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Disturbi alimentari: quanto conta la famiglia

Se si esaminano gli studi sui comportamenti genitoriali risulta che madri e padri maturano convinzioni positive sulla malattia e tendono a indirizzare i propri figli verso il piano di realtà. In questi casi gli esiti di malattia sono migliori rispetto ai casi in cui i genitori tendono a minimizzarne le manifestazioni comportamentali.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi alimentari: quanto conta la famiglia (Nr. 20)

Il ruolo della famiglia come fattore di sofferenza emotiva

Da sempre la psicologia è impegnata nella riflessione sul ruolo della famiglia come fattore di sofferenza emotiva. Nel bene e nel male, si tratta di una componente che non si può trascurare. Nel male, perché psicoterapeuti, psicologi e persino psichiatri di fronte al paziente si sentono irresistibilmente genitori vicari e forse migliori dei genitori originali. È una tentazione a cui non sfugge nessun operatore della salute mentale.

Ma non ci sono solo gli aspetti negativi. Una maggiore consapevolezza dei possibili inferni familiari, infatti, è un tratto decisamente positivo della modernità. Nella letteratura contemporanea c’è un’attenzione per bambini e adolescenti del tutto assente in quella del passato. Nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione gli studi presentano dati contrastanti. I genitori tendono spesso ad attribuire particolari significati a questa patologia, e i modelli che utilizzano per interpretare i sintomi e i comportamenti ad essa associati sono molteplici.

 

I comportamenti genitoriali nei confronti dei disturbi alimentari dei figli

Negli ultimi anni si è registrato un interesse crescente nel settore. Alcuni genitori interpretano questo disturbo come un’ossessione o una dipendenza che il proprio figlio non è in grado di padroneggiare. La pensano così i genitori che sanno essere empatici, che si mostrano interessati e preoccupati piuttosto che controllanti e autoritari nei confronti dei propri figli.

Se si esaminano gli studi sui comportamenti genitoriali risulta che madri e padri maturano convinzioni positive sulla malattia e tendono a indirizzare i propri figli verso il piano di realtà. In questi casi gli esiti di malattia sono migliori rispetto ai casi in cui i genitori tendono a minimizzarne le manifestazioni comportamentali. Constatare che solitamente i genitori considerano la patologia alimentare come una malattia misteriosa non sorprende affatto. Un basso livello di “coscienza di malattia” può provocare frustrazione e confusione, e può esitare in comportamenti contraddittori da parte dei genitori, in quanto basati su un sistema di credenze non adeguate. In effetti, i genitori che hanno espresso forte preoccupazione per le manifestazioni della malattia hanno avuto approcci positivi nei confronti della stessa rispetto a quelli che si mostravano più sicuri delle proprie azioni e dei propri comportamenti (Moss-Morris et al. , 2002).

Analizzare le strategie adottate dai genitori per interpretare i significati inerenti allo sviluppo della malattia può portare a una condizione di maggiore benessere del paziente. Le indagini effettuate in ambito adolescenziale indicano che i genitori si comportano con i figli affetti da disturbo alimentare esattamente come la restante parte dei genitori. Ma sarebbe necessario studiare altre variabili di accudimento, come la vergogna e i favoritismi, che sono legati alla genesi della psicopatologia alimentare (Gilbert, Gerlsma, 1999), alle quali sono associati mancanza di autostima e problemi interpersonali (Gilbert et al. , 1999).

Di solito il decorso della malattia interferisce con le dinamiche relazionali familiari. Appaiono critici i comportamenti rifiutanti e iperprotettivi da parte dei genitori, che rappresentano un fattore di rischio per l’esordio dei disturbi alimentari (Castro et al., 2000). Gli studi di McFarlane e colleghi (1995) hanno rilevato che il principale determinante del benessere negli adolescenti esposti a situazioni di stress era caratterizzato da uno stile di accudimento basato sull’empatia, senza la presenza di eccessiva intrusione e controllo. Secondo Oliver e Paull (1995), la relazione dei genitori con figli affetti da disturbo alimentare è dominata dal sottile senso di scarsa autostima che circola tra loro.

 

Le terapie della famiglia per i disturbi alimentari

Per quanto riguarda le terapie della famiglia, alcuni studi hanno sottolineato che i risultati migliori si ottengono nell’anoressia, con trattamenti effettuati in età adolescenziale sull’intera famiglia del paziente (van Furth et al., 1996; Robin et al. , 1999; le Grange, 1999; Gowers, Nord, 1999). In particolare, i genitori in terapia possono aiutare nella comprensione del ruolo svolto nella genesi del disturbo. Peraltro, utilizzare i genitori nel trattamento potrebbe, almeno in parte, diminuire i tassi di abbandono del trattamento (Halmi et al., 2005). Va da sé che sarebbe opportuno avviare trial randomizzati per poter trarre conclusioni più adeguate in merito.

L’applicabilità della terapia familiare alla bulimia è stato oggetto di un numero esiguo di studi, che riferiscono la presenza di scarsi benefici (Russell et al., 1987). Schmidt e collaboratori (2007) rilevano che la terapia familiare potrebbe coadiuvare la terapia cognitivo-comportamentale con gli adolescenti, che però tendenzialmente rifiutano il trattamento con la famiglia. Ma Le Grange e colleghi (2007) sostengono che la terapia individuale genera un più giustificativo miglioramento sui sintomi rispetto a quella familiare. In conclusione, la famiglia può giocare un ruolo importante per comprendere sia la genesi del disturbo sia le condizioni che portano il soggetto a esercitare delle resistenze al trattamento (le Grange et al. , 2010).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Disturbo Ossessivo Compulsivo e rischio di suicidio

E’ credenza comune che i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) non siano a rischio di suicidio. Vari studi contraddicono tale convinzione, suggerendo che una percentuale compresa tra il 5% e il 25 % di soggetti con DOC ha tentato il suicidio almeno una volta nella vita. I pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo, inoltre, presentano una maggiore incidenza di idee suicidarie rispetto alla popolazione non clinica (Alonso et al, 2010; Balci et al. 2010; Torres et al., 201; Dhyani et al., 2013).

 

Alessitimia e senso di responsabilità come fattori di rischio per il suicidio nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo

Tra i fattori associati al rischio di suicidio nei pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo sono identificabili alessitimia ed eccessivo senso di responsabilità.
Il termine alessitimia è stato introdotto per descrivere un insieme di caratteristiche cognitive e affettive osservate in soggetti con disordini psichiatrici e psicosomatici (Sifneos, 1996). L’alessitimia è un costrutto multidimensionale costituito da quattro elementi fondamentali: a) difficoltà a identificare (DIF) e descrivere (DDF) i sentimenti, b) difficoltà nel distinguere i sentimenti dalle sensazioni corporee, c) riduzione della fantasia, d) pensiero concreto e scarsamente introspettivo (Taylor et al., 1997). Gli alessitimici potrebbero presentare disregolazione emotiva, ossia l’incapacità di autoregolare e inferire le proprie emozioni a causa della mancata consapevolezza delle stesse (Panayiotou et al., 2015).
A causa di tali deficit gli alessitimici mostrano, generalmente, livelli d’ansia significativi, depressione, distress psicologico, sintomi somatici e disturbi della sfera emozionale (De Berardis et al., 2010).

L’alessitimia è presente nel 20%-40% di pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo e risulta associata a maggiore severità del disturbo, scarso insight (De Berardis et al., 2005; Carpenter et al., 2011), aumentato rischio suicidario (De Berardis et. al, 2008). In effetti, vari studi mettono in luce associazioni positive tra alessitimia e pregressi tentativi di suicidio, anche in assenza di sintomi depressivi (Hintikka et al., 2004; De Berardis et al.,2008). La sofferenza psicologica risulta spesso intollerabile per l’individuo alessitimico, che può trovare evidenti difficoltà a verbalizzare e descrivere i propri sentimenti. I soggetti alessitimici potrebbero allora essere spinti a esprimere tale sofferenza con un atto suicidario (Pompili, 2010; De Berardis et al., 2013).

Il ruolo del senso di responsabilità nel DOC è stato ampiamente indagato. La responsabilità, è stata definita da Salkovskis et al. (2000) come:[blockquote style=”1″] la convinzione di avere il potere di determinare o prevenire esiti negativi cruciali.[/blockquote] Nel modello cognitivo del Disturbo ossessivo compulsivo l’eccessivo senso di responsabilità è stato identificato come uno dei principali componenti cognitivi, rappresentando un fattore di vulnerabilità e di mantenimento del disturbo (Smari et al., 2008).

E’ stato ipotizzato che l’eccessivo senso di responsabilità potrebbe essere correlato a una maggiore severità del Disturbo Ossessivo Compulsivo, a sintomi depressivi, a sentimenti di colpa e impulsività (Arnzt et al., 2010) e a un aumento dell’ideazione suicidaria, soprattutto nei soggetti DOC più vulnerabili, ad esempio quelli fortemente alessitimici.
Tuttavia, a oggi, la relazione tra alessitima, senso di responsabilità e ideazione suicidaria in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo è stata scarsamente studiata.

Lo studio su alessitimia, senso di responsabilità e rischio suicidario nei pazienti con DOC

A tal proposito risulta particolarmente interessante il lavoro di De Berardis et. al (2015), “Alexithymia, responsibility attitudes and suicide ideation among outpatients with obsessive-compulsive disorder: An exploratory study”. Gli obiettivi del lavoro di De Berardis et al (2015) sono stati essenzialmente due: da un lato, valutare le possibili differenze cliniche tra pazienti alesstimici e non alessitimici relativamente a severità del disordine, insight, senso di responsabilità e ideazione suicidaria; dall’altro indagare le variabili cliniche associate all’ideazione suicidaria.

Il campione e gli strumenti

Lo studio è stato condotto su un campione di 104 soggetti di età compresa tra i 18 e i 45 anni con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo. La diagnosi è stata effettuata mediante assessment clinico basato sulla somministrazione della Structured Clinical Interviews for DSM-IV Axis I Disorders (SCID-I), della Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) e della Toronto Alexitimia Scale – 20 (TAS-20).
Sono stati esclusi i soggetti con disabilità intellettiva, quelli che facevano uso di sostanze e gli individui che presentavano altri disturbi psichiatrici in comorbilità.

I soggetti sono stati reclutati in vari centri di salute mentale del Nord e Centro Italia.
La severità del Disturbo ossessivo compulsivo è stata valutata mediante la somministrazione della Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS), una scala somministrata dal clinico per la valutazione della severità di ossessioni e compulsioni, indipendentemente dal numero e dal tipo di ossessioni e compulsioni presenti. La valutazione dell’item #11 della Y-BOCS è stata presa in considerazione come misura del livello di insight del soggetto. Punteggi ≥ 3 all’item #11 della Y-BOCS rappresentavano la soglia per determinare il confine tra consapevolezza e mancata consapevolezza di malattia (insight scarso o assente).

L’alessitimia è stata valutata utilizzando la versione italiana della Toronto Alexithiymia Scale (TAS-20). Un punteggio ≥ 61 è stato considerato indicativo di alessitimia. La TAS-20 ha una struttura a tre fattori: il Fattore 1 valuta la capacità di identificare i sentimenti e distinguerli dalle sensazioni corporee che accompagnano gli stati di attivazione emotiva (difficoltà nell’identificazione dei sentimenti [DIF]); il Fattore 2 riflette l’incapacità di comunicare sentimenti ad altre persone (difficoltà nella descrizione dei sentimenti [DEF]); il Fattore 3 valuta il pensiero orientato all’esterno (EOT). Il 26% (n=27) del campione ha ottenuto punteggio ≥ 61 ed è stato considerato positivo per l’alessitimia.

Per valutare l’ideazione suicidaria, sono stati presi in considerazione i punteggi ottenuti dai soggetti alla Scale of Suicide Ideation (SSI), una scala a tre punti somministrata dal clinico, con item in grado di indagare l’intenzione suicidaria. Maggiore è il punteggio totale ottenuto alla scala, maggiore è la severità dell’ideazione suicidaria. Un punteggio ≥ 6 è stato utilizzato come soglia di cut-off per identificare un’ideazione suicidaria clinicamente significativa. Il 28.8% (n=30) dei pazienti è stato considerato positivo per questa variabile.
La Responsability Attitude Scale (RAS), un questionario di 26 item, è stato utilizzato per valutare atteggiamenti e credenze relative al senso di responsabilità.
La Montgomery Asberg Depression Rating Scale (MADRS) è stata infine utilizzata per valutare la presenza di eventuali sintomi depressivi.

Analisi dei risultati

Le analisi statistiche condotte sul campione – costituito da 52 maschi e 52 femmine con età media di 32.1 ± 8.0 anni, con durata media di malattia di 9.9 ± 6.8 anni ed età media di insorgenza del disturbo compresa tra 22.2 ± 6.0 anni – hanno evidenziato che nove partecipanti (8.7%) avevano già tentato il suicidio in qualche momento della propria vita mentre dodici soggetti presentavano una storia familiare positiva (11.5%) per il suicidio. Il confronto tra individui con e senza alessitimia, controllati per genere, età, età di insorgenza dei sintomi, durata di malattia e punteggi alla MADRS, ha evidenziato che i pazienti alessitimici ottenevano punteggi più elevati alla Y-BOCS (sia nella sottoscala ossessioni, sia nella sottoscala compulsioni), alla RAS e alla SSI rispetto ai soggetti non alessitimici. I pazienti con alessitimia, inoltre, mostravano minore consapevolezza di malattia e maggiore ideazione suicidaria rispetto ai controlli. Le analisi hanno inoltre evidenziato un’associazione tra scarso insight, punteggi elevati alla RAS e alla sottoscala DIF della TAS-20 e maggiore ideazione suicidaria.

In base alle conoscenze attualmente disponibili sull’argomento, lo studio di De Berardis et al. (2015) è il primo ad aver esaminato la relazione tra alessitimia, eccessivo senso di responsabilità e ideazione suicidaria in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo.
In generale, i risultati della ricerca di De Berardis et al. (2015) mettono in luce come i pazienti con alessitimia mostrino maggiore severità del Disturbo ossessivo compulsivo insight ridotto, responsabilità eccessiva e maggiore intensità dell’ideazione suicidaria; questi dati potrebbero essere spiegati facendo riferimento al concetto di “alessitimia secondaria acuta” (Frebergers, 1977). L’alessitimia secondaria acuta può essere spiegata come un fenomeno stato-dipendente, transitorio, che compare a seguito dell’esposizione ad eventi stressanti e che tende a diminuire con la risoluzione dell’episodio stesso.

Visto che nello studio di De Berardis et al (2015) i soggetti DOC alessitimici evidenziano punteggi più elevati alla Y-BOCS e minore insight rispetto ai non alessitimici, è plausibile ipotizzare che punteggi alti alla RAS (elevato senso di responsabilità) e alla SSI (intensa ideazione suicidaria) riflettano un fenomeno stato-dipendente, probabilmente correlato alla maggiore severità del DOC e allo scarso insight di malattia. In effetti, un ridotto insight è associato a forme più severe di Disturbo ossessivo compulsivo (Fontenelle et al., 2013).

Inoltre, l’associazione tra la dimensione DIF (identificare sentimenti) della TAS-20 e l’ideazione suicidaria emersa nello studio di De Berardis et al. (2015) è in linea con i dati di precedenti ricerche che hanno dimostrato come la dimensione DIF della TAS-20 risulti correlata a elevata ideazione suicidaria anche in assenza di sintomi depressivi (Marasco et al., 2011; Carano et al., 2012; Sakuraba et al., 2005).

Conclusioni

A differenza di altri disordini psichiatrici, l’eccessivo senso di responsabilità (che potrebbe essere letto in termini di responsabilità sociale) manifestato dai soggetti DOC potrebbe derivare da un’ipervalutazione del pensiero altrui (Moritz et al., 2013) ed essere correlato alla presenza di un intenso senso di colpa rispetto alle difficoltà emotive esperite da tali soggetti nell’ambito delle relazioni sociali (Mazza et al., 2010). E’ interessante notare che i risultati dello studio di De Berardis et al. (2015) supportano l’idea che gli individui con maggiori difficoltà a identificare i propri sentimenti (DIF) e scarso insight manifestino un eccessivo senso di responsabilità, che a sua volta correla positivamente con una più intensa ideazione suicidaria. Su queste basi, è possibile ipotizzare che la presenza di alessitimia in pazienti DOC potrebbe essere correlata a una cronica incapacità di fronteggiamento di situazioni stressanti, anche quando lo stressor è lieve (ipotesi dell’alessitimia secondaria) (Martin, 1985; Alkan et al., 2013). Questa scarsa resistenza alle situazioni stressanti potrebbe essere associata a una maggiore severità del disordine (alessitimia secondaria acuta) (Freyberger, 1977) e, di conseguenza, a un eccessivo senso di responsabilità, che potrebbe peggiorare ulteriormente i sintomi DOC, innescando un circolo vizioso (Ghassemzadeh et al., 2005).

