, mito, poesia risalgono al periodo di più intensa vicinanza e di massima collaborazione tra Freud e Otto Rank. Il primo dei tre, Un sogno che si interpreta da solo, risale al 1910 (quando ancora lo stesso Adler fa parte del gruppo viennese!); gli altri due, cioè Sogno e mito e Sogno e poesia vedono invece la luce nel 1914 (l’anno in cui Jung rassegna le dimissioni dall’Associazione Internazionale di Psicoanalisi).

Otto Rank: il legame con Freud

Otto Rank rappresenta una delle figure chiave della storia della psicoanalisi. Entrato in contatto con Freud nel 1906, inizia subito a partecipare alle «serate del mercoledì» cioè alle riunioni che Freud teneva ogni settimana a casa sua con i primi membri del nascente Movimento psicoanalitico (erano iniziate nel 1902 con quattro presenti più Freud stesso). Ben presto delle riunioni viene nominato segretario verbalizzante, compito che svolgerà con impegno e perizia per diversi anni. A lui si devono dunque le minute dei Dibattiti della Società Psicoanalitica di Vienna (Nunberg e Federn, 1962), che rappresentano un documento fondamentale per gli storici della psicoanalisi. Considerato da Freud uno dei suoi collaboratori più creativi, Otto Rank entra nel famoso «Comitato segreto» (destinato a custodire l’ortodossia della psicoanalisi) fin dalla sua creazione, nel 1912.

Gli altri componenti, oltre allo stesso Freud, sono Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Ernest Jones. Tra loro, Otto Rank è l’unico non laureato in medicina e si può ben affermare che, insieme ad Hanns Sachs, egli rappresenti il più importante esponente laico (cioè appunto non medico) del movimento psicoanalitico, per il primo ventennio della sua storia (in seguito, probabilmente, la palma sarebbe toccata ad Anna Freud e Melanie Klein, le vere pioniere dell’analisi infantile). Con Sachs, del resto, Otto Rank condiresse dalla fondazione Imago – Rivista per l’applicazione della psicoanalisi alle scienze dello spirito, la seconda rivista dedicata integralmente alla psicoanalisi (sarebbe però sopravvissuta allo Jahrbuch) e la prima incentrata sul rapporto tra psicoanalisi e cultura.

Otto Rank: l’allontanamento dal Movimento psicoanalitico

Il legame personale con Freud, tuttavia, non risparmia a Rank l’allontanamento dal Movimento psicoanalitico in seguito alla svolta teorica sancita con la pubblicazione di Il trauma della nascita (Rank, 1923). Qui Rank afferma che la maggior parte dei problemi nevrotici debba essere ricondotta, appunto, al trauma che l’infante affronta nel venire al mondo e che lo scopo fondamentale della terapia debba consistere nel rievocare catarticamente tale momento.

Recensendo il successivo libro sulla tecnica psicoanalitica (Rank, 1926), Ferenczi – destinato peraltro a cadere a sua volta in disgrazia – così si esprime: [blockquote style=”1″]L’autore, con l’acume che ben conosciamo, riesce a compiere un lavoro interpretativo che sembrerebbe talora impossibile, ma per far ciò deve ricorrere a interpretazioni di una violenza finora sconosciuta, la cui unilateralità supera tutto ciò che sotto questo riguardo hanno potuto fare Jung e Adler[/blockquote] (Ferenczi, 1926, p. 379).

Sono parole che, soprattutto nell’allusione finale ai due più noti eretici della psicoanalisi, suggeriscono anatema e scomunica. Dopo qualche tentennamento e numerose discussioni interlocutorie con Rank, in effetti, Freud decide di prendere a sua volta ufficialmente posizione contro la novità teorica in Inibizione, sintomo, angoscia. Freud ammette che [blockquote style=”1″]la tesi di Rank all’inizio era anche la mia[/blockquote] (Freud, 1926, p. 307) e concede: [blockquote style=”1″]Rank rimane sul terreno della psicoanalisi, di cui prosegue le linee di pensiero, e bisogna ammettere che il suo è uno sforzo legittimo per risolvere i problemi analitici [/blockquote] (Freud, 1926, p. 298).

Tuttavia sembra proprio inappellabile la sentenza per cui [blockquote style=”1″]questa teoria si libra nelle nuvole anziché appoggiarsi su solide osservazioni[/blockquote] (Freud, 1926, p. 299). Il 12 aprile 1926 Freud e Rank si incontrano per l’ultima volta e quest’ultimo regala al maestro, con gesto assai simbolico, un’edizione completa delle opere di Nietzsche, che Freud porterà con sé a Londra nel 1938. Negli ultimi anni Rank, trasferitosi prima a Parigi e poi a New York (dove muore nel 1939), continua ad esercitare la professione di analista ma da outsider.

I saggi Sogno, mito, poesia

I saggi racchiusi nel libro Sogno, mito, poesia risalgono però al periodo di più intensa vicinanza e di massima collaborazione tra Freud e Rank. Il primo dei tre, Un sogno che si interpreta da solo, risale al 1910 (quando ancora lo stesso Adler fa parte del gruppo viennese!); gli altri due, cioè Sogno e mito e Sogno e poesia vedono invece la luce nel 1914 (l’anno in cui Jung rassegna le dimissioni dall’Associazione Internazionale di Psicoanalisi). La loro importanza storica è difficilmente sopravvalutabile, perché strettamente legata alla storia della revisione della più famosa opera di Freud, cioè L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899).

Freud, in effetti, meditava di riscrivere integralmente la sua opera capitale, e di compiere tale lavoro a quattro mani proprio con Otto Rank, che già aveva suggerito svariati intarsi nell’edizione del 1909. L’intenzione freudiana è testimoniata in una lettera a Jung datata 17/2/1911 (McGuire, 1974, pp. 423 e ss.). In effetti, la teoria delle pulsioni elaborata nei Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud, 1905) si scostava in modo deciso dal modello dell’Interpretazione dei sogni basato sull’idea di desiderio. Alcuni ritengono si tratti di schemi esplicativi dell’inconscio sostanzialmente incompatibili tra loro (Greenberg e Mitchell, 1983). Se Freud non realizzò il suo progetto, ed anzi l’Interpretazione dei sogni conobbe numerose altre edizioni (sia pure aumentando di mole), si deve all’opposizione di Franz Deuticke, l’editore di riferimento del movimento psicoanalitico. Questi era (non a torto) convinto che ritirare dalla circolazione un’opera ponderosa apparsa pochi anni prima per sostituirla con un nuovo libro poteva comportare il rischio di confondere parecchio anche i lettori ben disposti (McGuire, 1974, p. 453). L’intenzione di coinvolgere Rank rimase tuttavia viva e se il saggio Un sogno, che interpreta se stesso, costituisce solo un’integrazione virtuale all’edizione del 1909, i due successivi videro la luce all’interno dell’Interpretazione dei sogni apparsa nel 1914 e vi rimangono anche nell’edizione del 1922. Vengono invece espunti a partire dall’edizione del 1930, quando i rapporti tra i due sono definitivamente compromessi. Nel frattempo Freud (1908) aveva a sua volta già contribuito con un proprio scritto a un’opera pensata da Rank, cioè Il mito della nascita dell’eroe (Rank, 1909); e una larga, diretta ispirazione aveva tratto dal rankiano Il doppio (Rank, 1914) nel concepire Il perturbante (Freud, 1919), saggio breve ma celeberrimo.

Sogno, mito, poesia è curato da Francesco Marchioro, studioso da tempo impegnato nella diffusione delle opere di Rank in Italia, avendone proposto edizioni nella nostra lingua da più di trent’anni. Oltre ai tre saggi di Rank, il volume comprende una prefazione, una breve ma densa biografia di Rank e un’utile bibliografia rankiana firmate dallo stesso Marchioro; uno scritto finale dello psicoanalista Andrea Scardovi dal titolo Gli psicoanalisti sono capaci di sognare? Una nota sulla ‘stagione primaria’ della psicoanalisi, interessante excursus tra filosofia, clinica e scienza.

 

I miei genitori non hanno figli (2015) di M. Marsullo – Recensione

I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

 

– Allora, hai deciso, sì?

– Eh?

– L’università, allora, l’hai decisa? Hai diciotto anni, sei grande, ormai.

L’esordio del libro ‘I miei genitori non hanno figli‘ di Marco Marsullo, è quello di una brevissima conversazione tra madre e figlio. Una domanda che all’apparenza sembrerebbe ammettere risposte aperte ma che segretamente (poi neanche così tanto) cela il bisogno di una risposta che vorrebbe vedere appagato l’io genitoriale: mamma e papà sarebbero compiaciuti all’idea di sentire risposte determinate da un figlio adolescente ma risoluto che sentenzia il proprio giudizio universitario. I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

L’autore sin da subito ci porta con sé, ci apre le porte della sua casa. Ci fa osservare, senza giudizio, le dinamiche emotive di una coppia scoppiata, quella dei suoi genitori, di un legame familiare confuso e disorientato. La parola è data all’adolescenza e a quell’adolescente, figlio di separati (così si definisce l’autore) che ha varcato la maturità degli anni anagrafici ma che si sente ancora sulla strada della crescita, quella fatta di scelte che fanno maturare e rendono coraggiosi.

E la scelta universitaria fa parte di quella categoria di decisioni esclusive e tortuose, impegnative, dal sapore di assoluto perché sembrano per sempre. Perché in fondo ogni scelta ha a che fare con la storia, con le esperienze che ogni persona ha vissuto e vive, con il modo con cui ci si approccia ai bivi, agli incroci di cui è fatta la vita. Ogni scelta ha a che fare con il modo con cui la nostra famiglia, i nostri genitori primi fra tutti, ci hanno supportato e valorizzato, con il modo con cui ci hanno fatto sentire capaci di poter scegliere, di assumerci la responsabilità delle azioni, di correre il rischio che spesso ne deriva. Ma soprattutto ogni scelta ha a che fare con la dose di fiducia che i nostri genitori hanno voluto regalarci, dono di speranza e crescita.

E dalla trafelata crociata verso la conquista dei primi esami di legge, nel testo si alternano i flashback della separazione dei genitori del protagonista, finita non nel migliore dei modi, a colpi di discussioni rumorose avvenute di sera in cucina, di avvocati che si sfidano, per colpa di una ‘quella là’ che si è messa in mezzo. Confusione, tristezza, rabbia, nostalgia, solitudine, è un testo emotivamente ricco, coinvolgente.

Noi figli dei separati siamo come ostaggi. Merce di scambio, casi diplomatici, dividiamo l’opinione pubblica. Solo che non c’è una nazione con il fiato sospeso che affanna per la nostra sorte. Ci siamo solo noi, e basta.

Parole legittime e provocatorie da parte di un figlio di separati. Ed è chiaro che questo status non protegge e non fa sentire così stabili. In aggiunta c’è la pungente descrizione di un padre evitante in termini di attenzioni e considerazione perché troppo preso da diktat e luoghi comuni che risultano stucchevoli, troppo lontani dalla realtà, spesso mutevole, di un adolescente in corsa.

Un rapporto quello tra padre e figlio, caratterizzato da sermoni sterili, paternali che suonano di superficialità. ‘Abbiamo dovuto proprio metterci d’impegno per non riconoscerci nei pensieri’ la descrizione del loro rapporto, senza parafrasare le parole dell’autore.

Una madre ancora troppo arrabbiata, che fa fatica a fare pace con la vita ma soprattutto una donna ferita. Lacerata da ricordi che stentano a trovare una collocazione in una vita ricca di attività (yoga, pilates, etc) che non bastano per far fronte ad un dolore, quello della separazione, mai metabolizzato. Una madre che mette in atto dei tentativi maldestri di coinvolgere o forse di tenere a sé il frutto di un amore finito, come la creazione di un gruppo su whatsapp (chiamato Family), i cui componenti sono madre e figlio (forse un numero un po’ piccolo per parlare di gruppo che abbia caratteristiche familiari?).

Perché è un po’ così, dal titolo stesso, i genitori non hanno figli se il confronto è sempre con i figli dei propri colleghi che in qualsiasi altra attività risultano più tenaci, escono vittoriosi da qualsiasi battaglia che ingaggiano. I genitori non hanno figli se non c’è un ponte comunicativo, se non c’è empatia che fa da cornice nei rapporti genitori-figli, se non c’è condivisone e spazio di ascolto.

Amedeo Modigliani: la biografia e la sua arte

Amedeo Modigliani era un grande disegnatore, riusciva, con un tratto volumetrico e bidimensionale, a catturare la sensibilità e la psicologia delle persone; coloro che gli fecero da soggetto per i suoi ritratti ebbero a dire che farsi dipingere da Modigliani era come “farsi spogliare l’anima”. Ed infatti i ritratti di Modì esprimono il desiderio dell’artista di penetrare la natura intima dell’essere umano, anticipando l’interesse dei surrealisti per l’inconscio e le sue manifestazioni.

Amedeo Modigliani: biografia

“Sono Modigliani, ebreo, cinque franchi per un ritratto”: così si presentava l’artista livornese ai vicini di tavolo, quando, seduto in qualche bar o bistrot parigino, offriva la propria arte in cambio di pochi soldi o di un paio di bicchieri di vino.

Amedeo Modigliani (1884-1920), artista dotato di grande talento e di profonda energia espressiva, condusse una vita turbolenta, tra la pittura, la droga, l’alcool e le donne. Era un uomo profondamente segnato nel fisico dalla malattia: nell’adolescenza contrasse una febbre tifoide e fu affetto da una forma grave di tubercolosi, che condizionò la sua intera esistenza, costringendolo persino ad abbandonare la scultura, a causa delle polveri che vengono generate durante la lavorazione. La sua vita dissoluta fu profondamente legata alla città di Parigi, dove l’artista livornese si trasferì nel 1906 e dove lavorò intensamente. Pare che dipingesse molto velocemente: gli bastavano un paio di sedute per completare una di quelle figure dal collo lungo e flessuoso, dal corpo sinuoso e dagli occhi sottili, che rendono immediatamente riconoscibili i ritratti di Modì, come fu soprannominato l’artista.

Modigliani amava dipingere le persone, soprattutto le donne, che ritraeva anche in posizioni molto sensuali; le sue nudità, esibite per la prima volta a Parigi nel 1917, fecero chiudere, dopo poche ore dall’apertura e con un intervento del capo della polizia, la sua prima mostra personale. Modì era l’artista degli eccessi e a Parigi alcool e droga divennero suoi compagni inseparabili e la sua salute, già precaria, fu definitivamente compromessa. Non riuscì a convincere né critici, né collezionisti, versando in pessime condizioni economiche. La moglie, la pittrice Jeanne Hébuterne, gli restò accanto fino alla fine; il loro amore non fu scalfito né dalla povertà, né dalla malattia di lui. Un’altra persona rimase accanto a Modigliani fino all’ultimo, sostenendone l’avventura artistica ed esistenziale: fu il poeta e mercante d’arte polacco Léopold Zborowski, che viveva in un albergo parigino insieme alla moglie e all’amica di lei, Lunia Czechowska, con cui Amedeo instaurò un rapporto di intima amicizia. Di Lunia ci sono pervenuti quattordici splendidi ritratti, che testimoniano il profondo legame e l’attenzione intima di Modigliani verso quella giovane donna.

