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Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) – Recensione

Questo testo affronta in maniera chiara una delle condizioni cliniche che causano elevata sofferenza mentale, spesso non diagnosticata perché ritenuta da molti professionisti della salute mentale troppo rara da incontrare o ritenendola secondaria rispetto ad altri disturbi: il Disturbo di Depersonalizzazione (DPD, Depersonalization Disorder), che rientra in una delle tante problematiche psicologiche non appartenenti ad una categoria specifica.

 

Il libro è stato scritto in tempi in cui la nosografia psichiatrica faceva riferimento al DSM-IV-TR, ma nel DSM-V la depersonalizzazione viene descritta in maniera inalterata, aggiungendo una descrizione meticolosa che non è cambiata nel tempo, forse proprio perché ancora poco studiata e poco diagnosticata.

Secondo una delle autrici, l’illustre esperta professoressa Fugen Neziroglu, psicoterapeuta cognitiva e comportamentale, sapientemente intervistata dal Dott. Sanavio, purtroppo la depersonalizzazione/derealizzazione spesso non viene diagnosticata, e molti di questi pazienti hanno invece ricevuto una diagnosi di depressione, due disturbi che pur avendo sintomi in comune tra loro, in realtà sono molto diversi:

I pazienti depersonalizzati solitamente si chiedono se ci sia qualcosa di sbagliato nel loro cervello, come se si sentissero neurologicamente danneggiati. Sanno quello che dovrebbero provare, ma non sentono più nulla. Raccontano di sentirsi insensibili e di vivere in un mondo irreale. Inoltre, anche le loro percezioni risultano alterate: gli oggetti sembrano molto distanti, appaiono strani, i rumori possono essere più forti di quanto siano in realtà. Questa sintomatologia non viene vissuta, invece, dai pazienti depressi.

Talvolta questi pazienti giungono con un’autodiagnosi (miracoli di Internet).

Con una esposizione chiara e dettagliata, il libro offre una spiegazione dettagliata sul DPD, rivolgendosi sia ai non addetti ai lavori sia ai clinici che cercano un solido punto di riferimento per il trattamento dei loro pazienti, offrendo sostanzialmente le proposte terapeutiche secondo i principi dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e della DBT (Dialectical Behaviour Therapy), e suggerendo in ultima analisi altri possibili strategie di intervento, compresa quella farmacologica.

Nei primi tre capitoli vengono di fatto presentati gli aspetti di questa condizione, spiegandone i sintomi e i criteri diagnostici, e come il DPD possa influenzare la vita di una persona. I sintomi vengono descritti in base alle possibili modalità di esperire la depersonalizzazione, in riferimento alla diverse aree della vita che possono venire colpite.

Attraverso la proposta di alcuni semplici esercizi, le autrici cercano di evidenziare come sia arduo liberarsi della depersonalizzazione, e come anche il tentativo di eliminarla possa in realtà avere l’effetto di ingigantirla: costruire una rigida routine di evitamento per cercare di arginare la sofferenza e sottrarsi a certe sensazioni spiacevoli, allo stesso tempo priva la persona di importanti aspetti della propria vita. Analizzando le possibili cause alla base del DPD, il libro ipotizza un’origine multifattoriale, data dalle componenti psicologiche, biologiche, chimiche o ambientali:

  • Origine traumatica (abusi, abbandono, particolari avvenimenti storico-sociali, stress di livello estremo, oppure altri disturbi psicologici, come ad esempio l’ansia associata alle fasi sintomatiche del DOC);
  • Uso di stupefacenti (marijuana, ketamina o altri allucinogeni);
  • Anomalie neurochimiche o neuroanatomiche, nella forma della trasmissione di certi segnali neurochimici che possono avere effetti sull’esperienza di depersonalizzazione e della comunicazione tra alcune aree del cervello che possono interferire con l’integrazione sensoriale.

Nel quarto capitolo, il testo analizza i problemi associati al disturbo di depersonalizzazione, distinguendo tra depersonalizzazione cronica (o primaria, solitamente legata ad un trauma o ad una forte sofferenza emotiva di qualche genere, o all’uso di droga) ed episodica (o secondaria, talvolta utile a gestire situazioni estremamente stressanti con una compostezza distaccata e insensibile). La depersonalizzazione ed altre esperienze dissociative sono infatti estremamente comuni anche in molti disturbi psicologici: il disturbo di panico, il PTSD, il disturbo borderline di personalità, il disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi dell’umore. E’ comune che un sovraccarico emotivo favorisca la comparsa delle reazioni di depersonalizzazione.

Nel quinto capitolo, le autrici approfondiscono la depersonalizzazione secondo la prospettiva dell’Acceptance and Commitment Therapy, offrendo un contributo originale su questo argomento. Secondo tale prospettiva, vengono evidenziati i sei processi disfunzionali che facilitano la sofferenza mentale:

  • Fusione cognitiva;
  • Definirsi in base alle proprie convinzioni su di sé;
  • Rimuginazione e preoccupazione;
  • Evitamento esperenziale;
  • Mancanza di valori chiari;
  • Repertorio comportamentale ristretto

L’intreccio di tali fattori, produce una tendenza all’inflessibilità psicologica, con una propensione generale a cercare di evitare le esperienze spiacevoli e, con esse, certi ambiti importanti della vita. In tale ottica, la depersonalizzazione può costruire una routine inflessibile, nel tentativo di limitare la sofferenza e contemporaneamente ostacolare la ricchezza e la diversità delle esperienze.

Nel capitolo settimo, le autrici offrono particolare risalto alla gestione della depersonalizzazione attraverso la ACT, proponendone i sei processi funzionali spiegati con esempi ed esercizi di pronta applicazione:

  • La defusione cognitiva, una strategia che serve ad affrontare i processi spiacevoli, evitando che pensieri ed emozioni spiacevoli condizionino i comportamenti;
  • Entrare in contatto con il proprio Sé osservante, (inteso come la parte di sé stessi che ha sempre osservato ogni pensiero, stato d’animo, ruolo, interesse e fase di sviluppo fisico attraversati) per non perdere di vista la transitorietà delle esperienze emotive e gli alti e bassi della vita;
  • La mindfullness, come consapevolezza immediata dell’esperienza;
  • La disponibilità e l’accettazione, in opposizione all’evitamento;
  • Chiarire i propri valori, e rivelare così le aree importanti della propria vita che possono orientare nelle scelte che contano;
  • L’azione impegnata, cioè coerente con i propri valori e compiuta con accettazione e disponibilità a provare l’inevitabile malessere.

Accanto all’ACT, il libro propone un altro approccio orientato all’accettazione: la terapia dialettico-comportamentale (DBT), concepita originariamente dalla Linehan per il trattamento del disturbo borderline di personalità, e fondato sull’accettazione delle ambiguità e delle contraddizioni della vita in risposta ai sentimenti contraddittori (ad esempio grandiosità ed insicurezza) e alla presenza di idee opposte, normalmente provati da ognuno di noi, che non implicano necessariamente un guasto al sistema. Secondo tale approccio quindi, è necessario in tali situazioni agire nel mondo più funzionale, anche quando contraddice i nostri sentimenti, sviluppando quattro abilità: la mindfullness, la tolleranza della sofferenza, la regolazione delle emozioni e l’efficacia interpersonale. Le autrici illustrano nel settimo capitolo tali abilità, adattate alla depersonalizzazione, presentando degli esercizi utili per il loro apprendimento.

Nel capitolo ottavo, il libro suggerisce delle strategie di terapia comportamentale, utili ad ancorarsi al momento presente attraverso l’esposizione alle cose, alle emozioni e alle sensazioni che creano disagio, al fine di ottenere una vita più piena. Vengono così presentati degli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta, che implicano l’esporsi a ciò che di fatto possa essere collegato a depersonalizzazione o sensazioni di depersonalizzazione. L’obiettivo delle autrici è spiegare come attraverso il comportamento si possa aumentare il contatto con la realtà e gli aspetti piacevoli della vita, per ‘fingere finché non lo si sente‘, lasciando cioè che i comportamenti precedano l’entusiasmo, nella speranza che questo poi arrivi.

Nel nono capitolo viene dato spazio agli altri possibili trattamenti: dalla terapia cognitivo comportamentale tradizionale (TCC), risultata efficace per la cura della depersonalizzazione, alla terapia farmacologica, orientata alla cura dei sintomi della depersonalizzazione, sottolineando come gli antidepressivi possano alleviare la depressione secondaria o il malessere associati al DPD, gli stimolanti possono aiutare i sintomi cognitivi, e le benzodiazepine possono alleviare l’ansia secondaria. Le autrici fanno riferimento anche a due trattamenti sperimentali: la stimolazione magnetica transcranica e la cingolotomia, presentandone rischi, vantaggi e prospettive per il futuro.

La disortografia – Introduzione alla psicologia

La disortografia è una disabilità di apprendimento caratterizzata da un importante e durevole difetto di assimilare le regole grammaticali in assenza di un deficit neurologico.

Disortografia: introduzione

Ancora una volta ci troviamo nell’ambito dei disturbi specifici dell’apprendimento per parlare di un deficit rientrante nella sfera dei disturbi legati alla scrittura. La scorsa settimana si è parlato di disgrafia, questa volta presentiamo la disortografia: condizione caratterizzata da una marcata difficoltà nell’apprendimento della scrittura. La disortografia si manifesta attraverso la presenza di errori insoliti a livello ortografico in relazione al livello di scolarità, all’età e al quoziente intellettivo del bambino.

Disortografia: di cosa si tratta

La disortografia è una disabilità di apprendimento caratterizzata da un importante e durevole difetto di assimilare le regole grammaticali in assenza di un deficit neurologico.
Le caratteristiche più comuni della disortografia sono:
– Confusione di fonemi e di grafemi;
– Errori di ortografia;
– Problemi di scrittura simili ai dislessici;
– Problemi legati alla codifica di alcune parole scritte;
– Errori nel copiare le parole;
– Inversione di sillabe;
– Tagli arbitrari di parole;
– Omissione di lettere necessarie in una parola;
– Coniugazioni di verbi errate;
– Errori di analisi del testo;
– Lentezza, esitazione e povertà nella scrittura.

Si tratta, in soldoni, di un problema che insorge, il più delle volte come conseguenza della dislessia, ma in alcuni casi può manifestarsi anche in maniera isolata.

Disortografia: come si manifesta

I segni distinguibili della disortografia possono essere:
– le omissioni di lettere o parti di parola, per esempio fole per folle;
– sostituzioni o inversioni di grafemi;
– errori relativi alle regole ortografiche;
– errori di separazione o fusione di parole.

La grammatica è importante nella produzione di un testo fluente. Gli studenti con disortografia spesso presentano evidenti problemi nella gestione delle regole grammaticali al punto da rendere difficile la comprensione di quanto scritto.
Molti disortografici, inoltre, dimostrano estrema lentezza nella scrittura ed evidenti problemi nel copiato e in tutti i compiti scritti. Tutto questo, ha come esito il rimanere indietro nell’apprendimento rispetto ai compagni di classe. Le conseguenze, chiaramente, sono marcate sia da un punto di vista psicologico, rispetto al gruppo dei pari, sia sociali, in casi estremi si mettono in atto forme di evitamento.

Disortografia: errori tipici

Di seguito sono riportati gli errori più tipici presentati dai disortografici:
– sostituzione di lettere simili graficamente, m/n – v/f – b/d – p/q;
– sostituzione di lettere omofone, b/p – t/d – f/v – s/z;
– inversioni di lettere, da/ad – per/per – da/pa;
– difficoltà di riconoscere gruppi sillabici complessi; gn – ch – gl;
– difficoltà di lettura delle non parole;
– difficoltà di mantenere il rigo di lettura;
– confondere i rapporti spaziali e temporali, dx/sx – ieri/oggi giorni/mesi);
– difficoltà di espressione verbale;
– difficoltà nella ricopiatura dalla lavagna;
– difficoltà a prendere appunti;
– lentezza nella lettura;
– difficoltà nella lettura ad alta voce;
– nella lettura/scrittura ripete sillabe/parole/frasi;
– lettura e scrittura invertita;
– saltare le parole;
– mancata comprensione del testo.

Disortografia: cosa è compromesso

Nel bambino disortografico esiste una grave compromissione del linguaggio, con scarse capacità di percezione e discriminazione visiva e uditiva. Inoltre, il disortografico non riesce ad avere una adeguata rappresentazione grafica di quanto si scrive. Queste persone mostrano una non differenziazione dei due emisferi per le diverse abilità di scrittura, e una mancanza di integrazione spazio-tempo che non gli permette di avere una opportuna conseguenza temporale degli eventi.

Disortografia: cause

In ambito neuropsicologico è stata definita come un meccanismo di non adeguato funzionamento a opera dei diversi processi che generano la scrittura (DeThorne et al., 2008).
Questi meccanismi complessi riguardano numerose funzioni cerebrali, e si esprimono come una carenza di integrazione tra le specifiche reti imputate alla lettura e alla comprensione. L’adeguata acquisizione dei processi che portano al corretto uso della lingua sono mediate dall’attenzione, dalla memoria, dallo spazio e dal tempo, dalla capacità sequenziale, dal ragionamento e dall’astrazione di concetti. Tutto questo non è integrato nel disortografico.
Solitamente, questi problemi insorgono durante la seconda elementare e si protraggono nel tempo. Il più delle volte passano inosservati e confusi con i normali problemi riscontrati durante l’apprendimento, ma se perdurano nel tempo e si intensificano sono indicatori di un estremo disagio a carico della scrittura.

Molti studi, ancora, propendono per l’ipotesi genetica, infatti la probabilità di essere disortografico è otto volte maggiore nei bambini i cui genitori hanno un disturbo inerente alla sfera dell’apprendimento (Bishop et al., 2005). La probabilità è ancora più elevata tra i gemelli identici, il cui tasso di verificabilità del disturbo si aggira intorno all’80% (Owen et al., 2002).
In ultima analisi alcuni studi di genetica confermano si possa trattare di un problema imputabile ai geni presenti sui cromosomi 1, 2, 3, 4, 6, 15, 17 e 18 (Petrill et al., 2006; Plomin et al., 2005).

Disortografia: conseguenze e comorbidità

La disortografia, porta a un evidente dispendio di energie nei compiti scritti, affaticando lo studente che appare al cospetto degli altri svogliato o disattento. È frequente l’associazione con altre problematiche relative alla sfera dell’apprendimento come la dislessia o la discalculia.
I bambini con disortografia possono mostrare disagio psicologico più o meno marcato di fronte ai compagni di classe. Il timore è che gli altri potrebbero avere una scarsa percezione del loro valore con conseguente manifestazione di ansia, bassa autostima e in casi estremi depressione. Di conseguenza possono esitare nel fare domande in classe e ad ammettere che non hanno capito qualcosa, oltre ad assumere sempre una posizione di sudditanza psicologica nei confronti degli amici.

Disortografia: come curarla

Esistono per i disortografici, come per tutti coloro che mostrano disturbi dell’apprendimento programmi personalizzati da utilizzare a seconda del deficit manifestato dal bambino. Inoltre, possono essere usate delle strategie per gestire tale problematica:
– utilizzare un computer;
– utilizzare un dizionario per gli esami con domande saggio;
– usare compiti in cui si prediligono risposte brevi;
– dare più tempo nell’eseguire un compito.

In ultima analisi, è necessario incoraggiare e supportare gli studenti ogni volta che raggiungono un traguardo. In questo modo si riesce a tenere alta l’autostima.

Disortografia: diagnosi

La diagnosi di disortografia può essere effettuata solo alla fine del secondo anno della scuola primaria da uno psicologo e/o da un neuropsichiatra che spesso è affiancato da altre figure professionali, come ad esempio il logopedista.
Inizialmente, il bambino si sottopone a una adeguata valutazione testistica approfondita; questo perché, essendo ogni disortografico diverso dagli altri, è necessario avere una visione globale e dettagliata del problema presentato allo scopo di poter individuare il tipo di intervento idoneo da poter applicare.

Disortografia: terapia

Al termine del percorso diagnostico è possibile attuare specifici trattamenti mirati a integrare e compensare i problemi presentati. Inoltre, sono previsti interventi regolati dalla legge 170/10, come ad esempio la possibilità di usare programmi di videoscrittura al computer, ottenere tempi più lunghi per lo svolgimento dei compiti scritti, e così via.
Infine, possono essere coinvolti nell’iter terapeutico la famiglia e il contesto sociale extrascolastico, importanti per creare una rete di supporto al disortografico.
La collaborazione tra tutti questi soggetti è indispensabile per concertare al meglio un intervento integrato volto al miglioramento repentino della condizione del bambino.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Uno studio interdisciplinare per osservare gli effetti degli attacchi terroristici del 13 novembre sulla popolazione francese

In che modo gli eventi traumatici degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 si sviluppano nella memoria della popolazione, a livello collettivo o individuale? Come la memoria individuale interagisce e si nutre della memoria collettiva e viceversa? E’ possibile, studiando alcuni markers cerebrali, prevedere se nelle vittime si svilupperà un disturbo post-traumatico da stress, e chi si riprenderà più rapidamente?