In effetti, la difficoltà nel differenziare i sentimenti e distinguerli dalle sensazioni corporee e dall’arousal emotivo potrebbe interferire con l’abilità di tali pazienti di proteggersi adeguatamente da eventi di vita stressanti e con la gestione del senso di responsabilità (Rachman, 1993). Visto che un senso di responsabilità eccessivo può innescare o incrementare sentimenti di colpa (Mancini et al., 2006) e considerato che tali sentimenti potrebbero essere particolarmente problematici e severi in individui con alessitimia, è possibile che tali variabili incrementino ulteriormente il rischio di suicidio.

Quindi, visto che è stato dimostrato che la colpa patologica è associata a un aumentato rischio di suicidio (Sani et al., 2011), gli individui con alessitimia potrebbero sviluppare colpa patologica in conseguenza all’eccessivo senso di responsabilità e alla maggiore severità dei sintomi DOC, determinando rischio di suicidio anche in assenza di sintomi depressivi clinicamente significativi.

Lo studio di De Berardis et al. (2015) ha natura esplorativa e pertanto ha vari limiti che dovrebbero essere evidenziati. Anche se la severità del DOC e l’ideazione suicidaria sono stati analizzati usando scale di valutazione somministrate e valutate da clinici, alessitimia e senso di responsabilità sono stati valutati con scale di valutazione self-report. Inoltre è stato impiegato un disegno di ricerca trasversale che limita le conclusioni circa la causalità: lo studio manca di dati follow-up. In effetti la natura trasversale della ricerca non permette di trarre conclusioni definitive su quale elemento (alessitimia o responsabilità) possa essere quello primario. Inoltre, la ridotta ampiezza del campione non permette di generalizzare i risultati.

Nonostante questi limiti e la necessità di ulteriori ricerche sull’argomento è comunque possibile affermare che i dati emersi dalla ricerca di De Berardis et al. (2015) presentano importanti risvolti per la pratica clinica: i professionisti della salute mentale dovrebbero essere consapevoli del fatto che l’assenza di sintomi depressivi clinicamente significativi non è sufficiente ad escludere la presenza di ideazione suicidaria in pazienti DOC; tale dimensione dovrebbe essere sempre indagata, soprattutto in presenza di alessitimia, scarso insight ed eccessivo senso di responsabilità.

My blue box: una “scatola degli attrezzi” per aiutare i bambini a comprendere il disagio mentale dei genitori

Nasce il primo sito web italiano di informazione e prevenzione rivolto ai figli di genitori con disagio mentale.

 

Il sito web My Blue Box per aiutare i figli di genitori con disagio mentale

Finalmente è nato per la prima volta in Italia un sito web o meglio, un contenitore, una scatola appunto, che racchiude una serie di strumenti per aiutare i figli a comprendere e ad affrontare il disagio mentale di uno o entrambi i genitori. Si tratta quindi di un servizio di informazione e allo stesso tempo prevenzione nell’ambito della salute mentale.

My Blue Box: come aiutare i bambini con genitori psichiatrici

I destinatari del progetto sono coloro che spesso vengono ignorati proprio perché in apparenza non manifestano il bisogno di ricevere supporto. Si tratta dei figli, più o meno grandi, di genitori affetti da disagio psichico come, ad esempio, depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. In Europa ci si riferisce a questi bambini con l’acronimo COPMI (Children of Parents with Mental Illness).

La maggior parte dei progetti si rivolge agli utenti della salute mentale escludendo coloro che non manifestano apertamente un disagio. In realtà essere figlio di una persona che soffre di un disagio psichico non è semplice. I bambini si trovano a trasportare da soli un enorme fardello di emozioni, pensieri e responsabilità. Questi vissuti sono illustrati chiaramente all’interno del video di presentazione del sito, in cui è possibile vedere un bambino che tenta inutilmente di scalare da solo una montagna, portando sulle spalle un enorme zaino. Lo zaino contiene i dubbi e le paure di questo bambino che molto spesso non riesce a comprendere lo “strano” comportamento del genitore che magari resta a letto tutto il giorno, si arrabbia con lui senza motivo o si comporta in modo bizzarro.

Le emozioni più frequenti nei bambini con genitori affetti da disagio mentale

Ciò che non conosciamo, ciò che non comprendiamo, ciò che è imprevedibile ci genera paura e ansia proprio perché non riusciamo a gestirlo. Se il bambino non comprende le motivazioni che portano il genitore a comportarsi in un certo modo, è probabile che attribuisca a se stesso la causa di questo. Ecco quindi che accanto a emozioni di paura e ansia per ciò che non riesce a spiegarsi, alla vergogna che si accompagna alle manifestazioni in pubblico del genitore e alla consapevolezza di appartenere ad una famiglia “diversa” da quella dei compagni e amici, si unisce anche il senso di colpa per essere un cattivo bambino responsabile della sofferenza del proprio genitore. Talvolta sono i figli stessi a doversi prendere cura di sé e dei propri genitori quando questi non sono in grado di gestire la famiglia. Sono bambini spesso non considerati dagli operatori sanitari e che portano il fardello da soli e sentono di non poterne parlare con nessuno, alimentando il senso di vergogna e di isolamento.

Le finalità del sito

Ecco quindi perché nasce questo portale. Un sito rivolto proprio a questi milioni di bambini “invisibili”, per fornire loro strumenti di comprensione del disagio mentale dei genitori. Uno spazio quindi di informazione ma allo stesso tempo anche di prevenzione di un possibile loro futuro disagio. Il portale contiene spazi rivolti ai figli che cercano di capire, spazi dedicati ai genitori che vogliono iniziare con loro un dialogo e uno spazio dedicato agli operatori sanitari che si trovano ad affrontare queste tematiche. Sono presenti racconti di esperienze personali e materiale da far leggere ai figli o da leggere insieme per aiutarli a capire cosa sta accadendo nella loro vita. Vengono inoltre periodicamente segnalati eventi o gruppi a tema e link ad altri siti e blog, tutto nell’ottica di formare una rete per aiutarsi reciprocamente a comprendere e a gestire le difficoltà.

Il messaggio trasmesso dal portale è principalmente quello del “se ne può parlare” ma soprattutto “se ne deve parlare”: si devono esprimere i propri vissuti anche cercando aiuto quando serve. Isolarsi nella propria sofferenza non alimenta il malessere e non consente di aiutare l’altro.
Ecco quindi che nella parte finale del video si vede il bambino che riesce a scalare la montagna supportato dall’aiuto e cooperazione di altre persone. Lo zaino è sempre lì, ancora più grande e pesante, nessuno può toglierlo e trasportarlo al nostro posto, come d’altra parte non è possibile cambiare determinate situazioni, ma se qualcuno ci aiuta possiamo comunque trovare la forza e il modo di trasportarlo lungo tutto il nostro percorso di vita.

 

Rischio più elevato di ansia nelle donne e nei giovani sotto i 35 anni

Secondo una revisione della letteratura scientifica esistente effettuata dall’Università di Cambridge, le donne hanno il doppio delle probabilità di avere ansia rispetto agli uomini. Lo studio ha anche rivelato che le persone provenienti dall’ Europa occidentale e dal Nord America hanno maggiori possibilità di soffrire di ansia rispetto alle persone di altre culture.

 

Ansia e soggetti più a rischio

La revisione, che è stata pubblicata sulla rivista Brain and Behavior, ha evidenziato come i disturbi d’ansia associati ad altri problemi di salute (cardiache, il cancro e anche la gravidanza) spesso aumentino i disagi e le complicazioni.

I disturbi d’ansia spesso si manifestano con eccessiva preoccupazione, paura e tendenza ad evitare situazioni potenzialmente stressanti e questi sono alcuni dei problemi di salute mentale più diffusi nella popolazione occidentale. Il costo annuale relativo ai disordini negli Stati Uniti è stimato a $ 42300000. Nell’Unione Europea, oltre 60 milioni di persone sono colpite annualmente da disturbi d’ansia.

Molti sono gli studi che indagano il numero di persone con disturbi d’ansia e le persone a maggior rischio di sviluppo: i ricercatori hanno effettuato una revisione globale nel tentativo di sintetizzare tali risultati.

Tra il 1990 e il 2010 la percentuale complessiva di persone con disturbo d’ansia è rimasta sostanzialmente invariata: circa quattro persone su 100 hanno sperimentato ansia. La più alta percentuale di persone con ansia è in Nord America, dove quasi otto persone su 100 hanno ansia; la percentuale più bassa è in Asia orientale, dove meno di tre su 100 persone hanno questo problema di salute mentale.

Le donne hanno quasi il doppio delle probabilità di sviluppare ansia rispetto agli uomini; i giovani sotto i 35 anni di età, al netto del genere, ne sono colpiti in modo sproporzionato.

I ricercatori hanno anche scoperto che le persone con altri disturbi di salute hanno spesso molta più probabilità di sviluppare disturbi d’ansia. Ad esempio, nei paesi dell’occidente circa uno su dieci soggetti (10,9%) con malattia cardiovascolare soffre di disturbo d’ansia generalizzato, tra cui le donne evidenziano livelli d’ansia più elevati. I pazienti con sclerosi multipla hanno un disturbo d’ansia (circa uno su tre, 32%).

Conclusioni

In conclusione, le donne e i giovani sono colpiti maggiormente rispetto agli uomini da disturbi d’ansia. Inoltre, le persone che hanno una condizione di salute cronica concomitante sono particolarmente a rischio. I disturbi d’ansia possono essere altamente invalidanti ed è importante per i nostri servizi sanitari capire quali individui sono a più alto rischio in un’ottica di prevenzione.

I disturbi d’ansia colpiscono molte persone e possono portare a disabilità e rischio di suicidio Anche se molti studi hanno esaminato questo importante argomento, rimangono ancora lacune significative da cercare di colmare con nuove ricerche. I dati relativi ai gruppi emarginati sono difficili da ottenere e queste persone potrebbero essere ad alto rischio rispetto alla popolazione generale. La ricerca futura potrebbe essere diretta allo studio di questi gruppi allo scopo di colmare le diverse lacune presenti.

La disgrafia – Introduzione alla psicologia

Disgrafia: Questo termine risale all’inizio dello scorso secolo e si riferisce a un disturbo legato alla scrittura riguardante la dimensione delle lettere, la distanza tra lettere e l’ortografia. Le persone affette da questo disturbo mostrano capacità di scrittura inferiori alla media in relazione all’età, al QI e al livello di istruzione.

Disgrafia: introduzione

Parlare di disturbi specifici dell’apprendimento lascia intendere l’esistenza di una serie di patologie inerenti a questa area tra cui la più nota è la dislessia, di cui si è parlato la scorsa settimana. Invece, meno conosciuta ai più è la disgrafia, disturbo legato alla sfera della scrittura.

Questo termine risale all’inizio dello scorso secolo e si riferisce a un disturbo legato alla scrittura riguardante la dimensione delle lettere, la distanza tra lettere e l’ortografia.
Le persone affette da questo disturbo mostrano capacità di scrittura inferiori alla media in relazione all’età, al QI e al livello di istruzione.

Disgrafia: Etimologia e storia

Disgrafia è un termine composto da due parole greche: ” Dys ” che significa ” difficoltà con ” o “povero” e” graphia ” ovvero scrittura, quindi si intende una difficoltà con la scrittura.

Inizialmente, nel 1940, questa patologia fu definita agraphia, termine ideato dal medico austriaco Josef Gerstmann. Successivamente, H. Joseph Horacek, nel suo libro Brainstorms, descrisse l’agrafia non come caratterizzata da una totale incapacità nello scrivere, ma dalla presenza di carenze nell’ambito della scrittura. In questo caso la persona affetta da tale patologia non mostra né un trauma cerebrale, che possa giustificare la problematica manifestata, né una perdita totale dell’uso della scrittura, per cui si trattava di qualcosa di diverso dall’agrafia. Quindi era necessario effettuare una differenziazione: con agrafia si indica la perdita della scrittura derivante da un infarto o trauma cerebrale, mentre nella disgrafia la scrittura è mantenuta ma presenta delle anomalie e colpisce giovani, adulti e bambini.

Disgrafia: di cosa si tratta?

La disgrafia è una condizione che causa problemi con l’espressione della scrittura non legati alla pigrizia, ma inerenti alle capacità di apprendimento. Molti bambini con disgrafia, non riescono a scrivere correttamente una parola su una riga e la grandezza delle lettere è variabile, al punto da far apparire la scrittura disordinata. Inoltre, faticano a riportare per iscritto quanto pensano o ricordano.

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali-5 (DSM-5) non è usato il termine disgrafia, ma questo deficit è definito tramite la frase “perdita di espressione scritta”, perché coloro che ne soffrono faticano molto in questo compito sia a livello motorio sia cognitivo, ed è inserito nella categoria dei disturbi specifici dell’apprendimento. In ogni caso, qualunque sia la modalità usata per definire questa patologia è importante capire che la scrittura lenta o sciatta non è necessariamente un segno che il bambino possa avere problemi intellettivi o cognitivi. Quindi, se ci fossero delle avvisaglie in tal senso sarebbe necessaria una diagnosi accurata che porti a confermare o meno la presenza di un disagio nell’apprendimento.

Per scrivere sono necessarie una serie di complesse capacità motorie, riprodotte in sequenza, e una serie di processi volti alla elaborazione del linguaggio. Nei bambini disgrafici queste abilità non sono adeguatamente integrate. Infatti, risultano essere più lenti e hanno una serie di difficoltà nello scrivere. Senza aiuto, un bambino con disgrafia farà sicuramente fatica a scuola, con tutte le conseguenze negative che possano verificarsi sia a livello emotivo sia comportamentale.

Disgrafia: diffusione

I sintomi della disgrafia non sono rari, specialmente tra i bambini piccoli che iniziano a scrivere, ma bisogna verificare se queste difficoltà perdurano nel tempo o sono legate solo a un periodo specifico. Nel primo caso, allora, è possibile procedere con una valutazione specifica volta a giungere a una adeguata diagnosi per inquadrare la problematica presentata. La disgrafia è molto diffusa, solo che spesse volte si confonde con le normali difficoltà comunemente incontrate quando si impara a scrivere o con problemi inerenti alla sfera cerebrale e intellettiva.

Disgrafia: cause

Non esiste ancora una specifica causa individuata che possa portare alla genesi della disgrafia. Solitamente è il cervello che gestisce il tutto: prende informazioni acquisite e immagazzinate in memoria per poi riprodurle in un secondo momento attraverso la scrittura. In persone disortografiche tutto questo non avviene, infatti si rilevano problemi sia a livello di organizzazione delle informazioni memorizzate sia nella riproduzione su carta o digitale delle informazioni apprese. Questo si traduce in un prodotto finale caratterizzato da una scrittura di difficile lettura, piena di errori e, cosa più importante, che non trasmette ciò che il bambino intendeva scrivere realmente.

Spesse volte il bambino presenta problemi a carico della memoria di lavoro, che utilizza un processo di codifica per immagazzinare nuove parole scritte. Questo meccanismo nel disgrafico non funziona e per questo si verifica una difficoltà nel ricordare come scrivere una lettera o una parola, con conseguenti complicazioni nella scrittura.

I bambini con disgrafia non hanno un disturbo dello sviluppo motorio, ma possono avere difficoltà a pianificare i movimenti sequenziali delle dita che portano ad avere una buona grafia.
Inoltre, è stata riscontrata familiarità tra i disortografici, e per questo è possibile possa esserci un problema a livello genetico che porta a tramandare il disturbo di padre in figlio.

Disgrafia: i sintomi

I sintomi della disgrafia rientrano in sei categorie: visuo-spaziale, motoria, elaborazione del linguaggio, ortografia / scrittura, grammatica e l’organizzazione del linguaggio, in presenza di capacità di scrittura in ritardo rispetto ai coetanei. I sintomi manifestati sono alcuni tra i seguenti:

1. difficoltà visuo-spaziale:
problemi con la forma e la spaziatura tra lettere;
difficoltà a organizzare parole da sinistra a destra nella pagina;
difficoltà a scrivere su una linea e dentro i margini;
difficoltà a leggere le mappe, il disegno o la riproduzione di una forma di un testo.

2. difficoltà motorie:
problemi a tenere una matita in modo corretto;
incapacità di usare adeguatamente le forbici;
problemi a colorare all’interno dei margini;
posizionare il polso, il braccio, il corpo o la carta in maniera scomoda durante la scrittura.

3. problemi di elaborazione linguistica:
difficoltà a riportare le idee su carta rapidamente;
difficoltà a capire le regole di un gioco;
non si seguono le indicazioni;
perdere il filo del discorso.

4. Problemi di ortografia / Problemi di scrittura a mano:
difficoltà a capire le regole ortografiche;
difficoltà a distinguere se una parola è errata;
parlare corretto, ma con errori di ortografia per iscritto;
combinare le parole in modo errato;
problemi con il controllo ortografico e quando lo fa, non riconosce la parola corretta;
mischiare maiuscole e minuscole;
mischiare il corsivo con lo stampatello;
difficoltà a leggere la propria scrittura;
Evitamento dello scrivere;
Stanchezza eccessiva nello scrivere;
Elaborati pieni di scarabocchi e cancellature.

5. Grammatica:
Punteggiatura non corretta;
Utilizzo di troppo virgole;
Mescolare i tempi verbali;
Non si iniziano le frasi con la lettera maiuscola;
Non si scrivono frasi complete, e spesse si usano elenchi puntuali.

