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Autostima e contesti culturali: come varia la valutazione di sè da una cultura all’altra

Autostima: Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

 

Autostima: come operiamo nel valutare noi stessi

L’autostima buona può essere un valido aiuto che ci protegge contro lo stress e le minacce al sé. In questo senso una buona valutazione di noi stessi non è solo una bussola per sapere dove orientarci (ruoli da intraprendere, mete congeniali o meno da perseguire ecc …); ma ha anche un valore protettivo tout court, ovvero ha un significato per il benessere individuale. Infatti molte ricerche sono concordi con il fatto che possedere una buona stima di se stessi è associata a sentimenti positivi e ad un minor rischio di depressione (Campbell, Chew e Scratchley).

Molti eventi rilevanti per l’economia del sé non sono né intrinsecamente positivi né negativi, ma sono interpretati e valutati. Spesso, nonostante il valore che un’accurata stima di noi stessi ha per muoverci nel mondo sociale, operiamo quello che Kunda (1990) chiama distorsioni da sopravvalutazione del sé, ovvero tendenze a raccogliere e interpretare le informazioni concernenti il sé in modo da produrre valutazioni eccessivamente positive. Innanzitutto preferiamo evitare situazioni in cui possiamo fallire e scegliere quelle in cui possiamo brillare, le nostre scelte sono il risultato di ambiti che ci consentono di esprimerci al meglio.

In secondo luogo, se possiamo, evitiamo situazioni di confronto con persone che sono più brave di noi e tendiamo a operare confronti al ribasso, ovvero comparazioni con situazioni o persone a cui diamo una valutazione inferiore alla nostra.

Infine, esiste una differenza tra le informazioni sui noi stessi che sono accessibili alla mente: in generale le persone tendono a ricordare le esperienze positive, di modo che queste diventino cronicamente più accessibili e questo fa sì che non sempre le idee negative su noi stessi siano costantemente pronte alla mente a meno di un esercizio cronico di autoanalisi.

 

L’autostima nelle varie culture

Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

In generale si parla di culture indipendenti e interdipendenti. Le prime sono generalmente identificate con le moderne culture occidentali, in esse l’accento è posto sull’individuo come unico e separato dal contesto sociale, le persone caratterizzano la propria individualità mediante tratti rappresentati da parole come onesto, responsabile, estroverso. Per contro nelle culture come il Giappone, l’accento viene posto sui rapporti con gli altri, le persone si descrivono mediante le appartenenze sociali e il nucleo di sé viene descritto dai rapporti del singolo con le persone a lui significative.

Dati provenienti dalle culture asiatiche interdipendenti evidenziano affascinanti differenze rispetto ai modelli diffusi nel Nord America e nell’Europa occidentale. Kitayama e colleghi (Kitayama, Markus, Matsumoto e Norasakkunkit, 1997) osservano che, mentre tra gli americani la sopravvalutazione del sé è comune, giapponesi e altri popoli asiatici sono meno inclini a questa distorsione. Secondo Kitayama e colleghi questo non sarebbe a causa di una individualità asiatica meno sana, tutt’altro. Il fatto che le persone asiatiche siano più sensibili ad integrare informazioni negative e feedback di fallimenti nel sé sarebbe il risultato della loro cultura. In nord America gli attributi e i valori personali sono la determinante maggiore del valore percepito del sé, e così è naturale che si creino sopravvalutazioni dei propri attributi personali. Nelle culture orientali, per contro, l’autostima personale dipende maggiormente dagli attributi sociali, il valore del sé non è misurato tanto da attributi personali, quanto dalla capacità di adeguarsi alle aspettative e alle caratteristiche dei gruppi a cui le persone appartengono. Per gli studenti giapponesi, per esempio, è normale a fine giornata riunirsi per discutere sui motivi per i quali non si è riusciti al fine di migliorare le prestazioni degli individui e arrivare agli obiettivi che il gruppo si è prefissato.

L’autostima, come anche tutti gli altri aspetti del sé, non si formano in un vacuum, ma sono fondati su significati culturali, e socialmente appresi.
A partire dagli anni ottanta si cominciato a riflettere sul fatto che molte delle ricerche sulla centralità dell’autostima per il benessere umano fossero condotte in America del Nord, con partecipanti nordamericani e da ricercatori nordamericani, per questo motivo sono fioriti degli studi in cui si è valutata la costruzione del sé come un processo connotato culturalmente, anche confrontandolo con altri Paesi rispetto a quelli occidentali.

Inoltre, a partire dagli anni novanta, la cultura nordamericana è stata “invasa” da produzioni culturali che decantano l’urgenza e l’utilità di godere di una buona autostima. Questo argomento è rilevante sia in ambienti accademici (c’è una grossa mole di lavori scientifici sull’autostima), sia tra la gente comune, attraverso la presenza di programmi televisivi e pamphlets su come aumentare la propria autostima.

In diversi studi si è vista una ampia correlazione tra individualismo e autostima, come se questa fosse dipendente e basata sulla concezione di sé che l’individuo ha come agente autonomo e portatore di pensieri e istanze personali.

In un articolo del 1999 Heine e colleghi (Heine, Lehman, Markus e Kitayama) discutono in modo ampio e articolato sulla questione dell’autostima come costrutto culturale ed ecologicamente orientato, e se essa sia un bisogno universale o meno.

All’inizio dell’articolo gli autori descrivono alcune delle caratteristiche sociologiche e psicologiche del Giappone, come per esempio una tendenza mirata all’autocritica (hansei), una sforzo pervasivo nell’auto-miglioramento e una rilevanza forte del giudizio altrui sulle proprie auto-percezioni. Queste sono le premesse per discutere del perché negli studi, seppur condotti con metodi diversi, l’autostima dei giapponesi si attesti su valori moderati e tenda ad una distribuzione normale, mentre le misurazioni dell’autostima degli statunitensi mostrino una tendenza fortemente distorta verso valori elevati di autostima.

Gli autori dell’articolo illustrato concludono che l’autostima intesa nelle produzioni scientifiche è un costrutto che risente della mentalità occidentale, ma che, il bisogno di conservare una buona valutazione di sé come esseri competenti è in qualche modo una tendenza universale, che si declina nei modi specifici che le varie culture prescrivono.
Per esempio l’autostima per i giapponesi ha una connotazione più relazionale che personale, ovvero è imprescindibilmente intessuta dalle relazioni che l’individuo vive (i giapponesi sovrastimano le caratteristiche dei propri amici, ed è l’unico bias trovato negli studi sull’autostima in questa cultura). Inoltre per la cultura del sol levante è di fondamentale pregnanza il mantenere una solida reputazione, ovvero conforme con le norme che la società dà; in questo senso può essere più importante per i giapponesi attenersi alle cornici di riferimento degli altri significativi piuttosto che riferirsi ad attributi e valori personali (cornici di riferimento esterne vs interne).

Disturbo specifico della compitazione – Introduzione alla Psicologia

Il disturbo specifico della compitazione consiste essenzialmente nella difficoltà a suddividere le parole in sillabe e, solitamente, è associato a problemi di disgrafia e discalculia.

 

Disturbo specifico della compitazione: introduzione

Il Disturbo specifico della compitazione rientra nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), che possiedono una loro peculiarità ovvero essere esclusivi per una determinata abilità, equivale a dire che il disturbo presentato è circoscritto e localizzato, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Il particolare deficit presentato a carico di un’ abilità specifica si manifesta solo se è rispettato il criterio della discrepanza: si verifica una difformità tra l’abilità nel dominio interessato, che deve essere deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata, e l’intelligenza generale proporzionata per l’età cronologica.

Secondo l’OMS i Disturbi Specifici dell’Apprendimento non sono dovuti né a una incapacità nell’apprendere, né a una malattia cerebrale acquisita, ma derivano da anomalie nell’elaborazione cognitiva legate in larga misura a qualche tipo di disfunzione biologica (OMS, 1992).

Nell’ICD-10, noto manuale diagnostico complementare al più diffuso DSM, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento si dividono in:

  • Disturbi evolutivi specifici dell’eloquio e del linguaggio;
  • Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche;
  • Disturbo evolutivo specifico della funzione motoria

Tra i Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche troviamo:

  • Disturbo specifico di lettura
  • Disturbo specifico della compitazione
  • Disturbo specifico delle abilità aritmetiche
  • Disturbi misti delle abilità scolastiche
  • Altri disturbi evolutivi delle abilità scolastiche
  • Disturbi evolutivi delle abilità scolastiche non specificati

Durante le scorse settimane si è parlato di molti dei disturbi elencati (disgrafia, dislessia, disortografia, discalculia), oggi ci occuperemo, invece, del disturbo specifico della compitazione.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: come riconoscerlo

Il  disturbo specifico della compitazione consiste essenzialmente nella difficoltà a suddividere le parole in sillabe e, solitamente, è associato a problemi di disgrafia e discalculia.

Si tratta di un disturbo specifico e significativo nello sviluppo delle abilità di compitazione in assenza di disturbi legati alla lettura. È un deficit non legato a problemi di vista, ma il bambino che ne è affetto mostra un livello scolastico inadeguato in relazione all’età cronologica e al quoziente intellettivo. Il disturbo specifico della compitazione si manifesta attraverso una incapacità di pronunciare e scrivere correttamente le parole. Questo disturbo si manifesta nel momento in cui il bambino inizia ad approcciarsi alla scrittura e alla lettura di parole o numeri. Quindi, durante il primo anno di scuola primaria chi soffre di disturbo specifico della compitazione manifesta i primi segni.

E’ importante non sottovalutare mai il problema, quando presente, ma affidarsi a un professionista, neuropsichiatra infantile o a uno psicologo, in grado di dare una corretta diagnosi e individuare il miglior percorso da eseguire per migliorare le capacità di apprendimento attraverso un lavoro volto al miglioramento.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: di cosa si tratta

Il disturbo specifico della compitazione è un disturbo a base biologica, derivante da deficit a livello di computazione neurologica di una serie di processi implicati nella comunicazione delle informazioni. Si tratta di una serie di anomalie derivate dal percepire ed elaborare con precisione, e in modo efficiente, le informazioni in ingresso e per questo si manifestano delle difficoltà di apprendimento di competenze specifiche come la lettura, la comprensione, l’ortografia e l’espressione scritta, il calcolo aritmetico e il ragionamento matematico. In questo modo si possono manifestare delle difficoltà nell’apprendimento di argomenti più complessi che causano uno scarso rendimento scolastico. Se presenti disturbi derivanti da problemi visivi o uditivi o istruzione scolastica povera o inappropriata non è possibile effettuare diagnosi di DSA.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: tipologie

Il disturbo specifico della compitazione è classificato in base alla gravità: si considera lieve se si hanno delle difficoltà di apprendimento che, se supportate da interventi riabilitativi specifici, si manifestano in maniera minima. Se le difficoltà di apprendimento richiedono dei periodi di intensa terapia riabilitativa al fine di ottenere adeguate competenza scolastiche, allora il disturbo è considerato moderato. Quando le difficoltà di apprendimento sono molto esplicite al punto da richiedere un supporto specialistico costante il disturbo è considerato grave.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: insorgenza e comorbidità

Il disturbo specifico della compitazione colpisce circa il 5% -15% dei bambini in età scolare e il 4% degli adulti (Margari, Buttiglione, Craig, Cristella, de Giambattista, Matera, Operto, e Simon, 2013; Katusic, Colligan , Weaver, & Barbaresi, 2009).

Il disturbo specifico della compitazione può manifestarsi insieme ad altri disturbi. Uno studio condotto da Margari et al. (2013) ha rivelato che il 33% dei pazienti con disturbo specifico della compitazione mostrano anche segni di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il che indica meccanismi biologici di funzionamento comune ai due disturbi in questione. Inoltre, questo studio ha suggerito che altri disturbi, come disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disprassia, possono tendere a co-verificarsi con il disturbo della compitazione.

 

Disturbo specifico della compitazione: cause

Mentre le basi biologiche del disturbo specifico della compitazione sono ancora non chiare, sono stati compiuti progressi nella comprensione di alcuni dei meccanismi responsabili dell’insorgenza del disturbo. Ad esempio, i bambini che sono nati pre-termine o con un peso molto basso hanno una maggiore probabilità di manifestare questo deficit (Simms et la., 2013;Taylor, Espy, e Anderson, 2009). Inoltre, le sostanze chimiche come pesticidi, diossine, e altre tossine organici sono associati a difficoltà di apprendimento (Jansen, 2013), e piccolo pezzi di M-RNA non complementari possono avere un impatto negativo sullo sviluppo neurologico del bambino portando a disturbi specifici dell’apprendimento (Kajta & Wójtowicz, 2013).

 

 

Disturbo specifico della compitazione: diagnosi

La diagnosi di disturbo specifico della compitazione può essere effettuata da professionisti specializzati in DSA, come Psicologi o neuropsicologi.

A queste figure va aggiunta quella di un logopedista che possa individuare l’intervento specifico per disturbo specifico. Il processo diagnostico deve essere effettuato attraverso test standardizzati specifici che possano restituire una diagnosi valida e attendibile.