 

Quelle appena presentate sono alcune delle questioni affrontate nell’ambizioso programma del 13 Novembre coordinato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), dall’’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (Inserm), dall’Hésam Université e dalla collaborazioni di ulteriori numerosi partner.

Questo programma di ricerca transdisciplinare, co-diretto dallo storico Denis Peschanski e dal neuropsicologo Francesco Eustache, si baserà sulla raccolta e l’analisi dei dati di 1000 volontari intervistati quattro volte in dieci anni.

Dato il coinvolgimento di diverse centinaia di persone, questo studio è il primo a livello mondiale in termini di dimensioni, numero di discipline comprese e protocollo utilizzato. Infatti i risultati attesi porteranno beneficio nei settori socio-storico e biomedico, ma non solo, avranno implicazioni anche per quanto riguarda la politica e la salute pubblica.

Dopo l’appello lanciato lo scorso novembre da Alain Fuchs, presidente del CNRS, la comunità di ricerca sta cercando di chiarire i problemi che deve affrontare la società a seguito degli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia nel corso dello scorso anno. Questo invito ha dato luogo a un programma interdisciplinare di una durata prevista di 12 anni.

Coordinato dal CNRS e dall’INSERM in collaborazione con l’Hésam Université, questo progetto si propone di studiare la costruzione e l’evoluzione della memoria dopo gli attacchi del 13 novembre 2015, e il rapporto tra memoria individuale e collettiva.

All’interno del progetto 13 novembre, il ruolo del CNRS sarà quello di sostenere due scienziati scelti per monitorare gli studi che coinvolgono 150 ricercatori di diverse discipline in un programma a lungo termine di una portata senza precedenti – spiega Alain Fuchs – L’Inserm invece si è impegnata sin dall’inizio unendo all’interno del progetto le scienze umane e sociali con gli ultimi progressi delle neuroscienze.

È proprio grazie a questo programma interdisciplinare e ambizioso che sarà possibile rispondere alle domande poste in precedenza.

Saranno raccolte e analizzate le testimonianze di 1000 volontari. Alcuni di questi hanno sperimentato gli eventi da vicino: i sopravvissuti, i loro familiari e amici, la polizia, i militari, i vigili del fuoco, i medici e gli operatori sanitari coinvolti. Altri sono stati colpiti indirettamente, vale a dire i residenti e gli utenti dei quartieri interessati, i Parigini provenienti da altre zone, e infine gli abitanti di diverse città francesi, tra Caen e Metz.

Anche la scala utilizzata in questo studio lo rende innovativo: i 1000 partecipanti saranno seguiti per 10 anni in quattro campagne di interviste filmate (nel 2016, 2018, 2021 e 2026). Le linee guida per le interviste sono state scritte congiuntamente da storici, sociologi, psicologi, psicopatologi e neuroscienziati, in modo tale che il materiale raccolto venga utilizzato da ogni disciplina.

Verrà inoltre eseguito uno studio biomedico in 180 dei 1000 partecipanti: 120 persone colpite direttamente dagli attacchi, alcune delle quali sono affette da disturbo post-traumatico da stress, e 60 che vivono a Caen. Le interviste e la risonanza magnetica al cervello, condotte contemporaneamente e riprese, contribuiranno a far luce su l’impatto dello stress traumatico sulla memoria (inclusi i pensieri e le immagini intrusivi, caratteristica del disturbo post-traumatico da stress), e di identificare i markers associati alla resilienza cerebrale al trauma.

In parallelo, la ESPA, in collaborazione con il programma 13 Novembre, analizzerà attraverso un questionario su Internet l’impatto psico-traumatico degli attacchi terroristici su coloro che sono stati direttamente esposti, e la validità dei canali di assistenza sanitaria.

Il programma è di importanza fondamentale per tutte le discipline scientifiche rappresentate. Gli storici e i sociologi cercheranno di capire come le singole testimonianze vadano a costruire la memoria collettiva. I linguisti misureranno l’evoluzione del lessico e le costruzioni sintattiche. Il neuropsicologo si concentrerà sul consolidamento e ri-consolidamento della memoria e del suo funzionamento. Per quanto riguarda i neuroscienziati, si lavorerà sulle modifiche delle rappresentazioni mentali, sul disturbo post-traumatico da stress e sulla possibilità di eliminare ricordi dolorosi. Gli psicopatologi si concentreranno sull’impatto degli attacchi terroristici sull’immagine di sé, i meccanismi di difesa e il rapporto con la distruttività.

Inoltre, il programma 13 Novembre sarà utile per il diritto penale, le politiche di sostegno alle vittime, la gestione delle crisi e le pratiche commemorative. Le interviste filmate avranno anche un valore come patrimonio mondiale, i quanto preserveranno e trasmetteranno la memoria degli attacchi del 13 novembre.

Il progetto 13 Novembre ha avuto inizio il 13 maggio a Caen e il 2 giugno a Bry-sur-Marne per quanto riguarda le interviste filmate. Lo studio biomedico ha invece avuto inizio il 7 giugno presso l’impianto di imaging biomedico Cyceron a Caen. I primi risultati dovrebbero essere disponibili in autunno 2017, mentre quelli finali sono attesi nel 2028, due anni dopo le ultime interviste.

Amaxofobia: superare la paura di guidare

L’ amaxofobia è la paura invalidante di guidare un automezzo che può avere ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. L’ amaxofobia è una fobia specifica del sottotipo situazionale; si può presentare in diverse situazioni, con modalità differenti e si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche e con differenze interindividuali.

Gaia Benetti, Karoline Nicolussi, OPEN SCHOOL BOLZANO

Fobie specifiche e Amaxofobia

L’ amaxofobia (dal greco antico amaxos, “carro”) è la paura invalidante di guidare un automezzo. Clinicamente, è possibile classificare l’ amaxofobia, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) e nell´ICD-10 (World Health Organization, 2011), come fobia specifica del sottotipo situazionale.
La fobia specifica è definita come una paura persistente, della durata di almeno sei mesi, sproporzionata ed irrazionale verso oggetti o situazioni specifiche, spesso causa di stati ansiosi che possono assumere anche la forma di attacchi di panico. La persona, pur riconoscendo che la paura è esagerata rispetto al pericolo reale, tende ad evitare o a sopportare con forte ansia lo stimolo fobico. La fobia specifica, per essere clinicamente significativa, deve provocare uno stato di stress psicofisiologicamente rilevante ed interferire con la vita della persona. Nel caso del sottotipo situazionale si tratterebbe di un’ansia invalidante causata da una situazione specifica. (American Psychiatric Association, 2015)

Amaxofobia: paura di cosa?

L’ amaxofobia, come fobia situazionale, è caratterizzata da una paura inadeguata e persistente provocata dalla guida di un automezzo o dagli stimoli (reali o immaginati) ad essa collegati. Tale fobia si può riscontrare sia nella popolazione femminile sia in quella maschile di tutte le fasce d’età e livello socio-culturale; le differenze che sembrano sussistere sarebbero, invece, nelle modalità di manifestazione e nella gestione del disturbo da parte dei soggetti (Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Sembra però utile sottolineare che, come nella maggior parte dei disturbi d’ansia, le fobie specifiche colpiscono maggiormente la popolazione femminile rispetto a quella maschile (in rapporto di circa 2 a 1) (Wade, 2010; American Psychiatric Association, 2015) e ciò potrebbe essere uno dei motivi per cui la maggior parte degli studi effettuati, nell’ambito dell’ amaxofobia, spesso utilizzano o citano esclusivamente un campione femminile (cfr. Alpers, Wilhelm, & Roth, 2005; cfr. Taylor, Deane, & Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014).

Inoltre, Taylor e Paki (2008), in una ricerca su di un campione non clinico, hanno rilevato una percentuale tra il 7% e l’8% dei partecipanti caratterizzata da una moderata o estrema paura di guidare ed ansia ad essa collegata; inoltre, in tale ricerca, è emersa una differenza di genere nella tendenza ad evitare alcune situazioni di guida o ad affrontarle con stati di ansia che caratterizzerebbero maggiormente il campione femminile rispetto a quello maschile. Tali evidenze sono state confermate da una successiva ricerca di Taylor, Alpass, Stephens e Towers (2010).

L’ amaxofobia si può presentare in diverse situazioni e con modalità differenti. Secondo Massaro (2014), infatti, la paura di guidare si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche ma con differenze interindividuali nella manifestazione del problema. Nel dettaglio, è possibile distinguere:
la paura di guidare da soli in genere in assenza di una specifica persona al proprio fianco;
la paura di guidare di notte o quando è buio;
la paura di guidare in autostrada e su strade a scorrimento veloce;
la paura di guidare attraverso le gallerie;
la paura di valicare i ponti, in particolare se alti o lunghi;
la paura del traffico nel quale ci si può trovare bloccati o rallentati mentre si è alla guida;
la paura di allontanarsi oltre ad una certa distanza da casa (Massaro, 2014).”
Una paura a sé stante sembrerebbe essere quella di impazzire alla guida ed essere colti da un raptus rischiando, così, di investire veicoli o pedoni oppure trovarsi coinvolti in incidenti stradali (Massaro, 2014; Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Amaxofobia: possibili cause e caratteristiche cliniche

I fattori e le cause che potrebbero essere alla base dello sviluppo di questo disturbo sembrerebbero molteplici. La paura di guidare potrebbe presentarsi all’interno di un quadro generale di disturbo d’ansia o essere correlata ad un disturbo claustrofobico (timore di restare bloccati in una galleria o nel traffico) o agorafobico (paura di attraversare ponti). L’ amaxofobia potrebbe essere, altrimenti, conseguenza diretta di una situazione traumatica (incidenti causati o subiti o meno in prima persona, incidenti subiti da persone care o ai quali si ha assistito) o dipendere da stati di depressione secondari all’invecchiamento del conducente che diventa insicuro delle sue capacità.

Talvolta anche specifici pregiudizi culturali nei confronti della popolazione femminile, potrebbero diventare fonte di ansia ed errate convinzioni di incompetenza alla guida indipendentemente dal conseguimento della patente di guida. Inoltre, l’ amaxofobia potrebbe insorgere in soggetti con elevate pulsioni aggressive che temono di poterle attualizzare alla guida, in preda a raptus improvvisi. Infine, la paura può nascere da una generale condizione di bassa fiducia in se stessi e nelle proprie abilità o da un tema personale che rimanda ad una forte ansia da separazione che potrebbe mantenere il soggetto ad una condizione di dipendenza o di ambivalenza fra autonomia e timore di crescere. (Massaro, 2014). Taylor, Deane e Podd (2006) avrebbero, inoltre, identificato quattro possibili “situazioni pericolose”, fonti di elevata ansia, per un soggetto amaxofobico. I timori maggiormente espressi da questi soggetti sarebbero, infatti, legati alla paura di subire o provocare incidenti, di guidare in specifiche situazioni, condizioni e manovre, di avere attacchi di panico o sintomi d’ansia e il puro giudizio sociale. Tali paure possono diventare talmente pervasive ed invalidanti al punto da indurre il soggetto a guidare solo in particolari e specifiche condizioni per lui ottimali, o a mettersi al volante vivendo un importante stato di disagio psicofisico o in altri casi ad evitare del tutto la guida.

Amaxofobia: diagnosi

L’ amaxofobia può essere diagnosticata qualora siano soddisfatti tutti i criteri per una fobia specifica del sottotipo situazionale. Al fine di meglio indagare e comprendere la gravità della sintomatologia del paziente è possibile, inoltre, indagare la “storia automobilistica” del soggetto ed utilizzare una serie di questionari standardizzati.

Gli studi inerenti a tale fobia consigliano di indagare la storia del paziente ed eventuali cause valide che possono essere alla base della paura della guida; inoltre, tutte le informazioni inerenti al rapporto del soggetto con la guida (quando è stata conseguita la licenza di guida, la frequenza di guida, ecc.) possono essere estremamente utili per avere un quadro globale della situazione del paziente (cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006). Infine, possono essere somministrati i seguenti questionari al fine di rilevare importanti informazioni sia per il profilo diagnostico sia per stilare un adeguato piano di intervento e processi riabilitativi (cfr. Taylor, Deane & Podd, 2000; cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014):

– Driving cognitions questionnaire (DCQ) per valutare la presenza e la frequenza di cognizioni negative (preoccupazioni legate ad incidenti, paura di attacchi di panico e timore dei giudizi sociali) riguardo alla paura di guidare (Ehlers, Taylor, Ehring, Hofmann, Deane, Roth & Podd, 2007).
– Driving Skills Questionnaire (DSQ): per misurare la competenza percepita delle proprie capacità di guida in situazioni specifiche (McKenna, Stanier & Lewis, 1991 citato da Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– Driving situations questionnaire (DSQ): al fine di misurare l’entità dell’ansia e dell’evitamento in diverse situazioni di guida (Ehlers, Hofmann, Herda, & Roth, 1994).
– Driving Behavior Survey (DBS): per rilevare i comportamenti ansiosi alla guida (Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– State-trait anxiety inventory (STAI): uno strumento di autovalutazione, che permette di identificare l’ansia di tratto, uno stato emotivo stabile e persistente e l’ansia di stato, una condizione emotiva temporanea collegata a una determinata situazione e che varia nella sua intensità nel corso del tempo e in dipendenza delle situazioni. (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg & Jacobs, 1983).
– Fear questionnaire (FQ): uno strumento di autovalutazione per l’identificazione di comportamenti di evitamento, misurando fobie (sottogruppi agorafobia, fobia sociale e la paura di incidenti) e stati ansioso-depressivi (Marks & Mathews, 1979).
– Beck depression inventory-second edition (BDI-II): per misurare la gravità della depressione nell’ambito clinico (Beck, Steer, & Brown, 1996).
– Mobility Inventory for Agoraphobia (MIA): per valutare comportamenti di evitamento agorafobici e la frequenza di attacchi di panico in diverse situazioni; ogni situazione è valutata sia quando la persona è accompagnata, alla guida, da una persona di fiducia sia quando è da sola nel condurre l’automezzo (Chambless, Caputo, Jasin, Gracely & Williams, 1985).

Un’accurata analisi diagnostica ci consentirà di definire il profilo clinico del nostro paziente e delineare, quindi, il piano di intervento terapeutico più consono ed efficace.

Amaxofobia: Trattamento

Le diverse possibili cause e le eterogenee caratteristiche cliniche dell’ amaxofobia, pongono l’accento sull’importanza di valutare in modo scrupoloso la personale “cornice” all’interno della quale il disturbo si colloca, al fine di avvalersi del trattamento terapeutico più adeguato al singolo paziente.
L`amaxofobia, come una fobia specifica, rientra nella categoria dei disturbi d’ansia (American Psychiatric Association, 2015) per i quali la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulta il trattamento d’elezione. L’efficacia della CBT è stata, infatti, provata e dimostrata da numerosi studi (cfr. Deacon & Abramowitz, 2004; cfr. Norton & Price, 2007). Ugualmente, per l’ amaxofobia legata ad agorafobia, claustrofobia e ad altre fobie specifiche, la terapia cognitivo-comportamentale risulta essere il metodo clinicamente più efficace (cfr. Wade, 2010).

Nel caso specifico in cui l’ amaxofobia abbia, invece, un’origine traumatica sarà opportuno intervenire con un percorso terapeutico indicato in caso di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In un articolo di De Jongh, Holmshaw, Carswell e Van Wijk (2011) si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
La CBT aiuterebbe i pazienti ad identificare e modificare i pattern distorti di pensiero riguardanti se stessi, l’evento traumatico e il mondo e consentirebbe, inoltre, sia di ridurre i sintomi ansio-depressivi post traumatici che di promuovere l’incremento di fiducia, sicurezza e di regolazione emotiva (Trappler, & Newville, 2007; De Jongh, Holmshaw, Carswell & Van Wijk, 2011); ugualmente, l’EMDR è stato riconosciuto e confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati (World Health Organization, 2013).