6. Organizzazione della scrittura:
difficoltà a raccontare una storia o si inizia da metà racconto;
si tralasciano fatti e dettagli importanti, o si forniscono troppe informazioni;
i discorsi sono sempre vaghi;
le frasi sono confuse;
non si arriva mai al punto o si scrivono sempre le stesse cose più e più volte.

Disgrafia: Indicatori meno noti di disgrafia

Esistono i seguenti indicatori che, se manifestati di frequente, lasciano dedurre la presenza di una disgrafia. Si tratta di dolore durante la scrittura, che inizia nell’avambraccio e poi si diffonde in tutto il corpo. Questo dolore può peggiorare o addirittura apparire in concomitanza di un periodo di particolare stress. Le persone con disgrafia non attribuiscono mai questo dolore a un problema con la scrittura, ma credono sia dovuto a un qualcosa di organico.

I sintomi della disgrafia variano anche a seconda dell’età del bambino e i primi segni compaiono generalmente quando si inizia a scrivere. In particolare, i bambini in età prescolare possono essere riluttanti a scrivere e disegnare, mentre quelli in età scolare spesso mostrano una grafia illeggibile e hanno bisogno di pronunciare le parole ad alta voce durante la scrittura. Gli adolescenti, invece, scrivono frasi semplici, con molti errori grammaticali.

Disgrafia: diverse tipologie

È possibile individuare diversi tipologie di Disgrafia:
1. dislessica, la scrittura spontanea è illeggibile, mentre quella copiata è abbastanza buona, e l’ortografia è pessima. La velocità del movimento delle dita è nella norma.
2. motoria, è dovuta a un deficit delle capacità motorie, scarsa destrezza, scarso tono muscolare, e / o goffaggine motoria non meglio specificata. In generale, la scrittura è povera e illeggibile, anche quando si copia un documento. La velocità del movimento delle dita è nella norma.
3. spaziale, è determinata da una difficoltà nella percezione dello spazio, la scrittura e il copiato sono incomprensibili, l’ortografia normale.

Alcuni bambini possono avere una combinazione di due o tutte e tre queste tipologie di disgrafia.

Disgrafia: comorbidità

Molti bambini con disgrafia hanno anche altri problemi di apprendimento:

Dislessia.
– Disturbi del linguaggio: i bambini possono avere difficoltà ad apprendere nuove parole, utilizzare una grammatica corretta e a trasformare i pensieri in parole.
Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): problemi di attenzione, impulsività e iperattività.
– Disprassia: condizione che provoca scarso coordinamento motorio e fisico che possono influire sulla scrittura.

Disgrafia: diagnosi

Segni di disgrafia spesso appaiono durante i primi anni di scuola elementare, ma i segnali diventano evidenti alle medie o superiori. Spesso, come sempre, una diagnosi precoce aiuta a uscire prima dal problema. Gli psicologi specializzati, in alcuni casi, anche quelli scolastici, possono effettuare diagnosi di disgrafia purché opportunamente specializzati nei disturbi dell’apprendimento. La diagnosi sarà effettuata tramite test opportunamente selezionati per misurare le capacità motorie e la produzione della scrittura. Durante il test, il professionista può chiedere al bambino di scrivere frasi o di copiare un testo. Inoltre, saranno valutate anche la postura, come è impugnata la matita, la stanchezza, se ci sono dolori muscolari e la velocità di produzione di un testo.

Disgrafia: trattamento

Il trattamento per la disgrafia varia e può includere esercizi motori, per rafforzare il tono muscolare, migliorare la destrezza e la coordinazione occhio-mano, e di controllo della scrittura, oltre ai trattamenti riguardanti esercizi di memoria o neuropsicologici. L’uso del computer è consigliabile rispetto alla carta. Spesse volte a una riabilitazione cognitiva e motoria neuropsicologica sono affiancati incontri con uno psicoterapeuta adiuvanti al miglioramento del benessere del bambino.

Disgrafia: conseguenze

L’impatto della disgrafia sullo sviluppo del bambino varia a seconda dei sintomi e dalla loro gravità. I bambini con disgrafia possono restare indietro nel lavoro scolastico impiegano molto tempo a scrivere e a prendere appunti e per questo possono scoraggiarsi e evitare compiti in cui è richiesto l’uso della scrittura. Inoltre, le capacità motorie di alcuni bambini disgrafici sono molto deboli e per questo faticano nelle attività quotidiane, come ad esempio abbottonare le camicie o allacciare le scarpe.

I bambini con disgrafia possono sentirsi frustrati o in ansia perché si sentono sempre dei falliti nella vita rispetto ai loro coetanei. Inoltre, se giudicati pigri o sciatti dalle insegnanti potrebbero sviluppare una serie di problemi psichici come bassa autostima, ansia, pensieri cattivi ricorrenti e depressione. Tutto questo, alla lunga potrebbe portare a isolamento sociale e problemi col gruppo dei pari.

Disgrafia: come si può intervenire

Se il bambino ha la disgrafia un team di docenti e specialisti della scuola potrà inserirlo in un programma educativo individualizzato, che può includere un apprendimento intensivo della scrittura e esercizi motori. Non vi è alcun farmaco per il trattamento della disgrafia. Tuttavia, i bambini che hanno anche l’ADHD, a volte, sostengono che i farmaci per l’ADHD alleviano i sintomi della disgrafia. I bambini, in ogni caso possono essere aiutati tramite delle strategie da eseguire anche a casa con i genitori:
– Annotarsi esattamente quali sono le difficoltà presentate dal bambino
– Prima di scrivere il bambino può fare un esercizio anti stress: stringere le mani in fretta o strofinarle per alleviare la tensione.
– Giocare con l’argilla o con una palla in gommapiuma può aiutare a rafforzare i muscoli della mano.
Infine, ma non meno importante, lodare il bambino per lo sforzo impiegato nel raggiungere il risultato può motivare ad andare avanti mantenendo alta l’autostima.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Report dal Gruppo di Interesse Speciale “ACT for Health” – 29 giugno 2016, Verona

Verso una migliore comprensione del modello ACT che ne consenta un utilizzo coerente con la Relational Frame Theory, nelle diverse situazioni della pratica clinica.

 

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) rappresenta un modello sempre più diffuso e utilizzato all’interno di diversi contesti clinici, ed offre interventi empiricamente validati in diverse problematiche psicologiche e comportamentali, come l’ansia, la depressione, il dolore cronico, promuovendo la flessibilità psicologica dell’individuo.

Quanto il controllo delle emozioni spiacevoli, così come l’evitamento esperienziale, influenzano il paziente nella condizione di una patologia organica?‘ ‘In che modo la mindfulness, come procedura necessaria nel trattamento ACT, può favorire la consapevolezza del qui e ora?’ ‘Il focus sul momento presente e sull’azione impegnata verso i propri valori come agisce nei contesti di malattia organica?

Di questi e altri temi si è parlato durante il recente incontro nazionale del Gruppo di Interesse Speciale (GIS) “ACT for Health” svoltosi a Verona nella giornata di mercoledì 29 giugno. L’iniziativa è stata promossa dal dottor Giuseppe Deledda, coordinatore del Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, e presidente del Gruppo di Interesse Speciale ACT for Health.

Il Gruppo di Interesse Speciale Act for Health di ACT Italia prima e, successivamente lo Special Interest Group internazionale in seno all’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS) nascono con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di una comunità clinica, di studio e di ricerca che riunisca tutti gli interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute.

Tali riunioni, occasione di crescita e confronto per i sempre più numerosi professionisti che vi partecipano, portano avanti il lavoro del GIS, che si pone tra gli obiettivi quello di creare recenti protocolli d’intervento, dare rilevanza alla formazione tramite il coinvolgimento di ospiti con lunga esperienza clinica e di ricerca, e promuovere l’applicazione del metodo a livello internazionale.

All’incontro hanno partecipato come relatori Joseph Ciarrochi professore presso l’Istituto di Psicologia e dell’Educazione dell’Australian Catholic University, past president dell’ACBS e co-autore del libro ‘The Weight Escape‘, e il dottor Daniel J. Moran, PhD presso l’Hofstra University di New York, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume ‘ACT in practice: case conceptualization in Acceptance and Commitment Therapy‘, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Entrambi gli ospiti rivestono un ruolo di assoluto rilievo nel panorama della scienza contestuale del comportamento. Ed è proprio enfatizzando questo concetto che il dottor Moran ha voluto iniziare il suo intervento: l’ACT fonde le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Non esiste in quest’ottica una distinzione reale tra comportamento manifesto (visibile) e privato (emozioni e pensieri), poiché sono entrambi comportamenti, allo stesso modo.

La giornata è stata fonte di condivisione di diversi temi d’interesse, e ha avuto come argomento le applicazioni dell’ACT, una delle terapie più interessanti del panorama scientifico internazionale, fornendo ai clinici presenti spunti pratici e di riflessione di assoluta utilità.

Durante la prima parte della mattinata il professor Ciarrochi ha introdotto i partecipanti all’interno della cornice del modello ACT e delle terapie di terza generazione, esponendo i concetti di flessibilità psicologica, di accettazione e di evitamento esperenziale.

Una specifica disamina è stata poi condotta sulle strategie d’intervento per il paziente affetto da patologie organiche, un campo in cui l’approccio ACT ha fornito diverse prove di efficacia e di efficienza, focalizzandosi sulla consapevolezza del problema da parte del paziente. Da qui, il terapeuta ACT favorisce scelte coerenti con i propri valori e l’utilizzo di strategie basate sulla self-compassion, volte a una diminuzione delle risposte disfunzionali eccessivamente controllanti o evitanti, al fine di favorire l’accettazione, l’apertura e il movimento del paziente nel contesto di malattia. La condizione di patologia organica comporta nell’individuo un notevole distress e risulta necessario rendere il paziente più flessibile, durante un percorso mirato a rafforzare risposte speculari e alternative a quelle di evitamento, indebolendo il controllo di queste risposte sul comportamento dell’individuo.

Un esempio di queste risposte disfunzionali Ciarrochi l’ha portato facendo riferimento alla sua pratica clinica con i pazienti affetti da obesità dove l’evitamento esperenziale è molto diffuso, con conseguenze dannose per la salute di chi lo attua. Questa strategia di risposta al problema impedisce però di vivere una vita in relazione con i propri valori, ed è proprio con la costruzione di azioni impegnate, dapprima piccole, poi sempre più estese, connesse a quei valori, che il professor Ciarrochi lavora nella motivazione del paziente alla perdita di peso.

Nell’intervento successivo, che ha concluso la mattinata, il dottor Moran ha mostrato una panoramica del Mindful Action Plan, svincolando la Mindfulness dall’idea di atto meditativo fine a sé stesso, e incoraggiando la visione della Mindfulness come azione promotrice di consapevolezza del momento presente.

L’invito di Moran è quello di generalizzare l’esperienza mindfulness a contesti che non sono unicamente quelli della meditazione, ma che dovrebbero coinvolgere la nostra quotidianità, come il mangiare, il guidare, l’essere genitore… in maniera consapevole. Purtroppo come riportato da Moran, in una società sempre in movimento come quella in cui viviamo, risulta sempre più difficile essere presenti a ciò che stiamo facendo e vivendo.

Il fine della Mindfulness, nell’ottica ACT, è quello di ridare spazio a un’ormai perduta consapevolezza, per togliere potere al nostro pilota automatico (metafora che sta a indicare l’insieme di automatismi comportamentali costruiti attraverso le esperienze del passato). Risulta quindi fondamentale diventare più consapevoli della propria esperienza per poter generare una risposta diversa da quella prodotta dal pilota automatico, caratteristica della modalità del fare, chiedendosi tre semplici domande: ‘Cosa fai?‘, ‘Cosa pensi?‘ e ‘Come ti senti?‘, la risposta alle quali, secondo Moran, può portare l’individuo nel momento presente.

Inoltre tale pratica in un contesto di evitamento esperienzale e fusione cognitiva, permette al soggetto di accrescere la defusione e l’accettazione, evitando che pensieri, emozioni e ricordi interferiscano sulla vita in modo nocivo.

Infine, portando come motivazione l’efficacia e l’efficienza che dovrebbero caratterizzare l’intervento terapeutico, Moran ci fornisce una check-list per un Mindful Action Plan. Così come un pilota di aerei prima di partire per il suo viaggio, anche chi vuole intraprendere un’azione mindful dovrebbe assicurarsi di vagliare tutte le sei voci della griglia, cioè di ‘essere‘, ‘nel momento presente‘, ‘accettando‘, ‘notando‘, ‘facendo‘, nella ‘direzione di ciò a cui tengo‘.

L’intervento del dottor Moran si è concluso con una pratica esperienziale molto inconsueta e differente da quelle a cui la tradizione mindfulness ci ha abituati, ovvero una pratica di consapevolezza accompagnata da un sottofondo heavy metal.

Tra un’ironica battuta e un pezzo metal, quindi è terminata un’interessante e proficua giornata di condivisione d’idee e conoscenze, nella direzione dei valori dei molti terapeuti presenti, come ad esempio quello di ridurre la sofferenza e migliorare la qualità di vita delle persone che incrociamo durante il nostro cammino lavorativo e personale. In questo senso è utile e necessario coltivare con gentilezza la nostra abilità di essere nel momento presente con una piena consapevolezza e apertura alla propria esperienza e a fare ciò che conta.

 

Sono qui e ora, accetto quello che provo e noto i miei pensieri, mentre mi muovo verso quello che è importante per me.

Hacking, oltre la fiction: modelli e teorie psicologiche e criminologiche

Hacking: Recentemente e a livello internazionale gli orizzonti di ricerca di psicologia e criminologia sono sempre più inclini ad investire tempo e risorse per l’indagine del fenomeno di criminalità virtuale noto come “Hacking” (dall’inglese to hack: intaccare, con riferimento alla violazione di un sistema informatico). Sulla base della crescente domanda da parte di committenze private e stakeholder istituzionali – preoccupati per la salvaguardia delle relative banche dati – ricercatori da ogni parte del mondo hanno cercato di delineare “profili” in grado di rendere tale forma di crimine prevedibile e arginabile sul nascere.

Hacking: la storia

La mutevolezza dell’inarrestabile progresso in fatto di Information Technology non rende possibile alcuna conclusione univoca e definitiva su chi siano gli hacker e come possano essere fermati, è tuttavia possibile esplorare le variabili sottendenti tale forma di crimine onde aumentare la consapevolezza dell’utenza in ottica preventiva.

Doverosa è la premessa cronologica: venuto al mondo durante gli anni ’80 tra i talentuosi studenti del MIT, l’hacking rappresentava inizialmente un atto rivoluzionario ed irriverente, in grado di abbattere barriere burocratico-politiche in nome di un mito se vogliamo illuminista, incentrato sul potere dell’intelletto capace di sfidare l’impossibile, di violare l’inviolabile. Tale idea, nonostante i numerosi processi evolutivi dell’hacking in relazione al progresso in seno all’IT, permane anche ai giorni nostri poiché il cyber-spazio si configura come una dimensione al di là di geografia, politica e identità (Ramsdell, 2011), sfumando i confini tra lecito ed illecito. Non a caso la principale tassonomia per categorizzare gli hacker si presenta come una tripartizione morale: i cappelli neri (si muovono nell’illegalità per fini criminali), i cappelli grigi (zona di confine e redenzione) ed i cappelli bianchi (compiono violazioni ma su commissione di servizi segreti ed istituzioni, a fini di indagini e tutela dell’ordine).

Tra queste sfumature etiche si annovera ad esempio l’hacktivismo, associato nel pensiero comune alla maschera di Guy Fawkes, divenuta icona degli hacker di Anonymous: impegnati nella lotta contro il terrorismo sul fronte digitale, sfruttano mezzi illeciti per fini eroici, testimoniando in favore del noto aforisma di Macchiavelli “Il fine giustifica i mezzi”.

Gli hacker: chi sono e qual è la loro personalità

Restringendo il campo a termini descrittivi, chi sono gli hacker? Secondo numerosi autori (Jeong S. & McSwiggen, 2014; Jafarkarimi, 2015; Donner, 2016), trasversalmente a categorizzazioni e tassonomie, l’hacker è sempre giovane, bianco e di sesso maschile. Il ruolo della famiglia, in termini di stile parentale, è stato inoltre studiato come fattore di rischio o protezione: Sasson & Mesch (2014) hanno riscontrato che gli adolescenti provenienti da una famiglia fortemente coesa sono meno inclini a compiere attività illecite e rischiose online, ma allo stesso tempo uno stile parentale incentrato sul monitoraggio e la supervisione della attività su Internet potrebbe incentivare gli agiti di trasgressione.

Per quanto riguarda la personalità degli hacker, Fasanmi et al. (2011) hanno studiato il ruolo di alcune variabili (sesso, età, necessità di realizzazione, psicoticismo, nevroticismo ed estroversione) nel predire l’attitudine giovanile verso la frode via Internet: è stato scoperto che tendono maggiormente a compiere atti illeciti online giovani utenti di sesso maschile, significativamente bisognosi di realizzazione.

