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Le barriere linguistiche nella comunicazione tra figli adolescenti e genitori immigrati

Per la maggior parte dei genitori a volte può essere piuttosto difficile parlare con i figli adolescenti. Ancor di più lo è quando genitori e figli parlano lingue diverse, uno scenario piuttosto comune per un elevato numero di famiglie immigrate negli Stati Uniti.

 

Un recente studio dell’Iowa State University ha evidenziato come questa barriera linguistica può condurre a severe conseguenze negative per quel che concerne l’autocontrollo e i comportamenti aggressivi negli adolescenti. Proprio per questo Schofield, l’autore principale dello studio, sostiene che migliorare la comunicazione tra genitori e figli potrebbe avere importanti implicazioni sociali.

Per giungere a queste conclusioni Schofield e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti da alcune osservazioni di interazioni tra madri e figli di origine messicana. Gli autori hanno osservato che nel campione composto da madri e figli che parlavano la stessa lingua la disciplina positiva e la calda genitorialità da parte delle madri portavano ad un aumento dell’autocontrollo e ad una diminuzione dell’aggressività nell’adolescente. Nel campione composto invece da madri e figli che parlavano lingue diverse, gli adolescenti mostravano un minor autocontrollo e una maggiore aggressività.

Un dato molto importante che è emerso dallo studio è che in presenza di questa barriera linguistica la comunicazione quotidiana non risultava un problema. I meccanismi scatenati dalla presenza della differenza linguistica derivavano da conversazioni più complesse, come ad esempio l’esposizione di regole da parte dei genitori o l’esposizione di alcune preoccupazioni da parte degli adolescenti. Schofield ipotizza che questo possa essere dovuto dal fatto che gli adulti danno per scontata la comprensione reciproca che si viene ad instaurare nel corso di una conversazione, processo che dall’altra parte i ragazzi stanno ancora cercando di imparare e capire.

Come fa notare Schofield, i genitori vogliono sempre assicurarsi che i loro figli capiscano il motivo per cui si stanno comportando in un determinato modo, spiegare le loro azioni e vedere se sono stati coerenti e incoerenti, ma là dove c’è una barriera linguistica tutto questo slitta in secondo piano. A lungo andare può accadere che il ragazzo si stanchi di provare ad abbattere l’ostacolo della lingua, abbandonando così la comunicazione con i genitori.

Gli adolescenti, non rivolgendosi più ai genitori iniziano a confidarsi in modo esclusivo con i loro coetanei. Questo non significa che i figli non si sentano amati o che i loro genitori siano cattivi, vi è semplicemente una difficoltà ad affrontare argomenti e questioni complesse.

Ciò che più preoccupa gli studiosi è il fatto che nei casi gli adolescenti siano figli di immigrati che parlano una lingua differente da quella dei genitori, questa disconnessione comunicativa con i genitori diventa uno scenario quotidiano e nella norma.

Per evitare che questo accada è necessario abbattere questa barriera linguistica intrafamiliare. Secondo Schofield questo si potrebbe fare sostenendo i genitori immigrati ad imparare la lingua del paese in cui sono residenti, non che quella dei loro figli – immigrati di seconda generazione-, e sostenere i figli adolescenti ad imparare in misura maggiore la loro lingua madre. Si tratta di un progetto di fondamentale rilevanza in quanto negli Stati Uniti più di 16 milioni di bambini sono figli di almeno un genitore immigrato.

L’autostima e il ruolo degli ideali: cosa ci spinge a superare limiti sempre più ambiziosi

Autostima: Le persone si muovono attraverso molteplici piani ideali, alcuni sono legati alle abitudini concrete (“ideale di andare in palestra due volte la settimana”), altri sono legati a ideali più astratti da realizzare (“diventare una persona sportiva e dinamica”). In generale la percezione di una distanza tra come siamo e come vorremmo essere genera emozioni negative di tristezza, tale per cui siamo portati in qualche modo a minimizzare tale differenza percepita.

 

Introduzione

Alla vigilia delle olimpiadi di Londra del 2012, il marciatore Alex Schwazer fu trovato positivo ad un controllo anti-doping e venne squalificato dalla competizione e condannato a diversi mesi di sospensione dalle gare.
Diverso tempo dopo il marciatore dichiarerà di aver passato un periodo di forte stress emotivo dopo l’oro vinto ai giochi olimpici del 2008, stress che lo avrebbe portato a fare uso di sostanze per non tradire le aspettative e per tenere sempre lo stesso livello di agonismo.
Cosa spinge una persona, (in questo caso un atleta), a ricorrere a mezzi illeciti rischiando la propria carriera, per superare limiti sempre più ambiziosi? Perché nonostante i traguardi raggiunti a volte le persone si spingono oltre e non sono mai soddisfatte delle proprie caratteristiche?

 

L’autostima

In letteratura psicologica per autostima si intende la valutazione, positiva o negativa, che l’individuo da di se stesso. In generale si distingue fra aspetti conoscitivi del sé, il concetto di sé ovvero cosa “sappiamo” di noi stessi, e aspetti valutativi, ovvero l’ autostima, intendendo con questo concetto cosa “proviamo” nei confronti di noi stessi.
Non tutti sono d’accordo con la distinzione tra aspetti valutativi e conoscitivi del sé, ma alcuni autori pensano che tale demarcazione non abbia alcun valore pratico (Shavelson, Hubner, Stanton, 1976).

Al di là degli aspetti legati alla sua definizione, l’autostima è risultata potentemente legata al benessere individuale, all’identità e all’adattamento della persona nei vari contesti di vita (Meleddu, Scalas, 2003).
L’ autostima non è solo legata a delle qualità che il soggetto percepisce di possedere attualmente, ma è costruita attraverso gli ideali e le aspirazioni a cui la persona tende.
Gli esseri umani adulti non si muovono solo sul piano del reale, ma ragionano anche su ipotesi, costruendo mentalmente cosa vorrebbero diventare, come vorrebbero essere o apparire.

 

La definizione di autostima di William James

Questo tipo di cognizioni fanno parte dei domini del sé ideali e sono stati studiati da un filone di ricerche che si rifà alle teorizzazioni di William James (1890). Lo psicologo americano scrisse di un pugile che si vergognava e non era soddisfatto per essere “solo” il secondo pugile al mondo. Questo esempio è emblematico della caratteristica dell’ autostima come istanza costruttiva, ovvero del suo dipendere dalle cognizioni e dagli schemi dell’individuo. La psicologia cognitiva ha descritto le cornici attraverso cui l’individuo dà senso a se stesso e agli eventi.

 

L’autostima secondo i modelli di psicologia cognitiva

In generale i modelli di psicologia cognitiva che risentono dell’influenza della cibernetica presentano il sé come un sistema che si autoregola. Carver e Scheier (1990) si sono concentrati sul modo in cui l’individuo regola le proprie azioni, cercando di minimizzare la distanza tra il suo stato attuale e il suo stato ideale. In pratica l’assunto centrale della teoria è che la gente si muove attraverso mete e monitora il proprio percorso verso di esse, confrontando continuamente la percezione del proprio comportamento rispetto agli standard di riferimento. Quando l’individuo percepisce una discrepanza tra il proprio stato attuale e la meta cerca delle strategie comportamentali per ridurre tale discrepanza.

Le persone si muovono attraverso molteplici piani ideali, alcuni sono legati alle abitudini concrete (“ideale di andare in palestra due volte la settimana”), altri sono legati a ideali più astratti da realizzare (“diventare una persona sportiva e dinamica”). In generale la percezione di una distanza tra come siamo e come vorremmo essere genera emozioni negative di tristezza, tale per cui siamo portati in qualche modo a minimizzare tale differenza percepita. Esistono però due tipi di ideali studiati: gli ideali propriamente intesi, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui tendere e a cui riferirsi, e gli ideali negativi (sé temuti) ovvero situazioni, persone (reali o simboliche), mete e circostanze da cui le persone cercano di distanziarsi e di tenere lontane perché giudicano negativamente.
In generale il senso comune e la letteratura ipotizzano un ruolo negativo degli ideali sull’ autostima, specie se essi sono troppo ambiziosi e irraggiungibili (Marsh, 1993).