Nei casi in cui, l’approfondimento diagnostico evidenzi un disturbo di amaxofobia secondario ad altri “temi” quali conflitto interno tra autonomia e paura di crescere, condizioni di dipendenza o paura dell’abbandono, stati di aggressività inconscia, contesti culturali pregiudiziosi nei confronti delle donne e invecchiamento associato a stati depressivi, i punti centrali di un intervento psicoterapeutico potranno riguardare l’elaborazione del conflitto dipendenza-autonomia, il superamento della necessità di controllo, l’elaborazione delle pulsioni aggressive, la modificazione dell’immagine di Sé e l’aumento dell’autostima del soggetto. (Massaro, 2014)
Infine è utile evidenziare che, nel trattamento di disturbi d’ansia e di fobie, l’integrazione alla terapia cognitivo e cognitivo-comportamentale degli approcci basati sulla mindfulness e sulla psicoterapia ipnotica sembrerebbe aumentare l’efficacia dell’intervento psicoterapeutico (cfr. Öst, 2008; Greeson & Brantley, 2012; cfr. Alladin, 2016).

Conclusioni

L’ amaxofobia, è un disturbo che può avere importanti ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. La paura di guidare “frena” la libertà e l’autonomia dell’individuo.
La fobia di guidare si può superare ma è fondamentale un intervento terapeutico basato su un approccio multimodale, in quanto sussistono diverse comorbilità e varie possibili cause alla base del disturbo: l’ amaxofobia può essere legata ad un Disturbo d’Ansia in generale, ad altre fobie specifiche (claustrofobia, agorafobia), ad una situazione traumatica, ad uno stato depressivo secondario ad altre condizioni come l’invecchiamento, a specifici pregiudizi culturali o a fattori di personalità.

I trattamenti che ad oggi si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, sono la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Un’interessante direzione per future ricerche, volte a sviluppare un trattamento il più possibile adatto all’ amaxofobia, potrebbe situarsi negli approcci basati sulla mindfulness integrati in una cornice terapeutica con un approccio di base cognitivo-comportamentale.

Conformismo e ansia sociale negli adolescenti

Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri. Lo studio di alcuni ricercatori cinesi ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

 

Abstract

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo,  ha una connotazione positiva, ovvero serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita.

L’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri. Uno studio compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo. La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più alle opinioni espresse dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

Il conformismo sociale

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo, ha una sua ragione d’essere. Infatti, esso serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita. Inoltre, il conformismo sociale ha anche una valenza protettiva legata al fatto di ricevere l’accettazione e la protezione del gruppo sociale di appartenenza (Morgan e coll., 2015, citati in Zhang e coll., 2016).

 

 

L’ansia sociale

Dal punto di vista clinico, l’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri (APA, 2013). L’ansia sociale è costituita da due componenti, ovvero essa può derivare dalle interazioni sociali, per cui l’individuo teme qualsiasi confronto, anche comunicativo, con l’alterità; oppure può evidenziarsi ogniqualvolta la persona deve compiere una performance pubblica: in questo caso, l’ansia è provocata dalla paura del giudizio sociale (Zhang e coll., op. cit.).

Alla base dell’ansia sociale c’è una scarsa autostima, come messo in evidenza da van Tuijl e coll. (2014), citati in Zhang e coll. (op. cit.). Per evitare le situazioni problematiche, l’individuo mette in atto delle condotte di evitamento. Questi comportamenti impoveriscono sempre di più il soggetto della ricchezza delle interazioni sociali e riducono ulteriormente l’autostima (Zhang e coll., op. cit.).

 

Ansia sociale e conformismo nell’adolescenza

Uno studio (Zhang, Deng, Yu, Zhao e Liu, 2016) compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo.

Questa indagine ha coinvolto 152 soggetti adolescenti, di più istituti scolastici della regione cinese di Gansu. È stata considerata questa fascia di età, in quanto il rapido sviluppo corporeo, le insicurezze relative alla propria immagine corporea, il cattivo rapporto con gli adulti, la grande attenzione al giudizio dei coetanei determinano un incremento dell’ansia sociale (Zhao e coll., 2014). Sovente, come diverse ricerche hanno rilevato, gli adolescenti tendono a lenire la loro ansia sociale con l’alcol. Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri (Zhang e coll., op. cit.).

Lo studio dei ricercatori cinesi, quindi, ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

Per sondare il grado di ansia sociale è stata adoperata una scala di valutazione (SAS – C), adatta all’età evolutiva. Per indagare le cognizioni relative al disagio, derivante dall’esposizione sociale, si è usato un questionario strutturato, predisposto per tale scopo. Per verificare il grado di conformismo sociale è stata utilizzata una prova al computer, nella quale sono state presentate delle figure geometriche in coppia. Ai ragazzi è stato chiesto di verificare l’uguaglianza delle due figure, ovvero se esse erano uguali oppure presentavano delle difformità di grandezza. Contemporaneamente sullo schermo del computer compariva la risposta data al quesito dalla maggior parte dei coetanei.

La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più ai giudizi espressi dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

Stress lavoro correlato nell’ASST di Lodi: analisi dei dati del 2015

Stress lavoro correlato: A seguito dell’approvazione del Testo Unico 81 del 2008 (art.28), la tematica “stress” è diventata sempre più protagonista della Sicurezza sul Lavoro.
In questo scenario, l’ASST di Lodi ha attivato programmi di Prevenzione dello Stress lavoro correlato attraverso visite psicologiche preventive per i neo-assunti e di sostegno psicologico.

I. Cacciatori, C. Grossi , S. Marazzina
U.S.S.D. Psicologia Clinica, Dipartimento Salute Mentale, Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) di Lodi – Area di Psicologia del Lavoro

 

Abstract

Durante queste visite oltre all’anamnesi personale e lavorativa vengono somministrati dei test volti a fornire indicatori della presenza di eventuali fattori di rischio psicosociale, burnout e stress lavoro correlato.
I dati del presente articolo riportano una descrizione di quanto raccolto dai referti effettuati nell’anno 2015, da cui è emersa una differenza relativa al genere ed all’età, una differenza nel numero di prime visite e di visite a richiesta in fasce d’età di 10 anni, riportando dati significativi a riguardo. E’ stata fatta inoltre una suddivisione per visualizzare il numero di colloqui di cui hanno avuto bisogno pazienti inviati dal Medico Competente.
Le analisi dei dati hanno inoltre riportato una classificazione dei test maggiormente utilizzati, cui fa capo la Resilience Scale e la percentuale di soggetti che si sono mostrati resilienti e quanti a rischio di burnout, analizzando nello specifico le varie sottoscale del MBI.
Infine è stata valutata la percentuale di soggetti a cui è stato indicato un trasferimento e quanti invece hanno concluso con un percorso di counselling, evidenziando così l’efficacia del processo.

Introduzione: lo stress lavoro correlato

L’interesse per lo stress e per le sue manifestazioni è andato gradualmente crescendo nel corso degli ultimi trent’anni.
In tutti i settori lavorativi e nell’ambito di alcuni governi Nazionali, si è verificata una crescente convinzione che l’esperienza dello stress nella vita moderna, come sul lavoro, ha delle conseguenze indesiderate per la salute e la sicurezza degli individui nonché per la salute delle organizzazioni o degli ambienti sociali (Ferrari, 2012).

L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute nel Lavoro definisce lo stress lavoro correlato come [blockquote style=”1″]la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste.[/blockquote]

Tale condizione, determinata da fattori legati al contesto lavorativo, alle attività svolte e all’organizzazione del lavoro, ha conseguenze non solo sul benessere dell’individuo (patologie cardiovascolari, immunitarie, gastrointestinali, ecc.), ma anche sul benessere dell’azienda in cui esso lavora.
Successivamente all’approvazione del Testo Unico 81 del 2008 (articolo 28), la tematica è diventata sempre più protagonista nella Sicurezza sul Lavoro.

Il rischio da Stress Lavoro Correlato interessa tutte quelle figure caricate da una duplice fonte di stress: personale e della persona oggetto d’aiuto. Esso in particolare colpisce i medici e le altre figure sanitarie, compresi volontari e studenti, gli addetti ai servizi di emergenza, tra cui poliziotti e vigili del fuoco, psicologi, psichiatri e assistenti sociali, sacerdoti e religiosi, insegnanti ed educatori, avvocati e ricercatori.
In questi soggetti, se non opportunamente seguiti, può iniziare a svilupparsi un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato (burnout).

Il burnout comporta esaurimento emotivo, depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento di ridotta realizzazione personale. Il soggetto tende a sfuggire l’ambiente lavorativo assentandosi sempre più spesso e lavorando con minor entusiasmo ed interesse, a prova della frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi. Il burnout si accompagna spesso ad un deterioramento del benessere fisico, a sintomi psicosomatici come l’insonnia e psicologici come la depressione. I disagi si avvertono dapprima nel campo professionale, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale: l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive ed il rischio di suicidio sono elevati nei soggetti affetti da burnout (Tomei et. al., 2013).

E’ importante raccogliere quindi una serie complessa di informazioni sulla qualità di vita e di lavoro della persona per poterne fare una valutazione omogenea riguardante la condizione psicologica legata allo stress lavoro correlato, quali: informazioni sulla sua condotta al lavoro (assenteismo, cambio di mansione o assenza per malattia); l’ambiente di lavoro nel quale opera, quali sono i rischi legati alle mansioni svolte; il rapporto con i colleghi e con i superiori nel posto di lavoro; le strutture relazionali fuori dal contesto lavorativo; le aspettative di realizzazione personale legate a quella determinata occupazione e la gratificazione che da essa ne deriva.

Prevenzione dello stress lavoro correlato e sostegno psicologico nell’ASST di Lodi

L’ASST di Lodi ha attivato programmi di Prevenzione dello Stress lavoro correlato attraverso il supporto dell’U.S.S.D Psicologia Clinica-Area di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione.
I dati che saranno presentati in seguito riguardano nello specifico le visite psicologiche effettuate dal servizio di Psicologia del lavoro nell’anno 2015 suddivise in preventive per i neo-assunti e di sostegno psicologico per i già dipendenti dell’Azienda.

Nel primo caso, il nuovo dipendente viene inviato ed invitato dal medico competente dell’ASST ad effettuare un colloquio psicologico finalizzato a rilevare eventuali fattori di vulnerabilità e/o di rischio legati alla mansione e fornire informazioni inerenti la gestione del rischio da stress lavoro correlato.
Nel secondo caso, invece, si offre ai lavoratori un supporto psicologico volto a sostenere il dipendente in situazioni di difficoltà lavorative a diversi livelli.

I soggetti: dati strutturali

Nell’anno 2015 sono entrati in contatto con il servizio di Psicologia del lavoro 75 soggetti, quasi il doppio rispetto al 2014, che ne registrava 40. Di questi 75 si sono presentati fisicamente presso il nostro ufficio 67 casi (vedi grafico 1).

Grafico 1: stress lavoro correlato nell' ASST di Lodi
Grafico 1: Soggetti entrati in contatto con il servizio di Psicologia del Lavoro

Come evidenziato dal grafico 2 sotto riportato, la distribuzione secondo il genere di coloro che si sono presentati rileva una consistente maggioranza del genere femminile (52 casi) con una percentuale sul campione pari al 77% dei casi.

Grafico 2: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 2: Distribuzione dei soggetti per genere

I dipendenti hanno un’età compresa tra i 21 e i 60 anni ed emerge una chiara collocazione prevalente nelle fasce inferiori ai 40 (di 7 soggetti il dato non è pervenuto).
Il grafico 3 riporta la distribuzione dei soggetti per fasce di età, comprendenti ciascuna un range di 10 anni.

Grafico 3: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 3: Distribuzione dei soggetti per fasce d’età

E’ stata effettuata un’ulteriore suddivisione del campione, in relazione all’accesso a questo ambulatorio:
prime visite, di esclusiva pertinenza dell’ufficio di psicologia del lavoro
visite a richiesta, che comprende i dipendenti inviati sotto suggerimento del medico competente, gli accessi spontanei e coloro che sono stati inviati dal responsabile della Unità Operativa, i quali vengono sottoposti all’attenzione del servizio di counselling psicologico presso l’ufficio di psicologia clinica a cui fa capo la dottoressa Ivana Cacciatori.
Come si vede dal grafico 4, si è riscontrata una percentuale significativa di prime visite tra i 21 e i 40 anni, mentre una percentuale significativa di visite a richiesta è stata riscontrata nella fascia d’età che va dai 41 ai 60 anni, con progressivo aumento tra i 51 e 60.

Grafico 4: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 4: Distribuzione dei soggetti per fasce d’età in relazione al tipo di accesso

Sul totale dei soggetti, osservando le percentuali nel grafico sotto riportato, la maggior parte, il 63%, si sono presentati per una visita preventiva come neo-assunti, il 23% hanno richiesto la visita personalmente, il 13% è stato inviato dal medico competente e l’1% è stato inviato sotto suggerimento del responsabile della propria Unità Operativa. Nessun soggetto si è presentato per una visita a richiesta del Responsabile dell’U.O. in cui lavora (grafico 5).

Grafico 5: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 5: Distribuzione del campione totale per tipologia d’invio

Sono stati valutati inoltre il numero di colloqui a cui sono stati sottoposti i dipendenti giunti al nostro ambulatorio tramite invio da parte del medico competente (vedi grafico 7).
L’analisi dei dati riporta una maggioranza significativa per 2 colloqui.

Grafico 7: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 7: Distribuzione per numero di colloqui dei dipendenti con invio da parte del MC

Dati relativi ai test somministrati

Sia durante le visite preventive che durante quelle a richiesta del lavoratore/medico competente/responsabile U.O. possono essere somministrati ai soggetti dei test volti a fornire indicatori della presenza di eventuali fattori di rischio psicosociale, burnout e stress lavoro correlato.
I test utilizzati nel servizio di Psicologia del lavoro sono i seguenti:
Resilience Scale (Wagnild and Young) – Scala della Resilienza
MBI – Maslach Burnout Inventory
TAS – Toronto Alexithymia Scale
Test di Ferrari e Sinibaldi
BPI – Burnout Potential Inventory
WSRQ – Work Stress Risk Questionnaire
ProQUOL – Professional Quality of Life
Beck Depression Inventory
ASQ – Anxiety Scale Questionnaire (Scala d’ansia IPAT)

Bisogna considerare che il test, in qualità di strumento diagnostico ed in relazione alle sue specificità, è stato e viene tutt’ora somministrato a discrezione dello psicologo che si occupa di diagnosi, nella misura e con la frequenza necessari ad individuare le peculiarità di interesse clinico: proprio in ragione di questa specificità e singolarità nella funzione diagnostica, alcuni soggetti possono essere stati esclusi dalla somministrazione di tali strumenti, mentre altri pazienti possono essere stati sottoposti a più prove testistiche.
Ne emerge un quadro complessivo variegato che conta un numero totale di test eseguiti pari a 109 distribuiti come segue

Grafico 8: stress lavoro correlato nell' ASST di Lodi
Grafico 8: Distribuzione per test eseguiti

Appare immediatamente evidente come la scala che misura la resilienza (Resilience Scale di Wagnild e Young) appaia come la più somministrata.

Resilience Scale di Wagnild e Young

Scala di autovalutazione elaborata da Wagnild e Young nel 1993, con lo scopo di misurare la resilienza disposizionale negli adulti.
La resilienza è il processo di fronteggiamento e superamento degli effetti legati all’esposizione a fattori di rischio o eventi traumatici. Viene vista come la capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente. La versione del test somministrata presso l’ufficio di Psicologia del Lavoro consta di 10 item, con scala Likert a 7 punti (1 “fortemente in disaccordo”;7 “pienamente in accordo”).

Interpretazione dei risultati del test

I punteggi hanno un range che va da 10 a 70, suddiviso nelle seguenti categorie:
Resilienti (con un punteggio uguale o maggiore di 59)
Mediamente resilienti (con un punteggio tra 48 e 58)
Non resilienti (con un punteggio inferiore o uguale a 47)

Le persone resilienti sono capaci di adattarsi e resistere di fronte alle difficoltà, hanno una buona capacità di mantenere il controllo, di attuare strategie di coping e ricerca di risorse ambientali per fare fronte alle sfide della vita. Le persone mediamente resilienti sono generalmente in grado di fare fronte ad eventi stressanti; risentono tuttavia della qualità e della quantità di questi eventi e di conseguenza riescono ad affrontarli con una varietà di modi non sempre perfettamente e propriamente adattivi. Le persone non resilienti sono invece quelle persone che generalmente soccombono di fronte alle difficoltà.