Dopo ave eseguita una corretta diagnosi, i genitori potranno comunicarla alla scuola che predisporrà un Percorso Didattico Personalizzato in grado di stimolare adeguatamente il bambino, attraverso compiti comportamentali accuratamente selezionati, invitandolo a superare le difficoltà riscontrate. Il rischio, anche in questo caso come per gli altri disturbi dell’apprendimento, è sentirsi sempre inadeguati, non all’altezza e indietro  rispetto ai pari e avere di conseguenza delle ripercussioni psicologiche, come ansia, bassa autostima e abbassamento del tono dell’umore. In questo caso è consigliabile un percorso psicologico volto a migliorare lo stato di benessere del bambino.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: trattamento

Diversi trattamenti sono disponibili per rimediare ai sintomi in maniera selettiva e puntuale. È consigliato l’uso di specifici software, che si sono dimostrati molto utili per migliorare i deficit della lettura e della comprensione (Saine, Lerkkanen, Ahonen, Tolvanen, e Lyyttinen, 2011). Anche il Neurofeedback, che prevede l’utilizzo di elettroencefalografia per monitorare l’attività del cervello, facilita significativamente la comprensione della lettura (Nazari, Mosanezhad, Hashemi, e Jahan, 2012), oltre ai classici compiti riabilitativi neuropsicologici e comportamentali.

Concludo ricordando che malgrado la psicoterapia tradizionale non affronti direttamente questo disturbo nella sua specificità, riesce a ottenere ottimi risultati e notevoli miglioramenti per disturbi depressivi e disturbi d’ansia che si manifestano spesso come conseguenza dell’impatto che i disturbi specifici dell’apprendimento possono avere sulla vita di un individuo. Di conseguenza, la psicoterapia può essere un importante e indispensabile trattamento adiuvante a migliorare la qualità della vita.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Non essere cattivo: un film “familiare” – Cinema e psicologia

Non essere cattivo: Il film postumo di Claudio Caligari scorre fra due sponde dolorose: da una parte la rievocazione di una generazione ferita da droga e AIDS e dall’altra il vissuto della malattia mortale del regista che tutto questo ha voluto filmare.

Non essere cattivo: introduzione

Si chiude così la sua trilogia di lungometraggi: Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998) e quest’ultimo, Non essere cattivo (2015). Ritrattista di tossici, prostitute, travestiti, rapinatori e balordi di ogni specie, ha osato, per certi versi come il terapeuta familiare, esplorare le zone d’ombra di cui tutti gli altri avevano paura. Nei film ci sono anche i figli, le donne, le madri, gli amici di questi “cattivi” che tutti cercano di dimenticare senza riuscirci.
La similitudine, azzardata ma non troppo, sorge spontanea quando, ad una seconda visione (perchè la prima è sacra godersela con uno sguardo incontaminato) si esplorano le dinamiche familiari dei protagonisti. Ma non è quello che qui voglio ripercorrere.

Ciascuno di voi, colleghe e colleghi, può godersi la creazione di un’analisi tutta propria.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La costruzione di una doppia memoria

Vorrei qui brevemente riflettere sulla costruzione di una doppia memoria.
Il regista è mancato all’età di 67 anni, prima che il suo ultimo film fosse terminato e mandato nel mondo a ricevere candidature, premi mancati, applausi silenziosi e un omaggio commosso da chi, come me, lo ha scoperto tardi. Il suo entourage ha lavorato sapendo che quello sarebbe stato un testamento e che la direzione dei passi fatti era il passato, non il futuro; come quei giorni interminabili di chi sta accanto ad una persona malata, in bilico fra i desideri contrastanti di trattenere e di lasciare andare, in un presente senza tempo dove ogni gesto fatto insieme potrebbe essere l’ultimo.

E poi c’è la memoria che Caligari ha voluto fotografare, quella delle borgate pasoliniane fra Roma e Ostia, fra quello che poteva essere e non è stato, fra chi c’è e chi non c’è più. Rivivono quei temerari sulle macchine volanti tanto cari a Luigi Cancrini, perchè trent’anni sono sufficienti per rielaborare i traumi di una generazione mutilata.
E rivivono anche perchè la storia sembra cambiare ed invece si ripete.

Non essere cattivo: un film sui temi della terapia familiare

Molte delle conquiste della terapia familiare sono dovute ai terapeuti che hanno saputo immergersi nel dolore di quel sottomondo proletario dove la droga la faceva da padrone, anzi, faceva il gioco dei padroni e si sostituiva alle figure paterne e materne, assenti anche a se stesse. Per chi lavora nel campo delle dipendenze, quelle conoscenze sono sempre utili e illuminanti, come le vecchie storielle che i nonni raccontano ai nipoti perchè non vadano perdute e perchè tutta la fatica non sia stata vana. Così per il cinema sarà l’opera di questo maestro, che sui “cattivi” eroi ha voluto un dilemma sempre aperto e mai una condanna fatta e finita. Quando chiesero a Caligari perchè avesse fatto solo tre film in trent’anni, egli rispose che aveva ancora tanto da raccontare ma che il suo intento era farlo senza i codici pubblicitari del cinema commerciale. “Quando sai comunicare, sei pericoloso”, disse.

Come un paziente designato, ma consapevole di esserlo, è riuscito a narrare la verità del sistema familiare e sociale, dando voce alle parti fragili ed impaurite che su di lui i colleghi avevano proiettato.

Il suicidio assisistito per i pazienti che soffrono di patologie psichiatriche

Secondo una dichiarazione del Canadian Medical Association Journal (CMAJ), offrire assistenza medica per morire alla popolazione canadese che soffre di patologie psichiatriche, potrebbe esporre le persone più vulnerabili ad una condizione di rischio.

 

Come dichiara il dottor Scott Kim c’è una grave lacuna tra l’idea che il suicidio assistito per i pazienti con patologie psichiatriche sia sostenuto e quella che poi è la realtà pratica, e questo è decisamente visibile in paesi come il Belgio e l’Olanda. Per tanto una politica che consenta l’accesso al suicidio assistito di pazienti non terminali che soffrono di malattie psichiatriche in Canada, potrebbe mettere a rischio quella parte di popolazione vulnerabile e stigmatizzata.

In Canada si è infatti di recente affrontato tale tema. Lo scenario è stato caratterizzato da un forte dibattito relativamente ad opinioni contrastanti che vanno al di là della semplice legalizzazione del suicidio assistito.

La Corte Suprema del Canada ha stabilito che gli adulti competenti che soffrono di una condizione medica grave e irrimediabile dovrebbero avere la possibilità di accedere al suicidio assistito. Tale richiesta è stata inviata al Parlamento così da poter sviluppare un regime legislativo e regolamentare così da poter avviare tale servizio.

Secondo una delle commissioni parlamentari, oltre ai pazienti che soffrono di patologie organiche dovrebbero avere la possibilità di accedere a questo servizio anche coloro che soffrono di malattie psichiatriche. Ma, secondo la legge canadese Bill C14, approvata sia dal Senato che dalla House of Commons, coloro che soffrono di malattie terminali con eziologia organica, il suicidio assistito è soggetto a limitazioni. Di conseguenza la presente legge escluderebbe la possibilità di ricorrere al suicidio assistito a tutti coloro che soffrono di patologie psichiatriche.

Ma a tal proposito il governo canadese sta affrontando questo scenario con lo scopo di giungere ad una soluzione nei prossimi anni.

Come dichiarano Kim e Lemmens, sono numerose le importanti sfide che bisognerà affrontare per decidere chi potrebbe beneficiare del suicidio assistito tra i diversi pazienti psichiatrici.

Dal Belgio e dall’Olanda giungono prove che mettono in mostra come i medici non siano d’accordo sulla definizione di criteri specifici che consentano o meno la possibilità di usufruire del suicidio assistito da parte dei pazienti psichiatrici.

A tal proposito il maggior dibattito ha toccato coloro che soffrono di depressione molto grave e difficile da trattare, in quanto si tratta di un tema molto delicato. Tuttavia non stabilire dei criteri vorrebbe dire consentire l’accesso a questo servizio a tutti coloro che soffrono di un disturbo psichiatrico tra cui i maggiori sono la Schizofrenia, i disturbi Alimentari, il Distrubo Post-Traumatico da Stress e i Disturbi di Personalità.

Sempre secondo Kim e Lemmens coloro che sostengono l’accesso al suicidio assistito da parte di persone caratterizzate da disturbi psichiatrici, sono disposti a tollerare un numero di morti premature che sarebbero potenzialmente evitabili, opinione a cui non tutta la popolazione potrebbe concordare.

È per tanto necessario, prima di mettere in atto una qualsiasi scelta, affrontare pubblicamente ed esplicitamente l’argomento con un importante dibattito globale.

Le tecniche motivazionali efficaci nell’esecuzione di un compito

Un recente studio, pubblicato sulla famosa rivista Frontiers in Psychology, ha evidenziato come ripetere a se stessi che si può fare meglio, può davvero portare le persone a fare meglio in una determinata prestazione.

 

Lo studio

In concomitanza con la BBC Lab UK, il professor Andrew Lane e i suoi colleghi hanno indagato quali abilità fisiologiche avrebbero potuto aiutare le persone a migliorare i loro punteggi in un gioco online. Per realizzare questa indagine hanno preso parte all’esperimento 44.000 persone proprio con lo scopo di capire quali sono le tecniche motivazionali realmente funzionanti.

Nello specifico l’obiettivo dello studio era quello di individuare la possibile esistenza di un metodo motivazionale efficace per qualsiasi aspetto riguardante un compito da svolgere, e qualora vi fossero state più tecniche motivazionali corrispondenti a questa descrizione, individuare la più efficace in assoluto.

I metodi motivazionali indagati sono stati: il parlare con se stessi (self-talk), l’immaginazione (imagery) e la pianificazione se-allora (if-then planning). Ognuna di queste abilità psicologiche è stata applicata ad una delle quattro fasi che caratterizzano l’esecuzione di un compito: il processo (process), il risultato (outcome), il controllo dell’eccitazione (arousal control) e l’istruzione (instruction).

I risultati

Il risultato principale emerso è che coloro che utilizzano la strategia motivazionale self-talk, come ad esempio ripetere a se stessi “La prossima volta posso fare meglio”, ottengono migliori risultati in qualsiasi fase del compito rispetto al gruppo di controllo.

A livello di associazione tra tecniche motivazionali e fasi del compito, i risultati migliori sono stati ottenuti là dove è stata applicata la self-talk al risultato (es. ripetere a se stessi “Posso battere il mio punteggio migliore”) e al processo (es. ripetere a se stessi “Questa volta sarò in grado di svolgere il compito più velocemente”), e l’imagery al risultato (es. immaginare se stessi giocare e battere il nostro miglior punteggio) e al processo (immaginare se stessi giocare e svolgere il compito più velocemente della volta precedente”).

Gli autori hanno inoltre scoperto che guardare un breve video motivazionale prima di una performance potrebbe migliorare l’esecuzione di questa. Infatti ai partecipanti, prima di giocare online, veniva fatto vedere un breve video a scopo motivazionale. L’allenatore che parlava in questo video era Michael Johnson, quattro volte campione olimpico, noto per aver sostenuto prima di ogni gara non solo una preparazione fisica, ma anche mentale.

Scarsi risultati sono stati ottenuti invece sulla strategia if-then planning, la quale è risultata essere la meno efficace in questo caso. In realtà si tratta di una tecnica che nella vita quotidiana è molto efficace per quel che riguarda la gestione del proprio peso e numerose altre sfide.

Le conclusioni

I risultati ottenuti possono essere di grande aiuto per affrontare al meglio la vita quotidiana, ma questo non è l’unico punto a favore del presente studio. Ciò che maggiormente stupisce è l’elevato numero dei partecipanti, ben 44.000 persone. Generalmente la maggior parte degli studi in ambito psicologico possiede meno di 300 partecipanti. I soggetti sono stati divisi in 12 gruppi sperimentali e un gruppo di controllo, contro gli abituali 2/3 gruppi sperimentali.

Citizen Gay. Affetti e diritti (2016) di V. Lingiardi

A poca distanza dall’approvazione della legge sulle unioni civili, un libro fondamentale sull’omosessualità dal punto di vista psicologico, filosofico, politico.

 

La terza edizione del più ampio ed importante libro dedicato alla condizione omosessuale che sia stato pubblicato in Italia esce a poca distanza dall’approvazione della legge sulle unioni civili. Il Paese, e soprattutto il Parlamento, sono risultati incredibilmente divisi sull’opportunità di un significativo passo avanti verso l’uguaglianza dei diritti delle persone omosessuali rispetto alle altre.  La legge che è stata varata, in ogni caso, è assai meno avanzata rispetto all’originale disegno di legge a firma Cirinnà. La possibilità di rendere legalmente riconosciuta l’unione tra due persone dello stesso sesso è stata condizionata all’impossibilità di un’equiparazione di tale unione a un vero e proprio matrimonio.

Si può affermare, quindi, che il passo avanti compiuto è coinciso con la riproposizione di una serie di pregiudizi, che sono riemersi in una parte significativa del Paese e si sono espressi anche attraverso la maggioranza della sua rappresentanza parlamentare. Se la legge è infatti passata, una parte significativa della maggioranza che l’ha approvata si è esplicitamente espressa contro la possibilità dell’adozione di figli da parte di una coppia gay e contro molte delle caratteristiche che avrebbero reso tale coppia in condizioni paritarie rispetto a una coppia eterosessuale.

Tra le caratteristiche psicologicamente più significative della legge, in questo senso, va considerata la rimozione dell’idea stessa di un legame di natura sessuale. Tra i fattori che vengono considerati motivo sufficiente per rescindere l’unione, infatti, non sono compresi né la fedeltà dei coniugi, né l’integrità della capacità di avere rapporti (che persino la Chiesa considera motivo per il possibile annullamento di un matrimonio religioso).

I pregiudizi contro l’omosessualità sono fortemente legati alla tradizione religiosa cattolica da una parte, a una persistente cultura conservatrice dall’altra (con una sovrapposizione significativa tra le due). Delle due tendenze, occorre dire, quella più resistente e difficile da sradicare è senz’altro la prima. Nel resto del mondo civile, infatti, gli esempi di politici conservatori che sono stati persino attivi promotori di leggi sulle unioni civili e sul matrimonio omosessuale sono assai numerosi.