In generale si può dire che nonostante il chiaro valore che l’autoregolazione verso le mete ha per la società, poiché spinge l’individuo a migliorarsi e a tendere verso nuovi obiettivi, la rincorsa verso gli ideali ha dei costi individuali in termini di risorse mentali e senso del proprio valore.
A volte la psicologia del senso comune e la traduzione delle intuizioni in risultati misurabili non vanno proprio di pari passo; l’operazionalizzazione delle discrepanze e la misurazione dell’impatto degli ideali sull’ autostima non è stato facile.

Misurare la discrepanza con gli ideali e il loro impatto sull’ autostima si è rivelata un’operazione dotata di diversi problemi metodologici, nonostante il valore euristico che tale impostazione ha (come abbiamo visto nell’esempio del doping e in vari casi di cronaca). Recentemente, un approccio basato su equazioni strutturali con variabili empiricamente pesate (Scalas, Marsh, 2008) è sembrato risolvere i problemi.
Possiamo dire che sicuramente gli ideali hanno un valore psicologicamente pregnante sul sé della persona, ma che questo aspetto sia complicato da numerose variabili come per esempio l’educazione (stili di autoregolazione appresi), l’affettività generale dell’individuo e i suoi valori personali.

Ipocondria: è colpa di Irene se mi sono ammalato – Ritratti

Quando inserisco la chiave nella serratura, noto che la mano mi trema. Tanto che mi sembra di non centrare il bersaglio al primo colpo. Mi ricordo subito di stamattina, al bar. Quando ho afferrato la tazzina, era come se improvvisamente la mano avesse bisogno della mia totale attenzione per metterci la forza necessaria. E poi, portando la tazzina alla bocca, quello stesso tremore.

 

Appena aperta la porta di casa, mi investe la sigla di House of Cards sparata a tutto volume. Passo rapidamente dietro alla poltrona di mio padre, lanciandogli un ‘ciao, tutto a posto?’ a cui lui risponde con un grugnito cordiale ma definitivo. Della serie: ‘prendo volentieri atto che sei rientrato, però sta iniziando proprio ora l’episodio, quindi non rompere le palle’. Mi chiudo nella mia stanza. Mi butto sul letto e chiudo gli occhi. Li riapro dopo pochi secondi, con un’espressione sgomenta, quando una fitta crampiforme alla gamba, all’interno del polpaccio, accende nella mia mente un collegamento evidentissimo. Tremore, più inceppamento della coordinazione, più dolore crampiforme al polpaccio, uguale sclerosi laterale amiotrofica.

Mi alzo dal letto con l’esplosività muscolare di Ben Johnson strafatto di doping e mi siedo alla scrivania, davanti al pc. Non mi sfiora l’idea che basterebbe il gesto atletico istintivo che il mio corpo ha appena compiuto per escludere la malattia che ho paura di covare. In questi casi la mente se ne fotte di considerare i dati a confutazione. Quando abbiamo paura dell’imminenza della morte, tutte le informazioni, per quanto evidenti, che ci stiamo sbagliando, e che in realtà non sta succedendo niente di pericoloso, non le consideriamo proprio. Anzi, se pure ci capita di ascoltare informazioni del genere, magari perché qualcuno ce le fornisce candidamente (“scusa come fa uno che ha la sclerosi laterale amiotrofica a giocare così a calcetto?”), prederle in seria considerazione ci sembra una leggerezza da incoscienti. Insomma, quando abbiamo paura di morire se ne fa affanculo Popper e tutto il suo approccio falsificazionista. Anche perché la paura, spessissimo, non è esattamente quella di avere una malattia mortale, ma che quella malattia mortale stia iniziando, e se prendiamo sotto gamba i primi, sfumatissimi segnali vuol dire che ci condanniamo da soli a morte.

L’ipocondria non è solo questione di paura della morte. E’ anche paura di aver perso l’occasione di salvare la vita a noi stessi. Paura non solo di morire, ma di morire come dei coglioni superficiali.

Un’altra cosa. Tutto questo vale ovviamente quando noi abbiamo paura di covare una malattia letale; perché con la paura che hanno gli altri è tutta un’altra storia. In quel caso, anche se tre giorni prima abbiamo passato otto ore nella sala d’attesa di un centro privato di diagnostica per immagini per farci fare la costosissima TAC cranica che porterà alla luce il nostro tumore frontale, ci incazziamo se l’altro, che so, il nostro amico che tentiamo ripetutamente di rassicurare con argomenti logici, continua a cacarsi sotto perché secondo lui il suo tumore è in fase terminale.

Dicevo, mi siedo al pc e digito su google Sclerosi Laterale Amiotrofica. Mentre il pc carica la schermata, il cuore mi martella la gola. Sullo schermo compare una pagina di testo. Inizio a leggere senza alcun ordine frasi a caso. All’inizio i soggetti notano di avere difficoltà mentre camminano o corrono, magari inciampando più spesso…i primi segni della SLA nella mano o nel braccio, notando che semplici compiti come abbottonarsi una camicia, scrivere o girare la chiave in una serratura diventano difficili…notano difficoltà nel parlare… Poi, improvvisamente, è come se qualcuno mi stesse facendo delicatamente calzare una guaina di tessuto caldo. A partire dai piedi, salendo fino alle ginocchia, e così via. E man mano che mi infilano in questa tuta invisibile di calore, mi sento sempre più calmo. Tanto che riesco a leggere un pezzo del testo dall’inizio: La SLA causa una vasta gamma di disabilità, alla fine viene persa la capacità del cervello di controllare i movimenti volontari ed i pazienti perdono la forza e la capacità di muovere le braccia, le gambe e il corpo. Quando i muscoli nel diaframma e nella parete toracica non funzionano più, i pazienti con SLA non possono respirare senza il supporto di una macchina.

Quando arrivo alla fine sono completamente rilassato. Non ho più paura. Perché non sono più logorato dal dubbio. Ora ho la certezza di avere la SLA. E questa certezza mi porta un sollievo paradossale. Ora so che devo solo prepararmi ad essere attaccato a una macchina per respirare. Però quasi mi congratulerei con me stesso per essermene accorto così presto.

Scrivo un whatsup a Irene. “Perché ora non ci sei?”. Lo cancello. Lo riscrivo e lo invio. Mi aspetto che non risponda. Infatti non risponde.

Non mi sfiora nemmeno per un attimo, nemmeno marginalmente, la consapevolezza che questo messaggio è il punto finale della parabola emotiva che ho percorso. E questo punto finale – chiedere ad Irene attenzione, rassicurazione, amore (purtroppo, nell’unico modo in cui so farlo, rispondendo, negativamente, al suo posto) – coincide col punto inziale di quella parabola. Bene o male, il mio attacco di ipocondria inizia e finisce con Irene. Nel senso che non mi sarei mai ammalato di SLA se Irene non avesse pronunciato quella frase parlando del suo capo – “lui non é come te, lui dedica la vita ad aiutare le persone”; se questo non mi avesse fatto venire un dubbio atroce su se e quanto Irene mi ami; se questo dubbio non ne avesse amplificato un altro, di dubbio, ancora più profondo, radicato – non sono più abbastanza per lei, forse non lo sono mai stato -; se non avessi pensato quanto poco serva perché qualcuno sia meglio di me.

Non mi sarei mai ammalato di SLA se avessi capito in tempo tutte queste cose, e non fossi stato vittima della nostra consueta cecitá su noi stessi.

 

 

 

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L’intervento psicologico in Pronto Soccorso potrebbe ridurre la violenza giovanile

Una nuova ricerca realizzata presso il Michigan Youth Violence Prevention Center, suggerisce che una singola seduta di consulto psicologico della durata di 30 minuti, realizzata durante una visita di Pronto Soccorso, possa ridurre i comportamenti violenti futuri di giovani adolescenti a rischio.

