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Disturbo affettivo stagionale e la light therapy

Disturbo affettivo stagionale: È caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni.

Valeria Marchesoli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Disturbo affettivo stagionale

Definizione

Definito per la prima volta da Norman E. Rosenthal nel 1984, il disturbo affettivo stagionale (SAD) è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale.

È caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni. Ai fini diagnostici, gli episodi depressivi stagionali devono superare numericamente in modo sostanziale gli episodi depressivi non stagionali che possono essersi verificati durante l’arco di vita dell’individuo. La diagnosi di disturbo affettivo stagionale non è applicabile a quelle situazioni in cui il pattern è meglio spiegato da fattori psicosociali stressanti collegati a determinati periodi dell’anno, per esempio la disoccupazione stagionale (American Psychiatric Association, 2014).

La modalità di presentazione prevalente è la “forma invernale”: la sintomatologia depressiva ha inizio durante la stagione autunnale, raggiunge il massimo dell’intensità durante la stagione invernale e si risolve, parzialmente o totalmente, all’inizio della stagione primaverile.
Esiste anche una “forma estiva” del disturbo affettivo stagionale: gli episodi depressivi si presentano all’inizio della stagione primaverile, raggiungono il culmine nel periodo estivo e si risolvono all’inizio della stagione autunnale.

Prevalenza

Il DSM-5 riferisce un aumento della prevalenza della forma invernale del disturbo affettivo stagionale all’aumentare della latitudine geografica e un maggior rischio per persone più giovani. L’età di esordio è stimata tra i 18 e 30 anni ed i tassi di prevalenza del disturbo nel genere femminile sono circa quattro volte superiori a quelli nel genere maschile (Melrose, 2015).

Sintomi

Rosenthal et al. (1984) hanno indicato le differenze cliniche del disturbo affettivo stagionale rispetto alla depressione endogena a partire dai sintomi: nel disturbo affettivo stagionale sono presenti ipersonnia, iperfagia e aumento ponderale mentre insonnia, anoressia e perdita di peso caratterizzano la depressione endogena.

Melrose (2015) ha rilevato i sintomi della forma invernale del disturbo, che sono centrati su umore triste ed astenia: i soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale possono sentirsi tristi, irritabili e possono piangere frequentemente; sono stanchi e letargici, hanno difficoltà di concentrazione, dormono più del normale, mancano di energia, diminuiscono i loro livelli di attività, evitano situazioni sociali, hanno un forte desiderio di carboidrati e zuccheri e tendono ad ingrassare per eccesso alimentare.
Al contrario, i sintomi del meno frequente pattern estivo del disturbo sono inappetenza associata a perdita di peso, insonnia, agitazione, irrequietezza, ansia, irritabilità e perfino episodi di comportamento aggressivo (Melrose, 2015).

Il SAD può variare per gravità dei sintomi, da una forma più leggera o subsindromica (S-SAD) a forme più invalidanti con compromissione del funzionamento. Possono essere presenti ideazioni suicidarie (Melrose, 2015).

Cause

L’ipotesi clinica di Rosenthal e collaboratori era che i pazienti fossero più vulnerabili alla depressione in autunno o in inverno in reazione a eventi di vita stressanti, ma che tali eventi da soli non svolgessero un ruolo di primo piano nelle depressioni. La caratteristica clinica principale, osservata nei pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale, è la loro sensibilità a cambiamenti di stagione e latitudine e la ricorrenza quasi annuale dei loro episodi depressivi. Rosenthal et al. (1984) propongono, come variabili climatiche rilevanti, la lunghezza del giorno, le ore giornaliere di sole e la temperatura, tutte correlate tra loro.

Recenti studi condotti dalla dottoressa Brenda Mc Mahon e colleghi dell’Università di Copenaghen hanno rilevato una correlazione tra i livelli di serotonina ed il disturbo affettivo stagionale. Le persone che sviluppano il disturbo affettivo stagionale avrebbero difficoltà nella regolazione della serotonina, neurotrasmettitore ritenuto responsabile della stabilizzazione dell’umore, e nei livelli di SERT, proteina che trasporta la serotonina.
McMahon e colleghi hanno scoperto che nei pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale i livelli di SERT aumentavano con il diminuire delle ore di luce, con una fluttuazione del 5% circa, mentre soggetti sani non hanno mostrato cambiamenti nei livelli di SERT.
Più alti livelli di SERT conducono ad una minor attività della serotonina, causando depressione.
Durante l’estate, la luce solare generalmente mantiene i livelli di SERT bassi in modo naturale. Quando la luce solare diminuisce in autunno, vi è una corrispondente riduzione dell’attività della serotonina (McMahon et al., 2014).

Altri ricercatori (Lewy, Lefler, Emens & Bauer, 2006) hanno ipotizzato che soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale possano avere difficoltà anche con la sovrapproduzione di melatonina. La ghiandola pineale, che produce melatonina rimuovendo la serotonina, aumenta a dismisura con il diminuire della luce: quando i giorni invernali diventano più bui, la produzione di melatonina aumenta e, come risposta, soggetti con disturbo affettivo stagionale si sentono assonnati e letargici.
La combinazione di ridotta serotonina e aumentata melatonina influenza i ritmi circadiani, o orologi interni, che sono sincronizzati per rispondere ai cambiamenti ritmici luce-buio che occorrono giornalmente e durante ciascuna stagione. Per i soggetti con disturbo affettivo stagionale, è stato rilevato che il segnale circadiano che indica un cambiamento stagionale della lunghezza del giorno è temporizzato diversamente, rendendo più difficile l’adattamento corporeo (Wehr et al., 2001).

Inoltre, una minor esposizione della pelle alla luce del sole durante l’inverno causerebbe una minor produzione di Vitamina D nei soggetti con disturbo affettivo stagionale (Anglin, Samaan, Walter & McDonald, 2013). Una mancanza o insufficienza di Vitamina D sono state associate con sintomi depressivi clinicamente significativi (Kerr et al., 2015).

Melrose (2015) ha confermato un’associazione tra serotonina, melatonina, ritmi circadiani, Vitamina D e disturbo affettivo stagionale, ma non ha dimostrato una relazione causale tra tutte le variabili studiate.

 

La Light Therapy

La Light Therapy (LT), o fototerapia, è considerata il trattamento “gold standard” per la cura del disturbo affettivo stagionale (Rohan, Lindsey, Roecklein & Lacy, 2004). Prevede l’esposizione quotidiana, durante i mesi in cui è presente la sintomatologia depressiva, ad una fonte luminosa artificiale d’intensità pari a 10.000 lux, prodotta con apposite lampade dotate di filtri per i raggi ultravioletti. Si tratta di un’intensità di luce circa 20 volte superiore all’intensità media della luce in una stanza (Horowitz, 2008).
Già nel 1984, Rosenthal e collaboratori avevano ipotizzato che estendere il fotoperiodo, attraverso l’utilizzo della luce artificiale luminosa bianca, avesse un robusto effetto antidepressivo nel disturbo affettivo stagionale.
Uno studio di Terman e collaboratori ha concluso che il 53,3% dei soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale (il 43% di quelli con un disturbo moderato-grave) ha manifestato un miglioramento clinicamente significativo dei sintomi depressivi con il trattamento Light Therapy (Terman et al., 1989).

Studi successivi hanno indagato se la risposta al trattamento dipendesse dall’esposizione alla luce durante un orario particolare o fosse indipendente da quando la persona è esposta alla luce durante il giorno. Terman e Terman (2005) hanno rilevato che una settimana di trattamento al mattino produceva un tasso di remissione più alto (53%) rispetto alla sera (38%) o a mezzogiorno (32%). Due sessioni giornaliere non producevano beneficio rispetto alla sola esposizione mattutina. Per consentire il trattamento mattutino giornaliero a lungo termine, considerando che la maggior parte dei pazienti dovrebbe svegliarsi prima del solito, gli studiosi hanno concluso che il trattamento della durata di 30 minuti ad un’intensità di 10.000 lux sia quello più efficace; intensità inferiori richiederebbero una maggior durata di esposizione.

Per quanto riguarda la durata del trattamento, Knapen e collaboratori (2014) hanno misurato la variazione della gravità dei sintomi depressivi in pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale che hanno ricevuto una o due settimane di Light Therapy. Utilizzando la scala ‘Structured Interview Guide for the Hamilton Depression Rating Scale-Seasonal Affective Disorder’ (Williams et al., 1998), i ricercatori hanno dimostrato che non ci sono differenze significative nella riduzione della sintomatologia tra i due gruppi, suggerendo che una settimana sia una durata sufficiente di trattamento. Knapen e collaboratori hanno però rilevato una differenza nella velocità di riduzione dei sintomi depressivi, che è stata maggiore nei soggetti sottoposti ad una settimana di Light Therapy rispetto a soggetti con due settimane di terapia. I ricercatori hanno inoltre rilevato una relazione causale tra risposta terapeutica attesa ed effettiva, limitata però al solo genere femminile: se una donna ha una maggior aspettativa dei risultati, l’esito terapeutico sarà migliore.
Se tali risultati fossero confermati da ulteriori ricerche, la Light Therapy per disturbo affettivo stagionale potrebbe essere di minor durata e dovrebbe essere accompagnata dal messaggio che un trattamento di breve durata è molto efficace per ottenere il miglior risultato (Knapen, Werken, Gordijn & Meesters, 2014).

Gli effetti collaterali della Light Therapy includono affaticamento oculare, maggior rischio di degenerazione maculare legata all’invecchiamento, mal di testa, irritabilità e disturbi del sonno (Melrose, 2015). La Light Therapy non dovrebbe essere usata in combinazione con medicinali fotosensibilizzanti come litio, melatonina, antipsicotici fenotiazinici ed alcuni antibiotici. In alcuni casi, possono esservi episodi ipomaniacali o ideazione suicidaria, specialmente nei primi giorni di trattamento (Terman & Terman, 2005).

 

Altri trattamenti

Dato che il disturbo affettivo stagionale, come altri stati depressivi, sembra sia associato a una disfunzione dell’attività della serotonina a livello cerebrale, antidepressivi di seconda generazione, come gli Inibitori selettivi della ricaptazione di Serotonina (SSRIs), in particolare fluoxetina, si sono rilevati come trattamenti farmacologici efficaci (Morgan et al., 2015).

Rohan et al. (2015), propongono un adattamento della terapia cognitiva tradizionale della depressione per soggetti affetti disturbo affettivo stagionale. La CBT-SAD si basa su attivazione comportamentale e ristrutturazione cognitiva. Propone l’identificazione e la pianificazione di eventi piacevoli per fronteggiare l’anedonia invernale. La ristrutturazione cognitiva, oltre a puntare il tipico contenuto dei pensieri depressivi, mette in discussione i pensieri negativi tipici della stagione invernale, ad esempio buio e clima freddo. Il protocollo d’intervento si conclude con un piano personalizzato di prevenzione delle ricadute.
Rispetto alla terapia cognitiva standard della depressione, la CBT-SAD necessita di un programma condensato per permetterne la conclusione entro la primavera (2 sedute a settimana da 90 minuti per un periodo di 6 settimane).

Melrose (2015) suggerisce un trattamento combinato di antidepressivi, fototerapia, Vitamina D e intervento psicoterapeutico. Quando i sintomi depressivi non sono gravi, l’autore raccomanda programmi che aiutano i pazienti a migliorare la loro dieta limitando amidi e zuccheri, incrementare l’attività fisica, regolare il loro stress, evitare ritiro sociale e trascorrere più tempo all’aria aperta (Melrose, 2015).

La personalità autoritaria: come l’uomo di destra è diventato un tipo psicologico

Personalità autoritaria: quand’è che l’uomo di destra è diventato un tipo psicologico? Una maschera quasi da commedia dell’arte? Un impresentabile autoritario e autoritarista? Un individuo succube del potere perché in esso proiettava i suoi patetici sogni di grandezza piccolo borghese e al tempo stesso soddisfava il suo meschino bisogno di ordine e di sottomissione? Un ircocervo con la testa (e i capelli) di Donald Trump e il corpo di Josef Goebbels? Insomma, un patetico “fascista”?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta del 2/07/2016

La nascita della personalità autoritaria come tipo psicologico

Ovviamente semplifico; quando si tratta di definire uno stereotipo non ci si cura delle sottili distinzioni del pensiero politico, non si fa caso al fatto che in questo calderone “fascista” finiscono per convivere il liberismo economico spinto dai conservatori anglo-americani -che furono antifascisti nella guerra mondiale- e il dirigismo statalista della destra nazionalista e sociale europea, che fu pienamente fascista nello stesso periodo.

Adorno - The Authoritarian personalityFatto sta che Theodore Adorno, quando pubblicò nel 1950 il suo classico “The authoritarian personality“, infilò questi due ingredienti apparentemente incompatibili nella stessa pentola e cucinò il piatto agro-dolce del piccolo-borghese autoritario e segretamente eterno fascista, il soddisfatto conservatore degli anni ’50 nascosto dietro le sue libertà economiche solo formali ma in realtà oppressive, tanto è vero che costui non intendeva aggiungere alla libertà economica le libertà sociali.

Dopo aver sconfitto Hitler, costui non aveva alcuna intenzione di combattere per la fine delle convenzioni sociali, delle disparità di genere, del potere patriarcale, dei pregiudizi sociali di età, genere, razza, religione e classe sociale. Qualche anno prima, nel 1947, Adorno aveva concepito un questionario, la “California F-scale”, un test per misurare la personalità autoritaria. E quella “F” per cosa sta? Ebbene si, la “F” sta per “fascista”. La scala F-scala scompone la personalità autoritaria in propensione alle convenzioni, aggressività autoritaria e contrarietà all’introspezione. A quel punto la frittata era fatta, e la maschera applicata sul viso del conservatore inestirpabile.

The Conservative Mind- from Burke to EliotInvano tentò di reagire Russel Kirk nel 1953 quando pubblicò “The Conservative Mind: from Burke to Eliot”. Appellarsi a Edmund Burke era ormai inutile e l’uomo di destra era destinato a diventare inesorabilmente un patetico bigotto, un ridicolo e osceno cripto-fascista. In breve, uno sfigato, un marginale.

 

 

Le contraddizioni degli anni ’50 e ’60

Gli anni ’50 -fatti di libertà economica unita a convenzionalità sociale- furono un contraddittorio interludio conservatore che non poteva durare a lungo. E che non potesse durare fu segnalato proprio dal libro di Adorno, pubblicato proprio all’inizio di quel decennio. Tutto finì con la rivoluzione sociale degli anni ’60, con la musica rock, i movimenti giovanili, il femminismo, la liberazione sessuale, e così via. A quel punto il padre di famiglia americano (che magari aveva partecipato allo sbarco in Normandia) si vide spodestato dal suo trono e si ritrovò –in quel libro di Adorno che mai si sarebbe sognato di leggere- a essere un fascista. Il suo desiderio di ordine e decoro diventò segno di una personalità oppressiva e autoritaria, la sua etica del lavoro una cieca e acritica adesione a ruoli sociali imposti dal potere, il suo vago liberalismo politico ed economico una vuota forma che nascondeva l’oppressione subdola verso la donna e i lavoratori manuali socialmente inferiori. Per non parlare della segregazione razziale.

E per la verità il borghese americano degli anni ’50 fu autoritario, o quanto meno propenso al controllo sociale nella forma del maccartismo. Furono però soprattutto gli anni ’60 che fecero esplodere le contraddizioni: ad esempio con Wallace, il governatore segregazionista dell’Alabama. Wallace rappresentava la media e piccola borghesia bianca che dopo aver vissuto i vantaggi della prosperità ora si sentiva minacciata dai neri, dai giovani e dalle donne. Però è da sottolineare che Wallace fosse del partito democratico, e quindi fautore del nuovo stato sociale costruito dal presidente Johnson, la Big Society. Ebbene si, si può essere a favore delle cure mediche per tutti –compresi i neri- pagate dallo stato e al tempo stesso per i bagni e i posti separati sull’autobus per i neri. L’uomo è contraddittorio e contiene moltitudini.

Sull’altro fronte, era il buon tempo andato di quando furono pubblicate alcune analisi psicologiche sull’uomo progressista liberato dalle pastoie oscurantiste del passato. Lo psicologo Flacks (1967) riteneva che la società del benessere avesse finalmente creato l’uomo nuovo, non impaurito dai tabù sessuali, dall’oppressione gerarchica e dai doveri sociali e familiari. Si passava dalla società repressiva -non solo tradizionale, ma anche capitalista- alla società veramente umana. In particolare, gli studenti universitari cresciuti in un ambiente benestante, libero dal bisogno, intellettualmente stimolante e non repressivo rappresentavano i primi esemplari dell’individuo liberato, naturalmente altruista e umanista, privo sia dei pregiudizi tradizionali che dell’avidità egoistica del capitalismo.

Si tratteggiava un paradiso post-industriale e post-materialistico. Alcuni, addirittura, parlarono di una nuova forma psichica superiore che emergeva nella storia per la prima volta, lo stadio di Coscienza III, una perfetta sintesi tra autonomia individuale e adesione alla comunità. Un superuomo, però senza capelli biondi e senza tratti bestiali. Un superuomo perbene.

 

Il nichilismo gentile

Da quel movimento scaturì un nichilismo gentile, un nice nihilism che non genera un ritorno alla legge della giungla, ma un impegno morale fondato sulla constatazione che l’uomo è dotato di bisogni morali. Il nice nihilism, come lo chiamano i filosofi Tomler Sommers e Alex Rosenberg (2003) sostiene che possiamo stare tranquilli, la genetica non ci condanna a essere belve. Semmai ci costringe al destino di animali: un po’ belve e un po’ sociali. Un po’ lupi, un po’ francescani. La scelta morale è dunque un imprevisto vantaggio evolutivo. Però, questo stesso senso evolutivo la svuota di contenuto morale. La moralità non può ammettere eccezioni o relatività. Un comportamento evolutivo invece si. Oggi può essere conveniente obbedire a una norma morale, domani chissà.

Di fronte a questa morale debole e pieghevole, il nichilismo perbene non può che fare finta di nulla. Non può sottolineare troppo l’amoralismo evolutivo, e nemmeno rinnegarlo. Insomma, l’autonomia morale comporta il rischio di un’etica soggettiva e personalizzabile, il che fa a pugni con il concetto stesso di moralità. Al tempo stesso però la moralità oggettiva puzza di Legge esterna, e quindi di Autoritarismo. E così torniamo ad Adorno, alla personalità autoritaria, al California F-scale e alla parola che inizia per “f”. Intorno a questo cerchio balla il pugile della moralità moderna, darwiniana e sottomessa alle leggi amorali della genetica. Pugile ora alleato, ora traditore. Un bell’affare.

Calci di rigore: il rigore del calcio

La tentazione di parlare dei calci di rigore e delle loro componenti psicologiche é troppo forte ora che l’Italia é uscita dagli Europei proprio a causa di questi maledetti 11 metri che separano il rigorista dalla porta e dal portiere. Inoltre la “forma” con cui almeno due di questi rigori sono stati tirati (Zaza e Pellé) sono uno spunto prezioso per approfondire un aspetto psicologico del gioco del calcio che esce dalla routine della partita.