Amedeo Modigliani: la sua arte

Modigliani era un grande disegnatore, riusciva, con un tratto volumetrico e bidimensionale, a catturare la sensibilità e la psicologia delle persone; coloro che gli fecero da soggetto per i suoi ritratti ebbero a dire che farsi dipingere da Modigliani era come “farsi spogliare l’anima”. Ed infatti i ritratti di Modì esprimono il desiderio dell’artista di penetrare la natura intima dell’essere umano, anticipando l’interesse dei surrealisti per l’inconscio e le sue manifestazioni. Nei nudi è evidente il coinvolgimento emotivo del pittore, che riflette nelle modelle le sue emozioni, non solo artistiche, ma anche e soprattutto appassionate e carnali, come in Nudo sdraiato, a braccia aperte (detto anche Nudo rosso) del 1917, oppure in Nudo sdraiato (1917) o in Nudo disteso (1919): Modigliani tratteggia i corpi sinuosi di donne completamente nude, adagiate in posa provocante, su un divano. Sono le donne con cui l’artista tentava di soddisfare la sua irrefrenabile lussuria, tra ubriacature ed esperimenti con le droghe, che Modì considerava necessari anestetici in grado di lenire i dolori del corpo e dell’anima.

Modigliani ritraeva donne con colli lunghissimi e delicati e con gli occhi “vuoti” come quelli delle statue (si pensi, per esempio, a Ritratto di Jean Hébuterne (1917), Ritratto di Lunia Czechowska (1919), oppure a Donna con il ventaglio , del 1919). Se facciamo una lettura psicologica di queste opere d’arte, emerge un conflitto tra gli impulsi fisici e la parte intellettuale e razionale dell’individuo: il collo, infatti, è l’organo che divide la testa dal corpo. Inoltre, le teste rappresentate da Amedeo Modigliani sono spesso storte e deformate: la testa è l’organo dell’autocontrollo e, quando viene ingigantita e deformata, sta a significare la perdita di autocontrollo.

Gli occhi “vuoti” come quelli di una statua e semichiusi, invece, sono occhi che sembrano guardare il mondo senza realmente vederlo e, attraverso di essi, l’artista rappresenta la distanza che percepisce tra il proprio Io e la realtà esterna. Ed infatti la maggior parte dei ritratti di Modigliani emana un profondo senso di solitudine, con quegli spogli sfondi su cui si stagliano. La scelta stessa di dipingere esclusivamente figure umane è un indizio del terrore che Modigliani doveva avere nei confronti della solitudine, ma fu anche una vera e propria anomalia per la sua epoca, quando dipingere esclusivamente ritratti era davvero molto insolito.

Il “mostro ubriaco” – come venne definito Modigliani dal poeta russo Nikolaj Gumiliev, morì a soli 35 anni, stroncato da una meningite tubercolare. L’artista livornese, che in vita non ebbe né fama, né successo, nè danaro, fu, dopo la sua morte, a lungo ignorato anche dagli storici dell’arte, ma nel novembre 2015 il suo Nudo sdraiato (1917) ha reso giustizia al suo talento: l’opera, infatti, in un’asta da Christie’s a New York, è stato aggiudicato, dopo pochi minuti di gara a colpi di rilanci, a oltre 170 milioni di dollari (oltre 157 milioni di euro).

Il consumo di droghe può ostacolare il giudizio morale

I consumatori regolari di cocaina e metanfetamine possono avere difficoltà a discriminare tra comportamento giusto e comportamento sbagliato, probabilmente a causa del danneggiamento di alcune regioni cerebrali predisposte all’elaborazione morale e al controllo emotivo, provocato dal consumo abituale di suddette droghe. Questo è quanto emerge da una nuova ricerca condotta, da Samantha Fede e Kent Kiehl presso l’Università del New Mexico, tra una campione di detenuti.

 

Abuso di sostanze e compromissione del giudizio morale

I risultati dello studio, finanziato dal National Institute on Drug Abuse, sono stati pubblicati sulla rivista Psychopharmacology.
Negli Stati Uniti circa il 75% della popolazione carceraria ha problemi di abuso di sostanze, per cui esisterebbe un forte legame tra consumo di droghe e comportamento criminale.
La ricerca ha dimostrato che chi assumeva con costanza cocaina o metanfetamine, aveva difficoltà ad identificare le emozioni di altre persone, ed a dimostrare empatia. Questi due aspetti giocano un ruolo importante nel processo di decisione morale. Altri studi condotti in passato avevano già confermato le alterazioni strutturali e funzionali a livello cerebrale, in particolare le regioni frontali e prefrontali tra i consumatori di droghe stimolanti.

La ricerca

I ricercatori hanno registrato la storia di vita di 131 consumatori di cocaina e metanfetamine e 80 non consumatori, incarcerati nelle prigioni del New Mexico e Wisconsin. L’attività cerebrale dei detenuti è stata scansionata durante la somministrazione di un compito decisionale in cui dovevano essere valutate delle asserzioni, giudicandole moralmente giuste o moralmente sbagliate.

L’indagine ha rivelato che, gli abituali consumatori di droghe manifestavano un’attività neurale alterata nei lobi frontali e regioni limbiche del cervello durante l’esecuzione del compito. Nello specifico i consumatori abituali, hanno mostrato una ridotta attività dell’amigdala, regione cerebrale che aiuta a regolare e comprendere l’emotività: più alto era il consumo di droghe, minore è risultata l’attività dell’amigdala. Inoltre anche l’attività della corteccia cingolata anteriore è risultata compromessa.

[blockquote style=”1″]Questo è il primo studio a suggerire che consumatori abituali di cocaina e metanfetamine sviluppano alterazioni nei sistemi neurali coinvolti nel processamento dei giudizi morali. Questi primi risultati, che dovranno essere confermati da ulteriori indagini, rappresentano una prima promettente evidenza, utile alla comprensione del deficit frontale e limbico tra i consumatori di droghe stimolanti[/blockquote] dice Samantha Fede.

Il team di ricerca riconosce comunque, che le persone che sono inclini ad un uso regolare di stimolanti potrebbero già avere problemi con l’elaborazione morale ancor prima di iniziare a usare droghe, come la cocaina.
Tuttavia gli effetti dell’uso prolungato sulla corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventromediale, un’altra regione implicata nel processo decisionale morale, indicano che la metanfetamina e cocaina possono avere un gravissimo impatto sul cervello.

La falsa credenza della relazione tra stagione di nascita e disturbi del comportamento alimentare

Benedetta Frascaroli, Maddalena De Matteis OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Non si può generalizzare affermando che la stagione di nascita sia correlata e tanto meno predittiva di un disturbo alimentare.
Alla luce di questi studi, è pertanto, possibile affermare che le conclusioni a cui giungono sono contrastanti e non permettono di approdare ad un risultato generale e univoco.

C’è chi progetta nei minimi dettagli la nascita del proprio bebè, calcolando perfino quando rimanere incinta, e chi, invece, affronta il parto con più fatalismo. Meglio nascere in primavera oppure durante la stagione autunnale? O ancora, meglio il tepore estivo o il fresco invernale per far venire al mondo il pargolo? Se è vero che la data di nascita non determina il destino degli individui, sembra, però, che possa avere un’influenza sulle malattie che li colpiranno.

Un vasto studio della Columbia University di New York (M. R. Boland, Z. Shahn , D. Madigan, G. Hripcsak, N. P. Tatonetti, 2005) ha identificato notevoli coincidenze tra il mese dell’anno in cui si nasce e la predisposizione a una serie di malattie. Pubblicato sul Journal of American Medical Informatics Association, lo studio ha usato un algoritmo che ha calcolato le coincidenze tra le nascite di 1.7 milioni di persone in un arco di 28 anni e la presenza di quasi 1.700 malattie.

Nicholas Tatonetti, ricercatore presso il Columbia University Medical Center, afferma che non si tratta di astrologia: [blockquote style=”1″]la stagionalità veicola i fattori ambientali variabili presenti al momento della nascita.[/blockquote]
Dai risultati dello studio, le notizie più confortanti vengono appunto per i nati nei mesi da maggio ad agosto: costoro avrebbero la più bassa tendenza ad ogni tipo di patologia. Mentre ben meno fortunati sono coloro i quali hanno compleanni ottobrini: i nati in ottobre soffrirebbero la salute più fragile di tutto il calendario, con una marcata tendenza a patologie mentali come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Per i nati a marzo invece i rischi appaiono legati soprattutto a malattie cardiovascolari, mentre chi ha il compleanno a dicembre sarebbe colpito da disturbi respiratori con più frequenza.

Certo, i meccanismi alla base di questo fenomeno sono poco conosciuti. Cambiamenti nella dieta e ondate annuali di infezioni potrebbero influenzare la crescita dello sviluppo del bambino, con un effetto persistente sulla sua salute lungo i decenni successivi. Inoltre, c’è la vitamina D, che viene prodotta quando la pelle è esposta al sole. In particolare, sembra che giochi un ruolo importante quanto sole la mamma prenda durante la gravidanza. Il sole innesca la produzione di vitamina D, e se preso nei primi mesi di gravidanza, avrebbe effetti positivi sulla salute fisica e mentale del nascituro.

Ma queste ipotesi valgono anche per i disturbi alimentari? In realtà, per quanto banale possa essere la correlazione, molti ricercatori, fin dagli anni ’90 hanno cercato di trovare una spiegazione a questa curiosa correlazione.
Esistono, però, pochi studi che si sono occupati dell’argomento, utilizzando metodi e strumenti differenti, che hanno portato a diverse e, talvolta contrastanti, conclusioni. Alcuni sostengono l’ipotesi che le persone che nascono nei primi sei mesi dell’anno siano più soggette a sviluppare un disturbo del comportamento alimentare. Vediamo quali.

Uno studio condotto in Inghilterra (Rezaul et al., 1996) ha preso in esame la data di nascita di un campione di 1939 pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare, ottenuto dall’archivio dell’unità DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) del Maudsley Hospital, a Londra, dei precedenti 14 anni, senza distinguere le categorie diagnostiche in cui si suddividono i disturbi alimentari. Il campione clinico è stato analizzato insieme ad un gruppo di controllo, appartenente alla popolazione generale, ed ottenuto attraverso l’ufficio anagrafe del Regno Unito. L’analisi dei dati è stata condotta tramite il software statistico SPSS ed il test per la stagionalità di Edwards (Edwards, 1961). I risultati hanno evidenziato una variazione statisticamente significativa della stagione di nascita, con un picco in maggio, all’interno del campione clinico. Tuttavia non si sono evidenziate differenze statisticamente significative nella stagione di nascita tra i soggetti affetti da disturbi alimentari e la popolazione generale. Unica eccezione va fatta per i soggetti più giovani (nati dopo il 1963) che hanno un andamento opposto e con differenze significative tra i diversi gruppi: il campione clinico ha un picco di nascite in marzo ed un ciclo stagionale di nascite maggiore nei primi 4 mesi dell’anno, mentre nel gruppo di controllo avviene l’opposto, con picco di nascite raggiunto in luglio.

Uno studio, condotto sempre in Inghilterra nel 2000 (Morgan et al.), è arrivato ad una conclusione in parte contrastante a quella precedente. In questo caso il campione clinico (935 soggetti), con diagnosi di bulimia nervosa effettuata seguendo i criteri del DSM-IV, è stato ottenuto dall’archivio dell’unità per il trattamento della bulimia nervosa del St. George’s Hospital, a Londra. I soggetti sono stati suddivisi tra quelli nati prima del 1963 (389) e quelli nati successivamente (546), con l’intento di comparare lo studio a quello precedente. Sono stati inoltre individuati i soggetti con una precedente storia di anoressia nervosa, distinguendoli in uno nuovo gruppo ed assegnando loro il nominativo di bulimia di II tipo (227). Il gruppo di controllo è stato ottenuto grazie ai dati presenti nell’ufficio anagrafe del Regno Unito. L’analisi statistica è stata effettuata tramite il software statistico SPSS ed il test per la stagionalità di Edwards (Edwards, 1961). I risultati hanno evidenziato un andamento statisticamente significativo delle nascite nel secondo semestre dell’anno, all’interno del gruppo di pazienti più vecchi, nati prima del 1963, e del gruppo di controllo, con un picco in luglio. All’interno del gruppo bulimia di tipo II, invece, si rileva l’andamento opposto, simile a quello evidenziato dallo studio precedente, con picco di nascite a marzo. Non si sono, invece, evidenziate differenze statisticamente significative tra i pazienti più giovani e la popolazione generale.

Possiamo quindi ancora affermare che esiste una correlazione tra la stagione di nascita e la presenza di disturbi del comportamento alimentare? E se si, in che misura? Quali sono le cause? Le ipotesi sono molteplici e ancora in fase di osservazione.
Sempre negli stessi anni, un altro studio inglese (Waller et al., 2001) si è posto come obiettivo quello di indagare la relazione esistente, all’interno di una popolazione non clinica, tra le modalità alimentari restrittive e la nascita nei mesi più caldi dell’anno, ipotizzando che un possibile fattore co-occorrente potesse essere proprio la temperatura elevata.

Il campione è composto da 117 adolescenti di genere femminile, volontarie, nate e concepite nelle aree metropolitane del Regno Unito in cui erano disponibili i dati meteorologici. Le ragazzine sono state reclutate in occasione di una visita scolastica alla facoltà di psicologia. Le partecipanti hanno compilato il test per i disturbi alimentari, EDI (Eating Disorder Inventory), e fornito i dati di nascita, peso e altezza per stilare l’indice di massa corporea (IMC). I risultati hanno confermato una maggior prevalenza di comportamenti alimentari restrittivi in donne che sono nate nei mesi più caldi dell’anno (maggio-agosto) e, parallelamente, un collegamento tra tali comportamenti e la temperatura ambientale alla nascita, ottenuta grazie alle registrazioni meteorologiche nazionali.

Con l’intento di replicare questo studio, un gruppo di ricercatori americani (Munn M. A., Klump K. L., 2003), hanno analizzato l’esistenza di una correlazione tra la stagione di nascita e la presenza di un qualsiasi disturbo alimentare, all’interno di un campione femminile di un college del Michigan.
I risultati, tuttavia, non dimostrano variazioni significative in tal senso. Secondo questo studio dunque, non esiste alcuna relazione tra la stagione di nascita e la presenza o meno di un disturbo alimentare, all’interno di una popolazione non clinica. Questi risultati, sono pertanto contrastanti con quelli di Rezaul (1996).

