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Testosterone e paternità: come l’ormone influenza l’accudimento genitoriale

Un recente studio ha evidenziato che nei padri che vedono i loro bambini in difficoltà, i livelli di testosterone si abbassano facendo risultare gli uomini, di fatto, maggiormente sensibili e pazienti: ne consegue uno stile di parenting associato ad un miglior sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino.

 

In entrambi i genitori, il pianto del bambino può innescare una serie di reazioni emotive, che spaziano dal provare empatia, fastidio, ma anche rabbia. Ciò che il recente studio di Kuo e colleghi (2015) ha evidenziato è che nei padri che vedono i loro bambini in difficoltà, i livelli di testosterone si abbassano facendo risultare gli uomini, di fatto, maggiormente sensibili e pazienti. Ciò che ne consegue è uno stile di parenting associato ad un miglior sviluppo sociale, emotivo e cognitivo del bambino.

Secondo la Challenge Hypothesis (Wingfield, Hegner, Dufty & Ball, 1990), infatti, ridotti livelli di testosterone faciliterebbero l’accudimento dei figli da parte del padre, tuttavia nessuno studio ha mai indagato questa relazione confermandola. Piuttosto, alcuni studi si sono focalizzati su come le interazioni padre-figlio agiscano sui cambiamenti a breve o a lungo termine dei livelli di testosterone paterno. Inoltre, sebbene da anni sia noto che i maschi senza figli hanno un maggior livello di testosterone rispetto a quelli con figli, nessuno studio è mai riuscito a rintracciare una relazione tra il diretto coinvolgimento del padre e il livello di testosterone dello stesso.

Nel dettaglio, lo studio di Kuo e colleghi ha impiegato il paradigma della Strange Situation e considerato il pianto del bambino come indicatore del suo distress; è infatti noto come i padri reagiscano con una marcata attivazione neurale al pianto dei loro figli, rispetto, per esempio, alle risate. Quindi, secondo quanto previsto dalla Strange Situation, il padre veniva separato dal proprio bambino per un intervallo di tre minuti; una volta riuniti, il genitore doveva interagire con il figlio per circa 15 minuti e insegnargli come svolgere un compito difficile.

Nel frattempo gli sperimentatori osservavano quanto sensibile e invadente risultava il padre. Per valutare il livello di testosterone, invece, i ricercatori prelevavano ai padri un campione di saliva prima della visita, durante la separazione e dopo il compito.

Ciò che si è osservato nei padri dei bambini che al momento della separazione piangevano, era una riduzione significativa dei livelli di testosterone che si accompagnava, al rientro nella stanza, ad una modalità di interazione più sensibile coi figli. Evolutivamente parlando, questo meccanismo sarebbe utile ad incrementare la risposta di accudimento del padre. Livelli di testosterone elevati, infatti, correlano con una maggiore propensione a mettere in atto comportamenti aggressivi, potenzialmente dannosi per l’incolumità fisica ma anche psicologica del bambino.

 

Dalla finestra di Johari al phubbing: relazioni sempre più social

Questo articolo propone una breve analisi delle ormai sempre più presenti relazioni virtuali, iniziando con una riflessione a partire dal modello de ‘La Finestra di Johari‘, e concludendosi con la disamina di un fenomeno sempre più frequente: il phubbing, termine coniato dagli americani che deriva dall’unione di due parole, phone (telefono) e snubbing (trascurare).

Laura Marchesini – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

 

Introduzione

L’ampia diffusione che i social network e le tecnologie di Rete stanno avendo nella costruzione di relazioni online pone una serie di interrogativi sulla natura dei nostri rapporti affettivi e romantici, su cosa ci aspettiamo da questi e su come si ripercuotono sulla nostra vita quotidiana, reale (Manca, 2014).

Nel 1995 lo psichiatra Ivan Goldberg avanza la proposta provocatoria di individuare una categoria diagnostica precisa per creare una nuova classe nosografica, da poter inserire nel DSM-IV: l’Internet Addiction Disorder, cioè la dipendenza patologica da Internet. Nello stesso periodo, Kimberly Young, si occupa dei disagi che l’utilizzo eccessivo della Rete sembra comportare in alcuni soggetti più a rischio. Essa raccoglie sempre più numerose testimonianze di persone che non riescono a scollegarsi dalla Rete, che vi trascorrono anche 10 ore al giorno, costruendosi un vero e proprio mondo virtuale sostitutivo, dove incontrare altre persone, innamorarsi, giocare, studiare: tutto ciò avviene spesso a scapito della vita reale off-line, provocando problemi coniugali, il deteriorarsi dei rapporti sociali fino ad arrivare ad una graduale chiusura verso il mondo e la realtà. Queste persone riferivano di manifestare ansia ed irritabilità se gli veniva impedito di navigare su Internet e quando erano scollegati, non vedevano l’ora di collegarsi di nuovo con la Rete (Young, 1999).

Questo articolo si propone di fare una breve analisi di quelle che sono le caratteristiche della comunicazione in Rete e delle ormai sempre più presenti relazioni virtuali, sottolineando le differenze tra questo mondo e quello reale, fisico.

L’articolo inizia con una riflessione a partire dal modello di Luft e Ingham (1955) de ‘La Finestra di Johari‘, in seguito analizza le caratteristiche della comunicazione in Internet per poi delineare le discrepanze, a livello di interazione umana, tra realtà virtuale e fisica. L’articolo si conclude con la disamina di un fenomeno sempre più frequente, in cui tutti quanti noi ci siamo probabilmente trovati, come spettatori o come protagonisti: il phubbing, termine coniato dagli americani che deriva dall’unione di due parole, phone (telefono) e snubbing (trascurare). Questo comportamento indica l’atto di trascurare qualcuno, mentre si è in sua compagnia, dedicandosi al proprio telefono. Tale fenomeno di massa possiamo dire essere il punto di arrivo, il culmine della società che vuole essere sempre più connessa in Rete, sui Social Network e sulle chat anche quando fuori casa, anche quando in compagnia di amici, conoscenti, colleghi di lavoro e addirittura partner. Come se non ci si potesse scollegare nemmeno un secondo dal mondo virtuale, come se realmente quel mondo finto, illusorio fosse arrivato ad essere più soddisfacente di quello quotidiano, materiale, fatto di sguardi, fatto di contatti fisici, fatto di discussioni, di risate, di carezze, di vicinanza fra persone in carne ed ossa.

 

 

La Finestra Di Johari

Negli anni ’50 due ricercatori americani, Joseph Luft e Harry Ingham (1955) idearono un modello che descrive il processo dell’interazione umana in modo semplice, efficace. Il modello, chiamato Finestra di Johari, si costituisce di un pannello che somiglia ad una finestra diviso in 4 quadranti, che rappresentano diverse aree della consapevolezza umana e che si allargano o si restringono a seconda dei processi dinamici che regolano le interazioni. Il primo quadrante è l’ ‘Area pubblica‘, si riferisce a tutto ciò che sia noi che gli altri conosciamo di noi, quindi le informazioni più superficiali come il genere, lo status sociale, le caratteristiche fisiche. Il secondo quadrante è l’ ‘Area cieca‘ ed è formato dalle cose che gli altri vedono di noi, ma di cui noi non siamo consapevoli, ossia le impressioni che facciamo agli altri, l’idea che diamo di noi stessi. Il terzo quadrante è chiamato ‘Area privata‘, cioè quello che noi sappiamo di noi stessi ma che preferiamo non rivelare agli altri; è l’area formata dai nostri sentimenti, emozioni, paure. Infine il quarto quadrante è definito ‘Area buia‘ e rappresenta gli aspetti di noi che sono sconosciuti sia a noi che agli altri. Sono inclusi i sentimenti, le attitudini inesplorate, che fanno parte di noi ma che sono ignoti (Senna, 2011).

La dinamica del modello della Finestra di Johari è regolata da due processi che agiscono reciprocamente: l’autorivelazione e la richiesta di feedback. L’autorivelazione è quel meccanismo per cui una persona condivide e rivela aspetti di sé, che conosce, agli altri. Questo comporta un ampliamento dell’area pubblica e un restringimento di quella privata. La prima volta che incontriamo una persona, l’Area pubblica non sarà molto grande, ma mano a mano che la conoscenza aumenta, se si crea fiducia, si condivideranno più informazioni. Il feedback è il processo attraverso cui io divento più consapevole di ciò che riguarda me stesso attraverso i rimandi che gli altri mi comunicano relativamente ad aspetti di me. Ciò comporta un restringimento dell’ area cieca a favore di quella pubblica. Concludendo, quello che emerge è che sia il feedback che l’autorivelazione funzionano solo nella misura in cui le persone coinvolte interagiscono costruttivamente, e che l’obiettivo è l’ampliamento dell’area pubblica per permetterci di sentirci più liberi di essere noi stessi e di percepire gli altri come sono realmente; aumentando la fiducia reciproca ci si sente più sicuri e meno vulnerabili e quindi diminuisce il bisogno di nascondere sentimenti e pensieri rilevanti (Luft; Ingham, 1955).

 

 

Le relazioni virtuali e le discrepanze con la comunicazione reale

Ora come ora Internet, la Rete, rappresenta probabilmente il mezzo di comunicazione principale, il computer svolge il ruolo di medium che ha rivoluzionato i sistemi e le modalità di comunicazione.

Quando parliamo di comunicazione attraverso Internet parliamo di CMC, Comunicazione Mediata da Computer e intendiamo quella che permette di mettere in connessione, attraverso strumenti informatici, punti tra loro lontani, senza che questa relazione si realizzi secondo un rapporto di tipo gerarchico (Belloni, 2002). Fra i sistemi di comunicazione online disponibili attualmente quello che ha certamente portato il maggior numero di innovazioni è certamente costituito dai sistemi di chat-line.

La chat può essere considerata un vero e proprio salotto virtuale: un luogo dove è possibile dialogare liberamente e senza freni inibitori e dove le persone mostrano in parte ciò che sono o che vorrebbero essere. Nel cyberspazio ciò che scriviamo ci identifica: la soggettività di ognuno è il personaggio della trama che vogliamo raccontare. Fantasie e bugie, dolori e felicità, solitudine e perversioni possono mescolarsi tra di loro, facendo nascere un personaggio ad hoc, adattabile alle varie situazioni (Troiano, Petrone, 2001). Gli ambienti di conversazione virtuale rappresentano una sorta di teatro, un palcoscenico dove gli interlocutori possono mettere in scena i loro personaggi.

Nulla ci impedisce, nelle relazioni virtuali, di essere ciò che vorremmo essere o diventare, di dare forma a uno dei nostri Sé possibili. Tuttavia in questi ambienti viene a mancare, a primo impatto, il sentimento di fiducia (Roversi, 2004) che viene conquistata pian piano, quando vengono aperti altri canali di comunicazione più personali che consentono di verificare più a fondo la verità degli interlocutori (telefono, scambio di foto o conoscenza reciproca nella vita reale) o più semplicemente quando le relazioni virtuali in chat si protraggono nel tempo, permettendo a ciascuno dei soggetti di acquisire più informazioni sull’altro.

La semplicità con cui le relazioni virtuali significative vengono strette all’interno dei contesti della Comunicazione Mediata da Computer è da ricercare nell’intersezione fra i fattori che agevolano la costituzione di queste nella vita reale e le specificità tecniche del mezzo, che da limiti strutturali si trasformano in vere e proprie risorse (Castrovilli, 2004):

 

1. Prossimità vs frequenza di intersezione

Le chat annullano le distanze fisiche fra gli utenti, vicini di casa o distanti migliaia di chilometri, per interagire via Comunicazione Mediata da Computer gli interlocutori digitano sempre e solo sulla tastiera davanti ad uno schermo. La vicinanza fisica di una persona si traduce pertanto, nelle relazioni virtuali, nella frequenza con cui questa si incontra in rete (Wallace, 2000). L’assenza del corpo e della comunicazione non verbale è significativa perché facilita comportamenti disinibiti. (Pravettoni, 2002); l’apparato fisico non è messo in gioco e non ci sono vincoli spazio-temporali, perciò la mente può prendersi maggiori libertà (Di Maria, Canizzaro, 2001).

 

2. Attrazione fisica vs mancanza di contatto visivo

Nella vita reale il grado di piacevolezza fisica di un individuo, la cosiddetta bella presenza, è in grado di influenzare le aspettative che gli altri hanno nei suoi confronti. Inutile negare che nelle situazioni vis à vis basta un’impressione iniziale dell’altro per decidere se portare avanti o meno la relazione (Sunnafrank, 1986). Tutti gli aspetti del Sé ecologico (bellezza, modo di vestirsi, di muoversi, di atteggiarsi) possono influire sulla prima impressione che viene formulata verso un soggetto. Se ci lasciassimo condizionare sempre da questa è evidente che tutte le persone che non rientrano nella nostra rappresentazione mentale di ‘bell’aspetto’ verrebbero automaticamente tagliate fuori dalle nostre prospettive. Infatti, secondo la letteratura classica (Bargh et al., 2002), chi va in cerca di relazioni intime su Internet è soprattutto chi si sente inibito da insicurezze relative al proprio aspetto fisico o da ansia sociale. Da questo punto di vista i rapporti online, basati sulla distanza fisica, su una grande vicinanza emotiva e su una forte idealizzazione dell’altro, sembrano essere motivo di maggiore soddisfazione rispetto a quelli basati sulla vicinanza fisica (McKenna et al., 2002).

 

3. Apertura all’altro

L’anonimato e il minore autocontrollo possono favorire, nelle relazioni virtuali, il rapido svilupparsi di forme di intimità tra gli utenti in quanto questi, meno condizionati da vincoli sociali e timori reverenziali verso l’altro legati ad attitudini personali (per esempio la timidezza), negli ambienti della Comunicazione Mediata da Computer si comportano in maniera più disinibita. Mentre nel mondo reale il processo di conoscenza e apertura reciproca è normalmente graduale e lo svelamento di informazioni procede di pari passo con l’aumento della fiducia, in Rete le persone tendono a rivelarsi molto più facilmente talvolta anche a persone quasi sconosciute. Secondo alcuni autori (Gross, Acquisti, 2005), si può parlare di una nuova forma di intimità che consiste nel condividere informazioni personali con un numero potenzialmente sconosciuto di persone che comprende sia amici che estranei.

 

3. Il Phubbing

Siamo sempre più connessi in Rete, sempre più presenti sui Social Network e su Whatsapp, sempre più aggiornati su quello che succede nella vita di chi non conosciamo o conosciamo poco, mentre magari siamo all’oscuro di ciò che sta vivendo chi divide con noi le quattro mura in cui abitiamo. Allo stesso modo, spesso capita che sappiano più cose di noi proprio quei mezzi conoscenti che abbiamo come amici su Facebook, rispetto alla nostra vera famiglia. Abbiamo lo smartphone sempre vicino, a casa, a lavoro, in palestra, in bagno, quando usciamo con gli amici, quando usciamo a cena con il partner, anche mentre stiamo dialogando con qualcuno che magari ci sta raccontando di attraversare un momento di difficoltà e si confida con noi per sentire il nostro parere o per ricevere una parola di conforto…

Alzi la mano chi non si è mai trovato, come spettatore o come protagonista, al tavolo con un amico, un famigliare o il partner e l’altro passa buona parte del suo tempo a rispondere ai messaggi sulle chat, o a postare foto/commenti su Facebook, Twitter, Instagram, a controllare pedissequamente il cellulare appena arriva un minimo suono da parte di quel suo ‘compagno inseparabile di vita’.

Gli Americani hanno coniato un nuovo termine per descrivere questo atteggiamento: phubbing. Si tratta di una parola che deriva dall’unione di due termini, phone (telefono) e snubbing (trascurare). Il phubbing, quindi, indica l’atto di trascurare qualcuno, mentre si è in sua compagnia, per dedicarsi al proprio telefono. È un fenomeno relativamente nuovo, che ancora ha ricevuto poca attenzione dal mondo della ricerca. Recentemente però è stato pubblicato un articolo su un giornale americano Computers in Human Behaviour (2016) intitolato ‘La mia vita è diventata la principale distrazione dallo smartphone: phubbing e soddisfazione relazionale tra partner‘ (Roberts, David, 2016) su uno studio, svolto presso la Hankamer School of Business della Baylor University, volto a indagare il phubbing messo in atto nei confronti del proprio partner, e l’impatto di questo comportamento nella vita di coppia e del singolo. Gli autori hanno costruito un questionario ad hoc somministrato a un campione di 145 partecipanti. Ecco qualche domanda del questionario:

  • Quando lo smartphone del mio partner suona, lui/lei lo estrae anche se siamo nel bel mezzo di una conversazione;
  • Il mio partner dà uno sguardo al suo smartphone mentre mi parla;
  • Se c’è una pausa durante la nostra conversazione, il mio partner controlla il suo smartphone.