Tra i più significativi esempi citati da Lingiardi va annoverato certamente il premier britannico Cameron. Questi si dichiarava a favore del matrimonio tra omosessuali “non malgrado l’essere conservatore, ma proprio in quanto conservatore”, nella convinzione che i propri valori coincidevano di certo con l’estensione di un istituto tradizionale come il matrimonio al numero più alto possibile di cittadini.

Al contrario, invece, la Chiesa si è sempre distinta nel mantenimento di una legislazione attivamente contraria non solo al matrimonio ma anche ai comportamenti omosessuali. A conferma di questo, si può ricordare che, nel 2008, su iniziativa della Francia, all’ONU venne presentato il primo documento che chiedeva la depenalizzazione universale dei reati basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere (puniti in alcuni stati con la pena di morte). Ebbene, il Vaticano fu tra i 58 stati che sostennero il documento di opposizione a quello francese proposto dalla Siria, in compagnia di numerosi paesi a religione islamica. Il rappresentante del Vaticano alle Nazioni Unite ribadì, del resto, nel 2011, la convinzione che “certe tipologie di comportamenti sessuali devono essere vietate per legge” e nulla da allora sembra cambiato. Si potrebbe anzi affermare che certe aperture apparenti possano in fondo risultare più deleterie delle esplicite condanne.

Spesso si cita fuori contesto una frase di Bergoglio (“Chi sono io per giudicare un gay..?”) a dimostrazione di un significativo passo compiuto dalla Chiesa in direzione della tolleranza. In realtà le parole del Papa erano inequivocabili nel chiudere ogni possibile porta. La famosa frase si chiarificava, infatti, condizionando la non-condannabilità alla ricerca di Dio, ovvero, di fatto, alla mancata consumazione del peccato, al senso di colpa per la propria condizione, al tentativo di superarla.

Fortunatamente non è il Cristianesimo in sé a costituire un ostacolo al riconoscimento della condizione di normalità degli omosessuali. Oltre alle ampie aperture da parte degli ambienti protestanti (come di consueto più progressisti di quelli cattolici) non vanno dimenticate le voci autorevoli anche da parte di alcuni prelati italiani, che hanno incrinato il muro di ostilità del Vaticano: i vari don Ciotti, don Gallo e soprattutto la carismatica figura del mai troppo rimpianto Carlo Maria Martini, del quale Lingiardi cita un intervento commovente nella sua limpida lucidità.

La psicologia e la psichiatria hanno, nel mondo, compiuto passi significativi anche se relativamente recenti per superare lo stigma nei confronti dell’omosessualità. Lingiardi ricostruisce la cronologia dei più importanti. Nel 1973, dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali veniva eliminata la voce Omosessualità egosintonica (cioè vissuta positivamente). Nel 1987 dal DSM veniva cassata anche la voce Omosessualità egodistonica, cioè non accettata soggettivamente: si riconosceva infatti che l’egodistonia fosse il risultato dell’interiorizzazione dello stigma sociale.

Nel 1991, per la prima volta l’American Psychoanalytic Association approvava un documento nel quale veniva ufficialmente deplorata ogni forma di discriminazione verso gli omosessuali compresa la possibile mancata selezione come candidato analista. Nel 2005 l’APA prendeva ufficialmente posizione a favore dei matrimoni gay, in nome della tutela della salute mentale di persone da considerare cittadini come tutti gli altri. A questo punto:

L’orientamente sessuale non è più un requisito obbligatorio per stabilire la salute mentale, la maturità personale e la capacità di instaurare relazioni amorose

(Lingiardi, 2016, p. 97)

Soprattutto, però, le scienze psi hanno offerto un contributo assai importante nel rovesciare il principio della normalità e porre degli interrogativi sul significato della resistenza verso l’accettazione della normalità della condizione LGBTQ “(acronimo che accorpa, per comodità, le varie identità lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, bisessuali, queer).  La cosiddetta omofobia è stata oggetto di numerosi studi scientifici, che ne hanno evidenziato un carattere fondamentale (del resto già da tempo ipotizzato in orbita psicoanalitica): la coincidenza del rifiuto dell’omosessualità altrui con il rifiuto (e la paura) di una possibile omosessualità propria.

 

Se si vuole trovare un punto di sintesi per consigliare caldamente la lettura di questo libro, si può affermare che il nostro Paese ha bisogno non solo di passare dall’intolleranza alla tolleranza, ma anche dalla tolleranza alla più attiva accettazione. L’equilibrio psichico di persone che trovano intorno a loro un mondo che non consente di considerarsi normali è oltremodo instabile. Il rischio di interiorizzare lo stigma dell’anormalità è concreto e porta continuamente al rischio ulteriore di non accettare il proprio orientamente sessuale.

Ogni volta che un politico, un prete, o più semplicemente un genitore, pronunciano parole di condanna verso l’omosessualità, un adolescente che forse conosciamo di persona compie un passo su un sentiero molto pericoloso, che può condurre anche al suicidio. Forse è ora di tenerlo presente. Citizen Gay può contribuire a chiarire tanti dubbi e a aiutarci tutti nella comprensione e nella consapevolezza di problemi che non riguardano solo la comunità LGTBQ, ma tutti coloro che sono interessati alla salute mentale del mondo che ci circonda.

The Martian, il sopravvissuto di Ridley Scott (2015) – Cinema & Psicologia

The Martian: L’astronauta Mark Watney inizia a formare gli aspiranti astronauti, facendo tesoro delle proprie esperienze nella soluzione dei problemi. Il film lascia allo spettatore tre indicazioni.

Il film prende spunto dal romanzo L’uomo di Marte di Andy Weir.
Matt Damon interpreta Mark Watney un astronauta che a seguito di una tempesta è erroneamente creduto morto e abbandonato su Marte dagli altri componenti della missione Ares III. Il film racconta la lotta per la sopravvivenza del protagonista in un ambiente ostile da dove tornare sembrerebbe impossibile. Le provviste sono scarse e insufficienti, la successiva missione non potrà raggiungere il pianeta prima di quattro anni.

Mark botanico e ingegnere meccanico riesce a far crescere patate, costruendo un complesso sistema di irrigazione. La Nasa si accorge attraverso segnali che arrivano da un satellite che l’uomo è vivo e inizia a progettare un intervento di recupero. L’imprevisto, però, è presente e ricorrente; costringerà sia gli esperti della Nasa sia il sopravvissuto ad affrontare e risolvere una serie di criticità. Watney viene alla fine salvato in maniera rocambolesca dai compagni astronauti che grazie all’intuito di un matematico nerd e alla collaborazione dell’agenzia spaziale cinese riescono a riportarlo sulla terra.

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The Martian: i messaggi significativi

Una volta tornato, l’astronauta Mark Watney inizia a formare gli aspiranti astronauti, facendo tesoro delle proprie esperienze nella soluzione dei problemi. Il film lascia allo spettatore tre indicazioni. La prima è nelle parole che il protagonista rivolge agli aspiranti astronauti durante la sua prima lezione:

[blockquote style=”1″]L’altra domanda che spesso mi viene fatta è: quando ero lassù abbandonato a me stesso ho pensato che sarei morto? Sì, assolutamente. E dovete sapere che se continuerete potrebbe capitare anche a voi. Questo è lo spazio, non collabora. A un certo punto vi succederà qualcosa di terribile e vi direte ecco è così che morirò. Ora, o accettate che accada o vi date da fare. Le cose stanno così. Dovete cominciare, fate calcoli, risolvete un problema e poi risolvete il successivo e quello dopo. E se ne avrete risolti abbastanza tornerete a casa.[/blockquote]

Un problem solving che impegna nel compito e non impedisce di accettare le criticità, le difficoltà, gli impedimenti che la realtà propone, anche se, come spesso accade nella vita e quasi mai al cinema, non ci sarà un lieto fine.

Il secondo messaggio è che attraverso la cooperazione è possibile trovare soluzioni che sembrano non esserci. La capacità di chiedere e offrire aiuto – senza la collaborazione dell’agenzia spaziale cinese l’impresa non sarebbe riuscita – può favorire la possibilità di individuare e adottare piani funzionali.

Ultima indicazione, ma non certo per importanza, è che la creatività – i calcoli esatti di Rich Purnell, matematico tanto geniale quanto originale del settore astrodinamica consentano all’equipaggio dell’Ares III di invertire la rotta di atterraggio e tornare a riprendere Mark nello spazio – è la spinta essenziale che apre prospettive diverse accrescendo la capacità di fronteggiare situazioni problematiche che apparentemente sembrerebbero irrisolvibili.

La fiaba perfetta. La lettura delle fiabe popolari e il loro uso in una visione psicoanalitica (2016) – Recensione

La fiaba perfetta di Daniela Bruno rappresenta un importante contributo alla comprensione dell’uso delle forme narrative come strumento di elaborazione di tutti gli aspetti dell’esistenza. L’autrice introduce il libro ripercorrendo le tappe che hanno consentito la nascita della fiaba e riconosce le sue radici nel pensiero magico, risorsa creativa usata dall’uomo sin dalla preistoria per spiegarsi la sua finitezza.

Dalle prime forme di aggregazione identitaria e sapienza condensate nel mito, all’attenzione per le gesta dell’uomo e per la religione nella leggenda, fino allo svelamento della funzione educativa della fiaba, la cultura popolare ha da sempre offerto validi strumenti per la transizione attraverso le epoche della vita.

Un viaggio che rivela non poche curiosità nascoste dietro quelle storie d’intrattenimento, che subiscono nel tempo l’influenza di chi le conserva e catturano l’attenzione di grandi e piccini. Nel vasto panorama storico, narrato con estrema abilità di sintesi, si passeggia nel pensiero dei suoi più celebri esponenti Perrault, I Grimm, Propp, Pitrè, Calvino, Gatto Trocchi e gli psicoanalisti Freud, Kaës, Bettelheim.

 

La lettura psicoanalitica della fiaba

Poche righe più in là si è colti da un insight che rende chiara l’esistenza universale di quel bisogno umano ineludibile di narrare e ascoltare storie e del suo perché. Non a caso la riflessione sulla lettura antropologica freudiana della società, ci avvicina a quanto di più ecologico si possa riconoscere alla fiaba, ossia una forza trainante per il superamento della coppia simbiotica madre-bambino e per la maturazione della sessualità. Come rileva l’autrice [blockquote style=”1″]le fiabe sono a favore dello sviluppo, spingono alla trasformazione, alla crescita, non accettano situazioni sclerotizzate, che difendono dalla paura del cambiamento.[/blockquote]

L’emblematico “c’era una volta” introduce la narrazione tranquillizzando chi ascolta che l’evento raccontato non fa parte del nostro tempo e allo stesso tempo suggerisce il privilegio di venirne a conoscenza. Il riferimento al contributo winnicottiano è quanto mai calzante e pone l’accento sull’ascolto, che si libera all’interno di uno spazio condiviso di una relazione e consente la distinzione tra realtà e fantasia.

Il cuore del testo si permea degli elementi cardine della fiaba, i personaggi e i suoi temi e del loro valore nella scelta della narrazione. È comprensibile dunque che essendo la fiaba nata in uno specifico contesto culturale, ne rifletta le sue immediate caratteristiche, rivelando la sua durezza o il suo romanticismo. L’occasione di incontrare il povero, che si riscatta dal suo stato d’indigenza attraverso le fatiche e il coraggio, o la matrigna, strumento per l’elaborazione della separazione non più in chiave persecutoria, ma tollerabile è celata tra le pagine della fiaba che si sceglie di leggere. Non può mancare un riferimento al cacciatore, il personaggio buono, simbolo della funzione paterna protettrice, il principe, che si avventura verso l’età adulta superando prove sconosciute e la vecchina, tra i personaggi ricorrenti in molte fiabe.

La fantasia e la magia, trovano sempre un posto privilegiato nelle fiabe e possono introdursi attraverso la strega, che ostacola la maturazione sessuale e conserva la dipendenza, oppure l’orco, l’emblema della voracità che divora gli oggetti buoni. Tuttavia, le fiabe che più di tutte sembrano catturare l’attenzione dei più piccoli sono quelle in cui il protagonista è un animale, il più celebre è indubbiamente il lupo, testimonianza della parte violenta della personalità, legata a un’oralità che richiede un soddisfacimento immediato e l’incontro con il proibito. Per gli amanti del lieto fine anche dopo la morte, un’attenzione particolare va dedicata al caso delle “quasi morti”, spesso sventurate fanciulle che in balia degli eventi cadono prede della morte, ma ritornano in vita perché salvate da un intervento eroico, una rinascita in termini di conquista della maturità.

Poiché qui si parla di sviluppo, il tema cardine, nella rassegna attenta che l’autrice ci propone è la separazione e l’incontro con l’altro riconosciuto diverso da sé. In questo stesso processo, l’incesto, non può essere trascurato, la procrastinazione del misfatto, ossia il matrimonio con il genitore del sesso opposto e la conoscenza del terzo, sono funzionali al raggiungimento della maturazione sessuale.

La narrazione si fa teatro della naturale evoluzione dell’uomo e in quanto tale appare connotata da sentimenti positivi e negativi. La gratitudine compare tra le pagine, quale sentimento indispensabile per la comprensione della propria e altrui bontà, spesso rappresentata da una figura materna che presenta aspetti buoni e cattivi, un riferimento chiaro della Bruno al contributo kleiniano. L’avidità e l’invidia al contrario invitano alla riflessione sulla dilatazione infinita di ciò che ci spetta e che affonda le sue radici nel bisogno del neonato, esclusivo e costante, del seno per sé, o a quell’istinto di distruzione di ciò che è buono.