Dalle rilevazioni testistiche nell’arco del 2015 i dati relativi alla resilienza dei casi analizzati attraverso la Resilience Scale di Wagnild e Young emerge quanto segue:
resilienti il 49%
mediamente resilienti il 35%
non resilienti il 16%

Grafico 10: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 10: Distribuzione dei casi a cui è stata somministrata la Resilience Scale di Wagnild e Young

Maslach Bornout Inventory

Si tratta di un questionario sviluppato nel 1981 da Maslach e Jackson e composto da 22 items, volti a stabilire se nell’individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. Ad ogni domanda, il soggetto deve rispondere segnando un valore da 0 a 6 per indicare l’intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa.
Esso affronta tre diversi campi della professionalità:
esaurimento emotivo
depersonalizzazione
gratificazione personale.
Esaurimento emotivo: la dimensione attinente alla sfera del sentire: il soggetto si sente sfinito, svuotato dal punto di vista emozionale, senza più forza per ricominciare. Le sue risorse emozionali sono consumate e non c’è modo di reintegrarle. La sensazione del soggetto è quella di aver oltrepassato i limiti, di aver esaurito le proprie energie psicologiche, senza una sorgente da cui poter attingere. La persona si sente incapace di rilassarsi e recuperare, sente che non ha più energie da spendere per l’altro (Maslach & Leiter, 2012).
Come evidenziato nel grafico 11, il 40% dei soggetti presenta un livello di esaurimento emotivo basso, mentre il 43% di loro presenta un livello di esaurimento emotivo alto.

Livello di esaurimento emotivo medio è stato riscontrato nel 17% dei casi.

Grafico 11: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 11: Distribuzione secondo il livello di esaurimento emotivo al test MBI
Depersonalizzazione: è la dimensione attinente alla sfera interpersonale: il soggetto “esaurito” non ha più energia disponibile per l’aiuto all’utente. Perciò gradualmente si ritira dalla relazione, instaurando un atteggiamento di indifferenza/insofferenza verso i bisogni degli altri ed un cinico disinteresse verso i loro sentimenti. Come conseguenza spesso si sviluppa un senso di colpa e un disconoscimento di sé da parte dell’operatore che vede nel suo comportamento rinnegate le motivazioni iniziali che l’avevano spinto a scegliere proprio quella professione (Maslach & Leiter, 2012).
Nella casistica presente nei nostri archivi 2015 un livello di depersonalizzazione alto è stato rilevato nel 39% dei casi; un livello medio nel 39% dei casi; mentre un basso livello di depersonalizzazione nel 22% dei casi.

Grafico 12: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 12: Distribuzione secondo il livello di depersonalizzazione al test MBI
Gratificazione personale: è la dimensione autoriflessiva: il soggetto si chiede se il ruolo che ricopre è adatto alle proprie capacità. Inizia un sentimento di inadeguatezza circa la propria capacità di stare in relazione con l’altro che può condurre ad un vero e proprio verdetto di fallimento. Le conseguenze possono essere crollo di motivazione, perdita dell’autostima e depressione.
Nelle valutazioni del 2015 sono emersi questi dati in relazione alla gratificazione personale:
il 48% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale BASSO;
il 39% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale MEDIO;
il 13% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale ALTO.
Il livello di gratificazione personale corrisponde al valore inversamente proporzionale rispetto al rischio burnout.

Grafico 13: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 13: Distribuzione secondo il livello di gratificazione personale al test MBI

Indicazioni al trattamento dello stress lavoro correlato

In relazione al campione delle visite a richiesta si è proceduto con una analisi secondo indicazioni al trattamento.
Nello specifico, in un processo di analisi delle singole casistiche, è stata registrata come si vede dal seguente grafico l’indicazione di trasferimento di posizione lavorativa o il suggerimento ad un percorso di counselling psicologico. I dati riportano una percentuale di suggerimento evidentemente bassa.

Grafico 14: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 14: Distribuzione delle indicazioni al trattamento del campione inviato dal MC

Conclusioni

Dall’analisi dei dati emerge una maggior presenza del genere femminile, con una percentuale più elevata di prime visite nel range d’età che va dai 21 ai 40 anni, mentre si riscontra la maggior percentuale di visite a richiesta nella fascia d’età che va dai 41 ai 60 anni, da sottolineare inoltre un aumento significativo delle visite a richiesta specialmente nella fascia d’età che va dai 51 ai 60 anni.
I dati mostrano che tra le visite a richiesta, la maggior parte sono a richiesta del lavoratore, seguite da quelle a richiesta del medico competente, mentre in percentuale decisamente inferiore quelle a richiesta del responsabile dell’U.O. Nella maggior parte dei casi il soggetto ha avuto bisogno di un massimo di due colloqui.

Questi dati sottolineano l’importanza di una gestione organizzativa del personale differenziata.
Il test maggiormente utilizzato, è la Resilience Scale. La maggior parte dei soggetti a cui è stato somministrato questo test riporta buone capacità di resilienza. Un altro test utilizzato spesso nel 2015 è l’MBI; le analisi dei dati relative alle sottoscale dell’MBI sono state precise: la maggioranza dei soggetti ha manifestato alto esaurimento emotivo, alta depersonalizzazione e bassi livelli di gratificazione personale.
L’ analisi delle singole casistiche, ha riportato una percentuale d’indicazione di trasferimento di posizione lavorativa e la necessità di un percorso di counselling psicologico bassa, fattore che dispone a favore dell’efficacia del processo in relazione all’indice UP-DOWN SIZING proposto dalla Regione Lombardia c.c. 18/11/2010.

La lettura dei dati permette di evidenziare come l’esistenza di un servizio di integrazione alla sorveglianza sanitaria, a supporto dell’attività del Medico Competente, consenta ai dipendenti di richiedere un supporto psicologico e al Medico Competente di indicare/prescrivere una valutazione SLC così da prevenire eventuali ritorsioni negative individuali ed organizzative. I dati riportano che degli interventi erogati analizzati (il 37% del campione totale) il 74% ha avuto una remissione sintomatica con un numero medio di 2 colloqui, contro il 26% dei casi non gestiti che continua a perpetrare l’indicatore Up Down Sizing (spostamenti interni del personale dipendente).

Le ipotesi ragionevoli per futuri sviluppi sono la possibilità di rendere più omogenea, la somministrazione dei test: fornire una baseline comune a tutti i soggetti (o perlomeno ai neoassunti) consentendo l’analisi del rischio di stress lavoro correlato in un percorso di costante monitoraggio.
Tale approccio è già stato in buona parte concretizzato dalla somministrazione diffusa del test Resilience Scale di Wagnild e Young.

 

Disoccupazione: la CBT riduce i sintomi depressivi e migliora il processo di ricerca di un nuovo impiego

Tra i disoccupati, coloro che permangono in questa situazione per un lungo periodo di tempo, risultano significativamente più a rischio di sviluppare depressione rispetto alla popolazione generale di riferimento. 

 

La disoccupazione è uno dei problemi maggiormente riscontrabili nella società odierna e correla con la sintomatologia depressiva (Jefferis et al., 2011; Lerner et al., 2004). In particolare, tra i disoccupati, coloro che permangono in questa situazione per un lungo periodo di tempo, risultano significativamente più a rischio di sviluppare depressione rispetto alla popolazione generale di riferimento (Mossakowski, 2009; Paul & Moser, 2009).

Una nuova ricerca stabilisce come l’impiego delle principali tecniche cognitivo-comportamentali (CBT) di norma insegnate ai pazienti depressi, si configuri come predittore del successo nel trovare un lavoro.

Secondo i risultati ottenuti dal team di ricercatori della Ohio State University, la capacità di identificare i pensieri negativi e in seguito di reinterpretarli in maniera più positiva per generare risposte comportamentali adattive, aiuterebbe di molto il processo di ricerca di un nuovo lavoro. Tra l’altro, tali abilità permetterebbero di pianificare quotidianamente attività piacevoli, tese a migliorare l’umore.

Perciò, quando impiegate dal soggetto disoccupato, di sovente incline a provare sentimenti di sconforto e più in generale negativi, le tecniche CBT sarebbero in grado di migliorare l’umore del soggetto e incrementare la sua disposizione a cercare lavoro.

Secondo il dott. Daniel Strunk, co-autore dello studio e professore associato di psicologia presso la Ohio State University, questo sarebbe il primo disegno di ricerca in grado di dimostrare gli effetti delle tecniche cognitivo-comportamentali non sono sui sintomi depressivi, ma anche sul funzionamento e sulle attività quotidiane.

Lo studio ha coinvolto 75 disoccupati con età compresa tra 20 e 67 anni, i quali erano invitati a compilare un sondaggio online, ricompilato poi 3 mesi dopo il primo. Tale sondaggio includeva una serie di questionari che misuravano i sintomi depressivi e una serie di variabili psicologiche, come disposizioni disfunzionali, rimuginio e stili di pensiero negativi (i.e., lo stile di pensiero che determina attribuzioni stabili e globali riguardo gli eventi spiacevoli o stressanti e una percezione globalmente negativa di se stessi).

Oltre a ciò, i soggetti rispondevano a delle domande che indagavano la loro disposizione a mettere in pratica abilità tipicamente insegnate nella cornice teorica cognitivo-comportamentale, come il prestare attenzione ai pensieri negativi. Infatti, avere consapevolezza della negatività dei propri pensieri automatici e delle relazioni intercorrenti tra pensieri ed emozioni, edulcora il vissuto emotivo del paziente al presentarsi di un evento stressante e sprona lo stesso a reinterpretare in modo positivo i propri pensieri.

Altre tecniche, invece, si concentrano sui compiti comportamentali, come ad esempio la frammentazione dei compiti più scoraggianti in svariati step, che a primo acchito risultano meno frustranti e più semplici da portare a termine.

Riportiamo un breve elenco degli strumenti impiegati dal team; per maggiori informazioni si veda in bibliografia il link dell’articolo originale:

  • Expanded Attributional Style Questionnaire Short Form (EASQ-SF): questionario di 12 item valutante lo stile di pensiero negativo.
  • Ruminative Response Scale (RRS): questionario di 22 item che misura la tendenza dell’individuo ad indugiare in pensieri ruminativi.
  • Dysfunctional Attitude Scale (DAS): questionario di 40 item che misura le credenze relative alla felicità, al perfezionismo, alla dipendenza sociale, basato sulla teoria della depressione di Beck.
  • Cognitive-Behavioral Avoidance Scale (CBAS): questionario di 31 item che valuta l’evitamento, caratteristica presente nella depressione.
  • Competencies in Cognitive Therapy Scale (CCTS): questionario di 29 item che misura la padronanza delle abilità generalmente insegnate dai terapeuti CBT.
  • Job Search Self-Efficacy Scale (JSSE): questionario di 10 item che valuta l’abilità percepita del soggetto nel completare una serie di attività lavorative.
  • Depression Anxiety Stress Scale (DASS): questionario di 42 item comprendente 3 sottoscale valutanti la sintomatologia depressiva, ansiosa e lo stress.

Dalle analisi preliminari si osservava che un terzo dei partecipanti riportava una sintomatologia depressiva da moderata a grave, sebbene è giusto ricordare che attraverso un solo questionario non era possibile porre diagnosi in tal senso. Il rimanente terzo del campione totalizzava punteggi corrispondenti ad una sintomatologia depressiva assente o lieve.

Ciò che è emerso dallo studio è che i soggetti che riportavano di impiegare più spesso le tecniche CBT, erano gli stessi che mostravano nei tre mesi successivi un miglioramento nell’umore e che contemporaneamente ricevevano più offerte di lavoro nello stesso periodo (p = .008).

Ciò che colpisce è che per testare la possibilità che la sintomatologia depressiva si riduca a causa della offerta di lavoro ricevuta, i ricercatori hanno utilizzato lo status lavorativo (offerta di lavoro ricevuta o meno) presente nel follow-up per valutare se questo era in grado di predire il cambiamento dei sintomi depressivi, ma la relazione ottenuta nella regressione non risultava significativa (p = .43). Osservando i risultati delle analisi statistiche, solo le competenze CBT risultavano in grado di predire il miglioramento nell’umore e della disposizione a cercare lavoro; le altre variabili non ottenevano valori significativi.

Concludendo, sembrerebbe che molti disoccupati in cerca di lavoro potrebbero scoraggiarsi a seguito di continui rifiuti da parte delle aziende. Tuttavia, persistere ed utilizzare tecniche CBT permetterebbe ai soggetti in questione di evitare lo scoraggiamento, disposizione che, in ultima analisi, predisporrebbe all’incremento della sintomatologia depressiva.

Anomalisa ovvero l’arte del contatto umano nelle differenze individuali

Anomalisa è un film di animazione molto originale. E’ stato definito “il film più umano dell’anno” anche se, pensate un po’, di umani non ne compaiono affatto. Ed è una occasione utile per discutere dell’incapacità di amare dal momento che regala a chi lo guarda, a patto di essere spettatori attenti e pazienti, la chiave per l’interpretazione di quella tragica cecità relazionale che va sotto il nome di narcisismo.

Anomalisa: la trama del film

Micheal Stone è un oratore motivazionale, placidamente sconcertato da ciò che vede attorno a sé: le persone hanno tutte lo stesso volto. La sua famiglia, moglie e figlio, la stessa voce. All’interno dell’albergo in cui soggiorna per lavoro conosce una donna, un’anomalia di nome Lisa che gli regala la capacità di tornare a giocare il gioco più importante della vita: l’arte di conoscersi.

L’ideale di perfezione e l’inevitabile delusione in Anomalisa

Quando perdiamo interesse verso le altre persone, dopo che l’ideale salvifico di perfezione che vi avevamo scorto lascia il posto agli umani difetti, tutto crolla, e l’idea di avere avuto a che fare con un essere speciale che poteva riempire il nostro vuoto lascia il posto a un mito da cestinare. E’ un modo per dirlo, per descrivere ciò che succede alle persone che hanno bisogno di utilizzare gli altri per riportare l’autostima a livelli di sopravvivenza. Ma si sa, l’idealizzazione ha il suo mortale nemico nella realtà psicologica della persona che è di fronte a noi e prima o poi tutto cessa. Ci ritroviamo soli, in una terra desolata dove nessun altro può raggiungerci. Non contenti, ci ripetiamo che la colpa è degli altri. Prima o poi smettiamo di cercare. Ci sentiamo condannati a vivere una affollata solitudine. La realtà diventa una tela dipinta da gente noiosa che non smette di deluderci.

Nell’esperienza dell’infelicità narcisistica, se iniziando a conoscere qualcuno ci sembrerà di cogliere qualcosa di negativo (diciamo pure il chiaro segno di qualcosa che non ci piace) potremmo automaticamente iniziare a credere (grazie a un vero e proprio pensiero automatico che opera al di fuori della coscienza, ma che nondimeno è in grado di guidarci nelle azioni) di essere di fronte proprio a quel tipo di persona che tanto odiamo, lo stesso tipo di persona che ci ha fatto soffrire in passato e che prima o poi si rivelerà una delusione proprio come tanti altri. E questo è un modo per difendersi dall’intimità. Ma vale anche al contrario: quante volte, sulla base di qualche indizio di circostanza ci sforziamo di vedere nella novità che abbiamo di fronte proprio quel tipo di persona che tanto desideravamo? E quante volte in seguito ci ritroviamo inevitabilmente delusi? Profondamente risentiti. “Sono tutti uguali” recita la cantilena che infliggiamo al nostro migliore amico che non riesce a consolarci.

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Riconoscere le differenze individuali nel rapporto con le persone

Le differenze individuali, le anomalie, creano il valore intrinseco dell’esistenza sociale ma per qualcuno evitarle può essere rassicurante. La scarsa differenziazione dei personaggi di Anomalisa, tutti uguali, sembra suggerire che nel vuoto relazionale del narcisismo patologico, il mondo diventa una estroflessione delle nostre difficoltà a comunicare; gli altri il bersaglio di proiezioni intense che ne cancellano l’individualità.

La soluzione, la chiamata per il cambiamento sta nell’ascolto, sta nelle anomalie. Nella capacità di capirle come se fossero le nostre. I circuiti specchio fanno il loro dovere e finalmente la “magia” si compie. Siamo abituati a pensare che solo impronte digitali e volti siano unici e non replicabili. Ma al mondo non esistono due cuori anatomicamente uguali per forma e per dimensione, e magari neanche per tono di rosso. Non esistono due risate identiche o due pensieri uguali. Ascoltarli sarebbe la soluzione. D’altronde gli esperti insistono: non esiste altra cura che l’empatia per il narcisismo.