I risultati indicavano che il phubbing aumentava la frequenza dei conflitti relazionali dovuti all’uso del cellulare. Questi conflitti diminuivano poi il livello di soddisfazione nella coppia e, di riflesso, il più generale livello di soddisfazione di vita. Ciò aveva infine un effetto anche sul livello di depressione del partner. Questo effetto del phubbing è ancora più forte nei partner con uno stile di attaccamento di tipo ansioso. Dei 145 partecipanti alla ricerca, il 46% aveva dichiarato di avere un partner con comportamenti indicanti phubbing, il 23% dichiarava che ciò causava conflitti nella coppia, il 37% dichiarava di essersi sentito triste o depresso qualche volta a causa di questi aspetti (Roberts, David, 2016).

 

 

Conclusioni

Alla luce di un modello dell’interazione umana come la Finestra di Johari, risalente agli anni ’50, diventa lecito chiedersi se processi come l’autorivelazione e il feedback possano ancora funzionare oggi, con i nuovi strumenti comunicativi.

Ormai risulterà difficile tornare indietro, i Social Network e tutti i suoi ‘fratelli’ fanno parte della nostra vita. Sta al buon senso di ciascuno di noi decidere come e quando utilizzarli, con che frequenza, in quali contesti. Diventa difficile pensare che il fenomeno del phubbing possa diminuire, dal momento che sempre più spesso nei ristoranti, nei bar e in qualsiasi locale si può notare un cartello più o meno grande con su scritto ‘Free Wi-Fi‘ che solleva l’umore di tutti coloro che non possono fare a meno della propria vita virtuale. Auguriamoci solo di non arrivare al punto di comunicare attraverso chat anche all’interno delle nostre stesse quattro mura.

46esimo Congresso EABCT – Stoccolma 2016

Roots and present branches of CBT

EABCT 2016

Il 46esimo congresso della società europea delle terapie comportamentali e cognitive (EABCT, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) in corso a Stoccolma dal 31 agosto al 3 settembre è –a ragione- molto celebrativo. A tratti corre il rischio di esserlo un po’ troppo. Il tema del congresso sono le radici e la storia della terapia cognitivo-comportamentale, la buona vecchia CBT (cognitive behavioural therapy) e, accanto alle radici, le sue ramificazioni, le sue branches: “Roots and present branches of CBT”.  Il dubbio è che questo ritorno alle radici sia un compenso per l’eccessiva ramificazione, il moltiplicarsi delle “present branches”. Ramificazione che, come sappiamo, rischia di diventare frammentazione.

 

La storia della CBT

Fin dalla cerimonia di apertura molte presentazioni ripercorrono la storia della CBT. Nella prima giornata del congresso ne ha parlato Art Freeman, che ha raccontato i tempi eroici rievocando come fino al 1977 i termini “cognitive therapy” o “cognitive behavioural therapy” non fossero diffusi. La presentazione di Freeman però ha mostrato i limiti di un approccio celebrativo e anedottico, che ha finito di essere di scarso spessore. Ci sarebbero davvero ben altri argomenti su cui riflettere ripercorrendo la storia della CBT, a cominciare dalla sempre più evidente prevalenza delle credenze sul sè (self-beliefs) e degli schemi del sé (self-schemata) che hanno reso la CBT una sorta di psicologia del sé. Freeman invece ha preferito andare sul sicuro con i suoi racconti, ora affascinanti ora risaputi. Il momento migliore è stato quando ha rievocato la figura di Carlo Perris, lo psichiatra italo-svedese che fu tra i primi a portare la CBT in Europa.

 

Le sfide future della CBT

Più sostanzioso Terence Wilson che ha parlato del futuro e delle sue sfide invece che del passato. E queste sfide sono due: l’efficacia della CBT e la sua diffusione. Forse anche Wilson ha evitato i nodi teorici più critici, ma ha affrontato alcuni non detti che occorre riconoscere dietro il trionfalismo. L’efficacia è il primo. La CBT, almeno per alcuni disturbi, rimane la psicoterapia più efficace, anzi la prima davvero efficace in maniera nettamente maggiore rispetto al placebo. È la CBT che ha dimostrato che la psicoterapia può dare qualcosa di più rispetto al sostegno psicologico. Tuttavia questa efficacia non è ancora soddisfacente. Per troppi disturbi, come la bulimia, la percentuale di successo balla intorno alla metà dei casi o addirittura un po’ meno, come nel disturbo ossessivo compulsivo. In termini di efficacia assoluta si può essere contenti per il disturbo da panico e il disturbo d’ansia generalizzato, dove la CBT compete e supera i farmaci. Per quanto anche in questi casi il merito vada condiviso con interventi comportamentali e metacognitivi, massicciamente usati nei protocolli CBT.

La seconda sfida è la diffusione. Anche nei paesi dove c’è un riconoscimento istituzionale, come nel Regno Unito, vi è un singolare attrito degli operatori che rallenta la piena esecuzione della CBT vera e propria, eseguita rigorosamente secondo le regole protocollate. Sarà la naturale tendenza degli operatori psicoterapeutici ad applicare l’approccio più libero della conversazione, spesso spacciato per cura della relazione, fatto sta che siamo ancora lontani da un’applicazione rigorosa dei protocolli. È il problema dell’aderenza. In questo senso una delle presentazioni più attese sarà quella di David Clark, che ripercorrerà la storia (sempre la storia; è un congresso un po’ antiquario) di come il servizio sanitario britannico inserì la psicoterapia nei suoi programmi, il cosiddetto IAPT (Improving Access to Psychological Treatment). Vedremo cosa ci racconterà.

 

Successi e insuccessi della CBT

Sempre nella prima giornata una tavola rotonda su successi e insuccessi della CBT radunava Arnout Arntz, Judith Beck, Ann Marie Albano, Paul Emmelkamp, Art Freeman e Lars-Goran Ost. Dopo aver rapidamente enumerato i successi è stato interessante ascoltare i pareri sugli insuccessi, il che fa capire anche quali sono le future direzioni. Judith Beck ha tirato fuori quello che è ormai il suo marchio di fabbrica: la relazione terapeutica nel trattamento dei disturbi di personalità. È una risposta eclettica che pesca molto dalla psicoanalisi. Ha una sua efficacia, anche perché la Beck la declina in termini cognitivi evitando le genericità di altri: la relazione come esposizione in vivo ai problemi relazionali e possibilità di ristrutturarli in diretta. Una risposta di buon senso clinico che però difetta di robustezza teorica e che, inoltre, è applicata in maniera insufficiente. In fondo si tratta della stessa innovazione della Schema Therapy, che però riesce a produrre un’efficacia significativamente aumentata. La domanda è: è la Schema Therapy ancora una CBT? È una branch che può testimoniare la persistente forza della CBT o è invece prossima a distaccarsi e quindi a indebolire la CBT?

In rappresentanza della Schema Therapy ha parlato Arntz, che tra gli insuccessi della CBT ha enumerato la carenza di interventi esperienziali e l’eccesso di freddezza sperimentale. Anche lui insiste sulla relazione e sul buon senso clinico. Non mi pare un buon segno tutto questo insistere sul buon senso. Per sentire questo non è necessario venire a un congresso. Si delinea una svolta esperienziale e relazionale sempre più accentuata. Emmelkamp ha evocato un futuro tecnologico, con programmi informatici di realtà virtuale che permetteranno di manipolare l’esposizione con più facilità rispetto all’esperienza in vivo. Questo è almeno più concreto. Ann Maria Albano ha raccomandato che si dia maggiore importanza alla componente evolutiva, alla storia di vita del paziente. Storia di vita e relazioni, siamo sempre li, però la Albano ha un protocollo preciso per le relazioni genitoriali. Ancora una volta un po’ banale il contributo di Freeman, che ha esortato la CBT a restare unita e a evitare la frammentazione incombente. Ost invece ha giocato la parte del custode dell’ortodossia, sottolineando i successi.

 

Comportamentismo, CBT e ACT a confronto

In un’altra tavola rotonda si sono confrontati su un caso clinico Jonas Ramnero (comportamentista ortodosso), Keith Dobson (CBT standard) e Lance McCracken, seguace del nuovo approccio ACT (Acceptance and Commitment Therapy, terapia dell’accettazione e dell’impegno). È interessante come anche in questo caso il comportamentista e il CBTista, di fronte alle richieste di come avrebbero affrontato gli aspetti che sfuggono ai rispettivi approcci, abbiano tirato in ballo interventi relazionali ed esperienziali, che però risultavano attaccati in maniera incongrua al loro approccio, come mezzi di fortuna tirati fuori non sapendo che fare. L’esponente ACT aveva dalla sua la possibilità di descrivere il suo operare con una maggiore omogeneità teorica e clinica.

 

Il protocollo di cura dell’ansia sociale: aggiornamenti

Identica impressione nel workshop di David Clark sull’ansia sociale, di cui è autore del protocollo originale di cura. La CBT per l’ansia sociale è una dei grandi successi della nostra terapia. Eppure, non ci si può accontentare. Dopo quarant’anni è necessario se non altro produrre un “update”, un aggiornamento, che poi era il titolo del workshop. Ed è anche giusto riconoscere che la CBT è efficace, perfino molto efficace, ma anche che il numero di persone che non rispondono bene al trattamento rimane alto. Bisogna passare dal “più della metà” al “quasi tutti” migliorano. E anche questo in caso Clark aggiorna inserendo un’appendice non del tutto coerente con il corpo teorico centrale della CBT, ovvero l’addestramento attenzionale, la capacità di fare meno caso ai segnali relazionali in maniera da abbassare l’ansia di essere giudicati. Intervento davvero efficace e che ha anche il merito di non essere l’usuale manfrina sulla relazione, parola generica che ormai significa tutto e nulla. Al contrario, l’addestramento attenzionale è una tecnica molto ben definita. Esso però risponde più a una logica metacognitiva che CBT. Clark non ha affrontato questo nodo, anche a ragione trattandosi di un workshop e non di una prolusione teorica.

 

L’impressione generale

Insomma, l’impressione generale è che da qualche anno la CBT si stia dibattendo con i suoi limiti. Tentando di superarli, teme però di snaturarsi. Inoltre sembra indecisa tra una strada metacognitiva e una relazionale, interpersonale ed esperienziale. Fino a qualche anno fa la risposta prevalente sembrava la mindfulness, strada che aveva quasi egemonizzato un paio di congressi. Ora la mindfulness sembra una risposta tra le tante, e nemmeno quella prevalente. Questo congresso  sembra preferire la strada relazionale ed esperienziale, quest’ultima magari in chiave tecnologica e virtuale.

Lavorare alla Sigmund Freud University: bando per 2 posizioni 2016-2017

La Sigmund Freud University Milano, università privata di psicologia, cerca 2 persone per l’anno accademico 2016-2017

 

Figura Ricercata nr.1 (Posizione assegnata)

Nell’ambito dell’organizzazione del periodo di studio a Vienna previsto dal programma dei Corsi della Laurea Triennale in Psicologia, la sede milanese dell’Università Sigmund Freud cerca un dottore in psicologia per un incarico a tempo determinato di 24 ore settimanali a far data da ottobre 2016 a Giugno 2017.

Coloro che disponessero dei requisiti riportati al punto A) e fossero interessati ad assumere gli incarichi elencati al punto B), sono pregati di trasmettere il proprio CV con lettera di presentazione (che contenga anche una descrizione dei propri interessi scientifici e delle competenze acquisite) a [email protected].

I candidati ritenuti idonei saranno contattati per un primo colloquio di selezione.

A) Requisiti

  • Laurea Magistrale in Psicologia
  • Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (preferibile ma non obbligatoria)
  • Disponibilità a trasferirsi a Vienna
  • Ottima conoscenza della lingua Inglese (parlata scritta), Italiana e tedesca (preferibile ma non obbligatoria)
  • Esperienze come docente in corsi di formazione e/o università

B ) Incarichi:

  • Assistenza organizzativa, e tutoraggio per gli studenti italiani durante il periodo di studi presso la sede centrale della SFU a Vienna;
  • Coordinamento organizzativo e delle attività didattiche per gli studenti italiani tra la sede di Vienna e la filiazione di Milano;
  • Docenze in lingua inglese di psicologia e/o psicoterapia sulla base delle specifiche competenze nei corsi di laurea della SFU a Vienna;
  • Disponibilità a integrare il lavoro al di fuori dell’orario assegnato con attività clinica negli ambulatori della SFU.

 

 

 

Figura Ricercata nr. 2

Nell’ambito del potenziamento del corpo docente dei Corsi di Laurea Triennale e Magistrale in Psicologia, la sede milanese dell’Università Sigmund Freud cerca un dottore di ricerca in Psicologia Generale (M-PSI/01) e Psicologia Clinica (M-PSI/08) per un incarico a tempo determinato  di 30 ore settimanali.

Coloro che disponessero dei requisiti riportati al punto A) e fossero interessati ad assumere gli incarichi elencati al punto B), sono pregati di trasmettere il proprio CV con lettera di presentazione (che contenga anche una descrizione dei propri interessi scientifici e delle competenze acquisite) a [email protected].

I candidati ritenuti idonei saranno contattati per un primo colloquio di selezione.

A) Requisiti

  • Laurea Magistrale in Psicologia
  • Dottorato di Ricerca nel settore scientifico disciplinare di riferimento (M-PSI/01 o M-PSI/08)
  • Pubblicazioni scientifiche internazionali nel settore scientifico disciplinare di riferimento (M-PSI/01 o M-PSI/08)
  • Esperienza di studio all’estero e/o collaborazione a progetti di ricerca
  • Disponibilità a trasferirsi in Lombardia
  • Ottima conoscenza della lingua inglese (parlata e scritta)
  • Disponibilità alla collaborazione e al lavoro di gruppo
  • Competenze nell’area metodologica, statistica e di scrittura scientifica
  • Competenze legate allo sviluppo di nuove tecnologie nell’ambito delle scienze psicologiche.

B) Incarichi

  • Conduzione di insegnamenti nei corsi di laurea SFU nel settore scientifico disciplinare di riferimento (M-PSI/01 o M-PSI/08)
  • Attività di tutoraggio e supporto didattico degli studenti
  • Attività di assistenza come relatore nella preparazione delle tesi di laurea
  • Attività di ricerca in supporto agli studenti o a progetti interni della SFU
  • Attività di coordinamento e organizzazione dell’attività didattica all’interno del consiglio docenti.

Settori scientifico disciplinari prioritari: Psicologia Generale (M-PSI/01), Psicologia Clinica (M-PSI/08)

 

Sigmund Freud University Milano

Cannabis medica: linee guida per l’utilizzo della marijuana nel trattamento del dolore

La marijuana viene spesso utilizzata per il trattamento del dolore cronico: 24 stati hanno legalizzato l’utilizzo medico della pianta e per questo è stata pubblicata una guida per i medici che si occupano di pazienti che fanno uso di cannabis medica.

Silvia Ciresi

 

Il documento ha inoltre individuato nuovi obiettivi per la ricerca futura necessari per comprendere meglio gli effetti dei cannabinoidi sulla salute.

Il seguente articolo è un consenso unitario prodotto da esperti con opinioni diverse circa il valore della cannabis medica nel trattamento del dolore: si passa dai sostenitori della legalizzazione ai contrari all’utilizzo della cannabis, anche per scopi medici.

L’articolo esamina i problemi clinici, di ricerca e politici relativi all’utilizzo della cannabis medica e raccomanda ai medici di effettuare delle consulenze rivolte ai pazienti che fanno uso di cannabis.

Pur riconoscendo che vi è una vasta gamma di opinioni tra i clinici del dolore e ricercatori riguardo all’uso delle foglie di cannabis medica, gli autori fanno notare che molti medici della terapia del dolore e ricercatori concordano sul fatto che i cannabinoidi sono composti chimici clinicamente promettenti e per tale motivo vi è necessità di una ricerca robusta sulla cannabis per identificare i target per lo sviluppo medico della marijuana.