Luca Calzolari, Massimo Rondilone

 

Il calcio di rigore infatti é l’unico momento della partita in cui il giocatore si trova davanti al portiere senza difesa, con la palla ferma sempre nella stessa posizione. Inoltre a calciare sono giocatori selezionati; quelli con i piedi più educati. Se durante la partita viene fischiato un calcio di rigore non lo tira il giocatore che ha subito il fallo, ma quello che dovrebbe avere più possibilità di segnarlo. Tutti gli elementi sembrano portare alla conclusione che dovrebbe essere facile segnare un rigore. Invece Zaza e Pellé lo hanno sbagliato. Perché?

La risposta a questa domanda non la avremo mai. Non solo perché non abbiamo la possibilità di chiederlo ai diretti interessati ma anche perché con buone probabilità neanche loro saprebbero spiegarlo con precisione.

Il giornalista Paolo Condò il giorno dopo la partita condivide sui social il suo pensiero:

“Un calcio di rigore è un duello all’Ok Corral di freddezza, precisione e psicologia. Dentro alle regole codificate, vale tutto”.

Zaza e Pellè ci provano laddove la classe e i mezzi tecnici non possono aiutarli, con il torto di sbagliare è vero ma con il coraggio di provare ad usare tutto quello che in quel momento pensavano potesse aiutarli.  Quello che possiamo fare é prendere questi due episodi e usarli come spunto per aprire una riflessione sulla particolarità di questo momento di una partita di calcio.

Dopo aver vissuto in campo o in panchina un’intera partita con la squadra si sono ritrovati a giocare “da soli” e a dover contare unicamente sulle loro qualità (tecniche, fisiche e psicologiche). Già perché a tirare un rigore si é “da soli” e non “soli”.

La solitudine è uno stato mentale, l’interpretazione soggettiva di una circostanza esterna. Di fatto ci si può sentire soli pur essendo in compagnia o ci si può sentire accompagnati anche se si é da soli.

Il rigorista quindi si trova davanti al primo bivio. Può sentirsi solo oppure sapere di essere da solo a svolgere il suo compito. La differenza é sostanziale.  Nel primo caso ci si ritrova inermi di fronte a una circostanza che non cambierà (non esiste la possibilità che arrivi qualcuno a calciare il rigore con lui) e le risorse personali utili per calciare il rigore sono offuscate dai sentimenti. Nel secondo caso accetta la circostanza e organizza il pensiero in modo da trovare la giusta strategia per affrontare il compito. Una tecnica che si utilizza in psicologia dello sport è la costruzione di una routine in cui una sequenza di azioni crea uno schema in cui l’atleta ha fiducia, sente di poter padroneggiare il compito, e che lo aiuta a non focalizzare l’attenzione sui pensieri negativi uscendo dal contatto col momento presente ed entrando nel duello dell’Ok Corral.

Risolto il primo enigma  il giocatore poggia la palla sul dischetto, alza lo sguardo e vede il portiere. Secondo enigma. Cosa ne faccio della presenza del portiere? Posso controllare il suo movimento (Pellè ci ha provato con il gesto del cucchiaio, Zaza con la rincorsa)? Devo gestirlo in qualche modo o posso escluderlo? Cosa sceglierà di fare? Si butterà o rimarrà al centro della porta?

Phil Jackson, “zen master”, famoso allenatore di Michael Jordan, diceva che un tiratore quando tira a canestro tira a se stesso. Intendeva il fatto che il tiro, indipendentemente dalla presenza dei difensori é una questione personale del tiratore. La presenza del difensore o del portiere quindi viene gestita prima del momento del tiro e non durante lo svolgimento dell’azione. Cercare di controllarlo prevede la possibilità di non riuscire e questo genera la paura. Inutile dire che la paura non é un sentimento che permette al corpo di muoversi in modo efficace. Inoltre cercare di controllare il portiere mette in atto una serie di movimenti che alterano la routine del tiro aumentando le possibilità di sbagliarlo.

Un vecchio aneddoto zen racconta di una delle prove che dovevano superare gli aspiranti monaci. La prova consisteva nel trovare la soluzione ad un enigma; c’è un anatra in una bottiglia, come si più togliere l’anatra dalla bottiglia senza rompere la bottiglia o uccidere l’anatra?

La soluzione consiste nel pensiero che “l’anatra non é mai stata nella bottiglia”.

Zaza e Pellé con la rincorsa o il gesto del cucchiaio hanno cercato di gestire il portiere “anatra”. Così facendo hanno introdotto un problema che ha alterato la loro esecuzione del gesto rendendolo spurio e impreciso.

I due giocatori mi hanno ricordato quei film in cui il cattivo di turno ha la sua chance di sconfiggere l’eroe ma si perde in discorsi inutili permettendo di fatto il capovolgimento della situazione e l’inevitabile sconfitta.

Per rimanere nell’immaginario cinematografico preferisco il momento in cui John Snow (Trono di spade) deve decapitare uno dei suoi uomini per inadempienza a uno dei suoi ordini. Un compito duro che spetta al capo. Non giustifica il suo gesto, chiede le ultime parole al condannato e con gesto deciso esegue la punizione.

L’idea non è quella di negare la presenza del portiere ma quella di aver già gestito la questione prima. In psicologia dello sport si chiama allenamento ideomotorio. Allenare la mente perché possa permettere al corpo di muoversi senza ostacoli inutili come pensieri non pertinenti o problemi irrisolvibili. Alcuni atleti hanno queste qualità in forma innata, altri le costruiscono e le allenano fino a farle diventare una parte naturale del loro gioco. Quando un atleta accede allo stato ottimale della performance vi è un’unica dimensione del tempo, quello presente, vissuto con la massima consapevolezza, concentrandosi sul “qui e ora” della sua prestazione, escludendo giudizi o distrazioni che lo portano lontano da quel momento.

Al di là di tutto ci piace immaginare che Zaza e Pelle nella loro estate ai tropici abbiano ascoltato nella loro playlist una certa canzone di Di Gregori

“Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore,

non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,

un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.”

(De Gregori,  “La leva calcistica della classe ’68)

Le tecniche immaginative in terapia cognitiva (2014) – Recensione

Tecniche immaginative: Un libro preziosissimo. Il cuore concettuale: le immagini mentali sono un canale di attribuzione di significato che si muove lungo strade diverse da quello verbale-semantico. Ha una connessione privilegiata con le emozioni.

Introduzione: la seduta di Danilo e le tecniche immaginative

“Mia madre stava peggio di quello che le ho raccontato l’altra volta.”
“Cioè?”
“Soffriva di, le è stata diagnosticata più tardi, all’epoca non lo sapevamo, di schizofrenia paranoide”.
“Che succedeva a casa, di che età stiamo parlando?”
“Avevo 10 anni circa. La notte non potevo dormire.”
“Che faceva mamma?”
“Restava sveglia tutta la notte. Era convinta che i ladri avrebbero potuto irrompere in casa e quindi girava da una finestra all’altra a controllare.”
“E lei?”
“Stavo sotto le lenzuola, gli occhi spalancati, immobile, congelato. Se avessi mosso un muscolo mi avrebbero notato”.
“Com’era la sensazione?”
“Terrore, mi sentivo paralizzato. Guardavo fuori dalle finestre e ogni foglia che si muoveva mi ghiacciavo ancora di più”.

È la seconda seduta con Danilo. Le condizioni relazionali per provarci ci sono. Gli chiedo di tornare lì con l’immaginazione. Un breve rilassamento, focus sul respiro, occhi chiusi e mi porta nella scena. Rivive il terrore, la paralisi, l’impotenza. Apre gli occhi, ne parliamo. Gli propongo di tentare un lavoro di imagery rescripting. Accetta. Torniamo lì, il Danilo adulto si siede sul letto del Danilo bambino. Lo calma. All’inizio Danilo bambino non ne vuole sapere, ma riesce a convincerlo ad alzarsi e andare a guardare fuori. Lo prende per mano, si accostano alle finestre. Non c’è nessuno. Il Danilo bambino torna a letto, rassicurato. Danilo riapre gli occhi si sente rilassato, più disteso e prova un senso di autoefficacia. Era entrato in terapia per un senso di blocco, apatia, anedonia, incapacità di andare avanti nella carriera. Dopo questo esercizio ha capito le radici dei suoi momenti di passività e spegnimento.

È nell’aria. Gli allievi che hanno respirato corsi di EMDR, schema-therapy, compassion therapy iniziano a familiarizzare con tecniche immaginative del genere. Magari qualcuno ha studiato approfonditamente l’esposizione prolungata per il PTSD. Un segno dei tempi che cambiano, un segno della terapia cognitiva che cambia. La ristrutturazione razionale delle credenze erronee ha mostrato da tempo la corda. La nuova generazione di terapeuti sta aggiornando lo strumentario e i nuovi attrezzi sono più incisivi, potenti. Uno di questi è il lavoro sull’immaginazione.

L’esperienza personale di Giancarlo Dimaggio

Un’altra storia. La mia tesi di specializzazione era sulle emozioni oniriche e la loro evoluzione nel corso del trattamento. Immagini mentali generate dalla mente isolata dal contesto e i loro correlati emotivi. Quanto di più costruttivista si possa pensare. Finisco la specializzazione in psichiatria, completo la mia formazione in terapia cognitiva. Inizio una formazione in psicodramma analitico. Le immagini mentali messe in scena che diventavano oggetto di nuova riflessione. Vissuta sulla mia stessa pelle, uno strumento incredibile. Peccato che il filtro fosse la teoria di Lacan, quanto di più indigesto abbia mai dovuto assumere nel mio percorso di conoscenza. Ma è rimasta un’esperienza preziosa. Mi sono portato sempre dietro il lavoro sui sogni e la messa in atto psicodrammatica nel mio lavoro clinico, ma con la sensazione che fossero lontani dal cognitivismo e che toccasse integrarli, dar loro dignità in un campo che sostanzialmente li guardava con scetticismo, diffidenza, a volte aperto disprezzo.

E ancora, vado in giro per convegni. A Tallin vedo Martin Bohus portare pazienti con disturbo borderline di personalità e abuso sessuale a rivivere nell’immaginazione ricordi di incesto. Da brividi. Nei seminari di Arnoud Arntz vedo effettuare il reparenting in immaginazione sui ricordi infantili. E poi il lavoro di Lynne Angus e Sandra Paivio sulla terapia del trauma in chiave narrativo-esperienziale. E mi dico: l’aria sta cambiando.

Sull’utilizzo dell’imagery ci lavoro con i miei colleghi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale. E ci chiediamo: ma nel cognitivismo, tutto questo lavoro che a noi sembra così prezioso, quanto spazio ha? Approfondisco la letteratura. E scopro un buco enorme, del quale quasi mi vergogno. C’è un libro che riassume tantissima conoscenza: “Le tecniche immaginative in terapia cognitiva”. Lo leggo avidamente, è quello che cercavo. Ringrazio in cuor mio l’Eclipsi (ovvero Alessandra Carrozza, Gabriele Melli e Nicola Marsigli) per avere capito che andava tradotto in italiano.

Le tecniche immaginative in terapia cognitiva

Un libro preziosissimo. Il cuore concettuale: le immagini mentali sono un canale di attribuzione di significato che si muove lungo strade diverse da quello verbale-semantico. Ha una connessione privilegiata con le emozioni (facile pensare a Damasio, anche se qui non viene citato). L’implicazione clinica: evocare immagini mentali, attivare le emozioni, modularle, dar loro nuovi significati, modificarle. Uno strumento insostituibile di assessment e cambiamento. Racconta le radici del lavoro sull’imagery: molto prima di Jeffrey Young, molto prima di Paul Gilbert, molto prima di Francine Shapiro, Pierre Janet, Jacob Moreno, Aron Beck, Arnold Lazarus, Fritz Perls (che sta influenzando la terapia moderna in modo impressionante, non so quanti se ne siano accorti). Tecniche dimenticate, guardate con scetticismo, imbarazzo, in nome di un supposto rigore evidence-based che non aveva giustificazioni e ora riportate al centro dell’attenzione della terapia scientifica.

Il caso di Renata

Renata, mi sta raccontando della sua rabbia verso il padre, tirannico e violento in casa. La domanda chiave della Terapia Metacognitiva Interpersonale:
“Mi descrive un episodio in cui è stato violento?”
“A cena.”
“Quanti anni aveva?”
“Sette.”
“Chi c’era a tavola?”
“Io, lui, mia madre.”
“Chiuda gli occhi, mi porti con lei, lì”

Andiamo insieme nel passato. Il padre urla alla madre. Le chiedo cosa prova. Non c’è traccia della rabbia. È terrorizzata. “Cosa le fa paura?”. “Può aggredire mia madre.” “Guardi sua madre in viso, cosa vede?” “Ha paura.” “E lei cosa prova vedendo quel viso?” Renata scoppia a piangere.

Usciamo dalla scena, ci ragioniamo su. L’informazione sul suo mondo interno è cambiata, la rabbia non è l’emozione primaria, era spaventata e provava pena, tristezza al pensiero che la madre fosse vittima di quelle aggressione verbali (e fisiche in altri momenti). La formulazione del caso quindi è più ricca.

Torniamo insieme nella scena: dica a suo padre che le fa male che lui si comporti così e che le dispiace per sua madre. Renata ci prova, con voce flebile. Si blocca subito. “Come si sente?” le chiedo. “In colpa”. “Come mai?”. “Mio padre è fragile, lo sto facendo soffrire.”
Apre gli occhi, è sbalordita. Non aveva la minima idea di albergare questi sentimenti.

Riflessioni sul libro sulle tecniche immaginative

Il libro di Hackmann e colleghi è pieno di scene come queste. Pazienti con fobia sociale, attacchi di panico, Disturbo ossessivo compulsivo, PTSD, disturbi di personalità. Spiega come evocare le scene e come modificarle in modo collaborativo con il paziente. Una miniera di strumenti di lavoro per il terapeuta cognitivista. Prima gli autori gettano le basi teoriche e poi spiegano il da farsi.

Rifletto a lungo: a leggere gli autori sembra che queste pratiche siano parte integrante del lavoro del terapeuta cognitivista. La mia esperienza è diversa. Gli allievi che ho formato e formo nel corso degli anni non ne hanno esperienza. Quando mostro loro in classe come si effettua l’immaginazione guidata stanno vedendo qualcosa di nuovo. Sì, qualcuno l’ha visto fare in schema-therapy, in compassion therapy, ma finisce lì. E invece il cognitivismo include queste tecniche.

Un’altra riflessione. Una parte di questo bagaglio viene dalle terapie comportamentali. E io ero di quelli che avrebbe volentieri gettato a mare la C di Comportamentale dalla SITCC. Faccio un esercizio di guided imagery e parlo al me stesso del passato, lo convinco a cambiare idea. Il mio me stesso di qualche anno fa prova un po’ di vergogna. Ora si tratta naturalmente di riscrivere il comportamentismo moderno in una cornice diversa, direi quella della cognizione incorporata, ma non è lo scopo di questa recensione.

Conclusioni

Per gran parte del libro si potrebbe avere l’impressione che gli autori siano abituati a lavorare sui disturbi sintomatici, anche se poi di fatto spesso negli esempi clinici che riportano operano sulle strutture nucleari della personalità. Quindi l’idea è che mirano un’immagine disturbante, la elaborano e questo, in grado più o meno completo, risolve – o riduce – la psicopatologia. Nel capitolo finale, dedicato alla scrittura di nuove immagini, positive, invece il lavoro sulla personalità viene fuori e gli autori chiariscono che si tratta di operazioni che vanno ripetute a lungo, spesso per anni, finché nuovi modi di sentire e pensare si radicano nell’individuo e diventano parte integrante di una personalità più ricca, completa. E resta a quel punto la convinzione che gli autori del libro abbiano messo a disposizione del lettore un patrimonio enorme di strumenti, un dono di creatività e sapienza. La terapia cognitiva, in questa luce è più drammatica, intensa, fantasiosa e divertente. E soprattutto, e questo è il punto nodale: probabilmente è più efficace. Oppure, efficace con una gamma più ampia di pazienti. Provo a mettere “Le tecniche immaginative in terapia cognitiva” a fianco di “Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica” di Safran e Muran. Mi piace vederli vicini, uno ha bisogno dell’altro.

L’uso del role playing nella psicoterapia metacognitiva interpersonale

Immaginare di poter parlare per conto di qualcun altro o di essere se stessi ma intenti in una nuova modalità comunicativa ovvero di immedesimarsi nel proprio partner intento in una discussione con voi, sono alcuni degli scopi che la tecnica del role playing può realizzare. Se questo poi avviene in terapia, in una relazione terapeutica rassicurante e protettiva, si avrà la possibilità di esplorare la propria mente, la mente dell’altro, il proprio schema e il ciclo interpersonale che ne deriva.

 

[blockquote style=”1″]Come si può conoscere se stessi? Non mai attraverso la contemplazione, bensì attraverso l’agire.[/blockquote] Goethe, Massime e riflessioni.

Il role-playing: introduzione

Il role playing, cioè gioco di ruolo, è uno strumento di larga applicazione in contesti che possono variare dalla psicoterapia individuale, alla terapia di coppia, all’intervento in setting di gruppo, alla formazione psicosociale. La tecnica consiste nel richiedere a una singola persona o a più persone, di assumere, per un tempo limitato, un ruolo secondo un canovaccio precedentemente stabilito; si parla di canovaccio perché proprio come nella commedia dell’arte gli attori, sulla base di alcune indicazioni generali sul proprio ruolo, improvvisavano sulla scena.

Recitare una situazione, in modalità “come se”, è una caratteristica del gioco infantile: immaginiamo due bimbe che giocano “alla scuola”, una fa la maestra e l’altra fa l’alunna. Entrambe impersonano un ruolo, la bimba-maestra fa emergere aspetti del comportamento raccolti dalle maestre con cui ha interagito, creando una sorta di prototipo della maestra che si basa sulla rappresentazione che la piccola si è costruita nel tempo, fatta di pezzi di interazioni reali ma anche di aspetti della storia personale (cioè che idea ho di come l’altro è con me). Lo stesso si dirà per l’altra bimba che fa l’alunna, ruolo in cui la bimba farà se stessa, ma anche le sue compagne, mostrando aspetti di sé, di come fa, quando sta a scuola. Un genitore, a osservare il gioco, forse scoprirebbe nuove cose di come il proprio figlio è nel contesto scolastico che, ad esempio, non vedrebbe in una tipica situazione casalinga.

Il role-playing: la storia

Ripercorrendone la storia, il role playing trae le sue origini all’interno dello psicodramma sviluppato dallo psichiatra romeno J.L. Moreno, il quale si ispirò al “teatro della spontaneità” di cui apprezzava il valore catartico e liberatorio. Rivivere drammaticamente una situazione del passato, ricordata in modo problematico dal paziente, avviando un confronto con uno o altri soggetti che agiscono altri ruoli, mostrò a Moreno il suo valore terapeutico.