Ogni giorno, anche mentre si fa la spesa, quando intravediamo un’anomalia sul volto di qualcun altro, nella sua voce, in una cicatrice, nel modo in cui fa qualcosa, abbiamo già iniziato a vederlo nella sua individualità, perché [blockquote style=”1″]ogni persona che incontrate è un individuo. Proprio come voi. Ogni persona a cui parlate ha avuto la sua giornata. Ogni persona a cui parlate ha avuto un’infanzia. Tutti hanno un corpo, e ogni corpo..ha sofferto.[/blockquote]

In sostanza, quando ci accorgiamo degli altri, gli altri ce ne sono grati. Se rimaniamo nel presente senza attaccare nè fuggire, l’ansia presto sparirà. E saremo finalmente artisti della relazione e dell’incontro.
Micheal Stone questa lezione pare conoscerla bene, dal momento che la insegna agli altri, perché il suo lavoro è capire i bisogni degli altri. Ma i suoi errori sono imperdonabili. E se a parlare si fa presto (o a scrivere), mettere in pratica è tutta un’altra storia.

Neuroscienze: il lato cognitivo della corteccia motoria

E’ una regione del cervello che governa il movimento, ma non solo. Inaspettatamente si attiva anche durante lo svolgimento di alcuni compiti cognitivi. Lo studio dell’IRCCS Medea è stato appena pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience.

Comunicato Stampa

 

L’area cerebrale che si attiva quando compiamo un movimento si attiva anche quando eseguiamo compiti cognitivi, come ricordare una sequenza di numeri o parole, ascoltare una melodia, immaginare come possa apparire un oggetto da un altro punto di vista o addirittura provare empatia quando vediamo un’altra persona soffrire.

Lo dice un gruppo di ricerca dell’IRCCS Medea – la Nostra Famiglia di San Vito al Tagliamento – che ha esaminato i dati in letteratura su studi di neuroimaging, cioè quei lavori che indagavano quali aree cerebrali venivano attivate in soggetti impegnati in un determinato compito: in particolare sono stati presi in esame gli studi sulla corteccia motoria primaria, una regione del lobo frontale tradizionalmente pensata come l’area che governa il movimento.

Il lavoro, appena pubblicato sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience, modifica il ruolo di quest’area del cervello, conferendole anche una possibile dimensione cognitiva.

I ricercatori hanno eseguito uno studio di meta-analisi quantitativa combinata con l’uso di mappe dell’architettura cellulare della corteccia motoria, per verificare che effettivamente le attivazioni corticali durante compiti cognitivi avvenissero all’interno dell’area indagata e non in quelle limitrofe.

In totale sono stati analizzati dati provenienti da 126 esperimenti, 1.818 soggetti e 2.030 coordinate di attivazione cerebrale.

Ebbene, gli studi di neuroimaging indagati hanno riportato attivazione funzionale nella corteccia motoria durante sei diverse categorie di compiti cognitivi: l’immaginazione motoria, la memoria di lavoro, la rotazione mentale, l’elaborazione sociale, la lingua e l’elaborazione uditiva.

L’analisi ha evidenziato che le diverse categorie cognitive attivano in maniera consistente diversi settori dell’area motoria e ha valutato anche l’ampiezza e la localizzazione del tessuto cerebrale dedicato.

Compiti di elaborazione sociale, emozioni, empatia attivano l’area 4a dell’emisfero sinistro, compiti linguistici (elaborazione verbi di azione) attivano le aree 4a e 4p di entrambi gli emisferi cerebrali, la rotazione mentale attiva l’area 4a sinistra, la working memory attiva l’area 4a destra, la simulazione mentale dei movimenti attiva entrambe le aree 4a e 4p di sinistra, e l’elaborazione uditiva attiva l’area 4a di sinistra.

Risulta inoltre un’area comune (area 4a sinistra) che è impegnata durante lo svolgimento di compiti appartenenti a molte (4/6) delle categorie cognitive testate: quest’area corrisponde alla rappresentazione nella corteccia motoria della mano.

Il nostro lavoro conferma le nuove ipotesi che propongono un coinvolgimento della corteccia motoria anche in compiti cognitivi come il linguaggio, l’empatia, le abilità visuomotorie – spiega Barbara Tomasino, ricercatrice dell’IRCCS Medea responsabile dello studio – La nostra interpretazione è che quest’area si attivi probabilmente come prodotto della simulazione mentale, implicita o esplicita, o di meccanismi di attenzione motoria. Ovvero i soggetti potrebbero usare la simulazione mentale durante lo svolgimento dei compiti appartenenti alle sei categorie studiate, e questo attiverebbe la corteccia motoria primaria.

 

Ufficio Stampa IRCCS “E.Medea”, San Vito al Tagliamento, Italy

Binge eating: abbuffarsi fino a scoppiare

Tra i disturbi del comportamento alimentare è il più diffuso ma anche il meno noto: parliamo del Binge Eating Disorder (BED) – le abbuffate compulsive.

Articolo tratto da La Repubblica del 14 giugno 2016

 

 

Una patologia da poco inserita nel DSM – il manuale diagnostico degli psichiatri americani – e che colpisce negli USA il 2,6% della popolazione contro l’1,7%  complessivo di anoressia e bulimia.

Ne parliamo con uno dei massimi esperti mondiali, Carlos Grilo dell’Università di Yale, incontrato a Verona, dove ha tenuto la lettura magistrale al convegno dell’AIDAP.

[blockquote style=”1″]Spesso anche i sanitari non sono addestrati a riconoscere e affrontare il Binge Eating e a distinguerlo dalla bulimia: nel Binge Eating Disorder nn ci sono comportamenti compensatori come il vomito o l’uso di lassativi per controllare il peso. [/blockquote]

Spesso chi ne soffre è giudicato goloso o mangione. Ma a chiunque può capitare di prendere due tartine in più dal buffet, o fare il bis di dolce per poi dirsi che non avrebbe dovuto.

[blockquote style=”1″]Qui stiamo parlando di persone che magari cenano in compagnia e poi tornano a casa e ricominciano a mangiare, ingurgitando quantità anomale di cibo.[/blockquote]

Un malessere che ha poco a che vedere con la ghiottoneria, e molto con la perdita di controllo. I binge eaters mangiano in solitudine, provano vergogna e sensi di colpa ma quando cominciano non riescono a fermarsi anche a costo di stare male. Per fortuna non tutti gli episodi sono così acuti. [blockquote style=”1″]Per il DSM-5 si può diagnosticare il binge eating se il paziente fa abbuffate di questo tipo una volta alla settimana per almeno 3 mesi, accompagnate da un profondo malessere. [/blockquote]

Il BED è piuttosto diffuso anche tra i maschi e l’età media in cui insorge è intorno ai 21 anni. [blockquote style=”1″]Quando chi ne soffre prende a sopravvalutare la propria immagine corporea: In una società come la nostra, ossessionata dalla forma fisica tutti siamo più o meno insoddisfatti. Queste sono persone per cui il peso, la forma del corpo è una preoccupazione costante, è quello che definisce la loro identità. [/blockquote]

E’ questo il vissuto di circa la metà dei binge eaters, quelli che soffrono di più, che rispondono meno alle terapie e che spesso soffrono: oltre il 50% di depressione, il 40% di ansia, l’abuso di sostanze è frequente.

Tanto che la perdita di controllo, caratteristica del BED ha portato i ricercatori a metterlo in relazione con la dipendenza: [blockquote style=”1″]Qualche affinità c’è perchè nel disturbo c’è una componente genetica (la presenza di familiari binge eaters è un fattore di rischio) e gli studi di imaging cerebrale mostrano delle peculiarità nel circuito della gratificazione. Stiamo cercando di capire se ci sia un’iperreattività al cibo e non è escluso che ci siano affinità con chi soffre di dipendenza da sostanze o dal gioco. [/blockquote]

Ad essere una droga non è il cibo in sè, ma gli alimenti molto processati, ricchi di sale, zucchero e grassi così come i dolcificanti artificiali, potrebbero indurre una dipendenza.

 

Il binge eating - Articolo tratto da La Repubblica

Cooperazione: l’attivazione cerebrale è differente tra uomini e donne

Quando parliamo di comportamento sociale, è noto come sussistano chiare differenze di genere. Un nuovo studio suggerisce come il comportamento cooperativo non faccia eccezione.

 

Pubblicato sul The journal scientific reports, lo studio rivela che uomini e donne mostrano differenze significative nell’attività cerebrale quando si trovano ad eseguire, insieme ad altri, un compito cooperativo.

Il team di ricerca co-guidato da Joseph Baker della Standford University School of Medicine, sostiene che i risultati potrebbero far luce sulle differenze evolutive tra uomini e donne riguardo alla cooperazione. Inoltre, nuove ricerche, contribuiranno allo sviluppo di nuove strategie per promuovere e migliorare le capacità cooperative tra esseri umani, migliorando anche la clinica per il trattamento di quei disturbi riguardanti il comportamento sociale.

La ricerca è stata condotta su un campione di 222 partecipanti, dei quali 110 erano donne. Ognuno di loro era assegnato ad un rispettivo partner. Ogni coppia poteva essere così composta da due maschi, da due femmine oppure da un maschio ed una femmina.

Le coppie così formate, erano impegnate in un compito in cui avrebbero dovuto collaborare. Seduto frontalmente davanti ad un monitor, ogni partecipante doveva premere un pulsante nel momento in cui un cerchio sullo schermo del computer cambiava colore.

L’obiettivo, per ogni singola coppia, era di premere il pulsante contemporaneamente, avendo a disposizione 40 tentativi, cercando di raggiungere la migliore sincronizzazione comportamentale possibile. Durante il compito i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale di ciascun partecipante di ogni coppia.

Nel complesso il team di ricercatori ha scoperto che le coppie maschili riuscivano ad ottenere una sincronizzazione migliore rispetto alle coppie femminili. Inoltre il brain imaging ha evidenziato un’attivazione cerebrale simile tra i partner delle coppie delle stesso sesso.

E’ interessante inoltre notare che la performance cooperativa tra coppie eterosessuali era altrettanto buona, quanto le coppie maschio-maschio, ma in esse non appariva la stessa sincronia di attivazione cerebrale tra i partner.

I ricercatori sono cauti e considerano questo studio esplorativo, dato che ha considerato una sola forma di cooperazione. Per di più non è stata valutata l’intera attività cerebrale, ma ci si è soffermati solo su alcune aree. È ipotizzabile infatti che la mancanza di sincronia cerebrale rilevata nelle coppie eterosessuali, possa in realtà verificarsi in aree non indagate.

Tuttavia, i ricercatori ritengono che da questi risultati si possa partire per saperne di più sull’ evoluzione della cooperazione nei due sessi, riuscendo ad ottenere anche implicazioni di rilevanza clinica.

Invecchiamento positivo e centenari: teorie e studi sulla longevità

La ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.

Manuel Fanì Covelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Alcune teorie sull’ invecchiamento positivo

Il concetto di invecchiamento è sempre stato definito con un un’accezione negativa, una fase della vita caratterizzata da una progressiva perdita di interessi e di obiettivi. Di fronte ad una costante crescita della popolazione anziana, si è fatta strada l’ idea di una terza età non solo come un periodo di declino, ma anche come una fase costellata da nuovi progetti, attività e vita sociale.

Di pari passo, la ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.

Tra i primi studiosi a proporre una teoria ci furono Rowe e Khan (1987, 1997): l’ invecchiamento “di successo”, a differenza di quello patologico e quello usuale, è caratterizzato da un’elevata funzionalità a livello generale e da bassi rischi di patologie e disabilità correlate ad esse (ne è un esempio l’osteoporosi, che va ad inficiare la fragilità ossea aumentando il rischio di fratture). Elevate capacità fisiche ed un mantenimento di buone capacità cognitive, come nel problem solving e nell’apprendimento di nuove competenze, permetterebbero un positivo livello generale di funzionamento che getterebbe le basi per una fase di vita attiva e produttiva, due fattori che andrebbero a rinforzare il concetto di autoefficacia percepita (Bandura, 2000), sottostante alla credenza di poter intervenire sulla propria vita in maniera diretta e funzionale.

Uno dei maggiori studiosi dell’ invecchiamento, Baltes, nella sua definizione di sviluppo dell’uomo ha stabilito come principio base la dialettica “guadagni-perdite”: l’età anziana sarebbe predominata da perdite, a differenza dell’adolescente. Queste perdite verrebbero affrontate grazie a due concetti fondamentali della teoria: le risorse e le riserve. Le risorse, fisiche, cognitive e di personalità sono in relazione sistemica, ed in caso di declino esse verrebbero intaccate seguendo un “processo a cascata”. Le riserve invece sono rappresentate da tutte quelle capacità, competenze e nozioni apprese durante l’arco di vita che potrebbero venir sfruttate proprio nella terza età per riorganizzare e rivalutare la propria vita (ad esempio dopo il pensionamento o di fronte ad un importante lutto). Il culmine della teoria di Baltes che spiega come sia possibile un invecchiamento positivo è dato da un insieme di strategie di Selezione, ottimizzazione e compensazione, che applicate in maniera coordinata permetterebbero all’individuo anziano di minimizzare le perdite e massimizzare i guadagni per indirizzare autonomamente la sua vita (Baltes e Baltes, 1990).

La teoria della “selezione socio-emozionale” proposta dalla Carstensen (Carstensen, Isaacowitz, Charles, 1999; Lang, Carstensen, 2002) va a focalizzarsi sulla diversa percezione del tempo da parte dell’anziano rispetto alle altre fasi della vita: una percezione del tempo come limitato porterebbe gli individui a regolare il loro approccio alla vita seguendo una via più “conservatrice”. L’ invecchiamento positivo sarebbe così il risultato di una selezione e ottimizzazione di quelle relazioni più consolidate e capaci di dare una maggior sicurezza e una maggior vicinanza emotiva, “scartando”, invece, quelle più superficiali e negative. Questo processo di ristrutturazione sarebbe mosso da un cambiamento di obiettivi: Se nella gioventù prevalgono obiettivi di espansione del Sè, nell’età anziana vi è una ricerca di conferma del sé e questo può avvenire solo tramite il supporto di una rete sociale capace di fornire un’adeguata intimità relazionale centrata su emozioni positive.

Le teorie illustrate sinora hanno mostrato una certa passività da parte dell’anziano nel suo contesto sociale o, comunque, si sono focalizzate su un intervento compensativo. La recente teoria formulata da Kahana e Kahana (Kahana, Kahana et al., 2002; Kahana, Kahana, Zhang, 2005) vede l’anziano in un’ ottica proattiva, capace attivamente di intervenire sul proprio ambiente. In questo modello teorico due variabili entrano in gioco nell’ invecchiamento positivo: i fattori socio-culturali, come ad esempio l’aver vissuto in prima persona una guerra, e l’esposizione ad eventi stressanti, quali possono essere un divorzio o un lutto. L’anziano riesce a fronteggiare questi due aspetti critici grazie alle proprio risorse interne, come una buona percezione di sé, una buona autoefficacia ma anche una buona motivazione nell’investire il proprio tempo in attività fisiche, e alle proprie risorse esterne come l’avere una buona capacità economica ed una rete sociale. Oggi, inoltre, hanno una particolare rilevanza anche le risorse emergenti quali l’utilizzo del Pc e la navigazione nel Web (come evidenziato dagli stessi autori).

La combinazione di queste risorse permetterebbe l’attuazione di comportamenti e strategie preventive finalizzate ad un invecchiamento di successo e alla prevenzione dei disturbi e delle malattie.

Progettare l’ invecchiamento positivo

Ma come è realmente possibile prevenire quei disturbi e quelle malattie che potrebbero ridurre il proprio benessere fisico, psicologico e sociale durante la terza e quarta età? Quali sono i fattori protettivi della salute che risulterebbero importanti per un adeguato invecchiamento positivo?

Essi possono essere definiti come un insieme di circostanze che contrasterebbero l’azione dei fattori di rischio, fattori che possono aumentare la probabilità di perdere la salute o di comprometterla e possono essere di natura individuale o di natura sociale. Tra i primi vanno annoverati le caratteristiche individuali di personalità, come ad esempio l’estroversione che favorirebbe l’instaurarsi di una buona rete sociale e amicale, permettendo ad un individuo anziano di percepirsi amato e valorizzato.

Un altro fattore protettivo è la capacità di “progettare” la salute e il benessere: secondo Rutter e Rutter (1995) l’uomo mette in atto delle catene longitudinali, cioè delle scelte o dei comportamenti che messi in atto in un preciso momento avrebbero dei vantaggi (o svantaggi) a lungo termine, instaurando una spirale continua di piccoli effetti. Si pensi ad un anziano che inizia a frequentare un’università della terza età: questa scelta comporterà l’accrescimento delle conoscenze, l’allenamento delle capacità cognitive e l’ampliamento della propria rete sociale, o ad un altro che decide di smettere di fumare e seguire una dieta equilibrata.

La resilienza in età anziana, definita da Staudinger et al. (1999) come la capacità di gestire in modo costruttivo gli eventi critici della vita, sarebbe una forza motrice alla base di un comportamento strategico, capace di motivare l’anziano ad investire in nuovi obiettivi di vita, di vedere il futuro lì dove non c’è.