Questo indica che non si può generalizzare affermando che la stagione di nascita sia correlata e tanto meno predittiva di un disturbo alimentare.
Alla luce di questi studi, è pertanto, possibile affermare che le conclusioni a cui giungono sono contrastanti e non permettono di approdare ad un risultato generale e univoco.
Nel corso degli anni, però, le ricerche su questo fronte sono continuate.

Brewerton et al. nel 2012 hanno ipotizzato che le persone che manifestano sintomi di tipo bulimico possano essere nate prevalentemente in autunno, mentre quelle che presentano sintomi di tipo anoressico (restrittivi) possano seguire un andamento opposto. Il campione è composto da 3006 donne adulte che hanno risposto ad un’intervista telefonica strutturata in cui si richiedevano i dati di nascita e si effettuava uno screening per la diagnosi di bulimia nervosa ed altri disturbi psichiatrici. Le analisi statistiche sono state condotte tramite il software SPSS. I risultati hanno evidenziato un andamento significativo di prevalenza di nascite nei mesi più caldi dell’anno, estate e autunno, nelle donne che manifestano sintomi bulimici, con picco massimo in autunno ed il picco minimo (minor nascite) in primavera, evidenziando una relazione significativa tra la stagione di nascita e la presenza di sintomi alimentari di tipo bulimico (all’interno delle categorie diagnostiche della Bulimia Nervosa, Binge Eating e Purging).

A questo punto c’è da chiedersi cosa succede invece in quei paesi, come l’ Australia, dove le stagioni sono completamente invertite?
Una collaborazione inglese ed australiana ha provato a mettere a confronto i due Paesi: i risultati hanno rilevato come la presenza di disturbi alimentari sia correlata con la temperatura ambientale nel momento del concepimento piuttosto che con una differenza stagionale alla nascita (Willoughby K., Watkins B., Beumont P., Maguire S., Lask B., Waller G., 2002).

Pertanto, questo studio non fornisce supporto a quelli che affermano che i comportamenti restrittivi siano tipici di individui nati tra maggio ed agosto e quelli bulimici tra l’estate e l’autunno, anzi, evidenzia un possibile coinvolgimento della temperatura ambientale al momento del concepimento.
Soffermiamoci, ora, a riflettere sulle metodologie utilizzate dalle ricerche condotte finora.
Molti di questi studi presentano carenze metodologiche che dovrebbero essere colmate e superate (Lask B., Willoughby K., 2008). Sebbene vengano analizzati campioni piuttosto ampi, come nello studio di Rezaul et al. del 1996, i soggetti (1939) non sono stati distinti in classi diagnostiche, ed i dati utilizzati non sono rappresentativi della popolazione attuale, in quanto ricavati da un database di 14 anni prima. Inoltre, come anche per lo studio di Morgan et al. (2000), i risultati ottenuti non permettono di confrontare i soggetti clinici con la popolazione generale. Non è possibile, quindi, estendere i dati ad un campione più generale.

Molti di questi studi rimangono delle mosche bianche, in quanto i loro dati non sono stati replicati, e quindi confermati. Lo studio di Waller et al. (2001) ne è l’esempio. I ricercatori hanno affermato l’esistenza di una maggior prevalenza di comportamenti alimentari restrittivi in donne che sono nate nei mesi più caldi dell’anno (maggio-agosto) e, quindi, un collegamento tra tali comportamenti e la temperatura ambientale alla nascita. Tali dati sono stati messi in dubbio da Munn et al. (2003) secondo il quale non esiste alcuna relazione tra la stagione di nascita e la presenza o meno di un disturbo alimentare.

In conclusione, possiamo affermare che il mese di nascita o di concepimento influenzi lo sviluppo di un disturbo alimentare? Nonostante le ricerche condotte nel corso degli anni, i dati presentati non sono replicabili ed il numero di studi effettuati in questo ambito rimane tutt’ora esiguo.
Pertanto, possiamo affermare che la stagione di nascita non sia assolutamente predittiva dello sviluppo di un disturbo alimentare. In particolare, se la questione rimane controversa nel campo dell’anoressia nervosa, lo è ancora di più per quanto riguarda la bulimia nervosa, dove gli studi sono scarsi e contrastanti tra di loro.
Possiamo, quindi, solo ipotizzare che il mese di nascita, insieme a numerosi altri fattori, come quelli ambientali e genetici, possa veicolare la predisposizione a sviluppare determinate malattie, ma il come ciò avvenga, non è del tutto chiaro e lascia spazio a nuovi approfondimenti e ipotesi.

“Sons of Anarchy “ di Kurt Sutter (2008-2014) – Psicologia & TV Series

In Sons of Anarchy c’è tutto quello che rende una serie televisiva indimenticabile: dalla colonna sonora, agli intrighi famigliari e amorosi; le morti, le nascite, le lacrime(tante forse troppe), le risate.

Sette anni e sette stagioni; sarebbe assurdo cercare di riassumere in poche righe questa appassionante quanto straziante serie televisiva. Riassumerla, sarebbe dannoso per chi, ancora, non avesse avuto modo di vederla, dati gli innumerevoli personaggi e colpi di scena che la caratterizzano. Per chi invece si ritiene sensibile, moralista o facilmente impressionabile, è sconsigliata vivamente.

Ovviamente, come ogni telefilm di successo, le argomentazioni psicologiche e le riflessioni sulle personalità dei personaggi principali sono sorprendenti; regna fra tutte il conflitto tra il bene e il male, quel labile confine, a volte sottile, a volte fortemente marcato, dove si trova imprigionato il protagonista indiscusso della serie, Jax Teller, e che lo accompagnerà per tutte le stagioni della serie.

Jax Teller nasce “cattivo”, da una famiglia criminale, e per quanto provi a rendersi una persona migliore, ormai sono così profondamente radicati in lui quegli ideali di famiglia, violenza, anarchia e prevaricazione, che fanno apparire la mossa giusta da fare sempre come quella sbagliata, e viceversa; ogni qualvolta arriva un punto di svolta, torna sempre indietro e non riesce mai ad andare avanti.

Un’eterna lotta tra amori presenti e passati, genitori e figli, morti e nascituri; temi filosofici non poco complessi, semplificati dall’ambientazione. Il punto di ritrovo del club malavitoso è un’officina specializzata nella riparazione di motociclette, all’occorrenza luogo di festa e bordello, in cui spesso avvengono scontri verbali e fisici tra i personaggi. Il tutto contornato da una colonna sonora veramente d’eccezione, che fa da perfetta cornice alla solennità dei momenti più felici e più tragici della storia.

Figure fondamentali sono i ruoli genitoriali. Mi piacerebbe parlarvi della follia della madre di Jax, in realtà considerata madre di tutti i componenti del club, Gemma Morrow Teller, personaggio totalmente fuori controllo, che amerete ed odierete, cosi da rispettare la coerenza della continua ambivalenza bene-male; mi piacerebbe anche parlarvi del rapporto padre figlio, un argomento che continuamente viene rievocato, da diversi punti di vista. Se il tema filosofico principe è l’ambivalenza amore-odio, il tema psicologico fondamentale qui, è sicuramente l’influenza genitoriale e dei suoi modelli, che si insinuano all’interno del bambino e costituiranno l’adulto e il genitore che diverrà in futuro; mi piacerebbe raccontarvi tantissimo altro, ma non voglio rovinarvi nulla. Buona visione!

The walk: da Philippe Petit ai moderni Urban Skywalkers, tutta questione di novelty seeking

Nel 2015 esce nelle sale ‘The walk‘, film ispirato alla storia di Philippe Petit, il cui messaggio è abbastanza chiaro e diretto: perseguire un sogno senza mai mollare la presa anche quando questo ci mette in pericolo, merito del fenomeno Novelty Seeking.

Guglielmo D’Allocco

 

Era il 1974 quando , funambolo francese trapiantato negli States, realizzò non solo il suo sogno ma anche un’impresa mai tentata prima di allora: attraversare su un filo la distanza tra le due estremità delle Twin Towers a circa 450 metri dal suolo e senza alcuna protezione. Il tutto, ovviamente, fu realizzato nel pieno dell’illegalità, tanto che al termine dell’esibizione Petit fu tratto in arresto per poi essere rilasciato il giorno dopo, non potendo le autorità fare a meno di constatare l’impatto del fenomeno sui media e le pressioni dell’opinione pubblica.

Una pena la scontò però Philippe: esibirsi a scopo di beneficenza per i bambini newyorkesi al Central Park. Nel 2015 esce nelle sale ‘The walk‘, film ispirato alla storia di Philippe Petit, diretto da Robert Zemeckis e magistralmente interpretato dall’attore Joseph Gordon-Levitt e dal premio oscar Ben Kingsley. La trama ripercorre, sostanzialmente, le principali tappe della vita di Petit: il colpo di fulmine che lo porterà ad amare quello che diventerà molto più di un lavoro, l’incontro con Papa Rudy, mentore che gli insegnerà tutti i trucchi del mestiere, con la fidanzata Annie Allix e con i complici che lo aiuteranno a realizzare quella che fino all’ultimo momento sembra avere tutti i connotati di una vera e propria pazzia: camminare su un filo di acciaio sospeso tra i due tetti delle Torri Gemelle di New York.

 

The Walk: da Petit ai moderni skywalkers urbani

L’obiettivo di Philippe diventa quello di ognuno di questi personaggi che, consci dell’altissimo rischio al quale il funambolo espone la sua vita, decidono di andare ben oltre questa scontata e forse banale possibilità: portare a compimento l’impresa significherà essersi spinti oltre e aver realizzato davvero qualcosa di impossibile. Il messaggio del film è abbastanza chiaro e diretto: perseguire un sogno senza mai mollare la presa anche quando tutto sembra convincerci del fatto che siamo destinati a fallire.

Per quanto romanzata, non ho potuto fare a meno di accostare l’esperienza di Petit a quella dei più moderni skywalkers urbani: giovani che sfidano la morte arrampicandosi, senza alcuna protezione, sulle più alte vette dell’architettura urbana (grattacieli, antenne, gru, impalcature) al fine di realizzare video e immagini da diffondere poi sul web. Una moda che nasce qualche anno fa in Russia e che, grazie alla diffusione capillare su internet, si estende velocemente e a macchia d’olio facendo proseliti in tutto il mondo. Basta connettersi a Youtube e digitare tags come ‘urban climbing’ per ritrovarsi dinnanzi ad un repertorio video tanto attraente quanto spaventoso.

 

philippe petit - The walk da Philippe Petit ai moderni Urban Skywalkers, tutta questione di novelty seeking
Philippe Petit

 

Sul filo del Novelty seeking

L’effetto provato guardando alcuni di questi video non è stato molto diverso da quello avvertito guardando le immagini originali relative all’impresa di Petit sospeso tra le torri gemelle. Mi sono chiesto se i due fenomeni possano essere accomunati da una stessa matrice, e in effetti l’unica risposta che sono riuscito a darmi non può che essere questa: novelty seeking.

Per gli addetti ai lavori si tratta di un concetto molto noto, coniato da Roberto Cloninger che, nel 1987, elaborò una teoria che descriveva la personalità come risultante dell’interazione tra carattere e temperamento e includendo quella del novelty seeking tra i tipici tratti temperamentali. Con il suddetto termine si fa riferimento ad una particolare inclinazione dell’individuo a reagire con eccessiva eccitazione a stimoli e situazioni che comportano novità e con tendenza alla continua esplorazione con riduzione nel controllo degli impulsi.

Subito dopo l’arresto, ai microfoni dei giornalisti che chiesero il perché di quella impresa così spericolata Petit rispose:

Non so dirvi il perché…so solo che quando vedo due punti tra i quali tendere il mio cavo devo farlo…è più forte di me.

Questa risposta, in effetti, è un esempio calzante della descrizione di novelty seeking coniata da Cloninger. Non è escluso che sia proprio questa la caratteristica che fa da starter alle centinaia di esperienze rischiose (per quanto affascinanti per chi le guarda comodamente da casa) realizzate da giovanissimi ragazzi in ogni parte del mondo.

Tante sono le domande, al di là della descrizione scientifica del fenomeno, relative a cosa spinga adolescenti o poco più a cercare uno stimolo forte addirittura sulle vette più alte, giocando secondo dopo secondo una delicatissima partita con la morte. Mi chiedo se il brivido più forte sia quello (fisiologico) suscitato dall’aver raggiunto la vetta o quello (razionale) scaturito dal numero crescente di visualizzazioni e commenti all’impresa.

Difficile dirlo, soprattutto quando l’effetto scenico prende il sopravvento sulla domanda relativa al perché, come quella fatta con faccia basita al funambolo francese appena ammanettato. Questi filmati vengono dati in pasto a tutti noi come film, come serie televisive giornaliere e la nostra attenzione, talvolta, non riesce ad andare oltre la straordinaria qualità delle immagini e il brivido provato guardando attraverso una telecamera testimone non solo di un’impresa eccezionale, ma anche di un sempre più labile e ricercato confine tra la vita e la morte.

 

GUARDA IL TRAILER UFFICIALE DI THE WALK:

Il ruolo delle emozioni negli autori di reati sessuali

Autori di reati sessuali: Il ruolo degli stati emotivi ed affettivi nelle cause e nelle conseguenze dell’agire criminale sessuale sta emergendo come fattore importante sia nella analisi teorica che nella ricerca empirica relative all’argomento. Gli studi evidenziano una relazione causale tra il ruolo delle emozioni ed i reati a sfondo sessuale, connessione che influenza direttamente anche i successivi e possibili interventi trattamentali.

Rachele Recanatini, OPEN SCHOOL SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Abusi sessuali e disturbi nella regolazione emotiva

Nella società in cui viviamo, numerosissime sono le violenze sessuali ad opera di sex offenders. Solo in Italia una donna su tre è stata vittima di un tentativo di stupro o di una violenza fisica, spesso ad opera del partner (dati Istat 2008). L’abuso sessuale è considerato uno dei problemi più preoccupanti della società occidentale contemporanea.

I “sex offenders”, o autori di reati sessuali, costituiscono una categoria eterogenea che può essere suddivisa in diverse tipologie, in base a caratteristiche e motivazioni (Zara, 2005); la distinzione più significativa si attua tra stupratori e pedofili (child molester), ma si distinguono anche violenze perpetrate da donne, da giovani adolescenti (jouvenile sex offenders) e molestatori telematici (Robertiello, Terry, 2007). Il DSM-IV-TR considera le parafilie all’interno dei “Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere” (American Psychiatric Association, 2005). In passato si ipotizzava un collegamento tra autori di reati sessuali e disturbi di personalità, in particolare una connessione tra gli abusi sessuali ed il Disturbo Narcisistico di Personalità, il Disturbo di Personalità Antisociale ed il Disturbo Borderline di Personalità.