 

 

Raccomandazioni per l’utilizzo della cannabis medica

Le raccomandazioni per la pratica clinica della cannabis medica includono:

  • Conoscere le leggi federali e statali che disciplinano l’uso di cannabis medica.
  • Essere chiari con i pazienti circa gli obiettivi raggiungibili attraverso l’utilizzo della cannabis terapeutica.
  • Effettuare consulenze ai pazienti riguardo le modalità di somministrazione e i potenziali benefici e rischi basate su prove scientifiche e sui specifici sintomi, condizioni e comorbillità di ciascun paziente.
  • Mettere a conoscenza i pazienti sulle diverse varietà di cannabis, farmaci o estratti di cannabinoidi, spiegandone le limitazioni presenti a causa dell’assenza di un controllo normativo.
  • Monitorare i pazienti durante il trattamento con oppiacei o altre sostanze.
  • Eseguire dei controlli a distanza per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di trattamento, la presenza e l’incidenza di effetti collaterali ed eventuali cambiamenti psico-comportamentali.

Gli autori sostengono con forza che un programma di ricerca ampliato risulta necessario per sfruttare pienamente il potenziale clinico delle terapie cannabinoidi. Essi raccomandano di:

  • Aumentare i finanziamenti federali per la ricerca sull’utilizzo della cannabis collegata al dolore.
  • Ampliare gli studi anche a casi di dolore non neuropatico.
  • Ridurre le restrizioni che ostacolano le approvazioni di studi di ricerca sulla cannabis e i cannabinoidi.
  • Migliorare l’accesso agli impianti di cannabis di alta qualità per gli studi di ricerca.
  • Incoraggiare gli stati a raccogliere i dati sia a livello individuale che nella popolazione di pazienti che utilizzano la cannabis medica.

Gli autori hanno concluso che la ricerca sulla coltivazione della cannabis risulta necessaria. L’utilizzo medico della marijuana richiede un’elevata qualità della cannabis attraverso un rigoroso controllo della qualità e la conoscenza delle componenti utilizzate per la coltivazione.

 

Sessualità fluida: nuove prospettive di identità sessuale, tra ricerca e riflessione in psicologia

Attraverso una selezione di alcuni studi condotti negli Stati Uniti sul tema della sessualità fluida ed un’indagine dell’esigenza di diverse persone di creare nuove categorie identitarie nelle quali riconoscersi, arriveremo a proporre una nuova prospettiva di identità sessuale fluida.

Valentina Orlandi, Lorena Lo Bianco, Mattia Nese, Irene Lisa Gargano, Greta Riboli

 

 

Il veloce mutamento sessuale: uno sguardo al panorama americano

Nel corso dell’ultimo decennio, il rapido e dinamico mutamento sociale che ha permesso a sempre più persone di vivere un po’ più liberamente e in modo più rilassato la propria identità, ha portato alcuni esperti ad analizzare più attentamente quanto la rigidità dei confini previsti dalle categorie identitarie codificate dall’orientamento sessuale riuscisse ancora oggi a rappresentare adeguatamente il modo di percepire il nostro “essere sessuali”.

Sebbene, infatti, sia possibile identificare in Kinsey, Martin e Pomeroy (1948) i pionieri di quella branca della sessuologia che ha messo in discussione per la prima volta l’immutabile andamento dicotomico con cui si proponeva la concettualizzazione classica dell’orientamento sessuale (che prevedeva esclusivamente due categorie: l’eterosessualità e l’omosessualità), il momento storico non era evidentemente maturo. A partire dagli anni ’70 e dalla rivoluzione sessuale, il modo di guardare alla sessualità iniziò a modificarsi e le cementificazioni innalzate precedentemente iniziarono a cedere, così il modo di pensare alla propria identità e alle sue articolazioni si ampliò.

Soltanto negli anni 2000, però, si raggiunge una consapevolezza sessuale e una parziale depurazione morale che ci permette di personalizzare maggiormente la nostra identità sessuale, rendendola più “fluida”. Questo è, infatti, quanto emerge dalle ricerche più recenti degli esperti, che analizzano le sue plurime manifestazioni, attraverso prospettive e concetti differenti, concordando, tuttavia, nell’individuazione di un nuovo modo di vivere le sessualità, meno rigido. Nel 2000, infatti, Baumeister conia il termine “plasticità erotica”, con la quale identificare il grado con cui è possibile che il desiderio sessuale venga modificato dall’influenza di fattori sociali, culturali e situazionali.

Inoltre, l’idea maturata dal ricercatore nel corso dello studio è che la motivazione sessuale femminile sia più plastica di quella maschile, a causa di fattori sociali, culturali ed economici, comportando una maggiore adattabilità sessuale nelle donne. L’idea di una sessualità femminile più fluida e malleabile viene, inoltre, ripresa da Lisa Diamond che, basandosi sui risultati emersi da una ricerca longitudinale durata 10 anni, ha teorizzato il costrutto di “fluidità sessuale”, considerandolo come un costrutto prevalentemente femminile. Analizzando, infatti, le interviste fatte e ripetute 5 volte su un campione di 100 donne (11 autodefinitesi eterosessuali, 38 lesbiche, 27 bisessuali e 24 non-eterosessuali, senza darsi alcuna definizione), emerge quella che Lisa Diamond definisce come una capacità di reattività sessuale flessibile a seconda delle varie situazioni (2008). Dalla prima intervista alla quinta, più di due terzi delle donne intervistate hanno cambiato la definizione della propria identità sessuale almeno una volta, presentando frequentemente una predilezione per la non-definizione: questo perché spesso la loro attrazione deviante dal proprio orientamento sessuale generale, non è così frequente (o intenso) da giustificare un ri-etichettamento classico.

Tuttavia, la ricerca in quest’ambito è ancora agli albori e risente tuttora delle forti restrizioni sociali che regolano le sessualità maschili, rendendo difficoltosa la loro analisi: come dimostra lo studio di Katz-Wise (2014), infatti, anche la sfera del maschile presenta una buona tendenza all’attrazione sessuale fluida, nonostante i forti condizionamenti esercitati dalla società (dal suo studio, in particolare, emerge come accanto al 64% del campione femminile, anche il 52% degli uomini intervistati hanno riferito di percepire la propria attrazione come dinamica). Eppure questa sfera rimane ancora scarsamente analizzata.

 

 

L’esigenza di categorie ad hoc

Oggi ci troviamo di fronte ad un invecchiamento delle categorie classiche di identità sessuale che non riescono più a rispondere adeguatamente al frenetico mutamento sociale, reso tale anche dall’utilizzo massivo dei social network.

A questo proposito, analizzando le tematiche identitarie trattate sulle piattaforme virtuali, abbiamo notato come una fascia di popolazione in particolare rivendichi l’esigenza di nuove categorie, nelle quali potersi identificare (ad esempio, pansessuale, polisessuale, gender fluid, no gender).

Questo bisogno si evince anche dall’ampliamento della comune sigla LGBT, che ad oggi, per questa ragione, vede al suo seguito il segno “+”.

Un recente dibattito si gioca sulla possibilità di usare il termine queer come parola ombrello capace di rappresentare chiunque abbia un’identità non conforme.

Il nostro intento è invece quello di andare oltre alle sigle, trovando un costrutto che dia spazio ad ogni identità sessuale, e che non inciampi nel rischio di escludere le cosiddette categorie “conformi” (tra cui, eterosessuali e cisgender).

In base alla definizione stessa di categorizzazione, coloro che presentano caratteristiche sia di una categoria sia di un’altra non trovano posto nelle classi esistenti. Come conseguenza di ciò, le persone ritengono forse che creare una nuova categoria possa essere una facile soluzione per ovviare al problema, senza valutare quanto questo passaggio possa rivelare invece effetti paradossali.

 

 

Un nuovo sguardo sulla sessualità fluida

Nella nostra visione la sessualità fluida non si limita unicamente ad un’espressione fluttuante dell’identità di orientamento sessuale di una persona nel corso della sua vita, ma viene estesa all’intero concetto di identità sessuale, composta da cinque diversi elementi: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale e orientamento affettivo (vedi glossario) (S.B. Oswalt, S. Evans e A. Drott, 2016).

L’identità non è una proprietà data dalla nascita, ma è un processo in continuo divenire, il quale tende all’instaurarsi di una stabilità relativa alla coerenza tra la percezione di sé e le diverse componenti sopra elencate, capace di rendere una persona ciò che è.

Essere se stessi dovrebbe essere la cosa più semplice al mondo, ma è una tra le sfide più faticose della vita. I casi in cui si verifica un’incoerenza tra ciò che un soggetto sente di essere e come vorrebbe essere, oppure tra ciò che sente di essere e come viene visto da altri o, ancora, tra ciò che sente di essere e come vorrebbe essere visto, oltre a non essere affatto rari, possono generare una grande sofferenza.

Il fulcro della nostra idea di sessualità fluida si riferisce proprio alla possibilità che ognuno sperimenti la bellezza di trovarsi, in quanto essere unico, senza doversi riferire necessariamente alle prospettiche categorie pre-esistenti alle quali dover accedere per potersi definire.

Si può definire il processo classificatorio come un’operazione attraverso la quale si possono ridurre diversi oggetti in un numero minore di categorie ordinate gerarchicamente, con lo scopo di riconoscere tali oggetti più facilmente.

Sottolineando il fatto che le categorie non sono scoperte, ma invenzioni umane, totalmente legate alla società in cui si vive, ci chiediamo se nel processo di scoperta della propria identità sia auspicabile una semplificazione di questo tipo, o se non sia un forte ostacolo ad una conoscenza autentica di sé ed un ulteriore peso gravante sui conflitti identitari di alcuni.

La sessualità fluida potrebbe finalmente permettere di andare oltre a questa facilissima, ma limitante, visione categoriale dell’identità sessuale, consentendo a chiunque di esplorare se stesso coraggiosamente e costruire un’identità su misura, nella quale sentirsi a proprio agio, ed essere libero di poter esprimere qualsiasi pensiero, desiderio e fantasia.

 

 

Lo scenario italiano

Ad oggi, nel panorama scientifico italiano nessun autore si è ancora occupato del tema della sessualità fluida.

Questa carenza può derivare dal fatto che in Italia vi sia un background culturale poco favorevole al trattamento di questi argomenti. Appare, infatti, evidente come nella società italiana sia ancora presente un limite ad accettare l’esistenza stessa di differenti categorie identitarie e quanto ciò influenzi il lavoro scientifico e psicologico stesso (American Psychological Association, 2012; V. Lingiardi e N. Nardelli, 2014).

Il nostro obiettivo vorrebbe essere quello di suscitare riflessioni, che fino ad ora sembrano essere state assenti; le quali emergono da un’osservazione attenta del principale oggetto delle discipline psicologiche: l’essere umano, le sue esigenze contemporanee ed i disagi ad esse connesse.

 

fluIDsex

 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

 

Glossario:

  • Identità Sessuale: percezione di sé come individuo sessuato. L’identità sessuale è un costrutto multidimensionale, composto da sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale e orientamento affettivo.
  • Sesso Biologico: appartenenza biologica al sesso maschile, femminile o intersessuale.
  • Identità di Genere: percezione di sé come individuo femminile, maschile, entrambi o nessuno dei due.
  • Ruolo di Genere: esteriorizzazione dell’identità di genere, influenzata dalle aspettative sociali del contesto di appartenenza e di ciò che la cultura considera maschile o femminile.
  • Orientamento Sessuale: specifica il genere e le caratteristiche sessuali dell’oggetto di attrazione erotica.
  • Orientamento Affettivo: specifica il genere e le caratteristiche dell’oggetto di attrazione affettiva.

 

Psicologia e videogames: il caso di Clash of Clans

Clash of Clans è un videogame sviluppato da Supercell nell’Agosto del 2012, utilizzabile tramite dispositivi portatili (Android e iOS) e scaricabile gratuitamente online nella categoria “giochi di strategia”.

Rossetti M*., Chiapasco E**., Gandino G.***

Il videogame Clash of Clans

È classificato con codice PEGI 7 (Pan European Game Information) che significa essere stato ritenuto idoneo per i ragazzi oltre i 7 anni. Interessante notare che, nonostante questa classificazione, leggendo attentamente le condizioni di utilizzo non dovrebbe essere scaricato prima dei 13 anni (Google Play, 2016).

Il videogame consiste nel costruire un villaggio, il più completo possibile di unità difensive ed edifici, e formare un esercito con il quale attaccare i villaggi di altri giocatori, ottenendo così bottino e trofei.

Più utenti insieme, provenienti anche da località diverse nel mondo, possono poi unire le loro forze e costituire un clan, collaborando tra di loro per primeggiare sui clan avversari. Quasi tutti i componenti del videogame possono essere “costruiti” in un tempo variabile a seconda del livello raggiunto. Per costruire nuovi edifici, creare nuove truppe o migliorarne il livello, sono necessarie alcune risorse (oro ed elisir) che sono autogenerate gratuitamente dal gioco con il passare del tempo o possono essere acquistate con denaro reale. Uno degli aspetti importanti è che quando non si è connessi al gioco si può essere attaccati dagli avversari con la possibilità di perdere gran parte delle risorse accumulate.
All’interno del gioco sono presenti due chat, una globale che connette in modo casuale giocatori sconosciuti, l’altra riservata ai giocatori facenti parte di uno stesso clan.

 

La dipendenza dal videogame

Possiamo considerare Clash of Clans come un fenomeno di massa, che coinvolge milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Una delle leggende della storia del gioco è sicuramente George Yao, diventato, poco dopo il lancio del gioco, il numero uno della classifica mondiale superando i 4000 trofei e diventando una vera celebrità per gli altri giocatori. Yao ha dichiarato, in una intervista pubblicata sul The New York Times nel 2013, che il gioco aveva assorbito completamente la sua vita, il suo lavoro era diventato solo un semplice strumento per guadagnare i 250 dollari a settimana che gli servivano per acquistare risorse nel gioco. Il divertimento era sparito, e il gioco si era trasformato in una attività a tempo pieno. Dopo sei mesi di gioco a questi livelli George Yao decise di ritirarsi, lasciando il suo villaggio a un membro del suo clan (Bai, 2013).

George Yao non è un caso isolato e sono molte le persone, ragazzi e adulti, disposte a spendere denaro per salire più velocemente di livello o per comprare altre opzioni di gioco, tanto che la Supercell, azienda finlandese creatrice di Clash e di altri giochi online, nel 2015 ha annunciato di aver triplicato il fatturato raggiungendo la cifra record di 1,5 miliardi di euro nel 2014 (The Guardian, 2015). Il fatto di essere un gioco Freemium, ovvero scaricabile gratuitamente, ma con componenti e vantaggi disponibili esclusivamente in seguito ad acquisto reale, lo rende estremamente insidioso: il rischio è di lasciarsi talmente coinvolgere dal meccanismo di gioco, e di diventare come Yao, perdendo di vista il divertimento e arrivando a spendere cifre elevatissime. C’è chi di Clash of Clans ne fa un mercato, e infatti sono molte le persone che mettono in vendita su E-Bay i propri villaggi a cifre anche molto elevate (400 euro).

Ci sono poi moltissimi giocatori che non spendono denaro, ma dedicano al gioco gran parte del loro tempo. In una ricerca condotta nel 2015 dal Centro Studi Psicologia e Nuove Tecnologie Onlus di Torino (Vianzone, et al.) su un campione di 730 ragazzi di 13/14 anni, la percentuale di giocatori a Clash of Clans è risultata essere del 50%; di questi il 18% ha dichiarato di giocarci tra le 2 e le 4 ore, mentre il 4,3% ha dichiarato di giocarci più di 4 ore giornaliere.

 

Gli aspetti positivi del videogame

Non dobbiamo soffermarci solamente alle possibili insidie nascoste nel gioco, ma chiederci anche se ci siano degli aspetti positivi: analizzando la struttura del gioco è possibile notare che fornisce numerosi rinforzi al giocatore sia a livello individuale sia a livello sociale.

A livello individuale si evidenza una rincorsa a ottenere un sempre maggior numero di risorse; una curiosità nei confronti dei livelli successivi; il desiderio di migliorare le strutture del proprio villaggio rendendole sempre più forti in difesa e potenti in attacco. A livello sociale Clash of Clans offre la possibilità di chattare con altri giocatori all’interno del gioco stesso e, come molto spesso accade, il gioco diventa argomento di conversazione in contesti reali come la scuola o gli ambienti lavorativi. Uno dei motivi che rende il gioco davvero appassionante è poi quella situazione di profondo coinvolgimento che sperimentiamo di fronte ad attività molto difficili secondo le nostre valutazioni, ma non impossibili da svolgere in quanto ci sentiamo in possesso delle competenze e delle abilità sufficienti.