Baltes propone un sistema integrato di risorse, che insieme concorrerebbero a determinare buoni livelli di funzionamento e benessere:
Risorse senso-motorie: intese come una buona autonomia e capacità fisica, ad esempio avere un buon udito o una buona vista;
Risorse cognitive: risorse correlate all’efficienza intellettiva generale: avere una adeguata flessibilità cognitiva per adattare il proprio pensiero a situazioni e problemi nuovi.
Risorse di personalità: dipendenti dai propri tratti di personalità e da come essi vengano espressi;
Risorse sociali: avere il supporto di una buona rete sociale.

Ogni tipologia di risorsa, secondo Baltes e Lang (1997) avrebbe una diversa velocità di declino. Tramite diversi studi effettuati, è stato mostrato come gli anziani con elevate risorse in tutte e quattro le categorie fossero maggiormente attivi e sani.
Conservare le risorse risulta essere di fondamentale importanza per contrastare la vulnerabilità dell’anziano all’esposizione dei fattori di rischio. Ottimizzarle, mantenerle e saperle esplicitare strategicamente, sia a livello personale che sociale, risulta essere alla base di un invecchiamento salutare e positivo.

Molte patologie croniche, come il diabete o i disturbi cardiovascolari, inoltre, possono essere prevenute adottando uno dieta sana. Una dieta mediterranea, basata su cereali, verdure, pesce ed olio d’oliva e sulla riduzione del consumo di carne a favore di un maggior utilizzo di proteine vegetali sembrerebbe ridurre il rischio di malattie neurodegenerative e di tumori (Sofi e collaboratori, 2008).

I centenari

Gli anziani che raggiungono il secolo di vita sono oggi in continuo aumento, solo in Italia se ne contano circa 8000. La psicologia sta mostrando un grande interesse per questa tipologia di anziano: molte ricerche stanno cercando di capire quali siano i fattori psicologici alla base (fattori di personalità, aspetti emotivi, processi cognitivi) per poi tentare di definire un modello teorico generale.

Sinora sono state formulate diverse classificazioni di anziani centenari, utili proprio per definire quali siano i fattori responsabili della centenarietà. Franceschi (2000) distingue tra centenari di classe A, centenari di classe B e centenari di classe C. I primi sono anziani autonomi e attivi, gli ultimi, quelli di classe C sono non autonomi e con uno stato fisico e mentale precario mentre nel mezzo ci sono i centenari che si trovano in una condizione intermedia.

Everet e colleghi (2003) propongono un’ulteriore distinzione:
Centenari “sopravvissuti”: centenari a cui è diagnosticata una demenza o un deficit cognitivo entro gli 80 anni;
Centenari “ritardatari”: centenari ai quali i deficit sono diagnosticati dopo gli 80 anni;
Centenari “fuggitivi”: anziani che hanno compiuto 100 anni “sfuggendo” ad ogni tipo di deficit.

Questi ultimi rappresentano l’èlite dei centenari ed è su questa categoria che si sono focalizzati gli studi per comprendere meglio le variabili (individuali e ambientali) che hanno interagito per permettere ad un individuo anziano di raggiungere tale età, seppure rappresentino una percentuale molto bassa, 15-20%, di tutta la popolazione centenaria.

Perls (2004) propone che questa categoria abbia fatto un largo utilizzo di processi cognitivi di riserva, che abbiano portato a resistere ai cambiamenti patologici dovuti a demenze o ad altri deficit di deterioramento cognitivo. In generale, d’accordo con le teorie sull’ invecchiamento, possiamo dire che nei centenari rimangono intatte le abilità cristallizzate, come ad esempio le conoscenze procedurali, a discapito di quelle fluide. Rimane quindi fondamentale mantenere attive ed allenate le abilità cognitive dedicandosi ad attività intellettive, come ad esempio la lettura di libri, l’apprendimento di una nuova lingua, di uno strumento musicale o ad attività più quotidiane ma che richiedano l’utilizzo dei propri processi cognitivi, come la gestione del proprio libretto dei risparmi.

La memoria, una della abilità cognitive che prima decade nell’anziano e di fondamentale importanza in una vita attiva e dinamica, mostra nella centenarietà un cambiamento più caratteristico e specifico rispetto agli altri processi mentali.

Fromholt e colleghi (2003) nei suoi studi sulla memoria autobiografica hanno mostrato come i centenari avessero una capacità mnestica simile a quella del gruppo di controllo composto da anziani più giovani, ricordando maggiormente eventi delle prime fasi dell’età adulta (15-30 anni) e ricordi più recenti. Un aspetto importante messo in luce da questi studi è quello emotivo: il task dell’esperimento consisteva nell’associare un preciso e singolo ricordo personale ad un’ immagine presentata (un oggetto, un amico, ecc.). I centenari associavano alle diverse immagini ricordi con una valenza neutra piuttosto che ricordi segnati da una valenza emotiva (Mather & Carstensen,2005).

Una spiegazione di tale comportamento potrebbe essere suggerita dalla teoria della gerostrascendenza di Tornstam (1999) secondo cui le persone che raggiungono i 100 anni di vita mettono in atto una ristrutturazione dei propri obiettivi di vita secondo una visione meno materialista e più razionale e trascendentale che comporterebbe una revisione di se stessi e delle proprie relazioni. Emergerebbe un atteggiamento disinteressato verso la vita, considerando il tempo come una variabile ormai limitata e limitante. Di conseguenza, come mostrato negli studi di Fromholt, il ricordo sarebbe distaccato e oggettivo.

Mammarella e colleghi, in uno studio del 2013, confermano ulteriormente la teoria proposta da Tornstam. I partecipanti, durante la prima fase di tale esperimento dovevano apprendere una serie di immagini randomizzate, immagini sia con una valenza emotiva che religiosa, mentre nella seconda dovevano riconoscere le immagini come vecchie, cioè se rientravano nel gruppo di immagini precedente apprese, o nuove. Il gruppo sperimentale era composto da 18 centenari con un’ età media di 100 anni, quello di controllo da 18 anziani con età media di 75 anni. Le ipotesi furono confermate: se per gli “anziani giovani” vi era una migliore performance con le immagini emotive, i centenari ricordavano un maggior numero di immagini religiose. Come ipotizzato da Tornstam, un cambiamento di atteggiamento e di priorità di vita dopo gli 80 anni influenzerebbe la codifica delle informazioni: per i centenari le immagini religiose diventerebbero più salienti rispetto a quelle emotive, correlate ad un atteggiamento più positivo ma anche più concreto.

Non sono molti gli studi sul linguaggio, l’attenzione e il ragionamento nei centenari, ma in generale è emerso come i centenari non presentino forti differenze con gli anziani più giovani in compiti di fluenza verbale (Searl, Gabel e Fulks, 2002) e di attenzione visiva (Silver e colleghi, 1998).
Tuttavia, una vita longeva non può dipendere solo dai fattori cognitivi, ma anche dalle caratteristiche di personalità, i centenari fuggitivi sono estroversi, energici, capaci di gestire i propri stati emotivi in maniera coscienziosa: essi ottengono punteggi bassi su scale di valutazione dell’ansia, mostrandosi capaci di applicare strategie di coping funzionali di fronte ad eventi stressanti e debilitanti. Non può prescindere nemmeno da un adeguato sostegno ambientale, una figura amica che possa prendersi cura dell’anziano nei momenti di bisogno. Inoltre la componente familiare delle centenarietà è molto forte, un pool di geni condivisi all’interno di una famiglia sarebbero cruciali per raggiungere il secolo di vita senza patologie debilitanti (tant’è che nei centenari si riscontrano meno mutazioni nei geni regolanti lo sviluppo delle disabilità).

Ogni singolo fattore esposto da solo sarebbe insufficiente a garantire la centenarietà, ma un’ interrelazione tra loro potrebbe garantire il raggiungimento del secolo di vita. Si attendono nuove ricerche visto il crescente interesse verso questa tematica della psicologia dell’ invecchiamento che possano meglio spiegare come i diversi fattori possano influire sulla complessità del processo.

 

Psicorock. Storie di menti fuori controllo (2016) di Gaspare Palmieri – Recensione

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

 

Il firmamento del rock è affollato di stelle sofferenti che hanno dovuto nel corso della loro vita fare i conti con varie forme di disagio psicologico. Le persone che lavorano in ambito artistico, ed in particolare in ambito musicale, infatti, sembrano soffrire di problemi psichiatrici in misura maggiore rispetto ad altre professioni.

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri, nato dalle suggestioni di un articolo dello psicologo inglese Wills (che ripercorre le biografie di diversi grandi jazzisti dell’epoca del bebop dalle vite alquanto tormentate, cercando di formulare ipotesi diagnostiche), traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

Partendo dai grandi compositori classici, passando dai geniali jazzisti del bebop, fino alle stelle del rock e del pop, l’autore prende in esame dal punto di vista clinico le storie, le biografie, le interviste e la produzione artistica di molti musicisti famosi, soffermandosi di volta in volta sui testi delle canzoni, su particolari esperienze di vita e persino sulla composizione e sul rapporto con lo strumento.

In un susseguirsi di capitoli dai titoli ironici ed evocativi (‘L’edipo rock di Jeff Buckley‘, ‘Il DOC’n’Roll dei Ramones’, ‘Brian Wilson e il controtransfert surf-rock‘, ‘Gli ambidestri rock e il corpo calloso di Jimi Hendrix‘, per citarne alcuni) l’autore racconta le storie di vita di diversi musicisti la cui strada per varie ragioni ha incrociato quella della psichiatria. Da Elvis ‘re mammone del rock e delle pillole‘, al disagio esistenziale di Kurt Cobain, alla psicosi di Syd Barrett, emerge un quadro preoccupante, in cui la presenza di sofferenza mentale supera di gran lunga la percentuale riscontrabile nella popolazione “normale”.

Epoche molto creative dal punto di vista artistico (e musicale in particolare) hanno visto vere e proprie epidemie di disturbi psichiatrici, che hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica e prodotto interessanti pubblicazioni.

Si pensi al periodo del bebop quando l’America razzista del maccartismo da un lato e l’ignoranza delle conseguenze negative dell’assunzione di certe droghe dall’altro, hanno contribuito allo stile di vita sregolato e clandestino dei musicisti che si è incrociato con la predisposizione individuale al sensation seeking, certamente correlato con la creatività e l’attrazione verso il mondo dell’arte.

Il rapporto tra creatività e disagio psichico è interessante e complesso: numerosi studi hanno individuato un’alta prevalenza di disturbi mentali in persone dotate di talento creativo, anche se nella fase creativa vera e propria il disturbo deve essere sufficientemente controllato per non interferire in maniera negativa con la produzione artistica.

Gli artisti possono soffrire di disturbi psichiatrici anche gravi e nonostante ciò produrre opere eccezionali. In molti casi è proprio la musica a rappresentare una grande risorsa, un modo per esprimere stati d’animo dolorosi ed entrare in contatto con parti di sé altrimenti intollerabili: Jim Morrison scriveva canzoni e poesie per affrontare esperienze angoscianti, esplorando i meandri più oscuri e inaccettabili della mente e la sua band agiva come struttura contenitiva e via per incanalare il suo genio aiutandolo ad astenersi da droghe e alcol nella fase creativa; per Amy Winehouse creare musica era un processo insieme doloroso e terapeutico, l’unico modo per entrare in contatto con le parti più fragili e sofferenti di sé senza anestetizzarsi con le sostanze. Talvolta, come emerge dalle interviste di Emily Maguire e Martin Kolbe, la musica è anche un’occasione per superare lo stigma legato alla malattia mentale, diffondendo informazioni e spezzando l’isolamento che spesso caratterizza le vite di persone affette da disturbi psichiatrici.

L’autore prende anche in considerazione l’allarmante dato di elevata mortalità fra i musicisti: pur essendo stato sfatato il mito del Club dei 27, secondo cui ci sarebbe un picco di mortalità fra i musicisti popolari proprio a 27 anni, emerge un aumentato rischio a partire dall’inizio della fama. Interessante è la riflessione relativa alla correlazione fra esperienze traumatiche avvenute in età infantile (Adverse Childhood Experiences – ACE) e mortalità prematura fra le rockstar: in questo senso la rincorsa del successo musicale potrebbe essere un tentativo di coping per sfuggire alle traumatiche esperienze del passato. In realtà in molti casi sono proprio le conseguenze del successo a diventare insostenibili e a spingere i musicisti lungo una china di autodistruzione, talvolta amplificata e rinforzata dai media, spesso attratti più dagli eccessi comportamentali dell’artista che dalla sua produzione musicale.

Un ruolo da protagoniste sul palcoscenico della vita sregolata delle rockstar è naturalmente riservato alle sostanze: farmaci, droghe varie e alcol sono quasi un fil rouge che attraversa le pagine delle variegate storie di Psicorock.

Ciò in parte a causa dell’ignoranza degli effetti negativi che in alcuni periodi storici ha contribuito all’uso massiccio di certe sostanze (eroina e LSD, per esempio), in parte come comportamento di ribellione e rottura verso il sistema, in parte come tentativo (il più delle volte controproducente, a dire il vero) di stimolare la creatività, in parte, forse soprattutto, come modalità di coping e anestesia emotiva rispetto a vissuti altrimenti intollerabili.

Spesso l’abuso di sostanze rappresenta, infatti, un tentativo terapeutico per l’artista. Tentativo che in realtà amplifica gli aspetti depressivi e autodistruttivi e che spesso ha un esito fatale: Elvis, Janis Joplin, Amy Winehouse sono solo alcuni dei musicisti la cui dipendenza da sostanze (rispettivamente farmaci, eroina, alcol) ha avuto un ruolo diretto del causarne la prematura scomparsa.

Altro grande capitolo del rapporto fra mondo della musica e psichiatria è quello della cura. In molti casi il rifiuto delle cure e la difficoltà a fidarsi ed affidarsi è uno degli elementi che accompagna la discesa agli inferi dell’autodistruzione, come per Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse.

In altri casi è proprio l’incontro con medici o terapeuti dall’etica discutibile ad esacerbare il problema o far precipitare la situazione: Elvis ha trascorso la sua vita imbottito di ogni sorta di pillole regolarmente prescritte dal suo medico curante; Brian Wilson, leader dei Beach Boys, è stato preso in cura dal discusso dr. Landy per anni in una terapia costante 24 ore su 24 che abbracciava, o meglio controllava rigidamente ogni aspetto della sua vita. In questo caso lo psicologo ha talmente oltrepassato i confini setting terapeutico da farsi sospendere la licenza dalla Corte Federale per circonvenzione di incapace. Tanta è stata l’influenza nella vita di Wilson di questo legame che egli stesso ha definito quel periodo ‘gli anni di Landy‘.

Quale che sia il rapporto con la cura e i curanti, ciò che emerge dalle autobiografie di molte rockstar uscite negli ultimi anni è un crescente spazio dedicato a dettagliate descrizioni di percorsi di riabilitazione. Amy Winehouse ha perfino dedicato una canzone (Rehab, appunto) a questo tema. In contrapposizione all’apologia degli eccessi che ha caratterizzato gli anni 60/70, pare che oggi sia molto più rock occuparsi del processo di guarigione: ‘sex, rehab and rock’n’roll?‘ si chiede l’autore…

Il libro di Gaspare Palmeri non ha l’ambizione né l’intento di delineare nuove teorie sul rapporto tra rock e follia, mettendo anzi in evidenza come ogni storia sia unica e diversa dalle altre. L’autore ripercorre con sguardo clinico attento e curioso le storie di vita di alcuni protagonisti del rock cercando, con prosa scorrevole e nello stesso tempo accurata dal punto di vista clinico, di andare oltre la superficialità che troppo spesso si incontra nei resoconti giornalistici e che mira solo a fare notizia, a discapito della vera comprensione della sofferenza che sta dietro a ogni storia.

La valutazione diagnostica dell’autismo: la ADOS 2 – Report dal corso della Fondazione Don Gnocchi Onlus

La Fondazione Don Gnocchi Onlus in collaborazione con le edizioni Hoegrefe ha organizzato un corso teorico-pratico circa l’uso dell’ ADOS 2, uno degli strumenti più diffusi per la diagnosi di autismo.

Introduzione

Il corso si è svolto a Milano il 1,2,3 Luglio 2016, presso il centro Carlo Girola. La Fondazione Don Gnocchi nei suoi “28 Centri, attivi in 9 regioni italiane, con un totale di 3.696 posti letto offre un’ampia gamma di servizi, occupandosi di: bambini e ragazzi affetti da complesse patologie acquisite e congenite; pazienti di ogni età che necessitano di interventi riabilitativi”. I disturbi dello Spettro dell’Autismo sono tra le patologie che gli operatori della Fondazione trattano.