 

L’attuale studio riporta uno dei sei interventi testati nei quartieri di riferimento per diminuire la violenza giovanile.

I ricercatori hanno scoperto che il breve intervento psicologico (Brief Intervention), realizzato da un terapeuta in un setting strutturato, è stato efficace nel ridurre le aggressioni violente nei partecipanti nei due mesi successivi al periodo di studio.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Academic Emergency Medicine, ha visto la partecipazione di 409 giovani provenienti da due quartieri ad alto rischio a Flint, nel Michigan. Giovani uomini e giovani donne tra i 14 e 20 anni, che tra l’Ottobre 2011 e Marzo 2015, avevano utilizzato il Dipartimento di Emergenza Hurley Medical Center in seguito ad episodi di violenza in cui erano rimasti coinvolti.

I partecipanti di un quartiere hanno poi ricevuto l’intervento di counseling, di 30 minuti, mentre i partecipanti dell’altro quartiere ricevevano solo le cure mediche tradizionali.

L’intervento di consulenza era focalizzato sul rinforzo degli obiettivi personali, lo svolgimento di esercizi progettati per esplorare i benefici derivanti dall’evitamento di comportamenti violenti, oppure era volto a sviluppare nuove competenze nella gestione della rabbia e dei conflitti. Infine lavorare sulle strategie per rendere duraturi i nuovi cambiamenti comportamentali.

Questo tipo di approccio a brevissimo termine si è mostrato particolarmente funzionale con gli adolescenti, particolarmente riluttanti ad affrontare qualsiasi percorso preventivo o riabilitativo della propria condizione.

P. Carter, principale autore dello studio, sottolinea che:

Episodi di violenza rappresentano, da oltre dieci anni, la principale causa di morte per la popolazione giovanile di più basso status sociale. I dipartimenti di emergenza rappresentano un punto di contatto fondamentale con questi ragazzi, e da qui poter effettuare un primo intervento a scopo preventivo e rieducativo.

Dallo studio è stato rilevato che, dopo due mesi dalla visita, i partecipanti che avevano ricevuto la consulenza hanno riportato un livello di comportamenti violenti del 10% più basso, rispetto al gruppo di controllo che non aveva ricevuto l’intervento psicologico.

Conclude Carter:

Molti giovani delle aree urbane, spesso non frequentano regolarmente la scuola o non ricevono regolari cure primarie, i dipartimenti di emergenza rappresentano un luogo importante in cui è possibile interagire con loro e affrontare le questioni problematiche presenti nelle loro vite, dalla violenza, all’alcol o droga

 

 

L’arte di aiutare gli altri: il modello di Carkhuff

Il modello di Carkhuff offre una base per comprendere e gestire le relazioni umane come tali. In particolare, permette di forzare le relazioni, attraverso una sistematica formazione e può diventare una relazione d’aiuto, che consiste in processi che comportano la crescita di una persona o di entrambe le persone coinvolte per mezzo del loro relazionarsi e delle risorse che da ciò ne possono scaturire.

Grazia Martina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il modello di Carkhuff: introduzione

[blockquote style=”1″]Tutti noi, nessuno escluso, siamo nati con le potenzialità per crescere. Se impariamo a mettere in pratica questo potenziale, vivremo una vita d’intensità e di pienezza indicibili. Riusciremo a sviluppare delle risposte di crescita che ci permetteranno di andare ovunque e di fare qualsiasi cosa.[…] Crescere è la nostra vera ragione di vita. I processi umani rappresentano il veicolo della nostra crescita. Noi, come esseri umani, siamo il prodotto dei nostri processi. In effetti, siamo umani solo se siamo in grado di gestire i processi umani. E alla fine, o moriremo crescendo, oppure moriremo condizionati ed impotenti, profughi e senza casa nel nostro stesso mondo.[/blockquote]

Allievo di Rogers, psicoterapeuta, è considerato il più grande esperto internazionale di counseling e relazione d’aiuto. Il modello di Carkhuff integra le feconde intuizioni della Scuola Rogersiana con gli approcci di tipo cognitivo comportamentale, in un’esposizione semplice, piana e rigorosa, che chiarisce ed approfondisce le abilità fondamentali del processo di aiuto: prestare attenzione, rispondere, personalizzare, iniziare.

 

L’influenza di Rogers al modello di Carkhuff

Migliorare i processi terapeutici è stata l’ossessione di Carkhuff, e in questo sforzo ha seguito Rogers: migliorare i processi terapeutici significava innanzitutto migliorare i processi interpersonali nella terapia o nel processo d’aiuto. Potremmo dire che Rogers è più filosofo, mentre Carkhuff è più pragmatico e più concentrato sui dettagli delle cose. Ciò che a lui interessa prioritariamente sono gli aspetti tecnici legati all’efficacia della relazione di aiuto (professionale e non professionale) e l’efficacia dei metodi formativi (o addestramento) indispensabili per l’acquisizione “meccanica” di questa particolare competenza umana. Migliorare i processi terapeutici significava innanzitutto migliorare i processi interpersonali nella terapia o nel processo di aiuto.

Rogers aveva individuato una triade di atteggiamenti personali che lui riteneva condizioni necessarie e sufficienti perché i processi interpersonali si dispieghino in senso costruttivo e pertanto l’aiuto si realizzi.

Il primo atteggiamento è quello di genuinità o spontaneità dell’operatore di aiuto. Nel processo di aiuto, la genuinità dell’operatore si evidenzia nell’essere sempre se stesso, sempre in collegamento con i propri sentimenti e con ciò che nel rapporto si sta svolgendo dentro di lui, senza sentire la necessità di negarlo o di deformarlo. La genuinità implica la congruenza fra i livelli psicologici (fra ciò che sente, ciò che pensa, ciò che si fa e ciò che si è).
Data la premessa che l’operatore sia un essere psicologicamente costruttivo, la genuinità è, per Rogers, la condizione base dell’aiuto, sulla quale vanno ad appoggiare tutte le altre.
Senza genuinità, l’helper ( ovvero chi aiuta) è reso da se stesso inefficace prima ancora di iniziare ad operare.

La seconda disposizione umana è ciò che Rogers chiama accettazione incondizionata o considerazione positiva incondizionata. La persona è accettata indipendentemente da ciò che pensa, fa, o dice, solo per quello che è e per la sua motivazione a cambiare.
L’atteggiamento di accettazione incondizionata si riflette nella capacità dell’helper di interagire senza dare giudizi morali né di riprovazione né di approvazione. Il processo di aiuto è un’opportunità che si offre alla persona per prendere piena consapevolezza di comportamenti o modi di essere che possono presentarsi come moralmente riprovevoli, anzi che spesso lo sono, perché è anche per questo che l’aiuto viene chiesto. Il processo di aiuto deve servire a rinforzare questa presa di coscienza morale della persona e la disponibilità a cambiare.
Il poter trovare un interlocutore non giudicante e affettuoso è per Rogers la condizione essenziale per lo sviluppo di una piena maturità della persona.

Il terzo atteggiamento personale consiste nella comprensione empatica. Mentre le prime due disposizioni costituiscono il terreno di base su cui si costruisce il rapporto con l’altra persona, quest’ultima disposizione è più fine e interviene quando già il rapporto esprime i suoi contenuti e la sua dinamica particolare. La comprensione empatica riguarda appunto la capacità dell’helper di cogliere accuratamente la situazione personale di colui che gli sta di fronte: da ciò che dice e da ciò che è. La comprensione accurata dell’altro dovrebbe prodursi con un insieme di sentimento (coinvolgimento affettivo) e di intelligenza percettiva.

Queste tre disposizioni personali hanno la caratteristica di essere di tipo “passivo”. Un helper capace di autenticità, di accettazione completa, di empatia accurata è un operatore che ha sviluppato una piena competenza responsiva, una capacità cioè di accogliere la persona dell’altro, creare un’ecologia relazionale, un “clima” o “un’atmosfera” dentro la quale la persona si sente accettata e ben protetta.