I game designer si adoperano per realizzare giochi che consentano di sperimentare tale esperienza; l’utente di Clash of Clans deve scegliere un villaggio avversario contro cui combattere, che può essere anche di livello superiore al proprio, ma la percezione di avere le risorse adeguate a batterlo può essere una fonte importante di motivazione a giocare per dimostrare la propria superiorità. In queste situazioni si può perdere la cognizione temporale vivendo un’esperienza che viene definita “di flusso”. L’impatto emotivo è un elemento di fondamentale importanza per il creatori di videogames che cercano di indurre nei propri utenti esperienze dove il piacere e la gioia superino la paura di fallire (De Beni & Moè, 2000).

Se prendiamo in considerazione gli elementi fondamentali costituenti il benessere di una persona secondo il modello PERMA di Seligman del 2011 (Kern, Waters, Adler, & White, 2015) possiamo ipotizzare che costruire il proprio villaggio, schierare le proprie truppe e combattere possa permettere al giocatore di sentirsi impegnato (Engagement) in un’attività che gli genera soddisfazione. La presenza dell’elemento sociale, della possibilità di interagire con altri giocatori direttamente nella chat del gioco o anche nella vita reale con amici o colleghi, può facilitare lo sviluppo di relazioni (Relationship) con altri individui con i quali si condivide una passione.

Essere parte di un clan può attivare inoltre il senso di appartenenza e una modalità collaborativa con gli altri membri attraverso la donazione di truppe utili per sconfiggere i clan avversari. Nel gioco inoltre ogni azione è diretta a uno scopo preciso e questo consente al giocatore di trovare un significato (Meaning) al proprio agire. Infine vincere una battaglia, ottenere trofei, guadagnare risorse e salire di livello, sono elementi che possono condurre l’individuo a una sensazione di realizzazione (Accomplishment) di sé, a un miglioramento della propria autostima e della fiducia nelle proprie competenze (Jones, Scholes, Johnson, Katsikitis, & Carras, 2014).

Se da un lato ci sembra molto importante sottolineare i possibili rischi connessi all’utilizzo di questo o altri videogiochi (la dipendenza, la possibilità di essere contattati da malintenzionati, la possibilità di essere aggrediti e offesi verbalmente nelle chat, la riduzione di altre attività sociali o ricreative) dall’altro vorremmo sottolineare anche come osservando le dinamiche del gioco e analizzandone la struttura sia possibile coglierne gli aspetti positivi.

Il gioco sembra infatti avere caratteristiche in grado di migliorare il benessere individuale e di sviluppare determinate abilità sociali e relazionali che, in alcuni casi, potrebbe essere più difficile sviluppare nella vita reale.

 

Conclusioni

Clash of Clans, così come molti altri giochi online, può divertire e allo stesso tempo concorrere allo sviluppo di abilità e potenzialità. Resta sempre fondamentale però un atteggiamento vigile e di prudenza nei confronti dei rischi connessi all’abuso o a un utilizzo improprio del gioco.

Dall’emergenza alla normalità. Strategie e modelli di intervento nella psicologia dell’emergenza (2016) di C. Iacolino – Recensione

Cosa viene in mente con il termine ‘Calamità naturale‘? Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare uno scenario: ci troviamo di fronte all’esito di una catastrofe di questo tipo. Cosa vediamo? Abitazioni abbattute, strade distrutte, paesi non più abitabili.

 

I danni che una calamità naturale può generare sono notevoli e di grave entità, senza dimenticare le conseguenze traumatiche a cui andranno incontro i soggetti vittime di questi disastri.

Su queste persone interverrà la branca ormai nota della psicologia dell’emergenza, la quale si occupa di prestare attenzione a quei problemi di ordine psicologico o psichiatrico a cui potrebbero incorrere le popolazioni colpite e i loro soccorritori.

Il libro di Iacolino apre gli occhi su molti aspetti della psicologia in quei contesti di emergenza, dove gli individui non sono inquadrabili come ‘patologici’, ma sono ‘sani’ e messi a dura prova dalla vasta gamma di reazioni che, oltre a provocare evidenti sofferenze psichiche, costituiscono normali risposte all’esposizione di eventi che minacciano l’incolumità della persona.

Come muoversi in questi casi? Come può la psicologia dell’emergenza far sì che gli individui coinvolti tornino ad affrontare la vita con lo spirito giusto? Sicuramente la maggior parte degli psicologi avrà sentito parlare delle tecniche di Defusing e Debriefing; si tratta di due interventi di emergenza attivabili in gruppo.

Conosciamo esattamente in cosa consistono e come si applicano? Iacolino espone dettagliatamente le due tecniche, ponendo particolare accento alle emozioni dei soggetti e alle reazioni psicologiche a cui diviene opportuno prestare attenzione al fine di poter operare correttamente.

Gli eventi catastrofici ai quali si trova a far fronte la psicologia dell’emergenza mettono l’essere umano in quella situazione di impotenza che gli impedisce di reagire normalmente; talvolta sembrerebbe quasi impossibile reagire.

Eppure normalizzare i pensieri, le reazioni e i sintomi è possibile. Iacolino, in vari capitoli del libro, espone l’importanza dell’ascolto attivo in questi contesti: narrare gli eventi, i pensieri, le emozioni, condividere le esperienze riattivando i sintomi e le sensazioni negative aiuta i partecipanti a superare il trauma.

Naturalmente i conduttori di Debriefing e di Defusing dovranno essere in grado indagare accuratamente gli stati d’animo e i pensieri delle vittime, sostenendoli ed empatizzando con loro. E la dettagliata descrizione in fasi dei due interventi esposta dall’autore non può far altro che facilitare il compito dei soccorritori.

E se tali soccorritori, seguendo le corrette linee guida, saranno bravi ad attuare i processi e le tecniche di intervento, saranno altrettanto bravi nel comunicare adeguatamente in queste situazioni di crisi?

Iacolino interviene adeguatamente anche sulla tematica della comunicazione nei contesti di emergenza, elemento non trascurabile. Qualsiasi notizia va comunicata in maniera corretta alle vittime, alle istituzioni, ai mass media, e affinché i messaggi vengano trasmessi adeguatamente anche la comunicazione va pianificata e preparata seguendo le giuste accortezze.

Perché non sarà affatto semplice comunicare un pericolo, una tragicità, un decesso, tanto meno accogliere tali notizie.

Nelle situazioni di emergenza i soggetti implicati sono tanti: vittime, familiari delle vittime, soccorritori, istituzioni, mass media. E il compito del soccorritore è sostenere le vittime, ma soprattutto far rete tra tutte le parti. Tutto ciò affinché le persone coinvolte possano tornare in una  situazione di normalità, e al contempo facendo sì che vengano attuate le giuste misure preventive per eventuali altri rischi.

Nel testo l’autore espone la tematica della psicologia dell’emergenza da un punto di vista completo: affronta inizialmente il quadro storico della psicologia in questi contesti, espone poi dettagliatamente le metodologie e i processi in fasi da attuare da parte dei soccorritori, ed infine si sofferma su tutte quelle accortezze inerenti la comunicazione e il processo di empatia tra operatori e vittime.

Un’ottima guida per tutti coloro che hanno in qualche modo intenzione di mettere in gioco le proprie competenze psicologiche nei contesti di emergenza.

Perché dietro ad un disastro naturale c’è un mondo, un mondo composto da persone che solo operando con le proprie capacità e potenzialità potranno essere in grado di ricostruire una città, e naturalmente anche la giusta tranquillità interiore.

Clima e violenza: nuove scoperte sulla relazione tra territori caldi e comportamento aggressivo

Il mondo della ricerca è da tempo impegnato per cercare di spiegare il motivo per cui molti crimini violenti sono più frequenti nei territori più caldi, in prossimità dell’equatore, rispetto ad altri luoghi. Oggi, un team di ricercatori ha sviluppato un modello che potrebbe contribuire ad avvicinarci alla verità.

 

Questo nuovo modello cerca di andare oltre la semplice evidenza, per cui dove ci sono temperature più calde, si verificano un tasso più elevato di aggressività e violenza.

Ha dichiarato Brad Bushman, co-autore dello studio e professore di comunicazione e psicologia presso la Ohio State University:

Il clima influisce su come le persone vivono la loro quotidianità, da forma alla cultura più di quanto siamo abituati a pensare.

Paul van Lange, autore principale dello studio, ha aggiunto:

Crediamo che il nostro modello possa aiutare a spiegare l’impatto del clima sui tassi di violenza nelle diverse parti del mondo.

Il modello è stato chiamato CLASH (CLimate Aggression, and Self-control in Humans), ed è stato descritto sulla rivista Behavioral and Brain Sciences.

Molti studi hanno già dimostrato che i livelli di violenza e aggressività sono più alti nei climi più caldi; ma le spiegazioni principali al riguardo, non sono soddisfacenti.

Ad esempio, Il Modello Generale Dell’Aggressività (GAM), suggerisce che le temperature più calde rendono le persone più irritabili e suscettibili a reagire in modo aggressivo. Un’altra teoria accreditata (Routine Activity Theory) afferma che nei luoghi caldi, le persone trascorrono più tempo all’aperto in contatto l’una con l’altra rendendo maggiormente probabile il conflitto.

Il modello CLASH, fa un passo in più, affermando invece che, non sono solo le temperature alte a incidere sui tassi di violenza, ma soprattutto la variabilità stagionale delle temperature.

Gli autori spiegano che, una forte variabilità nelle temperature stagionali influisce nello strutturarsi della cultura del luogo in un modo molto profondo, molto più di quanto siamo abituati a pensare.

La vita nei luoghi dove il clima varia molto da stagione a stagione necessita di una forma di controllo e pianificazione, molto più attenta, incidendo sullo sviluppo delle personalità individuali e sulle abitudini delle popolazioni.

Dove c’è meno variazione climatica, l’ambiente richiede una minore necessità di pianificazione, per cui le popolazioni possono vivere il presente con maggiore libertà, con un atteggiamento meno conservativo, maturando così un’inferiore capacità di autocontrollo e soppressione degli impulsi.

Questo spiegherebbe il perché in questi paesi, gli individui manifestano una ridotta capacità a contenere le manifestazioni violente, incidendo sui tassi di criminalità del territorio.

Crediamo che il modello CLASH possa fornire un solido quadro per la comprensione delle differenze di violenza che si riscontrano in tutto il mondo.

Dal momento che tale modello rappresenta una teoria pioneristica, altri studi dovranno accertarne la veridicità. Bushman afferma tuttavia che, già numerose prove suggeriscono che il modello vada nella giusta direzione.

 

E tu giochi? La valutazione del gioco simbolico in età evolutiva: l’Affect in Play Scale (2016) – Recensione

L’ Affect in Play Scale (APS) è uno strumento utile per valutare la qualità del gioco simbolico e le abilità cognitive e affettive dei bambini di età prescolare e scolare.

 

[blockquote style=”1″]Giocare significa allenare la mente alla vita. Un gioco non è mai solo un gioco[/blockquote] (Littleword).

Il gioco rappresenta un mezzo attraverso il quale la personalità, i comportamenti, i pensieri, la creatività hanno la possibilità di esprimersi. Si tratta dello strumento più potente per immergersi nel mondo interno dei più piccoli.
Indagare il gioco simbolico nella fase di assessment diventa, dunque, imprescindibile per poter ottenere rilevanti informazioni sullo sviluppo cognitivo e affettivo dei bambini.
Partendo da questo presupposto Sandra Russ ha ideato l’ Affect in Play Scale.

 

L’ Affect in Play Scale

L’ Affect in Play Scale (APS) è uno strumento utile per valutare la qualità del gioco simbolico e le abilità cognitive e affettive dei bambini di età prescolare e scolare. Sandra Russ, psicologa, psicoterapeuta e professoressa ordinaria presso la Cale Western Reserve University di Cleveland ha ideato questo strumento evidence-based per fornire un importante contributo alla fase di assessment in età evolutiva. Le autrici Claudia Mazzeschi, Silvia Salcuni, Daniela Di Riso, Daphne Chessa,  e Adriana Lis hanno poi pubblicato la validazione italiana dell’ Affect in Play Scale effettuata su un campione di bambini tra i 4 e i 10 anni e i cui valori normativi sono forniti nello stesso manuale.

 

La struttura del libro

I primi due capitoli forniscono importanti riferimenti alla letteratura sul gioco e alle principali prospettive teoriche, tra cui quella evoluzionistica che considera il gioco come mezzo per sviluppare le proprie abilità fisiche, cognitive e sociali e le strategie di coping e adattamento; la prospettiva etologica che ritrova il gioco anche in altre specie animali o quella antropologico-culturale che indaga le somiglianze e le differenze tra le culture rispetto all’espressione del gioco. Nei primi capitoli si esplicita anche come il gioco consenta la compresenza di finzione e realtà, lo sviluppo di capacità rappresentazionali e simboliche, la riflessione di nuove idee e nuove strategie di problem solving e lo sviluppo del pensiero divergente. Stimolare il bambino nel gioco significa aprire la sua mente all’immaginazione, alla creatività, gli consente di risolvere situazioni, di inventare storie, di esprimere i propri vissuti emotivi.

Il terzo capitolo descrive il modello teorico dal quale Sandra Russ è partita nell’ideazione del suo strumento e vengono descritte le versioni dell’ Affect in Play Scale sia per i bambini di età scolare che di età prescolare. La Russ sottolinea come attraverso questo strumento sia possibile ottenere rilevanti informazioni rispetto sia ai processi cognitivi che affettivi dei bambini.

Il quarto e quinto capitolo descrivono nel dettaglio i materiali, le istruzioni e le indicazioni per lo scoring. Numerosi trascritti aiutano nella comprensione della fase di attribuzione dei punteggi.

Il sesto capitolo riporta i punteggi normativi validi per entrambe le versioni della scala, definiti a seguito del processo di validazione effettuato con bambini di età prescolare e scolare.

I capitoli 7 e 8 descrivono i profili che è possibile individuare attraverso queste scale, in merito alle variabili sia cognitive (organizzazione della storia, elaborazione, immaginazione e comfort) che affettive (facendo riferimento alle categorie affettive sia positive che negative).

Il capitolo 9 invece descrive una versione ridotta della scala che può essere utilizzata nel caso in cui non si abbia la possibilità di videoregistrare le sessioni di gioco. In tal caso lo scoring può essere effettuato carta e matita facendo riferimento ad un numero minore di variabili.

Il penultimo capitolo riporta diverse esemplificazioni cliniche, mentre l’ultimo racconta come questo metodo possa essere utilizzato anche in programmi di intervento preventivi per migliorare le abilità di gioco dei bambini.

 

La procedura dell’Affect in Play Scale

Il compito consiste nel far giocare il bambino liberamente per cinque minuti con 2 marionette e 3 blocchetti di legno colorati di diversa forma geometrica.
Il somministratore fornisce le indicazioni da seguire e dei prompt nel caso in cui il bambino non proceda nel gioco spontaneamente. L’intera sessione di gioco viene videoregistrata e poi trascritta.
Lo scoring viene effettuato secondo precise categorie cognitive e affettive e poi viene effettuato il confronto con i dati normativi di riferimento.

 

Conclusioni

Il gioco simbolico costituisce uno degli strumenti maggiormente utili per indagare il mondo interno dei piccoli e l’ Affect in Play Scale può costituire un’ importante guida per la strutturazione dello stesso e per poter delineare un profilo, basato su evidenze empiriche, dello sviluppo cognitivo e affettivo dei bambini.
Un testo assolutamente utile e consigliato per chi si occupa di età evolutiva.

Dark Triad: le personalità oscure sembrano avere maggior successo negli appuntamenti

Le persone con tratti narcisisti e antisociali sembrano avere più successo nell’ottenere appuntamenti, secondo quanto emerso in un recente studio pubblicato nell’European Journal of Personality.

 

Narcisismo e psicopatia sono due dei tre tratti di personalità della Triade Oscura (Dark Triad, DT), che è composta da:

  • Narcisismo (ricerca di attenzione e ammirazione, grandiosa ma bassa autostima, vanità, arroganza, esibizionismo, fascino, manipolazione altrui, sentimenti di superiorità);
  • Machiavellismo (pensiero immorale, pragmatico e cinico, atteggiamento distaccato e freddo, manipolazione finalizzata, brama di soldi, successo e potere);
  • Psicopatia (comportamento antisociale, mancanza di empatia, ricerca del brivido, manipolazione e impulsività).