L’obiettivo del role playing nello psicodramma è far emergere stati d’animo e farli rivivere attraverso la recitazione di atteggiamenti o comportamenti. La scena si svolge generalmente davanti a degli osservatori e al termine della stessa viene avviato un commento di quanto ciascuno ha provato e osservato negli altri. Sebbene si tratti di situazioni in cui, a differenza della vita reale, vi sono una o più persone che osservano, alterando ovviamente il setting, già di per sé “simulato”, tuttavia il vantaggio è proprio la possibilità di affrontare, in simulazione, una situazione realistica, potenzialmente ansiogena, con la conseguente flessibilità e tranquillità determinata da un contesto protetto.

I campi di applicazione del role-playing

In questo breve scritto cercherò di evidenziare i possibili campi di applicazione del role playing, le sue diverse funzioni e l’uso che se ne fa in Terapia Metacognitiva Interpersonale in relazione alle diverse fasi del trattamento e ai diversi scopi. Si possono, infatti, creare diversi tipi di canovacci in seduta, finalizzati all’incremento della consapevolezza di sé o analogamente si può agire un role playing con lo scopo di ampliare la teoria della mente dell’altro. Inoltre, nelle fasi della terapia in cui si avvia la progettazione del cambiamento, il role playing può aiutare terapeuta e paziente nell’esplorazione, riconoscimento ed emersione delle parti sane del paziente oltre che per il rafforzamento della mastery per problemi relazionali.

Possibili funzioni del role playing

Gli esempi di seguito riportati, sono stralci di sedute sia individuali sia di coppia condotte secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, in cui si cercherà di evidenziare, appunto, lo scopo terapeutico che si vuole raggiungere e il possibile contributo che il role playing può fornire. Nel caso seguente, il role playing è usato per la ricostruzione degli schemi disfunzionali del paziente e per incrementare la sua consapevolezza delle situazioni in cui questi schemi si attivano. Oltre a ciò, la scena, per come è giocata al secondo “ciak”, rappresenta un tentativo per promuovere la mastery del paziente verso il problema portato.

Giorgia, 40 anni , difficoltà coniugali. Il marito è descritto come molto esuberante e prepotente, verso cui lei si è sempre sentita in una posizione d’inferiorità: Giorgia afferma di portare avanti con molta difficoltà le sue opinioni, al punto tale di aver pensato di non averne affatto e facendo proprie quelle di lui. Giorgia sta diventando consapevole del suo schema basato sul bisogno di approvazione, ma sente affiorare l’esigenza di affermare alcune sue idee e richieste, e, se l’altro è in disaccordo, non sa come fare. Un giorno ci prova, ma va male. Lui le parla sopra, lei si lascia schiacciare. Giorgia racconta questo in seduta. Un episodio come questo è un ottimo canovaccio per un role playing. Paziente e terapeuta possono assegnarsi i ruoli: il terapeuta può rappresentare l’altro, il paziente fa se stesso. Tutto ciò per analizzare la sua reazione. Perciò Giorgia fa se stessa, il terapeuta, recuperati da Giorgia elementi della “sceneggiatura”, ricopre il ruolo del marito. Giorgia prova a dire al marito la sua opinione e cosa pensa su una certa situazione. Inizialmente questa operazione le risulta difficile. In un primo momento farfuglia qualcosa circa il figlio e su come vorrebbe gestirlo. Il marito (il terapeuta) a quel punto parla e impone la sua idea. Lei si ferma. Il role playing finisce. Paziente e terapeuta riflettono su cosa ha provato Giorgia in quel momento, Giorgia riporta un senso di costrizione, di ansia. Le viene in mente sua madre che subiva l’autorità del padre. Emerge un’ immagine di sé di poco valore, debole e che si fa sopraffare dagli altri, uomini in particolare. Giorgia si arrabbia e piange. Il terapeuta propone a Giorgia di rifare la stessa scena, con questa nuova consapevolezza. Arrivati al momento in cui prima si era bloccata, Giorgia cambia registro e dice al marito con chiarezza e con calma cosa pensa in merito alla decisione che devono prendere ed aggiunge, per il marito, anche informazioni su di sé: “Non riesco facilmente a dirti la mia opinione perché mi sono sempre bloccata. Ho capito che è una mia difficoltà, penso di non avere niente di giusto da dire. Però sto iniziando a capire che non è così. Per favore, fammi finire di parlare.”

Ci sono casi in cui, invece, far assumere il ruolo dell’altro, in terapia, permette di far emergere la rappresentazione che abbiamo di lui, ci permette di vederla nelle sue articolazioni, ci permette di relativizzarla e di pensare ad essa come ad una nostra idea che abbiamo dell’altro, ci permette anche di immaginare le cose viste dalla sua prospettiva per capire di più i suoi stati mentali. In questa modalità il paziente rappresenta un’altra persona, coinvolta in un episodio con lui ed il role playing assolve alla funzione di ampliamento della teoria della mente dell’altro.

Elisa, 30 anni, rapporto intenso e complicato con suo padre. Il padre è descritto come ansioso, iperprotettivo, anche a causa del fatto che la mamma di Elisa è scomparsa prematuramente quando lei aveva 6 anni. Durante una seduta, Elisa, racconta di quanto fosse difficile avere una comunicazione autentica con suo padre e quanto fosse per lei difficile appoggiarsi a lui essendo sempre stata intenta a proteggerlo, a non “farlo preoccupare”. Pertanto Elisa non ha mai raccontato a lui alcuni trascorsi della sua adolescenza, sebbene lui si fosse mostrato interessato a lei e ai suoi problemi, presenti e passati. Una volta il padre le ha chiesto qualcosa, lei ha divagato e ha tagliato corto. E’ stata un’occasione perduta, commenta in seduta. Si decide di fare un role playing: Elisa gioca il ruolo del padre, la terapeuta fa Elisa, basandosi sull’episodio appena riportato e su fatti che Elisa le racconta. Elisa (recitata dalla terapeuta) racconta al padre cosa ha fatto da ragazza, alcuni episodi anche difficili da raccontare. Il padre (recitato da Elisa) ha un atteggiamento preoccupato, ansioso. Ma, man mano che il dialogo procede, il padre evolve verso un personaggio non ansiogeno, comprensivo e che spiega le sue ragioni dicendo: “Cerca di capire Elisa, io ho sempre avuto paura di non essere un bravo padre per te e tua sorella, ho sempre avuto paura di non riuscire a farvi crescere bene e talvolta sono stato oppressivo e rigido”. Al termine del role playing, Elisa, uscita dal ruolo del padre, piangendo, commenta dicendo che: -la sua idea rigida e stereotipata intanto è una idea che appartiene ad Elisa: “l’ho recitato nel modo in cui io lo vedo”; -nel mettersi nella sua prospettiva l’immagine del padre si è evoluta ed articolata, comprendendo meglio le ragioni di alcuni suoi comportamenti e anche delle sue difficoltà -la situazione così rappresentata appare meno minacciosa ed affrontabile, infatti Elisa dice di sentirsi pronta a provare a parlare diversamente con lui.

Quest’ultimo caso è tratto da una terapia di coppia e il role playing in questa situazione viene giocato dai due partner in terapia, effettuando una inversione di ruolo. Anche qui, come nelle precedenti applicazioni, il role playing permette di aumentare la consapevolezza di sé e la consapevolezza della prospettiva dell’altro, facilitando inoltre l’emergere delle parti sane della relazione di coppia.

Inoltre, se consideriamo che lo scopo terapeutico principale nella TMI per le coppie è quello di incrementare per entrambi i partner la consapevolezza di quanto lo schema disfunzionale individuale contribuisca al mantenimento dello schema disfunzionale dell’altro, concorrendo alla creazione di cicli interpesonali disfunzionali, il role playing anche in questo caso ci fornisce un utile supporto.

Oscar e Alba, sono una giovane coppia che chiede una terapia per l’elevato livello di conflittualità che caratterizza la loro relazione. In una fase iniziale si concorda quale obiettivo terapeutico quello di lavorare sulla comunicazione e sul problem solving. I due partner portano in seduta un episodio di litigio in merito al progetto di acquistare una casa insieme. Lui vuole aspettare che il conflitto di coppia scenda, prima di fare un passo importante, lei sostiene che fare un passo importante abbasserebbe la conflittualità, almeno da parte sua. E’ evidente il circolo vizioso. Dopo il racconto dell’episodio, si decide di effettuare un role playing, facendo assumere a ciascuno il ruolo dell’altro e chiedendo loro di discutere della stessa questione. Emerge subito un’attenuazione della distanza tra le due posizioni: Lei (facendo lui) dice: “Io ho bisogno di tranquillità, io voglio fare progetti con te, forse per te è importante avere un segnale forte del nostro legame, vediamo come fare”. Lui (recitando lei): “Il mio scopo non è metterti pressioni o costringerti, ma per me quello sarebbe un punto importante, sono sicura che i nostri conflitti si attenuerebbero molto”. Entrambi poi, al termine del role playing hanno ragionato ed hanno stabilito di iniziare da subito a guardare in giro per una casa da comprare, per poi fare questo passo effettivamente dopo un po’ di mesi, dandosi il tempo di risolvere alcuni loro problemi. Il role playing in questo caso, seppur finalizzato al problem solving, è stato l’occasione per avviare una ricostruzione e presa di consapevolezza (dilungatasi in numerose sedute successive) degli schemi individuali e di quelli del partner e di come ciascuno contribuisse al mantenimento dello schema disfunzionale dell’altro. La terapia di contro ha iniziato a occuparsi di come poter invertire la tendenza del ciclo disfunzionale tra i due partner.

In conclusione

Il role playing ha una potenza euristica e terapeutica notevole, ma va usato con padronanza, valutando l’opportunità del suo uso, caso per caso. Prima dell’avvio è opportuno chiedere al paziente di prepararsi, di concentrarsi. Il setting dell’esercizio deve essere molto chiaro ed anche ben delimitato nel mandato, nel tempo e nelle modalità. Non con tutti i pazienti può avere lo stesso effetto e non è sempre efficace, le prime volte: in alcuni casi si può riscontrare una certa difficoltà ad assumere un ruolo diverso dal proprio e su questo serve un po’ di esercizio anche per il paziente che imparerà a usare questa tecnica dopo un po’.

Ad ogni modo, in tutti i casi dubbi, valgono gli accorgimenti che ciascun terapeuta esperto usa per valutare l’opportunità di proporre le varie tecniche a sua disposizione: la valutazione del grado e della solidità dell’alleanza terapeutica.

 

Il divano è meglio di Freud di Gianfranco Buffardi (2016) – Recensione

Il libro “Il divano è meglio di Freud” è una riflessione acculturata e stimolante del dott. Gianfranco Buffardi sui fattori aspecifici presenti nelle relazioni d’aiuto. La sua lettura scorre fluida tra colti spunti e ironici accenni.

Introduzione

L’esposizione degli argomenti, a volte, prende spunto dalle sequenze scritte e illustrate da Charles Monroe Schulz. Charlie Brown, Rita Van Pelt e altri personaggi dei Peanuts, con i loro sagaci dialoghi, sono i nostri compagni di viaggio. Inoltre, le considerazioni tecniche sono spesso accompagnate da colti rimandi, mai scontati e sovente brillanti, e aneddoti personali di esperienza clinica (citando Jaspers: “esistenze per altre esistenze”). Sia il clinico esperto che un educatore, senza altisonanti qualifiche professionali, potrà trarre utili informazioni e validi accorgimenti per il suo lavoro quotidiano.

Il valore terapeutico dei fattori aspecifici delle relazioni d’aiuto

Con chiarezza e tocchi d’umorismo l’autore attinge alla sua esperienza clinica e formazione teorica (neoesistenziale) per proporre un testo che non si assurge a saggio o a manuale ma, come lui stesso lo definisce, a una “sorta di resoconto ragionato”. Lo scrittore ha voluto aggiungere, svincolandosi da posizionamenti teorici e metodologici, quelli che per lui sono i fattori comuni o aspecifici delle relazioni d’aiuto. Invece di enucleare le componenti divergenti tra i diversi modelli teorico-pratici, ha evidenziato gli elementi delle metodologie, del setting e dell’approccio relazionale che non sono legati ad un modello psicologico di riferimento, ma che possono ritrovarsi in gran parte delle pratiche operative consolidate, avvalorate da un potenziale terapeutico e di cura.

Ergo, il testo vuole presentare un insieme di fattori aspecifici che in psicoterapia e nelle professioni d’aiuto in generale svolgono un ruolo significativo e di efficacia all’interno della relazione terapeutica (intesa come ogni relazione “educativa”). Secondo l’autore hanno un ruolo importantissimo per il risultato finale della terapia, a volte anche più importante dei fattori specifici. Invero, ritiene che i suddetti fattori siano eticamente più validi di quelli specifici del modello utilizzato dal singolo professionista teoricamente orientato. Inoltre, riconosce a queste componenti aspecifiche un intrinseco contenuto terapeutico, presente nella maggior parte delle professioni d’aiuto e che necessitino di una formazione mirata e particolareggiata per essere adeguatamente acquisite.

Nella presentazione del suo lavoro, per prima cosa, l’autore chiarisce, a livello epistemologico, il senso delle parole dei temi basilari che fungeranno da cardine concettuale alle sue esposizioni argomentative.

Descrive così il suo modello di riferimento (esistenziale), chi sono i suoi maggiori esponenti e quali sono i principi teorici (sceglie i più integrabili e universalizzabili). Introduce, in seguito, il concetto di epigenesi, di aiuto, di cambiamento e di meta-apprendimento; approfondisce il tema dell’aiuto, lo sviluppo storico delle professioni d’aiuto; puntualizza sul concetto di terapia, cura e di determinismo dei modelli terapeutici.

La critica al determinismo assoluto in psicologia

Una delle considerazioni che maggiormente ho apprezzato e trovato arricchente è stata la critica al determinismo assoluto.
Nello specifico, adducendo al principio di Indeterminazione di Heisenberg del 1927 e al teorema di Incompletezza di Gödel del 1930-31 (così come similmente evidenziato dallo stesso Zichichi in “Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo”) l’autore riflette sul concetto di impossibilità di raggiungere una conoscenza totale di tutti gli elementi presenti in un sistema e di tutte le componenti in esso interagenti. Non vi è dunque la possibilità di annoverare e afferrare tutti gli elementi concorrenti alla piena comprensione di un sistema, sia questo di matrice psicologica, matematica o fisica. Anche nelle scienze cosiddette “precise” come la matematica, la fisica e la chimica è impossibile comprendere tutti i fattori in gioco. Questa considerazione può essere traslata nel campo della psicologia e della comprensione dei suoi costituenti, molto meno “precisi”, dei loro similari matematici o fisici.

Ritengo utile tale affermazione non solo riguardo al valore intrinseco di una corretta disamina su chi ha realmente il trattamento migliore in un confronto metodologico tra i differenti approcci psicoterapeutici, ma anche a livello di relazione terapeutica, tra consulente e consultante, durante la discussione empatica circa la tendenza alla generalizzazione che il primo effettua tramite le sue credenze disfunzionali o rappresentazioni disturbanti, spesso fonte di dolore e problematicità psicologica. Dibattere con il paziente sulla reale indeterminazione di molti elementi alla base delle nostre personali considerazioni potrebbe aiutare a rendere meno dogmatiche e irremovibili le disfunzionali convinzioni che spesso il cliente propone nel setting psicoterapeutico.

Quali sono i fattori aspecifici della terapia?

Nel quarto capitolo il libro entra nel vivo e l’autore puntualizza che il termine “aspecifico” indica gli elementi che sono “assolutamente specifici” del rapporto di consultazione. Gli riconosce un valore “nobile” e importante poiché definisce ed eleva la qualità del rapporto tra due persone e le situa in un contesto relazionale esclusivo e originale.
Dopo aver delucidato i termini e il campo teorico su cui si muove la sua riflessione, l’autore divide i fattori aspecifici in: legati al consultante (colui che chiede aiuto), legati al terapeuta (consulente), specifici del setting (regole d’incontro) e del rapporto terapeutico (interattivo).
Il suo scopo è quello di individuare il loro potenziale terapeutico e di cura.

Per quanto concerne il primo gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consultante), partendo dal concetto di singolo come risultato dell’interazione tra le proprie caratteristiche genetiche, gli accadimenti e gli aiuti alla crescita di cui ha usufruito, lo scrittore li divide in: consapevolizzazione di necessitare d’aiuto; scelta; organizzazione della richiesta; narrazione e organizzazione mentale di ciò che deve narrare; disponibilità all’empatia.

Per quanto attende il secondo il gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consulente), lo psichiatra campano tiene a sottolineare che la creazione dell’alleanza terapeutica, strumento ormai considerato un must del rapporto terapeutico efficace, sia per la maggior parte compito del consulente e che i seguenti fattori siano attori importanti di un adeguato rapporto di consulenza: competenza clinica; autenticità, accettazione ed empatia; ricerca di sintonia; atteggiamento complementare/simmetrico.

In riferimento ai fattori aspecifici del setting, Buffardi reputa ogni elemento al suo interno non privo di significato. Include molte componenti e ci fa intendere che la sua comprensione dovrebbe essere poliedrica e particolarmente attenta ai seguenti fattori: qualità del setting; implementazione del campo affermativo; implementazione del senso di riconoscibilità e di “appartenenza”.

Infine, i fattori aspecifici del rapporto terapeutico sono considerati come molto frequenti e non sempre pienamente evidenti alla coscienza. La focalizzazione, la cognitivizzazione, la costruzione di una scala di valori, la sofferenza vissuta, l’ampliamento delle mappe interne e il cambiamento della visione del mondo sono i fattori presentati in questa sezione. Questo è il capitolo che ho trovato più interessante, probabilmente poiché ho trovato riflessioni teorico-pratiche davvero integrate e super-partes.

Il libro si conclude con due capitoli che puntano a completare la “quadratura del cerchio”, riguardo il tema proposto, introducendo le componenti aspecifiche comuni delle principali psicoterapie e i parametri per l’acquisizione di un’adeguata capacità di aiuto, di formazione personale e di etica professionale.
Considero questi due ultimi capitoli non meno importanti degli altri, anzi, qui si evince ancora meglio la competenza e la vasta esperienza dell’autore. Sono avanzati notevoli nozioni che possono sapientemente fungere da base concettuale per una valida e corretta professionalità nel campo delle relazioni d’aiuto.

Conclusioni

Nel complesso, il libro, con le sue 144 pagine, introduce, illustra e propone la lucida analisi personale di un clinico esperto e capace di esporre con erudizione e funzionalità quelli che sono i fattori aspecifici che svolgono quotidianamente un ruolo nella nostra pratica clinica. Comprenderli e tenerli presenti durante la terapia potrà sicuramente facilitare il nostro ruolo e rendere più agevolare il superamento del disagio psicologico.

Il sorriso della Monna Lisa: emblema della relazione di Leonardo con il suo primitivo oggetto d’amore?

Quello della Gioconda è senza dubbio uno dei ritratti più celebri al mondo: il sorriso della Monna Lisa ha affascinato gli storici e gli appassionati d’arte e ha fatto versare fiumi d’inchiostro.

 

 

La donna ritratta da Leonardo da Vinci (1452-1519) è stata da molti identificata con Monna Lisa Gherardini: idea, questa, già sostenuta dal Vasari, che, nelle ‘Vite’ scrisse:

Prese Leonardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie; et quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo . . . Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, Et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.