Ad oggi sappiamo che anche le componenti affettiva ed emotiva svolgono un ruolo importante all’interno del funzionamento e della regolazione dei comportamenti sessualizzati devianti. Diagnosi psicopatologica e comportamento sessuale violento non sempre, infatti, sono co-presenti: un comportamento sessuale aggressivo e deviante può verificarsi anche quando manca una diagnosi psicopatologica. La ricerca evidenzia, ad esempio, come molti dei perpetratori di tali tipi di reati siano stati a loro volta vittime di abusi, creando una sorta di continuità violenta, anche se ciò non deve essere interpretato in maniera lineare come causa-effetto. I fattori predittivi più significativi di problematiche comportamentali precoci sono stati identificati in problemi della condotta, abuso di alcol e sostanze stupefacenti, vissuti di abusi fisici, sessuali e psicologici, esperienze di trascuratezza emotiva, famiglie multiproblematiche ed abusanti (Johnson, Knight, 2000).

A livello emozionale sembra che, pur avendo desiderio di condivisione emotiva e psicologica con gli altri, i sex offenders manchino di quella competenza sociale ed emotiva necessaria per entrare in una relazione costruttiva con altre persone. Attualmente, grazie a numerosi studi scientifici internazionali e nazionali, è stato sottolineato, ad esempio, come una ridotta capacità empatica sia presente nella maggior parte dei sex offenders: la comprensione profonda dei sentimenti e delle cognizioni dell’altro appare limitata in questi soggetti; la considerazione della vittima è assente o comunque diversa dalla propria e, di conseguenza, gli individui che commettono tali gesti spesso manifestano difficoltà nell’assumere il punto di vista e la prospettiva di chi hanno di fronte (Petruccelli, Pedata, 2008).

 

La mancanza di empatia negli autori di reati sessuali

Spesso si parla di empatia e del suo ruolo all’interno dell’offending sessuale; gli autori di reati sessuali, infatti, spesso soffrono di veri e propri deficit nella loro capacità di esperire sentimenti empatici, e questo viene considerato fondamentale nello sviluppo, ma soprattutto nel mantenimento, del loro comportamento deviante. È vero, però, che il concetto di “empatia” è spesso confuso, vago; alcuni ritengono inoltre che le difficoltà empatiche siano principalmente specifiche della persona e non generalizzabili, e che tale termine andrebbe analizzato attraverso un modello multifattoriale, che ne valuti tutti gli aspetti (Marshall et al., 1995).

 

Le distorsioni cognitive più frequenti negli autori di reati sessuali

Negli anni numerosi studi hanno indagato anche relativamente alle distorsioni cognitive, al disimpegno morale ed ai meccanismi di difesa che ricorrono maggiormente nei sex offenders; ciò che emerge è la loro tipicità di pensiero: meccanismi strutturati di distorsione cognitiva permettono loro di tollerare intra-psichicamente la condotta posta in essere. I meccanismi più utilizzati sono la negazione e la minimizzazione del danno arrecato.

Il disimpegno morale, di cui fa parte la giustificazione morale, unito alla de-umanizzazione della vittima e all’attribuzione della colpa, costituiscono modalità attraverso le quali il reo non si identifica con la vittima e non prova empatia. Inoltre, il background degli aggressori è solitamente caratterizzato da un’infanzia vissuta all’interno di famiglie abusanti, violente o gerarchizzate, in cui sono cresciuti frustrati e profondamente incapaci di gestire le reazioni emotive, fattori che spingono verso un desiderio di dominio e di ricerca di potere. Recenti studi hanno evidenziato come i pattern di risposta più ricorrenti negli autori di reati sessuali non fossero ansia, antisocialità o rabbia come in passato si era ipotizzato, ma piuttosto fattori legati ad ostilità ipercontrollata e discontrollo degli impulsi, come emerso dalla somministrazione di test di personalità (MMPI-II). Ciò sottolinea che le risposte violente dei sex offenders possono essere causate da qualsiasi provocazione, anche in assenza di reali azioni provocatorie o motivazioni (Fabrizi et al, 2007).

 

Il ruolo delle emozioni negli autori di reati sessuali

Il ruolo degli stati emotivi ed affettivi nelle cause e nelle conseguenze dell’agire criminale sessuale sta emergendo come fattore importante sia nella analisi teorica che nella ricerca empirica relative all’argomento. Gli studi evidenziano una relazione causale tra il ruolo delle emozioni ed i reati sessuali, connessione che influenza direttamente anche i successivi e possibili interventi trattamentali (Howells et al., 2004). La capacità di riconoscere le emozioni in modo accurato nell’individuo sex offender è deficitaria. Studi dimostrano che anche autori di reati di pedofilia, ad esempio, mostrano carenze del giudicare le emozioni provate dai bambini (Hudson et al., 1993). Relativamente all’empatia ed al riconoscimento delle espressioni emotive facciali, uno studio recente ha indagato le differenze tra sex offenders, individui che non hanno commesso reati sessuali e gruppo di controllo, controllando alcune variabili affettive e sociali, quali la depressione, l’ansia e la desiderabilità sociale, che potrebbero influenzare la valutazione sia delle emozioni che dell’empatia.

Detenuti sex offenders (child molester), detenuti che non hanno commesso reati a sfondo sessuale e gruppo di controllo, abbinati per età, genere e livello culturale, hanno eseguito un compito di riconoscimento delle espressioni facciali relative alle emozioni di base, che variavano per intensità, ed hanno completato alcune scale di auto-valutazione per distinguere le diverse componenti dell’empatia (l’assunzione delle diverse prospettive, l’empatia affettiva, la preoccupazione empatica ed il disagio personale), così come per la depressione, l’ansia e la desiderabilità sociale. Dalla ricerca emerge che i sex offenders sono meno accurati rispetto agli altri partecipanti nel riconoscimento delle espressioni facciali di rabbia, disgusto, sorpresa e paura, con delle notevoli difficoltà nel distinguere la paura dalla sorpresa, ed il disgusto con la rabbia. L’empatia affettiva è l’unica componente che discrimina i sex offenders dai non sex offenders ed è correlata con l’accuratezza nel riconoscimento delle espressioni emotive. Tali risultati confermano che gli autori di reati sessuali potrebbero avere delle difficoltà nella decodifica di alcuni stimoli emotivi, veicolate dalle espressioni del volto (Gery et al., 2009). I sex offenders dimostrano difficoltà in generale ad identificare i propri sentimenti, a gestire le proprie sensazioni negative, a prolungare nel tempo sentimenti positivi e sono certamente più aggressivi.

 

La violenza sessuale nell’età adolescenziale

L’età adolescenziale sembra essere quella che registra il più alto rischio di crimini sessuali. Le statistiche internazionali riportano un notevole aumento nel numero di abusi sessuali compiuti da minori al di sotto dei diciotto anni. Le manifestazioni di devianza sessuale nell’età adolescenziale potrebbero costituire i presupposti per la strutturazione di comportamenti sessuali disturbati, con una escalation in forme di perversione e violenza che rischiano di perdurare anche in età adulta (sexual criminal career) (Corrado et al., 2002). È ormai noto come le emozioni rivestano una componente importante nell’adolescenza. Sono emerse delle problematiche di intelligenza emotiva nei sex offenders adolescenti, riscontrando un differente livello sia di aggressività esperita che di attenzione verso i propri sentimenti, rispetto al gruppo di controllo; gli autori di reati sessuali in età adolescenziale apparivano ai test somministrati poco chiari rispetto alle proprie emozioni, meno in grado di far fronte a stati d’animo spiacevoli e di mantenere quelli positivi. Tali evidenze scientifiche costituiscono poi il focus del trattamento degli adolescenti devianti (Moriarty et al., 2001).

Diversi studi hanno evidenziato che gli adolescenti sex offenders sono caratterizzati da sentimenti di impotenza, aggressività, rabbia, impulsività, incapacità di capire le proprie ed altrui emozioni, con un’intelligenza emozionale rigida (Moriarty et al., 2001). Le abilità mentali che sottendono al modello di intelligenza emozionale sono strettamente connesse alle emozioni e alle interazioni con il pensiero. Secondo questo modello gli individui che sono emozionalmente intelligenti sono cresciuti con una famiglia “bio-socialmente adattiva”, ovvero con genitori attenti e sensibili; di conseguenza sono in grado di rielaborare efficacemente le proprie emozioni, scelgono più facilmente stabili modelli emozionali, sono capaci di comunicare e discutere sui propri sentimenti ed emozioni, sviluppano competenze nelle aree relative al mondo emozionale, come il problem-solving emozionale. I sex offenders adolescenti sono quindi particolarmente confusi a livello emotivo, per questo spendono molto tempo a valutare emozioni e sentimenti, spesso in un’analisi che impedisce loro di dislocarsi dai propri bisogni e trasferirsi in una dimensione relazionale. Nonostante la difficoltà a sperimentare ed esprimere le proprie emozioni sia una caratteristica tipica dell’adolescenza, questa è particolarmente pronunciata tra i sex offenders.

 

La psicoterapia per gli autori di reati sessuali

La questione sull’opportunità di trattare gli autori di reati sessuali è un argomento molto dibattuto nel nostro paese, che sollecita particolarmente l’opinione pubblica, ancora culturalmente orientata alla pena detentiva come unica punizione possibile. Sono molti gli studi che hanno ormai confermato l’effettivo beneficio di alcuni trattamenti in termini di riduzione della recidiva (Marschall et al., 1991); in particolare, il trattamento cognitivo-comportamentale e quello sistemico sembrano associati ad una diminuzione delle recidive sessuali (Hanson et al., 2002).

Vi è ormai una consolidata correlazione empirica tra i bisogni criminogenici identificati, come le distorsioni cognitive o la difficoltà nelle relazioni intime, e la recidiva (Rosso et al., 2010). I delinquenti sessuali hanno difficoltà che riguardano diverse sfere della vita, spesso in modo cronico, tra cui la comprensione e la gestione delle emozioni. Proprio come in altre patologie, come le dipendenze, non si ha una completa “guarigione”, ma comunque si può assistere a delle remissioni, che potrebbero diminuire le recidive, grande costante di tali reati. Il trattamento efficace è quello che si serve di un approccio multifattoriale, che comprende anche fattori affettivi ed emotivi, come l’analisi e l’approfondimento della sessualizzazione dei conflitti.

Sentimenti come la collera, la solitudine, l’umiliazione spesso agiscono come motore nel reato di abuso sessuale: il sesso viene utilizzato come forma di potere e controllo, viene spesso confuso con l’aggressività. Tra i fattori di rischio, infatti, troviamo alcune costanti cliniche: problematiche relazionali ed affettive, meccanismi di negazione utilizzati per evitare l’angoscia, deficitario controllo degli impulsi e delle modalità di coping, incapacità di reagire adattivamente alle frustrazioni. All’interno delle competenze da rafforzare troviamo sicuramente la capacità di riconoscere e gestire le emozioni. Gli autori di reati sessuali hanno spesso delle carenze specifiche, derivate dalla loro storia personale, che li portano a non saper regolare l’emotività e, di conseguenza, a non sopportare le emozioni negative, quali rabbia ma anche noia, vuoto e solitudine, ed a cercare subito uno sfogo per le emozioni positive, come l’eccitazione sessuale.

È necessaria quindi una presa di coscienza della dimensione emotiva insita nel conflitto, per elaborarla e gestirla; la centralità del lavoro sull’empatia con i sex offenders risiede nell’ “emotional recognition”, ovvero nella capacità di differenziare gli stati emotivi propri e altrui e nell’ “emotional replication”, vale a dire nella capacità di provare un’emozione simile, o quasi, a quella che prova l’altro (Giulini, Xella, 2011). Nei paesi esteri, diversamente da quanto accade in Italia, particolare rilievo è posto anche alla fase post-detentiva, in cui l’aggressore continua ad essere oggetto di programmi di riabilitazione, insieme alla propria famiglia. Tutto ciò è particolarmente importante in quanto uno dei primi fattori che riduce il rischio di recidiva è proprio il reinserimento sociale e l’integrazione, per diminuire la stigmatizzazione e la marginalizzazione dell’ex detenuto.

Di primaria importanza appare ad oggi, di fronte ad un aumento dei crimini sessuali, la questione del trattamento. Tra gli altri obiettivi, troviamo anche sviluppare una competenza emozionale e sentimentale, attivare un processo di empatia, comprensione e sentimenti di colpa. Questo perché tra le cause di un comportamento sessuale aggressivo e deviante potrebbe esserci una emozionalità negativa, con sentimenti di solitudine, rabbia o confusione, mancanza di empatia, senso di impotenza e disperazione, per cui l’atto criminale diventa modalità per ridurre tali stati emotivi negativi, creando un ciclo di aggressione sessuale. Sviluppare intelligenza emozionale significa incidere sulla mancanza di empatia, sulla scarsa competenza sociale e sul mancato riconoscimento dei bisogni emozionali delle altre persone, che spesso incoraggiano gli atti devianti.

Campanilisti in culla: i bambini piccoli danno più credito a chi parla la loro lingua

Ancora prima di iniziare a parlare i bambini, anche piccolissimi, danno maggiore attenzione alle informazioni offerte da coloro che parlano la loro stessa lingua rispetto a quelle degli ‘stranieri’. Un nuovo studio dimostra che questo comportamento, che si manifesta già a 5 mesi di età, medierebbe l’apprendimento del sapere condiviso della propria cultura.

 

La ricerca coordinata dalla SISSA è stata pubblicata sulla rivista Frontiers in Psychology

Siamo campanilisti fin dalla culla e tendiamo a privilegiare il sapere che ci viene insegnato da coloro che parlano la nostra stessa lingua, anche quando questo sapere non è trasmesso attraverso il linguaggio parlato. Hanna Marno, ricercatrice della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste ha condotto (insieme ad altri colleghi fra cui Jacques Mehler, e Marina Nespor, professori della SISSA, che hanno coordinato lo studio, e Yamir Vidal, studente di dottorato della SISSA) un esperimento in cui ha dimostrato che i bambini prelinguistici danno più attenzione alle indicazioni di persone che hanno sentito in precedenza parlare la loro lingua.

In una prima serie di esperimenti, dei bambini di 12 mesi venivano prima familiarizzati con degli individui che parlavano la loro stessa lingua madre e con altri che parlavano un’altra lingua diversa. In una sessione successiva, gli stessi bambini osservavano dei brevi filmati che mostravano le persone conosciute indicare con lo sguardo degli oggetti. L’analisi del comportamento dei piccoli ha mostrato che questi guardavano più spesso gli oggetti indicati dalla persona che parlava la loro lingua, rispetto a quelli indicati dagli stranieri. Esperimenti successivi hanno dimostrato che questo effetto è già presente in bambini di soli 5 mesi.

Il riconoscimento della lingua parlata dagli interlocutori stimola nei bambini, già molto precocemente, l’apprendimento sociale: tendono infatti ad assorbire preferibilmente le informazioni offerte dalle persone che vengono riconosciute come appartenere al loro stesso gruppo culturale. Il linguaggio è un indizio che indirizza l’apprendimento – spiega Marno, primo autore della ricerca – Può sembrare limitante, ma i bambini sono esposti a una mole enorme di stimoli, e per questo hanno bisogno di strategie per distribuire efficacemente il loro potenziale attentivo, massimizzando insieme l’apprendimento dell’informazione rilevante. Scegliere chi parla la nostra lingua è un buon modo per essere sicuri che ciò che si impara ci sarà poi utile nella vita.