Se come afferma l’autrice [blockquote style=”1″]le fiabe possono liberare le risorse per la mente, che accrescono lo stato di benessere[/blockquote] un occhio di riguardo va riservato a quelle in cui è al centro il tema della morte e ne sono diverse le testimonianze. Si prosegue lungo questo itinerario di sentimenti, cogliendone tra le pagine anche quelli scurrili, che in quanto tali costituiscono talvolta garanzia di attenzione per i bambini.

Ciò che non deve stupire è che questa ilarità è legata al narcisismo dei primi anni di vita e dunque all’autoerotismo e all’aggressività dell’oralità e del trattenere o del rilasciare delle feci. Anche della stupidità umana si tratta in modo divertente e rassicurante, tramite l’immagine dello sciocco che ingenuo come è tenta strade inesplorate e per questo viene premiato. La rappresentazione di ciò che va in scena, proprio come nel sogno è il prodotto di un funzionamento psichico infantile in cui il sentimento di onnipotenza gioca le sue carte rendendo tutto possibile e l’individuo invincibile.

 

La funzione della fiaba

L’ultima parte del testo sposta il focus attenzionale dalla struttura alla funzione della fiaba. Un insostituibile strumento di osservazione, che l’autrice ha ampiamente sperimentato nel corso della sua professione di psicologa, psicoterapeuta, impegnata nella formazione degli insegnanti e nella consulenza ai genitori.

Il ricorso a un “canovaccio proiettivo”, così definisce la fiaba, pronto ad accogliere impressioni e pensieri svincolati da pregiudizi, non può che svelare la sua ricchezza a chi ne sa comprendere l’utilità, purchè il buon senso e il proprio gusto personale definiscano un setting adeguato.

È probabile che nessuno abbia mai pensato ad attribuire così tante funzioni a questa forma narrativa, che se giocata in una relazione empaticamente orientata e non giudicante restituisce “digerita” una emozione impensabile, concede una prospettiva di se stessi e degli altri in cui l’ambivalenza è tollerata, in cui senso di colpa non è più prevaricante, in cui ci si apre alla collaborazione e alla condivisione. Per finire si deve riconoscere alla fiaba un fascino inesauribile e quel carattere polisemico ed inclusivo che la rendono ancora oggi uno strumento di conoscenza di sé e del mondo e che in modo suggestivo l’autrice è riuscita a comunicare.

[blockquote style=”1″]All’inizio si trattò di una citazione fatta in mezzo al baccano che lui produceva, poi la lettura di una riga, poi di un paragrafo, poi di un capitolo. Alla fine le storie non facevano più paura […] venivano cercate per creare un assetto mentale meno turbato […] più legato all’esperienza di capire e essere capito[/blockquote] (Bruno, 2016, p.113).

Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica (2016) – Recensione

La ripubblicazione italiana di questo importante studio del 1956 (dopo le traduzioni per Silva nel 1962 e per Feltrinelli nel 1982) testimonia ancora una volta l’interesse particolarmente vivo per la statura intellettuale e il pensiero di Edgar Morin, in particolare verso un approccio culturale inedito di tipo antropologico nello studio del cinema (e dei media in generale), inaugurato proprio da questo libro.

 

Il rapporto tra reale e immaginario nel cinema

La domanda iniziale dell’autore riguarda infatti la possibilità del cinema di risuscitare l’universo arcaico dei doppi e la metamorfosi tipici delle credenze arcaiche sulla sopravvivenza post mortem, già analizzate dettagliatamente nell’antropologia dell’immaginario del precedente libro del 1951, intitolato L’uomo e la morte (ripubblicato da Erickson nel 2014), a cui questo si ricollega. Il tema centrale dell’immagine cinematografica indaga contemporaneamente il rapporto tra reale e immaginario e quello tra modernità e arcaismo, che consentono a Morin di descrivere il fenomeno per cui l’illusione di realtà di cui noi abbiamo perfetta coscienza nel cinema non è mai disgiunta dal senso della realtà che ci permette di vivere direttamente delle esperienze come se fossero reali, pur avendo la consapevolezza che non lo siano.

Il focus centrale della sua analisi è la fase di passaggio dal cinematografo delle origini al cinema vero e proprio grazie alla crescente spettacolarità delle immagini proiettate sullo schermo. Il cinematografo era l’unità indifferenziata dell’irreale e del reale, mentre il cinema ne è l’unità dialettica, cioè l’unità nella distinzione che avviene nel passaggio dal fantastico alla fantasia, che non è altro che la sua progressiva razionalizzazione.

All’inizio il cinematografo Lumière suscita la curiosità degli spettatori con immagini che rispecchiano la realtà (come l’uscita degli operai dalla fabbrica o l’ingresso di un treno alla stazione) restando pur sempre immagini. Subito dopo, prendendola a prestito dalla fotografia, ma potenziandola con quelle tipologie di immagini in movimento che suscitano un particolare coinvolgimento emotivo, il cinematografo diventa cinema grazie alla fotogenia (il cui maggiore teorico è il regista e teorico dell’avanguardia francese Jean Epstein), in cui l’immagine, in quanto «presenza vissuta» e «assenza reale» recupera il tema arcaico della sopravvivenza e dell’immortalità sotto forma di doppio. Una prima definizione di fotogenia, senza alcuna pretesa di esaustività, proposta dall’autore è la seguente: [blockquote style=”1″]La fotogenia è quella qualità complessa e unica di ombra, di riflesso e di doppio che permette alle potenze affettive proprie dell’immagine mentale di fissarsi sull’immagine, frutto della riproduzione fotografica[/blockquote] (p.42).

La sopravvivenza del doppio e la morte-rinascita dell’animismo proprio della coscienza arcaica si trovano simbioticamente associate nella metamorfosi dell’universo fluido del cinema, in cui interagiscono nello stesso tempo il microcosmo umano e il macrocosmo.

 

La metamorfosi del tempo e dello spazio nel cinema

Oltre al doppio, il cinematografo delle origini riprende anche l’altro polo della magia, la metamorfosi, intesa come morte-rinascita. Entrambi, doppio e metamorfosi, rappresentano il bisogno di immortalità della mentalità arcaica e non a caso il primo ad operare la metamorfosi dal cinematografo al cinema con i suoi trucchi fantastici fu, secondo Morin, proprio George Méliés.

La prima “vera” rivoluzione tecnica fu però apportata dal montaggio, che fece acquisire dei caratteri spaziali e temporali nuovi al sistema di immagini animate che ancora nel cinematografo seguivano un tempo rigorosamente cronologico. Il tempo diventa fluido grazie alla compressione e alla dilatazione, al ralenti e all’accelerazione delle inquadrature, la cui successione discontinua ed eterogenea viene ordinata proprio in sede di montaggio.

Il tempo del cinema diventa reversibile, con il salto all’indietro dal presente al passato tramite la dissolvenza normale (che comprime il tempo) e la dissolvenza incrociata (che comprime lo spazio), il flash-back e il cut back. Insieme al tempo, abbiamo anche la metamorfosi dello spazio, con il movimento della macchina da presa mediante la panoramica e la carrellata, che consentono la metamorfosi degli oggetti. Morin, nei capitoli centrali (il terzo e il quarto) e indubbiamente più interessanti del suo lavoro, coglie perfettamente nella metamorfosi magica riesumata dal cinema la mescolanza tra il cosmomorfismo dell’uomo (il volto diventa paesaggio) e l’antropomorfismo degli oggetti (il paesaggio diventa volto).

L’antropo-cosmomorfismo emerge in particolare nel doppio processo di proiezione e di identificazione del cinema, che determina la partecipazione affettiva degli spettatori, da cui deriva “la realtà semi-immaginaria dell’uomo” (la definizione è ripresa da Gorkij). Il cinema ha messo in campo, oltre a quelle cinestesiche “normali”, anche altre tecniche per suscitare la partecipazione affettiva, come la mobilità della macchina da presa, la successione di piani, la musica, l’accelerazione e il ralenti, il primo piano, l’illuminazione e il gioco di luci e ombre, gli angoli di ripresa (inquadratura dall’alto e dal basso), la rappresentazione delle emozioni ecc. Avviene così la congiunzione tra il film e lo spettatore, tra cinestesi (movimento) e cenestesi (soggettività, affettività). I più importanti fenomeni di simbiosi prodotti dal cinema sono l’identificazione con un personaggio dello schermo (in base alle somiglianze fisiche o morali), in particolare con i personaggi privilegiati dello star system, il cui fenomeno è stato analizzato dettagliatamente nel libro successivo I divi (1957, tradotto da Garzanti nel 1977), che è il pendant di questo saggio.

 

Le proiezioni e identificazioni con i personaggi

Morin descrive anche le proiezioni-identificazioni polimorfe, che permettono di identificarsi con individui totalmente diversi da noi (e di solito odiati, disprezzati o evitati nella vita quotidiana), come neri, gangster, prostitute, assassini ecc. L’identificazione con il diverso mette in luce il nostro lato più nascosto (maledetto, dice l’autore) e i desideri più inconfessabili, ma traccia al tempo stesso una linea di separazione netta con la vita quotidiana. Oggi questa conclusione mi sembra che sia diventata piuttosto problematica, in quanto l’aumento esponenziale della fruizione di immagini porta inevitabilmente alla tendenza progressiva, seppur circoscritta, alla manifestazione di fenomeni di emulazione che ibridano l’immaginario con i modi di essere e i comportamenti della vita reale condizionandoli talvolta negativamente. Nella sua analisi sociologica Morin dimostra con esempi concreti che l’ego-involvement riguarda tutti i generi di film e la partecipazione polimorfa e affettiva non si limita soltanto ai personaggi, ma anche agli oggetti che assumono un’anima. In altri termini, la partecipazione affettiva è a suo avviso «lo stadio genetico» e «il fondamento strutturale» del cinema, come dimostrano ad esempio il close up e il primo piano del volto.

Un altro aspetto che all’autore interessa mettere in evidenza, accanto al processo soggettivo di proiezione-identificazione affettiva, è l’altrettanto rilevante processo oggettivo di costruzione della percezione, mediante l’identificazione delle forme apparenti con la forma della costanza della Gestaltheorie, che risulta chiaramente presente nella visione cinematografica. Grazie al movimento della macchina da presa, con l’utilizzo di tecniche proprie come la carrellata, le inquadrature, il primo e primissimo piano, la panoramica verticale o orizzontale, una successione di inquadrature parziali contribuisce alla costruzione della percezione globale, proprio come avviene nella percezione della realtà in cui, in base al processo della costanza degli oggetti, ricostituiamo l’intero quadro spazio-temporale. È proprio lo spettatore che dà la visione globale, l’unità della visione psicologica nonostante l’apparente passività del suo atteggiamento di fronte alle immagini. La visione psicologica è, in altri termini, la stessa sia per la visione pratica, oggettiva, razionale che per quella affettiva, soggettiva, magica.

Morin dimostra, attingendo soprattutto alla ricostruzione storico-sociale di autori classici come Georges Sadoul, Béla Balász e André Bazin (determinanti per l’intera costruzione del libro) che il cinematografo delle origini presentato all’Esposizione universale del 1900 aveva già nelle sue potenzialità tecniche il sonoro, il rilievo, il colore, lo schermo panoramico, ma queste nuove tecniche furono sfruttate soltanto con le crisi finanziarie, soprattutto la Grande Depressione del 1929-1935 e la concorrenza televisiva del 1947-1953, per rilanciare il medium cinematografico aumentando l’affluenza al botteghino degli spettatori.

 

L’intelligibilità nel cinema

Oltre all’aspetto magico, l’autore tenta di giusticare parallelamente l’emergere dell’intelligibilità nel cinema, cioè i motivi per cui il sistema narrativo del film da mera struttura magica e di fantasia, in virtù della sua costruzione interna (soggetto, sceneggiatura, intrigo) diventi nello stesso tempo un discorso logico e dimostrativo. È a suo avviso con Ejzenštejn (in film come La corazzata Pötemkin e, soprattutto, negli scritti teorici sul montaggio) che le stesse immagini che suscitano la partecipazione affettiva fanno emergere le idee, tramite il simbolo che riunisce in sé con un doppio filo il segno astratto e il sentimento.

In questo modo il linguaggio cinematografico diventa totale e polifunzionale: il sentimento è un momento della conoscenza e le immagini diventano simboli della costruzione di un’ideologia. Il cinema, pur concettualizzando, tuttavia non ha concetti propri, ma utilizza le forme proprie dell’immagine fotografica per creare un linguaggio universale. Il limite del film (oggi decisamente più ridotto anche se non sarà possibile superarlo del tutto) è che non potrà mai essere del tutto intelligibile perché è un prodotto sociale determinato dalla cultura di un determinato gruppo sociale di appartenenza, i cui codici possono essere indecifrabili per altre culture. Tuttavia riconosce che già negli anni cinquanta del secolo scorso il cinema americano è riuscito a diffondere su scala planetaria un linguaggio mimico nuovo, fatto di temi e di gesti facilmente imitabili e dunque universalizzabili. Ha creato un nuovo immaginario collettivo (the american way of life) che, a maggior ragione oggi, ha contribuito in modo determinante a omogeneizzare l’intero pianeta.