Per altri, dietro le aggraziate vesti femminili ci sarebbe un allievo-amante di Leonardo che si fece ritrarre con abiti femminili; per altri ancora si tratterebbe di un lavoro commissionato da Giuliano de’ Medici per immortalare la sua amante, la nobildonna Pacifica Brandani.

Della Gioconda è stato analizzato tutto: volto, abiti, sfondo, ma ciò che colpisce maggiormente di questa opera meravigliosa è il sorriso della Monna Lisa, impercettibile ed enigmatico, a metà tra il celato e l’evidente, che varia a seconda dei punti di osservazione e che incarna l’essenza dell’attimo in divenire, ovvero dei sentimenti dell’uomo in continuo mutamento.

A mio avviso il sorriso della Monna Lisa non è espressione di gioia, sentimento transitorio, quanto piuttosto espressione di quella tranquilla serenità tipica di chi domina con la ragione e tipica anche dello stesso Leonardo.

 

 

Cosa nasconde il sorriso della Monna Lisa? L’analisi di Freud

Sulla personalità e sul genio del Maestro da Vinci sono state spese milioni di parole; di lui scrisse anche il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), che cercò di delineare la figura ed il carattere dell’artista, partendo da un sogno che il da Vinci accenna nei suoi manoscritti:

ne la mia prima ricordazione della mia infanzia è mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra (Codice Atlantico C-61r).

Nell’ottobre del 1909, Sigmund Freud, appena rientrato dall’America, scrisse a Carl Jung:

Da quando sono tornato ho avuto un’idea.  Il mistero del carattere di Leonardo mi è divenuto improvvisamente trasparente.

Freud costruì una psico-biografia dell’artista vinciano partendo dal sogno del nibbio e ricordando che Leonardo era figlio illegittimo del notaio Pietro da Vinci e di una contadina di nome Caterina, quindi era figlio ‘di sola madre’, ‘figlio dell’avvoltoio’.  Da fonti storiche si apprende, infatti, che Leonardo trascorse i primi anni d’infanzia esclusivamente con la madre e che poi andò a vivere con il padre e con la giovane moglie di quest’ultimo, Donna Albiera, che, non potendo avere un figlio suo, adottò quello del marito. La separazione dalla madre Caterina, che morì quando Leonardo aveva cinque anni, segnò profondamente la sua personalità.

Con la fantasia dell’avvoltoio Leonardo rievocò la sua condizione di figlio privo del padre ed il suo rapporto, molto intenso, con la madre.

Freud descrisse il Maestro da Vinci come un insaziabile ed affamato ricercatore, sempre ‘profondamente alla cerca della forma perfetta’.  Questa sua continua tendenza a ricercare la perfezione lo portò a non essere mai pienamente soddisfatto delle proprie opere e a ritenerle sempre incomplete: ciò accadde anche con la Gioconda, opera sulla quale lavorò per quattro anni senza tuttavia portarla a definitivo compimento e per questo mai consegnata al committente.

Quando iniziò a lavorare al ritratto della Gioconda, Leonardo aveva ormai una cinquantina d’anni e nel volto e nel sorriso della Monna Lisa probabilmente ritrovò il suo primitivo oggetto d’amore, ovvero la madre. Da quel momento in poi quel sorriso si ripeterà su tanti volti dipinti da Leonardo, in particolare in ‘Sant’Anna, la Vergine, il Bambino, l’Agnello‘, dove lo sguardo ed il sorriso di Sant’Anna, chiaramente leonardeschi, rimandano senza dubbio a quelli più celebri della Gioconda. Il sorriso di Sant’Anna è inequivocabilmente lo stesso sorriso della Monna Lisa, anche se, forse, è meno enigmatico e più benevolente. Il dipinto è molto significativo da un punto di vista psicoanalitico: la Vergine e sua madre Anna, infatti, sembrano coetanee e dunque il Bambino sembra avere due madri, esattamente come due madri ebbe Leonardo (la madre naturale Caterina e la matrigna Albiera).

I sorrisi leonardeschi, verosimilmente, rimandano a quelli della giovane e tenera ragazza madre di nome Caterina. Lo stesso paesaggio ritratto alle spalle della Gioconda rimanda all’infanzia di Leonardo: troviamo infatti rappresentato un affluente dell’Arno che nasce proprio dalle montagne di Vinci: una sorta di ricollocazione della madre nel luogo della sua prima infanzia felice ed una sintesi della storia dei suoi primi anni di vita.

Nel corso degli anni il Maestro aggiunse e rifinì continuamente i dettagli della Gioconda, quasi fosse alla ricerca della perfezione, come se avesse scelto Monna Lisa per esprimere i suoi stati d’animo più profondi e la sua personalità, soprattutto nei suoi aspetti più inconsci ed irrazionali: nascosta tra le forme del celebre dipinto, l’avvoltoio-madre continua a compiere l’atto di quell’antica fantasia di Leonardo.

Nuovi sviluppi nella ricerca sulla sclerosi multipla

Nel presente articolo viene presentata la recente scoperta sul gene NR1H3 della sclerosi multipla effettuata da un team di ricercatori dell’università della British Columbia di Vancouver, in Canada e pubblicata sulla rivista Neuron, che aprirebbe la strada alla comprensione di una probabile causa genetica di questa malattia neurodegenerativa.

La sclerosi multipla e la nuova scoperta

La sclerosi multipla (SM) è: [blockquote style=”1″]an inflammatory disease characterized by myelin loss and neuronal dysfunction[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016), quindi si verifica un impedimento nel corretto flusso di informazioni tra il cervello e il corpo. In particolare, questa scoperta è cruciale [blockquote style=”1″]per la comprensione della sclerosi multipla. Si conosce poco dei processi biologici che innescano la malattia e questa scoperta ha un enorme potenziale per lo sviluppo di nuovi trattamenti, mirati alle cause della malattia e non solo ai suoi sintomi[/blockquote] ha così commentato il ricercatore che ha guidato lo studio, Carles Vilariño-Güell.

L’importanza di questa scoperta risiede nel fatto che per la prima volta è stata individuata una mutazione genetica che può essere collegata allo sviluppo della sclerosi multipla.
Nello specifico, la mutazione individuata è a carico del già nominato, gene NR1H3 che è la causa della perdita della proteina LXRA, la quale ha il compito di controllare i livelli con cui i diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi, si esprimono nei processi infiammatori e in quelli immunitari. In altri termini, questa proteina funge come: [blockquote style=”1″]un interruttore on-off su altri geni capaci di bloccare l’eccessiva infiammazione che danneggia la mielina o in grado di riparare il danno formando altra mielina [/blockquote](Montebelli M. R., 2016), spiega il Direttore delle Ricerche sulla malattia di Alzheimer presso la UBC, Weihong Song.

La ricerca

I ricercatori canadesi hanno utilizzato una grande banca dati, la Canadian Collaborative Project on Genetic Susceptibility, contenente materiale genetico di oltre 2.000 famiglie canadesi (Montebelli M. R., 2016).

Lo studio ha previsto l’analisi di [blockquote style=”1″]seven MS patients from two multi-incident families presenting severe and progressive disease, with an average age at onset of 34 years[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016).

Da queste analisi è stato dunque rilevato che la mutazione ha conseguenze sulle funzioni biologiche in quanto una proteina difettosa, la descritta LXRA, può sviluppare forme di sclerosi multipla.
È stato rilevato come, la mutazione riguardante il gene NR1H3 sembri aumentare il rischio di sviluppare una sclerosi multipla primaria progressiva nei soggetti che sono stati esaminati.

Il Direttore della MS Society of Canada Research presso la UBC e della Coastal Health’s MS and Neuromyelitis Optica Clinic di Vancouver, afferma infatti che: [blockquote style=”1″]se sei portatore di questo gene […] ci sono molte possibilità di sviluppare una forma di sclerosi multipla a rapida evoluzione. Individuare la presenza di questo gene ci dà una finestra di opportunità precoce e critica per mettere in campo tutte le nostre forze per cercare di bloccare lo sviluppo della malattia. Cosa che finora non potevamo fare[/blockquote] (Montebelli M. R., 2016).

Per concludere: [blockquote style=”1″]Our study indicates that pharmacological activation of LXRA or its targets may lead to effective treatments for the highly debilitating and currently untreatable progressive phase of MS[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016).

It follows: il lato oscuro del diventare adulti (2014) di David R. Mitchell – Recensione

It follows sembra una favola horror, che, con il tema classico della donna in pericolo e una trama apparentemente semplice, parla di cose che semplici non sono per niente, contrapponendo gli opposti che altro non sono che i due lati della medaglia: la vita e la morte.

 

ATTENZIONE SPOILER !! – Quartiere residenziale americano. Detroit. Al giorno d’oggi, più meno. Villette a schiera, un viale alberato, un tranquillo scorcio di periferia al tramonto.

Una ragazza. Giovane, bella e terrorizzata. Fugge facendo risuonare i tacchi alti sul selciato. Si guarda alle spalle, si blocca. Ma non c’è niente, assolutamente niente. Tanto che il padre la chiama, da dentro la casa, chiedendole che succede, con toni di perplessità nella voce. E lei, con la voce spezzata dalla paura, risponde che va tutto bene. Rientra in casa, poi riesce, e mette in moto la macchina a gran velocità. Si ferma su una spiaggia (nel frattempo è calato il buio). Piangente, seduta davanti al mare, telefona al padre per dirgli che gli vuole bene. Il mattino seguente giace morta sulla spiaggia.

Un’altra ragazza, Jay, anche lei giovane e bella, esce con Hugh, un ragazzo che le piace. Vanno al cinema. Ingannano l’attesa prima della proiezione del film giocando al ‘se fosse‘. Se tu potessi essere qualcuno tra queste persone chi vorresti essere?

Lui le indica, in mezzo agli altri spettatori, una ragazza vestita di giallo. Ma Jay quella ragazza non la vede: crede che lui stia scherzando. Invece, lui diventa nervoso e le chiede di andare via, perché non si sente bene. Lasciano precipitosamente il cinema e vanno a cena fuori. E tutto sembra andare di nuovo per il meglio. Tanto che il giorno dopo escono di nuovo e, a fine serata, fanno sesso in macchina.

E dopo, mentre lei parla sognante del tempo che passa e di quanto, da piccola, non vedesse l’ora di diventare grande, di essere mano nella mano con un bel ragazzo, lui improvvisamente la aggredisce: vuole addormentarla con del cloroformio. E Jay si risveglia legata ad una sedia. Ma Hugh dice che non vuole farle del male, ma metterla in guardia: attraverso il rapporto sessuale lui le ha tramesso una cosa. Una malattia? No. Un follower. Un qualcosa che la seguirà ovunque, assumendo varie forme. Uno sconosciuto tra la folla. Oppure una persona conosciuta e familiare, ma solo nell’aspetto. Il follower la seguirà, lentamente, inesorabilmente, quando meno se l’aspetta, comparendo dal nulla. E, se la prende, la ucciderà. Gli altri non lo vedono. Solo lei e le persone, se ancora sono vive, che ne sono state contagiate prima di lei.

Perché un modo per liberarsene c’è, apparentemente l’unico: fare sesso con qualcun altro; così il follower comincerà ad interessarsi alla nuova preda. Ma, se riuscirà ad ucciderla, tornerà a quella precedente. Ecco perché Hugh ci tiene particolarmente che Jay segua le istruzioni e rimanga in vita il più a lungo possibile.

Così, proprio mentre una donna comparsa dal nulla e dall’aspetto un tantino sinistro comincia a camminare inesorabilmente verso di loro, Il ragazzo carica Jay in macchina e la riporta a casa, dove ci sono ad attenderla, la sorella Kelly e gli amici di sempre, Paul e Yara. Sarà vero o sono solo i deliri di uno psicopatico? Nei giorni seguenti, in effetti, la cosa inizia a seguire Jay, dovunque si trovi.

– FINE SPOILER –

It Follows (2014) Trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=f92P688jx9U

Questa, a grandi linee, la trama di questo horror atipico; poco sangue, molta tensione. Basterebbe già solo la colonna sonora di Disasterpiece, devo dire.

Colpisce, l’acqua che torna sempre, da quella del mare, a quella del lago, a quella della piscina, l’acqua che è un altro protagonista del film.

Il bello delle opere d’arte è che si prestano a varie chiavi di lettura, più o meno vicine alle intenzioni originarie dell’ autore; ognuno ci mette del suo.

It follows sembra una favola horror, che, con il tema classico della donna in pericolo e una trama apparentemente semplice, parla di cose che semplici non sono per niente, contrapponendo gli opposti che altro non sono che i due lati della medaglia: la vita e la morte, con la sua inevitabilità, lenta e inesorabile, come il follower che, lentamente, ma inesorabilmente, segue il suo obiettivo… ‘E’ lenta ma non stupida!‘ dice Hugh a Jay.

E poi  l’amore e il sesso, la fiducia e la paura, il crescere e lasciare il passato alle spalle, il senso di responsabilità, i legami familiari, i rapporti con gli amici, l’attrazione e la repulsione, la solitudine, l’apparenza e la realtà, il pericolo e la sicurezza, ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto, chi siamo, chi vorremmo essere, chi sono gli altri e chi crediamo che siano…e chi più ne ha, più ne metta.

Il tutto declinato nel momento della vita in cui ci si lascia alle spalle l’adolescenza e ci si affaccia alla prima età adulta. I teenager di questo film sono veri nelle loro fragilità e sembrano tanto soli: gli adulti non ci sono, non si vedono se non in fotografia. Non è a loro che si chiede aiuto, non ci crederebbero e, comunque, anche se presenti, fanno parte di un mondo parallelo.

La chiave di lettura della malattia sessualmente trasmissibile è riduttiva; del resto, si contrae la maledizione facendo sesso, ma, allo stesso modo, così ce ne si libera. Piuttosto, c’è un senso come di persecuzione, qualcosa che fa breccia nell’apparente normalità del quotidiano, e che sconvolge tutto…niente sarà più come prima. Non ti puoi sottrarre. E c’è una responsabilità che nessuno vuole prendersi. Nessuno sa da dove è partito tutto questo. L’unica cosa che conta è sbarazzarsene quanto prima, scaricando il problema su qualcun altro. Ma tanto poi torna. Sempre. Ti segue. Sempre. Anche se dici che non ci credi.

Ha le forme più varie, perché, forse, prende per ognuno la forma che più lo riguarda. E parla delle paure più profonde di ciascuno, quelle dalle quali non si scappa mai. E, forse, non è un caso che si risvegli con il risveglio del desiderio, perché la paura e il desiderio sono sempre legati.

Parto con ipnosi Ericksoniana: l’inconscio al servizio di mamma e bambino

Le donne che affrontano il parto con ipnosi sperimentano intensità di dolore ridotte, richiedono dosaggi inferiori di anestetici a beneficio del nuovo nato, necessitano meno frequentemente di stimolazione artificiale del travaglio tramite ossitocina.

 

L’applicazione dell’ipnosi e dell’autoipnosi in preparazione al parto è forse uno degli ambiti più studiati.

Le donne che affrontano il parto con il supporto di tecniche ipnotiche sperimentano intensità di dolore ridotte, richiedono dosaggi inferiori di anestetici a beneficio del nuovo nato, necessitano meno frequentemente di stimolazione artificiale del travaglio tramite ossitocina e danno alla luce bambini con più alti punteggi APGAR (indice di salute del neonato) (Cyna, Andrew e McAuliffe, 2006; Vande Vusse et al., 2007; Brown e Hammond, 2007; Landolt  e Milling, 2011).

L’ipnosi e l’autoipnosi sono efficaci nella riduzione dei tempi del travaglio soprattutto nelle donne primipare (Landolt e Milling, 2011, Jenkins e Pritchard, 1993) e diminuiscono l’incidenza della depressione post-partum (Guse, Wissing e Hartman, 2006).

Infine, l’ipnosi è facilmente integrabile con altri percorsi strutturati di preparazione al parto (Harmon, Hynan & Tire, 1990) e può essere efficacemente utilizzata in tutte le fasi della gravidanza poiché si tratta di metodiche totalmente prive di effetti collaterali. Ad esempio, l’ipnosi può contribuire a controllare le nausee, stabilizzare la pressione e gestire ansia.

 

 

Cosa significa preparare il parto con ipnosi?

Innanzitutto occorre precisare che esistono numerosi approcci diversi all’ipnosi e in questo articolo tratteremo essenzialmente l’ipnosi Ericksoniana.

L’ipnosi Ericksoniana lavora attivando e valorizzando le risorse di ciascuna persona e per questo è ritenuto l’approccio più efficace quando si lavora in un’ottica di benessere (Walters e Havens, 1994). Nei percorsi di preparazione al parto si cerca, infatti, il benessere della donna e del bambino, non solo dal punto fisico, ma anche psicologico ed emozionale (Guse, Wissing e Hartman, 2006).

Oltre ad apprendere la gestione del dolore, attraverso le tecniche ipnotiche e il parto con ipnosi le future mamme posso approfondire le modalità di ascolto di sé e del bambino, per meglio comprendere le proprie emozioni, aspetto fondamentale nel delicato periodo post partum.

La relazione con il bambino si instaura già durante la gravidanza e tale relazione si definisce attaccamento madre-feto o attaccamento prenatale (Cranley, 1981; Cannella 2005). Si tratta di un concetto relativamente nuovo e per certi aspetti ancora poco studiato (Salisbury et al., 2003). In concreto, l’attaccamento prenatale si traduce in tutti quei comportamenti di cura fisica (alimentazione, esercizio fisico, astensione da alcool e fumo) e sintonizzazione emotiva (parlare al feto, accarezzare la pancia, prestare attenzione ai movimenti, immaginarne il volto, preparazione del nido). Una buona relazione prenatale favorisce la qualità della relazione madre bambino dopo il parto (Siddiqui e Hägglöf, 2000).

Anche i padri possono essere coinvolti nel percorsi di preparazione del parto con ipnosi Ericksoniana. Infatti, maggiore è il coinvolgimento dei padri nella fase prenatale, migliore è supporto sia durante il parto, sia nelle settimane immediatamente successive che riescono a fornire, favorendo un migliore clima emotivo sia per la madre, sia per il bambino e contribuendo a prevenire la depressione post-partum.

Rendendo vivida l’interazione con il piccolo in grembo e strutturando un equilibrio emotivo più armonico per la donna e per la coppia, l’ipnosi Ericksoniana favorisce il benessere del bambino e dei genitori che si preparano ad accoglierlo (Hohmann-Marriott, 2009).

Creature di un Giorno (2015) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

In Creature di un giorno, Irvin Yalom tramite le storie di diversi personaggi-pazienti, affronta alcuni tra i principali temi esistenziali come la finitezza della vita, il timore per la vecchiaia, la perdita delle persone amate, il desiderio di vivere una vita piena di significato.

 

Irvin D. Yalom, autore di Creature di un giorno, è uno psichiatra, psicoterapeuta, professore emerito della Stanford University e scrittore. Tra le sue opere, alcuni romanzi che affrontano temi esistenziali, filosofici e di interesse psicoterapeutico. Ad esempio il protagonista del suo noto libro ‘La cura Schopenauer’, è uno psichiatra a cui viene fatta una diagnosi di un tumore maligno.  Le riflessioni e i timori del medico, derivanti dalla scoperta della grave malattia, si snodano attraverso le storie dei partecipanti ai gruppi di psicoterapia che egli segue.