 

Il modello di Carkhuff

Il modello di Carkhuff offre una base per comprendere e gestire le relazioni umane come tali. In particolare, permette di forzare le relazioni, attraverso una sistematica formazione e può diventare una relazione d’aiuto, che consiste in processi che comportano la crescita di una persona o di entrambe le persone coinvolte per mezzo del loro relazionarsi e delle risorse che da ciò ne possono scaturire.

Nel contesto della relazione d’aiuto, è possibile individuare una linea di “ specializzazione progressiva” che parte dalle relazioni spontanee nella vita quotidiana per arrivare a forme d’aiuto via via più complesse, che si definiscono, a seconda del loro grado di strutturazione o di profondità, come counseling e psicoterapia. Egli riassume il processo d’aiuto nel modello di Carkhuff, come egli stesso riporta, nel seguente modo:
– per cambiare o migliorare, i clienti devono agire in modo diverso da quanto fatto in precedenza: agire per muoversi da dove si trovano a dove vogliono essere;
– per riuscire a fare questo devono capire accuratamente i propri obiettivi e come raggiungerli: capire dove si trovano in rapporto a dove desiderano essere;
– per capire questo devono esplorare il loro mondo in maniera esperienziale: capire dove si trovano in rapporto al loro mondo ed alle persone per loro significative.

I clienti devono poi imparare ad utilizzare il feedback delle loro azioni per riciclare l’intero processo  nella direzione di una più accurata esplorazione e comprensione dei suddetti elementi, perseguendo un’azione sempre più efficace nella direzione dei loro obiettivi.

Carkhuff ha esteso entrambi i punti fondamentali del sistema rogersiano, vale a dire
– l’analisi delle disposizioni personali dell’operatore d’aiuto;
– l’articolazione dell’apparato tecnico metodologico, indispensabile per una relazione d’aiuto efficace.

E’ stato dimostrato che, l’efficacia di una relazione di aiuto si può ricondurre a due fattori generali: il rispondere e l’iniziare. Il fattore rispondere richiede che gli helper sappiano entrare nello schema di riferimento degli “ helpee “ (chi riceve aiuto) e sappiano comunicare con grande accuratezza, una loro reale comprensione delle esperienze a loro volta comunicate dagli helpee.

Il fattore rispondere rileva l’importanza di dimensioni quali l’empatia o sensibilità; il rispetto o calore umano; concretezza o specificità dell’helper nel mettere a fuoco il vissuto degli helpee e altre abilità ancora. L’abilità dell’helper di rispondere facilita, da parte degli helpee, l’esplorazione del loro vissuto e lo sviluppo dell’insight.

In seguito, il modello della relazione d’aiuto è stato completato con l’aggiunta delle cosiddette abilità di pre-aiuto o di prestare attenzione. Prestare attenzione agli helpee facilita il loro coinvolgimento nel processo d’aiuto. Attraverso l’azione, gli helpee producono e ricevono un feedback: quest’informazione retroattiva che scaturisce dall’azione, mette in moto un processo in cui le fasi dell’aiuto si riattivano nuovamente, riciclandosi.

L’obiettivo finale dell’aiuto è quello d’impegnare gli helpee in processi che portano alla crescita e allo sviluppo delle loro dimensioni umane. L’oggetto considerato non sono più le attitudini generali dell’helper quanto piuttosto le specifiche abilità che devono essere sequenzialmente messe in atto nel processo di aiuto.

Possiamo concludere l’ analisi del modello di Carkhuff definendolo come:

– un modello bipolare: descrive contemporaneamente la dinamica dei processi intrapersonali e la dinamica interpersonale. Ciascuna delle abilità o competenze dell’helper (prestare attenzione; rispondere; personalizzare; iniziare) è collegata ad una fase di maturazione o sviluppo dell’helper (essere coinvolto e motivato al processo di aiuto; esplorare la propria situazione verbalizzando ed esponendo all’helper il “materiale” attorno al quale verte la difficoltà; comprendere il proprio ruolo, i deficit, le risorse, le prospettive, gli obiettivi; agire, nel senso di organizzare delle azioni concrete per la soluzione del problema, raggiungere qualche obiettivo). Su questa “corrispondenza” fra abilità dell’helper ed effetto di attivazione che si produce nell’helpee, Carkhuff insiste particolarmente.

– un modello sequenziale: la proposta dell’ autore descrive una linea progressiva di abilità che va da quelle relativamente più semplici e basilari a quelle via via più complesse. Il modello di Carkhuff indica una traccia di training ma anche una scala di misurazione del grado di competenza interpersonale raggiunto dall’operatore di aiuto, scandisce le priorità e l’ordine con cui tali abilità vanno via via introdotte nel processo di aiuto.

– un modello bifasico: evidenzia una fase che è possibile chiamare “discendente” (o interiorizzante) e una fase ascendente (o esteriorizzante). Le operazioni tecniche delle prime due fasi del modello, il rispondere e il personalizzare portano la persona a immergersi in se stessa, a prendere conoscenza di sé, oltreché del suo “problema”; è un lavoro di riordino mentale ed emotivo gradatamente sempre più profondo affinché la persona possa scavare dentro di sé le fondamenta di un agire solido e correttamente direzionato. Le operazioni della fase finale, l’iniziare, è invece uno stimolo per risalire dallo psichismo verso un comportamento esterno, per passare dal momento di preparazione psicologica all’azione e al vivere veri e propri.
La tecnica discendente del rispondere è la tecnica rogersiana della riformulazione.
La tecnica ascendente dell’iniziare costituisce invece la parte originale del suo modello.
La tecnica del personalizzare è stata introdotta nel modello a metà fra il rispondere e l’iniziare, proprio per costituire un cuscinetto di raccordo fra questi due punti apparentemente inconciliabili.
Il modello è sincretico, cioè composto mediante integrazione di vari orientamenti di aiuto, alcuni anche fra loro tradizionalmente in antitesi.

I test cognitivi non sono sempre predittivi delle capacità di guida nei pazienti con demenza

Nuovi studi affermano che non esiste un unico test cognitivo che può predire se una persona con demenza sia in grado di guidare. I risultati della revisione degli studi pubblicati in tale ambito indicano che le batterie di test che indagano molte abilità cognitive (batterie globali) invece di una sola possono risultare più utili per valutare le capacità di guida nei pazienti con demenza.

 

Le persone con demenza hanno fino a otto volte in più la probabilità di essere vittime di un incidente d’auto rispetto ad altri anziani. Ma nelle prime fasi della malattia, spesso le persone con una diagnosi di demenza possono guidare in modo sicuro, come scrive il gruppo di studio nel “Journal of The American Geriatrics Society”.

Avere una diagnosi di demenza non significa che l’individuo dovrebbe rinunciare alla patente di guida, tuttavia a causa della natura progressiva della malattia, ciò avviene inevitabilmente nelle fasi intermedie della malattia. Le loro capacità di guida dovrebbero essere costantemente monitorate ed esaminate.

La demenza è una condizione incurabile che può essere causata da varie malattie, la più comune è la malattia di Alzheimer. La demenza colpisce la memoria ed altre funzioni cognitive necessarie per la guida.
Per determinare quanto bene i test cognitivi predicano le capacità di guida, i ricercatori hanno analizzato i dati provenienti da 28 studi esaminando i test cognitivi e le prestazioni di guida in pazienti con demenza.
Alcuni studi hanno utilizzato sia test su strada che test cognitivi per determinare la capacità di guida.
I test cognitivi utilizzati valutavano l’attenzione e la concentrazione, la memoria, il linguaggio, lo stato mentale generale, le funzioni esecutive, il ragionamento e il problem-solving.