Le ombre di principesse, eroi ed altri personaggi Disney: un passato oscuro di traumi, abbandoni e abusi

Molte delle principesse, degli eroi e dei personaggi Disney che hanno accompagnato la nostra infanzia, regalandoci spensieratezza e insegnamenti a suon di edificanti canzoncine, celano un passato oscuro di traumi, abusi sessuali, abbandoni e inganni.

 

Tali personaggi Disney – a volte tratti da persone reali, a volte puramente immaginari – hanno avuto una vita così tormentata che mai l’avremmo sospettato a partire da quei candidi cartoni che hanno allietato la nostra infanzia insegnandoci la bontà ad ogni costo, il potere salvifico dell’amore e della bellezza, tra questi:

  • Biancaneve
  • Peter Pan
  • Alice nel Paese delle meraviglie
  • La Bella Addormentata
  • La sirenetta

 

Biancaneve

Per quanto riguarda i personaggi reali che hanno ispirato le note fiabe, secondo il ricercatore Bartels la fiaba tedesca di Biancaneve – tramandata nella tradizione popolare e poi scritta nel 1812 dai fratelli Grimm – trae ispirazione dalla triste vicenda di una fanciulla realmente vissuta a Lohr nella prima metà del ‘700: Maria Sophia von Erthal.

Figlia di un importante magistrato, perse la madre in giovane età. Il padre sposò quindi una donna che, desiderosa di favorire i propri figli, maltrattava pesantemente la fanciulla fino a costringerla a lasciare per sempre il castello (oggi attrazione turistica in cui si può ammirare lo specchio parlante, giocattolo acustico in voga nel 1700 in grado di registrare delle frasi e riprodurle, che fu dono del padre di Maria Sophia alla seconda moglie). In quelle zone erano presenti numerose miniere in cui lavoravano persone molto basse, capaci di destreggiarsi nelle strettezze dei cunicoli, o addirittura bambini: ecco l’origine dei personaggi dei sette nani. Secondo gli storici, ella potrebbe essere morta per avvelenamento dovuto alla pianta Atropa Belladonna, oppure di vaiolo. In ogni caso, alla giovane toccò una misera fine: morì molto giovane, abbandonata a se stessa e ripudiata dal suo stesso padre, costretta a vivere da vagabonda dopo esser stata maltrattata. E, ovviamente, senza Principe Azzurro.

Questa tragica vicenda reale ha dunque dato origine a una favola originariamente piuttosto cruenta: nella prima versione dei fratelli Grimm (del 1812) a desiderare di uccidere e addirittura di cibarsi della fanciulla è la sua stessa madre. Le versioni successive scritte dai fratelli Grimm, che saranno più simili al classico Disney, sono invece edulcorate: sarà la matrigna a nutrire desideri infanticidi e cannibalici.

 

Peter Pan

Peter Pan è un altro, tra i personaggi Disney, che nasconde una storia dalle tinte drammatiche. Egli è il protagonista di due romanzi e un’opera teatrale scritti da James Matthew Barrie nella prima metà del 1900. L’autore, per la figura dell’eterno bambino, ha tratto ispirazione dai fanciulli George, Michael e Peter, figli della giovane vedova Sylvia Davies. Questi intratteneva con loro uno strettissimo rapporto, tanto da adottarli dopo la morte della madre. La relazione coi ragazzini era molto intensa, secondo alcuni morbosa: molte sono le odierne ipotesi di pedofilia.

Il destino di questi bambini è stato a dir poco crudele. George morì a soli 21 anni in guerra con un proiettile in testa. Michael si uccise, anche lui a soli 21 anni, gettandosi in un fiume con il suo amato: sembra che il motivo di questo tragico gesto fosse proprio la sua omosessualità. Anche Peter si uccise, all’età 63 anni, gettandosi sotto un treno. Si racconta che egli si suicidò dopo aver bruciato le lettere che Barrie scrisse ai ragazzi Davies.

Lo scrittore Dudgeon sostiene che l’autore di classici per ragazzi falsificò il testamento pur di ottenere la custodia dei ragazzi, e riporta che Peter disse al riguardo: “La faccenda è incredibilmente strana, patetica e ridicola e anche macabra in un certo modo”. Barrie usava scattare foto ai ragazzi, con costumi teatrali o nudi. Nel libro The little white bird (1902), egli racconta del proprio rapporto con David e George e, in alcuni passaggi che possono prestarsi a interpretazioni sinistre, racconta del suo forte trasporto per questi ragazzini, e descrive in modo molto appassionato alcuni momenti in cui li sveste o fa loro il bagno. Le accuse di pedofilia possono purtroppo sembrare verosimili, sia alla luce del suicidio di Peter (ma anche di Michael) che di alcuni scritti apparentemente sospetti, come il biglietto per l’ottavo compleanno di Michael in cui Barrie scrive: “Sono molto preso da te, ma non dirlo a nessuno”.

 

Alice nel Paese delle Meraviglie

Un altro autore controverso che ha dato origine a una delle favole più belle e visionarie della Disney è Lewis Carroll, autore dello splendido Alice nel Paese delle meraviglie (1865). Charles Dodgson (questo il suo vero nome), appassionato anche di fotografia, usava immortalare e disegnare ragazzine nude, cosa che ha contribuito alle accuse, anche nel suo caso, di pedofilia. Una delle sue modelle preferite era una bambina di nome Alice Liddel, con cui Carrol passava molto tempo, tra gite in barca e invenzioni di storie, e da cui si narra che trasse ispirazione per la protagonista del suo romanzo più noto.

È doveroso però notare, prima di giungere a conclusioni definitive, che in epoca vittoriana i ritratti di bambine e ragazzine nude erano un tipo di fotografia molto comune. Secondo il biografo Cohen, Carroll provava per Alice (e in generale per le numerose ragazzine che definiva sue amiche) più di quanto volesse ammettere, e per questo motivo chiedeva sempre alle famiglie di essere presenti durante gli scatti, per imporsi un’autodisciplina e un controllo.

 

La Bella Addormentata nel Bosco

Per quanto riguarda i personaggi letterari che hanno dato vita ai miti della nostra infanzia, è interessante e a tratti inquietante la storia della Bella Addormentata Nel Bosco. Si tratta di una fiaba europea dalla lunga tradizione: vi è una versione del 1300 ambientata all’epoca dei Greci e dei Troiani, la versione di Perrault del 1600, quella di Giambattista Basile della stessa epoca, quella dei fratelli Grimm del 1800 e, ovviamente, la versione Disney.

La prima versione narra di Zellandine, una principessa che cade in un sonno incantato durante il quale il suo principe azzurro, Troilo, decide di intrattenere un rapporto sessuale con il suo corpo inerte, mettendola incinta. Quello che potremmo definire uno stupro è un elemento cardine della storia, mantenuto anche nella versione del 1600 di Giambattista Basile. Tale versione, destinata a un pubblico di adulti aristocratici e dunque esplicita, fa chiari riferimenti alla deflorazione e alla violenza sessuale da parte del principe sull’inerme addormentata. La versione di Perrault è decisamente più politicamente corretta, priva di elementi perturbanti e anzi edificante e moraleggiante, così come la versione Disney, in cui il Principe combatte la perfida strega e risveglia la principessa col bacio del vero amore.

 

La Sirenetta

Un personaggio letterario il cui destino crudele è stato decisamente mitigato dalla multinazionale americana è Ariel, protagonista de La sirenetta di Andersen (1836). Il personaggio originario, senza nome, è un’eroina tragica al pari della Didone di Virgilio: entrambe morranno sole, dopo aver rinunciato a tutto per il grande amore da cui sono state rifiutate.

La protagonista è una creatura che si rifiutò di condurre una vita negli abissi lontano dall’uomo di cui era perdutamente innamorata. Ribellandosi al volere del padre, decise di stringere un patto con la strega del mare la quale, impadronendosi della sua voce e privandola della lingua, le conferì la possibilità di camminare su due piedi fuori dall’acqua. La trasformazione fu profondamente dolorosa: come se la coda le venisse tagliata in due da una lama affilata. Ad ogni passo, la sirenetta si sentiva trafitta da mille coltelli sul palmo dei piedi. Una volta compiuta la trasformazione, ella non sarebbe mai più tornata ad essere una sirena e, se il principe avesse sposato un’altra donna, ella sarebbe morta.

La protagonista non riuscì però a conquistare il suo amore, il quale sposò un’altra fanciulla. Le sorelle consegnarono quindi alla disgraziata un pugnale, col quale ella avrebbe dovuto uccidere la novella sposa di Eric. Con l’arma in pugno e di fronte al talamo nuziale in cui si era consumata la prima notte di nozze, la Sirenetta non riuscì ad affondare la lama nel corpo addormentato della sposa. E così, dilaniata dal dolore, profondamente sola e costretta a rinunciare al sogno nel cui nome aveva rinunciato a tutto, si gettò in acqua per trasformarsi in spuma del mare.

 

Le vere storie dei personaggi Disney: conclusioni

Insomma, molti dei personaggi eterei e dai sentimenti nobili protagonisti delle favole che tanto amiamo purtroppo hanno subìto un destino gramo e non sono stati riscattati dal potere dell’amore: anzi, hanno dovuto affrontare l’abbandono, la solitudine più atroce, la violazione della loro identità. Biancaneve è morta sola e agli albori della vita, Peter Pan si è ucciso, Alice potrebbe essere stata oggetto di attenzioni disturbanti, la Bella Addormentata ha subìto molestie mentre era incosciente, la Sirenetta si è trasformata in spuma del mare dopo immani sofferenze fisiche e dopo aver perso per sempre il suo unico grande amore.

Nel romanzo di Barrie, come nel film Disney, Peter Pan perde la sua ombra, e la cerca instancabilmente nella camera dei Darling. Alla luce della vera storia che si cela dietro il personaggio, non possiamo non immaginarlo come un tentativo di ritrovare la propria integrità e unità. Peter non abita questo mondo: vive nell’Isola Che Non C’è, e trovandosi a cavallo tra due dimensioni (l’Isola e l’appartamento di Wendy) non ne abita davvero nessuna. È solo. Benché affezionato a Wendy, non riesce a restare nel mondo di lei, a venire a patti con la cruda realtà. Pensiamo al vero Peter e alla sua eterna lotta per pacificarsi con la sua ombra, con il suo passato e le sue paure. Una lotta che non ha vinto e che lo ha condotto al suicidio, una battaglia che pensiamo accomuni tutti i nostri eroi ed eroine.

Come la Sirenetta, morta così come è nata: senza nome, senza identità, in bilico tra due mondi. Personaggi irrisolti, che hanno vissuto conflitti totalizzanti di cui l’amore non era lontanamente magico risolutore, bensì sorgente di sofferenza perché destinato a non essere mai ricambiato o addirittura invadente, insidiante e molesto. Principesse ed eroi soli, che non vissero né per sempre, né felici, né contenti.

La creatività come attività della mente umana

Creatività: creare è il modo naturale di funzionamento della mente. Una sorta di predisposizione a scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 17/07/2016

Introduzione: la creatività nei bambini

Creare è un atto gentilmente criminale. Guardatelo il bambino all’opera con la sua corte di pupazzetti: sta rubando alla realtà la sua sostanza. Prestate attenzione al piccolo alchimista. Dentro il suo cervello gli oggetti diventano immagini mentali che manipolerà, doserà, smonterà e ricomporrà in un atto interminabile di mancanza di rispetto alle cose. Osservatene i momenti di stizza: è la realtà che reclama il suo dazio e la mente, fiera, si oppone. Un soldatino, una bambola, una matita. A noi adulti ormai sembrano nient’altro che quello che sono. Il bambino da subito li fotografa, li respira, li ascolta, li sente con le manine e se ne forma un’immagine che incorpora e che vivrà di vita propria, con la quale parla, litiga, fa pace, sulla quale sale e vola. Inventa un sacco di animali fantastici.

Ha ragione l’adulto a considerare un trenino come un piccolo giocattolo che necessita di pile per girare sempre e solo sulla stessa pista? O il bambino, che ci sale e arriva fino in Africa, terra famosa per la presenza di leoni e unicorni? Ha ragione il bambino e l’adulto si inganna se crede che la sua mente funzioni in maniera troppo diversa. Se solo prestasse attenzione ai propri sogni scoprirebbe quello che la mente continuamente compie: ricombina informazione, mescola pozzi e montagne, ladri e maschere, vestali in uniforme e maree grigie che montano minacciose. Il terremoto che crepa il muro del castello nel quale è entrato è solo nella sua mente, eppure si spaventa e si sveglia preoccupato. La ragazza esile che lo invita a partire per la neve e poi lo lascia in una steppa arida non esiste, ma lui si sveglia triste e lo resta per buona parte della mattina. La mente indaffarata a inventare, lavorando con poche soste.

La creatività come attività della mente umana

“La creatività è la principale attività della mente umana” scrive Calamandrei e cerca di capirne il funzionamento e gli scopi. Il suo volume è molto ricco, ne distillo una serie di riflessioni.

Creare è il modo naturale di funzionamento della mente. Una sorta di predisposizione a scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente. Il neuroscienziato Edelman identifica nel cervello un “generatore di diversità”. Come il DNA che si ricombina per favorire l’adattamento, come la cultura che attraverso il tabù dell’incesto comanda agli individui: mischiate i vostri geni e verrete su più sani e più forti. La mente filtra gli stimoli che percepisce e li organizza per dare loro senso e risolvere problemi: nel farlo, il “sistema sensoriale… è molto creativo e produce ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto”. Un tavolo è un tavolo, ma la mente lo configura di volta in volta come qualcosa su cui si poggia il piatto di spaghetti (serve per mangiare), il laptop (serve per lavorare), su cui si sale per riparare il lampadario (serve per arrivare al soffitto), si balla (solo il venerdì sera, con gli amici e dopo due Moscow mule).

Creare ha dei vincoli. Le opere della nostra mente hanno un’utilità pragmatica. Le idee che generiamo, il modo in cui immaginiamo il reale, devono essere adatte ad affrontare problemi concreti. In alcuni momenti la mente mescola le carte come il più talentuoso degli illusionisti: nel sogno, durante quell’attività che gli psicologi cognitivi chiamano vagare con la mente (mind wandering), gli psicoanalisti attenzione fluttuante e gli scrittori, più onestamente, non far niente fingendo di lavorare. Se interessa, esistono aree cerebrali, nel loro insieme le chiamano Default Mode Network, che fervono mentre ci disinteressiamo del mondo.