In modo ricorrente molteplici evidenze scientifiche conducono ad una significativa relazione tra il genere maschile e l’hacking (Seigfried-Spellar, 2014): curioso è l’allineamento di tali dati con la teoria di Simon Baron Cohen (2011) sul cervello autistico come estremizzazione del cervello maschile, da sistematizzatore a ipersistematizzatore. D’altronde, sulla possibilità di una sovrapposizione tra tratti autistici e hacking, lo stesso Julian Assange, fondatore di Wiki-leaks, ha scritto nella sua autobiografia (2011): [blockquote style=”1″]Come tutti gli hacker, e come tutti gli uomini, sono un po’ autistico [/blockquote] sottolineando il radicato mito pop dell’hacker come geek (cervellone), alimentato da romanzi, libri e telefilm.

Sebbene l’ipotesi di hacking e tratti autistici offra una spiegazione plausibile al talento per la violazione di codici come espressione dell’interesse ristretto per sistemi chiusi e prevedibili in fatto di regole, questo potrebbe fuorviare a livello legale: interpretare l’hacking come fatto “clinico” potrebbe, in ambito processuale, indurre gli avvocati della difesa a discolpare atti estremamente lesivi.

Esattamente come crimini che avvengono nella realtà tangibile, anche i crimini della realtà virtuale sono risultato di condotte devianti e ristrettezza empatica. Premesse teoriche in fatto di comportamento regressivo online (Norman, 1996) o della garanzia di invisibilità, asincronia, unite a introiezione solipsistica, dissociazione e minimizzazione dell’autorità nel cyber-spazio (Suler, 2004), pongono le basi per le ipotesi di studio dell’hacking come condotta deviante e carenza empatica. Sebbene manchino ad oggi ritrovati specifici sulla relazione tra hacking, callous unemotional traits o psicopatia clinica, Fanti et al. (2013) hanno dimostrato come comportamenti di cyber-aggressione siano associati ad alti livelli di narcisismo e psicopatia subclinica utilizzando la Dark Thriad (Jones & Paulhus, 2014) su un campione di adolescenti.

Trasversalmente alla tipologia di atto criminale praticato sulla Rete, è chiaro come la realtà virtuale funzioni da filtro per la moralità individuale: la vittima danneggiata dal furto di identità o dal trasferimento improprio di dati o denaro, è reificata e deumanizzata come testimoniato dalle interviste di Zhengchuan Xu e collaboratori (2013) a sei giovanissimi hacker Cinesi. I dati qualitativi emersi hanno permesso di tracciare un’evoluzione comune in termini di processo di decadenza morale e acquisizione identitaria come hacker: dapprima la passione per il computer e la curiosità domina il rapporto con il mezzo, a seguire un crescendo di abilità messe alla prova dalle prime frodi creano sfide stimolanti ed incalzanti, fino all’esordio criminale ai danni di singoli o comunità.

Dai report inglesi della NCA (National Crime Agency, 2013) sono evidenti le modalità di reclutamento e affiliazione di vere e proprie comunità hacker online: da parte di tali organismi, curioso è il fare leva sull’adrenalinico senso di sfida nella violazione di sistemi che spesso si configura in una concatenazione di prove a mo’ di videogame. Evidenze cliniche (Mustafa Solmaz et al., 2011) hanno tracciato a proposito un interessante parallelismo tra dipendenza da Internet e hacking. Una volta iniziato il processo di affiliazione, diventa problematico per l’individuo fermarsi, fino all’esordio sintomatologico di astinenza qualora il soggetto sia drasticamente allontanato dal mezzo.

Gli antecedenti dell’hacking

La ricerca ad oggi ha delineato modelli statistici in grado di descrivere predittori del fenomeno, nella cornice criminologico-psicologica della General Theory of Crime (Gottfredson & Hirschi, 1990), della Routine Activity Theory (Felson & Cohen, 1979) e della Social Learning Theory (Bandura, 1977).

Donner (2014) ha riscontrato un basso livello di autocontrollo come predittore di attività criminali in Rete, dato comprovato da Philips et al. (2015) in concomitanza con percezione di assenza di guardiani adeguati e da Marcum e collaboratori (2014) in associazione con l’influenza di pari devianti.
Più precisamente, la costellazione di questi antecedenti, tutt’oggi da approfondire, delinea come segue il terreno fertile per diventare hacker. Bassi livelli di autocontrollo costituiscono il primo passo per infrangere barriere morali e legali, unito alla convinzione dell’assenza di autorità vigilanti nel contesto virtuale, insieme con l’accettazione o il supporto di pari sociali, creerebbero la miscela esplosiva per comportamenti “cyber-criminali”. Un ulteriore filone di indagine potrebbe ricercare un nuovo antecedente nell’aver subito sulla propria pelle atti di cyber-criminalità, come dimostrato a proposito del cyber-bullismo e dell’uso problematico di Internet (Gámez-Guadix et al, 2013).

Infine, ancora carente è la letteratura sui fattori di protezione che impediscono agli adolescenti di attuare comportamenti devianti online: Casidy e collaboratori (2016) hanno attualmente identificato nell’educazione religiosa una barriera morale sufficiente contro il coinvolgimento nella criminalità online, tuttavia numerosi sono le potenziali chiavi di indagine per il futuro, tra cui i pattern di attaccamento e il loro ruolo nello spiegare le attitudini ed i comportamenti di nativi e migranti digitali nel cyber-spazio.

L’Employer Branding nel processo selettivo: perché è importante lavorare nella mia azienda

Uno sguardo al processo di creazione di un’immagine aziendale che possa aiutare alla ricerca dei migliori candidati da assumere, attraverso il concetto di Employer Branding: un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

Andrea Caputo

 

Ci sono tanti motivi per i quali un individuo sceglie l’azienda alla quale fare domanda di lavoro: retribuzione, vicinanza geografica, tipo di impiego offerto… Certo, ci sono molti casi in cui non si può scegliere, nei quali il posto migliore è quello in cui ti assumono.

Ma, anche in quest’ultima circostanza, se per assurdo due diverse aziende fossero disposte ad assumermi e fossero equivalenti in quanto a paga, qualità del lavoro, tipo di impiego e collocazione geografica, quale sceglierei? Presumibilmente la più prestigiosa! È qui che rientra il concetto di Employer Branding, un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

 

Cosa si intende per Employer Branding

‘Il termine Employer Brand è stato coniato da Ambler e Barrow nel 1996′ e si riferisce all’ ‘insieme di benefici funzionali, economici e psicologici garantiti dall’impiego e identificati con l’azienda’.

Secondo questi autori, i benefici funzionali sono le attività che l’employer (datore di lavoro) offre all’employee (impiegato) per poter mostrare e sviluppare le proprie abilità; i benefici economici si riferiscono, ovviamente, all’aspetto retributivo; mentre i benefici psicologici si riferiscono al senso di appartenenza che gli impiegati provano nei confronti del proprio datore di lavoro.

Di fronte a questo scenario, dunque, appare chiaro come il processo selettivo possa essere inteso anche come il risultato di azioni che l’azienda ha portato avanti ancor prima di arrivare ad esso. Queste azioni riguardano per l’appunto la costruzione della propria immagine legata al brand, affinché risulti accattivante e positiva ai futuri candidati. La creazione di una immagine è utile all’azienda, in quanto può rappresentare una prima opzione di filtraggio (screening) dei candidati che si propongono per occupare una posizione all’interno dell’organizzazione rimasta vacante (vacanza). Infatti, si presuppone che parte dei candidati che fanno domanda di assunzione in un’azienda sia quella formata da quelle persone che credono nell’azienda, ovvero che la sentono vicina alle proprie aspettative, qualità e ambizioni. In questo modo, l’organizzazione avvicina a sé i candidati con caratteristiche a lei ideali, utili alla propria causa, scoraggiando, di conseguenza, quelli che invece non hanno delle caratteristiche in linea con l’immagine del brand.

 

Attrazione e ritenzione dei talenti

Ogni azienda punta a trovare gli impiegati migliori, i cosiddetti talenti. Molto spesso il talento può essere riscontrato all’interno delle competenze dell’individuo (skills). Per skills si intende molto spesso competenze di carattere tecnico, utili perciò a svolgere un determinato compito, cioè il saper fare. Accanto a queste ci sono le competenze di carattere psicologico dell’individuo che lavora sia come singolo sia come parte di un gruppo, cioè il suo saper essere. E quindi il talento, in questo senso, è inteso come quel candidato che ben si adatta alle caratteristiche del compito da svolgere, ma anche a quella che viene definita la cultura organizzativa dell’azienda: cioè tutte quelle caratteristiche psicologiche peculiari dell’azienda e anche del settore, che descrivono il clima dell’azienda, la qualità dei rapporti tra i colleghi, ma anche lo slang usato nel reparto, e i riti di iniziazione dei nuovi arrivati, che permettono al novizio di poter essere considerato uno di noi.

In questo senso, le strategie di Employer Branding riescono anche a far affrontare agilmente il processo di entrata e sistemazione del nuovo arrivato, che entra a far parte di un gruppo di persone qualificate (per skills e competenze psicologiche) al suo stesso livello; idealmente tutti saranno sulla stessa lunghezza d’onda.

 

Strategie di Employer Branding

Alla luce di questo, i pochi studi scientifici che riguardano l’Employer Branding hanno messo in evidenza come le strategie dell’azienda rivolte all’attrazione e ritenzione dei talenti debbano riguardare due aspetti:

  • Hard: ovvero caratteristiche tangibili come la retribuzione, le caratteristiche della posizione da ricoprire…;
  • Soft: ovvero caratteristiche del clima, della cultura, delle aspettative e delle ambizioni dell’azienda.

La creazione di un’immagine accattivante non è finalizzata solo a catturare i talenti, ma anche a trattenerli: far sì cioè che loro si identifichino talmente tanto con il brand, da non desiderare di andar via, e di continuare ad operare per il suo bene e il suo sviluppo, i quali, in un’ottica di identificazione con l’azienda, vanno a coincidere con il proprio bene e il proprio sviluppo. In questo modo, si può allontanare, se non rimuovere, la situazione di attrito che chiude il ciclo della permanenza del soggetto nell’organizzazione; il tutto a beneficio di quest’ultima e dei suoi impiegati.

 

Employer reale ed ideale

Per poter pianificare delle strategie efficaci di Employer Branding, Bonaiuto e colleghi (2010) hanno condotto uno studio su un campione di 1605 studenti universitari italiani, somministrando dei questionari contenenti item che riguardano le caratteristiche che dovrebbero possedere sia un employer reale sia un employer ideale:

  • Per employer reale si intendono tutte quelle organizzazioni che attualmente operano nel mercato (ad es. Coca-Cola, Adidas, Armani…);
  • Per employer ideale, invece, si intende un luogo di lavoro ipotetico che rispecchi in generale le preferenze dei candidati.

È ovvio che, dal punto di vista di un candidato, il fatto che l’employer reale coincida con il suo prototipo ideale sia un fattore a favore dell’azienda che lo assume, in quanto aumenta il legame psicologico del lavoratore nei suoi confronti, ed è un predittore di una performance di alto impegno.

Identificare le caratteristiche di un employer ideale comuni a molte persone è utile per elaborare delle strategie di Employer Branding per intercettare quei talenti utili all’employer reale, sottraendoli ai competitors. I risultati di questo studio hanno mostrato nove caratteristiche fondamentali che deve possedere un’azienda, secondo gli studenti universitari italiani: integrazione e valorizzazione del dipendente, reputazione e prestigio, creatività, internazionalità dell’impiego, merito, innovazione, sistema equo di ricompense, garantire una posizione permanente, responsabilità sociale (cioè, l’azienda contribuisce a migliorare la vita del consumatore); a questi va aggiunta anche la dimensione del teamwork.

 

Employer branding nella selezione del personale

Inoltre,  come messo in evidenza da Anderson (2009), nel processo selettivo intervengono due parti, che operano in maniera biunivoca: l’organizzazione e i candidati. Entrambe svolgono dei processi di valutazione della controparte:

  • L’organizzazione è attenta alle caratteristiche del candidato per decidere se fargli o meno una proposta di lavoro;
  • I candidati, a loro volta, valutano il modo in cui l’organizzazione si pone verso di loro attraverso la qualità del processo selettivo.

L’autore fa alcuni esempi, per far capire come entrambe le parti si influenzino a vicenda con le loro azioni, reali o mentali. In uno di questi ipotizza che il candidato si ritiri dalla selezione: in questo modo l’azienda sicuramente, dal proprio punto di vista, riduce i costi della selezione, ma potrebbe perdere un potenziale lavoratore dalle elevate performance a lungo termine.

Interessante è far notare come la qualità della selezione possa influire anche sulla prestazione in loco del candidato, e quindi nel caso in cui quest’ultimo abbia avuto una visione negativa del processo selettivo, e dunque dell’azienda, la performance attuata potrebbe subire dei cali. In questo modo sembra che il candidato, inconsciamente, spinga se stesso a non far parte di quella organizzazione, di cui ha avuto una brutta impressione, mettendo in atto una prestazione non sufficiente. Oppure, nel caso in cui venisse assunto, la prestazione a lungo termine potrebbe non essere delle migliori perché influenzata da quella immagine negativa che si è creata al momento della selezione.

Ancora, un candidato che ha avuto una percezione negativa di un employer può essere dannoso in quanto, soprattutto in caso di non assunzione, condividerà le sue impressione con amici, parenti, colleghi, ovvero potenziali candidati e clienti futuri.

Queste considerazioni mettono in evidenza come un’azienda, per puntare in alto, debba considerare anche quegli aspetti soft delle relazioni con gli stakeholders (consumatori, azionisti, impiegati…), che non sono da dare per scontati, in quanto possono rappresentare, a lungo termine, sia dei costi sia dei vantaggi.

Inoltre, questi studi fanno notare come si possa fare un passo avanti, facendo in modo che l’azienda si preoccupi di come venga considerata al suo interno (dai lavoratori) e all’esterno (dagli utenti), facendo attenzione ai minimi particolari di ogni sua azione, che sono significativi. In questo modo si può andare oltre la semplice considerazione dell’impiegato come unità lavoratrice, considerandola, invece, una risorsa umana a pieno titolo, il che significa gestirla, nei suo pro e nei suoi contro; una mossa che va nella sua direzione, ma che, inevitabilmente, si riflette sull’azienda stessa.

Call for papers – Terapie psicologiche per ansia e depressione: costi e benefici (Padova, 18-19 novembre 2016)

Università di padova - LogoLa diffusione delle terapie psicologiche per ansia e depressione ha ricadute benefiche e quantitativamente rilevanti sulla diminuzione della spesa sanitaria globale, delle assenze dal lavoro, dell’abuso di alcol, dell’incidentalità sul lavoro e sulla strada.

Accanto all’approfondimento scientifico, il convegno si propone di stimolare anche in Italia iniziative simili a quelle da tempo avviate in Gran Bretagna e note col nome di IAPT: Improving Access to Psychological Therapies. Nel corso del convegno verrà formalizzato un documento non solo scientifico, ma di più ampio respiro culturale, volto a mondo del lavoro, organi di informazione, vertici politici, agenzie sanitarie.

Ospite d’onore sarà il professor David Clark (Oxford University).

Il convegno si terrà il 18-19 novembre 2016 a Padova, per iniziativa del Dipartimento di Psicologia Generale, in collaborazione col Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, con SIPsOT ed altre società scientifico-professionali.

Sarà gratuito e ospiterà simposi con comunicazioni orali e sessioni poster sul tema: esperienze-pilota di trattamenti psicologici e interventi strutturati brevi (low-intensity psychological interventions) per ansia e depressione, nel panorama italiano, con documentazione d’efficacia; dimensioni, spesa e tipologia delle risposte del SSN e del privato.

 

Invio dei lavori

Gli abstract dovranno essere inviati a: [email protected]

entro il 10 settembre 2016 e comprendere: titolo, autori, eventuale affiliazione, indirizzo email e recapito telefonico per contatti rapidi; a seguire un testo non superiore a 250 parole.

 

La pianificazione mentale delle attività attraverso un network di aree cerebrali

La rappresentazione mentale del futuro, il pensiero prospettico e la simulazione di esperienze future sono componenti fondamentali del comportamento finalizzato ad un obiettivo, che consentono di ottenere più facilmente obiettivi immediati e a lungo termine. Modelli computazionali e animali hanno evidenziato la presenza di una codifica spaziale prospettica da parte dell’ippocampo, mediata da interazioni con la corteccia prefrontale. Nel suo insieme, questo network di aree costituisce il meccanismo putativo della simulazione di eventi futuri.

 

Lo studio: l’attività cerebrale durante un compito di pianificazione mentale

Un recente studio pubblicato su Science rivela che le interazioni tra ippocampo e corteccia prefrontale permettono anche agli esseri umani di pianificare e navigare lungo un percorso da una posizione ad un’altra. I risultati prodotti dallo studio forniscono inoltre la prova diretta dell’esistenza di questo network di aree cerebrali, evidenziando i complessi processi che sottendono la navigazione obiettivo-orientata.

Per raccogliere i dati sull’attività cerebrale durante un compito di pianificazione/navigazione, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare un test computerizzato in due giorni consecutivi. Il primo giorno i soggetti hanno imparato a muoversi virtualmente lungo cinque posizioni target, ciascuna contrassegnata da una coppia di immagini, all’interno di un ambiente circolare. Il giorno successivo, i partecipanti, partendo da una delle cinque posizioni target, dovevano spostarsi, altrettanto virtualmente, verso una posizione successiva, suggerita dai ricercatori, pianificando il percorso più breve.