Nel complesso, il legame tra test di una singola funzione cognitiva e capacità di guida era inconsistente: i singoli test cognitivi hanno predetto la capacità di guida delle persone con demenza solo per il 46 per cento dei casi.
Le persone con prestazioni deficitarie ai test delle funzioni esecutive, di attenzione e di concentrazione avevano prestazioni deficitarie alla guida per poco più della metà del tempo.
Le altre abilità cognitive sono state collegate ad una guida sicura per meno della metà del tempo, tra cui memoria e linguaggio risultavano le meno rilevanti per la capacità di guida.

Al contrario, in sei studi sono stati utilizzati test globali per misurare le capacità cognitive. Tali batterie di test prevedevano in modo costante e affidabile se una persona era in grado di guidare in modo sicuro.
La mancanza di orientamento (per esempio guidare sul lato sbagliato della strada o l’incapacità di mantenere la posizione di corsia) è un indicatore chiave per determinare se la guida si è deteriorata.
Ad oggi, oltre alle prove su strada, non vi è consenso sui test da utilizzare per la valutazione. I ricercatori stanno lavorando per sviluppare una batteria di test adeguata e condivisa, anche perché con l’invecchiamento della popolazione, avremo un numero crescente di persone con deficit cognitivi.

“Questi giovani sono tutti uguali!”. Conformismo adolescenziale e bisogno di autonomia

L’adesione alle norme di un gruppo si manifesta in modo plateale nel fenomeno del conformismo: ragazzi di una medesima compagnia adottano abiti, acconciature, modi di fare simili, tali da accentuare una sorta di identità collettiva.

Chiara Carlucci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

L’adolescenza come fase della vita

L’ adolescenza è quel periodo di transizione tra la fanciullezza e l’età adulta, e si configura come un percorso segnato da una serie di cambiamenti di vario tipo.
Indiscutibilmente a questa età si assiste a mutamenti di tipo fisico, in quanto è proprio in adolescenza che si manifesta la pubertà. Ma è pur vero che a questi cambiamenti corporei si accompagnano rilevanti modificazioni dell’assetto sociale e personale.

È opinione comune che a questa età il rapporto figli – genitori divenga difficile. Sicuramente tra i ragazzi adolescenti e i loro genitori si inizia a far sentire il cosiddetto “gap generazionale”, ossia una discontinuità nel modo di comportarsi. Tale discontinuità riguarda non solo il ruolo genitoriale rivestito nel presente, ma anche un confronto in merito al passato, quando i genitori erano a loro volta adolescenti. Ragazzi e ragazze vestono in modo diverso rispetto ai propri genitori, parlano un linguaggio differente con argomenti diversi.

 

L’appartenenza ai gruppi durante l’adolescenza

Queste diversità, i gusti e le scelte quotidiane dei ragazzi e delle ragazze, rendono manifesto il bisogno di autonomia dalla famiglia, e nel contempo danno visibilità all’appartenenza al gruppo di coetanei.
Man mano che l’adolescente si allontana dalla famiglia ricerca sempre più attivamente la relazione con i pari.
Inizialmente, durante la preadolescenza, vi sono delle piccole cricche, formate da gruppi di soli ragazzi o sole ragazze.
Successivamente questi gruppi omogenei per sesso e molto esclusivi divengono più ampi, delle vere e proprie compagnie, comprendendo membri di sesso diverso. Appartenere a un gruppo di pari rappresenta il soddisfacimento di un bisogno di indipendenza, e pare un obiettivo che l’adolescente considera irrinunciabile; ma entrare a far parte di un gruppo non è semplice. Anche il gruppo adolescenziale ha delle norme, la cui accettazione più o meno consapevole determina non solo l’appartenenza, ma anche il grado di soddisfazione personale che se ne ricava e il modo in cui si viene percepiti dall’altro (Berti, Bombi, 2005).

 

Il conformismo ai gruppi di appartenenza

L’adesione alle norme di un gruppo si manifesta in modo plateale nel fenomeno del “ conformismo ”: ragazzi di una medesima compagnia adottano abiti, acconciature, modi di fare simili, tali da accentuare una sorta di identità collettiva.

Si tratta di un fenomeno che spesso suscita allarme negli adulti che stanno a stretto contatto con l’adolescente. I genitori temono che i propri figli siano disposti a cedere a qualsiasi influenza, e che il gruppo proponga inevitabilmente comportamenti antisociali.
I primi studi che hanno esaminato il conformismo, negli anni ’50, hanno posto l’accento sulla funzione socializzante e adattiva che il gruppo assume di contro all’inadeguatezza della famiglia a svolgere tale compito.
Tali ricerche non hanno fatto altro che enfatizzare gli aspetti negativi del conformismo e dell’appartenenza al gruppo: l’adolescente è rappresentato come un soggetto passivo, il cui processo di emancipazione dalla famiglia si realizza secondo modalità regressive di fusione con il gruppo (Coleman, 1983).

Una ricerca di Amerio ha messo in discussione tale visione, ponendo l’accento sul gruppo percepito come “scambio” e luogo di interazioni sociali complesse. Per quest’autore lo “stare insieme” degli adolescenti è molto importante sul piano affettivo, cognitivo e sociale.
Il ragazzo che rispetta le norme del proprio gruppo di appartenenza non è passivo, piuttosto è un soggetto attivo, il quale costruisce le proprie competenze in un contesto di interazione sociale (Amerio, cit. in Trentini, 1987).

 

La devianza giovanile

Una serie di ricerche che sono state condotte negli anni a seguire ha messo in luce che le preoccupazioni dei genitori in merito al conformismo e al favoritismo adolescenziale riguardavano il fatto che potesse verificarsi, all’interno del proprio gruppo di appartenenza, una tendenza all’omologarsi a delle norme di gruppo un po’ trasgressive, quali il fumare, il bere, il drogarsi (Darcy, Deanna, Vivek, 2000).
Queste considerazioni hanno stimolato ulteriori ricerche che hanno coinvolto un gran numero di ragazzi adolescenti. Essi sono stati intervistati in merito alle norme e ai comportamenti condivisi all’interno del proprio gruppo di pari.

Analizzando le varie risposte sembrerebbe che alcuni comportamenti trasgressivi, quali il fumare, il bere una volta ogni tanto, guidare in modo spericolato, erano dai giovani considerati tollerabili ma, di contro, il rifiuto delle droghe pesanti era una regola importantissima del gruppo.
Queste considerazioni pongono l’accento su un ulteriore fenomeno, ossia la cosiddetta “devianza adolescenziale”.

Bisogna infatti tener presente che l’inizio dell’adolescenza segna un picco nel comportamento antisociale (Coie e Dodge, 1998). L’adolescente, un po’ per moda, un po’ per acquisire visibilità all’interno del proprio gruppo, inizia ad infrangere le regole.
Molto frequenti a questa età sono le assenze ingiustificate a scuola e le fughe da casa. Sovente a queste lievi condotte trasgressive si aggiungono azioni illegali vere e proprie, quali piccoli furti, atti di vandalismo, risse.

Una ricerca condotta da Bonino, Cattelino e Ciairano nel 2003 (cit. in Berti, Bombi, 2005) ha esaminato queste condotte devianti adolescenziali ed ha constatato che raramente questi comportamenti sfocino in condotte delinquenziali, in quanto queste trasgressioni svolgono delle funzioni psicologiche, quali l’affermazione del sé, il desiderio di piacere ai coetanei e di cementare il rapporto con essi attraverso delle condotte oppositive nei confronti degli adulti.
Quindi, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un omologarsi al proprio gruppo al fine di sentirsi indipendenti dagli adulti, sebbene la propria compagnia di coetanei proponga delle norme trasgressive.

 

Il decremento del conformismo adolescenziale dopo i 15 anni

Ma è vero che il conformismo adolescenziale raggiunge il suo culmine tra gli 11 e i 15 anni per poi decrescere nella tarda adolescenza, dove diviene importante, agli occhi dei giovani stessi, saper resistere alle pressioni dei coetanei. Dal bisogno selettivo indiscriminato del ragazzo si passa a forme di appartenenza più selettiva, per cui l’adolescente partecipa solo a quelle situazioni sociali che danno sostegno all’immagine sociale di sé cui tende (Bar Yam, 1987).