Su State of Mind abbiamo recensito di Irvin Yalom i seguenti libri: Sul lettino di Freud, Le lacrime di Nietzche, Guarire d’amore (NdR).

Anche in Creature di un giorno, Yalom tramite le storie di diversi personaggi-pazienti, affronta alcuni tra  i principali temi esistenziali come la finitezza della vita, il timore per la vecchiaia, la perdita delle persone amate, il desiderio di vivere una vita piena di significato.

E’ interessante notare il taglio del libro perché l’autore nel raccontare i protagonisti di ogni capitolo svela parte del suo dialogo interno e quindi, inevitabilmente, parla anche di sé e di come i temi dei pazienti vadano di volta in volta a sollecitarlo.

Il primo capitolo ‘La cura contorta’ inizia con una mail che Yalom riceve da un collega scrittore che presenta un blocco creativo. Il giorno dell’appuntamento quando vede arrivare il paziente si sorprende perché si aspettava uno scrittore di mezza età mentre si presenta un signore molto anziano, che Yalom si affretta subito ad aiutare togliendogli la borsa di mano e guidandolo fino alla sedia con uno scambio di battute:

P: ‘Grazieee, grazieee, giovanotto. E mi dica, lei quanti anni ha?’

Y: ‘Ottanta’ risposi

P: ‘Ahhh, avere ancora ottant’anni!’

Y: ‘E lei? Quanti ne ha? ‘

P: ‘Ottantaquattro. Si, esatto ottantaquattro. So di averla stupita. Molti sono convinti che ne abbia poco più di trenta’.

Nelle storie presentate il tema dell’età emerge di frequente, anche per il modo con cui i pazienti si pongono nei confronti di Yalom in considerazione della sua età e perché egli stesso esplicita come alcuni temi gli sono molto familiari a causa della fase della vita in cui si trova.

E non è un caso che vengano trattati questi argomenti perché un obiettivo dell’autore è proprio quello di portare all’attenzione dei lettori l’importanza dei temi esistenziali che, pur essendo fonte di notevoli problemi nella vita delle persone, vengono talvolta trascurati in quanto non rientrano nelle categorie diagnostiche tradizionali.

Spero anche che queste storie aumenteranno la consapevolezza dei terapeuti riguardo ai temi esistenziali. In queste dieci storie vedo i miei pazienti come persone che soffrono di malattie che sfuggono alle categorie tradizionali

A riguardo Yalom fa spesso riferimento ai limiti di un approccio centrato sulla necessità di fare diagnosi, in quanto rischia di annullare e di far perdere di vista l’unicità di ciascun paziente; per il modello applicato (che definisce umanistico e olistico) la cosa più importante che possa fare un terapeuta è offrire al paziente una relazione che risulti autentica e risanatrice. A questo proposito egli fa notare come la varietà delle storie presentate in Creature di un giorno abbia richiesto un ventaglio di interventi personalizzati e come ogni paziente abbia tratto vantaggio dalla terapia in un modo tutto personale e talvolta inaspettato.

E finanche nelle situazioni che appaiono disperate la persona può trovare la forza per affrontarle purché accada qualcosa che riesca a far leva sulle sue stesse risorse. A questo proposito può essere esemplificativo (anche se non scaturito in modo diretto dalla terapia) il caso di Astrid, protagonista del capitolo ‘Tiri fuori un po’ di classe per i suoi figli’, che racconta come in un momento di grande disperazione per una grave malattia che l’affliggeva, fosse accaduto qualcosa che all’improvviso le aveva permesso di riprendersi. Infatti, mentre in ospedale – aspettando che arrivasse la sua famiglia a trovarla – si disperava senza riuscire a smettere di piangere un’infermiera le disse: ‘Tiri fuori un po’ di classe per i suoi figli’.

La paziente spiega a Yalom che, anche se non sa come, queste parole hanno avuto l’effetto di scuoterla e di portarla a pensare a qualcun altro oltre a se stessa; dopo giorni di disperazione in cui era totalmente sopraffatta dalla paura di morire, quelle parole le avevano permesso di vedere che poteva ancora fare qualcosa per la sua famiglia, che poteva diventare un esempio per loro.

Tempo dopo, anche l’infermiera in questione si rivolgerà a Yalom, avendone sentito parlare da Astrid, e in quell’occasione emergerà che le parole dell’infermiera non erano state pronunciate come incoraggiamento ma piuttosto con rabbia e invidia per l’interesse e l’affetto con cui la famiglia della ricoverata circondava quest’ultima (l’infermiera viveva invece una situazione familiare difficile). Ma, come accade spesso anche in terapia, l’effetto di un intervento più che alle intenzioni del curante è dovuto al modo con cui lo recepisce il paziente; cioè al significato che quest’ultimo attribuisce alle parole e agli eventi, in riferimento ai suoi temi personali che vengono sollecitati.

Creature di un giorno è il titolo anche del decimo capitolo e racconta di Jarod, un medico trentaduenne appassionato di filosofia dai tempi del college, che lo aveva scelto come terapeuta proprio dopo aver letto alcuni dei suoi romanzi a tema filosofico. Nel corso delle sedute, il paziente, preoccupato che Yalom mantenesse un’immagine positiva di lui, aveva omesso di raccontare che oltre alla relazione affettiva di cui stava parlando in terapia, da breve tempo frequentava anche un’altra donna; si sentiva in colpa per il suo comportamento tanto più che la compagna era malata e temeva, quindi, che comunicando quanto stava accadendo avrebbe dato una immagine negativa di sé.

Yalom per far mettere a fuoco al paziente il peso che attribuisce all’opinione che il terapeuta ha di lui, anche a scapito della terapia stessa visto che aveva evitato di riferire delle difficoltà che stava vivendo nella vita affettiva, gli propone di leggere insieme alcuni brani dei ‘Pensieri’ di Marco Aurelio tra cui:

Siamo tutti creature di un giorno; colui che ricorda e colui che è ricordato. Tutto è effimero, tanto il ricordo che l’oggetto del ricordo…

Inoltre a fine seduta gli chiede di riflettere sul possibile collegamento tra la sua difficoltà a prendere decisioni e il bisogno che l’altro si formi e mantenga un’immagine positiva di lui.

Nei giorni successivi Jarod, grazie anche alla lettura dei ‘Pensieri’ a cui si dedica, riesce effettivamente a comprendere meglio alcuni aspetti di sé. Spiega, quindi, nel colloquio seguente, il suo proposito di parlare con le due donne per comunicargli che non si sente pronto per una relazione seria con nessuna e che si è reso conto di dover fare prima un lavoro importante su se stesso; comprende, inoltre, di voler apportare delle modifiche alla carriera professionale intrapresa perché non sente sia frutto di una vera scelta.

Interessante osservare come i modi per far cogliere al paziente il significato delle difficoltà che avverte  possano essere molteplici. In questo caso, l’interesse del paziente per la filosofia viene utilizzato per avviare una riflessione su alcuni passaggi dei ‘Pensieri’ volta a far cogliere come la stima di se stessi e la capacità di autovalutazione dovrebbero essere principalmente il frutto di processi di giudizio interni e non ricavati dall’immagine che rimanda l’altro.

Ho citato solo alcuni protagonisti del libro ma ci sono anche Charles, Natasha, Alvin, Rich, Justine, Sally, Ellie, Helena e Andrews.

Nei casi presentati si può osservare come Yalom cerchi di guidare il paziente a comprendere il motivo autentico del sintomo. Infatti, l’attenzione posta ai temi esistenziali è anche finalizzata a non farsi ‘ingannare’ dalla spiegazione iniziale fornita dal paziente, la quale, in genere, è legata soprattutto alla manifestazione ‘di superficie’ del problema.

Infine, nella postfazione l’autore spiega l’importanza che attribuisce alla relazione tra il terapeuta e il paziente:

In questi racconti spero di far capire come il focalizzarsi sul qui ed ora possa essere usato con il massimo vantaggio. Non mi stanco di richiamare l’attenzione sul legame con il paziente: faccio controlli del processo in corso; mi informo ripetutamente sullo stato del nostro incontro nel corso della seduta; chiedo al paziente se ha delle domande da rivolgermi; cerco notizie sulla nostra relazione nei sogni. In breve, non manco mai di dare la massima priorità allo sviluppo di un legame onesto, trasparente, proficuo tra noi.

Creature di un giorno, come altre pubblicazioni dell’autore, può risultare interessante per i terapeuti di diversa formazione per almeno due motivi:  perché presenta una modalità di lavoro che fa riferimento non solo a un modello di psicoterapia ma piuttosto a un atteggiamento aperto e creativo del professionista e quindi trasversale ai diversi orientamenti.

In ogni caso ho concepito, o a volte ho trovato per caso, un approccio diverso per ciascun paziente, che non si può consultare in un manuale di terapia.

L’altro motivo è rappresentato dallo stile personale dell’autore che, forse anche grazie alla sua esperienza clinica di oltre cinquanta anni, negli episodi che racconta non si limita a illustrare la storia del paziente e alcuni passaggi terapeutici ma riporta anche le sue riflessioni, descrive e commenta la relazione terapeutica, le problematiche che incontra con le peculiarità della persona in cura. Inoltre nel descrivere le sue considerazioni sull’andamento della terapia, in particolare nei passaggi incerti, non nasconde la sua preoccupazione di avere commesso degli errori e la conseguente valutazione circa il modo di modificare l’intervento.

P.A.T.H. (planning alternative tomorrows with hope): come e perché utilizzare strumenti di sviluppo personale nei percorsi di ripresa per persone con diagnosi psichiatrica

Negli ultimi decenni, nel panorama letterario, scientifico, e dei servizi di salute mentale, sono emersi nuovi approcci che promuovono forme di guarigione sociale, clinica e personale in casi di diagnosi psichiatrica.

OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

 

Il primo studioso a teorizzare diverse sfaccettature dei processi di ripresa fu Anthony che nel 1993, scrisse sul Recovery:

 Un processo profondo e unico di cambiamento delle attitudini, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e ruoli. Sentirsi realizzati vivendo una vita soddisfacente, piena di speranza nonostante le limitazioni causate dalla malattia. Recovery comporta lo sviluppo di nuovi significati e apprendimenti nella vita di una persona che cresce e si sviluppa oltre gli effetti catastrofici della condizione patologica

Insieme al paradigma del Recovery ne sono emersi altri ad esempio: ‘Whole Life, Whole person, Whole System’, ‘Open Dialogue’ e persino ‘Tojisha Kenkyu‘ in Giappone. Essi hanno lo scopo di promuovere un cambiamento di cultura sulla malattia mentale, ridurre lo stigma interno ed esterno associato alla condizione patologica e favorire possibilità di guarigione anche in condizioni considerate croniche come nei casi di schizofrenia.

Tali approcci riguardano non solo una metodologia, ma anche l’assetto dei servizi e delle organizzazioni che promuovono salute mentale come ad esempio nel caso dell’Open Dialogue che in Finlandia dell’Ovest è l’unico approccio utilizzato con pazienti con diagnosi psichiatrica (Seikkula et al. 2009).

In comune questi approcci, fortemente attuali oggi, hanno alcuni elementi che riguardano un maggior focus sul problema anziché sulla diagnosi psichiatrica, sui valori anziché sulle tecniche, sull’intervento immediato e sul coinvolgimento della rete sin dalle prime fasi della crisi, sulla (ri)costruzione di una rete sociale supportiva forte, sulla considerazione della realtà vissuta dal soggetto come tale anziché sulla patologizzazione dei comportamenti, sulla esplorazione di possibilità di miglioramento piuttosto che l’implementazione di modelli prestabiliti di trattamento (soprattutto farmacologico o socio-riabilitativo).

 

 

I limiti del paradigma medico nei casi di diagnosi psichiatrica

Sebbene nel paradigma Bio-Psico-Sociale (i.e. Waltzer, 1982) siano considerati diversi fattori all’origine del disturbo, spesso, di fatto, gli interventi si concretizzano in cura centrata sul riassetto degli squilibri chimici a livello celebrale, e quindi sull’aspetto biologico, tanto che ad oggi il farmaco rimane il rimedio considerato come fondamentale nella maggioranza dei casi di diagnosi di schizofrenia.

Negli ultimi anni, si sono sempre più fatte strada visoni diverse che mettono in discussione il paradigma medico tradizionale discostandosi da ogni forma di riduzionismo, incluso quello biologico. Questa riflessione è supportata dalla diffusione e dalla forte considerazione che ha riscontrato il libro ‘Indagine su una Epidemia’ scritto dal giornalista americano Robert Whitaker, il quale fornisce una argomentazione scientifica, basata sulla raccolta di dati longitudinali di grandi popolazioni in merito agli effetti a lungo termine dell’utilizzo degli psicofarmaci. La domanda dalla quale egli parte è quanto gli psicofarmaci abbiano influenzato il decorso a lungo termine dei disturbi mentali negli ultimi decenni, e quanto siano aumentate le probabilità che le persone con diagnosi psichiatrica in cura farmacologica abbiano una prognosi maggiormente favorevole considerando l’evoluzione della scienza e della farmacologia. Sulla base dei dati raccolti, il giornalista suggerisce maggiore cautela nell’utilizzo di psicofarmaci, sopratutto neurolettici.  Riprendendo le parole di Peter Tyrer.

E’ arrivato il momento di riconsiderare il principio secondo cui gli antipsicotici debbano essere sempre la prima scelta nel trattamento delle persone con un episodio psicotico. Non si tratta di un urlo selvaggio dalla foresta, ma di un’opinione presa in considerazione da importanti ricercatori …. Ci sono evidenze scientifiche sempre più convincenti che ci dicono che, se consideriamo gli effetti avversi degli antipsicotici, il gioco  – per esprimerci in modo semplice – non vale la candela.

Peter Tyrer, Editor – British Journal of Psychiatry, August 2012

 

Dunque, la tematica di re-definizione personale, in particolare dall’essere malato cronico all’essere attore di un percorso di ripresa, si posiziona al centro dell’approccio attuale. Le parole riabilitazione e cura, così strettamente legate a quelle di cronicità e malattia mentale possono lasciare maggior spazio a quelle di ripresa e diversità. In questa prospettiva, ciascuno può fare un percorso di consapevolezza riguardante i propri limiti o le proprie potenzialità che gli permetta di raggiungere le proprie aspirazioni.

 

 

Diagnosi psichiatrica: oltre il paradigma medico

I significati che vengono attribuiti all’esperienza di vita e alle narrazioni personali assumono una importanza particolare nel confermare la malattia oppure nel supportare il percorso verso il benessere e la ripresa, di cui la persona è protagonista. L’obiettivo è dunque quello di contribuire a risolvere problematiche personali, sociali o relazionali che possono aver prodotto una diminuzione del benessere mentale, in modo tale che la persona possa tornare (o iniziare) a ricoprire un ruolo sociale significativo, potendo contare su un sistema di supporto sociale efficace. La collaborazione tende a incoraggiare la riscoperta di un senso positivo di sé, l’accettazione non rassegnata della realtà nei suoi aspetti più disagevoli e problematici nonché l’attribuzione di senso alle proprie esperienze, anche quelle negative.

Date queste premesse, le implicazioni dal punto di vista degli interventi e delle politiche dei servizi di salute mentale sui pazienti, inclusi quelli con diagnosi di schizofrenia, sono chiare: da un lato si limita l’impatto sfavorevole di diagnosi sui soggetti, dall’altro si cerca di diminuire lo stigma legato all’esperienza di udire le voci o avere altre percezioni considerate inusuali favorendone la ripresa dagli aspetti che causano disagio. Da un lato si diversificano i tipi di intervento e possibilità rivolte alle persone con diagnosi psichiatrica, dall’altro si cercano strumenti innovativi che possano favorire la comprensione delle possibilità, in una dialettica paritetica in cui la persona con esperienza diretta possa essere accompagnata nell’attraversare le difficoltà connesse al disagio.

E’ proprio per rispondere a questa esigenza che si ricercano strumenti di pianificazione centrati sulla persona con diagnosi psichiatrica, che permettano quindi di collaborare intorno a degli obiettivi come definiti dal soggetto e dalle sue narrazioni. Essi, non necessariamente riguardano la riduzione della disabilità connessa alla malattia, la prevenzione delle ricadute e delle ospedalizzazioni, l’ aderenza alla terapia farmacologica, la gestione dei sintomi connessi alla malattia etc. ma piuttosto, le aspirazioni, il rafforzamento di una identità positiva, e altri aspetti che riguardano la persona nel suo complesso, e la sua intera vita.

 

 

Il P.A.T.H. :  Planning Alternative Tomorrows With Hope

Il P.A.T.H. ben si inserisce in questo panorama, rappresentando uno strumento che si addice alla collaborazione paritetica tra il soggetto e figure di riferimento (es. amici, operatori di riferimento, clinici e familiari) allo scopo di  costruire, mediare e negoziare significati e possibilità. P.A.T.H. è un acronimo che significa Planning Alternative Tomorrows With Hope (trad. Pianificare un Futuro Alternativo con Speranza).

 

P.A.T.H. (planning alternative tomorrows with hope) come e perché utilizzare strumenti di sviluppo personale nei percorsi di ripresa di persone con diagnosi psichiatrica
Esempio di P.A.T.H.

 

E’ uno strumento di pianificazione personale potente, creativo, basato sul disegno; è orientato all’azione, è personale ed incentrato sullo sviluppo di narrative. Si tratta di uno strumento che accompagna delle fasi di cambiamento all’interno di un processo sociale, processo che non avviene in solitudine, ma all’interno di un circolo di supporto.

Non è uno strumento che viene utilizzato sulla persona, non è una valutazione o un test, ma la modalità di compilazione avviene secondo il principio della co-produzione e quindi assume direzioni e caratteristiche diverse in funzione di chi lo disegna.