Nonostante la loro indesiderabilità socialmente condivisa, questi tratti sembrano implicare un maggiore successo in diversi domini, tra cui appunto quello degli incontri.

I tratti Dark Triad determinano l’utilizzo di strategie di accoppiamento a breve-termine, ma potrebbero avere effetti diversi sul reale successo nelle relazioni in scenari naturalistici. Al contrario, molti dei tratti di personalità Big Five (estroversione, amicalità, apertura mentale, coscienziosità e stabilità emotiva) sembrano consentire un successo a lungo termine.

Con tali premesse, i ricercatori hanno analizzato come le persone con tratti Dark Triad vengano percepite dal potenziale partner, all’interno di un contesto naturalistico (speed date). Inoltre, hanno considerato il ruolo dell’attrazione fisica come mediatore tra i fattori.

Lo studio ha coinvolto  90 soggetti eterosessuali (46 donne e 44 uomini; 18-32 anni). Prima dello speed date, i partecipanti hanno completato alcuni questionari atti a misurare i tratti di personalità Dark Triad e Big Five.

Successivamente, i soggetti hanno partecipato agli incontri (3 minuti circa) ed al termine di ciascuno di essi hanno completato un questionario per valutare la desiderabilità del potenziale abbinamento. Il questionario includeva domande sull’attrazione fisica e sulla personalità, così come una serie di affermazioni come ‘Mi piacerebbe questa persona per l’avventura di una notte’ a cui i partecipanti hanno assegnato un punteggio.

In entrambi i sessi, i tratti narcisisti hanno indotto una maggiore desiderabilità nei potenziali partner sia per relazioni a breve termine che a lungo termine. Nelle donne, inoltre, i tratti antisociali sono stati considerati attraenti ma solo per relazioni a breve termine. Il fatto che il machiavellismo non sia stato considerato attraente può dipendere dalla sensazione di oscurità e indesiderabilità che inducono gli aspetti peculiari di tale tratto, risultando quindi in reazioni di evitamento.

Per quanto riguarda l’attrazione fisica, invece, come variabile in sé è risultata fortemente correlata con la possibilità di essere scelti, specialmente nelle donne. Inoltre è risultata correlata al narcisismo nelle donne e all’estroversione negli uomini.

Controllando i dati , il link tra estroversione e successo nell’approccio maschile risulta mediato proprio dall’attrazione fisica. Viceversa, il link tra narcisismo e successo femminile rimane comunque forte.

È interessante notare che l’interesse per un rapporto a lungo termine si è dimostrato essere negativamente reciproco: una donna o un uomo che hanno espresso interesse per un rapporto a lungo termine verso un partner sono stati giudicati come poco attraenti per relazioni a lungo termine da quello stesso soggetto. È come se apparire disperatamente bisognosi di un partner determini minori possibilità di essere scelti.

I ricercatori, pur considerando questi risultati davvero illuminanti, ritengono che sia necessario ulteriore lavoro. Lo studio, infatti, ha coinvolto solo tre gruppi di speed dating e sarebbe pertanto interessante studiare gli effetti riscontrati usando un numero di gruppi più ampio.

Disturbo affettivo stagionale e la light therapy

Disturbo affettivo stagionale: È caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni.

Valeria Marchesoli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Disturbo affettivo stagionale

Definizione

Definito per la prima volta da Norman E. Rosenthal nel 1984, il disturbo affettivo stagionale (SAD) è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale.

È caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni. Ai fini diagnostici, gli episodi depressivi stagionali devono superare numericamente in modo sostanziale gli episodi depressivi non stagionali che possono essersi verificati durante l’arco di vita dell’individuo. La diagnosi di disturbo affettivo stagionale non è applicabile a quelle situazioni in cui il pattern è meglio spiegato da fattori psicosociali stressanti collegati a determinati periodi dell’anno, per esempio la disoccupazione stagionale (American Psychiatric Association, 2014).

La modalità di presentazione prevalente è la “forma invernale”: la sintomatologia depressiva ha inizio durante la stagione autunnale, raggiunge il massimo dell’intensità durante la stagione invernale e si risolve, parzialmente o totalmente, all’inizio della stagione primaverile.
Esiste anche una “forma estiva” del disturbo affettivo stagionale: gli episodi depressivi si presentano all’inizio della stagione primaverile, raggiungono il culmine nel periodo estivo e si risolvono all’inizio della stagione autunnale.

Prevalenza

Il DSM-5 riferisce un aumento della prevalenza della forma invernale del disturbo affettivo stagionale all’aumentare della latitudine geografica e un maggior rischio per persone più giovani. L’età di esordio è stimata tra i 18 e 30 anni ed i tassi di prevalenza del disturbo nel genere femminile sono circa quattro volte superiori a quelli nel genere maschile (Melrose, 2015).

Sintomi

Rosenthal et al. (1984) hanno indicato le differenze cliniche del disturbo affettivo stagionale rispetto alla depressione endogena a partire dai sintomi: nel disturbo affettivo stagionale sono presenti ipersonnia, iperfagia e aumento ponderale mentre insonnia, anoressia e perdita di peso caratterizzano la depressione endogena.

Melrose (2015) ha rilevato i sintomi della forma invernale del disturbo, che sono centrati su umore triste ed astenia: i soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale possono sentirsi tristi, irritabili e possono piangere frequentemente; sono stanchi e letargici, hanno difficoltà di concentrazione, dormono più del normale, mancano di energia, diminuiscono i loro livelli di attività, evitano situazioni sociali, hanno un forte desiderio di carboidrati e zuccheri e tendono ad ingrassare per eccesso alimentare.
Al contrario, i sintomi del meno frequente pattern estivo del disturbo sono inappetenza associata a perdita di peso, insonnia, agitazione, irrequietezza, ansia, irritabilità e perfino episodi di comportamento aggressivo (Melrose, 2015).

Il SAD può variare per gravità dei sintomi, da una forma più leggera o subsindromica (S-SAD) a forme più invalidanti con compromissione del funzionamento. Possono essere presenti ideazioni suicidarie (Melrose, 2015).

Cause

L’ipotesi clinica di Rosenthal e collaboratori era che i pazienti fossero più vulnerabili alla depressione in autunno o in inverno in reazione a eventi di vita stressanti, ma che tali eventi da soli non svolgessero un ruolo di primo piano nelle depressioni. La caratteristica clinica principale, osservata nei pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale, è la loro sensibilità a cambiamenti di stagione e latitudine e la ricorrenza quasi annuale dei loro episodi depressivi. Rosenthal et al. (1984) propongono, come variabili climatiche rilevanti, la lunghezza del giorno, le ore giornaliere di sole e la temperatura, tutte correlate tra loro.

Recenti studi condotti dalla dottoressa Brenda Mc Mahon e colleghi dell’Università di Copenaghen hanno rilevato una correlazione tra i livelli di serotonina ed il disturbo affettivo stagionale. Le persone che sviluppano il disturbo affettivo stagionale avrebbero difficoltà nella regolazione della serotonina, neurotrasmettitore ritenuto responsabile della stabilizzazione dell’umore, e nei livelli di SERT, proteina che trasporta la serotonina.
McMahon e colleghi hanno scoperto che nei pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale i livelli di SERT aumentavano con il diminuire delle ore di luce, con una fluttuazione del 5% circa, mentre soggetti sani non hanno mostrato cambiamenti nei livelli di SERT.
Più alti livelli di SERT conducono ad una minor attività della serotonina, causando depressione.
Durante l’estate, la luce solare generalmente mantiene i livelli di SERT bassi in modo naturale. Quando la luce solare diminuisce in autunno, vi è una corrispondente riduzione dell’attività della serotonina (McMahon et al., 2014).

Altri ricercatori (Lewy, Lefler, Emens & Bauer, 2006) hanno ipotizzato che soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale possano avere difficoltà anche con la sovrapproduzione di melatonina. La ghiandola pineale, che produce melatonina rimuovendo la serotonina, aumenta a dismisura con il diminuire della luce: quando i giorni invernali diventano più bui, la produzione di melatonina aumenta e, come risposta, soggetti con disturbo affettivo stagionale si sentono assonnati e letargici.
La combinazione di ridotta serotonina e aumentata melatonina influenza i ritmi circadiani, o orologi interni, che sono sincronizzati per rispondere ai cambiamenti ritmici luce-buio che occorrono giornalmente e durante ciascuna stagione. Per i soggetti con disturbo affettivo stagionale, è stato rilevato che il segnale circadiano che indica un cambiamento stagionale della lunghezza del giorno è temporizzato diversamente, rendendo più difficile l’adattamento corporeo (Wehr et al., 2001).

Inoltre, una minor esposizione della pelle alla luce del sole durante l’inverno causerebbe una minor produzione di Vitamina D nei soggetti con disturbo affettivo stagionale (Anglin, Samaan, Walter & McDonald, 2013). Una mancanza o insufficienza di Vitamina D sono state associate con sintomi depressivi clinicamente significativi (Kerr et al., 2015).

Melrose (2015) ha confermato un’associazione tra serotonina, melatonina, ritmi circadiani, Vitamina D e disturbo affettivo stagionale, ma non ha dimostrato una relazione causale tra tutte le variabili studiate.

 

La Light Therapy

La Light Therapy (LT), o fototerapia, è considerata il trattamento “gold standard” per la cura del disturbo affettivo stagionale (Rohan, Lindsey, Roecklein & Lacy, 2004). Prevede l’esposizione quotidiana, durante i mesi in cui è presente la sintomatologia depressiva, ad una fonte luminosa artificiale d’intensità pari a 10.000 lux, prodotta con apposite lampade dotate di filtri per i raggi ultravioletti. Si tratta di un’intensità di luce circa 20 volte superiore all’intensità media della luce in una stanza (Horowitz, 2008).
Già nel 1984, Rosenthal e collaboratori avevano ipotizzato che estendere il fotoperiodo, attraverso l’utilizzo della luce artificiale luminosa bianca, avesse un robusto effetto antidepressivo nel disturbo affettivo stagionale.
Uno studio di Terman e collaboratori ha concluso che il 53,3% dei soggetti affetti da disturbo affettivo stagionale (il 43% di quelli con un disturbo moderato-grave) ha manifestato un miglioramento clinicamente significativo dei sintomi depressivi con il trattamento Light Therapy (Terman et al., 1989).

Studi successivi hanno indagato se la risposta al trattamento dipendesse dall’esposizione alla luce durante un orario particolare o fosse indipendente da quando la persona è esposta alla luce durante il giorno. Terman e Terman (2005) hanno rilevato che una settimana di trattamento al mattino produceva un tasso di remissione più alto (53%) rispetto alla sera (38%) o a mezzogiorno (32%). Due sessioni giornaliere non producevano beneficio rispetto alla sola esposizione mattutina. Per consentire il trattamento mattutino giornaliero a lungo termine, considerando che la maggior parte dei pazienti dovrebbe svegliarsi prima del solito, gli studiosi hanno concluso che il trattamento della durata di 30 minuti ad un’intensità di 10.000 lux sia quello più efficace; intensità inferiori richiederebbero una maggior durata di esposizione.

Per quanto riguarda la durata del trattamento, Knapen e collaboratori (2014) hanno misurato la variazione della gravità dei sintomi depressivi in pazienti affetti da disturbo affettivo stagionale che hanno ricevuto una o due settimane di Light Therapy. Utilizzando la scala ‘Structured Interview Guide for the Hamilton Depression Rating Scale-Seasonal Affective Disorder’ (Williams et al., 1998), i ricercatori hanno dimostrato che non ci sono differenze significative nella riduzione della sintomatologia tra i due gruppi, suggerendo che una settimana sia una durata sufficiente di trattamento. Knapen e collaboratori hanno però rilevato una differenza nella velocità di riduzione dei sintomi depressivi, che è stata maggiore nei soggetti sottoposti ad una settimana di Light Therapy rispetto a soggetti con due settimane di terapia. I ricercatori hanno inoltre rilevato una relazione causale tra risposta terapeutica attesa ed effettiva, limitata però al solo genere femminile: se una donna ha una maggior aspettativa dei risultati, l’esito terapeutico sarà migliore.
Se tali risultati fossero confermati da ulteriori ricerche, la Light Therapy per disturbo affettivo stagionale potrebbe essere di minor durata e dovrebbe essere accompagnata dal messaggio che un trattamento di breve durata è molto efficace per ottenere il miglior risultato (Knapen, Werken, Gordijn & Meesters, 2014).

Gli effetti collaterali della Light Therapy includono affaticamento oculare, maggior rischio di degenerazione maculare legata all’invecchiamento, mal di testa, irritabilità e disturbi del sonno (Melrose, 2015). La Light Therapy non dovrebbe essere usata in combinazione con medicinali fotosensibilizzanti come litio, melatonina, antipsicotici fenotiazinici ed alcuni antibiotici. In alcuni casi, possono esservi episodi ipomaniacali o ideazione suicidaria, specialmente nei primi giorni di trattamento (Terman & Terman, 2005).

 

Altri trattamenti

Dato che il disturbo affettivo stagionale, come altri stati depressivi, sembra sia associato a una disfunzione dell’attività della serotonina a livello cerebrale, antidepressivi di seconda generazione, come gli Inibitori selettivi della ricaptazione di Serotonina (SSRIs), in particolare fluoxetina, si sono rilevati come trattamenti farmacologici efficaci (Morgan et al., 2015).

Rohan et al. (2015), propongono un adattamento della terapia cognitiva tradizionale della depressione per soggetti affetti disturbo affettivo stagionale. La CBT-SAD si basa su attivazione comportamentale e ristrutturazione cognitiva. Propone l’identificazione e la pianificazione di eventi piacevoli per fronteggiare l’anedonia invernale. La ristrutturazione cognitiva, oltre a puntare il tipico contenuto dei pensieri depressivi, mette in discussione i pensieri negativi tipici della stagione invernale, ad esempio buio e clima freddo. Il protocollo d’intervento si conclude con un piano personalizzato di prevenzione delle ricadute.
Rispetto alla terapia cognitiva standard della depressione, la CBT-SAD necessita di un programma condensato per permetterne la conclusione entro la primavera (2 sedute a settimana da 90 minuti per un periodo di 6 settimane).

Melrose (2015) suggerisce un trattamento combinato di antidepressivi, fototerapia, Vitamina D e intervento psicoterapeutico. Quando i sintomi depressivi non sono gravi, l’autore raccomanda programmi che aiutano i pazienti a migliorare la loro dieta limitando amidi e zuccheri, incrementare l’attività fisica, regolare il loro stress, evitare ritiro sociale e trascorrere più tempo all’aria aperta (Melrose, 2015).

La personalità autoritaria: come l’uomo di destra è diventato un tipo psicologico

Personalità autoritaria: quand’è che l’uomo di destra è diventato un tipo psicologico? Una maschera quasi da commedia dell’arte? Un impresentabile autoritario e autoritarista? Un individuo succube del potere perché in esso proiettava i suoi patetici sogni di grandezza piccolo borghese e al tempo stesso soddisfava il suo meschino bisogno di ordine e di sottomissione? Un ircocervo con la testa (e i capelli) di Donald Trump e il corpo di Josef Goebbels? Insomma, un patetico “fascista”?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta del 2/07/2016

La nascita della personalità autoritaria come tipo psicologico

Ovviamente semplifico; quando si tratta di definire uno stereotipo non ci si cura delle sottili distinzioni del pensiero politico, non si fa caso al fatto che in questo calderone “fascista” finiscono per convivere il liberismo economico spinto dai conservatori anglo-americani -che furono antifascisti nella guerra mondiale- e il dirigismo statalista della destra nazionalista e sociale europea, che fu pienamente fascista nello stesso periodo.

Adorno - The Authoritarian personalityFatto sta che Theodore Adorno, quando pubblicò nel 1950 il suo classico “The authoritarian personality“, infilò questi due ingredienti apparentemente incompatibili nella stessa pentola e cucinò il piatto agro-dolce del piccolo-borghese autoritario e segretamente eterno fascista, il soddisfatto conservatore degli anni ’50 nascosto dietro le sue libertà economiche solo formali ma in realtà oppressive, tanto è vero che costui non intendeva aggiungere alla libertà economica le libertà sociali.