 

Conclusioni

Il cinema è psichico (secondo la formula di Epstein) in quanto comprende il reale nella percezione e secerne continuamente l’immaginario che lo nutre. In altri termini, è formato dall’immaginario che viene sviluppato dal macchinario tecnico, è un’industria che confeziona una merce che utilizza un linguaggio universale per soddisfare i bisogni psicologici delle masse con il fatturato economico del capitale. Morin elabora volutamente un’antropologia genetica e una sociologia dell’immaginario che, pur presupponendola, rinuncia all’analisi sociologica della tecnica e dell’economia dell’industria cinematografica per «reintegrare l’immaginario nella realtà dell’uomo» (p.212), ma forse è riuscito meglio nel fare il contrario, contribuendo in modo determinante a farci comprendere l’importanza del cinema nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

L’abuso infantile e la violenza domestica predispongono alla dipendenza da sostanze e alcol

Secondo un recente studio canadese, i soggetti adulti oggi dipendenti da droghe o alcol riportano spesso traumi infantili dovuti ad aver assistito ad episodi violenti in casa o ad abusi sessuali. Infatti, i risultati evidenziano come un soggetto su cinque dipendente da droghe o un soggetto su sei dipendente da alcol abbia subìto violenze sessuali nell’infanzia. Tali numeri sono sconcertanti se paragonati a quelli della popolazione generale, che invece si attestano ad un soggetto su 19.

Lo studio

Stando a quanto affermato dal principale autore di questo articolo, il professor Esme Fuller-Thomson dell’Università di Toronto, sia le forme dirette (i.e., abuso fisico e sessuale) che indirette (i.e., assistere alla violenza domestica perpetrata da genitori) di vittimizzazione dei bambini si associano all’abuso di sostanze in età adulta.

Lo studio è stato condotto su un campione di 21’544 canadesi adulti, preso dai componenti del Canadian Community Health Survey-Mental Health del 2012. Tra questi, ad un certo punto della loro vita, 628 soggetti sono divenuti dipendenti da droghe e 849 dall’alcol.

Sorprendentemente la relazione ritrovata nello studio rimaneva significativa anche quando i ricercatori controllavano l’effetto delle malattie mentali (ad es., depressione), della povertà, del sostegno sociale e dei più comuni fattori associati all’abuso di sostanze.

Quindi la probabilità di sviluppare una dipendenza dall’alcol in età adulta tra coloro che avevano assistito ad episodi di violenza domestica portati avanti dai genitori era superiore del 50% rispetto ai soggetti senza questo tipo di esperienza alle spalle; tale percentuale era simile in grandezza a quella relativa ai soggetti abusati sessualmente durante la loro infanzia.

Secondo il prof. Fuller-Thompson un ambiente domestico caratterizzato da un clima violento ed immerso cronicamente nel caos predisporrebbe il soggetto a cadere nella spirale delle droghe o dell’alcol, poichè tali sostanze verrebbero consumate come strategia di coping. E’ bene sottolineare però che occorrono ricerche più approfondite a riguardo per capire le relazioni che intercorrono tra il subìre o l’assistere ad episodi violenti in casa e l’incidenza dell’abuso di alcol e droghe.

Conclusioni

I risultati di questo recente studio sottolineano l’importanza del prevenire gli abusi dei bambini e la violenza domestica e suggeriscono come i professionisti della salute debbano continuare a fornire supporto psicologico ai sopravvissuti di tali esperienze lungo tutto il corso della loro vita.

Rispetto ai limiti della ricerca, è bene considerare che molti sono i fattori associati alle dipendenze, come il basso livello educativo del soggetto, la povertà, l’essere maschio, essere single e una storia pregressa di depressione o ansia, che in maniera complessa intervengono nella relazione indagata e che in maniera diversa la influenzano.

Prime prove di efficacia per la Terapia Metacognitiva Interpersonale

Nel Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma abbiamo mosso un primo passo verso la dimostrazione dell’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I primi passi per verificare l’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è stata sviluppata per trattare principalmente i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche che a essi si associano.

Dopo una prima formulazione (Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò & Procacci, 2007) sono stati pubblicati alcuni casi singoli selezionati a posteriori che mostravano la sua capacità di migliorare sia il disturbo di personalità che i sintomi psicologici. Rimaneva necessaria una valutazione più rigorosa dell’efficacia. A questo fine, era necessaria una manualizzazione che fornisse istruzioni dettagliate su come agire con i pazienti con disturbi di personalità seguendo un razionale rigoroso e delle procedure riproducibili.

Il manuale “Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità” è stato quindi pubblicato (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013) e tradotto in inglese (2015). Nel Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma abbiamo quindi mosso un primo passo verso la dimostrazione dell’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale.

Gli studi effettuati

Abbiamo seguito un disegno sperimentale iniziale, una serie di casi singoli. I pazienti che afferivano al centro venivano selezionati in base al soddisfare dei criteri di inclusione. Ne sono stati selezionati 3 consecutivi che rispettavano tali criteri. Sono stati ripetutamente testati nel corso di un trattamento strutturato della durata di 2 anni, con follow-up di tre mesi. Il lavoro che riassume i risultati, “Metacognitive Interpersonal Therapy for personality disorders: A case study series” (Dimaggio, Salvatore, MacBeth, Ottavi, Buonocore e Popolo) è stato appena accettato dal Journal of Contemporary Psychotherapy.

Tutti e tre i pazienti hanno completato il trattamento e hanno mostrato reliable change nel numero di criteri soddisfatti per disturbi di personalità (misurati con la SCID-II) e sulla gravità dei sintomi (misurata con il Global Severity Index della SCL-90-R). Si è evidenziato miglioramento anche nei problemi interpersonali e nella regolazione emotiva. Naturalmente la natura limitata, solo 3 casi, non permette di generalizzare sull’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale ed è solo un primo passo nella sua valutazione.

Un ulteriore passo è lo studio appena completato alla Queensland University of Technology di Brisbane. Keely Gordon-King e Robert Schweitzer hanno coordinato un team formato in Terapia Metacognitiva Interpersonale e supervisionato da Giancarlo Dimaggio a seguire le procedure del manuale più recente. Si trattava di un multiple-baseline case series, 7 pazienti con disturbi di personalità seguiti per 1 anno. I risultati saranno presto sottoposti per la pubblicazione.

L’intelligenza artificiale può aiutare nella diagnosi di Alzheimer

Un team di ricercatori dell’Università di Amsterdam ha elaborato un metodo informatico di apprendimento artificiale automatico, unito con una speciale tecnica di risonanza magnetica, che misura il tasso di assorbimento ematico dei tessuti in tutto il cervello per rilevare le forme di demenza nei primissimi stadi e anticiparne l’evoluzione.

 

L’apprendimento automatico è un tipo d intelligenza artificiale che permette a degli strumenti informatici di imparare autonomamente quando esposti a nuovi dati senza essere nuovamente programmati. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Radiology.

La Risonanza Magnetica può aiutare nella diagnosi di malattia di Alzheimer. Tuttavia, la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer è problematica – ha detto Alle Meije Wink, autore principale della ricerca – E’ risaputo da tempo che la malattia di Alzheimer è caratterizzata da un processo di degenerazione graduale e che il cervello subisce alterazioni funzionali prima che i cambiamenti strutturali associati alla malattia siano visibili nei risultati di neuroimaging. I medici, allo stato attuale, non hanno un modo affidabile per determinare se, casi di demenza precoce o di deterioramento cognitivo lieve, progrediranno nella malattia di Alzheimer. La diagnosi con la Risonanza Magnetica standard, permette di vedere la malattia negli stadi più avanzati, come ad esempio l’atrofia dell’ippocampo. Solo che a quel punto il tessuto cerebrale risulta già compromesso e non c’è modo di recuperarlo. Sarebbe utile poter rilevare e diagnosticare la malattia prima di giungere a questo stadio.

Per il nuovo studio, i ricercatori hanno unito un modello di apprendimento informatico automatico, ad un particolare tipo di risonanza magnetica chiamata ASL (Arterial Spin Labeling).

L’ ASL RM è utilizzata per creare immagini chiamate mappe di perfusione, che mostrano quanto sangue viene assorbito nelle diverse regioni del cervello. Il programma automatico di apprendimento viene istruito per riconoscere i modelli di queste mappe e distinguere tra i pazienti con diversi livelli di deterioramento cognitivo e prevedere lo stadio della malattia di Alzheimer nei nuovi casi non ancora visibili.

Lo studio ha incluso 260 di 311 partecipanti provenienti dal’ Alzheimer Center of the VU University Medical Center, che avevano subito l’ASL RM tra Ottobre 2010 e Novembre 2012. Cento di questi pazienti con diagnosi di probabile malattia di Alzheimer, 60 pazienti con compromissione cognitiva lieve (MCI) e 100 pazienti con declino cognitivo soggettivo (SCD) e 26 soggetti d controllo sani.

Il sistema automatizzato è stato in grado di distinguere in modo efficace tra i soggetti con differente diagnosi. Inoltre i ricercatori sono stati in grado di prevedere la diagnosi o la progressione della malattia nei singoli pazienti con un grado di precisione che va dall’ 82 al 90 per cento.

ASL RM è un biomarcatore funzionale promettente per la diagnosi precoce della malattia di Alzheimer. L’applicazione dell’intelligenza artificiale sarebbe uno strumento molto utile per potenziare lo screening. Può permetterci di identificare cambiamenti nel cervello che appaiono all’inizio della malattia, quando ci sono ancora opportunità di intervento – ha detto il Dr. Meije Wink.

 

 

Relazione madre-figlio: l’interdipendenza nel legame d’attaccamento

Ricerche hanno dimostrato che i più piccoli hanno un ruolo attivo nella relazione madre-figlio grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’ attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino.

Sara Bocazza – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Bolzano

 

Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante, in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e la personalità adulta dell’infante.

Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro, ed è quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa. Contrariamente a quanto si potrebbe comunemente pensare, anche il neonato fin dalla nascita non dipende completamente dalla madre, ma ha un ruolo attivo nell’intraprendere e mantenere la relazione madre-figlio.

Vedremo in questo articolo come recenti studi abbiano dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati e reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza.

In particolare, dopo una breve introduzione sul tema dell’attaccamento madre-bambino e le relative teorie si parlerà di allattamento, Transport Response e del pianto, in quanto essi mettono in evidenza il ruolo attivo di entrambe le parti della diade.

 

 

Introduzione: l’ attaccamento e le teorie dell’ attaccamento

Uno dei principali oggetti di studio della psicologia dello sviluppo è la capacità di creare relazioni e, il focus principale riguarda il primo legame affettivo del bambino ossia quello con la propria madre.

La relazione madre-figlio è essenziale dal punto di vista evolutivo in quanto salvaguarda la sopravvivenza del cucciolo e la conservazione della specie in generale per tutta la categoria dei mammiferi, ed è inoltre necessaria all’individuo umano, in quanto struttura un pattern di relazione sociale che potrà essere adattato nelle fasi successive dello sviluppo all’interazione con gli altri membri della stessa specie.

L’autore che maggiormente si è occupato della relazione madre-figlio è stato J. Bowlby (1969,1973,1980) nonché il padre fondatore della teoria dell’attaccamento, il quale definì scientificamente con il termine di attaccamento il legame, emotivamente significativo per entrambe le parti della diade e di lunga durata, che si instaura tra un bambino e la propria madre sulla base di scambi interattivi reciproci, costituito da un insieme di comportamenti mirati a mantenere la prossimità verso una persona specifica che viene riconosciuta in grado di gestire adeguatamente la situazione in atto.

L’attaccamento possiede la caratteristica di essere selettivo, implica la ricerca di vicinanza con l’oggetto di attaccamento, fornisce benessere e sicurezza come risultato della vicinanza con l’oggetto di attaccamento e quando il legame viene interrotto e la prossimità non può essere raggiunta, si produce uno stato di angoscia da separazione. Inoltre, fornisce una base sicura dalla quale il bambino può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno.

Il termine attaccamento viene distinto da Bowlby (1988) da quello di comportamento di attaccamento: l’autore sosteneva che, l’avere un attaccamento significa essere fortemente portati a ricercare la vicinanza con qualcuno, soprattutto in situazioni specifiche e che tale disposizione è un attributo della persona, che cambia solo lentamente nel tempo e non è influenzato dalla situazione momentanea, mentre, con comportamento di attaccamento, si intendono tutte quelle forme di comportamento che una persona mette in atto per ottenere la prossimità che desidera.

Il comportamento di attaccamento è mediato, in base all’età, da diversi apparati: percettivo (orientamento visivo), efferente e di segnalazione (ad esempio il pianto).

Malgrado la formazione psicoanalitica di Bowlby, la sua teoria si discosta dalla psicoanalisi, la quale offriva due diverse descrizioni della relazione madre-figlio, ovvero il modello pulsionale di Freud e la teoria di M. Klein. Brevemente, secondo la teoria di Freud chiamata teoria dell’amore interessato, di tipo pulsionale, la relazione madre-figlio è vista come libido o energia fisica: il bambino si “attacca” alla madre in quanto essa, avendo la funzione di nutrice, gratifica i suoi bisogni orali. Se essa è assente, la tensione del bambino incrementa in quanto la libido non viene scaricata e il bambino la percepisce come angoscia (Freud, 1938).

Nella teoria Kleiniana, le pulsioni di cui Freud parlava, appaiono legate indissolubilmente a un oggetto: secondo l’autrice il primo oggetto con cui il bambino instaura una relazione è il seno materno, che il bambino può idealizzare attribuendo allo stesso piacere e amore (seno buono) oppure trasformarlo in un oggetto che porta dolore o angoscia (seno cattivo) in funzione del comportamento dell’oggetto verso il bambino.