E’ stato creato da Marsha Forest, John O’Brien e Jack Pearpoint, nel 1991 e può essere usato come strumento di pianificazione per ogni transizione di persone o gruppi. Inizialmente è stato usato all’interno di scuole, con ragazzi pre-adolescenti, ma anche in teams, distretti, scuole e aziende. Si parte dai sogni per focalizzare meglio degli obiettivi realizzabili, la rete di supporto, i punti di forza e un piano d’azione. Ecco alcune domande che rappresentano dei punti fondamentali per la costruzione del piano:

  1. Quali sono le parole chiave o immagini che rappresentano i tuoi sogni?
  2. Quali obiettivi ci potremmo dare in un anno di tempo?
  3. Tornando al presente, guardando alla tua situazione in modo più oggettivo possibile, come la descriveresti?
  4. Quali persone vorresti coinvolgere nel tuo percorso?
  5. Per muoversi verso i tuoi obiettivi, servono energie e forze, ci saranno difficoltà da superare e problemi da risolvere, cosa ti serve per rimanere sulla rotta del tuo percorso?
  6. Rifletti sui tuoi obiettivi e pensa ai prossimi 3 (o 6 ) mesi, dovrebbe essere un tempo sufficiente per intraprendere azioni verso il loro raggiungimento, quali azioni avrai intrapreso?
  7. Il primo passo: identifica la prima azione, quali persone possono supportarti e come aggirare possibili difficoltà

 

 

Disturbi alimentari: la famiglia bulimica – Magrezza non è bellezza nr. 22

L’attitudine della bulimica a separarsi velocemente dal nucleo familiare è probabilmente non solo una forma di fuga da una famiglia bulimica disfunzionale, ma anche una forma di conflitto più profondo che tende a portarle alla separazione dai genitori.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La famiglia bulimica (Nr. 22)

 

Sulle famiglie dei pazienti bulimici sono stati prodotti un gran numero di studi e osservazioni (Fairburn, Cooper, 1982; Johnson   et al. , 1982; Kent, Clopton, 1988; Pyle et al. , 1986). Il primo dato emerso è il peso corporeo, che è maggiore tra i familiari di questi pazienti rispetto ai soggetti di controllo (Garfinkel et al. , 1980; Herzog, 1982; Strober, 1981). Poiché la tendenza a ingrassare è influenzata da fattori genetici, la disregolazione alimentare si manifesta principalmente in famiglie predisposte a un aumento ponderale.

È anche vero, però, che i bambini con problemi alimentari possono imitare i modelli genitoriali, e alcune famiglie  sovrappeso potrebbero incoraggiare l’alimentazione, utilizzando il cibo come mezzo per manipolare e gestire le difficoltà emotive.

 

La famiglia bulimica: come le pazienti percepiscono i genitori

Solitamente le bulimiche si pongono obiettivi irrealistici di perdita di peso, esercitando sullo stesso un controllo patologico  (Fairburn, Cooper, 1982; Pyle et al. , 1981; Russell, 1979): alcuni studi hanno evidenziato che i pazienti bulimici percepiscono i  propri genitori (soprattutto i padri) come più controllanti (Pole   et al. , 1988; Rorty et al. , 2000), mentre gruppi di anoressiche hanno prodotto un modello misto di risultati (Castro, 2000) assimilabili maggiormente al controllo e all’iperprotezione (Murray et al. , 2000).

Un genitore invadente e controllante crea una vulnerabilità alla psicopatologia attraverso lo sviluppo di un orientamento perfezionista (Enns et al. , 2000; Soenens et al. , 2005), e in effetti alcune indagini hanno evidenziato che il controllo paterno ha degli effetti maggiori sull’alimentazione rispetto a quello materno, questo non significa comunque che la genitorialità materna non  sia coinvolta: il controllo materno potrebbe essere indirettamente connesso ad atteggiamenti disattivi dei pazienti che li portano a  sviluppare perfezionismo patologico.

Questa scoperta suggerisce che un’autovalutazione negativa riguardante l’orientamento perfezionista potrebbe essere la forza trainante nello sviluppo psicopatologico di un disturbo alimentare (Shafran et al. , 2002); e infatti, le eccessive colpevolizzazioni esercitate dai genitori sono legate a un abbassamento dell’autostima dell’adolescente che porta, conseguentemente, a innalzare i propri standard personali  (Soenens et al. , 2005).

 

Caratteristiche della famiglia bulimica

Nella famiglia bulimica, le pazienti sono più dipendenti rispetto alle altre donne nei confronti del padre e della madre, verso cui si manifesta una relazione conflittuale. Le bulimiche hanno una tendenza a mostrare una maggiore propensione alla separazione dai padri rispetto alle anoressiche, per problemi di adattamento (Hoffman, 1984; Rice   et al. , 1990). L’attitudine della bulimica a separarsi velocemente dal nucleo familiare è probabilmente non solo una forma di fuga da una famiglia bulimica disfunzionale, ma anche una forma di conflitto più profondo che tende a portarle alla separazione dai genitori  (Grotevant, Cooper, 1985; Lapsley et al. , 1989).

I padri delle bulimiche vengono descritti spesso come distanti emotivamente: questo dato potrebbe riguardare il ruolo svolto dai padri nella famiglia bulimica, piuttosto che una caratteristica della personalità. In ogni caso, le pazienti bulimiche dichiarano di non trascorrere molto tempo con il padre, come invece fanno le adolescenti normali. Si è anche osservato che durante l’infanzia, i padri sono stati vicino alle figlie, ma hanno assunto un atteggiamento sempre più distante durante l’adolescenza (Podolnick, 1987).

Sono stati prodotti inoltre diversi studi sul ruolo delle famiglie divorziate nella genesi della bulimia (Igoin-Apfelbaum, 1985; Herzog, 1982; Johnson, Flach, 1985). I figli di genitori divorziati mostrano una maggiore disregolazione emotiva, se considerati nella loro interezza psichica (Slater, Haber, 1984; Enos, Handal,  1986). Se centrati sulla fisicità, sono risultati maggiormente esposti a sviluppare bulimia.  La relazione coniugale dei genitori dei bulimici è stata descritta come emotivamente povera. Queste famiglie sviluppano una serie di difficoltà anche da un punto di vista sessuale. Diversi soggetti bulimici hanno riferito che i genitori dormivano in letti o camere separate; in alcuni casi è emersa una totale ripugnanza del padre nei confronti della madre.

La disarmonia coniugale dei genitori sembrerebbe una caratteristica significativa della famiglia bulimica. Tuttavia, nonostante la scarsa qualità della relazione coniugale, le bulimiche non denunciano violenze tra  i genitori. Solitamente tendono a riferire la poca empatia e la scarsa attenzione dei genitori nei loro confronti, fino a sentirsi delle sconosciute per entrambi (Bruch, 1970). I genitori di soggetti bulimici non sono in grado o non vogliono manifestare i sentimenti, per questo non riescono a esprimere un sostegno emotivo. In genere, le bulimiche avrebbero desiderato un dialogo maggiore con i genitori su qualsiasi argomento, ma riferiscono di non averne avuto molto.

Da osservare, infine, che nella famiglia bulimica è presente un atteggiamento repressivo verso gli argomenti che hanno a che fare con la sfera della sessualità  (Sights, Richards, 1984).

L’eziologia della bulimia è chiaramente multifattoriale. Tuttavia, considerate nel loro insieme, le informazioni sopra riportate rivelano fattori familiari che possono contribuire allo  sviluppo del disturbo psichico (Dolan et al., 1989). Mangiare rappresenta sicuramente una necessità biologica, ma il cibo è anche nutrimento psicologico e cura. Il rifiuto del cibo può simboleggiare da parte del bambino/a una mancanza di accettazione delle cure prestategli, mentre l’eccesso di cibo può essere considerato un sostitutivo delle cure e delle attenzioni di cui ha bisogno. L’abuso di cibo sembra quindi determinato dal desiderio di anestetizzare sentimenti di dolore, vergogna e disgusto  (Menzies, 1970).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Conflitto lavoro-famiglia: un equilibrio difficile da realizzare

Oggi più che mai siamo tenuti ad interrogarci sul modo in cui la sfera lavorativa e quella familiare si influenzano a vicenda. Viviamo in un’epoca in cui il mercato del lavoro richiede costantemente flessibilità, mobilità e capacità di assumersi dei rischi. In che modo il soddisfacimento di queste richieste impatta sulla realtà familiare? E, al contrario, come la sfera familiare può facilitare o ostacolare la carriera del lavoratore?

 

Le teorie sulla relazione tra famiglia e lavoro

Molte teorie hanno cercato di fornire una risposta a questi interrogativi e Zedeck e Mosier (1990), nell’articolo Work in the Family and Employing Organization, ne hanno trattate alcune. Una delle ipotesi più accreditate è la teoria del travaso ed essa ritiene che tutto ciò che avviene in uno dei due ambiti finisca inevitabilmente per influenzare l’altro. Di conseguenza, ad esempio, se il lavoratore è felice a lavoro tenderà probabilmente ad essere felice anche a casa, mentre se la situazione lavorativa non è ottimale anche quella familiare potrebbe peggiorare. Questa assoluta assenza di confini potrebbe determinare una diffusione dello stress lavorativo anche in ambito familiare (e viceversa), incrementando ulteriormente la portata delle difficoltà incontrate.

La teoria della compensazione postula, invece, un “bilanciamento” dei bisogni frustrati in un’area con le soddisfazioni acquisite nell’altro ruolo. In questo senso una persona molto dedita al lavoro che trascura la propria vita personale per quella professionale molto probabilmente otterrà, in quest’ultima area, delle gratificazioni che bilanceranno le frustrazioni familiari.

La teoria della segmentazione ritiene invece, in modo piuttosto irrealistico, che l’individuo sia in grado di compartimentalizzare completamente le proprie esperienze nei due ambiti e che non ci sia alcuna relazione tra queste: secondo questa teoria ciò che accade in famiglia non ha nessun impatto sulla vita professionale del lavoratore, e viceversa.

In quarto luogo l’approccio strumentale considera ciò che accade in relazione ad un ruolo come un mezzo che può essere utilizzato per acquisire beni utili per l’altro ruolo. In questo senso il denaro guadagnato con il proprio ruolo professionale può contribuire alla realizzazione familiare, ad esempio mediante l’acquisto di una casa.

In conclusione Zedeck e Mosier citano la teoria del conflitto, la quale ritiene che ognuna delle due aree pone inevitabilmente delle richieste ed il soddisfacimento di tali richieste in uno dei due ambiti può richiedere molti sacrifici nell’altro ambito. In molte di queste teorie risalta la possibilità che ci siano forti correlazioni tra il ruolo lavorativo e quello familiare, sia in senso positivo, attraverso lo sviluppo di risorse, sia negativamente, tramite la produzione di problematiche più o meno gestibili.

 

I problemi familiari che possono influenzare la vita professionale

Morrison e Deacon (1993) hanno rilevato principalmente quattro problemi familiari che possono influenzare la vita professionale:
– Perdita del sostegno familiare, associata a scarsa energia da impiegare in ambito lavorativo, aggressività, depressione e difficoltà relazionali;
– Interferenza delle necessità familiari sul lavoro, correlata a burnout e minore impegno nello sviluppo delle proprie potenzialità;
– Frustrazione dei bisogni familiari con conseguente utilizzo del lavoro per il soddisfacimento degli stessi, legata a problemi d’autostima e sensi di colpa;
– Motivazione eterodiretta al lavoro, in cui le necessità familiari hanno la piena priorità rispetto a quelle professionali, e sarebbe associata a cattivi rapporti con i colleghi di lavoro e spreco di potenziale.

 

Le variabili delle due sfere da considerare

Cortini e Manuti (2008) ricordano come diverse evidenze empiriche hanno mostrato che ci sono numerose variabili in grado di mediare le due sfere di vita, come il numero dei figli, la presenza e l’aiuto offerto dai nonni, la presenza, nel nucleo familiare, di persone con disabilità, le caratteristiche personali del lavoratore e del partner, oltre che del luogo di lavoro (orari, contratto, stipendio) e del clima organizzativo che pervade tale luogo. Inoltre avrebbero un ruolo fondamentale anche le capacità di coping del lavoratore e del partner, ovvero quelle capacità d’adattamento che consentono di affrontare le situazioni stressanti.

 

Conclusioni

In conclusione si può affermare che i due ambiti appaiono più legati di quanto si pensi e che sarebbe necessario lavorare sullo sviluppo di condizioni che rendano tale coesistenza maggiormente vantaggiosa, ad esempio mediante l’incremento ed il miglioramento dei servizi all’infanzia, il quale aiuterebbe le donne nella loro realizzazione professionale, oppure attraverso un maggior coinvolgimento del sistema familiare nell’attività lavorativa della persona in modo tale da offrire ai familiari una migliore comprensione della situazione del lavoratore e, dunque, un maggiore sostegno.

Recovery e sistemi di salute mentale. Quali strade possibili?

Recovery è il principio del 21 secolo raccomandato in linee guida cliniche e professionali nonché focus esplicito nelle politiche internazionali sulla salute mentale

Roberta Casadio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

 

Recovery è il principio del 21 secolo raccomandato in linee guida cliniche e professionali nonché focus esplicito nelle politiche internazionali sulla salute mentale (Slade, Adams & O’Hagan, 2012). Nel 2005, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha organizzato a Helsinki una Conferenza Europea che rappresenta il primo tentativo, dopo la storica dichiarazione di Caracas del 1986, di trasferire ai governi responsabilità ben definite: a fine lavori i Ministri della Salute di cinquantadue Paesi europei hanno approvato all’unanimità un Documento che racchiude le priorità stabilite in merito.

Secondo quanto scritto nell’accordo, politiche e pratiche di salute mentale dovrebbero essere focalizzate a promuovere il benessere, contrastare la discriminazione e l’emarginazione sociale, prevenire, fornire servizi efficaci e adeguati, favorire il reinserimento in società delle persone che sperimentano seri disturbi.

…la salute mentale ed il benessere mentale sono fondamentali per la qualità della vita e la produttività degli individui, delle famiglie, delle comunità e delle nazioni. Conferiscono un senso alla nostra esistenza permettendoci di essere cittadini creativi e attivi. (..) Essendo la salute mentale una componente centrale del capitale umano, sociale ed economico delle nazioni, questa deve quindi essere considerata come parte integrante essenziale di altri campi della politica pubblica, quali i diritti dell’uomo, l’assistenza sociale, l’educazione e l’occupazione

Dichiarazione di Helsinki, 2005

La Dichiarazione pone quindi la salute mentale al centro del potenziale umano, sociale ed economico delle diverse nazioni ed esorta gli Stati a considerarla come parte integrante delle proprie politiche sociali.

 

 

Favorire percorsi di recovery: dalla malattia alla persona

L’invito è pertanto a riflettere sulla (ri)organizzazione e struttura dei Servizi di salute mentale dato che ancora oggi, in molti Paesi dell’Europa, la gran parte dei fondi destinati alla psichiatria vengono investiti per ospedalizzare o segregare in istituzioni chiuse.  Al contrario, è più che mai necessaria a tal proposito la promozione di azioni intersettoriali, attraverso partnership tra i servizi psichiatrici, quelli socio-sanitari ed altre agenzie, ponendo al centro la risposta ai bisogni complessivi dell’individuo e della sua rete prefigurando così scenari di welfare comunitario (Mezzina, 2016).

Quindi, se da un lato è necessario promuovere servizi di salute mentale in aree territoriali e servizi comunitari, dall’altro l’attenzione deve essere spostata dalla malattia in sé alla totalità della persona nonché alla sua rete di appartenenza e ai gruppi sociali di riferimento per favorire percorsi di ripresa e recovery.

Il compito diventa quello di promuovere la cittadinanza per le fasce più svantaggiate e vulnerabili della popolazione, innalzando la loro qualità di vita, favorendo la loro autonomia ed emancipazione anche dalla dipendenza dai servizi, in modo che il concreto esercizio dei diritti accresca complessivamente le loro possibilità e capacità di scelta e di azione (Dell’Acqua, 2014). E’ oggi chiaro che quando si parla di ripresa (e.g. Recovery) non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso che è volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).

 

 

Recovery: gli interrogativi ancora aperti

Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).  Oggi è disponibile un ampia letteratura in merito a questo e accanto alle preziose testimonianze di persone che hanno fatto percorsi positivi di ripresa dal disagio mentale (Romme & Escher, 2009), la ricerca sta validando dal punto di vista scientifico di cosa si tratti quando si parla di recovery. A questo proposito, sono disponibili reviews sistematiche (Doughty & Tse, 2005; Leamy et al., 2011), studi randomizzati e controllati, (Barbic et al., 2009; Greenfield et al., 2008) e linee guida (Davidson et al., 2009).

L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non contaminano. A tal proposito, emergono alcune questioni ancora non risolte:

  • Può essere il sistema di cure compatibile con le aspettative sociopolitiche che esso gestisca appieno il rischio e provveda al controllo sociale?
  • Cosa ancora deve cambiare affinché i sistemi di salute mentale possano maggiormente supportare i processi di ripresa?
  • Si possono sviluppare servizi orientati al recovery quando lo stigma e la discriminazione sono così alti nei confronti del disagio mentale nella nostra società?
  • In pratica, come può avvenire il passaggio da servizi centrati sulla crisi e al controllo ad un maggiore sbilanciamento verso l’offerta di una più ampia gamma di possibilità offerte, risorse e opportunità che facilitino i processi di ripresa, autonomia e benessere?
  • Può la forza lavoro esistente cambiare pensiero nei confronti del disagio e assorbire nuove competenze focalizzando i concetti di agency, empowerment, recovery, anziché quelli di deficit, disfunzione, sintomatologia e rischio?

Dopo aver stimolato una riflessione sui temi appena citati, è di dovere citare delle realtà orientate al recovery che sono affermate nel panorama italiano ed europeo. Alcuni esempi ne sono la ‘Soteria House‘ in Gran Bretagna, ‘Recovery Houses’ in Italia, il ‘Recovery College’ nei Paesi Bassi, le ‘Recovery Learning Communities’ in Massachusset per citare alcuni esempi.

Alcune di queste realtà sono parte integrante dei servizi di salute mentale pubblici offerti ai cittadini, altre rappresentano realtà nate da iniziative legate al terzo settore e che rappresentano un’alternativa al sistema di cure tradizionale. E’ necessario considerare tuttavia, come la loro efficacia e i valori che le ispirino, raggiungano la loro massima espressione quando si intrecciano ed entrano in una dialettica costruttiva con l’Istituzione che porti al cambiamento e alla reciproca contaminazione.

Teneramente folle. Il rapporto complicato tra un padre con disturbo bipolare e le figlie (2014) – Cinema & Psicologia

Il film Teneramente folle (2014) di Maya Forbes è la versione romanzata della biografia della regista stessa. Maya e sua sorella China, infatti, hanno vissuto per un periodo sole con il padre affetto da disturbo bipolare, mentre la madre si trovava per studio a New York.

Introduzione

Negli anni sono stati prodotti, sia in Italia che all’estero, diversi film che hanno affrontato il tema del disturbo bipolare, ma questo ha la particolarità di incentrarsi su come la malattia incida e influenzi il rapporto tra il paziente e le sue figlie. Cosa significa per i bambini vivere con un genitore affetto da un disturbo mentale? Come viene vista, vissuta e compresa la malattia? I figli si trovano immersi in una situazione che non comprendono pienamente e che è accompagnata da emozioni diverse, che oscillano dalla tenerezza alla paura. Emblematico in questo senso è il titolo originale del film “Infinetely Polar Bear” che è tratto da una frase del film in cui la piccola Faith, non comprendendo bene che cosa sia il disturbo bipolare, spiega così agli amici la malattia del padre “mio padre è un Orso Polare”.

Teneramente folle: trama del film

Ci troviamo in Massachussetts alla fine degli anni ’70. Cameron Stuart (interpretato da Mark Rufalo) è felicemente sposato con Maggie (Zoe Saldana) con cui ha avuto due figlie: Amelia e Faith. Cameron è affetto dal disturbo bipolare (un tempo chiamato “psicosi maniaco depressiva”) ed in seguito all’ultima delle sue crisi perde il lavoro, viene ricoverato e la moglie lo allontana da casa. Maggie si trova quindi da sola a gestire e a mantenere economicamente la famiglia dal momento che i suoceri, pur avendo notevoli possibilità economiche non forniscono loro alcun aiuto. Maggie non riesce a trovare un lavoro sicuro ma dopo che ottiene una borsa di studio per un master di Business Administration alla Columbia University di New York ha un piano per il bene delle figlie: ottenere il titolo in 18 mesi per poi tornare e cercare un lavoro più soddisfacente che possa consentirle di dare loro una educazione scolastica migliore.