Infatti il conformismo si ridimensiona notevolmente con il trascorrere degli anni, e una regione di ciò è anche relativa alla perdurante importanza della famiglia che ridimensiona l’influenza del gruppo.

Sembrerebbe infatti che ragazzi e ragazze, quando si tratta di fare il nome delle persone per loro più importanti, nominano tipicamente i genitori o qualche parente stretto. Il gruppo di pari influenza sicuramente i gusti musicali, le mode del momento e la scelta degli amici da frequentare, ma se si tratta di affrontare o ricevere consigli su questioni importanti sono i genitori ad essere consultati (Steinberg, 2001).
Inoltre, nella tarda adolescenza, il gruppo di coetanei viene ridimensionato di importanza.
Sicuramente i ragazzi continuano a frequentare il proprio gruppo di amici al fine di trascorrere il tempo con coetanei che hanno le medesime abitudini e bisogni, ma col trascorrere del tempo essi tendono a privilegiare un amico della propria età come confidente dei propri dubbi e stati d’animo e come consigliere delle proprie scelte.

Per di più padre e madre risultano essere i punti di riferimento principali in alcuni ambiti decisionali, come ad esempio la scelta del lavoro.

 

Conclusioni

Concludendo si può quindi asserire che il conformismo adolescenziale è un fenomeno abituale di questa età e non preoccupante.
I giovani si conformano alle norme del proprio gruppo al fine di raggiungere l’indipendenza dalla propria famiglia.
Ciò non significa che i genitori vengano ridimensionati d’importanza, al contrario restano delle figure di riferimento essenziali quando si tratta di affrontare questioni ritenute più importanti, in particolar modo quelle che concernono il proprio futuro.

Senza dimenticare che il processo di conformismo in un certo senso fa in modo che i genitori non vengano più percepiti come delle figure controllanti e quindi un po’ “fastidiose” per l’adolescente bisognoso di autonomia. Bensì con il trascorrere dell’età, e di conseguenza con la conquista di una maggiore indipendenza, il ragazzo impara a percepire i propri genitori come figure dal ruolo più amichevole e quindi vi si rapporterà ad essi con maggior facilità.

Animato, inanimato, trasformato…semplicemente cibo: come si rappresentano gli alimenti nel cervello?

Nonostante la centralità di questo “concetto” nelle nostre vite, la ricerca ha fatto poco per scoprire l’organizzazione semantica del cibo nel nostro cervello. Una rassegna della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste mette in ordine la conoscenza finora acquisita, inserendola nelle teorie attualmente usate per spiegare la categorizzazione semantica.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

 

L’approfondimento offre un inquadramento concettuale utile alla ricerca futura, anche per mettere alla prova le diverse teorie. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Psychonomic Bulletin Review.

È sorprendente che, nonostante il cibo sia un elemento centrale delle nostre vite, le neuroscienze abbiano dedicato finora pochi sforzi nel comprendere come questo venga rappresentato nel cervello. Consci di questa mancanza, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA dove dirige il laboratorio INSuLa, e Francesco Foroni, ricercatore della SISSA, hanno compilato una rassegna, che ha analizzato i lavori disponibili.

Una delle novità della ricerca è di aver preso in considerazione anche i lavori su pazienti con lesioni cerebrali. Sono infatti purtroppo pochissime le ricerche di questo genere e Rumiati e Foroni hanno dunque cercato fra quelle ricerche che hanno usato fra gli stimoli oggetti nella categoria alimentare, filtrando poi i risultati attraverso la lente delle teorie più diffuse di categorizzazione semantica.

La prima teoria, l’ipotesi sensoriale-funzionale fu proposta da Elizabeth Warrington, Rosaleen McCarthy e Tim Shallice negli anni ‘80 del secolo scorso. Secondo questa teoria gli oggetti sono divisi in base al tipo di analisi che viene fatta sullo stimolo. In pratica secondo questa teoria, gli oggetti animati sono esaminati principalmente in base alle loro caratteristiche sensoriali (colore, granulosità superficiale, sapore, odore, ecc.) mentre i manufatti sono analizzati in base alla loro funzione. Questa teoria ha ricadute interessanti sul cibo, perché fa supporre che i cibi non processati (non cotti o elaborati dell’uomo in qualche modo) ricadrebbero nella seconda categoria (insieme agli oggetti inanimati) mentre i cibi “naturali” (una mela per esempio) in quella degli oggetti animati.

Una seconda teoria (dominio-specifica) è stata formulata più recentemente da Alfonso Caramazza e sostiene che i nostri meccanismi di categorizzazione semantica sono stati plasmati dalla selezione naturale. Per questo motivo raggruppiamo gli oggetti in categorie importanti per la nostra sopravvivenza (animali, piante, conspecifici, ecc.). Questa teoria non divide gli oggetti in categorie rigide (come la precedente) e per il cibo, una categoria fondamentale per la sopravvivenza, fa supporre che le caratteristiche rilevanti possano essere tanto funzionali quanto di natura sensoriale.

Rumiati e Foroni hanno inoltre esaminato i dati alla luce di un’altra visione della categorizzazione semantica che deriva direttamente dalle teorie dell’embodied cognition. Secondo questa posizione la categorizzazione degli oggetti è fondata sull’attivazione del sistema sensoriale e motorio.

Per capire meglio può essere utile un esempio: udire la parola rosso attiverebbe anche le aree del cervello dedicate alla percezione del colore, nonostante questo non sia stato direttamente osservato. L’esposizione a un certo oggetto (in questo caso di natura visiva ma evocato in modalità udiva) mette in funzione le aree sensoriali anche quando non stimolate, e questa attivazione serve a comprendere e riconoscere l’oggetto di cui si sta facendo esperienza. L’osservazione di un utensile, per esempio un martello, provocherà l’attivazione delle aree che controllano la muscolatura della mano, e via dicendo. Secondo questa visione l’esposizione a stimoli alimentari porterà all’attivazione delle aree del gusto, per esempio, anche se queste non vengono attivate in maniera diretta con l’assaggio.

La rassegna mostra che il quadro è ancora troppo frammentario per far prevalere un’impostazione teorica sull’altra.

La ricerca legata al cibo nell’ambito alla categorizzazione semantica è ancora troppo scarsa – spiega Rumiati. – Quello che osserviamo però di importante è che è proprio la categoria ‘cibo’ che può aiutare la ricerca a disambiguare fra le varie impostazioni anche nel quadro più generale: il cibo infatti è uno stimolo trasversale, che possiede caratteristiche degli oggetti animati e anche di quelli inanimati, in più è fondamentale per la sopravvivenza e quindi ha un valore importante a livello evolutivo.

Nella rassegna gli autori hanno fornito una visone schematica delle previsioni coerenti con ciascuna delle teorie indicate.

In questo modo chi farà ricerca in futuro avrà un riferimento da utilizzare nel progettare esperimenti e stimoli – aggiunge Rumiati.

Una raccomandazione importante che emerge nella rassegna è sul fronte degli stimoli sperimentali: serve maggior attenzione sulle variabili che si mettono in gioco quando si presenta un alimento.

Ci sono molte dimensioni implicate: le caratteristiche sensoriali (il colore per esempio), ma anche il grado di ‘trasformazione’ dell’alimento (è un alimento naturale, o cucinato?), e le calorie percepite (quanto nutriente è?). Tutte cose da tenere sotto controllo – conclude la scienziata.

Il gruppo di Rumiati alla SISSA ha infatti messo a punto un database, gratuito e aperto a tutti, dove sono disponibili immagini di cibo standardizzate rispetto a queste variabili, che può essere molto utile a chi fa ricerca in questo campo. Il database si chiama FRIDA ed è disponibile alla pagina http://foodcast.sissa.it.