L’autismo rappresenta una patologia cronica e complessa di competenza dei servizi di Neuropsichiatria Infantile sia per la diagnosi sia per la riabilitazione. Dopo più di sessanta anni dalla sua individuazione da parte di L. Kanner (1943) le conoscenze in merito al disturbo dello spettro autistico, nella denominazione del DSM 5 o sindrome da alterazione globale dello sviluppo psicologico, secondo l’ICD-10, (International statistical classification of diseases and related health problems) sono in continua evoluzione e se ne aggiungono di nuove grazie alla ricerca condotta in tutto il mondo.

La Seconda Edizione dell’Autism Diagnostic Observation Schedule ADOS 2 (C.Lord, M. Rutter, P. C. DiLavore, S. Risi, R. J. Luyster, K. Gotham, S. L. Bishop, W. Guthrie ) arricchisce e migliora lo strumento di riferimento mondiale per la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.

La docente di questo corso è stata la dottoressa Raffaella Faggioli, educatrice professionale, psicologa e psicoterapeuta riconosciuta esperta di autismo; la Faggioli ha fornito le conoscenze necessarie per un utilizzo clinico corretto di ADOS 2 .

Obiettivi del corso sono stati: acquisire conoscenza della struttura di ADOS 2, delle procedure di somministrazione di ADOS 2 e delle procedure di decodifica e calcolo dei cut-off diagnostici. Un’importante differenza con la maggior parte dei test psicologici è che il campione di riferimento su cui avviene il confronto dei punteggi non è un campione di soggetti normali “free diagnosis”, bensì un campione di soggetti con diagnosi di disturbo dello spettro dell’autismo. Ciò è valido per i moduli da 1 a 5 mentre per il modulo Toddler fornisce un indice di rischio.

Cosa valuta la ADOS 2

La Ados 2 è una prova semi-strutturata basata sull’osservazione del comportamento del bambino in diverse situazioni opportunamente predisposte e poi codificate dall’esaminatore. Possono somministrare questo test solo le figure professionali autorizzate alla diagnosi, medici specialisti in neuropsichiatria infantile e gli psicologi. L’edizione italiana della Ados 2 è del 2013 ed è stata curata da C. Colombi, R. Tancredi, A. Persico e R. Faggioli.

Cosa valuta questo strumento? Cosa si cerca mediante l’uso di Ados per fare diagnosi?
Si cercano, durante le osservazioni di gioco, comportamenti bizzarri in ambito comunicativo, dell’interazione sociale e nell’ambito della flessibilità/rigidità.
Nessuna anomalia o comportamento o assenza di un comportamento è sintomo specifico solo dell’autismo; questo rende il processo diagnostico complesso e rende necessario che sia affidato a un professionista esperto di autismo e dello sviluppo neurotipico.

Gli aspetti del comportamento che cerchiamo sono quelli che esprimono i criteri diagnostici descritti nel DSM5 per il disturbo dello spettro autistico. Ovvero:
Presenza di un disturbo persistente della comunicazione sociale e dell’interazione sociale (affetto sociale);
pattern di comportamenti ripetitivi o attività e interessi ristretti;
insorgenza entro i 3 anni, ma possono manifestarsi anche più avanti;
I sintomi causano una compromissione clinicamente significativa della qualità di vita.

La relatrice illustra alcuni aspetti da considerarsi campanelli d’allarme di un funzionamento non normotipico visibile in bambini sotto i tre anni. Si tratta di segni da monitorare e approfondire non di sintomi effettivi. Tra questi aspetti vi sono: l’essere bambini “troppo autonomi” rispetto all’età; fatica nel contatto oculare; gesti ripetitivi; interessi focalizzati; difficoltà o assenza del gioco spontaneo del “far finta” , fatica nell’adeguamento al contatto fisico ( fatica a cambiarlo, vestirlo); Tendenza a mettere in fila tutti gli oggetti.
Questi aspetti vengono osservati durante la somministrazione dell’ ADOS 2 mediante situazioni di gioco appositamente strutturate.

Materiale del test

La Ados 2 è strutturata in cinque moduli distinti, ciascuno con uno specifico materiale di lavoro e protocollo di notazione. I moduli sono i seguenti:

– Modulo Todler, proposto ai bambini dai 12 ai 30 mesi che non abbiano ancora sviluppato un linguaggio fluente. Si compone di 11 sessioni di attività strutturate finalizzate ad indagare aspetti relativi all’affetto sociale ( ad es. indicare, risposta al nome, divertimento condiviso nell’interazione) e al comportamento ristretto e ripetitivo. A differenza dei moduli successivi il Toddler fornisce un indicatore di rischio non un cut-off.
– Modulo 1. Ideato per bambini dai 31 mesi che non hanno sviluppato il linguaggio fluente. Si compone di 10 sessioni di attività strutturate finalizzate ad indagare aspetti relativi all’affetto sociale e al comportamento ristretto e ripetitivo ( ad esempio interessi ripetitivi insoliti o ripetitivi).
– Modulo 2.Pensato per bambini che producono linguaggio per frasi complete anche se non pienamente fluente, anche se hanno meno di 30 mesi. Si compone di 14 sessioni di attività di gioco di immaginazione e d interazione congiunta, conversazione, descrizione ed altro.
– Modulo 3. E’ strutturato per bambini e giovani adolescenti con linguaggio verbale fluente (frasi complesse e interconnesse tra loro, dove usa presente, passato e futuro). Si compone di 14 sessioni di attività, nelle quali oltre all’attività di gioco di immaginazione e interattivo sono previste la conversazione e l’intervista circa le emozioni e relazioni amicali.
– Modulo 4, è pensato per tardo adolescenti e adulti con linguaggio verbale fluente. In questo protocollo sono minori le attività di gioco proposte ed è inserita un’intervista sulle emozioni, abilità sociali, amicizia e relazioni. E’ importante stimolare la conversazione su queste tematiche.

Le domande sulle emozioni riguardano gioia, paura, rabbia e tristezza. Chiediamo una definizione delle emozioni suddette, di cosa le provoca e come si sentono.
E’ consentito che l’operatore possa fare degli esempi di situazioni che tipicamente attivano un’emozione. L’ultima domanda dell’intervista riporta un piano positivo elicitando una situazione che provoca contentezza e rilassamento.

I criteri da considerarsi per la scelta del modulo da somministrare sono l’età cronologica e lo sviluppo del linguaggio.

Preparare la somministrazione

La dottoressa Faggioli suggerisce di valutare il livello intellettivo (QI) del bambino e lo sviluppo del linguaggio verbale con gli strumenti appostiti specifici per la fascia di età.
La disabilità intellettiva può essere associata all’autismo e ne determina la caratteristica di alto o basso funzionamento.
Inoltre è utile proporre al genitore la compilazione del questionario ADI-R circa il comportamento del bambini nella prima infanzia.
Ados 2 e ADI-r sono gli strumenti testologici più utilizzati a scopo di ricerca sull’autismo e pertanto i più diffusi in letteratura scientifica.
Per utilizzare questo strumento è importante possedere una formazione specifica ed esperienza clinica con l’età evolutiva e con l’autismo; per l’utilizzo della ADOS 2 a scopi di ricerca oltre ai requisiti appena descritti, la relatrice ricorda che è necessario conseguire un “patentino” apposito rilasciato da esperti abilitati a questa certificazione.

Il corso è stato arricchito di esemplificazioni cliniche e di video di somministrazioni che hanno facilitato l’apprendimento.
Il corso ha permesso di entrare nel mondo dell’autismo e conoscerne le fragilità e i comportamenti tipici anche a coloro tra gli allievi che ancora non hanno maturato elevata esperienza clinica nell’ambito.

In sintesi, a mio parere questo corso è:
CONSIGLIABILE agli psicologi che lavorano con l’età evolutiva, anche se non lavorano nello specifico con bambini o ragazzi con autismo poiché lo strumento orienta il clinico ad osservare atteggiamenti tipici dello spettro.
MOLTO CONSIGLIATO a psicologi e neuropsichiatri infantili, coinvolti nel trattamento delle persone con autismo.
QUASI OBBLIGATORIO agli psicologi e neuropsichiatri infantili che si occupano della diagnosi di autismo.

 

Orientamento professionale e disabilità: una sfida da non perdere

Grandi trasformazioni come la globalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico e mutamenti sociali hanno cambiato la natura stessa del lavoro e le abilità richieste ai lavoratori: sempre di più, in questo scenario, occorre approfondire le competenze tecniche necessarie per progettare e garantire un servizio di orientamento professionale che possa aiutare i soggetti disabili a rispondere a questi cambiamenti particolarmente sfidanti.

 

Esiste oramai una massa impressionante di studi che documentano i grandi cambiamenti che stanno interessando il mondo del lavoro. Nonostante il nostro paese possa facilitare l’inserimento occupazionale dei soggetti affetti da disabilità attraverso l’emanazione di leggi in loro favore, grandi trasformazioni come la globalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico e mutamenti sociali hanno cambiato la natura stessa del lavoro e le abilità richieste ai lavoratori.

Sempre di più, in questo scenario, occorre approfondire le competenze tecniche necessarie per progettare e garantire un servizio di orientamento professionale che possa aiutare i soggetti disabili a rispondere a questi cambiamenti particolarmente sfidanti.

Nonostante le difficoltà, infatti, i dati suggeriscono che i disabili disoccupati sono desiderosi di trovare una occupazione (Taylor, 1994); allo stesso tempo, la letteratura mette in luce tre difficoltà specifiche che gli esperti di orientamento professionale dovranno tener presente e affrontare efficacemente, nell’erogazione di un servizio di orientamento a questa popolazione.

 

 

1. Limitazione nelle prime esperienze lavorative

In generale, la carenza di esperienze lavorative limita le future possibilità di carriera e spesso i soggetti disabili entrano nell’età adulta con un background povero di esperienza lavorativa; questa mancata esperienza rende molto difficoltosa l’accessibilità ad una prima occupazione, perpetuando il periodo di inesperienza e lasciando la persona con una ancora non formata identità professionale definita, rendendo l’uscita da questo meccanismo a spirale molto difficile (Holland, 1985).

 

 

2. Capacità decisionali

Legata alla mancanza di esperienza lavorativa vi è un ulteriore competenza, la presa di decisione. Questa permette agli individui di verificare se le proprie scelte hanno avuto successo o meno, fornendo importanti feedback al lavoratore. Talvolta, le persone disabili denunciano l’avere avuto meno occasioni di poter partecipare ai processi decisionali, compromettendo così, lo sviluppo appropriato delle loro capacità di presa di decisione e responsabilizzazione (Curnow, 1989).

 

 

3. Concetto di sé negativo a seguito di processi discriminatori

Un’ altra difficoltà che gli esperti di orientamento professionale dovranno tener presente è che l’atteggiamento nei confronti della disabilità può speso affliggere la persona disabile tanto quanto la disabilità stessa.

L’esposizione prolungata ad atteggiamenti e comportamenti pregiudizievoli da parte della società può chiaramente contribuire a creare un’immagine di sé negativa o poco capace.

Per gli psicologi Szymanski e Trueba (1994) vi sono difficoltà che affliggono i disabili, come ad esempio una rappresentazione di sé più negativa e meno capace, che non derivano da loro danni funzionali, ma sono esclusivamente il prodotto di stigma, marginalità e discriminazione a cui sono andati incontro per molti anni.

 

 

Caratteristiche di un buon orientamento professionale rivolto a persone con disabilità

A causa di queste difficoltà, è ancora più importante e urgente che gli operatori di orientamento professionale impostino i loro servizi respingendo questi processi di castificazione e applicando i principi che ispirino la filosofia dell’empowerment. Attivare un processo di empowerment, nel contesto di orientamento, significa aumentare nelle persone la possibilità di controllo sulla propria vita e sulle condizioni che la influenzano, così come è vissuto dalle persone che non presentano disabilità (Harp, 1994).

Un orientamento professionale rivolto ai disabili si deve fondare su quattro postulati (Emener, 1991):

  • Ciascun individuo è di grande valore e dignità;
  • Ogni persona deve avere la possibilità di sviluppare al massimo le proprie potenzialità e deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare;
  • Nelle persone vi è una naturale propensione alla crescita e al miglioramento;
  • Ogni individuo deve essere lasciato libero di decidere nella gestione della propria esistenza.

Dato il continuo cambiamento nel mondo del lavoro e le difficoltà a cui sono sottoposte le persone con disabilità, sembra sempre più evidente la necessità di facilitare il processo di inserimento e sviluppo occupazionale attraverso un aiuto concreto e competente a questo target più svantaggiato. Un efficace percorso di orientamento professionale che tenga conto della sofferenza meno visibile dei disabili può essere un utile strumento per potenziare le possibilità di scelta e di riuscita della loro vita professionale (Gysbers, 2002).

Il senso di colpa nei pazienti depressi: come viene vissuto

E’ possibile ipotizzare che il grave senso di colpa tipicamente esperito dai soggetti depressi, sia (arbitrariamente) autoriferito a se stessi in quanto persone, assumendo caratteristiche di stabilità e globalità, il che causerebbe un intaccamento del valore individuale e dell’autostima. In questo senso, la pervasività dell’emozione e il carico di sofferenza sono comprensibili data l’individuazione del locus di colpevolezza non nell’azione effettuata, quindi situazionale e modificabile, ma nell’esistenza stessa della persona.

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il senso di colpa nella depressione

Il senso di colpa può essere definito come un costrutto complesso che comprende componenti cognitive, affettive e comportamentali (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2014). Esso è ritenuto avere un ruolo centrale nei disturbi depressivi. Il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM), giunto alla V edizione, pone il senso di colpa tra i sintomi di inclusione per la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD, Major Depressive Disorder), associandolo a possibili valutazioni negative non realistiche, preoccupazioni e ruminazioni. In questo senso, le persone possono da un lato interpretare in modo distorto eventi quotidiani neutri come prova di difetti personali, dall’altro provare un eccessivo senso di responsabilità per situazioni spiacevoli.

In studi recenti, Zahn e collaboratori (Green, Lambon Ralph, Moll, Deakin e Zahn, 2012; Lythe, Moll, Gethin, Workman, Green, Lambon Ralph, Deakin e Zahn, 2015) hanno trovato, tramite l’utilizzo di tecniche di neuroimmagine, evidenze neurali che supportano questa teoria. Gli autori partono da modelli cognitivi che suggeriscono un nesso di causalità tra valutazioni autocolpevolizzanti e vulnerabilità al disturbo depressivo maggiore (Ghatavi, Nicolson, MacDonald, Osher e Levitt, 2002).

I pazienti con disturbo depressivo maggiore, rispetto alle altre persone, più frequentemente si sentono inadeguati e privi di valore e provano senso di colpa, anche inappropriato (O’Connor, Berry, Weiss e Gilbert, 2002.). Questa tendenza svalutativa, però, è generalmente presente solo nel giudizio verso se stessi e non in quello verso altri. Tali bias e distorsioni cognitive, unitamente ai sintomi distintivi depressivi, sono stati analizzati, in queste indagini, ricercandone una spiegazione ed eventuali anomalie a livello dei sistemi neurali, al fine di favorire la comprensione globale patogenica del disturbo depressivo maggiore.

Neuroscienze: cosa avviene a livello cerebrale

In lavori precedenti, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia ad emissione di positroni (PET) avevano permesso di individuare una regione chiave implicata nella fisiopatologia del disturbo depressivo maggiore, la corteccia cingolata subgenuale, che mostra, nei soggetti con episodi depressivi, alterazioni nel metabolismo a riposo (Drevets, Savitz, Trimble, 2008) e anomalie di connettività con una più estesa rete corticolimbica, di cui fa parte (Sheline, Price, Yan e Mintun, 2010).