Dopo aver sconfitto Hitler, costui non aveva alcuna intenzione di combattere per la fine delle convenzioni sociali, delle disparità di genere, del potere patriarcale, dei pregiudizi sociali di età, genere, razza, religione e classe sociale. Qualche anno prima, nel 1947, Adorno aveva concepito un questionario, la “California F-scale”, un test per misurare la personalità autoritaria. E quella “F” per cosa sta? Ebbene si, la “F” sta per “fascista”. La scala F-scala scompone la personalità autoritaria in propensione alle convenzioni, aggressività autoritaria e contrarietà all’introspezione. A quel punto la frittata era fatta, e la maschera applicata sul viso del conservatore inestirpabile.

The Conservative Mind- from Burke to EliotInvano tentò di reagire Russel Kirk nel 1953 quando pubblicò “The Conservative Mind: from Burke to Eliot”. Appellarsi a Edmund Burke era ormai inutile e l’uomo di destra era destinato a diventare inesorabilmente un patetico bigotto, un ridicolo e osceno cripto-fascista. In breve, uno sfigato, un marginale.

 

 

Le contraddizioni degli anni ’50 e ’60

Gli anni ’50 -fatti di libertà economica unita a convenzionalità sociale- furono un contraddittorio interludio conservatore che non poteva durare a lungo. E che non potesse durare fu segnalato proprio dal libro di Adorno, pubblicato proprio all’inizio di quel decennio. Tutto finì con la rivoluzione sociale degli anni ’60, con la musica rock, i movimenti giovanili, il femminismo, la liberazione sessuale, e così via. A quel punto il padre di famiglia americano (che magari aveva partecipato allo sbarco in Normandia) si vide spodestato dal suo trono e si ritrovò –in quel libro di Adorno che mai si sarebbe sognato di leggere- a essere un fascista. Il suo desiderio di ordine e decoro diventò segno di una personalità oppressiva e autoritaria, la sua etica del lavoro una cieca e acritica adesione a ruoli sociali imposti dal potere, il suo vago liberalismo politico ed economico una vuota forma che nascondeva l’oppressione subdola verso la donna e i lavoratori manuali socialmente inferiori. Per non parlare della segregazione razziale.

E per la verità il borghese americano degli anni ’50 fu autoritario, o quanto meno propenso al controllo sociale nella forma del maccartismo. Furono però soprattutto gli anni ’60 che fecero esplodere le contraddizioni: ad esempio con Wallace, il governatore segregazionista dell’Alabama. Wallace rappresentava la media e piccola borghesia bianca che dopo aver vissuto i vantaggi della prosperità ora si sentiva minacciata dai neri, dai giovani e dalle donne. Però è da sottolineare che Wallace fosse del partito democratico, e quindi fautore del nuovo stato sociale costruito dal presidente Johnson, la Big Society. Ebbene si, si può essere a favore delle cure mediche per tutti –compresi i neri- pagate dallo stato e al tempo stesso per i bagni e i posti separati sull’autobus per i neri. L’uomo è contraddittorio e contiene moltitudini.

Sull’altro fronte, era il buon tempo andato di quando furono pubblicate alcune analisi psicologiche sull’uomo progressista liberato dalle pastoie oscurantiste del passato. Lo psicologo Flacks (1967) riteneva che la società del benessere avesse finalmente creato l’uomo nuovo, non impaurito dai tabù sessuali, dall’oppressione gerarchica e dai doveri sociali e familiari. Si passava dalla società repressiva -non solo tradizionale, ma anche capitalista- alla società veramente umana. In particolare, gli studenti universitari cresciuti in un ambiente benestante, libero dal bisogno, intellettualmente stimolante e non repressivo rappresentavano i primi esemplari dell’individuo liberato, naturalmente altruista e umanista, privo sia dei pregiudizi tradizionali che dell’avidità egoistica del capitalismo.

Si tratteggiava un paradiso post-industriale e post-materialistico. Alcuni, addirittura, parlarono di una nuova forma psichica superiore che emergeva nella storia per la prima volta, lo stadio di Coscienza III, una perfetta sintesi tra autonomia individuale e adesione alla comunità. Un superuomo, però senza capelli biondi e senza tratti bestiali. Un superuomo perbene.

 

Il nichilismo gentile

Da quel movimento scaturì un nichilismo gentile, un nice nihilism che non genera un ritorno alla legge della giungla, ma un impegno morale fondato sulla constatazione che l’uomo è dotato di bisogni morali. Il nice nihilism, come lo chiamano i filosofi Tomler Sommers e Alex Rosenberg (2003) sostiene che possiamo stare tranquilli, la genetica non ci condanna a essere belve. Semmai ci costringe al destino di animali: un po’ belve e un po’ sociali. Un po’ lupi, un po’ francescani. La scelta morale è dunque un imprevisto vantaggio evolutivo. Però, questo stesso senso evolutivo la svuota di contenuto morale. La moralità non può ammettere eccezioni o relatività. Un comportamento evolutivo invece si. Oggi può essere conveniente obbedire a una norma morale, domani chissà.

Di fronte a questa morale debole e pieghevole, il nichilismo perbene non può che fare finta di nulla. Non può sottolineare troppo l’amoralismo evolutivo, e nemmeno rinnegarlo. Insomma, l’autonomia morale comporta il rischio di un’etica soggettiva e personalizzabile, il che fa a pugni con il concetto stesso di moralità. Al tempo stesso però la moralità oggettiva puzza di Legge esterna, e quindi di Autoritarismo. E così torniamo ad Adorno, alla personalità autoritaria, al California F-scale e alla parola che inizia per “f”. Intorno a questo cerchio balla il pugile della moralità moderna, darwiniana e sottomessa alle leggi amorali della genetica. Pugile ora alleato, ora traditore. Un bell’affare.

Calci di rigore: il rigore del calcio

La tentazione di parlare dei calci di rigore e delle loro componenti psicologiche é troppo forte ora che l’Italia é uscita dagli Europei proprio a causa di questi maledetti 11 metri che separano il rigorista dalla porta e dal portiere. Inoltre la “forma” con cui almeno due di questi rigori sono stati tirati (Zaza e Pellé) sono uno spunto prezioso per approfondire un aspetto psicologico del gioco del calcio che esce dalla routine della partita.

Luca Calzolari, Massimo Rondilone

 

Il calcio di rigore infatti é l’unico momento della partita in cui il giocatore si trova davanti al portiere senza difesa, con la palla ferma sempre nella stessa posizione. Inoltre a calciare sono giocatori selezionati; quelli con i piedi più educati. Se durante la partita viene fischiato un calcio di rigore non lo tira il giocatore che ha subito il fallo, ma quello che dovrebbe avere più possibilità di segnarlo. Tutti gli elementi sembrano portare alla conclusione che dovrebbe essere facile segnare un rigore. Invece Zaza e Pellé lo hanno sbagliato. Perché?

La risposta a questa domanda non la avremo mai. Non solo perché non abbiamo la possibilità di chiederlo ai diretti interessati ma anche perché con buone probabilità neanche loro saprebbero spiegarlo con precisione.

Il giornalista Paolo Condò il giorno dopo la partita condivide sui social il suo pensiero:

“Un calcio di rigore è un duello all’Ok Corral di freddezza, precisione e psicologia. Dentro alle regole codificate, vale tutto”.

Zaza e Pellè ci provano laddove la classe e i mezzi tecnici non possono aiutarli, con il torto di sbagliare è vero ma con il coraggio di provare ad usare tutto quello che in quel momento pensavano potesse aiutarli.  Quello che possiamo fare é prendere questi due episodi e usarli come spunto per aprire una riflessione sulla particolarità di questo momento di una partita di calcio.

Dopo aver vissuto in campo o in panchina un’intera partita con la squadra si sono ritrovati a giocare “da soli” e a dover contare unicamente sulle loro qualità (tecniche, fisiche e psicologiche). Già perché a tirare un rigore si é “da soli” e non “soli”.

La solitudine è uno stato mentale, l’interpretazione soggettiva di una circostanza esterna. Di fatto ci si può sentire soli pur essendo in compagnia o ci si può sentire accompagnati anche se si é da soli.

Il rigorista quindi si trova davanti al primo bivio. Può sentirsi solo oppure sapere di essere da solo a svolgere il suo compito. La differenza é sostanziale.  Nel primo caso ci si ritrova inermi di fronte a una circostanza che non cambierà (non esiste la possibilità che arrivi qualcuno a calciare il rigore con lui) e le risorse personali utili per calciare il rigore sono offuscate dai sentimenti. Nel secondo caso accetta la circostanza e organizza il pensiero in modo da trovare la giusta strategia per affrontare il compito. Una tecnica che si utilizza in psicologia dello sport è la costruzione di una routine in cui una sequenza di azioni crea uno schema in cui l’atleta ha fiducia, sente di poter padroneggiare il compito, e che lo aiuta a non focalizzare l’attenzione sui pensieri negativi uscendo dal contatto col momento presente ed entrando nel duello dell’Ok Corral.

Risolto il primo enigma  il giocatore poggia la palla sul dischetto, alza lo sguardo e vede il portiere. Secondo enigma. Cosa ne faccio della presenza del portiere? Posso controllare il suo movimento (Pellè ci ha provato con il gesto del cucchiaio, Zaza con la rincorsa)? Devo gestirlo in qualche modo o posso escluderlo? Cosa sceglierà di fare? Si butterà o rimarrà al centro della porta?

Phil Jackson, “zen master”, famoso allenatore di Michael Jordan, diceva che un tiratore quando tira a canestro tira a se stesso. Intendeva il fatto che il tiro, indipendentemente dalla presenza dei difensori é una questione personale del tiratore. La presenza del difensore o del portiere quindi viene gestita prima del momento del tiro e non durante lo svolgimento dell’azione. Cercare di controllarlo prevede la possibilità di non riuscire e questo genera la paura. Inutile dire che la paura non é un sentimento che permette al corpo di muoversi in modo efficace. Inoltre cercare di controllare il portiere mette in atto una serie di movimenti che alterano la routine del tiro aumentando le possibilità di sbagliarlo.

Un vecchio aneddoto zen racconta di una delle prove che dovevano superare gli aspiranti monaci. La prova consisteva nel trovare la soluzione ad un enigma; c’è un anatra in una bottiglia, come si più togliere l’anatra dalla bottiglia senza rompere la bottiglia o uccidere l’anatra?

La soluzione consiste nel pensiero che “l’anatra non é mai stata nella bottiglia”.

Zaza e Pellé con la rincorsa o il gesto del cucchiaio hanno cercato di gestire il portiere “anatra”. Così facendo hanno introdotto un problema che ha alterato la loro esecuzione del gesto rendendolo spurio e impreciso.

I due giocatori mi hanno ricordato quei film in cui il cattivo di turno ha la sua chance di sconfiggere l’eroe ma si perde in discorsi inutili permettendo di fatto il capovolgimento della situazione e l’inevitabile sconfitta.

Per rimanere nell’immaginario cinematografico preferisco il momento in cui John Snow (Trono di spade) deve decapitare uno dei suoi uomini per inadempienza a uno dei suoi ordini. Un compito duro che spetta al capo. Non giustifica il suo gesto, chiede le ultime parole al condannato e con gesto deciso esegue la punizione.

L’idea non è quella di negare la presenza del portiere ma quella di aver già gestito la questione prima. In psicologia dello sport si chiama allenamento ideomotorio. Allenare la mente perché possa permettere al corpo di muoversi senza ostacoli inutili come pensieri non pertinenti o problemi irrisolvibili. Alcuni atleti hanno queste qualità in forma innata, altri le costruiscono e le allenano fino a farle diventare una parte naturale del loro gioco. Quando un atleta accede allo stato ottimale della performance vi è un’unica dimensione del tempo, quello presente, vissuto con la massima consapevolezza, concentrandosi sul “qui e ora” della sua prestazione, escludendo giudizi o distrazioni che lo portano lontano da quel momento.

Al di là di tutto ci piace immaginare che Zaza e Pelle nella loro estate ai tropici abbiano ascoltato nella loro playlist una certa canzone di Di Gregori

“Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore,

non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,

un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.”

(De Gregori,  “La leva calcistica della classe ’68)

Le tecniche immaginative in terapia cognitiva (2014) – Recensione

Tecniche immaginative: Un libro preziosissimo. Il cuore concettuale: le immagini mentali sono un canale di attribuzione di significato che si muove lungo strade diverse da quello verbale-semantico. Ha una connessione privilegiata con le emozioni.

Introduzione: la seduta di Danilo e le tecniche immaginative

“Mia madre stava peggio di quello che le ho raccontato l’altra volta.”
“Cioè?”
“Soffriva di, le è stata diagnosticata più tardi, all’epoca non lo sapevamo, di schizofrenia paranoide”.
“Che succedeva a casa, di che età stiamo parlando?”
“Avevo 10 anni circa. La notte non potevo dormire.”
“Che faceva mamma?”
“Restava sveglia tutta la notte. Era convinta che i ladri avrebbero potuto irrompere in casa e quindi girava da una finestra all’altra a controllare.”
“E lei?”
“Stavo sotto le lenzuola, gli occhi spalancati, immobile, congelato. Se avessi mosso un muscolo mi avrebbero notato”.
“Com’era la sensazione?”
“Terrore, mi sentivo paralizzato. Guardavo fuori dalle finestre e ogni foglia che si muoveva mi ghiacciavo ancora di più”.

È la seconda seduta con Danilo. Le condizioni relazionali per provarci ci sono. Gli chiedo di tornare lì con l’immaginazione. Un breve rilassamento, focus sul respiro, occhi chiusi e mi porta nella scena. Rivive il terrore, la paralisi, l’impotenza. Apre gli occhi, ne parliamo. Gli propongo di tentare un lavoro di imagery rescripting. Accetta. Torniamo lì, il Danilo adulto si siede sul letto del Danilo bambino. Lo calma. All’inizio Danilo bambino non ne vuole sapere, ma riesce a convincerlo ad alzarsi e andare a guardare fuori. Lo prende per mano, si accostano alle finestre. Non c’è nessuno. Il Danilo bambino torna a letto, rassicurato. Danilo riapre gli occhi si sente rilassato, più disteso e prova un senso di autoefficacia. Era entrato in terapia per un senso di blocco, apatia, anedonia, incapacità di andare avanti nella carriera. Dopo questo esercizio ha capito le radici dei suoi momenti di passività e spegnimento.

È nell’aria. Gli allievi che hanno respirato corsi di EMDR, schema-therapy, compassion therapy iniziano a familiarizzare con tecniche immaginative del genere. Magari qualcuno ha studiato approfonditamente l’esposizione prolungata per il PTSD. Un segno dei tempi che cambiano, un segno della terapia cognitiva che cambia. La ristrutturazione razionale delle credenze erronee ha mostrato da tempo la corda. La nuova generazione di terapeuti sta aggiornando lo strumentario e i nuovi attrezzi sono più incisivi, potenti. Uno di questi è il lavoro sull’immaginazione.

L’esperienza personale di Giancarlo Dimaggio

Un’altra storia. La mia tesi di specializzazione era sulle emozioni oniriche e la loro evoluzione nel corso del trattamento. Immagini mentali generate dalla mente isolata dal contesto e i loro correlati emotivi. Quanto di più costruttivista si possa pensare. Finisco la specializzazione in psichiatria, completo la mia formazione in terapia cognitiva. Inizio una formazione in psicodramma analitico. Le immagini mentali messe in scena che diventavano oggetto di nuova riflessione. Vissuta sulla mia stessa pelle, uno strumento incredibile. Peccato che il filtro fosse la teoria di Lacan, quanto di più indigesto abbia mai dovuto assumere nel mio percorso di conoscenza. Ma è rimasta un’esperienza preziosa. Mi sono portato sempre dietro il lavoro sui sogni e la messa in atto psicodrammatica nel mio lavoro clinico, ma con la sensazione che fossero lontani dal cognitivismo e che toccasse integrarli, dar loro dignità in un campo che sostanzialmente li guardava con scetticismo, diffidenza, a volte aperto disprezzo.

E ancora, vado in giro per convegni. A Tallin vedo Martin Bohus portare pazienti con disturbo borderline di personalità e abuso sessuale a rivivere nell’immaginazione ricordi di incesto. Da brividi. Nei seminari di Arnoud Arntz vedo effettuare il reparenting in immaginazione sui ricordi infantili. E poi il lavoro di Lynne Angus e Sandra Paivio sulla terapia del trauma in chiave narrativo-esperienziale. E mi dico: l’aria sta cambiando.