VIII Giornata Cognitiva Varesina, Maggio 2016 – Report dal Convegno

Si è svolta sabato 7 maggio 2016 l’ottava giornata cognitiva varesina, convegno annuale organizzato da Silvia Rinaldi e Adriana Pelliccia, dedicato ad argomenti clinici sempre stimolanti e intrigante.

 

Perché a Varese si incontrano psicoterapisti che, pur all’interno del paradigma cognitivo, portano diverse prospettive e orientamenti, a cominciare dal confronto tra anima costruttivista e razionalista del cognitivismo italiano.

Le giornate varesine seguono una loro vena d’imprevedibilità nella scelta del tema da dibattere, con trovate che risvegliano la curiosità dei partecipanti. Quest’anno il tema era il segreto, o meglio il fantasma del segreto. Il segreto in psicopatologia, sia cognitiva che non, una riflessione sugli episodi, gli eventi, ma anche gli affetti e i pensieri, insomma tutte le cose che sono tenute nascoste, che non sono condivise e non sono confidate.

E sono molte queste cose, in psicopatologia. In tutte le sofferenze legate ai traumi sessuali, per cominciare, il segreto la fa da padrone. Il segreto su episodi ambigui, non facili da decifrare, sia per l’età delle vittime che per la condotta subdola del perpetratore. Ma anche in late patologie emotive vi sono segreti. Nei disturbi alimentari, in cui il cibo non mangiato o vomitato viene nascosto. Nell’abuso di sostanze, in cui la dipendenza dalle droghe, dall’alcol o da altro è continuamente dissimulata. E così via. È un tema da psicologia familiare, sociale e sistemica, ma ha anche i suoi rivolti cognitivi.

La rosa dei relatori era molto ricca. Il primo ad affrontare il tema del segreto è stato Giorgio Rezzonico, che ha parlato via skype superando coraggiosamente alcuni ostacoli di salute che lo tormentano. Rezzonico, provocatorio all’interno di un programma che già voleva essere poco ortodosso, nella relazione ‘Il segreto dei segreti‘ ha finito per accennare anche agli aspetti positivi del segreto, della sua natura di segale che protegge lo spazio privato del sé, per usare una vecchia espressione di Masud Khan.

A Rezzonico ha risposto Christine Meier, che nella relazione ‘L’omaggio avvelenato‘ ha delineato una psicopatologia del segreto nelle relazioni, campo in cui la collega è molto preparata.

Dopo la Meier, Silvia Nanni ha parlato delle applicazioni in criminologia del tema del segreto. La sua relazione si chiamava ‘Il segreto e le immagini‘.

Patrizia Todisco ha portato la sua lunga esperienza nei disturbi alimentari per parlare dei segreti delle anoressiche e delle bulimiche, mentre Mario Redo ha esplorato il tema del segreto nell’adolescenza, altra età ricca di detti di non detti, altrettanto propizi per il segreto.

Una relazione istruttiva è stata quella di Pellai, che ha parlato del tema attuale della distruzione della privacy favorita dalle tecnologie social online. La casistica di Pellai è molto ricca e illuminante su come nei social ci si esponga a una patologia rovesciata del segreto, in cui tutto è confessato pubblicamente e ingenuamente. E al tempo stesso Pellai ha esplorato la faccia nascosta, in cui soprattutto i giovani si fanno adescare da individui che percorrono il web alla ricerca di vittime da affascinare, contando sul segreto per compiere i propri misfatti.

Il convegno è proseguito nel pomeriggio con una serie di plenarie brevi, aperta da Silvia Rinaldi, e poi con le presentazioni sul segreto nella terapia sensomotoria (Patti e Bazzana), il segreto nelle donne (Pulatti), nei bambini (Tomba), nella coppia (Dodet) e nelle corsie di ospedale (Trotti).

Disturbi alimentari: La famiglia anoressica

Famiglia anoressica: Le donne con anoressia hanno a che fare con madri più iperprotettive e controllanti rispetto alla restante parte della popolazione. Inoltre, i padri sono più invadenti, si rapportano alle figlie solo per fornire loro un sostegno emotivo tramite il cibo e spesso interagiscono con le figlie riproponendo la stessa relazione maladattiva sviluppata con la moglie, caratterizzata principalmente da emozioni negative.

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi alimentari: La famiglia anoressica (Nr. 21)

 

La famiglia anoressica

La letteratura esistente in merito alle cure genitoriali nei confronti dei bambini con anoressia ci dice che i genitori, nel gestire l’interazione con il figlio/a, sviluppano processi di negoziazione in cui cercano di mediare tra i propri sentimenti di colpa e di frustrazione, sforzandosi di comprendere la malattia per adattarsi alla cura del bambino (Treasure et al. 2001).

È stato anche osservato che i pazienti con anoressia tendono a negare i loro problemi e a idealizzare la propria famiglia, un atteggiamento che può mascherare le reali questioni familiari di fondo. Le anoressiche mostrano una minore indipendenza, un eccessivo senso di colpa, sfiducia e risentimento in situazioni conflittuali per entrambi i genitori. Una famiglia in cui i confini sono particolarmente fragili, ovvero “invischiata”, per usare un termine sistemico, rappresenta un importante fattore di genesi e sviluppo del disturbo alimentare (Minuchin, 1978). Una famiglia del genere presenta una carenza di differenziazione e di individuazione. Oltre all’anoressia, problemi di mancata differenziazione sono stati associati ad altri disturbi psicologici tra cui la depressione, i disturbi d’ansia e ‘”identità di genere” (Fish et al. , 1991; Fullinwider-Bush, Jacobvitz, 1993; Jacobvitz, Bush, 1996).

Le donne con anoressia hanno dimostrato di essere meno individualizzate rispetto ai soggetti di controllo (Smolak, Levine, 1993), e mostrano bassi livelli di indipendenza familiare (Felker, Stivers, 1994; Federico, Grow, 1996). Le anoressiche, generalmente, riferiscono problemi di confine relazionale con la madre e con il padre (Kog, Vandereycken, 1989; Kog et al. , 1987). Le difficoltà inerenti i confini non sembrano essere specifici per l’anoressia, anche se in presenza di depressione materna potrebbero essere fondamentali per lo sviluppo del disturbo alimentare.

 

Le relazioni dell’anoressica con la madre e il padre

La discrepanza dei risultati potrebbe essere dovuta al fatto che i bambini con disturbo alimentare hanno una minore percezione del cattivo funzionamento familiare rispetto alle bambine (Kanakis, Thelen, 1995). La famiglia delle anoressiche è stata descritta come rigida, con alto livello di invischiamento, conflitti e iperprotezione. Ma è uno scenario che rischia di essere semplicistico. Un quadro più ricco è quello che emerge dall’osservazione della diade madre-figlia. Le donne con anoressia hanno a che fare con madri più iperprotettive e controllanti rispetto alla restante parte della popolazione. Inoltre, i padri sono più invadenti, si rapportano alle figlie solo per fornire loro un sostegno emotivo tramite il cibo e spesso interagiscono con le figlie riproponendo la stessa relazione maladattiva sviluppata con la moglie, caratterizzata principalmente da emozioni negative.

Sembra dunque che una relazione invischiante col padre determini una maggiore possibilità di sviluppare anoressia, mentre i problemi di confine con le madri hanno un impatto diverso sullo stato di salute delle figlie. I problemi di confine sembrano produrre relazioni più patologiche con le madri, stante quando riferiscono le adulte anoressiche. Forse perché le anoressiche adulte soffrono di una forma più cronica di disturbo alimentare, che è accompagnato da relazioni più problematiche con la madre. È importante prendere in considerazione il rapporto padre-figlia per capire come la violazione dei confini sia legata ai sintomi anoressici.

Un certo numero di studi ha anche suggerito l’importanza del ruolo paterno in anoressia (Calam et al. , 1990; Steiger et al. , 1989): i padri possono promuovere un adeguato e sano sviluppo delle proprie figlie e sono necessari per aiutare la prole a effettuare il naturale processo di individuazione nei confronti delle madri (Kalter et al. , 1985).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Giovani e pornografia: quali effetti sullo sviluppo psicoemotivo?