Sembra che la corteccia cingolata subgenuale e la regione del setto adiacente (SCSR) si attivino nell’attribuzione di colpa verso se stessi, ma non in quella verso gli altri (Zahn, Moll, Paiva, Garrido, Krueger, Huey e Grafman, 2009). Esse sono connesse al lobo temporale anteriore (ATL), implicato nella concettualizzazione generale dei sentimenti morali, auto ed etero diretti, che definiscono le caratteristiche dei comportamenti sociali propri e altrui (id.). Queste rappresentazioni morali permettono valutazioni adeguate ed equilibrate delle situazioni, calibrando le attribuzioni colpevolistiche, insieme alle cognizioni ed emozioni conseguenti. L’accoppiamento funzionale tra ATL e SCSR risulta quindi essere il correlato anatomico della differenziazione delle esperienze di colpa, che permette ai soggetti sani di incolpare se stessi senza danneggiare la propria autostima o il proprio valore personale (Green, Ralph, Moll, Stamatakis, Grafman e Zahn, 2010). La scoperta di Zahn et al. (Green, Lambon Ralph, Moll, Deakin e Zahn, 2012; Lythe, Moll, Gethin, Workman, Green, Lambon Ralph, Deakin e Zahn, 2015), ancora una volta tramite l’uso della fMRI, è l’alterazione di questa connettività in soggetti, in remissione da un anno, che hanno sofferto di disturbo depressivo maggiore. L’attribuzione di colpa verso se stessi, quindi, in questi individui, non attiva parallelamente la regione dedita alle rappresentazioni morali, per cui non può avvenire un confronto tra il proprio comportamento e le normative concettualizzate. Questo scollegamento comporterebbe il tipico bias per cui le autocolpevolizzazioni depressive risulterebbero esagerate, rigide, generalizzate al valore personale globale, proprio per la mancata razionalizzazione, che sarebbe invece permessa dal confronto con le rappresentazioni morali.

Il legame tra senso di colpa e sintomi depressivi

Per comprendere al meglio i legami che il senso di colpa ha con i sintomi depressivi, tuttavia, pare utile analizzare tale costrutto, per focalizzare in modo migliore sovrapposizioni con alterazioni significative dell’umore.
Miceli e Castelfranchi (1995), che ritengono il senso di colpa come uno dei più pervasivi stati di sofferenza esperibili dall’individuo, rilevano al suo interno tre centrali e fondamentali componenti di tipo cognitivo:
– La valutazione negativa di dannosità. Il colpevole valuta in termini di dannosità o cattiveria l’azione da lui compiuta o la semplice intenzione dell’azione (scopo). Questa è condizione necessaria ma non sufficiente all’esperienza del senso di colpa.
– L’assunzione di responsabilità. È necessario, ma ancora una volta non sufficiente, che il soggetto assuma di aver causato qualcosa direttamente o indirettamente (non nel caso del senso di colpa per l’intenzione all’azione) e di aver (avuto) lo scopo di causare quel qualcosa o, comunque, il potere di evitarlo, prevederlo o prevenirlo.
– La compromissione dell’autostima morale. Per passare da un’assunzione di colpevolezza al senso di colpa, l’individuo deve condividere i valori o le norme rispetto ai quali si sente colpevole. L’azione commessa o ideata e l’assunzione di responsabilità causano, cioè, una compromissione dell’autoimmagine morale, un abbassamento dell’autostima in relazione ai valori personali.

Gli autori considerano quest’ultimo punto come non solo necessario, ma anche sufficiente a generare senso di colpa. Le autovalutazioni negative implicate nella riduzione dell’autostima morale, infatti, avrebbero anche forti implicazioni emotive, riscontrabili in: un senso di sconfitta e umiliazione per non essere stati all’altezza dei propri valori; il rammarico e il rimorso per aver fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare e che, quindi, si desidera ardentemente non aver fatto; il disprezzo per se stessi, per la propria bassezza morale. Sconfitta, umiliazione, rammarico, rimorso e disprezzo, insieme alla sofferenza con e per la vittima, costituirebbero le componenti emotive di questo stato. A tal proposito, Miceli e Castelfranchi (1995) delineano l’identificazione con la vittima come una componente aggiuntiva del senso di colpa, attribuendole, in particolare, un ruolo importante nella genesi della colpa durante lo sviluppo. Gli autori individuano anche un ulteriore aspetto conseguente un’esperienza simile, confermato da ricerche successive (Zeelenberg e Breugelmans, 2008), quello dell’attivazione dello scopo di riparare, rimediando anche ai danni subiti alla propria autostima.

La riparazione può spiegare le incoerenze, emerse nel corso degli anni, della ricerca sulle relazioni tra senso di colpa e psicopatologia. Tilghman-Osborne e collaboratori (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2010) considerano tali contraddizioni relative alle definizioni e alle misurazioni del costrutto adottate nei vari studi. In particolare, per quanto riguarda il rapporto con la depressione, alcuni autori hanno definito il ruolo positivo del senso di colpa nella riduzione o nella prevenzione dei sintomi grazie proprio alla funzione di motivare al rimedio e all’espiazione (Tangney,1991). Dal lato opposto, altri studi hanno trovato correlazioni positive tra colpa e depressione, sottolineando la valenza negativa del senso di colpa, che rifletterebbe il dolore e la tensione interiori, con conseguenze sfavorevoli per l’umore (Harder 1995). In generale, i lavori che hanno definito e misurato il senso di colpa come un processo doloroso e disadattivo, hanno trovato correlazioni positive con il disturbo depressivo, mentre gli studi che hanno guardato la colpa come un meccanismo di adattamento hanno identificato correlazioni negative (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2010). Questa differenza, tuttavia, sembra essere anche legata alla variabile età. Sempre secondo gli autori, la concettualizzazione di colpa avrebbe più probabilità di rimandare a componenti adattive e riparative se applicata ai bambini, a componenti maladattive e disfunzionali se riferita agli adulti.

Il senso di colpa comportamentale e il senso di colpa caratteriale

Un altro modo per spiegare la possibile compresenza di componenti funzionali e non, è prendere come riferimento la distinzione tra senso di colpa comportamentale (BSB, Behavioral self-blame) e senso di colpa caratteriale (CSB, Characterological self-blame) riportata in altri scritti di Tilghman-Osborne e collaboratori (Tilghman-Osborne, Cole, Felton e Ciesla, 2008). Il senso di colpa comportamentale prevede un’attribuzione di controllo all’individuo, in quanto riguarda l’attuazione o la mancata esecuzione di comportamenti che provocano esiti negativi o che avrebbero potuto prevenirli. Il valore adattivo, in questo senso, risiede nella possibilità di riflettere sul proprio comportamento per evitare risultati simili in futuro. Prendendo come esempio il subire un furto per strada, una considerazione a posteriori possibile potrebbe essere “non avrei dovuto camminare da solo di sera”. Il senso di colpa caratteriale, invece, può essere considerato come uno stile cognitivo auto-riflessivo in cui si incolpa se stessi in quanto persone, per carenze individuali, per il proprio carattere. È generalmente accompagnato dall’autocritica, dall’autoconsiderazione di essere totalmente responsabili e meritevoli del risultato negativo e da processi di ruminazione. Riprendendo l’esempio precedente, potrebbe essere formulata l’affermazione autoreferenziale “sono uno stupido e mi metto sempre nei guai”. Sia il senso di colpa comportamentale sia quello caratteriale sono quindi attribuzioni interne di causalità, ma il primo rimanda a componenti modificabili e situazionali, il secondo ad aspetti globali e stabili della persona. Proprio per questo, gli autori hanno trovato il senso di colpa caratteriale maggiormente correlato alla depressione.

Colpa e senso di colpa

Proseguendo nell’analisi delle sfaccettature del costrutto, pare utile riportare anche la distinzione effettuata da Hooge et al. (de Hooge, Nelissen, Breugelmans e Zeelenberg, 2011) tra colpa e senso di colpa, intendendo la prima come un’emozione adattiva, utile agli individui per proteggere e migliorare le relazioni sociali, e il secondo come una valutazione di trasgressione morale reale o immaginaria, che suscita preoccupazione e sentimenti di tensione e rimorso e tendenze all’azione, che ne annullino le conseguenze. La pervasività dello stato di disagio sembra essere dovuto proprio al fattore responsabilità personale, al considerare, cioè, colpa personale l’esistenza e il fare parte della situazione negativa.

Conclusioni

Cercando di integrare tutte le informazioni raccolte, è possibile ipotizzare che il grave senso di colpa tipicamente esperito dai soggetti depressi, sia (arbitrariamente) autoriferito a se stessi in quanto persone, assumendo caratteristiche di stabilità e globalità, il che causerebbe un intaccamento del valore individuale e dell’autostima. In questo senso, la pervasività dell’emozione e il carico di sofferenza sono comprensibili data l’individuazione del locus di colpevolezza non nell’azione effettuata, quindi situazionale e modificabile, ma nell’esistenza stessa della persona.

La discrepanza tra le severità dei giudizi auto ed etero diretti, inoltre, sarebbe dovuto a una disconnessione tra le aree cerebrali coinvolte nell’esperienza del senso di colpa e nella formulazione di rappresentazioni morali. Nel momento in cui, sempre in soggetti vulnerabili alla depressione, sia attribuita a sé una responsabilità per un evento negativo, non vi sarebbe possibilità di effettuare un confronto con standard e norme valoriali appresi, estremizzandone quindi la gravità e l’irrimediabilità.

Lungi dal voler spiegare un modo esaustivo i complicati intrecci tra senso di colpa e sintomi depressivi, il presente lavoro vuole lasciare uno spunto di riflessione sull’importanza della delicatezza nella comunicazione terapeutica con pazienti di questo tipo. Il rischio che aleggia nel favorire l’agentività e un locus of control interno, ponendo l’individuo in posizione centrale e responsabile rispetto alla sua sofferenza, infatti, potrebbe essere quello di incrementare il senso di colpa, le cognizioni di indegnità e le emozioni di disperazione, dovuti al considerarsi la causa irrimediabile del suo dolore. L’avanzamento delle conoscenze sui meccanismi sottostanti la genesi e l’espressione del disturbo è di fondamentale importanza per la strutturazione di terapie che massimizzino le possibilità di miglioramento, strutturate secondo i concetti di gradualità e di personalizzazione.

La mente ossessiva: curare il disturbo ossessivo compulsivo (2016) di F. Mancini – Recensione

Quando si dice DOC si intendono due cose: un funzionamento ossessivo orientato all’impossibile compito della ricerca della certezza assoluta che genera una cascata di dubbi senza fine. La seconda è il tentativo disperato di evitare la colpa che per esperienze infantili è giudicata intollerabile e foriera di ostracismo.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo o DOC, come ormai gli stessi pazienti usano affettuosamente chiamarlo, quasi fosse un cagnolino che si aggira dispettoso per casa è una vera piaga sociale per due motivi: la sua incidenza elevata (un milione di Italiani) è addirittura sottostimata perché i pazienti da un lato si vergognano di confessarlo anche alle persone care, dall’altro non sanno che esiste un approccio terapeutico, appunto quello cognitivo comportamentale più efficace dei farmaci e che consente una migliore qualità di vita quando non è del tutto risolutivo.

Inoltre gli ossessivi, e lo dico per esperienza personale, tribolano enormemente al punto da desiderare di essere psicotici e perdere definitivamente la ragione (il che non è vero neppure per gli invidiati psicotici che non se ne stanno affatto a godersi un bel mondo di loro invenzione).

Infatti sono assediati da pensieri e impulsi che li tormentano in continuazione e li accompagnano sempre non essendo dunque possibile risolvere con il semplice evitamento delle situazioni temute come nel panico perché il mostro è dentro di loro. Contemporaneamente sono però assolutamente lucidamente consapevoli dell’assurdità dei loro pensieri e ciò genera paura per gli esiti possibili, tristezza per le limitazioni drammatiche che vivono e l’autosvalutazione, vergogna che li porta ad isolarsi. Non credo sia un caso che nei Vangeli i matti più matti di tutti erano chiamati ossessi anche se, occorre precisarlo, ancora la sequenza dei DSM non aveva definito bene i confini.

Quando si dice DOC si intendono due cose: un funzionamento ossessivo orientato all’impossibile compito della ricerca della certezza assoluta che genera una cascata di dubbi senza fine e che sembra abbia ispirato il Magnifico che aveva lo studio vicino a piazza Duomo quando scriveva ‘di doman non c’è certezza‘. Tale funzionamento a mio parere  presente nel DOC si estende anche al di fuori ed è presente ogni qual volta la posta in ballo in caso di errore è considerata elevatissima o irrinunciabile. Lo ritroviamo dunque anche in altri disturbi d’ansia accomunati dalla percezione della minaccia esterna ed interna (l’ansia stessa) ad uno scopo importante.

La seconda è il tentativo disperato di evitare la colpa che per esperienze infantili è giudicata intollerabile e foriera di ostracismo: la trappola si chiude quando gli stessi sintomi (ossessioni e compulsioni) diventano a loro volta motivo di colpa e ostracismo.

Il volume è il frutto di un lavoro di squadra che ha consacrato il centro APC/SPC come struttura di eccellenza in Italia per l’intervento sul DOC. Ai vent’anni di esperienza si sono poi aggiunti altri 5 anni per la gestazione del libro di cui un mese per scriverlo e 5 anni e 11 mesi per assicurarsi che non ci fossero colpevoli errori. E’ possibile che nei mesi a venire gli acquirenti siano raggiunti da telefonate per segnalare refusi e piccoli errori da correggere a penna.

Non posso parlare troppo bene del volume per l’invidia che provo a non essere tra gli autori. Devo riconoscere però, ob torto collo, che esso mantiene sempre un delicato equilibrio tra la presentazione delle tecniche e delle prassi operative efficaci rispondendo alla domanda ‘si, ma che si deve fare concretamente?‘ senza diventare un, tanto di moda, libro di ricette sconnesse, e una elegante descrizione del funzionamento del paziente ossessivo o meglio dell’ossessivo che è in noi, senza cedere alla tentazione dell’onanismo cogitativo.

Teoria raffinatissima e prassi concreta ben amalgamate fanno di questo libro tanto atteso del più grande esperto mondiale di DOC, una lettura irrinunciabile per colleghi giovani e stagionati.

Cinquecento pagine da leggere una prima volta per capire il senso dell’esperienza ossessiva e da tenere poi nel cassetto della scrivania per consultarlo prima delle sedute. Gli autori guidano il lettore negli anfratti del ragionamento lucido e folle ad un tempo. E’ un viaggio da cui non tutti sono tornati ma già abbiamo fatto partire le squadre di soccorso.

Trattamenti antidepressivi più precisi grazie ad un esame del sangue

Un recente studio realizzato presso il King College di Londra, ha evidenziato come sia possibile prevedere l’efficacia di un trattamento antidepressivo mediante la rilevazione dei livelli ematici di due biomarcatori.

 

Nella situazione attuale, circa la metà di tutti i pazienti depressi risultano resistenti ai trattamenti farmacologici più comunemente utilizzati, mentre un terzo appare completamente resistente verso tutti i farmaci disponibili. Fino ad oggi non è stato possibile conoscere preventivamente se un paziente avrebbe risposto positivamente o meno al trattamento, o a quale farmaco avrebbe risposto meglio. Per cui l’unico approccio utilizzato è stato sempre quello di trovare il farmaco migliore mediante tentativi ed errori.

Il nuovo studio è stato pubblicato sul The International Journal of Neuropsychopharmacology, ed ha preso in considerazione due biomarcatori (MIF e IL-1β) che segnalano i livelli di infiammazione presente nel sangue, e che sono coinvolti in diversi meccanismi cerebrali connessi con la depressione.

A due campioni indipendenti di pazienti depressi sono stati effettuato due prelievi del sangue, uno precedente al trattamento, ed uno successivo.

Dalle analisi è risultato che i livelli dei due biomarcatori nel sangue, mostravano una precisa e affidabile correlazione con la risposta del paziente al farmaco antidepressivo assunto. I pazienti con valori di MIF e IL-1β più alti hanno mostrato una correlazione di efficacia estremamente bassa verso la risposta positiva ai tradizionali farmaci antidepressivi, rispetto ai paziente che avevano valori dei due biomarcatori più bassi.

Questi risultati confermano ed estendono la crescente evidenza che con alti livelli di infiammazione ematica diminuisca l’efficacia dei trattamenti farmacologici antidepressivi.

Il professore Carmine Pariante dell’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience (IoPPN), a capo dello studio, afferma che, l’identificazione di biomarker per prevedere la risposta ai farmaci, è un passo fondamentale per ridurre l’onere sociale ed economico della depressione, e per migliorare la qualità di vita dei pazienti.

Questo studio fornisce un approccio clinico adatto per la personalizzazione della terapia antidepressiva. Per cui ai pazienti che riportano un livello di infiammazione ematica al di sopra di una certa soglia, potrà essere preventivamente scelta una strategia terapeutica più decisa, mediante l’utilizzo sinergico di più farmaci antidepressivi e antinfiammatori.

La dottoressa Annamaria Cattaneo del IoPPN sottolinea che, si tratta del primo studio che ha utilizzato un esame del sangue per prevedere, in due gruppi clinici indipendenti di pazienti depressi, la risposta ad una serie di somministrazioni di antidepressivi comunemente descritti.

Ora sarebbe davvero importante proseguire, con uno studio clinico più ampio che metta a confronto il metodo classico di somministrazione dei farmaci per prove ed errori, con questo nuovo approccio guidato da test ematici.

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