In base a quanto vengono soddisfatti i suoi bisogni, il bambino potrà stabilire buoni rapporti con la madre mentre, la presenza di frustrazioni orali farà percepire il rapporto come negativo (M. Klein, 1932).

Ricerche successive hanno però dimostrato che il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999).

L’importanza di altre variabili quali la vicinanza e il contatto fisico con la madre, a scapito della soddisfazione dei bisogni primari come ad esempio la fame è stata proposta da Bowlby grazie agli studi di altri due importanti studiosi: l’etologo Konrad Lorenz e lo psicologo Harry Harlow. Lorenz (1935), con la scoperta del fenomeno dell’imprinting nei pulcini, ha dimostrato come i piccoli tendono a mantenere un contatto visivo e uditivo con il primo oggetto cospicuo con cui fanno esperienza subito dopo la schiusa dalle uova (solitamente la madre) a prescindere dal bisogno di nutrizione: ciò è dimostrato sia dal fatto che queste specie di animali sono in grado di cibarsi autonomamente sin dalla nascita sia perché il comportamento si manifesta indipendentemente anche da qualunque altro tipo di ricompensa convenzionale (Bowlby, 1989). Harlow (1958), grazie agli studi sulle scimmie Rhesus, ha dimostrato come i piccoli passassero più tempo in corrispondenza di una madre calda e morbida ma che non fornisce cibo, rispetto a una madre fredda e metallica che invece lo fornisce.

Sia dagli esperimenti di Lorenz che da quelli di Harlow, emerge quindi che, altre due necessità, anch’esse geneticamente programmate così come lo è il bisogno di nutrimento, spingono il cucciolo a ricercare ininterrottamente la vicinanza e il contatto fisico con la figura di attaccamento primario: il bisogno di protezione dai predatori e dai pericoli esterni con lo scopo di garantire il benessere e la sopravvivenza della specie e la sicurezza, rispettivamente funzione biologica e psicologica dell’attaccamento.

 

 

La relazione madre-figlio negli esseri umani

Nella specie umana, i bambini nascono in uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto ad altri animali, pertanto nei primissimi mesi, sono le madri a contribuire notevolmente a far sì che i piccoli rimangano vicini: siccome appunto il piccolo non è in grado di aggrapparsi, esse lo sorreggono offrendo in questo modo un contatto fisico, che fornisce a sua volta calore e affetto. Numerosi studi hanno evidenziato che questo contatto fisico (carezze, abbracci ect.) contribuisce, sin dalla nascita, allo sviluppo di attività come la respirazione, la vigilanza, le difese immunitarie, la socievolezza e il senso di sicurezza essenziali per un regolare sviluppo sessuale oltre che per la salute mentale del piccolo (Anzieu, 1985). Altro effetto sul funzionamento corporeo della relazione madre-figlio, dovuto al contatto fisico, è l’aspetto di termoregolazione: una madre riesce a mantenere la temperatura corporea del suo piccolo al pari di apparecchi da riscaldamento altamente tecnologici, nel momento in cui il figlio nudo ed asciutto viene posizionato pelle a pelle sul suo petto (Christensson, 1992).

Per quanto riguarda il bambino, seppur non abbia la capacità motoria di avvicinarsi alla madre o mantenersi presso di essa, viene al mondo dotato di numerosi strumenti che, fin dalla nascita, hanno la funzione di mostrare certi segnali differenziati che inducono in modo peculiare particolari tipi di risposta da parte di chi li cura: i più evidenti sono il pianto e il sorriso (Schaffer, 1998). Queste due forme di comportamento, che hanno l’effetto di far avvicinare la madre al bambino, vengono raggruppate da Bowlby, nella classe dei “comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e tutti i gesti classificabili come segnali sociali.

Tutti questi comportamenti vengono emessi dal bambino in circostanze diverse: il pianto può essere suscitato da svariate condizioni, quali ad esempio la fame, il dolore e la separazione dalla madre. Il sorriso, come anche la lallazione, si manifesta invece in situazioni diverse, ossia quando il bambino è contento, non ha fame né prova dolore. Nonostante il sorriso non susciti nella madre l’azione del proteggere, nutrire o confortare, esso fa comunque sì che ella risponda, parlando al bambino accarezzandolo o prendendolo in braccio, garantendo dunque stabilità alla relazione madre-figlio. Il sorriso funge anche da rinforzo per la madre in quanto tende a far aumentare la probabilità che in futuro ella risponda ai segnali del proprio bambino in modo pronto e tale da favorire la sua sopravvivenza. L’altra classe di comportamenti individuata da Bowlby è quella dei ‘comportamenti di accostamento’, in cui rientrano l’aggrapparsi, il seguire e il raggiungere il genitore che hanno la funzione di avvicinare il bambino alla madre. Tali comportamenti tuttavia possono essere effettuati dal bambino solamente una volta che egli ha raggiunto un certo livello di sviluppo motorio.

Come abbiamo appena potuto notare quindi, entrambe le parti della diade nella relazione madre-figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica, l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici per cui, sempre automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino.

È molto interessante notare, che oltre a basarsi su meccanismi fisiologici attivi sia nella madre che nel bambino l’evoluzione ci ha modellato in maniera che tali meccanismi si reciprochino a vicenda e, esempi di ciò sono: l’allattamento, il Transport Response e il pianto.

 

Relazione madre-figlio nell’allattamento

Il bisogno di nutrizione è un bisogno primario per tutti gli esseri viventi. L’evoluzione dei mammiferi ha dotato le madri, e solo queste, del meccanismo fisiologico che permette loro di produrre il latte (il quale si adatta perfettamente alle esigenze nutritive del piccolo) e fornire le risorse necessarie al proprio bambino (Mogi, 2010).

Anche il bambino però viene al mondo dotato del meccanismo reciproco che gli consente di nutrirsi del latte materno, alimento specie-specifico (American Academy of Pediatrics, 2005) che soddisfa completamente i suoi bisogni nutrizionali nei primi sei mesi di vita, favorisce un corretto sviluppo delle strutture facciali e dei denti (Devis et al., 1991), lo protegge da infezioni e allergie (Garofalo, 1999) nutrendo, oltre al corpo, anche la psiche, facendo così nascere il bisogno di relazionarsi con la madre (Buchal, 2011) e permettendo l’instaurarsi di una profonda regolazione emotiva di soddisfazione tra madre e bambino (Casacchia, 2012).

L’allattamento si basa principalmente su due riflessi: uno del bambino, la suzione, e uno della madre, quello di produrre il latte; questi due riflessi, apparentemente semplici, messi assieme fanno un comportamento altamente specifico, altamente complesso ma soprattutto altamente funzionale al bisogno del bambino e alla relazione madre-figlio. Il seno della madre si modella già a partire dalla gravidanza e la produzione di latte comincia a partire dal parto.

Questo processo è regolato anche a livello ormonale: dopo il parto, c’è un’impennata dei livelli di prolattina (l’ormone che regola la produzione di latte), il cui rilascio, dalla parte anteriore dell’ipofisi è causato dalla suzione del bambino. L’emissione di latte è invece dovuta a un altro ormone, l’ossitocina, il cui rilascio, dalla parte posteriore dell’ipofisi (Mogi, 2011) può essere provocato sia dalla suzione del bambino che dalla semplice vista o pensiero del piccolo da parte della madre (Jerris, 1993). L’allattamento, offre molti vantaggi a entrambe le parti coinvolte: considerando solo quelli psicologici, possiamo notare che: riguardo al bambino, è stato dimostrato da studi recenti che esiste una correlazione positiva tra le variabili allattamento al seno e quoziente intellettivo (QI) del bambino mentre altri studi di tipo osservazionale, confermando tali risultati, mostrano come bambini allattati al seno rispetto bambini allattati artificialmente abbiano un miglior sviluppo neurocognitivo; riguardo alla madre il vantaggio è quello per cui l’allattamento le permette di aumentare l’ empowerment  e la fiducia in sé stesse oltre ad essere l’antagonista della depressione port-partum (Bisceglia et al., 2010); vantaggio per entrambi è il rinforzarsi del loro legame e lo stabilire un vincolo affettivo importante per tutta la vita.

 

 

Il Transport Response

Il Transport Response (TR), studiato attraverso tecniche comparative tra specie diverse, riguarda la capacità del bambino (o cucciolo animale) di adattarsi al trasporto materno. Questo fenomeno è stato osservato inizialmente da Eibl-Eibesfeldt nel 1951, quando notò che prendendo un topino con un dito nella parte dorso-laterale del corpo esso assumeva una specifica postura, caratterizzata da estensione e adduzione di entrambe le zampe anteriori verso il corpo e una flessione delle zampe posteriori e della coda verso il corpo. Il topo, durante la presa, rimaneva inoltre fermo e passivo. Questa regolazione posturale venne studiata sperimentalmente in laboratorio con il nome di Transport Response da Brewster e Leon (1980).

Questi autori confermarono che il topo assumeva la specifica posizione compatta sopra descritta e ne studiarono il valore ecologico. Il Transport Response si verifica in una precisa finestra temporale: finché il topino è piccolo, la madre lo può afferrare ovunque per spostarsi da un posto all’altro ed egli può permettersi di muoversi anche durante il trasporto. Tuttavia, dall’ottavo/nono giorno, il cucciolo inizia a divenire pesante e siccome ancora cieco, deve affidarsi completamente alla madre e facilitarla nel trasporto restando fermo. La sua risposta, automatica, è elicitata dalla madre, la quale lo afferra con i denti proprio nella zona dorso-laterale. Gli autori notarono infatti che, il gruppo di topini a cui era stata anestetizzata questa parte non erano in grado di esibire il Transport Response e ciò si rivelava pericoloso, in quanto se il cucciolo era abbastanza grande e pesante la madre si trovava in difficoltà, rallentando, inciampando spesso nel piccolo e rischiando di cadervici sopra o ferirlo.

Il Transport Response, diminuisce gradualmente per estinguersi poi del tutto al diciottesimo giorno, quando il cucciolo è indipendente. Tale risposta è quindi messa in atto dal cucciolo nel periodo in cui è abbastanza pesante ma non ha la motricità sufficiente per muoversi autonomamente. Il significato funzionale di questo comportamento è quello di facilitare la madre nel trasporto e garantirsi una maggior probabilità di sopravvivenza.

Anche nell’uomo è possibile trovare il Transport Response: allo stesso modo in cui il riflesso di suzione reciproca il riflesso della madre di produzione del latte nel corso dell’allattamento, nel Transport Response, il trasporto della madre (che può avvenire per esempio quando il bambino piange e la madre automaticamente lo prende in braccio e cammina), è reciprocato dalla risposta del bambino. Già a partire dalla presa in braccio, sia la madre che il bambino mettono appunto automaticamente una serie di aggiustamenti posturali che gli permettono maggiore confort: la madre solitamente poggia il bambino sull’anca, così che il peso di quest’ultimo viene distribuito su avambraccio e anca; il bambino a sua volta, quando viene sollevato flette e divarica le gambe (Kirkilionis,1992;1997). Tale posizione del piccolo sul fianco della madre è anche benefica per lo sviluppo dell’anca (Kirkilionis, 2001).

Altra risposta del bambino, che si verifica una volta che egli si trova in braccio alla madre che cammina, è quella di smettere di piangere, almeno nella maggior parte dei casi, riuscendo addirittura ad addormentarsi. Gli effetti calmanti sul bambino dovuti all’essere preso in braccio sono una questione nota agli adulti di tutte le culture, ma attualmente ne sono stati studiati anche i meccanismi fisiologici e neuronali che stanno alla base del fenomeno: nell’esperimento di Esposito et al. (2013) è stato dimostrato come il battito cardiaco del bambino che piangeva diminuiva improvvisamente nel momento in cui la madre si alzava tenendolo in braccio per cominciare a camminare. Quando la madre tornava a sedersi, il battito cardiaco tornava a crescere nuovamente e ricomparivano inoltre i movimenti volontari e il pianto. Questo pattern di comportamento è visibile fino ai sei/sette mesi, in quanto dopo tale periodo il bambino non ha più bisogno di una stimolazione motoria e vestibolare per calmarsi bensì di una stimolazione sociale.

Gli autori notarono inoltre che, nel caso il bambino in braccio durante il trasporto continuasse a piangere, il battito cardiaco diminuiva. Inoltre, analizzando le componenti acustiche del loro pianto si scoprì anche che la frequenza fondamentale del pianto diminuiva. La frequenza fondamentale è un indicatore che più è alto, più acuto e disagevole risulta essere il pianto. Questo studio è riuscito così a dimostrare, per la prima volta, che il tranquillizzarsi del bambino in risposta al trasporto materno è un set coordinato di regolazioni di tipo centrale, motorio e cardiaco ed è una componente che si è conservata nella relazione madre-figlio di tutti i mammiferi. Il significato funzionale di questa risposta cooperativa del piccolo umano (e non) è sempre quello di garantirsi maggior sopravvivenza.

Altro comportamento, che si reciproca nella relazione madre-figlio, anch’esso importante evolutivamente parlando, come lo sono gli altri due di cui abbiamo discusso sopra, necessario, a garantire protezione e benessere al bambino, è il pianto.

 

Relazione madre-figlio: il ruolo del pianto

Il pianto del bambino è il primo canale comunicativo che il bambino ha a disposizione alla nascita, per segnalare i propri bisogni e comunicare con l’ambiente esterno (Esposito e Venuti, 2009). Esso è un comportamento sociale con un importante ruolo nello sviluppo del bambino, guidato da fattori geneticamente predeterminati in grado di elicitare reazioni fisiologiche negli adulti quali ad esempio un incremento del battito cardiaco (Huffman et al., 1998) e risposte endocrine (Fleming et. al., 2005).