In altri momenti la piena attenzione cosciente si volge a risolvere un problema imprevisto. In altri momenti ancora getta via il due di briscola e tiene solo le carte utili. Affronta la realtà, in particolare al fine di assolvere a scopi indispensabili per sopravvivenza e adattamento. Calamandrei riprende Jaak Panksepp che spiegava come la mente sia innanzitutto deputata a: esplorare l’ambiente, provare paura per evitare i pericoli, provare desiderio sessuale, arrabbiarsi per rimuovere gli ostacoli, curare i conspecifici, intristirsi quando mancano le cure, giocare e fantasticare. La creatività deve sottostare a questi vincoli: se il parto della mente non evita un pericolo, non rimuove un ostacolo, non provvede a curare un simile in difficoltà allora è bene che si dissecchi e cada.

La creatività è una risposta all’angoscia. Il percorso più vincolato, necessario, salvifico. Una strada gremita di viaggiatori: Frida Kahlo, Massimo Troisi, John Coltrane e mille e mille altri nomi. Quel cammino dall’angoscia alla creazione è iniziato molte epoche prima della comparsa della parola. Il via è il momento in cui in assenza dello sguardo attento e sorridente della madre, fronteggiando un viso immobile, il bambino si disorienta, si perde, si frammenta. Finché non tornano sguardo e sorriso. Poi arriva il giorno in cui quel sorriso e l’emozione che lo accompagna diventano immagine interna, simbolo, invenzione privata e consolatoria, si incidono nel corpo come “forme vitali”. Il bambino impara ad aspettare, a sentirsi vivo anche nell’assenza.

Quindi, creatività grazie all’altro e in risposta alla sua assenza. E infine: la creazione dedicata all’altro. Uno degli psicoanalisti più innovativi, Heinz Kohut, parlava di rispecchiamento narcisistico. Non si tratta di sentirsi dio, ma di quel semplice impulso infantile al trionfo imbevuto di uno sguardo ammirante. È un nutrimento indispensabile. Ci si pensi un istante: l’atto creativo avviene in un momento di solitudine, chi inventa sta ricostruendo un mondo nel segreto della sua mente. L’atto si compie, il soggetto si guarda intorno. Nel terrore capisce che nessuno sa cosa ha prodotto. Ha fatto un passo avanti e… chi lo accompagna? È in quella steppa arida dove la ragazza della neve lo aveva abbandonato. Lo sguardo ammirante è necessario, consolida, placa, spinge a continuare l’opera incessante di invenzione del mondo. Quello sguardo lo si chiama per convenzione “madre” e poi pubblico ed è al tempo stesso un collante e un lenitivo.

Alla fine torna l’illuminazione. Il rapporto tra la mente e il mondo: un faticoso tentativo di accordo che lascia sempre insoddisfatti entrambi. La realtà impone vincoli che la mente a riposo poi ignora. La mente si arrende alla realtà per donare all’organismo sopravvivenza e adattamento, la realtà cede terreno alla potenza ricombinante della mente in modo che generi forme nuove. La mente vuole autonomia e per ottenerla dipende dall’altro e poi se ne stacca e trema e lo cerca, e poi se ne libera ancora.

E in tutto questo a me sfugge sempre il ruolo nel creato degli animali immaginari e mi chiedo senza requie chi abbia rivelato a Borges che: “Sulla scala della Torre della Vittoria abita dal principio dei tempi l’A Bao A Qu, sensibile ai valori delle anime umane. Vive in stato letargico, sul primo gradino, e solo fruisce di vita cosciente quando qualcuno sale la scala”.
Un animale così Darwin alle Galapagos non l’ha visto di sicuro.

Follia (1996) di Patrick McGrath: riflessioni psicologiche sul romanzo

Il romanzo Follia (1996) di Patrick McGrath racconta la storia d’amore tra Edgar Sterk e Stella Raphael, soffermandosi sull’ossessione di Stella che, nonostante i lividi e le convinzioni deliranti con cui Edgar costruisce la realtà, difende con caparbietà l’immagine idealizzata del partner.

 

Follia: trama del romanzo

Ambientato nell’Inghilterra del 1959, Follia (1996) racconta la storia d’amore tra Edgar Stark, uno scultore irrequieto e morbosamente geloso, recluso in un manicomio criminale per un efferato uxoricidio, e Stella Raphael, una donna affascinante, insoddisfatta della vita famigliare ordinata e prevedibile che conduce con il marito Max, uno psichiatra brillante nel lavoro e distanziante nel privato, e Charlie, l’unico figlio nato dalla coppia.

La vicenda è narrata da Peter Cleave, il collega più anziano di Max, nonché terapeuta di Edgar, attratto dalle relazioni d’amore catastrofiche, perverse e ossessionate, che questa volta non vedono protagonisti due sconosciuti, bensì una cara amica e il suo paziente. L’interesse di Peter si sofferma, in particolare, sulla ossessione di Stella che, nonostante i lividi, le minacce, le convinzioni deliranti con cui Edgar costruisce la realtà, difende con caparbietà l’immagine idealizzata del partner, senza il quale l’esistenza perde irrimediabilmente il senso.

La narrazione pullula delle sfumature emotive dei personaggi, dello stesso Peter che, segretamente innamorato della protagonista, si lascia sopraffare dai desideri fino a trarre interpretazioni fuorvianti e ad assistere inerme alla tragedia finale della protagonista, ormai ricoverata, per ironia della sorte, nel medesimo ospedale psichiatrico dove un tempo lavorava suo marito, e nel quale si trova il suo amante.

La precisione con cui Patrick McGrath descrive il funzionamento mentale dei personaggi principali è stupefacente; Stella ed Edgar non sono gli unici a conservare tratti patologici importanti, ma anche lo stesso Max, incapace di esprimersi con assertività, provare compassione per la moglie, sperimentare una sana autocritica e riflettere sugli errori commessi. Non meno importante, il personaggio di Peter, immerso nella visione idealizzata di un amore platonico e non corrisposto, preservato con ostinazione fino alla drammaticità dei fatti.

Ognuno sembra gestire l’equilibrio della quotidianità fino alla catena di eventi che trascina Stella nelle braccia di Edgar, in un vortice senza ritorno nel quale cadono inesorabilmente anche Max, Charlie, trascurato da entrambi i genitori, e Peter.

Da un insieme di accadimenti che coinvolgono direttamente i due protagonisti ne deriva, così, un intreccio relazionale dove le esistenze si incontrano e si scontrano. A questo proposito, l’autore sottolinea l’inflessibilità dei significati personali attribuiti agli eventi, la rigidità del funzionamento mentale che ostacola la considerazione di altre prospettive, portando, in tal senso, a seguire a spada tratta la propria visione, come la migliore e unica via percorribile. Sarebbe questa la “follia” di cui parla Patrick McGrath, non solo la giostra con cui gli amanti alternano l’odio e l’amore, la passione e la distruzione, ma anche l’incapacità dei personaggi di riflettere su di sé e sugli altri, di elaborare e analizzare costruttivamente l’esperienza propria e altrui, e quindi di comprendere le ragioni inconsce che guidano verso determinate scelte.

 

Stella, Edgar, Max e Peter: le relazioni pericolose

Le informazioni a disposizione sul passato dei protagonisti del romanzo Follia permettono di fornire alcune considerazioni interessanti sul piano clinico. Stando alla descrizione del terapeuta, l’infanzia di Edgar è caratterizzata dall’abbandono, e in età adulta compaiono il timore di giudizio e l’isolamento sociale, correlati all’attività artistica, l’idealizzazione e gli schemi di delusione di sé e degli altri. I deliri di gelosia iniziano quando il rapporto con la figura di attaccamento inizia a manifestare le prime crepe, e culminano con le violenze e l’omicidio, quando la svalutazione della compagna attuale raggiunge l’apice.

La scelta del partner si rivela essenziale; Edgar sembra attratto, in un modo o nell’altro, da donne desiderate e ricercate dagli altri uomini. Ruth, la ex moglie brutalmente assassinata e mutilata, era una prostituta, lui ne era al corrente, e nonostante ciò l’ha sposata ugualmente, mentre Stella gode la fama della moglie bellissima dell’illustre psichiatra, la donna che attrae colleghi, superiori e pazienti. Edgar, però, non nota solo una donna bella e desiderabile, ma anche una persona depressa, annoiata della quotidianità che scorre sempre nello stesso verso; le giornate in giardino, l’attesa del ritorno del marito, la compagnia del figlio di 10 anni impegnato a giocare per conto suo, Stella è vittima di un matrimonio bianco dal quale non ha mai conosciuto la passione sessuale, bensì l’ordinata routine e la cornice dei convenevoli.

Nelle prime fasi del rapporto, quando gli incontri sono sporadici, Edgar non manifesta segnali di gelosia e aggressività, a tal punto da lasciare un dubbio atroce sulle azioni aberranti commesse in passato; Stella non intravede un pericoloso assassino pronto a colpire ancora, ma un uomo dannatamente interessante, un ribelle incompreso da compatire, che in preda alla passione ha commesso un errore clamoroso, non per questo, però, un malato di mente.

A parte il fatto che non era più così sicura che Edgar fosse davvero un malato di mente. Pensava che avesse commesso un delitto passionale; e la passione di per sé è una cosa positiva, no?

(McGrath, 1996, p. 25).

I crimini vengono minimizzati e giustificati, qualsiasi informazione aggiuntiva sulle tendenze dell’amante non servono ad avviare una riflessione sulle possibili conseguenze del legame. Per l’intera storia il bisogno impellente di Edgar si antepone agli altri; salvare il matrimonio, il rapporto con il figlio, le apparenze e la reputazione.

Contrariamente al parere di Peter, la relazione non si basa principalmente sull’interazione tra la manipolazione e la solitudine, e quindi sull’atteggiamento raggiratore di Edgar nei confronti della fragile e frustrata Stella, bensì nasconde meccanismi di mantenimento e rottura profondi e radicati.

Un tema importante, in particolar modo nel funzionamento di Stella, è la ricerca delle situazioni allarmanti; nei primi momenti gli amanti sono sottoposti al costante rischio di essere colti in flagrante, quando la relazione si consolida, e quindi nel momento in cui Stella decide di abbandonare Max, compare il rischio di scatenare la gelosia di Edgar. Da quando Stella si presenta con la valigia in mano, i deliri di gelosia, di veneficio e la violenza non si fanno attendere. Si potrebbe collocare questo periodo al passaggio dall’innamoramento all’amore, quando sorgono i primi ostacoli, le incomprensioni, e il rapporto è messo a dura prova; i corteggiamenti degli altri uomini, le difficoltà economiche e lavorative, gli allontanamenti fisici ed emotivi di Stella sono ottimi motivi per dubitare della sincerità dell’affetto e qualsiasi segnale diventa per Edgar l’ennesima conferma di un abbandono imminente.

Dietro questa morbosa gelosia, però, si nasconde il terrore di perdere la donna amata, di deluderla e di non essere in grado di offrirgli una vita agiata paragonabile alla precedente. È probabile che durante i primi incontri in casa Raphael e nel sottotetto di Londra, Stella non venga ancora considerata una figura significativa, ma un’amante che alla fine della giornata torna a casa dal marito. Può darsi che in questo momento di indecisione, nel quale il rapporto è ancora confuso e indefinito, Edgar abbia messo in conto l’eventualità di essere lasciato senza ricorrere a ritorsioni, probabilmente perché Stella non è rappresentata come una compagna stabile e quindi non abbastanza essenziale.

La percezione del legame sembra modificarsi a partire dall’ufficializzazione della coppia, e da amante occasionale, Stella assume il ruolo di convivente, diventando così una partner a tutti gli effetti. Da qui le prime incomprensioni, i momenti di distacco reciproco, la nostalgia di Charlie, gli episodi di violenza alternati a momenti di riflessione, tenerezza e passione sfrenata. In un istante di lucidità, Edgar intuisce la gravità delle sue azioni, ma basta una goccia a far traboccare nuovamente il vaso dell’ira a cui Stella tenta di porre un freno: l’autocontrollo accompagna le reazioni dissociative, nelle quali avverte le sensazioni di depersonalizzazione e derealizzazione.

Era come staccata da tutto. Le cose intorno a lei non erano più in scala. Lo specchietto che si teneva davanti alla faccia sembrava lontanissimo e piccolo come una moneta.

(McGrath, 1996, p. 159).

La violenza non è l’unico elemento a renderla vulnerabile, anche il distacco del partner nei momenti di lavoro o di riposo innescano le sensazioni di incertezza e insicurezza. Se, da un lato, vivere come fuggitivi, con una quota di rischio e pericolo è una componente essenziale per tenere vivo il rapporto, dall’altro il caos, la mancanza di punti fermi dettati dalla povertà, dal fallimento lavorativo e dal futuro che avanza nebuloso, mette in crisi il bisogno di ordine di Stella, che, in certi momenti, si rifugia nella nostalgia del figlio e della vita precedente. Più che il rapporto con le figure care, sembra mancarle la cornice di prevedibilità, quella stessa struttura che un tempo l’aveva portata gradualmente alla depressione, e in un momento di pausa dal solito turbinio emotivo diventa il tassello mancante della sospirata isola felice.

A volte ripensava alla sua vita di prima, al manicomio e a quello che adesso rappresentava per lei, una specie di luogo remoto e vagamente irreale dove risplendeva sempre il sole e l’ordine regnava sovrano, dove ognuno aveva un posto preciso, e nessun desiderio: un castello abbarbicato su uno sperone di roccia, e fra le sue mura di sicurezza e abbondanza. Era un’illusione, lo sapeva, ma abbastanza plausibile, e poter pensare a un luogo sicuro le dava sollievo; che poi esistesse nella sua mente aveva un’importanza relativa. Più tardi le sarebbe sembrato a dir poco curioso considerare un’isola felice proprio il posto da cui lei ed Edgar avevano scelto di fuggire, finendo per cercare sicurezza, calore e abbondanza in una strada di magazzini abbandonati.

(McGrath, 1996, pp. 140-141)

D’altra parte, le situazioni ricercate da Stella sono tutt’altro che sicure, ordinate e prive di emozioni; decide di convivere con Edgar, conoscendo la sua natura, si rifugia dall’amico Nick e asseconda le sue advances nonostante la morbosa gelosia del partner, e infine ritorna da Edgar mettendo in conto gli istinti omicidi verso di lei. Non esita a scappare quando si sente braccata, non pensa ad un ritorno a casa, bensì ad una sistemazione provvisoria in attesa che gli attacchi di gelosia svaniscano nel nulla. Stella è accudente nei confronti di Edgar, comprende e giustifica la sua ira, non lo abbandona nemmeno quando intuisce la pericolosità dei deliri.