Sull’utilizzo dell’imagery ci lavoro con i miei colleghi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale. E ci chiediamo: ma nel cognitivismo, tutto questo lavoro che a noi sembra così prezioso, quanto spazio ha? Approfondisco la letteratura. E scopro un buco enorme, del quale quasi mi vergogno. C’è un libro che riassume tantissima conoscenza: “Le tecniche immaginative in terapia cognitiva”. Lo leggo avidamente, è quello che cercavo. Ringrazio in cuor mio l’Eclipsi (ovvero Alessandra Carrozza, Gabriele Melli e Nicola Marsigli) per avere capito che andava tradotto in italiano.

Le tecniche immaginative in terapia cognitiva

Un libro preziosissimo. Il cuore concettuale: le immagini mentali sono un canale di attribuzione di significato che si muove lungo strade diverse da quello verbale-semantico. Ha una connessione privilegiata con le emozioni (facile pensare a Damasio, anche se qui non viene citato). L’implicazione clinica: evocare immagini mentali, attivare le emozioni, modularle, dar loro nuovi significati, modificarle. Uno strumento insostituibile di assessment e cambiamento. Racconta le radici del lavoro sull’imagery: molto prima di Jeffrey Young, molto prima di Paul Gilbert, molto prima di Francine Shapiro, Pierre Janet, Jacob Moreno, Aron Beck, Arnold Lazarus, Fritz Perls (che sta influenzando la terapia moderna in modo impressionante, non so quanti se ne siano accorti). Tecniche dimenticate, guardate con scetticismo, imbarazzo, in nome di un supposto rigore evidence-based che non aveva giustificazioni e ora riportate al centro dell’attenzione della terapia scientifica.

Il caso di Renata

Renata, mi sta raccontando della sua rabbia verso il padre, tirannico e violento in casa. La domanda chiave della Terapia Metacognitiva Interpersonale:
“Mi descrive un episodio in cui è stato violento?”
“A cena.”
“Quanti anni aveva?”
“Sette.”
“Chi c’era a tavola?”
“Io, lui, mia madre.”
“Chiuda gli occhi, mi porti con lei, lì”

Andiamo insieme nel passato. Il padre urla alla madre. Le chiedo cosa prova. Non c’è traccia della rabbia. È terrorizzata. “Cosa le fa paura?”. “Può aggredire mia madre.” “Guardi sua madre in viso, cosa vede?” “Ha paura.” “E lei cosa prova vedendo quel viso?” Renata scoppia a piangere.

Usciamo dalla scena, ci ragioniamo su. L’informazione sul suo mondo interno è cambiata, la rabbia non è l’emozione primaria, era spaventata e provava pena, tristezza al pensiero che la madre fosse vittima di quelle aggressione verbali (e fisiche in altri momenti). La formulazione del caso quindi è più ricca.

Torniamo insieme nella scena: dica a suo padre che le fa male che lui si comporti così e che le dispiace per sua madre. Renata ci prova, con voce flebile. Si blocca subito. “Come si sente?” le chiedo. “In colpa”. “Come mai?”. “Mio padre è fragile, lo sto facendo soffrire.”
Apre gli occhi, è sbalordita. Non aveva la minima idea di albergare questi sentimenti.

Riflessioni sul libro sulle tecniche immaginative

Il libro di Hackmann e colleghi è pieno di scene come queste. Pazienti con fobia sociale, attacchi di panico, Disturbo ossessivo compulsivo, PTSD, disturbi di personalità. Spiega come evocare le scene e come modificarle in modo collaborativo con il paziente. Una miniera di strumenti di lavoro per il terapeuta cognitivista. Prima gli autori gettano le basi teoriche e poi spiegano il da farsi.

Rifletto a lungo: a leggere gli autori sembra che queste pratiche siano parte integrante del lavoro del terapeuta cognitivista. La mia esperienza è diversa. Gli allievi che ho formato e formo nel corso degli anni non ne hanno esperienza. Quando mostro loro in classe come si effettua l’immaginazione guidata stanno vedendo qualcosa di nuovo. Sì, qualcuno l’ha visto fare in schema-therapy, in compassion therapy, ma finisce lì. E invece il cognitivismo include queste tecniche.

Un’altra riflessione. Una parte di questo bagaglio viene dalle terapie comportamentali. E io ero di quelli che avrebbe volentieri gettato a mare la C di Comportamentale dalla SITCC. Faccio un esercizio di guided imagery e parlo al me stesso del passato, lo convinco a cambiare idea. Il mio me stesso di qualche anno fa prova un po’ di vergogna. Ora si tratta naturalmente di riscrivere il comportamentismo moderno in una cornice diversa, direi quella della cognizione incorporata, ma non è lo scopo di questa recensione.

Conclusioni

Per gran parte del libro si potrebbe avere l’impressione che gli autori siano abituati a lavorare sui disturbi sintomatici, anche se poi di fatto spesso negli esempi clinici che riportano operano sulle strutture nucleari della personalità. Quindi l’idea è che mirano un’immagine disturbante, la elaborano e questo, in grado più o meno completo, risolve – o riduce – la psicopatologia. Nel capitolo finale, dedicato alla scrittura di nuove immagini, positive, invece il lavoro sulla personalità viene fuori e gli autori chiariscono che si tratta di operazioni che vanno ripetute a lungo, spesso per anni, finché nuovi modi di sentire e pensare si radicano nell’individuo e diventano parte integrante di una personalità più ricca, completa. E resta a quel punto la convinzione che gli autori del libro abbiano messo a disposizione del lettore un patrimonio enorme di strumenti, un dono di creatività e sapienza. La terapia cognitiva, in questa luce è più drammatica, intensa, fantasiosa e divertente. E soprattutto, e questo è il punto nodale: probabilmente è più efficace. Oppure, efficace con una gamma più ampia di pazienti. Provo a mettere “Le tecniche immaginative in terapia cognitiva” a fianco di “Teoria e pratica dell’alleanza terapeutica” di Safran e Muran. Mi piace vederli vicini, uno ha bisogno dell’altro.

L’uso del role playing nella psicoterapia metacognitiva interpersonale

Immaginare di poter parlare per conto di qualcun altro o di essere se stessi ma intenti in una nuova modalità comunicativa ovvero di immedesimarsi nel proprio partner intento in una discussione con voi, sono alcuni degli scopi che la tecnica del role playing può realizzare. Se questo poi avviene in terapia, in una relazione terapeutica rassicurante e protettiva, si avrà la possibilità di esplorare la propria mente, la mente dell’altro, il proprio schema e il ciclo interpersonale che ne deriva.

 

[blockquote style=”1″]Come si può conoscere se stessi? Non mai attraverso la contemplazione, bensì attraverso l’agire.[/blockquote] Goethe, Massime e riflessioni.

Il role-playing: introduzione

Il role playing, cioè gioco di ruolo, è uno strumento di larga applicazione in contesti che possono variare dalla psicoterapia individuale, alla terapia di coppia, all’intervento in setting di gruppo, alla formazione psicosociale. La tecnica consiste nel richiedere a una singola persona o a più persone, di assumere, per un tempo limitato, un ruolo secondo un canovaccio precedentemente stabilito; si parla di canovaccio perché proprio come nella commedia dell’arte gli attori, sulla base di alcune indicazioni generali sul proprio ruolo, improvvisavano sulla scena.

Recitare una situazione, in modalità “come se”, è una caratteristica del gioco infantile: immaginiamo due bimbe che giocano “alla scuola”, una fa la maestra e l’altra fa l’alunna. Entrambe impersonano un ruolo, la bimba-maestra fa emergere aspetti del comportamento raccolti dalle maestre con cui ha interagito, creando una sorta di prototipo della maestra che si basa sulla rappresentazione che la piccola si è costruita nel tempo, fatta di pezzi di interazioni reali ma anche di aspetti della storia personale (cioè che idea ho di come l’altro è con me). Lo stesso si dirà per l’altra bimba che fa l’alunna, ruolo in cui la bimba farà se stessa, ma anche le sue compagne, mostrando aspetti di sé, di come fa, quando sta a scuola. Un genitore, a osservare il gioco, forse scoprirebbe nuove cose di come il proprio figlio è nel contesto scolastico che, ad esempio, non vedrebbe in una tipica situazione casalinga.

Il role-playing: la storia

Ripercorrendone la storia, il role playing trae le sue origini all’interno dello psicodramma sviluppato dallo psichiatra romeno J.L. Moreno, il quale si ispirò al “teatro della spontaneità” di cui apprezzava il valore catartico e liberatorio. Rivivere drammaticamente una situazione del passato, ricordata in modo problematico dal paziente, avviando un confronto con uno o altri soggetti che agiscono altri ruoli, mostrò a Moreno il suo valore terapeutico.

L’obiettivo del role playing nello psicodramma è far emergere stati d’animo e farli rivivere attraverso la recitazione di atteggiamenti o comportamenti. La scena si svolge generalmente davanti a degli osservatori e al termine della stessa viene avviato un commento di quanto ciascuno ha provato e osservato negli altri. Sebbene si tratti di situazioni in cui, a differenza della vita reale, vi sono una o più persone che osservano, alterando ovviamente il setting, già di per sé “simulato”, tuttavia il vantaggio è proprio la possibilità di affrontare, in simulazione, una situazione realistica, potenzialmente ansiogena, con la conseguente flessibilità e tranquillità determinata da un contesto protetto.

I campi di applicazione del role-playing

In questo breve scritto cercherò di evidenziare i possibili campi di applicazione del role playing, le sue diverse funzioni e l’uso che se ne fa in Terapia Metacognitiva Interpersonale in relazione alle diverse fasi del trattamento e ai diversi scopi. Si possono, infatti, creare diversi tipi di canovacci in seduta, finalizzati all’incremento della consapevolezza di sé o analogamente si può agire un role playing con lo scopo di ampliare la teoria della mente dell’altro. Inoltre, nelle fasi della terapia in cui si avvia la progettazione del cambiamento, il role playing può aiutare terapeuta e paziente nell’esplorazione, riconoscimento ed emersione delle parti sane del paziente oltre che per il rafforzamento della mastery per problemi relazionali.

Possibili funzioni del role playing

Gli esempi di seguito riportati, sono stralci di sedute sia individuali sia di coppia condotte secondo il modello della Terapia Metacognitiva Interpersonale, in cui si cercherà di evidenziare, appunto, lo scopo terapeutico che si vuole raggiungere e il possibile contributo che il role playing può fornire. Nel caso seguente, il role playing è usato per la ricostruzione degli schemi disfunzionali del paziente e per incrementare la sua consapevolezza delle situazioni in cui questi schemi si attivano. Oltre a ciò, la scena, per come è giocata al secondo “ciak”, rappresenta un tentativo per promuovere la mastery del paziente verso il problema portato.

Giorgia, 40 anni , difficoltà coniugali. Il marito è descritto come molto esuberante e prepotente, verso cui lei si è sempre sentita in una posizione d’inferiorità: Giorgia afferma di portare avanti con molta difficoltà le sue opinioni, al punto tale di aver pensato di non averne affatto e facendo proprie quelle di lui. Giorgia sta diventando consapevole del suo schema basato sul bisogno di approvazione, ma sente affiorare l’esigenza di affermare alcune sue idee e richieste, e, se l’altro è in disaccordo, non sa come fare. Un giorno ci prova, ma va male. Lui le parla sopra, lei si lascia schiacciare. Giorgia racconta questo in seduta. Un episodio come questo è un ottimo canovaccio per un role playing. Paziente e terapeuta possono assegnarsi i ruoli: il terapeuta può rappresentare l’altro, il paziente fa se stesso. Tutto ciò per analizzare la sua reazione. Perciò Giorgia fa se stessa, il terapeuta, recuperati da Giorgia elementi della “sceneggiatura”, ricopre il ruolo del marito. Giorgia prova a dire al marito la sua opinione e cosa pensa su una certa situazione. Inizialmente questa operazione le risulta difficile. In un primo momento farfuglia qualcosa circa il figlio e su come vorrebbe gestirlo. Il marito (il terapeuta) a quel punto parla e impone la sua idea. Lei si ferma. Il role playing finisce. Paziente e terapeuta riflettono su cosa ha provato Giorgia in quel momento, Giorgia riporta un senso di costrizione, di ansia. Le viene in mente sua madre che subiva l’autorità del padre. Emerge un’ immagine di sé di poco valore, debole e che si fa sopraffare dagli altri, uomini in particolare. Giorgia si arrabbia e piange. Il terapeuta propone a Giorgia di rifare la stessa scena, con questa nuova consapevolezza. Arrivati al momento in cui prima si era bloccata, Giorgia cambia registro e dice al marito con chiarezza e con calma cosa pensa in merito alla decisione che devono prendere ed aggiunge, per il marito, anche informazioni su di sé: “Non riesco facilmente a dirti la mia opinione perché mi sono sempre bloccata. Ho capito che è una mia difficoltà, penso di non avere niente di giusto da dire. Però sto iniziando a capire che non è così. Per favore, fammi finire di parlare.”

Ci sono casi in cui, invece, far assumere il ruolo dell’altro, in terapia, permette di far emergere la rappresentazione che abbiamo di lui, ci permette di vederla nelle sue articolazioni, ci permette di relativizzarla e di pensare ad essa come ad una nostra idea che abbiamo dell’altro, ci permette anche di immaginare le cose viste dalla sua prospettiva per capire di più i suoi stati mentali. In questa modalità il paziente rappresenta un’altra persona, coinvolta in un episodio con lui ed il role playing assolve alla funzione di ampliamento della teoria della mente dell’altro.

Elisa, 30 anni, rapporto intenso e complicato con suo padre. Il padre è descritto come ansioso, iperprotettivo, anche a causa del fatto che la mamma di Elisa è scomparsa prematuramente quando lei aveva 6 anni. Durante una seduta, Elisa, racconta di quanto fosse difficile avere una comunicazione autentica con suo padre e quanto fosse per lei difficile appoggiarsi a lui essendo sempre stata intenta a proteggerlo, a non “farlo preoccupare”. Pertanto Elisa non ha mai raccontato a lui alcuni trascorsi della sua adolescenza, sebbene lui si fosse mostrato interessato a lei e ai suoi problemi, presenti e passati. Una volta il padre le ha chiesto qualcosa, lei ha divagato e ha tagliato corto. E’ stata un’occasione perduta, commenta in seduta. Si decide di fare un role playing: Elisa gioca il ruolo del padre, la terapeuta fa Elisa, basandosi sull’episodio appena riportato e su fatti che Elisa le racconta. Elisa (recitata dalla terapeuta) racconta al padre cosa ha fatto da ragazza, alcuni episodi anche difficili da raccontare. Il padre (recitato da Elisa) ha un atteggiamento preoccupato, ansioso. Ma, man mano che il dialogo procede, il padre evolve verso un personaggio non ansiogeno, comprensivo e che spiega le sue ragioni dicendo: “Cerca di capire Elisa, io ho sempre avuto paura di non essere un bravo padre per te e tua sorella, ho sempre avuto paura di non riuscire a farvi crescere bene e talvolta sono stato oppressivo e rigido”. Al termine del role playing, Elisa, uscita dal ruolo del padre, piangendo, commenta dicendo che: -la sua idea rigida e stereotipata intanto è una idea che appartiene ad Elisa: “l’ho recitato nel modo in cui io lo vedo”; -nel mettersi nella sua prospettiva l’immagine del padre si è evoluta ed articolata, comprendendo meglio le ragioni di alcuni suoi comportamenti e anche delle sue difficoltà -la situazione così rappresentata appare meno minacciosa ed affrontabile, infatti Elisa dice di sentirsi pronta a provare a parlare diversamente con lui.

Quest’ultimo caso è tratto da una terapia di coppia e il role playing in questa situazione viene giocato dai due partner in terapia, effettuando una inversione di ruolo. Anche qui, come nelle precedenti applicazioni, il role playing permette di aumentare la consapevolezza di sé e la consapevolezza della prospettiva dell’altro, facilitando inoltre l’emergere delle parti sane della relazione di coppia.

Inoltre, se consideriamo che lo scopo terapeutico principale nella TMI per le coppie è quello di incrementare per entrambi i partner la consapevolezza di quanto lo schema disfunzionale individuale contribuisca al mantenimento dello schema disfunzionale dell’altro, concorrendo alla creazione di cicli interpesonali disfunzionali, il role playing anche in questo caso ci fornisce un utile supporto.