Durante il compito del secondo giorno, i ricercatori hanno effettuato scansioni ad alta risoluzione dell’intero cervello attraverso risonanza magnetica funzionale, sia nelle fasi in cui gli individui erano intenti a pianificare il percorso, sia durante la navigazione (virtuale).

 

I risultati dello studio

L’analisi dei dati ha rivelato che la corteccia orbitofrontale, già nota per la sua interazione con l’ippocampo durante la navigazione guidata da informazioni presenti in memoria, svolge un ruolo chiave nella classificazione di ciò che costituisce un “obiettivo futuro” o “punto finale” di uno spostamento. La porzione frontopolare (della corteccia frontale) sembra invece svolgere un ruolo di regolazione della codifica di queste informazioni nell’ippocampo.

Infine, i dati suggeriscono il coinvolgimento di altre tre regioni cerebrali: la corteccia paraippocampale, la corteccia peririnale e il complesso retrospleniale. Nello specifico, queste tre aree possiedono un ruolo cruciale nella “visualizzazione” (virtuale e mentale) di contesti e spazi futuri/successivi nella navigazione.

I dati di questo studio sono sufficientemente dettagliati da aver permesso ai ricercatori di determinare anche quando un “sotto-obiettivo” (stimolo secondario che si trova lungo un percorso verso la meta) veniva rilevato: il riconoscimento di questa tipologia di stimoli è stato preferito al riconoscimento dei “non- obiettivi”.

Nel complesso, l’intero corpo di risultati fornisce spunti interessanti per comprendere il modo in cui il cervello umano naviga all’interno dello spazio.

Come il cinema fantasy può venirci in aiuto nella costruzione di una solida alleanza nella psicoterapia per giovani (nerd)

Narrativa e filmografia fantasy, consentono notevoli appigli per la formazione di metafore, utili alla creazione di una buona alleanza terapeutica nella psicoterapia con giovani e adolescenti, categoria talvolta di più difficile accessibilità.

 

Wikipedia ci dice che, stereotipicamente, al mondo dei nerd appartengono quei ragazzi tendenzialmente solitari, poco portati alla socialità e al conformismo; solitamente molto intelligenti, per i nerd attività come informatica, tecnologia, fumetti, videogiochi, letteratura e filmografia fantasy, non hanno segreti.

Generalmente tali individui vengono tacciati di immaturità cronica, proprio a causa della fonte delle loro passioni, considerate con accento dispregiativo, roba da bambini. Schivi e moderni Peter Pan, vagano così furtivi, scambiandosi manuali chilometrici sul prossimo gioco di ruolo, di nascosto dal capoufficio guardingo, consapevoli del misfatto agli occhi dell’adulto. Scorrendo i vari siti e blog dedicati al mondo nerd e confluenti, si scopre che questo è, appunto, solo uno stereotipo: le risorse presenti in tale universo, offrono infatti un ventaglio tanto variegato quanto ricco di metafore, utilizzabili a scopo sia psicoeducativo che terapeutico.

La stereotipia legata ai nerd, può d’altra parte profeticamente prender vita, in alcuni giovani predisposti ad una vulnerabilità di fondo, protesi ad esempio verso un rassicurante ritiro sociale o verso un subdolo mondo ossessivo. In questo caso l’universo nerd offrirà un vasto, quanto rassicurante conforto, pieno di speranze credibili, miti giusti, raminghi impavidi, demoni da poter sconfiggere e poteri da scoprire per affrontare il tutto: chi mai potrebbe rinunciare?

Il pericolo insito nel fattore di mantenimento è in vista, proprio perché il paese dei balocchi è dietro l’angolo e la tana del Bianconiglio è così invitantemente confortevole.

La costruzione di una relazione con gli adolescenti, specialmente se dotati di una personalità timida e riservata è già di per sé complessa (Isola L. Mancini F 2003). Quando si ha a che fare con una psicoterapia per nerd, talvolta, è come si fosse in presenza di un muro confinante con un’altra dimensione: solo spingendosi oltre, si potrà costruire prima un linguaggio comune e poi una solida alleanza terapeutica.

 

Psicoterapia per nerd: un caso clinico

Andrea è un sedicenne timido e asociale, affetto da un disturbo ossessivo compulsivo severo, con due precedenti tentativi di terapie alle spalle. La sua vita ruota attorno a videogiochi, filmografia fantasy-horror e mondo degli youtubers. Il centro assoluto delle sue passioni è Halo, un videogioco fantasy-fantascientifico legato ad una community ricchissima di blog, fans, romanzi, serie animate e fumetti di complemento.

Adotto spesso in terapia la metafora del parassita, chiedendo al paziente di immaginare il peggior parassita che gli venga in mente, quello che gli suscita più disgusto e suggerendogli poi di considerarlo come origine delle ‘voci’ disturbanti. Notoriamente i parassiti succhiano energia dal proprio ospite: più è forte l’ospite più sono forti loro. Tuttavia per quanto il parassita possa essere mimetizzato con essi, è qualcosa di diverso. Utilizzo questa metafora per favorire, ovviamente, la differenziazione (Lakatos A. Reinecker H. 2005)

Ma in questo caso specifico di psicoterapia per nerd è ad un tipo di parassita particolare cui mi interessa far riferimento, un parassita mellifluo, imbonitore e sagace. Il Gravemind in Halo ha una mente suprema, antichissima, molto potente avendo assorbito milioni di anime, con lunghissimi tentacoli e migliaia di possibilità di contaminare altri corpi inermi. Con voce subdola, languida e in rima, carezza l’orgoglio della vittima ignara sino alla capitolazione finale.

Il disturbo ossessivo compulsivo aveva avuto un esordio molto precoce nella vita di Andrea, influenzando così tutta la sua preadolescenza. Nonostante la sua quotidianità fosse seriamente danneggiata dagli estenuanti rituali, egli era convinto di riuscire a sfidarsi ogni giorno, e di fare continuamente passi avanti sulla strada della guarigione. Ciò che in realtà accadeva era che ogni millimetro che il parassita gli concedeva, ai suoi occhi appariva un chilometro, mentre dall’esterno erano ben evidenti evitamenti costanti e comportamenti protettivi sempre più variegati.

Il Gravemind lo teneva abilmente in ostaggio, un equilibrio perfetto e diabolico, che soprattutto teneva lontano il terapeuta: era in grado di sfidarsi, non aveva bisogno di aiuto. Un modulo, questo, che si ripeteva da tempo impedendogli di instaurare una relazione terapeutica efficace, e finendo per alimentare sconforto e  sfiducia verso la terapia: esattamente l’obiettivo difensivo del subdolo parassita.

Ogni sforzo di Andrea era teso a difendere l’integrità dell’aura di felicità della sua camera. Essa conteneva quanto per lui di più caro e prezioso: se qualcosa di esterno l’avesse violata, una patina nerastra avrebbe densamente ricoperto ogni superficie e la serenità sarebbe scomparsa dal suo mondo. Le concessioni del Gravemind, lo tenevano impigliato in una tela di Penelope fatta di sforzi sovrumani, che in barba alla perenne promessa non lo portavano mai alla meta.

Validando e accogliendo compassionevolmente le sfide di Andrea, in questa ‘psicoterapia per nerd‘ spostai l’ago della bussola su ciò che per lui era più importante. Parlai dell’aura positiva della camera facendo riferimento ai colori pastello (King S. 1994); utilizzai gli horcrux (Rowling J.K 2005) in senso positivo per mostrargli come gli oggetti della camera appartenessero e fossero parte di lui: la sua esperienza con loro li aveva resi tali e così come in quelli di Voldemort, parte della sua anima era in essi racchiusa facendoli brillare di luce propria e inattaccabile. La sua camera assunse le forme dell’Arca, l’unica installazione al sicuro, in Halo, dal Gravemind benché temporaneamente.

In pochissimo tempo tra me e Andrea si creò un linguaggio comune, fatto di moltissime metafore narrative e filmografiche, con Halo e il Gravemind al centro: il Gravemind tentò più volte di opporre resistenza convincendo Andrea che poteva farcela da solo, e invariabilmente accadeva che uscisse fuori una nuova sfida.

Io utilizzavo sempre un atteggiamento compassionevolmente neutro, orientato su ciò che più contava: non esiste il giusto o sbagliato, ma ciò che conviene o meno per arrivare dove vuoi. Andrea si fidò presto della nostra alleanza terapeutica e, cosa più importante, riconobbe il Gravemind per ciò che era e lo nominò. Riconobbe, inoltre, la sua importanza nel suggerirgli le sfide, e imparò a diffidare da esse, creandosene di proprie in terapia con il mio aiuto.

Aveva compreso chi era il vero nemico. E lo aveva compreso dal suo punto di vista.

 

L’importanza delle metafore

In molti casi le metafore non hanno dei soggetti così specifici, ma assumono contorni più generali, soprattutto se si riferiscono a concetti astratti ed emozioni. Nella mia pratica clinica trovo spesso che emozioni scomode come la rabbia, ben si prestano ad esser rappresentate con metafore di tipo epico.

Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra verso il campo di battaglia indicato dal tuo secondo: vendicherai finalmente i tuoi padri periti ingiustamente nel tempo andato, quale onta per la tua casata! Ma una volta giunto, scopri solo una terra riarsa dal sole cocente, qua e là puntellata dal biancore opaco di riconoscibili ossa; lance ancora affilate giacciono a terra. Non trovi un solo nemico ancora in vita, una sola spada da combattere e nemmeno una goccia di sangue da versare. Cosa puoi fare a questo punto?

Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra, verso il campo utilizzato come base dall’esercito nemico: vendicherai le razzie scoperte nel tuo villaggio al ritorno dalla caccia. Ma una volta giunto scopri che il campo è ormai deserto: l’esercito deve essersi mosso con un paio di giorni di anticipo su di te. A questo punto ti aspetta una scelta. Non hai viveri né acqua per il viaggio, la tua armatura è pesante e il sole cocente. Cosa puoi fare?

Queste due metafore rappresentano due versioni leggermente diverse della rabbia: nel primo caso ci troviamo di fronte ad una rabbia sorda, una seconda fase del lutto non elaborata nel tempo (Kübler-Ross E. 1969), da individuare magari in depressioni croniche. Essa pone l’accento su frustrazione e disperazione: l’obiettivo è quello di rendere ben visibile la condizione di immobilità e inutilità dell’azione ricorrente, proprio attraverso la connessione con la realtà del momento presente.

Nel secondo caso, c’è una situazione di iperinvestimento comune in molti disturbi, e si fa riferimento direttamente all’agenda del controllo dell’ACT e alla disperazione creativa (Harris R. 2011).

Attraverso queste rappresentazioni i pazienti riescono ad assumere una prospettiva combattiva, molto utile e motivante in questa categoria di persone; esse riescono così ad utilizzare un linguaggio che comunemente associano alla protezione e all’evitamento della sofferenza, proprio come strumento per accettarla ed imparare non considerarla più un demone assetato di sangue.

Julieta (2016) di P. Almodovar – Recensione del film

Il film Julieta di Pedro Almodovar attraversa i temi del segreto, del silenzio, del vuoto, della colpa. Temi traumatici per eccellenza. La trama va avanti per flashback sapientemente ricostruiti. 

Melania Continanza

 

Il nuovo film di Almodovar (2016) è stato definito come un ‘viaggio interiore che risale il tempo‘, ‘un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda‘ (M. Gandolfi).

Visto attraverso le lenti di uno psicoterapeuta, Julieta appare anche come un film sul trauma e sulla dissociazione. La scena si apre con la protagonista che sta per trasferirsi dalla Spagna al Portogallo con il compagno (Lorenzo), alle prese con gli scatoloni da riempire, piene di cose e di ricordi.

La parte apparentente normale di Julieta viene presto a contatto con la parte emotiva (Van der Hart et al., 2006), che riemerge da un incontro casuale con Beatriz, amica di infanzia di sua figlia Antía, la quale le riattiva il ricordo, che la convince a restare a Madrid, ritornare sui luoghi del suo passato, ricostruire la sua storia.

Lentamente si delinea la storia traumatica della donna, che è ben rappresentata dalla foto di sé insieme a sua figlia, in pezzi, ricomposta in modo approssimativo. A poco a poco riemerge e viene ricomposta tramite la narrazione, in una lettera aperta che la madre scrive alla figlia e in cui ripercorre le tappe del suo passato. Il film attraversa i temi del segreto, del silenzio, del vuoto, della colpa. Temi traumatici per eccellenza. La trama va avanti per flashback sapientemente ricostruiti: l’incontro casuale con Xoan in treno e l’amore passionale da cui nasce la figlia, il suicidio misterioso di uno strano personaggio conosciuto in treno, l’incontro con la famiglia di origine, la morte di Xoan in una giornata di mare in tempesta.

Julieta non ha commesso nessun crimine, ma non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio dell’uomo del treno (prima), e per la morte di Xoan, compagno tanto amato (poi). Essa non riesce a perdonarsi l’accaduto e trasmette come un gene alla figlia il senso di colpa.

Dopo la morte di Xoan, Julieta entra in uno stato mentale che più che depressivo assomiglia a uno shut down dissociativo, in cui la figlia, insieme all’amica Bea, si prende cura diligentemente di lei. Fino a quando, a 18 anni, Antía decide di andare in ritiro spirituale e lascia perdere le tracce di sé alla madre. Julieta la aspetta per tre lunghi anni, tre anni segnati dal rito della torta, ogni anno comprata nel giorno del compleanno della figlia e buttata nell’immondizia, fino a quando un giorno la donna esce dallo stato dorsovagale grazie alla rabbia. Riesce finalmente a tornare a investire sulla sua vita, ma non prima di avere messo sottosopra la casa e agito attivamente la sua emotività.

Julieta è anche un dramma esistenziale, che mette in scena il triangolo drammatico (Karpman, 1968), in cui ciascuno è sia vittima di un destino crudele, che persecutore (Julieta costringe la figlia adolescente ad accudirla durante la depressione, facendole perdere i suoi anni migliori), che salvatore (Julieta va a accudire Ava, la donna con cui il compagno aveva avuto una relazione clandestina).

E’ il dramma della colpa e dell’espiazione, in cui ‘ognuno ha quello che si merita‘, come Julieta che vive nella solitudine e nel vuoto, così Antía, che perde a sua volta suo figlio per annegamento, e così Ava, che finisce i suoi giorni stremata dalla sclerosi multipla. Il dramma che pervade tutti, nessuno escluso, si staglia sullo sfondo di una famiglia di origine fortemente trascurante, assente, in cui la madre di Julieta, malata, viene tenuta chiusa a chiave in camera e trascurata dal marito.

Il finale lascia intravedere una possibilità di cambiamento. Attraverso la ricostruzione e l’elaborazione del trauma, e grazie all’incontro con una figura positiva, Lorenzo, che fa da base sicura per Julieta (se non così passionale come Xoan, ma discreto, presente, prevedibile), la protagonista intraprende il viaggio verso la figlia, la quale finalmente (dopo la morte del figlio), avendo compreso la sofferenza della madre, le scrive il mittente su una lettera, come a volere essere cercata, e il film si chiude aprendosi all’esplorazione di un diverso futuro possibile.

 

 

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DEL FILM JULIETA:

Le bugie dei bambini: i genitori sono davvero in grado di riconoscerle?

Molti genitori credono di poter smascherare le bugie dei bambini. I più piccoli sono dei bugiardi relativamente inesperti e la lunga esperienza di un genitore dovrebbe facilitare la differenziazione tra verità e bugie dei figli. Tuttavia non è così.

Greta Lorini

 

Un’ampia gamma di studi ha dimostrato che le persone non sono macchine della verità molto accurate, in quanto poco abili nel riconoscere se qualcuno sta mentendo oppure sta dicendo la verità. Molti genitori credono, tuttavia, che la possibilità di smascherare le bugie raccontate dai loro figli possa essere un’eccezione a questa regola.

Tenendo conto che i bambini sono dei bugiardi relativamente inesperti e che la lunga esperienza di un genitore dovrebbe facilitare la differenziazione tra verità e bugie dei figli, questo potrebbe anche essere vero. Tuttavia non è così.

Gli adulti hanno difficoltà nel riconoscere le bugie dei bambini e i genitori ne hanno ancora di più quando si tratta dei loro figli, come dimostra un recente studio in pubblicazione sul Journal of Experimental Child Psychology. Sebbene, quindi, l’onestà sia un aspetto essenziale all’interno di una relazione di fiducia genitore-figlio, le relazioni molto strette sembrano proprio compromettere la nostra capacità di individuare le bugie, soprattutto le bugie dei bambini.

 

Bugie dei bambini: lo studio della Brock University

La ricerca guidata da Angela Evans, presso la Brock University (Ontario, Canada), ha coinvolto 108 bambini (età: 8-16 anni). Condotti in laboratorio, è stato spiegato loro che avrebbero preso parte ad un test. Una volta mostrato ai bambini il tasto di risposta ai quesiti del test, sono stati lasciati soli nella stanza, con la possibilità di sbirciare le risposte.