È interessante, anche nel suo caso, la scelta del partner: Edgar è l’opposto di Max, e le sensazioni tanto temute, ma attivamente ricercate, di imprevedibilità e incertezza emergono solo nel rapporto con il primo. Per molti anni, Stella è stata abituata ad uno stile di vita ordinato, sicuro e qualche volta rimpianto, ma tremendamente piatto e complessivamente rigettato; un marito freddo e scostante, la cura della casa e del figlio, le feste dell’alta società, le visite saltuarie ai pazienti. Al contrario, Edgar le regala, seppur con costi molto alti, una vita burrascosa, ma appassionante e intensa: non a caso, la protagonista descrive l’ultimo come il periodo migliore della sua vita, l’esistenza che avrebbe rifatto comunque se avesse potuto scegliere un’altra alternativa.

Non mancano, e non vanno trascurati, i momenti di tenerezza, cura e protezione manifestati da Edgar: sono i lati positivi, amplificati e isolati, a convincere Stella dell’innocuità del partner e lasciarla riluttante di fronte ai trascorsi passati. In tal senso, l’idealizzazione consiste nell’amplificazione dei pregi del partner e del funzionamento di coppia, tralasciando gli altri lati del carattere e delle dinamiche relazionali, specialmente quelli che minacciano il benessere.

Stella non ha ripensamenti sul legame con Edgar, nonostante abbia ricevuto una dimostrazione della sua pericolosità, e l’allontanamento amplifica l’effetto dei ricordi a cui si aggrappa con disperazione. Il ritorno a casa diventa straziante e va di pari passo con le ricadute nella depressione, l’inizio della dipendenza alcolica e delle abbuffate, l’isolamento dagli affetti, dal figlio che continua a patire la freddezza materna e dal marito che evita di comprendere le ragioni, ma aspetta il momento opportuno per attivarla e ferirla psicologicamente.

Il peggioramento delle condizioni di Stella giunge contemporaneamente alla notizia della cattura del compagno: di lì a poco Charlie morirà annegato sotto gli occhi passivi della madre che, in preda allo scompenso dissociativo, intravede Edgar al suo posto. La visione dell’amante mentre annega può assumere vari significati, come il desiderio di punirlo per non averla salvata dall’ambiente famigliare che continuava ad opprimerla. Questa ipotesi spiegherebbe il motivo per cui Stella resta immobile fino alle ultime grida di allarme dell’insegnante: è in quell’istante che lo riconosce e comprende la gravità della situazione. In alternativa, ormai rassegnata di fronte alla cattura di Edgar, Stella desidera annegare il ricordo di lui, sperando così di sopprimere il desiderio di loro.

 

Il rapporto madre-figlio nel romanzo Follia

A proposito del rapporto madre-figlio, un elemento interessante è costituito dall’evitamento del senso di colpa relativo all’abbandono e successivamente all’omicidio. Stella è incapace di rimediare alla relazione con il figlio, finge che non sia successo nulla, non affronta l’argomento nemmeno quando l’insegnante denuncia la sofferenza del bambino a scuola. Non a caso, il clima famigliare gioca una parte fondamentale; la quotidianità è appesantita dagli attacchi di Max e della suocera Brenda che vedono solo una madre degenere, una moglie traditrice e meschina, e non una donna sofferente fin dal principio, incapace di accettare ed elaborare l’esperienza.

La tensione ostacola il ricongiungimento famigliare, rafforza il ricordo della vita precedente nel sottotetto, e neanche la morte di Charlie incentiva una profonda riflessione sugli sbagli commessi; Max sembra l’unico ad accusare la moglie, mentre Stella inizia ad affrontare il senso di colpa, ma resta prevalentemente concentrata su Edgar e l’idea di incontrarlo nell’ospedale dove entrambi sono ricoverati è l’unica speranza per cui vivere, forse perché, in fin dei conti, Edgar non è solo l’uomo che ama, ma l’ultimo affetto rimasto, la sola base sicura da cui tornare.

Il ballo diventa l’ultimo tentativo per ritrovarsi, fallito dall’ordine di Peter di tenere l’artista in cella per impedire un riavvicinamento e un probabile scompenso. La misura protettiva sortisce l’effetto contrario e diventa la spada di cui Stella perisce: di fronte all’idea di uscire dall’ospedale e di sposarsi con Peter, un uomo che non ha mai amato, ma semplicemente apprezzato come un amico di famiglia, e quindi di rivivere la stessa vita incolore e insapore trascorsa con Max, Stella preferisce il suicidio.

 

Sbagli e temi irrisolti del terapeuta

Peter commette un duplice sbaglio: il primo è prendere in cura una cara amica di cui è innamorato, il secondo, di conseguenza, è sottovalutare il legame tra Stella ed Edgar. L’incapacità di valutare la paziente con distacco professionale l’ha condotto a numerosi errori di valutazione; cominciando dall’inizio, ha creduto che la cotta per l’artista scellerato fosse frutto della rabbia serbata per Max e successivamente che la prima fuga da Nick significasse un desiderio di tornare a casa. Procedendo su questa lunghezza d’onda il Dr. Cleave ha continuato a banalizzare e a minimizzare il legame, avanzando, successivamente, l’ipotesi che Stella stesse dimenticando Edgar per concentrarsi sull’elaborazione del trauma del figlio annegato.

I sentimenti di Peter hanno impedito di analizzare con chiarezza il caso dei due amanti, vedendo in Edgar il manipolatore e in Stella la donna fragile e frustrata. Il bisogno di colmare la solitudine si rivela talmente potente da offuscare gli elementi preziosi: Peter non attribuisce una grande importanza ai segnali non verbali della donna quando sente nominare Edgar, ma si limita a prestare attenzione ai dati coscienti e verbali, quelli che vertono sulla morte di Charlie. Chiedendo a Stella la mano, e accantonando la possibilità di farle incontrare Edgar, il Dr. Cleave si lascia sopraffare dalla gelosia e dal possesso, mettendosi in competizione con un paziente le cui condizioni peggiorano quando apprende di non poter parlare con la sua amata.

Anche Edgar è consapevole che Stella, nonostante il tradimento con Nick e le varie incomprensioni, è l’unica base sicura di cui avrebbe bisogno; per quanto ci tenga a  mantenere una parvenza di sfacciataggine sprezzante, il desiderio di riaverla accanto fa emergere la fragilità e la dipendenza nascosta con cura. È chiaro che il divieto di confronto tra gli amanti non è dettato da un atto terapeutico, bensì da un’esigenza personale di Peter che, ossessionato dalla semisconosciuta moglie del collega, rifiuta l’eventualità di un altro allontanamento con l’amante.

 

La dipendenza affettiva, la violenza domestica e l’importanza dell’arte in Stella ed Edgar

Esistono numerosi spunti a proposito della dipendenza affettiva di Stella. Indubbiamente il legame si rivela tale da entrambe le parti, ma nella protagonista i dettagli sono esposti con maggiore chiarezza. Tra questi spiccano le continue giustificazioni, l’idealizzazione del partner e del legame di coppia, le ruminazioni e la persistente rievocazione degli episodi relativi alla storia passata, nonché l’incapacità di elaborare il distacco che contrassegnano l’esperienza per buona parte del racconto.

Dov’era, dov’era Edgar? Le bastava pensare a lui per vederlo come se lo avesse davanti agli occhi; non era né facile né indolore, ma per nulla al mondo lo avrebbe lasciato andare

(McGrath, 1996, p. 183).

L’immagine di Edgar, e del loro amore, diventa così l’ancora di salvezza che le permette di andare avanti; la dipendenza affettiva esercita una funzione importante, quella di mantenimento della struttura psichica fragile. Senza Edgar, e più precisamente, senza la vita frenetica nel sottotetto di Londra, in bilico tra l’amore e la violenza, Stella non è in grado di proseguire, così non esita a commettere gesti autolesivi quando le viene tolta, definitivamente, la possibilità di incontrare il grande amore.

L’incapacità di pensare a sé indipendentemente dal partner, l’illusione di poterne controllare e modificare i difetti e i tratti patologici, nel caso di Stella con l’autocontrollo emotivo, i brevi allontanamenti e l’esasperata pazienza, sono componenti ricorrenti nelle donne con dipendenza affettiva che rifiutano l’accettazione e perseverano nel rapporto, nella speranza che evolva in positivo.

La psicopatologia di Edgar non è considerata una parte integrante della persona, bensì una caratteristica fluttuante; in questo modo Stella si convince di poter prevedere, monitorare e fermare le minacce del compagno, senza valutare attentamente il pericolo in cui incorre. Alcuni degli amori tossici coinvolgono la relazione di donne dipendenti da uomini fisicamente violenti o ipercritici. Il primo episodio di violenza dovrebbe costituire un campanello d’allarme esaustivo per prendere in esame la situazione e pensare ad una soluzione costruttiva, tuttavia la protagonista resta ancorata alla visione dell’uomo innamorato incapace di arrivare a tanto con lei, la vittima abbandonata che porta con sé l’inguaribile ferita traumatica (Norwood, 1985).

L’amore e la violenza sono concetti mischiati fin dalle prime battute di conoscenza, dalle quali Stella trae la conclusione che la passione porterà all’omicidio, ma è pur sempre una componente positiva nell’essere umano. Gli allontanamenti e i riavvicinamenti sono altre peculiarità riscontrabili nella dipendenza affettiva; Stella non è sempre convinta di trovarsi al posto giusto con la persona giusta, gli attacchi d’ansia la colgono nei momenti di riposo nei quali il dubbio si posa sulle scelte intraprese. Nemmeno lei conosce il motivo per cui si ritrova a convivere con un brutale assassino finito in un manicomio criminale per aver ucciso la moglie, arriva a scappare quando le crisi deliranti di Edgar prendono il sopravvento, per poi ritornare nuovamente.

Per quanto possano essere ritenuti definitivi, i distacchi fisici non sono quasi mai tali; ipotizzando un finale diverso, con un riavvicinamento dei due protagonisti, sarebbe difficile immaginare una certa stabilità senza un lavoro terapeutico rivolto ad entrambi, pertanto Edgar e Stella continuerebbero, probabilmente, a danzare tra l’amore e l’aggressività, senza comprendere le motivazioni inconsce che legano le due dinamiche (Serra, 2015).

 

Follia: il legame tra arte e patologia

Per quanto riguarda il legame tra arte e patologia, Peter fornisce un elemento interessante che sembra collegare la scultura di Edgar alla malattia psichiatrica:

Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme. E quando, inevitabilmente, arriva la delusione, il senso di tradimento è talmente profondo che in alcuni può tradursi nella convinzione patologica della duplicità dell’altro.

(McGrath, 1996, p. 58)

Chiaramente questa ipotesi va contestualizzata, e non generalizzata; senz’altro l’isolamento sociale è un fattore di rischio per entrambi i protagonisti, che, esposti a poche occasioni di interazione sociale con altri individui, tendono a sovrastimare l’importanza di un rapporto, idealizzandolo.

D’altra parte, però, è necessario non dimenticare i fattori di rischio pregressi, relativi ai legami primari e secondari di attaccamento. La paura del giudizio del pubblico e l’aspettativa di rifiuto non sono da attribuire solo alla tendenza al ritiro sociale, ma anche alla complessità del funzionamento psicologico. Nell’arte, Edgar tenta di compiere un’operazione importante; isolare le emozioni per vedere le persone per quello che realmente sono e non per come appaiono ai suoi occhi. Il risultato è un ammasso di linee indefinite e frammentate nelle quali non è chiara l’identità del soggetto. La confusione potrebbe riflettere, in qualche modo, la frammentazione interiore, la scissione degli affetti che inquinano la ricerca della verità, le certezze ricercate ossessivamente.

A questo proposito la mutilazione di Ruth successiva all’omicidio nasconderebbe la ricerca della verità, o meglio la scoperta della realtà su di lei, che Edgar osserva come una traditrice seriale. Si direbbe che la scultura rappresenti la via per cercare di comprendere il soggetto, per capirne, in altre parole, la credibilità e l’affidabilità e, quindi, per tentare di conoscerlo a prescindere dai sentimenti.

Il crollo dell’idealizzazione nella relazione precedente segna l’avanzamento dei deliri di gelosia, in cui il tradimento viene identificato in maniera pervasiva; nelle convinzioni infondate, Edgar si illude di aver trovato le risposte che cercava, senza intuire di aver rafforzato le conferme attese e nascoste fino all’arrivo delle prime delusioni. Analogamente, le certezze di Stella trovano un terreno sempre più fertile nella vita con Edgar, tralasciando così i vari aspetti di sé e del suo passato che l’hanno portata gradualmente a sviluppare la dipendenza patologica da un soggetto ambivalente, la ricerca delle sensazioni forti e la depressione.

In sostanza, l’indagine sulla verità non è nient’altro che una dimostrazione della propria verità, e quindi del sistema di credenze con il quale i protagonisti e gli altri personaggi spiegano la realtà esperita. In tal senso, troveranno la copia della realtà filtrata dai significati personali radicati nel funzionamento psichico, ma non l’oggettività dei fatti che non può essere separata dalla storia individuale (Guidano, 1988).

La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari – Magrezza non è bellezza Nr. 26

Nella terapia psicodinamica dei disturbi alimentari vengono analizzate le esperienze dolorose dell’infanzia e il terapeuta aiuta il paziente a interpretare le sue emozioni.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari (Nr. 26)

 

La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari

Un problema che emerge quando si trattano pazienti che soffrono di disturbi alimentari è la tendenza ad essere molto influenzati dall’ambiente circostante a discapito di ciò che questi pazienti sentono. Essi tendono a fare ciò che il terapeuta desidera, possono persino accettare interpretazioni che non corrispondono veramente alla loro esperienza. C’è quindi il rischio che il paziente accolga le spiegazioni del terapeuta e che non entri in contatto con i suoi veri desideri, a causa di esperienze negative durante l’infanzia che non gli hanno permesso di sviluppare un contatto reale con la propria interiorità.

Il modello e la terapia dell’anoressia

L’anoressica, come accennato, è afflitta da un insieme di oggetti maternali introiettati, nel tentativo di separazione dalla madre (Masterson, 1976). Per arrestare questa fase di simbiosi e individuazione-separazione, le quali corrispondono alle parti negative del suo ego, l’obiettivo terapeutico è quello di integrare le rappresentazioni distorte di se stessa e dell’oggetto materno.

La terapia per questo disturbo consiste nello sviluppare un’alleanza terapeutica concentrandosi sulle cause delle fissazioni, dell’atipico sviluppo delle funzioni dell’ego, e delle proprie rappresentazioni. Le strategie per sviluppare l’alleanza e superare le barriere si basano sul confronto e sull’interpretazione.

La terapia della bulimia

La terapia per la bulimia consiste nel comunicare i propri desideri, bisogni e affetti in una forma simbolica, poiché il corpo della bulimica è il veicolo di divulgazione del proprio malessere, dei sintomi della malattia e dei conflitti irrisolti. Il proprio corpo non è integrato con la propria mente. La regolazione degli affetti è un meccanismo di difesa nei confronti della rappresentazione materna, non è integrata con la rappresentazione di se stessi.