Un episodio di pianto è uno stimolo in grado di attivare il Sistema Nervoso Centrale sia del bambino che lo produce, sia dell’ascoltatore, creando uno stato di attenzione reciproca (Esposito e Venuti, 2009). Inoltre, rappresenta una ‘sirena biologica’ che, operando in larga misura come un rinforzo negativo (Barr et al.,2006; Soltis, 2004), riesce a modificare e attivare lo stato funzionale dei genitori, promuovendo prossimità e contatto con essi e in particolar modo con la madre, attivando il suo comportamento (Bell and Ainsworth, 1972) e motivandola a rispondere prontamente e in maniera adeguata nutrendo il piccolo, proteggendolo o confortandolo (Venuti e Esposito, 2007).

Il pianto si è evoluto per comunicare ai genitori un bisogno imminente e, per garantire che sia esattamente quel bisogno ad essere soddisfatto, a seconda della causa il bambino modula, in maniera istintiva, l’emissione di differenti tipologie di pianto. Ciò che cambia tra un tipo di pianto e l’altro è la frequenza fondamentale (vibrazione percepita come picco del pianto), il ritmo e la sua evoluzione temporale all’interno dello stesso episodio di pianto.

Alcuni esempi dei diversi tipi di pianto che sono stati individuati sono:

  • Il pianto di fame, caratterizzato da una frequenza fondamentale non molto alta, inizio lento e tono sommesso e aritmico ma che col passare del tempo diviene più intenso e ritmato;
  • Il pianto di dolore: caratterizzato da un andamento aritmico e da una forte intensità sin da subito; il bambino emette un vero e proprio grido iniziale improvviso, intenso e prolungato, che viene seguito da un periodo di silenzio dovuto all’apnea; successivamente a questa, brevi inspirazioni affannose, si alternano ad acuti singhiozzi espiratori;
  • Il pianto di sonno: caratterizzato da un iniziale piagnucolio lamentoso, piuttosto che un vero e proprio pianto, che si protrae, sempre più insistentemente, intensificando il timbro;
  • Il pianto di noia: caratterizzato da un piagnucolio iniziale intermittente che sembra non cessare.

Appena nato, tuttavia, un bambino non ha la consapevolezza che quando piange la madre accorre a lui ma col passare del tempo egli apprende questa causa-effetto e, in particolar modo tra gli otto e dodici mesi, diverrà abile e scoprirà quali sono le condizioni che pongono fine ai suoi disagi e che lo fanno sentire sicuro: egli inizierà quindi ad apprezzare il valore comunicativo del pianto e a utilizzarlo intenzionalmente, facendolo quindi diventare un pianto consapevole. Si verrà quindi ad aggiungere, con l’età, un’altra causa oltre a quelle sopra citate, in grado di scatenare il pianto: l’allontanamento o la separazione dalla madre. In questo contesto l’intensità del pianto, o meglio della protesta, può essere influenzata da come la madre si muove: se in modo lento e tranquillo sarà più lieve rispetto a quando si allontana improvvisamente e/o rumorosamente. Importante, inoltre, il grado di familiarità dell’ambiente in cui il bambino viene lasciato: se l’ambiente non è famigliare il bambino molto più probabilmente piangerà e se ne è in grado cercherà di seguire la madre.

Il pianto di un bambino è uno stimolo che solitamente non viene ben accolto dalle persone che lo odono; per tale ragione esse tendono a fare del loro meglio non solo per porvi fine, ma anche per diminuire la probabilità del suo manifestarsi.

La presa in braccio, che è la risposta iniziale più frequente al pianto, indipendentemente dalla cultura e anche dallo stato parentale, offre oltre alla stimolazione vestibolare, anche contatto fisico e calore ed è la più efficace per porre termine al pianto. Uno studio longitudinale di Bell e Ainsworth (1972) ha dimostrato che la prontezza di risposta del caregiver promuovono un comportamento desiderabile nel bambino alla fine del primo anno, dove frequenza e durata del pianto saranno inferiori. Una madre sensibile sarebbe in grado di ridurre temporaneamente il pianto in termini di durata fornendo anche le condizioni che tendono a prevenire l’attivazione o riattivazione del pianto, non solo nei primi mesi ma anche successivamente.

Le autrici affermano inoltre che la responsività materna promuove lo sviluppo della comunicazione: i bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, avevano maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali, gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangevano di più. Anche altri autori, concordano con questo e aggiungono che la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009).

E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è inoltre possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto.

Studi recenti che utilizzano diverse tecniche di neuroimmagine quali MRI e fMRI, hanno infatti riscontrato cambiamenti neurobiologici dovuti allo stato parentale quali ad esempio un ingrossamento del volume della materia grigia regionale (Kim et al., 2011) e incrementi in altre regioni implicate nel comportamento parentale materno (es. corteccia cingolata anteriore, insula anteriore, corteccia frontale inferiore e parietale, implicate nell’empatia; ipotalamo e sostanza nigra, implicati nella motivazione e soddisfazione materna; amigdala, importante per la rilevazione degli elementi salienti e corteccia prefrontale, implicata nella regolazione delle emozioni e nella pianificazione).

Oltre a questi cambiamenti, vari studi hanno confermato la presenza di specifiche attivazioni cerebrali durante gli episodi di pianto: Seifritz et al.(2003) per esempio, confrontando la riposta di genitori e non al pianto e alla risata di un bambino, ha mostrato come le donne, a differenza degli uomini mostrino una maggiore deattivazione della corteccia cingolata anteriore durante l’ascolto di episodi di pianto e di riso. Sono state trovate inoltre differenze significative dovute allo stato parentale per le due diverse situazioni: sebbene le aree che si attivavano, ossia amigdala e regioni limbiche adiacenti ad essa, erano le stesse, i genitori mostravano maggiori attivazioni nella situazione di pianto, mentre i non genitori mostravano maggiori attivazioni nella situazione di riso. I genitori sono quindi più attenti agli stimoli, quali il pianto, che richiedono una risposta immediata. Questo risultato è spiegabile dal punto di vista evolutivo: essi devono essere pronti a intervenire nelle situazioni di allarme e disagio del proprio bambino, al fine di garantire protezione della prole e a sua volta la sopravvivenza della specie.

Guardando gli studi nell’insieme, sembra che il pianto attivi aree associate con la cura parentale, l’elaborazione di stimolazioni avversive e allarmanti e con l’empatia. Riguardo in particolare all’empatia materna, fondamentale per la cura parentale (Bowlby, 1969) e per la relazione madre-figlio, è stato suggerito che possa dipendere principalmente da quattro sistemi neurali differenti che vengono appunto tutti stimolati dall’ascolto del pianto o anche dalla visione di immagini del proprio figlio (Rilling, 2013). Tali sistemi sono:

  1. Il circuito cingolato del talamo, che può fungere da sistema neurale di allarme in risposta a una condizione di pericolo del bambino;
  2. L’ insula anteriore, che potrebbe aiutare la madre a simulare e capire gli stati interni del bambino;
  3. Il sistema dei neuroni specchio (composto da solco temporale superiore e corteccia parietale inferiore e frontale inferiore) che potrebbe aiutare la madre a interpretare e simulare le espressioni facciali del bambino e
  4. La corteccia prefrontale dorso mediale (DMPFC) e la giunzione temporo-parietale che permetterebbero alla madre di inferire ciò che il bambino conosce e crede.

Anche le neuroimmagini supportano quindi l’idea che il pianto sia una componete chiave del primo legame genitore-figlio e un segnale comunicativo essenziale del bambino in grado di attivare una varietà di risposte di cura negli adulti (Sroufe, 2000; Trevarthen, 2003; Tronick, 2005).

Oltre alle attivazioni cerebrali, il pianto risulta in grado di modificare il battito cardiaco come conferma ad esempio lo studio di Weisenfeld et al. (1981): l’ascolto del pianto del proprio bambino, registrato su un nastro, causa nelle madri una decelerazione cardiaca seguita da una rapida accelerazione: tale risposta è associata alla preparazione all’azione o ad intervenire.

Infine, il pianto è in grado di elicitare anche risposte endocrine: uno studio di Fleming et al.(2005), ad esempio, condotto su persone di sesso maschile ha mostrato che padri, che ascoltavano gli stimoli di pianto, mostravano un incremento percentuale maggiore nel testosterone rispetto ai padri che non ascoltavano tali stimoli. Inoltre, i padri con esperienza, ascoltando i pianti, mostravano un incremento percentuale maggiore nei livelli di prolattina rispetto ai neo-padri o a qualsiasi gruppo di padri che ascoltavano stimoli di controllo.

 

 

Conclusioni

Osservando fenomeni quali l’ allattamento, il Transport Response e il pianto, abbiamo notato come la relazione madre-figlio è interdipendente e biologicamente basata: la madre possiede meccanismi fisiologici che vengono attivati solo con il contributo del suo piccolo che, grazie ai propri meccanismi fisiologici innati agisce in maniera tale da richiamare la sua attenzione, assicurarsene la vicinanza, nonché far in modo che gli venga data una risposta pronta e adeguata alle sue esigenze garantendogli la sopravvivenza e il benessere fisico e psicologico.

Un ponte di carbonio fra tessuti nervosi – Una spugna hightech connette i neuroni in vitro (ed è biocompatibile in vivo)

Uno studio complesso, durato diversi anni e che ha visto collaborare gruppi con expertise diverse provenienti anche da campi molto lontani, ha dimostrato che un nuovo materiale (una spugna tridimensionale fatta di nanotubi di carbonio) riesce a fare da sostegno alla crescita di fibre nervose, collegando porzioni staccate di tessuto. La connessione osservata non è soltanto fisica ma anche funzionale.

 

La ricerca, coordinata dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste con la collaborazione dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Università di Trieste, ha inoltre verificato la biocompatibilità del materiale in vivo dimostrando che il suo impianto nel tessuto nervoso di roditori non provoca la formazione di cicatrici evidenti o l’emergere di una risposta immunitaria marcata. Lo studio pubblicato su Science Advances (una costola della prestigiosa rivista Science) dimostra che questo materiale è molto promettente nelle applicazioni biomediche e potrebbe essere valutato il suo utilizzo negli impianti nervosi permanenti.

Al microscopio ha l’aspetto di un groviglio di tubi. Pensate che inizialmente era stato studiato, dal gruppo di Maurizio De Crescenzi all’Università di Roma Tor Vergata, per ripulire il mare dagli idrocarburi sversati – spiega Laura Ballerini, professoressa della SISSA e coordinatrice dello studio appena pubblicato.

È stata l’intuizione di Maurizio Prato, spiega ancora Ballerini, a spingerli a indagare la possibilità di utilizzare questo materiale nei tessuti nervosi.

L’idea di sviluppare degli ibridi tra neuroni e nano-materiali nasce da un progetto di lunga data e dalla collaborazione tra i gruppi di Prato (Università di Trieste) e Ballerini alla SISSA.

Nella ricerca attuale Ballerini e il suo team, come prima cosa, hanno indagato la reazione del materiale con i tessuti nervosi in vitro.

 

Abbiamo usato due fettine di midollo spinale in coltura, separate da 300 micron di distanza – spiega Sadaf Usmani, studentessa di PhD della SISSA e prima autrice della ricerca – In queste condizioni, senza nulla che si frapponga fra i due campioni oltre alla soluzione di coltura, si osserva una crescita di fibre nervose che si estendono in linea retta in ogni direzione, non necessariamente verso l’altro tessuto. Se nello spazio fra i due inseriamo un pezzetto di questa spugna al carbonio invece vediamo una fittissima crescita di fibre nervose che vanno a riempire il supporto e si incontrano e intrecciano con quelle dell’altro campione.

Non basta però che ci sia un incontro fisico fra le fibre, puntualizza Denis Scaini, ricercatore dell’Università di Trieste, e fra gli autori della ricerca:

Bisogna dimostrare che esiste anche una connessione funzionale fra le due popolazioni di neuroni

In questa parte del lavoro è stato fondamentale l’apporto di Davide Zoccolan, professore della SISSA, e del suo gruppo:

Con tecniche di analisi del segnale da loro già sviluppate siamo riusciti a dimostrare due cose: che l’attività nervosa spontanea nei due campioni connessi era realmente correlata (mentre non lo era quando la spugna era assente), e che applicando un segnale elettrico a uno dei due campioni, solo quando erano presenti i nanotubi il segnale veniva registrato anche nell’altro campione.

 

 

Prove di biocompatibilità

Il risultato in vitro dunque è stato estremamente positivo. Ma a Ballerini e colleghi questo non bastava:

Per poter investire ulteriori energie e risorse su queste ricerche e le possibili applicazioni sull’essere umano è necessario testare se questo materiale viene accettato da un organismo vivente senza conseguenza negative – spiega Ballerini.

Per eseguire queste prove, il team di Ballerini ha lavorato in stretto contatto con Federica Rosselli, ricercatrice postdoc della SISSA nel gruppo di Zoccolan.

Abbiamo impiantato piccole porzioni del materiale nel tessuto nervoso di roditori sani. A distanza di 4 settimane le osservazioni mostravano che il materiale era ben tollerato, non si sono formate cicatrici evidenti, la risposta immunitaria è stata contenuta (e alcuni indicatori biologici mostrano che potrebbe avere risvolti di tipo positivo). C’è stata inoltre una progressiva invasione di neuroni all’interno della spugna e i ratti durante tutte le 4 settimane di test sono rimasti vitali e sani – racconta Usmani.