Oscar e Alba, sono una giovane coppia che chiede una terapia per l’elevato livello di conflittualità che caratterizza la loro relazione. In una fase iniziale si concorda quale obiettivo terapeutico quello di lavorare sulla comunicazione e sul problem solving. I due partner portano in seduta un episodio di litigio in merito al progetto di acquistare una casa insieme. Lui vuole aspettare che il conflitto di coppia scenda, prima di fare un passo importante, lei sostiene che fare un passo importante abbasserebbe la conflittualità, almeno da parte sua. E’ evidente il circolo vizioso. Dopo il racconto dell’episodio, si decide di effettuare un role playing, facendo assumere a ciascuno il ruolo dell’altro e chiedendo loro di discutere della stessa questione. Emerge subito un’attenuazione della distanza tra le due posizioni: Lei (facendo lui) dice: “Io ho bisogno di tranquillità, io voglio fare progetti con te, forse per te è importante avere un segnale forte del nostro legame, vediamo come fare”. Lui (recitando lei): “Il mio scopo non è metterti pressioni o costringerti, ma per me quello sarebbe un punto importante, sono sicura che i nostri conflitti si attenuerebbero molto”. Entrambi poi, al termine del role playing hanno ragionato ed hanno stabilito di iniziare da subito a guardare in giro per una casa da comprare, per poi fare questo passo effettivamente dopo un po’ di mesi, dandosi il tempo di risolvere alcuni loro problemi. Il role playing in questo caso, seppur finalizzato al problem solving, è stato l’occasione per avviare una ricostruzione e presa di consapevolezza (dilungatasi in numerose sedute successive) degli schemi individuali e di quelli del partner e di come ciascuno contribuisse al mantenimento dello schema disfunzionale dell’altro. La terapia di contro ha iniziato a occuparsi di come poter invertire la tendenza del ciclo disfunzionale tra i due partner.

In conclusione

Il role playing ha una potenza euristica e terapeutica notevole, ma va usato con padronanza, valutando l’opportunità del suo uso, caso per caso. Prima dell’avvio è opportuno chiedere al paziente di prepararsi, di concentrarsi. Il setting dell’esercizio deve essere molto chiaro ed anche ben delimitato nel mandato, nel tempo e nelle modalità. Non con tutti i pazienti può avere lo stesso effetto e non è sempre efficace, le prime volte: in alcuni casi si può riscontrare una certa difficoltà ad assumere un ruolo diverso dal proprio e su questo serve un po’ di esercizio anche per il paziente che imparerà a usare questa tecnica dopo un po’.

Ad ogni modo, in tutti i casi dubbi, valgono gli accorgimenti che ciascun terapeuta esperto usa per valutare l’opportunità di proporre le varie tecniche a sua disposizione: la valutazione del grado e della solidità dell’alleanza terapeutica.

 

Il divano è meglio di Freud di Gianfranco Buffardi (2016) – Recensione

Il libro “Il divano è meglio di Freud” è una riflessione acculturata e stimolante del dott. Gianfranco Buffardi sui fattori aspecifici presenti nelle relazioni d’aiuto. La sua lettura scorre fluida tra colti spunti e ironici accenni.

Introduzione

L’esposizione degli argomenti, a volte, prende spunto dalle sequenze scritte e illustrate da Charles Monroe Schulz. Charlie Brown, Rita Van Pelt e altri personaggi dei Peanuts, con i loro sagaci dialoghi, sono i nostri compagni di viaggio. Inoltre, le considerazioni tecniche sono spesso accompagnate da colti rimandi, mai scontati e sovente brillanti, e aneddoti personali di esperienza clinica (citando Jaspers: “esistenze per altre esistenze”). Sia il clinico esperto che un educatore, senza altisonanti qualifiche professionali, potrà trarre utili informazioni e validi accorgimenti per il suo lavoro quotidiano.

Il valore terapeutico dei fattori aspecifici delle relazioni d’aiuto

Con chiarezza e tocchi d’umorismo l’autore attinge alla sua esperienza clinica e formazione teorica (neoesistenziale) per proporre un testo che non si assurge a saggio o a manuale ma, come lui stesso lo definisce, a una “sorta di resoconto ragionato”. Lo scrittore ha voluto aggiungere, svincolandosi da posizionamenti teorici e metodologici, quelli che per lui sono i fattori comuni o aspecifici delle relazioni d’aiuto. Invece di enucleare le componenti divergenti tra i diversi modelli teorico-pratici, ha evidenziato gli elementi delle metodologie, del setting e dell’approccio relazionale che non sono legati ad un modello psicologico di riferimento, ma che possono ritrovarsi in gran parte delle pratiche operative consolidate, avvalorate da un potenziale terapeutico e di cura.

Ergo, il testo vuole presentare un insieme di fattori aspecifici che in psicoterapia e nelle professioni d’aiuto in generale svolgono un ruolo significativo e di efficacia all’interno della relazione terapeutica (intesa come ogni relazione “educativa”). Secondo l’autore hanno un ruolo importantissimo per il risultato finale della terapia, a volte anche più importante dei fattori specifici. Invero, ritiene che i suddetti fattori siano eticamente più validi di quelli specifici del modello utilizzato dal singolo professionista teoricamente orientato. Inoltre, riconosce a queste componenti aspecifiche un intrinseco contenuto terapeutico, presente nella maggior parte delle professioni d’aiuto e che necessitino di una formazione mirata e particolareggiata per essere adeguatamente acquisite.

Nella presentazione del suo lavoro, per prima cosa, l’autore chiarisce, a livello epistemologico, il senso delle parole dei temi basilari che fungeranno da cardine concettuale alle sue esposizioni argomentative.

Descrive così il suo modello di riferimento (esistenziale), chi sono i suoi maggiori esponenti e quali sono i principi teorici (sceglie i più integrabili e universalizzabili). Introduce, in seguito, il concetto di epigenesi, di aiuto, di cambiamento e di meta-apprendimento; approfondisce il tema dell’aiuto, lo sviluppo storico delle professioni d’aiuto; puntualizza sul concetto di terapia, cura e di determinismo dei modelli terapeutici.

La critica al determinismo assoluto in psicologia

Una delle considerazioni che maggiormente ho apprezzato e trovato arricchente è stata la critica al determinismo assoluto.
Nello specifico, adducendo al principio di Indeterminazione di Heisenberg del 1927 e al teorema di Incompletezza di Gödel del 1930-31 (così come similmente evidenziato dallo stesso Zichichi in “Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo”) l’autore riflette sul concetto di impossibilità di raggiungere una conoscenza totale di tutti gli elementi presenti in un sistema e di tutte le componenti in esso interagenti. Non vi è dunque la possibilità di annoverare e afferrare tutti gli elementi concorrenti alla piena comprensione di un sistema, sia questo di matrice psicologica, matematica o fisica. Anche nelle scienze cosiddette “precise” come la matematica, la fisica e la chimica è impossibile comprendere tutti i fattori in gioco. Questa considerazione può essere traslata nel campo della psicologia e della comprensione dei suoi costituenti, molto meno “precisi”, dei loro similari matematici o fisici.

Ritengo utile tale affermazione non solo riguardo al valore intrinseco di una corretta disamina su chi ha realmente il trattamento migliore in un confronto metodologico tra i differenti approcci psicoterapeutici, ma anche a livello di relazione terapeutica, tra consulente e consultante, durante la discussione empatica circa la tendenza alla generalizzazione che il primo effettua tramite le sue credenze disfunzionali o rappresentazioni disturbanti, spesso fonte di dolore e problematicità psicologica. Dibattere con il paziente sulla reale indeterminazione di molti elementi alla base delle nostre personali considerazioni potrebbe aiutare a rendere meno dogmatiche e irremovibili le disfunzionali convinzioni che spesso il cliente propone nel setting psicoterapeutico.

Quali sono i fattori aspecifici della terapia?

Nel quarto capitolo il libro entra nel vivo e l’autore puntualizza che il termine “aspecifico” indica gli elementi che sono “assolutamente specifici” del rapporto di consultazione. Gli riconosce un valore “nobile” e importante poiché definisce ed eleva la qualità del rapporto tra due persone e le situa in un contesto relazionale esclusivo e originale.
Dopo aver delucidato i termini e il campo teorico su cui si muove la sua riflessione, l’autore divide i fattori aspecifici in: legati al consultante (colui che chiede aiuto), legati al terapeuta (consulente), specifici del setting (regole d’incontro) e del rapporto terapeutico (interattivo).
Il suo scopo è quello di individuare il loro potenziale terapeutico e di cura.

Per quanto concerne il primo gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consultante), partendo dal concetto di singolo come risultato dell’interazione tra le proprie caratteristiche genetiche, gli accadimenti e gli aiuti alla crescita di cui ha usufruito, lo scrittore li divide in: consapevolizzazione di necessitare d’aiuto; scelta; organizzazione della richiesta; narrazione e organizzazione mentale di ciò che deve narrare; disponibilità all’empatia.

Per quanto attende il secondo il gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consulente), lo psichiatra campano tiene a sottolineare che la creazione dell’alleanza terapeutica, strumento ormai considerato un must del rapporto terapeutico efficace, sia per la maggior parte compito del consulente e che i seguenti fattori siano attori importanti di un adeguato rapporto di consulenza: competenza clinica; autenticità, accettazione ed empatia; ricerca di sintonia; atteggiamento complementare/simmetrico.

In riferimento ai fattori aspecifici del setting, Buffardi reputa ogni elemento al suo interno non privo di significato. Include molte componenti e ci fa intendere che la sua comprensione dovrebbe essere poliedrica e particolarmente attenta ai seguenti fattori: qualità del setting; implementazione del campo affermativo; implementazione del senso di riconoscibilità e di “appartenenza”.

Infine, i fattori aspecifici del rapporto terapeutico sono considerati come molto frequenti e non sempre pienamente evidenti alla coscienza. La focalizzazione, la cognitivizzazione, la costruzione di una scala di valori, la sofferenza vissuta, l’ampliamento delle mappe interne e il cambiamento della visione del mondo sono i fattori presentati in questa sezione. Questo è il capitolo che ho trovato più interessante, probabilmente poiché ho trovato riflessioni teorico-pratiche davvero integrate e super-partes.

Il libro si conclude con due capitoli che puntano a completare la “quadratura del cerchio”, riguardo il tema proposto, introducendo le componenti aspecifiche comuni delle principali psicoterapie e i parametri per l’acquisizione di un’adeguata capacità di aiuto, di formazione personale e di etica professionale.
Considero questi due ultimi capitoli non meno importanti degli altri, anzi, qui si evince ancora meglio la competenza e la vasta esperienza dell’autore. Sono avanzati notevoli nozioni che possono sapientemente fungere da base concettuale per una valida e corretta professionalità nel campo delle relazioni d’aiuto.

Conclusioni

Nel complesso, il libro, con le sue 144 pagine, introduce, illustra e propone la lucida analisi personale di un clinico esperto e capace di esporre con erudizione e funzionalità quelli che sono i fattori aspecifici che svolgono quotidianamente un ruolo nella nostra pratica clinica. Comprenderli e tenerli presenti durante la terapia potrà sicuramente facilitare il nostro ruolo e rendere più agevolare il superamento del disagio psicologico.

Il sorriso della Monna Lisa: emblema della relazione di Leonardo con il suo primitivo oggetto d’amore?

Quello della Gioconda è senza dubbio uno dei ritratti più celebri al mondo: il sorriso della Monna Lisa ha affascinato gli storici e gli appassionati d’arte e ha fatto versare fiumi d’inchiostro.

 

 

La donna ritratta da Leonardo da Vinci (1452-1519) è stata da molti identificata con Monna Lisa Gherardini: idea, questa, già sostenuta dal Vasari, che, nelle ‘Vite’ scrisse:

Prese Leonardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie; et quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo . . . Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, Et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.

Per altri, dietro le aggraziate vesti femminili ci sarebbe un allievo-amante di Leonardo che si fece ritrarre con abiti femminili; per altri ancora si tratterebbe di un lavoro commissionato da Giuliano de’ Medici per immortalare la sua amante, la nobildonna Pacifica Brandani.

Della Gioconda è stato analizzato tutto: volto, abiti, sfondo, ma ciò che colpisce maggiormente di questa opera meravigliosa è il sorriso della Monna Lisa, impercettibile ed enigmatico, a metà tra il celato e l’evidente, che varia a seconda dei punti di osservazione e che incarna l’essenza dell’attimo in divenire, ovvero dei sentimenti dell’uomo in continuo mutamento.

A mio avviso il sorriso della Monna Lisa non è espressione di gioia, sentimento transitorio, quanto piuttosto espressione di quella tranquilla serenità tipica di chi domina con la ragione e tipica anche dello stesso Leonardo.

 

 

Cosa nasconde il sorriso della Monna Lisa? L’analisi di Freud

Sulla personalità e sul genio del Maestro da Vinci sono state spese milioni di parole; di lui scrisse anche il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), che cercò di delineare la figura ed il carattere dell’artista, partendo da un sogno che il da Vinci accenna nei suoi manoscritti:

ne la mia prima ricordazione della mia infanzia è mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra (Codice Atlantico C-61r).

Nell’ottobre del 1909, Sigmund Freud, appena rientrato dall’America, scrisse a Carl Jung:

Da quando sono tornato ho avuto un’idea.  Il mistero del carattere di Leonardo mi è divenuto improvvisamente trasparente.

Freud costruì una psico-biografia dell’artista vinciano partendo dal sogno del nibbio e ricordando che Leonardo era figlio illegittimo del notaio Pietro da Vinci e di una contadina di nome Caterina, quindi era figlio ‘di sola madre’, ‘figlio dell’avvoltoio’.  Da fonti storiche si apprende, infatti, che Leonardo trascorse i primi anni d’infanzia esclusivamente con la madre e che poi andò a vivere con il padre e con la giovane moglie di quest’ultimo, Donna Albiera, che, non potendo avere un figlio suo, adottò quello del marito. La separazione dalla madre Caterina, che morì quando Leonardo aveva cinque anni, segnò profondamente la sua personalità.

Con la fantasia dell’avvoltoio Leonardo rievocò la sua condizione di figlio privo del padre ed il suo rapporto, molto intenso, con la madre.

Freud descrisse il Maestro da Vinci come un insaziabile ed affamato ricercatore, sempre ‘profondamente alla cerca della forma perfetta’.  Questa sua continua tendenza a ricercare la perfezione lo portò a non essere mai pienamente soddisfatto delle proprie opere e a ritenerle sempre incomplete: ciò accadde anche con la Gioconda, opera sulla quale lavorò per quattro anni senza tuttavia portarla a definitivo compimento e per questo mai consegnata al committente.

Quando iniziò a lavorare al ritratto della Gioconda, Leonardo aveva ormai una cinquantina d’anni e nel volto e nel sorriso della Monna Lisa probabilmente ritrovò il suo primitivo oggetto d’amore, ovvero la madre. Da quel momento in poi quel sorriso si ripeterà su tanti volti dipinti da Leonardo, in particolare in ‘Sant’Anna, la Vergine, il Bambino, l’Agnello‘, dove lo sguardo ed il sorriso di Sant’Anna, chiaramente leonardeschi, rimandano senza dubbio a quelli più celebri della Gioconda. Il sorriso di Sant’Anna è inequivocabilmente lo stesso sorriso della Monna Lisa, anche se, forse, è meno enigmatico e più benevolente. Il dipinto è molto significativo da un punto di vista psicoanalitico: la Vergine e sua madre Anna, infatti, sembrano coetanee e dunque il Bambino sembra avere due madri, esattamente come due madri ebbe Leonardo (la madre naturale Caterina e la matrigna Albiera).

I sorrisi leonardeschi, verosimilmente, rimandano a quelli della giovane e tenera ragazza madre di nome Caterina. Lo stesso paesaggio ritratto alle spalle della Gioconda rimanda all’infanzia di Leonardo: troviamo infatti rappresentato un affluente dell’Arno che nasce proprio dalle montagne di Vinci: una sorta di ricollocazione della madre nel luogo della sua prima infanzia felice ed una sintesi della storia dei suoi primi anni di vita.

Nel corso degli anni il Maestro aggiunse e rifinì continuamente i dettagli della Gioconda, quasi fosse alla ricerca della perfezione, come se avesse scelto Monna Lisa per esprimere i suoi stati d’animo più profondi e la sua personalità, soprattutto nei suoi aspetti più inconsci ed irrazionali: nascosta tra le forme del celebre dipinto, l’avvoltoio-madre continua a compiere l’atto di quell’antica fantasia di Leonardo.

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