Nel processo terapeutico occorre rendere i soggetti consapevoli dei propri impulsi, bisogni e sentimenti, cercando di porre riparo al senso di incapacità, alle distorsioni concettuali, all’isolamento e all’insoddisfazione che sottendono questi disturbi (Selvini Palazzoli, 1981).

L’approccio psicoanalitico di Bruch

Per Bruch (1989) la psicoanalisi tradizionale, con la sua enfasi sull’interpretazione dei processi inconsci, risulta piuttosto inefficace. Impiegando un approccio psicoanalitico meno ortodosso, che comprendeva un’attiva partecipazione da parte della paziente nella ricostruzione del suo passato, si ottenevano risultati decisamente migliori. Perché le pazienti sentivano di essere ascoltate per la prima volta nella loro vita, invece di dover subire un’interpretazione dei propri sentimenti e intenzioni. Una particolarità dei genitori delle anoressiche sembra, infatti, essere l’imposizione di decisioni e convinzioni, con scarsa attenzione verso le espressioni di bisogno e desiderio della bambina: sarebbe questa mancanza di conferme nelle prime interazioni madre-figlia a portare alle tipiche deficienze nel senso del Sé, di identità e di autonomia, oltre a una mancanza di coscienza del proprio corpo. Nella terapia dell’anoressia mentale si è riconosciuto, quindi, che l’interpretazione del contenuto è meno importante della ricostruzione dei modelli interazionali di sviluppo e della correzione delle idee sbagliate dell’infanzia.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La colpa morale: la radice delle ossessioni

Alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 7/08/2016

 

La colpa morale nei pazienti ossessivi

Battersi il petto finché non diventa blu di lividi. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. La colpa morale, la radice di tutte le ossessioni. La turbina che grava sulla coscienza e produce energia usata per ripetere allo stremo gesti inutili, finché non rimane tempo per guardare scogliere di granito rosa che si gettano nel mare, gatti che si stiracchiano, per bagnarsi mano nella mano con l’amata nelle pozze formate da un torrente che spacca una valle profonda.

Una vita ridotta a controllare tre volte, e poi tre e poi altre tre di avere chiuso il rubinetto del gas. Lavarsi le mani fino a consumare la pelle per azzerare il rischio di essersi contagiati. Lavarsi le mani, simbolo del pulirsi la coscienza, Lady Macbeth ne è il modello. Istiga il marito all’omicidio per diventare re di Scozia e non regge il peso della nefandezza. Sonnambula, si strofina le mani senza requie: ‘Via, maledetta macchia. Via!… Torneranno mai pulite queste mani?”. Lo Zingaro, il cattivo di Lo chiamavano Jeeg Robot ne è degno erede. È capace di uccidere per un minimo sgarbo a colpi di cellulare e poi disinfettarsi col sapone antibatterico, un oggetto che a vederlo sulla scrivania di un delinquente spietato e senza freni pare assurdo.

Ripensare all’infinito al giornale toccato ieri. C’era un primo piano di Freddie Mercury. Freddie Mercury è morto di AIDS. Il fotografo che lo ha ritratto gli era vicino. Può essersi contagiato. Il virus può essere passato attraverso le rotative vivo. È improbabile, ma chi mi dà la certezza assoluta che non sia successo? Avrei dovuto pensarci e non toccare il giornale senza sapere se le mie dita erano escoriate. Che scellerato che sono stato. Questi ragionamenti sfibranti si chiamano ossessioni. In ogni caso siatene certi: leggere La Lettura è esente da rischi!

Al contrario di Lady Macbeth e dello Zingaro, chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) i delitti non li ha commessi. Ma lo stesso vive una vita oppressa dal senso di colpa, nel timore della condanna di un tribunale mentale il cui giudice pone l’onere della prova a carico dell’imputato.

 

La colpa morale e la colpa altruistica

Presunto colpevole fino a prova contraria. È la tesi del preziosissimo libro “La mente ossessiva” (Cortina) di Francesco Mancini e il suo gruppo: alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare. L’altro tipo, non rilevante per il DOC, è la colpa altruistica, quella che ci porta a sacrificarci per il bene degli altri perché proviamo pena per le loro sfortune. È invece la colpa morale che ti domanda: hai chiuso il gas? Perché se non lo fai con sufficiente cura potresti causare danni atroci. Hai pensato per un attimo che volevi lanciare tuo figlio dalla finestra? Orrore. Chi ti dice che tu non possa farlo davvero? Chi ti assicura che tu sia un genitore retto e non un pazzo infanticida. Potranno mai i tuoi figli fidarsi di te? E allora, controlla se ti viene ancora quel pensiero. Focalizza su ogni momento in cui sei arrabbiato con lui: ieri lo hai sgridato aspramente, quindi fin dove potresti spingerti? Così facendo naturalmente il pensiero torna e ogni tentativo di sopprimerlo lo impone sempre più alla coscienza e lo rende più vivido, lo fa sembrare reale. È come se il bambino stesse volando davanti ai tuoi occhi. Una nota: non conosco genitore sano che non abbia almeno una volta desiderato di lanciare il figlio dalla finestra dopo la seconda ora di pianto ininterrotto! Come si chiama allora quel pensiero molesto? Esasperazione. Normalissima stanchezza e voglia di tornare a dormire. Quelli che li lanciano davvero non hanno lo scrupolo che avete voi.

Un paziente affetto da DOC non riesce a placarsi con una logica semplice. Ogni pensiero che gli sembra immorale, proibito lo tormenta. Mio marito mi ha fatto arrabbiare: sono una potenziale assassina? Quella bambina bionda sulla barca mi ha fatto una tenerezza enorme, avrei voluto prenderla in braccio: oddio, sono forse un pedofilo? A quel punto il malato di DOC ricerca la certezza assoluta che non si verificherà il danno da lui provocato. Così facendo condanna la sua mente ad un incessante rimuginio che lo priva del respiro dell’esistenza.

Non solo la colpa, nota Mancini giustamente, è alla radice di ossessioni e compulsioni, anche il disgusto. Il rifiuto delle sostanze sgradevoli esteso a ciò che riteniamo socialmente inferiore e si chiama disprezzo. Disprezzo di sé. È l’autoritratto di un pittore che ha deciso di mostrarsi sporco, indegno, immondo, dannoso e irresponsabile.

La forza del cognitivismo clinico è sempre racchiusa in una prassi semplice: hai una tesi? Formulala in modo che sia falsificabile. A me pare il massimo dell’onestà intellettuale. Mancini di esperimenti ne riporta tanti, con una chiarezza stilistica e una capacità narrativa che stimolano l’intelligenza del lettore. Le storie di vita ti portano nel cuore della scena, gli esperimenti ti ci fan ragionare su. Forte. Tra i tanti esperimenti cito il dilemma del trolley che serve a dimostrare la differenza tra colpa deontologica e altruistica. Immaginate un carrello ferroviario nella sua corsa impazzita su un binario. Cinque vittime ignare stanno per venire travolte e perdere la vita. Voi siete lì, allo scambio. Potete deviare la corsa del carrello su un altro binario, dove c’è una sola potenziale vittima. Che fate? Una norma deontologica vi dice: non prendere il posto di Dio. Non potete decidere chi vive o muore. Quindi, non attivate lo scambio. La norma altruistica vi fa pensare che una vittima è meno di cinque vittime e, con grande angoscia, attivate lo scambio e salvate quattro vite. Se ai soggetti dell’esperimento si induce colpa deontologica aumenta la tendenza a non agire, se gli si chiede di immaginarsi vicini alle vittime si attiva la colpa altruistica e tirano la leva. Chi soffre di DOC non tira la leva. Altri esperimenti mostrano come chi è sotto l’influenza della colpa morale incrementa comportamenti e pensieri ossessivi. La colpa altruistica non fa lo stesso effetto.

 

Conclusioni

Come aiutare le persone ad abbandonare l’idea che dentro di loro alberghi una Lady Macbeth, uno Zingaro, un timoniere malaccorto? Mancini descrive gli strumenti della terapia cognitiva, a tutt’oggi l’approccio che più di ogni altro si è mostrato utile per ridurre il DOC. Fai un’azione che credi dannosa ed evita di mettere in atto compulsioni, vedrai che tra un po’ l’ansia ti passa. Capisci che dietro il disgusto di te c’è la faccia sprezzante di tuo padre e rivolgi lo sguardo altrove, verso uno specchio più benevolo.

Syd Diamond, un genio chiamato Barrett di Mario Campanella (2016) – Recensione

Sebbene sia stato scritto da un giornalista e abbia come protagonista uno dei grandi geni maledetti della musica rock, “ Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett ” è un libro molto psichiatrico, che è stato anche preceduto dalla pubblicazione da parte dell’autore di un articolo scientifico su una rivista prestigiosa (Campanella, 2015).

Syd Diamond e la sindrome di Asperger

Oltre all’accurato ed appassionato racconto della vicenda umana del grande chitarrista dei Pink Floyd (di cui quest’anno ricorre il decennale della morte), la nuova tesi che l’autore propone è che Syd fosse affetto dalla sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, che prende il nome dal pediatra austriaco che per primo descrisse questo quadro, di cui pare che pure lui stesso soffrisse in forma lieve.

Le persone affette da questo disturbo possono presentare stereotipie comportamentali, difficoltà nel provare empatia, sinestesie (la contaminazione tra diversi piani sensoriali), ecolalia (cioè il ripetere parole pronunciate da altri), una particolare andatura goffa, trasandatezza, tendenza al soliloquio e una certa predisposizione sul piano artistico (soprattutto nell’ambito delle arti visive). Alcuni di questi aspetti come la sinestesia, l’ecolalia, le stereotipie e la ricerca onomatopeica vengono riconosciuti dall’autore nelle particolari modalità compositive musicali di Syd Barrett e dei primi Pink Floyd ed emersero anche successivamente nel suo modo di dipingere.

Il caso di Syd Barrett

Questa tesi si contrappone a ipotesi precedenti di altri studiosi che avevano inquadrato il caso di Syd Barrett come schizofrenia. L’autore non nega che l’artista abbia avuto episodi psicotici, indotti però dal massiccio utilizzo di sostanze stupefacenti come l’LSD (vengono riportare assunzioni giornaliere fino a 50 trip al giorno) o il Mandrax (il potente barbiturico Metaqualone oggi fuori commercio). L’ipotesi di una psicosi esogena, rispetto a quella di una psicosi endogena può essere certamente accettabile. Dalle biografie risulta evidente come il funzionamento di Syd nella seconda parte della vita, da quando praticamente smise di fare il musicista, fu di tipo psicotico, con un importante ritiro sociale, un’assenza pressoché completa di relazioni, una regressione a un fortissimo legame con la figura materna, un’incapacità ad impegnarsi in altre attività se non la pittura di quadri che poi distruggeva.

L’autore sottolinea come Syd non venne praticamente mai ricoverato in ambito psichiatrico e anche l’assunzione di psicofarmaci fu ridotta, come a voler sottolineare che il quadro fu più di tipo psicorganico. Viene anche ipotizzato un possibile disturbo di personalità di tipo schizoide, sfociato in psicosi dall’uso imponente di sostanze stupefacenti. Oltre agli aspetti nosografici sicuramente puntuali ed interessanti, il libro contiene alcune interviste esclusive alle fidanzate e al nipote di Syd. La storia del musicista si intreccia nel libro con la storia della psichiatria degli anni settanta, che vide protagonisti rivoluzionari culturali e visionari come Gregory Bateson e Ronald Laing. Sicuramente interessante per gli appassionati del genere psicorock e dintorni.

Psicoanalisi e cinema: analisi del rapporto tra le due discipline

Psicoanalisi e cinema occupano ormai dall’inizio del XX secolo un posto centrale nella cultura contemporanea. Queste due discipline si può dire siano nate contemporaneamente ma entrate in contatto tardivamente. 

 

Psicoanalisi e cinema: la nascita del legame

Il primo tentativo narrativo cinematografico legato alla psicoanalisi è attribuibile al produttore Samuel Goldwin che per primo interpellò direttamente Freud per avere una sua approvazione in merito ad un progetto ambizioso (I misteri di un Anima 1926).

Ma il primo film in assoluto a parlare di psicoanalisi e ad avere la figura di uno psicoanalista fu “Carefree” del 1938  in cui niente meno che Fred Astaire ne vestiva appunto i panni e in cui cercava, tra una seduta e una ballata, di guarire la paziente Ginger Rogers, di cui però alla fine si innamorava perdutamente.

Un’ immagine caricata, una figura che nel tempo è comunque rimasta uno stereotipo costante e, se vogliamo, superficiale e denigrante.

 

L’analisi dei film secondo la psicoanalisi

Dal canto psicoanalitico invece l’analisi filmica persegue all’inizio due filoni fondamentali:

  1. Approccio contenutistico che aveva lo scopo di interpretare i film come prodotti dell’inconscio dell’autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell’opera di un regista e facendoli risalire a traumi e complessi dello stesso.
  2. Analisi della scrittura del film, che andava e va a sottolineare l’analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio, per cui l’elemento più importante è il modo nel quale il testo è costruito, al di là dei significati che racchiude al suo interno.

Che dir si voglia, comunque il rapporto tra psicoanalisi e cinema è assolutamente bi-direzionale e complementare.

Un’ interessante riflessione, che coglie assolutamente il tema di questa analisi e la relazione che si può trovare tra queste due discipline è quella in cui viene posto il film come sogno, o meglio, posto come la funzione di un sogno (reso sogno quindi, da un analista e non solo bisognoso di immagini) prestandosi grazie proprio allo strumento scopico ai livelli di comunicazione iconica (polivalente a quella verbale e simbolica) da cui è possibile cogliere aspetti regrediti, sospesi. Svincolando i film che trattano di psicoanalisi ad esserne una documentazione, ogni film quindi può stimolare il campo evocativo nei diversi livelli.

 Esattamente come accade quando un analista viene a trovarsi di fronte al sogno di un suo paziente e si inaugura tra i due il complesso percorso teso a cogliere la funzione poietica e trasformatrice che la mente inscrive nelle pieghe del sogno

Il cinema di cui qui si vuol parlare non è rivolto, quindi, a quelle tematiche essenzialmente legate alla psicoanalisi.

Il cinema di cui qui si vuol parlare è quel tipo di cinema evocativo, un atto creativo prima che un oggetto nevrotico da analizzare, quel cinema che sfiori con delicatezza immagini che riescano a toccare aree sospese o bloccate del sé e che come le reverie dell’analista, gli enactment, le associazioni libere del paziente o l’attenzione fluttuante dell’analista, può creare un ulteriore dispositivo per portare icone al movimento del Processo Dissociativo, che non deve necessariamente essere accostato a necessità psicopatologiche ed essere cosi un cinema che ci faccia semplicemente entrare in contatto con noi stessi, che ci emozioni, che assolva quindi il concetto di opera d’arte, che assolva contemporaneamente l’essere caverna di immagini fatue e visitatore all’interno di essa, che ne ponga la propria e originale visione, sia per lo spettatore che per l’autore.

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