I ricercatori, una volta rientrati in laboratorio, hanno chiesto a tutti i bambini se avessero o meno sbirciato le soluzioni del test, videoregistrando le risposte: poco più della metà lo aveva fatto (50 hanno sinceramente negato di aver sbirciato, 49 hanno falsamente negato di aver sbirciato, i 9 che hanno sinceramente ammesso di aver sbirciato sono stati esclusi dallo studio). In seguito tre gruppi di adulti hanno visionato le registrazioni, fornendo giudizi sulla sincerità o falsità dei bambini. Questi gruppi includevano 80 genitori dei bambini coinvolti, 72 genitori i cui figli non facevano parte dello studio e 79 studenti universitari che non erano genitori. Il primo gruppo ha valutato solo i video dei propri figli.

In generale, nessun gruppo a cui è stato chiesto di valutare le bugie dei bambini ha fornito giudizi di verità/falsità più accurati dell’effetto casuale. Tuttavia, i genitori hanno fornito giudizi molto differenti sui propri figli, mostrando un bias più forte rispetto ai genitori che giudicavano i figli altrui o ai non-genitori. I genitori, infatti, hanno creduto ai loro bambini circa il 92% del tempo, indipendentemente dalla loro sincerità o disonestà, mentre gli altri gruppi hanno giudicato erroneamente verità e bugie dei bambini più o meno allo stesso modo.

Gli autori dello studio hanno pertanto concluso che la vicinanza del legame genitore-figlio non rende più facile giudicare la verità. Al contrario, i genitori sembrano essere sbilanciati in favore dell’onestà dei propri bambini.

D’altra parte, i genitori potrebbero essere motivati ​​a credere alle dichiarazioni dei loro figli, spinti dalla speranza di aver fatto un buon lavoro nel trasmettere loro il valore dell’onestà. I genitori potrebbero voler tenere a mente questi risultati la prossima volta che sorprendono il loro bambino con le mani nella marmellata!

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica (2016) – Recensione

A cent’anni della nascita di Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini e Annamaria Sorrentino co-fondatori della scuola a lei intitolata, pubblicano “ Entrare in Terapia. Le sette porte della terapia sistemica ”; il testo raccoglie anche il contributo dei didatti della scuola, testimoniando il modello del lavoro d’equipe tanto caro all’approccio sistemico.

Liliana Redaelli

Gli autori si propongono di accompagnare il lettore nel percorso che si sviluppa all’interno dell’incontro terapeutico, offrendo tracce da seguire, maturate e affinate negli anni attraverso l’integrazione del modello della terapia sistemica classica con la ricerca clinica e con altri modelli vitali della psicoterapia. Il testo offre una visione sistemica complessa e integrata, una prospettiva multidimensionale dell’uomo e della sua esistenza, un approccio alla sua conoscenza in sintonia con l’epistemologia della complessità di Edgar Morin.

Le 7 porte della terapia sistemica

Se negli anni ’70 la via principale per la comprensione del disagio psichico passava attraverso la lettura del sistema relazionale entro cui il malessere e il sintomo si generava, in questo libro sono sette i sentieri da percorrere, sette porte che il terapeuta deve responsabilmente tenere in considerazione. Il percorso terapeutico parte dalla telefonata, seguita da uno o due colloqui preliminari che danno avvio alla fase di consultazione (tra i cinque e i sette incontri) in cui è possibile mettere a fuoco un’ipotesi condivisa su ciò che è stato, sugli aspetti funzionali e disfunzionali, individuando un progetto riparativo, che recuperi e stimoli le risorse di ciascuno, per passare poi alla terapia vera e propria.

La prima porta d’accesso alla terapia è quindi l’analisi della domanda. Riprendendo l’importanza data da Mara Selvini Palazzoli al contesto entro cui prendono forma i significati, gli autori individuano quattro possibili scenari: la domanda di un familiare per un paziente non richiedente, la domanda relazionale, la non domanda in una condizione coatta e la domanda individuale. Partendo da questi quattro differenti contesti gli autori individuano le convocazioni e le procedure più efficaci da mettere in atto sia al telefono che nei primi colloqui preliminari, consigliando le modalità opportune allo specifico caso, definendo le tematiche da affrontare nelle primissime battute di questi incontri e cercando di tutelare i terapeuti inesperti da eventuali rischi in cui potrebbero imbattersi.

La seconda porta è quella della diagnosi sistemica che comprende tredici dimensioni attraverso le quali è possibile connettere il funzionamento della famiglia con la sofferenza di un suo membro, in base al principio dell’interdipendenza dei soggetti all’interno del proprio sistema. Si valuta, quindi, l’aspetto sincronico del qui ed ora, tenendo conto anche dei fatti che segnano la storia del soggetto e della famiglia.

La terza porta, quella della sintomatologia, entra nel mondo interno del paziente collegando il disturbo alle difese messe in atto, in una visione complessificata e processuale del sintomo, in contrapposizione a una rigida e semplicistica descrizione nosografica.

La quarta porta, la diagnosi dell’attaccamento, apre una prospettiva teorica che è sia relazionale che individuale. Riprendendo gli studi sull’attaccamento, sulle riorganizzazioni post-traumatiche, sul contributo di Lorna Benjamin, il terapeuta può cogliere come meglio entrare in relazione con il paziente tenendo in considerazione le specifiche concezioni del mondo e dei rapporti che il soggetto si è costruito partendo dalla situazione relazionale in cui si è trovato a crescere.

La quinta porta riguarda la diagnosi di personalità, intesa come organizzazione difensiva rispetto ai vissuti soggettivi di sofferenza, agli stress relazionali ed esistenziali, alle sfide evolutive, organizzazione che diviene disfunzionale quanto rigida e pervasiva.

Le sesta porta, costitutiva dell’identità della terapia familiare, consiste nella diagnosi trigenerazionale attraverso la quale si accede all’analisi di quale bambino e figlio sia stato il genitore e quali siano stati i modelli da lui interiorizzati. La modalità in cui il genitore ha elaborato la sua posizione di figlio, infatti, ha un’influenza decisiva sulla sua identità e quindi anche sulla sua genitorialità.

La settima porta, la diagnosi basata sulle emozioni del terapeuta, pone l’attenzione sull’importanza delle emozioni vissute dal terapeuta stesso, come fondamentale via sia per la conoscenza, che per la prevenzione di possibili distorsioni antiterapeutiche nella relazione con il paziente. Il terapeuta dovrà quindi saper identificare e discriminare gli aspetti controtransferali dalle proprie risonanze, consapevole della propria storia e delle proprie modalità di funzionamento. Per essere capace e presente, il terapeuta deve in primis aver fatto i conti con se stesso. Grazie a questo passaggio il terapeuta potrà essere empatico all’interno di un paradigma di responsabilità. Il destino dell’incontro terapeutico, infatti, non dipende solo dalla messa in atto di procedure consolidate, ma si gioca nella relazione tra il terapeuta e il paziente, basandosi sulla capacità di “essere con l’altro”, sia che si tratti di un individuo che di una famiglia.

Dopo aver analizzato le procedure opportune da seguire durante la consultazione all’interno dei quattro contesti della domanda, gli autori si concentrano sull’analisi della terapia, considerandone le fasi e gli eventuali formati (allargamenti, terapia parallela o terapia congiunta).

Conclusioni

Questo libro, sicuramente utile a orientare i terapeuti proponendo procedure e pratiche efficaci, è un testo sulla terapia sistemica che non si limita a dare indicazioni cliniche, ma che rimanda a una solida visione antropologica, filosofica ed epistemologica. È un testo che sollecita il terapeuta, e la sua équipe, a padroneggiare una tecnica, senza dimenticarsi che nell’esercizio di questa resta prioritario l’autenticità del rapporto tra sé e l’altro.

La psicoterapia tra epistemologia ed ermeneutica: una questione aperta

La psicoterapia si è ritagliata uno spazio tra le scienze con teorie validate empiricamente e metodi formalizzati.
L’applicazione di modelli e approcci empiricamente supportati da studi clinici randomizzati non dà, però, certezze circa l’impossibilità di violazioni del setting, applicazioni di tecniche inappropriate, errori e fallimenti terapeutici.

 

Il dibattito tra scienze della natura e scienze dello spirito secondo Dilthey

Il dibattito tra scienze della natura e scienze dello spirito risale a Dilthey. Le scienze della natura hanno per oggetto i fatti, una realtà esterna all’uomo che rimane tale nel momento in cui si conosce. Nelle scienze dello spirito i fatti si presentano dall’interno, hanno una connessione con la psiche. I significati della realtà hanno una dimensione storica e sociale e nell’atto della conoscenza vi è una partecipazione a essa.

Non si può comprendere, quindi, l’individuo prescindendo dal contesto storico-sociale nel quale è inserito e non si può anteporre l’individuo isolato alla storia se non attraverso una finzione.

Dilthey enfatizza l’aspetto psicologico della conoscenza, una conoscenza storica ripensata e ricostruita sull’esperienza vissuta (Erlebnis). Il comprendere è di tipo psicologico-ermeneutico e non causale-esplicativo.
L’ermeneutica traduce, interpreta per raggiungere secondo l’autore l’oggettività delle scienze della natura.

 

Le prospettive di Heidegger e Gadamer sulla conoscenza

Diversa è la prospettiva di Heidegger per il quale il comprendere è un modo di essere dell’Esserci (Dasein), influenzato da una comprensione preliminare. Gadamer riprende e condivide il concetto di precomprensione o pregiudizio. I giudizi sono influenzati dalla propria visione del mondo che costituisce una condizione fondamentale del processo cognitivo. Il pregiudizio va quindi abitato e non eliminato con prudenza e saggezza pratica, senza prescindere da sé e dalla concreta situazione ermeneutica. Il circolo ermeneutico che si esplicita con un costante dialogo tra domanda e risposta porta alla fusione di orizzonti dell’interprete con la sua precomprensione e dell’interpretato che porta con sé il suo vissuto.

L’epistemologia è letteralmente discorso sulla conoscenza certa, sulla scienza. Si occupa delle condizioni che determinano la conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungerla.

 

Come conoscere la realtà e con quali limiti

E’ possibile raggiungere una qualche verità? Quali sono i mezzi conoscitivi? Qual è l’oggetto di questa verità?
La storia della filosofia ci racconta che diverse risposte sono state date a queste domande. Solo per fare qualche esempio, alcuni hanno fondato nella conoscenza sensibile, altri nella ragione i mezzi conoscitivi, mentre rispetto alla realtà si è oscillato tra una realtà interna al soggetto e una realtà esterna. Le teorie della confermabilità e della falsificazione si sono contrapposte nella ricerca della strada maestra del metodo, e sono agli antipodi l’anarchismo epistemologico che sostiene l’inesistenza di un metodo canonico, la concezione di una scienza normale che progredisce gradualmente e il concetto di rivoluzione scientifica determinata da un nuovo paradigma che supera radicalmente il vecchio e promuove il progresso della conoscenza.

Il problema fondamentale rimane, però, quello dell’implicazione e dell’induzione: ogni cigno bianco conferma che i corvi sono neri, ossia ogni esempio non in contrasto con la teoria ne conferma una parte o nessuna teoria è mai vera in quanto, mentre esiste solo un numero finito di esperimenti a favore, ne esistono teoricamente anche un numero infinito che potrebbero falsificarla.

 

La psicoterapia come scienza

La psicoterapia si è ritagliata uno spazio tra le scienze con teorie validate empiricamente e metodi formalizzati.
L’applicazione di modelli e approcci empiricamente supportati da studi clinici randomizzati non dà, però, certezze circa l’impossibilità di violazioni del setting, applicazioni di tecniche inappropriate, errori e fallimenti terapeutici. D’altra parte il lavoro clinico quotidiano, sia svolto in strutture pubbliche o in studi privati fa incontrare pazienti resistenti al cambiamento, poco collaborativi, con i quali è molto difficile costruire una buona alleanza terapeutica, in sostanza diversi da quelli accuratamente selezionati per gli studi empirici. Esiste una discrepanza tra quella che è l’efficacy e l’effectiveness dimostrata dai dati che attestano gli insuccessi, le recidive e i drop-out per i singoli disturbi.

Il controllo delle variabili in gioco nel processo terapeutico è problematico in considerazione della dimensione partecipante del terapeuta, del vissuto del paziente e della complessità dell’interazione interpersonale. Gli eventi interni ed esterni al setting sono in parte indeterminabili. Inoltre, paziente e terapeuta pur essendo variabili distinte, agiscono in terapia relazionandosi con modalità specifiche e uniche secondo le caratteristiche di personalità.
Per questi motivi i concetti di misurabilità e di dimostrabilità per essere operazionalizzati devono tener conto di questi limiti, limiti che scontano per questi motivi anche i trattamenti manualizzati.

Come misurare il miglioramento dei pazienti

Un’altra considerazione che va tenuta presente è con riferimento al concetto di “guarigione” o forse meglio di miglioramento.
Su quali parametri li misuriamo: sulla diminuzione dei segni e dei sintomi o sulla scomparsa degli stessi, sul miglioramento della qualità di vita del paziente, sulla sua soddisfazione, o su quella del terapeuta. Come possiamo ritenere soddisfacente un intervento? Entro quale periodo lo stesso paziente dovrebbe mantenere uno stato di benessere? Come misurarlo?

Naturalmente queste difficoltà non devono esimere dall’applicare il metodo scientifico per la verifica di ciò che compie la psicoterapia, ma devono far riflettere sulla necessità di trovare vie specifiche che possano contemperare il rigore metodologico con le complessità da affrontare. Un tentativo originale è quello della “psicoterapia cognitiva modulare” (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero 2006). Il razionale consiste nel prendere singoli moduli di terapia e sottoporli a verifica, senza operare sull’intero processo terapeutico. Ad esempio se un paziente con diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo, tra le altre credenze ha quella del perfezionismo, potremmo misurare l’intervento su questa credenza applicando un intervento modulare che si avvarrebbe di tecniche specifiche e misurarne l’efficacia. In questo modo il controllo delle variabili sarebbe più semplice e permetterebbe un maggiore rigore. Così andremmo a costruire tanti piccoli mattoni che messi uno sull’altro andrebbero a formare un edificio stabile.

Naturalmente questo modello epistemologico non oscurerebbe definitivamente una dimensione ermeneutica che lascia spazio all’intuizione del clinico sul come, quando e perché applicare alcuni moduli piuttosto che altri e non eluderebbe quei fattori aspecifici che sono una componente del processo terapeutico ineludibile.
Del resto non possiamo dimenticare l’intenzionalità, che caratterizza l’agente cognitivo, il progettuale dischiudersi al mondo come possibilità e soggettività trascendentale.
La psicoterapia non può trascurare il vissuto che si genera dall’essere nel mondo, dalla presenza nel contesto storico determinato per ricostruire il senso irripetibile di quell’Esserci singolare.
La comprensione della persona come progetto esistenziale in cui il sintomo assume un significato intellegibile non può prescindere dall’incontro, da una relazione unica da dove emerge il riconoscimento dell’Essere, della sua Esistenza, del suo Valore, contro ogni riduzionismo, contro le tentazioni tecnicistiche.

 

La psicoterapia tra epistemologia ed ermeneutica

Applicare, quindi, i criteri epistemologici delle scienze della natura o adagiarsi ai metodi dell’interpretazione filosofica?
Sono preferibili i canoni nomologici-deduttivi o i paradigmi induttivi-statistici? Il circolo ermeneutico che ruolo può assumere?
Qualsiasi strada si voglia intraprendere ipotesi e orizzonti teorici sono comunque alla base di ogni spiegazione e la pluralità dei modelli esplicativi ci porta a una zona intermedia tra epistemologia scientifica ed ermeneutica, il territorio, secondo noi, al momento più consono alla psicoterapia.

Hutten (1974; 1976), molto vicino a Eistein, raccorda in questo senso le due prospettive: l’uomo ha un funzionamento gerarchizzato in livelli di complessità crescenti e integrati. Il livello organico può essere oggetto dell’epistemologia, il livello mentale ha bisogno di teorie della comunicazione, ossia di spiegazioni ermeneutiche che traducano senso e significato. I vari piani interagiscono e necessitano per essere spiegati e compresi, di teorie multiple che diano conto della complessità dell’espressione umana.

La capacità euristica attraversa matrici conoscitive e operazioni d’intellegibilità che si possono avvalere del metodo scientifico, ma non possono rinunciare all’ermeneutica come possibilità di rappresentare una conoscenza che ha una dimensione esterna e un’interna in reciproca interrelazione.
D’altra parte chiunque cerchi di appropriarsi di una verità esaustiva, è destinato a restare insoddisfatto. Quello della conoscenza è un procedere approssimativo e contingente che riconosce i suoi limiti per cercare di superarli, seguendo faticosamente le tracce che ogni spiegazione lascia sul terreno della crescita del sapere.

Strategie di prevenzione del gioco d’azzardo patologico: progetti attuati in Trentino Alto-Adige

L’esordio del gioco d’azzardo patologico può verificarsi durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma in altri individui si manifesta durante la mezza età o addirittura la tarda età adulta. Generalmente il disturbo da gioco d’azzardo si sviluppa nel corso degli anni e la maggior parte degli individui che sviluppa tale disturbo evidenzia un pattern di gioco che gradualmente aumenta sia di frequenza sia di quantità di scommesse.