In conclusione – commenta Ballerini – gli ottimi risultati a livello strutturale e funzionale in vitro e le evidenti prove di biocompatibilità in vivo ci spingono a continuare su questa linea di ricerca. Questi materiali potrebbero essere molto utili per esempio per rivestire gli elettrodi che si usano nel trattamento di disordini motori, come tremore essenziale o Parkinson, perché ben accettati dai tessuti – gli impianti di oggi mostrano infatti un decadimento nella loro efficacia nel tempo per via della cicatrice che si forma. Speriamo inoltre di stimolare altri gruppi di ricerca, con competenze multidisciplinari, ad ampliare questo tipo di studi.

La stimolazione cerebrale: un possibile trattamento per l’anoressia

Questo studio ha l’obiettivo di determinare se la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva potrebbe essere una terapia utile per l’anoressia. Studi preliminari hanno dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva ha ridotto i sintomi di anoressia, sia dopo una singola sessione che dopo il trattamento ripetuto, in particolare riducendo ansia, senso di sazietà e la percezione corporea di sentirsi grassi.

L’anoressia nervosa

L’anoressia nervosa colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Ha un alto tasso di mortalità e solo il 10-30% degli adulti con anoressia ne esce con la psicoterapia, inoltre i trattamenti farmacologici hanno una bassa efficacia. Da qui nasce l’urgenza di trattamenti più funzionali.

La ricerca ha dimostrato una serie di cambiamenti che si verificano nel cervello di pazienti con anoressia. Questi includono sia deficit strutturali che funzionali, come la perdita di materia grigia in aree che giocano un ruolo importante nella regolazione del comportamento alimentare, delle emozioni e della motivazione. Si ritiene che l’anoressia possa essere associata ad una disregolazione dei sistemi inibitori e di ricompensa che spiegherebbero i comportamenti compulsivi e ossessivi.

Una ridotta attività nella corteccia prefrontale è stata trovata in pazienti con anoressia nervosa. Questa riduzione si manifesta con scarso controllo inibitorio e spiega alcuni dei sintomi dell’anoressia, come il binge eating disorder.

La stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) è una tecnica di stimolazione cerebrale che utilizza impulsi magnetici per indurre correnti elettriche ed attivare zone specifiche del cervello. L’applicazione di rTMS su specifiche aree della corteccia prefrontale si è dimostrata efficace nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici. E’ stato anche dimostrato che la rTMS è in grado di ridurre efficacemente il desiderio di cibo e il binge eating nei pazienti con bulimia nervosa.

La stimolazione transcranica per il trattamento dell’anoressia

Dati questi presupposti, la rTMS potrebbe dimostrarsi efficace nel trattamento dell’anoressia. Questo studio ha l’obiettivo di determinare se la rTMS potrebbe essere una terapia utile per l’anoressia. Studi preliminari hanno dimostrato che la rTMS ha ridotto i sintomi di anoressia, sia dopo una singola sessione che dopo il trattamento ripetuto, in particolare riducendo ansia, senso di sazietà e la percezione corporea di sentirsi grassi.

Per testare l’efficacia della rTMS, 60 pazienti con anoressia sono stati sottoposti a una sessione di rTMS; il loro comportamento alimentare e decisionale è stato testato prima e dopo il trattamento. I partecipanti guardavano video di persone che mangiavano cibo invitante e allo stesso tempo tali cibi erano a loro disposizione; i pazienti dovevano poi votare la loro voglia di mangiare quei cibi. Per la valutazione decisionale, i partecipanti dovevano scegliere tra piccoli importi di denaro immediatamente disponibili e importi maggiori disponibili in momenti successivi.

I risultati sono stati promettenti: una sessione di rTMS ha ridotto il bisogno di evitare l’assunzione di cibo, il senso di sazietà, la percezione di sentirsi grasse e le decisioni impulsive. Questi risultati dimostrano che questa tecnica di stimolazione cerebrale potrebbe ridurre i sintomi dell’anoressia, migliorando il controllo cognitivo degli aspetti compulsivi.

Conclusioni

Ulteriori studi clinici sono ancora necessari prima che la rTMS possa essere applicata regolarmente ai pazienti anoressici, ma questa è un’indicazione importante delle potenzialità delle tecniche di neurostimolazione nella terapia psichiatrica. La rTMS è una metodologia terapeutica non invasiva, sicura e ben tollerata.

Anche se i cambiamenti indotti da TMS sono temporanei , essi sono importanti perché dimostrano che i sintomi e le capacità decisionali connessi con l’anoressia possono essere migliorati con una sola sessione di rTMS. E ‘possibile che più sessioni di rTMS diano risultati ancora migliori, rendendola una valida tecnica di trattamento per l’anoressia.

 

Jackson Pollock, il genio del dripping: tra eccessi e psicoanalisi

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto.

 

In ambito artistico, con il termine dripping (che deriva dal verbo inglese to drip, cioè colare, sgocciolare) si indica una tecnica pittorica che consiste nel versare o gocciolare i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta per terra.  Il primo ad aver sperimentato il dripping fu l’artista belga Max Ernst (1891-1976) anche se fu l’americano Jackson Pollock (1912-1956) a mettere a punto questa tecnica.

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto, Pollock non riusciva a stare fermo davanti al cavalletto e con la tavolozza in mano:

Sul pavimento sono a mio agio – affermò l’artista americano mentre lavorava a ‘One: Number 21’ – così mi sento più vicino al dipinto, lo posso attraversare, mi ci posso avvicinare da tutti i lati ed entrarci dentro, letteralmente.

Pollock eseguiva la colatura del colore con gesti coreografici, a tratti violenti che gli valsero l’appellativo di Jack the Dripper, con chiaro riferimento al ben più violento Jack the Ripper (lo squartatore). I lavori di Pollock sono tracce istantanee delle azioni e dei movimenti che l’artista compiva mentre creava, della sua interiorità, della sua personalità tormentata.

La sua vita fu breve e segnata da eventi drammatici: partiamo dalla fine: era l’11 agosto 1956 quando Jackson Pollock moriva in un incidente stradale, ubriaco al volante della sua auto, in compagnia di due donne. Basta partire dalla fine per capire che l’artista americano aveva vissuto all’insegna di eccessi e sregolatezza, tra problemi psichici ed alcolismo. Aveva un carattere difficile, eredità di un’infanzia complessa: suo padre non aveva un impiego fisso e si spostava continuamente, così Jackson ed i suoi quattro fratelli crebbero sotto la guida della madre, una donna oppressiva ed estremamente protettiva nei confronti dei figli, in particolar modo nei confronti di Jackson, che era il più piccolo. Trascorse un’adolescenza difficile, caratterizzata da violenti attacchi di collera, a causa dei quali venne espulso varie volte da scuola.

Nel 1929 si trasferì a New York con il fratello Charles, dove entrambi diventarono allievi del pittore Thomas Hart Benton (1889-1975). Benton beveva molto e Pollock lo imitò: di lì a poco, per gravi problemi di alcolismo, l’artista si sottopose a diverse sedute psicoanalitiche, venendo così a conoscenza delle dimensioni dell’inconscio che determineranno la sua svolta decisiva verso l’arte informale. La terapia psicoanalitica non riuscì a curarlo dall’alcolismo, ma lo convinse ad esprimere le sue angosce e le sue paure inconsce con una lunga serie di disegni surrealisti. La psicoanalisi avvicinò Pollock alle teorie junghiane e durante il processo terapeutico l’artista arrivò all’elaborazione di un simbolismo inconscio mediato attraverso l’influenza stilistica di Picasso (1881-1973) e di Mirò (1893-1983).

Nel 1943 Pollock conobbe Peggy Guggenheim, erede di una delle famiglie più facoltose degli Stati Uniti e nota collezionista d’arte, che l’anno successivo finanziò la sua prima personale (a cui buona parte della critica reagì positivamente) e gli aprì le porte della celebrità.

Nel 1945 Jackson sposò la pittrice Lee Krasner (1908-1984) e con lei si trasferì a vivere in una fattoria nella campagna di Long Island: il sodalizio tra i due giocherà un ruolo importantissimo nel percorso artistico ed umano di Pollock; quelli passati accanto alla moglie, infatti, furono anni di grande creatività del pittore americano. Fu la Krasner a guidare Pollock sulla strada del successo e fu lei ad aiutarlo ad uscire, almeno per un periodo, dall’abisso dell’alcolismo e della depressione. Purtroppo la sua dedizione all’alcool, seppure con periodi di salutare astensione, non venne mai meno, così come non venne mai meno lo stato d’animo della depressione che lo perseguitò per tutta la vita.

Le sue opere sono lo specchio della sua vita tormentata ed infatti emanano un’energia selvaggia ed una carica drammatica ed angosciosa, in questo senso risultano essere interessanti anche da un punto di vista dell’indagine psichica. E a proposito dell’indagine psichica che i suoi quadri rappresentano, Pollock affermò:

Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano…La pittura è uno stato dell’essere…La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è.

In vita, la sua sofferenza psicologica non gli regalò né serenità, né appagamento: come è capitato anche ad altri artisti, gli omaggi a Jackson Pollock sono arrivati dopo la sua morte, in particolare durante quell’asta del 2006, quando il pittore statunitense strappò il primato (che oggi spetta a Paul Gauguin) di quadro più caro del mondo a Gustav Klimt. Fu un Pollock da record: il ‘N.5, 1948’ fu venduto da Sotheby’s New York per 140 milioni di dollari (109 milioni di euro), all’epoca la cifra più alta mai pagata per un dipinto.

Somministrare antidepressivi a chi vive matrimoni insoddisfacenti?

Un nuovo studio svolto sui dati del Midwestern Medical Center dal 1980 al 2000 ha rilevato come gli psichiatri tendano a prescrivere con estrema facilità antidepressivi ai soggetti coinvolti nei cosiddetti bad marriages, ovvero quelle relazioni matrimoniali dove i partner si trovano a dover fronteggiare contesti ed interazioni stressanti e poco piacevoli.

 

Curiosamente, l’ipotesi che vede gli attori di questo tipo di relazione soffrire di depressione sarebbe poco corretta; osservando infatti i criteri che definiscono la depressione è facile capire come il quadro sintomatologico sia ben più grave rispetto a quello rilevato tra i partner dei bad marriages. Sarebbe perciò esagerato e potenzialmente rischioso intraprendere una cura farmacologica per un disturbo clinicamente sotto soglia.

L’intervallo temporale dei dati di questo studio non a caso segue il 1973, data in cui l’omosessualità è stata rimossa dal novero dei disturbi mentali. A seguito di questa decisione, infatti, è seguìto un periodo di “depatologizzazione” dell’omosessualità, che si è concretizzato nella cancellazione delle associazioni tra disturbi mentali e identità sessuale del soggetto. Per tale motivo, il team di ricerca si è chiesto se questa implicazione potesse aver influenzato le modalità di diagnosi, le aspettative e, più in generale, la pratica clinica nei confronti delle coppie eterosessuali. Nel dettaglio, il pericolo di creare una norma di benessere psicologico all’interno della relazione, condurrebbe a trattare, anche a livello farmacologico, tutti i soggetti devianti da tale standard. Questa ipotesi spiegherebbe l’incremento delle prescrizioni di antidepressivi alle coppie in difficoltà.

A cosa è dovuta la maggiore prescrizione degli antidepressivi?

Secondo i ricercatori, la maggiore facilità con la quale gli antidepressivi sono prescritti alle coppie eterosessuali in difficoltà trae origine dall’avvento del Prozac e altri SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), concomitanti ad una politica pubblicitaria sempre più aggressiva delle case farmaceutiche.

Nel tentativo di chiarire la questione, i ricercatori hanno esaminato le cartelle cliniche dei pazienti per capire se e come in questi 20 anni fosse cambiata la modalità di osservare, descrivere, diagnosticare e trattare i disturbi dello spettro depressivo.
Una volta selezionato il campione, un gruppo di valutatori ha perciò esaminato le descrizioni dei clinici contenute nelle cartelle dei pazienti e, impiegando una strategia di codifica tematica, si sono focalizzati sulle tendenze con le quali i clinici associavano i sintomi psichiatrici a caratteristiche del matrimonio, alle relazioni, alle aspettative/ruoli di genere e ad altre variabili.

Tra le tendenze riscontrate dagli psichiatri un esempio potrebbe essere quella di richiedere alle donne di parlare della propria relazione, nel tentativo di spiegare i sintomi riportati, anche quando essa non era centrale per trattare la paziente. Diversamente per gli uomini, dove lo stress era principalmente correlato al lavoro, la centralità del rapporto coniugale perdeva importanza per gli psichiatri, che si focalizzavano su ciò che riportava il paziente. L’argomento fonte di stress che però i mariti riportavano più spesso delle mogli era il sesso; nel dettaglio l’ansia relativa alle loro performances con le partner, che correlava con sintomi depressivi e ansiosi.

Conclusioni

Concludendo si è osservato come le norme relative ai ruoli di genere influenzino significativamente le deliberazioni degli psichiatri nei confronti delle modalità di trattamento, in particolare quelle relative all’assunzione di psicofarmaci. In aggiunta, si è notato come le aspettative dei clinici nei confronti delle donne e degli uomini fossero diverse: per le donne, gli psichiatri ritenevano che la fonte del loro disagio risiedesse nella relazione con il partner, anche quando non percepita come problematica principale dal paziente, per gli uomini invece gli psichiatri ritenevano che la depressione originasse dai dubbi e le insicurezze relative a performance sessuali immaginarie e aspettative (ad es., relative al proprio ruolo lavorativo o come membro della famiglia) ideali e non sempre possibili da raggiungere.

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