Per raggiungere il suo scopo è costretta a lasciare a malincuore le figlie in Massachussetts e chiede al marito, con cui non vive più da tempo, di trasferirsi a casa loro ad occuparsi delle bambine. Lei è l’unica ad avere fiducia in lui, poiché sia i suoceri che i vicini di casa e conoscenti, non solo non pensano che Cameron stia così bene da poter occuparsi a lungo delle figlie ma, soprattutto, contestano l’indipendenza di Maggie, il ruolo “maschile” che ella assume all’interno della famiglia. Il film Teneramente folle descrive quindi tutto il periodo in cui Cameron si trova ad occuparsi delle figlie e a cercare di recuperare con loro un rapporto di affetto e fiducia. La relazione è influenzata dalle fasi maniacali e depressive di Cameron e, pertanto, oscilla costantemente tra momenti di condivisione e affetto ad altri più tesi e difficili. Cameron riuscirà comunque a cavarsela spinto dal desiderio di riconquistare l’affetto della moglie.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Il disturbo bipolare

Secondo il DSM –5 il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore caratterizzato dall’alternanza di episodi maniacali e depressivi o misti (disturbo bipolare tipo I), oppure da episodi depressivi e ipomaniacali (disturbo bipolare tipo II).
Il disturbo bipolare, nel DSM 5, viene separato dai disturbi depressivi e collocato in una categoria unitaria, tra il capitolo dei disturbi dello Spettro Schizofrenico e gli altri disturbi Psicotici e quello dei Disturbi Depressivi, riconoscendo che si tratta di un disturbo “a ponte” tra queste due diagnosi in termini di sintomi, storia familiare e genetica.

Nello specifico:
EPISODIO MANIACALE: Un periodo di tempo caratterizzato da umore persistentemente elevato o irritabile associato ad un aumento di attività o energia presenti per gran parte della giornata per almeno una settimana. Devono essere presenti almeno 3 (4 se umore irritabile) dei seguenti sintomi: autostima ipertrofica o grandiosità; ridotto bisogno di sonno; logorrea; fuga delle idee; distraibilità; aumento della attività finalizzata; coinvolgimento in attività piacevoli ma pericolose. L’alterazione dell’umore ha una gravità tale da provocare un netto deterioramento nelle attività socio-lavorative dell’individuo o da richiedere l’ospedalizzazione per prevenire eventuali danni a se stesso o agli altri.

EPISODIO IPOMANIACALE : Un periodo di tempo caratterizzato da umore persistentemente elevato o irritabile e persistente aumento di attività o energia per almeno 4 giorni. Devono essere presenti almeno 3 (4 se umore irritabile) dei seguenti sintomi: autostima ipertrofica o grandiosità; ridotto bisogno di sonno; logorrea; fuga delle idee; distraibilità; aumento della attività finalizzata; coinvolgimento in attività piacevoli ma pericolose. Sebbene sia osservabile un cambiamento netto nel funzionamento dell’individuo, non è presente una compromissione marcata come invece avviene durante un episodio maniacale. Non è necessaria l’ospedalizzazione. Non sono presenti sintomi psicotici.

EPISODIO DEPRESSIVO: Caratterizzato da umore depresso o perdita di interesse e di piacere per le attività per quasi tutto il giorno per un periodo minimo di due settimane, associato ad almeno 5 dei seguenti sintomi: Perdita o incremento dell’ appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione psicomotoria o rallentamento psicomotorio; diminuzione dell’energia; eccessivo o inappropriato senso di colpa e impotenza; difficoltà a concentrarsi; ricorrenti pensieri di morte, ideazione suicidaria senza un piano specifico, tentativi di suicidio o piani per commettere il suicidio.

L’episodio depressivo nell’ambito del disturbo bipolare presenta alcune peculiarità che lo differenziano sia dalla depressione endogena unipolare che da quella reattiva e situazionale. E’ infatti caratterizzato dal predominio dell’apatia sulla tristezza, dell’inibizione psicomotoria sull’ansia, e dell’ipersonnia sull’insonnia (Colom e Vieta, 2006).

EPISODIO MISTO: Si caratterizzano per la compresenza di una sintomatologia maniacale e depressiva combinate differentemente tra loro secondo l’alterazione dell’umore, le cognizioni e il comportamento. Sono associati ad un grave rischio suicidario.

Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi del disturbo bipolare, così come si parla di “triade negativa” di pensieri distorti catastrofici nella visione di sé, del mondo e del futuro nella depressione, allo stesso modo è possibile individuare una “triade positiva” nella mania (Colom e Vieta, 2006). I pensieri automatici maniacali sono caratterizzati da cognizioni e interpretazioni positive che non corrispondono alla realtà; si tratta di una visione eccessivamente positiva e rigida.

Le manifestazioni del disturbo bipolare nel personaggio del protagonista

E’ la voce di Amelia, la primogenita, a narrarci gran parte degli eventi e a metterci al corrente del disturbo del padre. Già dalle prime battute vengono sottolineate alcune bizzarrie comportamentali che molto spesso possono essere sottovalutate e ricondotte ad una personalità più estroversa ed eccentrica, mentre in realtà si tratta di sintomi conclamati. La stessa Maggie spiega alle figlie che, pur essendo sempre stata a conoscenza della diagnosi del marito, aveva sottovalutato la gravità della situazione (“negli anni ‘70 quasi tutti avevano avuto un esaurimento nervoso…”). Quelli che possono sembrare agli osservatori esterni comportamenti solamente eccentrici, come Cameron che girava per il campus in bicicletta indossando una barba finta, nascondono un profondo malessere. Le fasi maniacali, sebbene associate ad un incremento di energia, idee, progetti e voglia di fare non sempre sono accompagnate da emozioni di piacere. Possono essere presenti ideazioni paranoidee, angoscia e tensione.

Le fasi maniacali

Per gran parte della durata del film Cameron mostra un umore costantemente elevato, a tratti irritabile soprattutto quando viene contestato, associato a una notevole energia. Mostra la perdita delle inibizioni, del buon senso, dell’esame di realtà. Festeggia il proprio licenziamento senza preoccuparsi delle conseguenze. Si mostra eccessivamente loquace e disponibile con i vicini senza redensi conto di superare il limite: tra aiutare una signora a portare fino a casa le buste della spesa e proporle poi di sistemarle le cose nel frigo o di spostarle i mobili il passo è breve. La reazione del suo interlocutore è dapprima perplessità fino poi ad arrivare all’evitare di incontrarlo. L’incremento dell’energia fa sì che Cameron si senta complessivamente bene, gli consente di dedicarsi a numerose attività e di pulire l’intera casa in un pomeriggio. Tuttavia tutta questa energia, anche se può sembrare un aspetto positivo, in realtà non riesce ad essere incanalata in modo produttivo. Cameron inizia mille cose diverse che poi vengono lasciate incompiute e su cui appende il cartello “non spostare, ci lavorerò più tardi”.

E’ proprio la sensazione di benessere apparente, l’ avere mille idee e molta energia per metterle in pratica a rendere difficile per chi soffre del disturbo realizzare di avere un problema. Gran parte dei pazienti, dopo essersi sottoposti a trattamento farmacologico, provano nostalgia per l’ebbrezza della mania e la vita quotidiana sembra adesso per loro piatta e priva di emozioni. L’incremento dell’energia e la fuga delle idee a breve termine può anche consentire alla persona di raggiungere alcuni obiettivi (per es. lavorativi) ma a lungo termine causa malessere. Spesso alla mania seguono periodi di depressione anche grave. Inoltre se non trattato adeguatamente il disturbo può peggiorare: con il tempo i cicli di alternanza tra mania e depressione si fanno più rapidi. In mania, proprio per la perdita di obiettività, possono essere fatte scelte impulsive controproducenti.

Le fasi depressive

Durante le fasi depressive (rappresentate nel film in misura minore rispetto a quelle maniacali), si nota come Cameron perda interesse per tutto ciò che lo circonda, incluse le figlie. Resta immobile davanti al frigo vuoto o seduto in poltrona mentre il mondo gli scorre letteralmente davanti, senza che lui reagisca in alcun modo. E’ un periodo di assenza di emozioni, sia positive ma anche negative, tutto ciò di cui pare aver bisogno è la vicinanza delle figlie, il non essere lasciato solo a fronteggiare tutto questo. In queste scene sono quindi ben rappresentati l’umore depresso, la perdita di energia, il rallentamento psicomotorio e l’incuria personale (esce di casa in vestaglia senza indossare i pantaloni). Se prima lasciava a metà numerose attività, adesso si limita a restare immobile a fumare.

Il rapporto con i farmaci e le sostanze

Nel film vengono affrontate anche altre due tematiche correlate al disturbo dell’umore: l’uso di sostanze come automedicazione e il rapporto con i farmaci.

C’è un alto tasso di comorbilità tra il disturbo bipolare e l’abuso di alcol e di altre sostanze (Newman et al. 2012). I problemi del disturbo bipolare e dell’abuso di sostanze tendono a potenziarsi a vicenda: le sostanze interferiscono con la farmacoterapia, aggravano l’impulsività, compromettono la capacità di giudizio e aumentano il rischio di comportamenti suicidari. A loro volta gli sbalzi di umore possono costituire stimoli interni che peggiorano il carving per le sostanze (Newman et al. 2012)

Cameron interrompe l’utilizzo dei farmaci e lo “sostituisce” con l’assunzione di birra.
Anche quando la terapia farmacologica sembra funzionare molti pazienti ne interrompono l’assunzione credendo di stare bene e non averne più bisogno (Goodwin e Jamison, 1990), aumentando però il rischio di ricadute sintomatiche. I motivi che portano alla interruzione della farmacoterapia possono essere diversi: la negazione della malattia, gli effetti secondari, il sentirsi a disagio ad assumere sostanze psicotrope, la mancanza della sensazione di euforia, il credere di poter controllare il proprio umore. Hanno quindi un ruolo centrale gli atteggiamenti verso la malattia e il modello di salute di ciascun paziente; queste convinzioni possono pertanto essere modificate attraverso la terapia cognitiva e interventi di psicoeducazione sul disturbo (Newman et al. 2012)

La relazione tra Cameron e le figlie

Le emozioni veicolate in questa relazione padre-figlie sono numerose e si alternano influenzate dall’andamento del disturbo dell’umore di Cameron; le principali sono la tenerezza, la vergogna, la paura, la rabbia e il senso di colpa.

Le bambine sentono la mancanza del padre e ne cercano costantemente la vicinanza, sia scrivendogli lettere sia recandosi a trovarlo durante il ricovero. Sono tuttavia consapevoli che il padre per certi aspetti deve essere accudito e guidato negli impegni quotidiani. Fin dal primo giorno di convivenza dopo la partenza della madre, ma già ne erano consapevoli durante il periodo successivo al ricovero di lui, hanno imparato che devono provvedere a se stesse per le cose di tutti i giorni, come svegliarsi in tempo per andare a scuola, preparare la colazione, pulire casa e fare il bucato. Ci si aspetta che sia compito del padre accudire le figlie, occuparsi di loro anche nella monotona e faticosa routine casalinga e non solo farle divertire portandole in giro per i boschi o cucinando il loro piatto preferito. Il compito genitoriale è essere sempre presenti, condividendo le cose belle ma anche quelle brutte, lasciare i figli liberi di esplorare ma essere per loro un punto di riferimento verso cui tornare in caso di bisogno. Maggie riesce in questo, anche a distanza. Cerca sempre di spiegare alle figlie le motivazioni delle sue decisioni, le rende partecipi del suo stato emotivo e spiega a grandi linee la patologia del marito sottolineandone però gli aspetti positivi di lui come padre facendo sì che anche le figlie si fidino di lui e gli vogliano bene.

Cameron però, quando è preso dalla foga dei suoi pensieri, dall’energia incanalata in mille attività diverse lasciate in sospeso, non riesce ad assumersi le responsabilità di genitore anche se poi riesce sempre a rimediare a modo suo, come quando non avendole svegliate in tempo per andare a scuola porta il pacco di biscotti in ascensore affinché le figlie non debbano rinunciare alla “colazione che è il pasto più importante della giornata”. Cameron non è un cattivo padre, fa tutto quello che gli è possibile fare influenzato dall’andamento del suo umore.

Di fronte a questo comportamento paterno le bambine in parte si responsabilizzano, rendendosi autonome e gestendosi da sole: sono loro a pulire i piatti e la casa, si svegliano da sole in orario per poi svegliare anche il padre e così via. Sono per certi aspetti piccole adulte. Amelia arriva a suggerire al padre un piano per riunire la famiglia: deve prendere le medicine, responsabilizzarsi, cercarsi un lavoro per mantenere moglie e figlie “e forse allora mamma lo riprenderebbe in casa”. Tuttavia a lungo termine percepiscono la fatica degli incarichi che si sono assunte, hanno la sensazione che dovrebbero essere loro le figure bisognose di affetto e supporto da parte degli adulti e protestano arrabbiandosi con Cameron. La rabbia delle figlie nei confronti del padre è quindi una “rabbia da protesta” per mancato accadimento e si manifesta quando per l’ennesima volta si trovano a gestire gli impegni degli adulti.

Cameron in base ai suoi sbalzi di umore è imprevedibile nelle sue reazioni. Già durante il ricovero, quando Maggie porta le figlie a salutarlo lui all’inizio scherza con loro dicendo di picchiarlo sul “Pancione” ingrossato dai farmaci ma quando Amelia lo colpisce lui reagisce un po’ troppo bruscamente e la perplessità e la paura compaiono sul volto della bambina. Una persona imprevedibile genera ansia perché non è possibile stabilire come reagirà in ogni occasione, è un qualcosa che non è possibile gestire. Finchè il padre è imprevedibile predomina l’ansia, ma quando diventa involontariamente pericoloso per l’incolumità delle figlie allora le emozioni espresse diventano la paura e il terrore. Cameron lascia di notte le figlie sole in casa sminuendo e invalidando le loro paure. Le vuole forti, coraggiose, indipendenti ma non comprende che deve accogliere i loro timori più che giustificati. Amelia cerca di farlo sentire in colpa per averle messe in una situazione di pericolo. Sul momento Cameron reagisce frustrato e adirato, ma quando ritorna in sé ecco che monta alla porta una serratura più sicura. Vuole bene alle bambine e quando l’umore è abbastanza stabile riesce ad occuparsi di loro nel modo migliore.

Un’altra emozione prevalente è la vergogna che Amelia e Faith provano quando il padre manifesta comportamenti insoliti in pubblico. Cameron vuole fare conoscenza di tutti i vicini, si mostra disponibile fino all’inverosimile e le figlie lo allontanano. Non vogliono invitare amici in casa perché si vergognano di lui: temono che gli altri non comprenderebbero il problema, che le deridano e isolino. I loro amici però colgono solo l’aspetto simpatico di Cameron e alla fine non si sconvolgono più di tanto.

Amelia soprattutto si sente in colpa verso il genitore. Non vogliono che lui vada con loro ma non ce la fa a lasciarlo solo a casa. Percepisce la solitudine e il rifiuto degli altri nei confronti del padre e lo proietta anche in altre circostanze “mi dispiace che hai venduto la nostra vecchia auto. Ora non la vorrà più nessuno…”. Non vuole essere la causa della sofferenza del padre.

La scena conclusiva del film è centrata proprio sul senso di colpa di Amelia che non accetta l’invito del padre a passare il pomeriggio con lui. Riuscirà ad andare avanti con la sua vita solo quando voltandosi vedrà nell’espressione di Cameron comunque serenità senza malinconia né rimprovero.

Il tradimento online e le ripercussioni nella coppia

Il tradimento online si differenzia dal tradimento classico per l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche dotate nella maggior parte dei casi di connessione internet ed è definito come una tipologia di infedeltà costituita da una relazione romantica e/o sessuale che prende luogo tramite un contatto online e si mantiene maggiormente nel tempo attraverso conversazioni elettroniche che avvengono con comunicazioni tramite chat, giochi online, gruppi online.

Tosco A.*, Vianzone S.**, Chiapasco E.***

La soddisfazione nella relazione di coppia: i fattori che la determinano

Le relazioni di coppia sono da anni uno dei principali oggetti di studio da parte della psicologia. Si è dibattuto a lungo su cosa possa determinare una buona riuscita della relazione e cosa, invece, ne porti alla dissoluzione. Da quanto emerso, sembra che i concetti di autostima, benessere personale, soddisfazione all’interno della coppia e tradimento siano legati tra loro.

Ci si è concentrati per molto tempo sul costrutto di soddisfazione di coppia in quanto appare legato alla continuazione della relazione: più sono alti i livelli di soddisfazione all’interno della coppia, maggiori sono le possibilità che la coppia stessa duri a lungo (Erol & Orth, 2014). La soddisfazione di coppia, a sua volta, è influenzata da diversi fattori tra cui è possibile citare la comunicazione tra i partner, la capacità di esprimere e gestire le emozioni, aspetti legati alla personalità di ciascun individuo, l’attrazione verso il partner e la soddisfazione sessuale (Egeci & Gencoz, 2006; Fisher & McNulty, 2008; Gattis et al., 2004; Mark & Herbenick, 2014). Oltre a questi, sembra che l’autostima e il benessere personale giochino un ruolo particolarmente importante nel determinare il livello di soddisfazione della relazione. Nello specifico, vari studi (Diener et al.,1999; Erol & Orth, 2014; Murray et al., 1996; Shackelford, 2001) mostrano come essere sposati o, comunque, trovarsi in una relazione intima porti ad alti livelli di benessere personale che, a sua volta, dipende da una buona autostima. Sarebbe quest’ultima, secondo gli autori, a determinare un maggior senso di soddisfazione all’interno della coppia.

La dissoluzione della relazione: cosa la determina

All’opposto, uno degli elementi più comuni che portano alla dissoluzione della relazione è il tradimento da parte di uno o entrambi i partner (Heintzelman et al., 2014; Marin et al., 2014; Negash et al., 2014). I dati in letteratura mostrano come tra il 22 e il 25% degli uomini e tra l’11 e il 15% delle donne abbiano rapporti sessuali extraconiugali (Allen et al., 2005; Mark et al., 2011). Tra le conseguenze negative dell’infedeltà è possibile riscontrare la perdita della fiducia, un abbassamento dell’autostima, problemi emotivi come sintomi depressivi e ansiosi nel partner che ha subito il tradimento e sofferenza psicologica in chi ha commesso il tradimento (Brady et al., 2009; Gordon et al., 2004; Hall & Fincham 2009). A livello sociale, inoltre, la maggior parte delle persone disapprova l’infedeltà, la considera immorale e non perdonabile (Gallup, 2007, 2008). Il tradimento è, inoltre, la causa più comune di divorzio riportata dalle coppie (Marin et al., 2014; Winek & Craven, 2003). Nonostante questo, esistono varie ragioni che portano a tradire il proprio partner. Una delle prime motivazioni è la necessità di distrarsi dalla routine e dalla quotidianità (Hertlein e Piercy, 2006). Alcune persone, invece, lo fanno per vendicarsi del proprio compagno/a, altre perché sono state sedotte o per esprimere la propria libertà sessuale. Infine, c’è chi riferisce di provare dei vuoti all’interno della propria relazione che devono essere riempiti con altre persone (Pham et al., 2013; Yeniceri & Kokdemir, 2006).