Elena Tonazzolli e Alexander Benvenuto – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Cosa significa cadere nella trappola del gioco d’azzardo patologico?

Secondo l’articolo 721 del codice penale sono considerati giochi d’azzardo quelli ‘nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi aleatoria’. Quindi questa attività ludica ha una peculiarità in più che la differenzia dalla maggior parte degli altri giochi, e cioè la speranza del guadagno.

Solo nel 1977 il gioco d’azzardo patologico è comparso nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-9) e nel 1980 è stato inserito nella sezione dei ‘Disturbi del controllo degli impulsi non altrimenti classificati’ del DSM-III.

Nella nuova edizione del DSM-5 il gioco d’azzardo patologico (GAP) è stato riclassificato nell’area delle dipendenze (addictions) o per essere più precisi tra i disturbi non correlati a sostanze per le similarità tra il gioco d’azzardo patologico e le dipendenze da alcool e altre sostanze d’abuso (Costantini, 2015).

Il gioco d’azzardo comporta il rischiare qualcosa di valore nella speranza di ottenere qualcosa di valore maggiore. In molte culture, gli individui scommettono su giochi ed eventi, e la maggior parte lo fa senza avere problemi. Tuttavia, alcuni soggetti sviluppano una sostanziale compromissione correlata ai loro comportamenti legati al gioco d’azzardo. La caratteristica essenziale del disturbo è un comportamento disadattivo legato al gioco, persistente o ricorrente che sconvolge attività famigliari, personali e/o professionali.

Il disturbo da gioco d’azzardo è definito da un cluster di 4 o più sintomi elencati nel criterio A del DSM-5 che si verificano in qualunque momento nello stesso periodo di 12 mesi. La gravità del disturbo si basa sul numero di criteri manifestati.

Negli individui con disturbo da gioco d’azzardo può essere presente una distorsione del pensiero (per esempio: negazione, superstizioni, un senso di potere e controllo sugli esisti degli eventi casuali, eccessiva sicurezza).

L’esordio del disturbo può verificarsi durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma in altri individui si manifesta durante la mezza età o addirittura la tarda età adulta. Generalmente il disturbo da gioco d’azzardo si sviluppa nel corso degli anni e la maggior parte degli individui che sviluppa tale disturbo evidenzia un pattern di gioco che gradualmente aumenta sia di frequenza sia di quantità di scommesse.

 

 

Il gioco d’azzardo in Italia: epidemiologia

I primi contatti con il gioco d’azzardo avvengono sin dalle scuole primarie e l’abitudine a giocare d’azzardo è già ben consolidata in tarda adolescenza (Ferland, Ladouceur, Vitaro,  2002).

Prima una persona inizia a giocare tanto più è a rischio di sviluppare un problema di gioco d’azzardo patologico in età adulta.

In Italia, ad oggi sono state intraprese poche ricerche epidemiologiche riguardo al gioco d’azzardo su larga scala.  I dati disponibili possono fornire un’idea indicativa, in quanto non esistono studi accreditati, esaustivi e validamente rappresentativi del fenomeno. A partire dal 2003, il volume del gioco d’azzardo in Italia ha avuto un andamento crescente.

Nel 2011 in Italia sono stati spesi in gioco d’azzardo quasi 80 miliardi di euro. La somma maggiore è stata giocata negli apparecchi (slot machine e videolottery), che hanno raccolto il 56,3% del fatturato totale; seguono i gratta e vinci (12,7%), il lotto (8,5%), le scommesse sportive (4,9%), il superenalotto (3%) e infine il bingo e le scommesse ippiche.

La stima dei giocatori d’azzardo problematici varia dall’1,3% al 3,8% della popolazione generale, mentre la stima dei giocatori d’azzardo patologici varia dallo 0,5% al 2,2% (Coriale e al., 2015).

Seguendo i diversi studi sulla prevalenza del gioco d’azzardo patologico nel periodo adolescenziale si osserva, che il 40% degli studenti italiani tra i 15 e i 19 anni (45.000) afferma di aver giocato almeno una volta nell’arco del 2008 e il 52% di questi ha iniziato a giocare per caso (Capitanucci 2012).

Come nella popolazione adulta i ragazzi giocano di più delle coetanee (52,6% vs 28,8%) ed infine sempre seguendo Capitanucci (2012), si osserva una percentuale maggiore di giovani giocatori patologici se confrontati con la popolazione adulta.

La fascia giovane della popolazione, inoltre, è ugualmente esposta rispetto a quella adulta a pubblicità di giochi d’azzardo (non selettiva, spesso in onda in fasce protette o in popolari programmi di intrattenimento): web, televisione, riviste presentano allettanti inviti a giocare inducendo a credere che giocare d’azzardo sia divertente, eccitante ed un buon modo per fare soldi facilmente. L’accesso facile al gioco e la crescente prevalenza di gioco patologico tra i giovani dovrebbero quindi essere considerati questioni di interesse pubblico anche in Italia, ponendo in luce la necessità di un buon lavoro di prevenzione con iniziative mirate (Capitanucci, 2012).

 

 

Quale tipo di prevenzione è più utile?

Ma quali sono le caratteristiche di un intervento preventivo efficace? Basandoci sul modello di Uhl (2007) possiamo distinguere 3 diversi tipi di prevenzione :

  • La prevenzione primaria che si rivolge alla popolazione generale o ad un gruppo di persone non a rischio all’interno del quale non si riscontra ancora il problema in questione. La letteratura internazionale riguardo al gioco d’azzardo patologico suggerisce di lavorare sulla popolazione per favorire la comprensione esatta delle reali possibilità di vincita;
  • La prevenzione secondaria che si rivolge ad un gruppo a rischio il cui problema è alle fasi iniziali, ma non è del tutto sviluppato (le conseguenze negative non si sono ancora manifestate). Gli interventi in questo caso sono focalizzati sull’identificazione della problematica, sulla risoluzione (spesso collegata con l’astinenza totale) e/o sul miglioramento (spesso collegato con la riduzione) della stessa;
  • La prevenzione terziaria che riguarda gli interventi tesi ad impedire il progredire di una malattia conclamata, mediante trattamento, azioni di cura e riabilitazione in presenza di gioco patologico (Uhl, 2007; Capitanucci, 2012).

Tra i sistemi di classificazione della prevenzione è importante citare quello di Gordon (1983) che distingue tra:

  • Prevenzione universale: rappresenta programmi di prevenzione il cui target è un intero gruppo (studenti);
  • Prevenzione selettiva: si rivolge ad un sottogruppo considerato ad alto rischio (per esempio ragazzi di famiglie disagiate), ma che non mostrano ancora segni di un coinvolgimento con le stesse;
  • Infine la Prevenzione Indicata è rivolta ad un gruppo che mostra i primi segni di abuso o che mostrano altri segni gravi che potrebbero aumentare le possibilità di un abuso.

Vi è, infine, un’ulteriore distinzione tra prevenzione a livello di contesto (chiamata anche strutturale) e prevenzione a livello di comportamento. Se si agisce direttamente sul gruppo o sull’individuo, cercando di prevenire un certo problema cambiando direttamente il comportamento delle persone, allora ci troviamo ad un livello di prevenzione del comportamento. Se, invece, cerchiamo di prevenire il problema cambiando il contesto e/o l’ambiente in cui gli individui vivono, stiamo utilizzando una strategia a livello di contesto (normative, regolamenti e divieti).

La prevenzione del gioco d’azzardo patologico risulta un atto complesso da affidare agli specialisti del settore e le azioni preventive per ritenersi efficaci devono essere evidence-based (Capitanucci, 2012) e prevedere sia azioni mirate a diminuire fattori di rischio che a interventi atti a potenziare i fattori protettivi.

Lo scopo di questo articolo è quello di presentare recenti progetti con finalità preventiva che riguardano la realtà nazionale con un’attenzione particolare ai lavori svolti negli ultimi anni in Trentino-Alto Adige.

 

 

Le azioni preventive in Italia: I progetti realizzati dall’associazione AND (Azzardo e Nuove Dipendenze)

Per quanto riguarda la realtà italiana sono interessanti due progetti realizzati dall’associazione AND (Azzardo e Nuove Dipendenze), che dal 2003 si occupa di prevenzione, sensibilizzazione, formazione, ricerca e trattamento sul gioco d’azzardo.

I due progetti sono: ‘Il caso Lucky non si può influenzare‘, realizzato in collaborazione con l’ASL di Sondrio su finanziamento della regione Lombardia e ‘Scommettiamo che non lo sai‘, realizzato nel 2008 su commissione del MIUR (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca).

Il progetto ‘Il caso di Lucky non si può influenzare‘ si basava sulla presentazione nelle classi medie ed inferiori di un video convalidato scientificamente in Canada dal professor Ladouceur e adattato da AND. Il programma era finalizzato a modificare conoscenze ed attitudini degli adolescenti riguardo il gioco d’azzardo. Ci si focalizzava soprattutto sulle percezioni erronee sul caso. Il video presentato durava 20 minuti ed illustrava soprattutto l’indipendenza delle puntate, chiarendo altri frequenti errori cognitivi.

Il progetto ‘Il caso Lucky non si può influenzare‘ mostra tra i suoi risultati cambiamenti significativi e misurabili: Il video Lucky incrementa le conoscenze dei soggetti e modifica le loro cognizioni erronee sul gioco d’azzardo. Sia a breve termine che a distanza di sei mesi. Il grandissimo vantaggio di questo video è il suo facile ed economico inserimento nei programmi scolastici, senza ulteriori interventi o particolari competenze da parte dell’insegnante.

L’altro progetto che riguarda la realtà italiana è ‘Scommettiamo che non lo sai?‘. Consiste fondamentalmente in una guida cartacea sui rischi del gioco d’azzardo. Il progetto era rivolto agli studenti del biennio delle scuole secondarie nel torinese ed aveva ancora una volta lo scopo di correggere le cognizioni erronee ed aumentare le conoscenze sul gioco d’azzardo. I risultati sperimentalmente misurati in due momenti ripetuti con un gruppo sperimentale e uno di controllo, hanno mostrato che il testo presentato ai ragazzi incrementava significativamente le conoscenze dei soggetti e modificava le loro cognizioni erronee.

I due progetti presentati sembrerebbero essere molto efficaci, è stato dimostrato infatti che un intervento precoce ha spesso un impatto maggiore (Capitanucci, 2012).

Risulta senza dubbio molto utile offrire un numero consistente di sessioni mirate e tempestive a carattere educativo, ma la prevenzione aumenta la sua efficacia se comprende diversi aspetti e spazi delle persone. In altre parole, la scuola è sicuramente un ambiente favorevole, in cui fare prevenzione, ma non è l’unico. La realtà trentina a tal proposito ci offre esempi di prevenzione svolti anche al di fuori dell’ambito scolastico.

 

 

La prevenzione del gioco d’azzardo patologico in Trentino-Alto Adige

 

Il Forum Prevenzione di Bolzano

Quasi l’intero lavoro di prevenzione che viene svolto in Alto Adige-Südtirol è fatto, programmato e seguito direttamente o in collaborazione con il Forum Prevenzione di Bolzano. La peculiarità del Forum è quella di occuparsi esclusivamente di prevenzione e di promozione della salute e di esser indipendente (anche se esiste una costante collaborazione) dai SERT e da qualsiasi altra struttura sanitaria. Una struttura di questo genere è del tutto innovativa nella realtà italiana.

Il Forum Prevenzione di Bolzano cerca di seguire il ‘modello cubico’ di prevenzione proposto da Siedler (2007) che prevede una sistematicità in tre dimensioni: la prima dimensione mostra la necessità di affiancare una prevenzione di tipo comportamentale ad una a livello di contesto. È necessario poi offrire in modo adeguato e contingente una prevenzione universale, selettiva ed indicata. Infine, la terza dimensione suggerisce di intervenire in diversi contesti sociali partendo dal micro-contesto (costituito per esempio dalla famiglia o dalla scuola), raggiungendo un macro-contesto e cambiando, se necessario anche legislativamente, le condizioni generali o i criteri di contesto su cui si basa una società.

 

Il progetto pilota di Merano: aggiornamento e formazione del personale di sale gioco

Nello specifico tra i progetti realizzati dal Forum o in collaborazione con esso vi è il progetto pilota realizzato a Merano sulla formazione del personale di sale da gioco.

Per quanto riguarda la prevenzione del gioco d’azzardo patologico, i punti fondamentali che sono stati toccati riguardavano l’inquadramento del fenomeno, i vari giochi accessibili, il coinvolgimento della popolazione, le stime del giocato, l’importanza di formare una certa sensibilità sul tema per i lavoratori addetti, l’illustrare le problematicità ed il significato del gioco per alcune persone ed infine la tutela dei minorenni e quindi il dovere del personale di controllare l’età anagrafica dei propri clienti.

Per quanto riguarda il riconoscimento precoce di giocatori a rischio sono stati dati diversi spunti su cui riflettere e molti consigli sulle particolarità da osservare e che riportano ad una possibile forma di gioco problematico (frequenza visite, durata di gioco all’interno delle sale gioco, comportamenti aggressivi verso le macchinette o il personale, aumento del denaro speso, la cura del proprio aspetto ecc.).

Infine diverso tempo è stato speso per spiegare al personale l’importanza di instaurare un contatto umano con i propri clienti. L’azione di prevenzione in questione si presenta in forma indiretta poiché non è rivolta direttamente alle persone sulle quali si vuole prevenire una certa problematica, ma a cosiddette figure chiavi, che hanno in un secondo momento la possibilità o il dovere di agire sulle persone che mostrano una certa problematica.

La fortuna di potersi affiancare, nel qui ed ora, ad una persona che ha un comportamento di dipendenza, non è possibile in tante altre forme di dipendenza. È questa una particolarità del gioco d’azzardo patologico. Inoltre il personale di sale giochi hanno la possibilità di riconoscere precocemente forme patologiche di gioco d’azzardo, perché sono presenti proprio nel momento e nel luogo in cui sta avvenendo l’esperienza di gioco.

Purtroppo, però, l’Italia non prevede una regolamentazione legislativa per una adeguata formazione del personale. Sta, quindi, nella libera scelta e nell’etica del personale, cercare di intervenire o monitorare la situazione all’interno delle sale. Sicuramente l’inesistenza di una regolamentazione indebolisce estremamente azioni preventive di questo genere. È importante, però, aggiungere come durante la formazione si è cercato di spiegare al personale che è economicamente vantaggioso per l’azienda intervenire per prevenire forme patologiche di gioco d’azzardo.

Un giocatore abituale, ma senza alcuna forma di dipendenza spenderà, infatti, una cifra meno elevata, ma costante nel tempo. Giocatori patologici, invece, giocheranno fino a quando non affogheranno nei debiti e non potranno più giocare, per un motivo o l’altro. Anche in questo caso, le spese sono state minime e l’utilità dell’intervento sembrerebbe superare in ogni caso il costo. La formazione è stata pagata dal Comune, un costo irrisorio, che anche in tempi di crisi può essere supportato per la salute della popolazione.

Purtroppo manca una qualsiasi forma di valutazione per misurare l’utilità dell’intervento. Sarebbe stato utile un riscontro sia delle opinioni del personale, che una valutazione sulle conoscenze acquisite. Sarebbe stato, inoltre, molto interessante approfondire se il personale delle sale giochi abbiano seguito i consigli e le conoscenze acquisite durante le due giornate di formazione e aggiornamento.

 

Il progetto ‘Fate il nostro gioco’ – Bolzano

Un secondo progetto nato nel 2009 da Canova e Rizzuto è stato proposto nell’autunno 2013 anche a Bolzano. L’idea del progetto denominato ‘Fate il nostro gioco‘ è quella di usare la matematica come strumento di prevenzione per immunizzarsi dal rischio degli eccessi del gioco. In altre parole, la speranza è che grazie al pensiero logico e critico, si riesca a sconfiggere in parte quello magico, che ha la potenzialità di farci cadere nella trappola del gioco.

Nell’autunno del 2013 è stata allestita a Bolzano una sala con diverse postazioni di gioco d’azzardo (un tavolo da Poker, diverse Slot Machine, il gioco della roulette). La mostra è stata offerta a titolo gratuito a piccoli gruppi accompagnati nelle varie postazioni da guide reclutate dalla facoltà di matematica e informatica nelle Università di Innsbruck e Bolzano. Le guide sono state formate riguardo le caratteristiche matematiche di probabilità e meccaniche dei diversi giochi oltre ai diversi aspetti psicologici del gioco d’azzardo patologico e ai diversi modi di approccio al pubblico ed eventuali giocatori.

L’aspetto della preparazione pratica e teorica delle guide ha giocato un ruolo fondamentale dal momento che l’idea era quella di far giocare gli ospiti, accompagnando però il gioco con spiegazioni sulle probabilità di vincita e sulla meccanica del funzionamento dei giochi. In questo modo si è cercato di portare i diversi gruppi target alla consapevolezza delle basse probabilità di vincita, e che quest’ultima non ha niente a che fare con la bravura del singolo ma dipende piuttosto dalla fortuna e meccanica dei diversi giochi.