Il tradimento online

Un discorso a parte va dedicato al tema del tradimento online che è spesso fonte di svariate riflessioni. Il tradimento online, innanzitutto, si differenzia dal tradimento classico per l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche dotate nella maggior parte dei casi di connessione internet ed è definito come una tipologia di infedeltà costituita da una relazione romantica e/o sessuale che prende luogo tramite un contatto online e si mantiene maggiormente nel tempo attraverso conversazioni elettroniche che avvengono con comunicazioni tramite chat, giochi online, gruppi online (Young et al., 2000). Accade spesso che da un banale ed innocente scambio di e-mail nasca un’intensa e appassionata relazione online che può poi scaturire in un incontro faccia a faccia e in un rapporto sessuale (Young et al., 2000). Dunque, la relazione diventa di tipo emozionale e/o sessuale con un’altra persona diversa dal proprio partner (Kimberly e Young, 2008).

Parlare di tradimento online assume connotazioni piuttosto complesse, in quanto non è possibile stabilire a priori quale sia il limite definito da ciascuna coppia; il tradimento online non è un assoluto, la linea di demarcazione tra ciò che è tale e ciò che non lo è appare piuttosto sottile.
Emergono, comunque, delle differenze significative tra uomini e donne: i primi, infatti, appaiono più risentiti nei casi di infedeltà sessuale, mentre le donne patiscono maggiormente l’infedeltà emotiva del proprio partner (Guadagno e Sagarin, 2015).

Come per il tradimento classico, anche nel caso del tradimento online esistono varie motivazioni che spingono le persone a metterlo in atto. Tra le teorie più accreditate è possibile ritrovare il modello ACE, elaborato da Young e collaboratori (Young et al.,2000), secondo cui la persona che tradisce lo fa spinto dalla consapevolezza dell’anonimato (A), dalla convenienza del rapporto (C) e dalla possibilità di fuga dalla realtà che il rapporto virtuale permette (E). Un altro modello che prova a spiegare i motivi che accompagnano un individuo a ricercare una relazione online è il modello AAA proposto da Cooper (2002). Secondo questo modello, una relazione online è basata su una buona accessibilità (A), data dal fatto che al giorno d’oggi è notevolmente più semplice procurarsi a poco prezzo apparecchi quali computer, smartphone o tablet; inoltre, una relazione online è affidabile (A) in quanto entrambi i membri si ritrovano nella medesima situazione, il che è probabile che porti a rispecchiarsi; infine, vige la regola dell’anonimato (A) come per il modello ACE.

Uno degli aspetti che incide in maniera più negativa è il segreto che si instaura all’interno della coppia. Il segreto è spesso anche il motore stesso della relazione online, tant’è che molte relazioni hanno fine nel momento in cui vengono accidentalmente scoperte (Mileham, 2004).

È possibile osservare alcune variazioni nelle abitudini dei soggetti che potrebbero aver intrapreso una relazione online come, ad esempio, un cambiamento nella routine sonno/veglia, la richiesta di maggiore privacy, la tendenza ad ignorare le faccende della famiglia, un aumento nell’utilizzo della menzogna, un cambiamento di personalità, la perdita di interesse in ambito sessuale e un minore investimento nella relazione coniugale (Young, 2006).

Nella maggior parte dei casi, l’incontro online è precedente all’incontro fisico. Sono stati individuati ben sette specifici aspetti dell’intimità correlata ad internet (Hertlein e Piercy, 2012):
1. Internet è utilizzato come un moderatore;
2. È largamente accessibile a tutti;
3. È conveniente in termini di costi;
4. Rende gli utenti anonimi, nel rispetto della privacy;
5. Facilita un’approssimativa interazione nella vita reale;
6. Considera l’ambiguità nella definizione dei comportamenti problematici;
7. Permette alle persone un diverso grado di accordo nei termini della realtà contro i propri ideali.

Da quanto detto finora, è possibile affermare come il tradimento sia un problema pervasivo con grosse ripercussioni sulla relazione e sui singoli individui coinvolti. La perdita di fiducia verso il proprio partner, il malessere emotivo, l’aumento di sentimenti quali rabbia, ansia, insicurezza, gelosia e risentimento portano a un drastico abbassamento del benessere personale e dell’autostima (Duba et al., 2008; Negash et al., 2014; Shackelford et al., 2002; Theiss & Solomon, 2008).

Cosa si può fare in questi casi? A chi rivolgersi per chiedere aiuto e/o consiglio?

Lo abbiamo domandato all’avvocato Edoardo Rossi, presidente dell’AMI (Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani) della Regione Piemonte e Valle d’Aosta. Come spiega l’avvocato, il tradimento tradizionale e il tradimento online sono spesso connessi: più spesso un tradimento online si concretizza in un tradimento tradizionale, ma l’aspetto virtuale è quasi sempre presente. Molte sono le situazioni in cui uno dei due partner cerca di procurarsi le prove del tradimento subito. Bisogna fare molta attenzione a questi comportamenti, in quanto leggere messaggi di un amante nel cellulare del coniuge o la sua posta elettronica è considerato reato e, inoltre, tale materiale non può essere usato come prova per dimostrare il tradimento.

Sono necessarie prove raccolte in modo lecito come, ad esempio, quelle procurate da un investigatore privato.

[blockquote style=”1″]Giuridicamente il tradimento deve essere provato deve venir meno il rapporto di fiducia ed è rilevante il fatto che il coniuge non adempia ai compiti richiesti dall’atto matrimoniale (…) ciò che preoccupa è la continuità dei messaggi, la sequenza di messaggi che porta alla crisi coniugale (…) il tradimento deve essere la causa che fa finire il matrimonio[/blockquote] afferma l’avvocato Rossi.

Risulta fondamentale prestare attenzione a queste situazioni soprattutto nel caso in cui si sia in presenza di minori che, spesso, diventano le vittime e la parte realmente lesa di tutta la vicenda. Secondo l’avv. Rossi in questi casi è fondamentale un lavoro in sinergia, a massima tutela della coppia, tra psicologi e avvocati. Alcune ricerche (Atkins et al., 2010; Marin et al., 2014) hanno dimostrato come coppie in crisi a causa dell’infedeltà del coniuge siano state in grado di superare i problemi legati al tradimento attraverso una terapia di coppia che le ha supportate nel ricostruire la relazione, ritrovare la fiducia persa, aumentare il senso di benessere personale e la soddisfazione all’interno della vita coniugale.
È necessario essere consapevoli che si lavora per il bene delle coppie, provando a cercare e valutare con loro la possibilità di qualche risorsa propria di quella coppia, che possa permettere una risoluzione del problema.

Una crisi di coppia necessita sempre di una valutazione professionale interdisciplinare accurata per poter essere affrontata nel rispetto dei membri della coppia stessa e degli eventuali figli presenti. Una valutazione e un intervento che non dovrebbe quindi limitarsi ad una serie di atti giudiziali ma tenere conto anche della sofferenza che, inevitabilmente, appartiene sia alla persona tradita che al traditore.

La Discalculia – Introduzione alla Psicologia

Ci siamo occupati largamente di disturbi dell’apprendimento, dedicandoci ai deficit legati alla scrittura. Tra questi disturbi, ancora, troviamo un’altra patologia: la discalculia.

 

Discalculia: introduzione

La discalculia è generalmente percepita come una difficoltà specifica, inerente all’area dell’apprendimento, per la matematica, o più esattamente, per l’aritmetica in relazione all’elaborazione di calcoli di base, come addizioni, sottrazioni, e le esecuzioni di calcoli mentali eseguiti in maniera fluente. Queste difficoltà devono mostrarsi in ritardo rispetto ai coetanei in presenza di un quoziente intellettivo nella norma e in assenza di altri disturbi neurologici.

 

Discalculia: di cosa si tratta

La discalculia è una condizione in cui è difficile attribuire un adeguato significato ai numeri e ai concetti riguardanti la matematici.

I bambini lavorano duramente per apprendere e memorizzare i processi di base della matematica, sapendo esattamente applicare le procedure senza capire, però, per quale motivo lo stanno facendo. In altre parole, manca la logica che sottende i processi matematici appresi al punto da non consentirne la replicazione.

In questo modo il bambino in età scolare rimanere indietro rispetto al gruppo dei pari. Questa difficoltà di apprendimento della matematica può essere fonte di confusione, da parte del bambino, che non riesce a dare una giusta spiegazione a quanto sta avvenendo soprattutto se si ottengono ottimi risultati in altre materie. La discalculia è una condizione permanente, ma questo non significa che il bambino non può migliorare e diventare, in ogni caso, una persona di successo.

 

Discalculia: sintomi

I sintomi tipici della discalculia sono:

  • Difficoltà ad effettuare un conto alla rovescia
  • Scarsa capacità di effettuare stime
  • Difficoltà nel ricordare i numeri
  • Difficoltà nel capire il senso dei numeri
  • Lentezza nei calcoli
  • Difficoltà nelle procedure matematiche soprattutto quelle più complesse
  • Evitamento di attività legate alla matematica che sono percepite come particolarmente difficili
  • Scarse abilità aritmetiche mentali

La discalculia tende a diventare più evidente col procedere degli anni e della scolarità

 

 

Discalculia: segnali in età prescolare

Il bambino piccolo ha difficoltà nel contare e nell’attribuire numeri a oggetti, non riesce a riconoscere i simboli numerici, quindi non collega, a esempio, il 6 alla parola sei. Inoltre, fatica a legare un numero a una situazione di vita reale, mostra difficoltà nel ricordare i numeri, soprattutto nel giusto ordine, stenta a ordinare gli elementi per dimensione, forma o colore ed evita giochi in cui è richiesto l’uso dei numeri, il conteggio e altri concetti matematici.

 

 

Discalculia: segnali durante la scuola primaria

Il bambino ha difficoltà a riconoscere i numeri e simboli, fatica nella riproduzione del calcolo di base, usa spesso le dita per contare invece di strategie mentali più sofisticate, non riesce a pianificare la soluzione di un problema di matematica, ha difficoltà a distinguere la sinistra dalla destra e ha uno scarso senso dell’orientamento. Ancora, ha difficoltà a ricordare i numeri di telefono e i punteggi ottenuti in un gioco e se può evita totalmente il gioco in cui è richiesto l’uso dei numeri.

 

 

Discalculia: segnali al liceo

Durante questi anni il ragazzino si sforza ad applicare, con fatica, i concetti matematici alla vita quotidiana, non riesce a misurare gli ingredienti di una ricetta, cerca strategie per non perdersi e usa tattiche per aggirare i problemi come l’uso di tabelle e grafici.

 

 

Discalculia: insorgenza

L’insorgenza del disturbo nella popolazione generale si aggira intorno al 5%, malgrado possa essere difficile effettuare una adeguata diagnosi perché spesse volte è confusa con le normali difficoltà in ambito di apprendimento.

Se è presente dislessia, col proseguire degli anni e della scolarità, si possono manifestare gravi difficoltà nella scolarizzazione, oltre a causare, in casi estremi,  difficoltà nell’occupazione. Il 56 % dei bambini con un disturbo della lettura ha anche scarsa capacità nella matematica; il 43% dei bambini con deficit nella matematica hanno scarse capacità di lettura (Cornoldi e Mammarella, 1995). La buona notizia è che tutti questi bambini possono eccellere in altre aree.

 

 

Discalculia: le difficoltà

La discalculia può interessare diverse aree inerenti alla matematica, e varia a seconda di come si manifesta. In ogni caso il problema più comune è l’attribuzione di significato ai numeri.

Si tratta di una comprensione intuitiva di come i numeri funzionino a livello di stima e come si relazionano l’un l’altro nel confronto quantitativo. Quindi, se il bambino non riesce a capire il concetto di numero, imparare la matematica e come utilizzarla diventa molto difficile.

Alcuni studi dimostrano che i bambini hanno un senso innato del cosa rappresenta un numero. Secondo Brian Butterworth, un ricercatore leader nel settore, l’essere discalculico è come essere daltonico. Quindi, così come alcune persone nascono con una cecità rispetto ai colori, altre nascono con la cecità numerica e questa mancanza rende difficile capire la differenza tra le diverse quantità numeriche (Butterworth, 2011). I bambini con cecità numerica non riescono a trovare una relazione tra il senso dei numeri e il mondo reale: non capisco che 5 biscotti sono quantitativamente uguali a 5 mele o 5 arance.

 

 

Discalculia: cause

I ricercatori non sanno esattamente che cosa provoca discalculia, ma sostengono si possa trattare di un deficit derivante da:

  • Geni ed ereditarietà: è stato scoperto che un bambino con discalculia spesso ha un genitore o un fratello con problemi inerenti all’area della matematica;
  • Sviluppo del cervello: studi di neuroimaging evidenziano delle differenze di estensione e di volume di parti del cervello. Si tratta di aree legate all’apprendimento e alla memoria, soprattutto per quel che riguarda l’impostazione, il monitoraggio e l’esecuzione di procedure matematiche (Ianes, Lucangeli, e Mammarella, 2010).
  • Ambiente: potrebbe presentarsi se la madre durante la gestazione assume alcol o si verifica una nascita prematura o il bambino pesa molto poco alla nascita [(Ianes, Lucangeli, e Mammarella, 2010).
  • Lesioni cerebrali: le lesioni di alcune aree cerebrali portano alla discalculia acquisita, che non ha nulla a che fare con un normale deficit dell’apprendimento, ma si verifica in seguito a un incidente.

In ogni caso i ricercatori lavorano per la messa a punto di interventi specifici che possano aiutare a connettere le diverse aree cerebrali impiegate in questo processo. Chiaramente si tratta di interventi di neuro-plasticità cerebrale funzionali alla facilitazione e al ripristino di alcune abilità matematiche .

 

 

Discalculia: diagnosi e terapia

Quando il bambino mostra per lungo tempo problemi con la matematica, è buona norma sottoporlo a una indagine diagnostica per scoprire esattamente cosa sta succedendo. Purtroppo poca ricerca è stata fatta sulla discalculia e per questo la prassi è un po’ più tediosa perché non esiste uno specifico test che permette di quantificare l’entità del danno, ma ci si avvale di più test o di tecniche comportamentali messi a punto ad hoc.

La prassi diagnostica potrebbe essere così costituita:

  • Effettuare una visita dal pediatra che possa indirizzare a uno specialista;
  • Lo specialista psicologo esperto in disturbi dell’apprendimento esegue una diagnosi neuropsicologiaca adeguata e fa eseguire degli esercizi di calcolo al bambino;
  • Lo psicologo fornisce anche sessioni individuali dedite al ripristino di alcune capacità che possono essere state fiaccate dal deficit, come autostima, ansia, abbassamento dell’umore;
  • Riabilitazione neuropsicologica e individuazione di strategie comportamentali.

Lo scopo finale è comunicare la diagnosi di discalculia alla famiglia e agli insegnanti che possa permettere di individuare un percorso riabilitativo avente lo scopo di rinforzare i punti di forza del bambino, grazie all’utilizzo di strategie comportamentali adeguate e individualizzate.

 

 

Discalculia: comorbidità

Solitamente la discalculia si manifesta insieme ad altre patologie:

  • Dislessia: è stato scoperto che il 45% dei bambini con disabilità matematiche mostrano hanno anche problemi legati alla lettura;
  • ADHD: i bambini con discalculia mostrano,  in molti casi, anche l’ADHD, ma  gli esperti raccomandano di valutare le competenze matematiche dopo aver tenuto  sotto controllo i sintomi dell’ ADHD per confermare eventuali diagnosi di discalculia;
  • L’ansia per la matematica: i bambini con ansia per la matematica sono così preoccupati per l’esecuzioni di procedure matematiche al punto da avere paura eccessiva in concomitanza delle prove. Questa paura può portare a scarse prestazioni nei test di matematica, con conseguente abbassamento dell’autostima e del tono dell’umore. In questo caso possono esserci ripercussione nel gruppo dei pari e in casi estremi possono portare all’evitamento e al ritiro sociale. Alcuni bambini possono avere sia l’ansia per la matematica sia la discalculia.
  • Malattie genetiche: la discalculia è associata a diverse malattie genetiche tra cui la sindrome dell’X fragile, la sindrome di Gerstmann e la sindrome di Turner (Ianes, Lucangeli, e Mammarella, 2010).

 

 

Discalculia: cosa fare

Essere genitori di un bambino con discalculia può dimostrarsi difficile, poiché potrebbe portare al manifestarsi di una serie di ansie e frustrazioni. Se si riesce a migliorare le competenze del bambino, di conseguenza l’autostima aumenta, l’umore migliora e la abilità sociali crescono. Tutto questo aiuta a ripristinare il benessere del bambino sia fisico sia mentale.

Bisogna tenere sempre a mente che i bambini, e di conseguenza le famiglie, con disturbi legati all’apprendimento sono tutti diversi e per avere una corretta diagnosi di discalculia sono necessarie prove concrete. Solo a questo punto si possono trovare le giuste strategie atte al miglioramento dei sintomi.

Potrebbero, in alcuni casi, essere necessari diversi approcci per scoprire che cosa funziona meglio con il bambino. Di seguito cosa è possibile fare:

  • Apprendere competenze, individuare la natura di discalculia è un primo passo per aiutare il bambino a rafforzare le competenze matematiche legate
  • Giocare con la matematica, utilizzare oggetti cui collegare dei numeri nelle normali attività quotidiane.
  • Utilizzare uno spazio di lavoro,  aiutare il bambino a essere più produttivo durante l’esecuzione dei compiti per ritagliarsi uno spazio per le distrazioni.
  • Utilizzare la calcolatrice può aiutare a concentrarsi sull’uso di ragionamento e di problem solving.
  • Aumentare la fiducia, identificare i punti di forza del vostro bambino e usarli per aggirare i punti deboli. Questa attività può aiutare a migliorare l’autostima e aumentare la resilienza del bambino. Inoltre, bisogna lasciare che il bambino comprenda cosa sta capitando e che non leghi questa condizione a pigrizia o a scarse capacità intellettive.
  • Incoraggiare il bambino quando ne ha bisogno rende meno doloroso lo stato in cui versa e più piacevole l’ambiente in cui vive riducendo l’ansia o i sentimenti di inferiorità che potrebbero manifestarsi.
  • Validazione delle emozioni: riconoscere ed entrare in empatia con il bambino aiuta a migliorare lo stato psicologico.
  • Creare una rete con altre famiglie che hanno gli stessi problemi.

In ogni caso un ambiente felice, in cui non si fa riferimento al deficit presentato e in cui non si recrimina al bambino di non essere alle altezze delle aspettative, aiuta al miglioramento e facilita l’individuazione di strategie adeguate al superamento del disturbo.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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