Il progetto di Canova e Rizzuto si basa su un approccio cognitivo che vede nelle cause principali del gioco d’azzardo patologico una serie di bias cognitivi, cioè errori nel pensiero logico. L’approccio cognitivo ha avuto una serie di riscontri scientifici e gioca quindi sicuramente, un ruolo fondamentale nella nascita, evoluzione e mantenimento del gioco d’azzardo patologico.

Lo scopo del progetto era quello di offrire fattori protettivi che permettessero agli utenti di valutare la situazione del gioco nell’ottica di un pensiero logico.

 

Restrizione delle aree da gioco

Seguendo la logica del sistema cubico spiegato precedentemente, il Forum Prevenzione si è fatto promotore negli anni di diverse proposte legislative per arginare la problematica del gioco d’azzardo patologico. Queste leggi sono un ottimo esempio di prevenzione strutturale (o a livello di contesto) che puntano ad una diminuzione della ormai altissima e facile disponibilità del gioco d’azzardo e cercano quindi di salvaguardare le fasce più deboli.

In breve verranno presentati i quattro passaggi fondamentali che hanno portato alla regolamentazione del gioco d’azzardo lecito in Alto Adige.

La legge provinciale del 14 dicembre 1988, n.58, regola le norme in materia di esercizi pubblici. Precisamente l’art.11 regolamenta lo svolgimento dei giochi leciti. In questa legge, però, non erano ancora state pensate alcune norme di tutela per il giocatore d’azzardo.

La legge provinciale del 13 maggio 1992, n.13, invece, regola le norme in materia di pubblico spettacolo, ma anche in questo caso non veniva specificato nulla sulla regolamentazione dei giochi leciti.

Bisognerà aspettare il 22 novembre del 2010, con la legge provinciale n. 13, per intravedere le prime importantissime restrizioni e regolamentazioni per i giochi leciti in Alto Adige-Südtirol. Più precisamente viene aggiunto alla legge provinciale del 1992 l’art. 5-bis che richiama l’attenzione sull’importanza della tutela di determinate categorie di persone e per prevenire il vizio del gioco indica il divieto di concedere ‘l’esercizio di sale da giochi e di attrazione se le stesse siano ubicate in un raggio di 300 metri da istituti scolastici di qualsiasi grado, centri giovanili o altri istituti frequentati principalmente da giovani o strutture residenziali o semi-residenziali operanti in ambito sanitario o socio assistenziale’ (Legge provinciale del 22 novembre 2010 n.13). L’autorizzazione per l’esercizio di sale da gioco viene concessa per 5 anni e a scadenza ne può essere richiesto il rinnovo. Per le autorizzazioni esistenti il termine decorre dal 1 gennaio 2011. Inoltre aggiunge la possibilità della giunta provinciale di individuare altri luoghi sensibili, prendendo in considerazione l’impatto sul contesto urbano e sulla sicurezza urbana; nonché dei problemi connessi con la viabilità, l’inquinamento acustico e il disturbo della quiete pubblica. Viene, infine, vietata qualsiasi attività pubblicitaria relativa all’apertura o all’esercizio di sale da giochi e di attrazione.

L’art. 2 della stessa legge (1992), invece, modifica la legge provinciale del 1988, che abbiamo già visto precedentemente e regolamenta l’offerta dei giochi leciti negli esercizi pubblici (bar, ristoranti etc.). La stessa indica con l’art. 1-bis che i giochi leciti non possono essere messi a disposizione in un raggio di 300 metri da gli stessi posti sensibili che valgono per le sale giochi.

Arriviamo, infine, alla legge provinciale dell’11 ottobre 2012, n. 17, che modifica ulteriormente la legge provinciale del 14 dicembre 1988, n.58, aggiungendo il comma 1ter. Esso indica la rimozione di tutti gli apparecchi da gioco già installati negli esercizi pubblici. Il termine ultimo per la rimozione è di due anni dall’entrata in vigore del comma 1-bis del 2010. Inoltre conferisce ai sindaci, quindi ai singoli Comuni, il diritto e il dovere dei controlli e di far eseguire le norme previste. Questo ultimo disegno di legge colma un vuoto normativo della legge provinciale n. 58 del 1988 che regolamentava i posti sensibili e le distanze da rispettare, ma non prevedeva ne sanzioni per i trasgressori e neanche chi fosse responsabile dell’applicazione della legge.

Riassumendo:

  • Alle sale giochi non viene più rinnovata la concessione a fine durata (5 anni), se quest’ultime si trovano all’interno di un raggio di 300 metri dai posti sensibili precedentemente elencati.
  • Tutti gli apparecchi devono essere tolti dagli esercizi pubblici (bar, ristoranti etc.) entro la fine dell’anno 2012, se quest’ultimi si trovano all’interno di un raggio di 300 metri dagli stessi posti sensibili sopra elencati.
  • I singoli Comuni e i rispettivi sindaci hanno la possibilità di intervenire, sanzionando i gestori e hanno il compito di far rispettare le normative vigenti. Inoltre possono individuare ulteriori posti sensibili.

Queste azioni che rientrano all’interno di una prevenzione strutturale sono in linea con il modello 3M di Kielholz & Ladewig (1973) che considera l’accessibilità dell’oggetto o comportamento di dipendenza una delle maggiori cause per lo sviluppo della dipendenza. Anche il DSM-IV-TR (2001) e Eidenbenz (2011) riportano una correlazione positiva e preoccupazione tra la disponibilità del gioco d’azzardo legalizzato e la prevalenza della patologia del gioco d’azzardo.

Le diverse leggi della provincia di Bolzano prevedono concrete restrizioni dell’offerta del gioco d’azzardo e hanno potere retroattivo.

 

 

Considerazioni conclusive

Il lavoro intrapreso nella provincia di Bolzano per prevenire e arginare il fenomeno del gioco d’azzardo patologico rappresenta il tentativo di un lavoro di prevenzione globale, che interviene su diverse dimensioni.

Il Progetto Pilota di Merano consiste in un’azione di prevenzione in forma indiretta, non rivolta direttamente ai giocatori patologici.

Tale progetto ha messo in luce come il personale di sale da gioco o casinò, occupi un ruolo importante nella dipendenza dal gioco d’azzardo. Queste figure sarebbero potenzialmente in grado, instaurando un contatto umano con i propri clienti, di riconoscere precocemente forme patologiche di gioco d’azzardo, essendo presenti proprio nel momento e nel luogo in cui avviene l’esperienza di gioco.

Il progetto ‘Fate il nostro gioco’ presenta indubbiamente molti punti forti. Organizzato in maniera ottimale, dà la possibilità a moltissime persone di prendere coscienza del fenomeno del gioco d’azzardo sia patologico che non, e di raccogliere informazioni sul funzionamento meccanico dei giochi, al fine di acquisire dei validi strumenti (la conoscenza delle probabilità, della meccanica dei giochi etc.) utili a contrastare il pensiero magico legato al gioco.

Infine, riguardo all’azione di prevenzione che prevede la restrizione delle aree da gioco, in linea con l’opinione scientifica, riteniamo che sia assolutamente necessario regolarizzare il gioco d’azzardo con delle restrizioni. La tendenza nazionale degli ultimi 15-20 anni, invece, è stata del tutto inversa, liberalizzando a dismisura l’offerta di gioco. Da questo punto di vista, l’Alto Adige-Südtirol ha preso un’altra via già anni fa, anticipando e proponendo un inquadramento legislativo che sembra essere molto più completo e utile del Decreto Balduzzi. Personalmente siamo dell’opinione che questa normativa abbia anticipato i tempi (almeno a livello nazionale) e sia quindi innovativa e una concreta azione preventiva. Il contatto con il gioco era (ed è ancora) fin troppo facile e casuale.

La maggiore criticità dei progetti qui presentati, nello specifico di quelli svolti in Trentino Alto- Adige, riguarda la mancata valutazione d’efficacia.

La valutazione di tipo semi-sperimentale e sperimentale (con gruppi di controllo) permette di conoscere quali sono i progetti che garantiscono efficacia (risultati di abbassamento del gioco di azzardo patologico) e maggior efficienza (miglior impiego delle risorse e ottimizzazione del rapporto costi/ efficacia). Questo è un aspetto che, se nel breve periodo richiede un modesto investimento, per il coinvolgimento di personale esperto nella valutazione (Università o Centri di ricerca), nel medio e lungo periodo garantisce politiche sociali di prevenzione molto più mirate e incisive. (Caneppele, Marchiaro, 2014).

È dunque auspicabile in futuro, porre maggior attenzione a questo aspetto, al fine di migliorare i progetti preventivi e focalizzare attenzione e risorse su metodi efficaci ed efficienti.

Sulla soppressione del Tribunale per i Minori, perchè così non va proprio bene

La questione inerente la postulata soppressione del Tribunale per i Minorenni si correla, necessariamente, ad una valutazione, dal respiro nettamente più ampio, inerente le modalità attuative di un tale intervento, nonché la riorganizzazione dell’apparato concepito dal legislatore a tutela del minore.

Così, un favore nei confronti di detta soppressione potrebbe incontrare l’adesione da parte degli operatori del diritto, esclusivamente ove tale organo risultasse effettivamente inglobato in un vero e proprio Tribunale per la Famiglia.

Diversamente, ove venisse a configurarsi una sorta di abolizione sic et simpliciter del Tribunale per i Minorenni, non si potrebbe non provare perplessità verso una soluzione che farebbe “invecchiare la società giuridica” di qualche decennio, provocando un effetto tabula rasa dei principi base della cultura normativa, ormai da tempo orientata, scritta e pensata alla luce dell’esclusivo interesse dei minori, siano essi vittime di reati, bimbi in stato di abbandono o prole di coppie in crisi.

Il rischio, in altre parole, è che le pratiche processuali che vedono coinvolto un minorenne, a dir poco delicate, vengano analizzate e poi decise da una magistratura solo prima facie specializzata, ma, invero, priva di puntuale competenza in materia minorile, tanto da concretarsi una violazione, più o meno esplicita, della disciplina costituzionale e delle raccomandazioni europee.

Rischio fugato, invece, ove – come inizialmente prospettato – fosse stata prevista la creazione di un Tribunale e di un Ufficio autonomo di Procura, demandati in via esclusiva della trattazione di ogni procedimento riguardante un soggetto non maggiorenne. In similari ipotesi, del resto, la specializzazione della magistratura, in uno con l’esclusività della sua funzione, nel civile come nel penale, divengono fattori vitali a garanzia dei diritti del minore, ove si pensi, tra le altre considerazioni, al fatto che, con il noto giusto processo, il Pubblico Ministero minorile non possiede la facoltà, facente capo alla Procura minorile (della quale, però, non sono ancor chiari ruolo e previsione in seno alla discussa riforma), di aprire d’ufficio un processo a tutela del minore.

E allora, come si può pensare di creare sezioni specialistiche senza dotarle di autonomia funzionale? Ancora, occorrerebbe che i magistrati assegnati alle sezioni specializzate venissero esonerati dai turni cosiddetti ordinari, nell’ottica di garantir loro un’azione immediata in caso di appurato o ipotetico pericolo per il minore. Di qui, l’opportunità e l’auspicio che, alla linea finora tracciata in vista della possibile soppressione dei Tribunali per i Minorenni, siano apportate sensibili modifiche volte, dati alla mano, ad una tangibile – e non solo apparente – razionalizzazione del sistema giustizia.

PER FIRMARE LA PETIZIONE none

 

 

Hanno preso posizione riguardo all’abolizione dei Tribunali per i minorenni:

 

Fermiamo l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni!

Vi chiedo pochi minuti di attenzione per una questione di grande importanza di cui la stampa si sta occupando pochissimo: la Riforma della Giustizia “Orlando”, che ha appena concluso il suo Iter alla Camera e sta passando al Senato, contiene una parte che riguarda la riforma del Tribunale per i Minorenni.

Fino a gennaio la Riforma sembrava andare nella direzione di una sorta di passaggio dal TM al nuovo Tribunale per la Famiglia, che avrebbe riunito tutte le competenze sui Minori.

Ma a gennaio la inaspettata approvazione di un emendamento in Commissione Giustizia della Camera (il n.25 proposto dalla deputata PD Ferranti) ha fatto tracollare la situazione, portando ad una abolizione tout court del Tribunale per i Minorenni, a favore di non meglio specificate sezioni specializzate.

La riforma, così come è al momento, è destinata a riportarci indietro di 50 anni, proprio nel momento in cui la nostra Giustizia Minorile sta ricevendo i maggiori tributi nel resto d’Europa.

La riforma ridurrà drasticamente la specializzazione dei Magistrati (sia Giudicanti che Inquirenti) che si occupano di Minori, portando nella maggior parte d’Italia ad una situazione nella quale si occuperanno di questioni delicatissime (penale minorile, abuso sessuale in infanzia, separazioni ad alta conflittualità, maltrattamenti ai bambini,…) Magistrati che non hanno specializzazione sui temi dei Minorenni, e che si devono occupare di questa materia al pari di incidenti stradali, marchi, fallimenti,…

Quando il Ministro Castelli, nel 2003, propose la chiusura del Tribunale per i Minorenni, ci fu un sollevamento di scudi sia in Parlamento che negli organi di Stampa. Oggi, invece, la riforma sta conducendo il suo iter senza che gli organi di stampa stiano dando alla questione la giusta rilevanza.

Tutte le rappresentanze degli “operatori del settore” (Magistrati, Magistrati Minorili, Avvocati minorili, ordine degli assistenti sociali, ordine degli psicologi, tutte le organizzazioni che compongono il Gruppo CRC, incaricato di verificare il rispetto in Italia della Convenzione ONU sui diritti dei minori,…) hanno preso una posizione durissima contro la soppressione dei Tribunali per i Minorenni.

Ma c’è bisogno che a prendere posizione siano tutti i Cittadini, perché l’abolizione dei TM è una ferita al nostro Paese, che lo riporta indietro di decenni sulla cultura della Tutela dei bambini e degli adolescenti!

Vi chiedo di firmare questa petizione per chiedere ai senatori che compongono la commissione giustizia di stralciare dalla riforma gli articoli riguardanti la disciplina minorile, per portarla a una discussione piu’ accurata e meno frettolosa.

(Il testo della petizione è a cura di Paolo Tartaglione, NdR).

Fagocitosi: il cervello ha bisogno di fare pulizia per rimanere in buona salute

Fagocitosi: La ricerca che è stata condotta dal Centro di neuroscienze presso l’Università dei Paesi Baschi ha indagato i meccanismi che mantengono il cervello pulito in soggetti con malattia cerebrale, in particolar modo valutando cosa accade durante le malattie neurodegenerative.

Silvia Ciresi

 

Introduzione: cos’è la fagocitosi

Quando i neuroni muoiono, i loro residui devono essere rimossi velocemente per permettere al tessuto cerebrale circostante di continuare a funzionare correttamente e non essere danneggiato. L’eliminazione dei neuroni morti avviene tramite un processo chiamato fagocitosi ed è effettuato da cellule altamente specializzate nel cervello chiamate cellule microglia. Queste piccole cellule hanno molte ramificazioni, sono in costante movimento e sono specializzate ed attrezzate per rilevare e distruggere qualsiasi elemento estraneo presente, inclusi i neuroni morti. O almeno così si pensava fino ad ora.

 

Lo studio sul processo della fagocitosi

Questo studio, che è stato pubblicato il 26 maggio 2016 su Biology, indaga per la prima volta il processo di morte neuronale ed il processo della fagocitosi da parte della microglia nel cervello malato ed in particolar modo nei pazienti con epilessia. A tale scopo, gli scienziati hanno effettuato gli studi sia su cervelli di pazienti affetti da epilessia sia su quelli di topi epilettici.

È noto che durante la crisi epilettica associata a convulsioni, i neuroni muoiono. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nel cervello sano, durante un attacco epilettico, la microglia sembra essere “cieca” e non essere in grado di individuare i neuroni morti e distruggerli. Data la premessa effettuata precedentemente, risulta chiaro come questo comportamento appaia anomalo: in tal caso, i neuroni morti non possono essere eliminati e si accumulano, espandendo i danni della morte cellulare anche ai neuroni limitrofi, fino a tale momento preservati dal danno e così si innesca una risposta infiammatoria che peggiora il danno cerebrale già presente.

 

Conclusioni

Questa scoperta apre nuove strade future da esplorare per individuare nuove terapie farmacologiche che potrebbero alleviare gli effetti delle malattie cerebrali. Infatti, lo stesso gruppo di ricerca sta attualmente sviluppando nuovi farmaci, con l’obiettivo di scoprire terapie efficaci capaci di incrementare il processo di fagocitosi (pulizia cerebrale) nei pazienti con epilessia e crearne una nuova speranza di trattamento.

Le conclusioni di questa ricerca sono davvero importanti, non solo per la scoperta in sè, ma soprattutto per le notevoli implicazioni che tale ricerca potrebbe avere nello studio e nel trattamento, non solo dell’epilessia, ma anche di altre patologie cerebrali degenerative; apre quindi la strada a nuovi percorsi di ricerca, dando soprattutto una speranza ai pazienti.

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