Pornografia: La domanda che ci poniamo in questo articolo è quale effetto potrebbe avere la visione di contenuti pornografici, spesso espliciti, sullo sviluppo psicoemotivo e/o cerebrale di un ragazzo?

Chiapasco E., Fantuzzi G.

 

Introduzione: l’uso della tecnologia da parte dei ragazzi

Le statistiche mostrano come in media i giovani si connettano ad internet ad un’età sempre più precoce; i dati ISTAT relativi al 2014 evidenziano infatti che il 44,4% dei bambini dai 6 ai 10 anni e l’80,8% dei ragazzi dagli 11 ai 14 anni è connesso al mondo del web.

I ragazzi svolgono moltissime attività online, giocano, cercano informazioni, ascoltano musica, guardano video, socializzano. Tra queste attività ce n’è una che a nostro avviso necessita di una particolare attenzione, quella della visione e scambio di materiale con contenuti sessuali.

Non esistono dati precisi sul fenomeno ma secondo una indagine condotta dal Telefono Azzurro e Doxa Kids nel nostro paese, pare che il 35,9% dei ragazzi scambi immagini/video/testi con contenuti sessuali (cd sexting) ( Telefono Azzurro & Doxa Kids, 2014).

 

Gli effetti della pornografia sullo sviluppo psicoemotivo dei giovani

La domanda che ci poniamo in questo articolo è quale effetto potrebbe avere la visione di questi contenuti, spesso espliciti, sullo sviluppo psicoemotivo e/o cerebrale di un ragazzo? Secondo la dott.ssa Reisman (2003), famosa ricercatrice nel campo della sessualità, la visione di un contenuto inappropriato (come può esserlo uno pornografico) determina una forte reazione emotiva, modificando la struttura cerebrale dell’emisfero sinistro e, quindi, la sua funzionalità cognitiva. Inoltre, uno studio recente, condotto dal Max Planck Institute, ha indagato il volume della materia grigia nel cervello rispetto all’uso di materiale pornografico (Kühn, & Gallinat, 2014). La ricerca è stata condotta su 64 soggetti maschi adulti considerati “forti consumatori di pornografia (“con più di 4 ore a settimana”). Attraverso il monitoraggio con risonanza magnetica, i ricercatori hanno osservato che il volume della materia grigia nel nucleo caudato destro dello striato è più piccolo in coloro che fanno un uso eccessivo di video pornografici rispetto a chi, invece, non ne è un consumatore abituale.

È inoltre possibile ipotizzare che più giovane sarà il soggetto che visualizza queste immagini, meno sviluppati saranno gli strumenti (e le strutture cerebrali) che avrà a disposizione per poter capire ciò che vede. Secondo Tagliavini, infatti, in giovane età non è necessario che un’esperienza sia particolarmente intensa per esser traumatica e perturbante (Tagliavini, 2011); questo perché il sistema nervoso non è ancora completamente sviluppato e, quindi, anche eventi lievemente perturbanti potrebbero agire comunque in modo traumatizzante per il soggetto.

Un segnale sensoriale derivante dalla vista o dall’udito, infatti, trova una risposta nell’organismo attraverso l’attivazione emotiva a carico dell’amigdala (centro deputato a gestire le emozioni e coinvolto nei sistemi della memoria emozionale), senza che la neocorteccia, ossia la nostra parte più razionale e cognitiva, ne venga necessariamente coinvolta (Goleman, 1997). I bambini, non avendo ancora tutte le strutture cerebrali sufficientemente evolute per poter integrare a livello cognitivo l’esperienza esperita, affideranno ad una parte più emotiva l’elaborazione degli input esterni. L’esperienza della visione di alcuni contenuti pornografici in giovane età, a partire da una iperattivazione emotiva e dall’impossibile integrazione di tali contenuti a livello cognitivo, potrebbe quindi generare delle memorie, in alcuni casi traumatiche, che potrebbe condizionarne il loro futuro sviluppo affettivo/sessuale.

 

Conclusioni

Se si lascia alla pornografia il compito di avvicinare i giovani alla sessualità il rischio è quello di offrire loro una rappresentazione della vita sessuale disincarnata, volgare e priva di qualsivoglia connotazione emotiva-sentimentale. Il rischio è, quindi, quello di connotare normale ed accettabile qualcosa che, invece, è molto lontano da una sana sessualità.
Di fronte a un fenomeno così esteso e pervasivo che coinvolge ragazzi ad una età sempre più precoce, diventa assolutamente necessario promuovere in loro delle nuove competenze che consentano di poter decodificare correttamente un’immagine per poterla collocare nella giusta cornice di riferimento. In quest’ottica, se da una lato il mondo degli adulti dovrebbe attivarsi con urgenza per proteggere i ragazzi dalla visione di certi contenuti, dall’altro dovrebbe investire risorse per una educazione alla sessualità e all’affettività già in programmi pensati per le scuole elementari con una particolare attenzione a quello che avviene nel mondo del web.
La protezione da certi contenuti e l’educazione alla sessualità e all’affettività, devono essere considerate un diritto per i nostri ragazzi e un dovere per un mondo adulto che sembra talvolta osservare questi fenomeni senza poi concretamente intervenire.

Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) – Recensione

Questo testo affronta in maniera chiara una delle condizioni cliniche che causano elevata sofferenza mentale, spesso non diagnosticata perché ritenuta da molti professionisti della salute mentale troppo rara da incontrare o ritenendola secondaria rispetto ad altri disturbi: il Disturbo di Depersonalizzazione (DPD, Depersonalization Disorder), che rientra in una delle tante problematiche psicologiche non appartenenti ad una categoria specifica.

 

Il libro è stato scritto in tempi in cui la nosografia psichiatrica faceva riferimento al DSM-IV-TR, ma nel DSM-V la depersonalizzazione viene descritta in maniera inalterata, aggiungendo una descrizione meticolosa che non è cambiata nel tempo, forse proprio perché ancora poco studiata e poco diagnosticata.

Secondo una delle autrici, l’illustre esperta professoressa Fugen Neziroglu, psicoterapeuta cognitiva e comportamentale, sapientemente intervistata dal Dott. Sanavio, purtroppo la depersonalizzazione/derealizzazione spesso non viene diagnosticata, e molti di questi pazienti hanno invece ricevuto una diagnosi di depressione, due disturbi che pur avendo sintomi in comune tra loro, in realtà sono molto diversi:

I pazienti depersonalizzati solitamente si chiedono se ci sia qualcosa di sbagliato nel loro cervello, come se si sentissero neurologicamente danneggiati. Sanno quello che dovrebbero provare, ma non sentono più nulla. Raccontano di sentirsi insensibili e di vivere in un mondo irreale. Inoltre, anche le loro percezioni risultano alterate: gli oggetti sembrano molto distanti, appaiono strani, i rumori possono essere più forti di quanto siano in realtà. Questa sintomatologia non viene vissuta, invece, dai pazienti depressi.

Talvolta questi pazienti giungono con un’autodiagnosi (miracoli di Internet).

Con una esposizione chiara e dettagliata, il libro offre una spiegazione dettagliata sul DPD, rivolgendosi sia ai non addetti ai lavori sia ai clinici che cercano un solido punto di riferimento per il trattamento dei loro pazienti, offrendo sostanzialmente le proposte terapeutiche secondo i principi dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e della DBT (Dialectical Behaviour Therapy), e suggerendo in ultima analisi altri possibili strategie di intervento, compresa quella farmacologica.

Nei primi tre capitoli vengono di fatto presentati gli aspetti di questa condizione, spiegandone i sintomi e i criteri diagnostici, e come il DPD possa influenzare la vita di una persona. I sintomi vengono descritti in base alle possibili modalità di esperire la depersonalizzazione, in riferimento alla diverse aree della vita che possono venire colpite.

Attraverso la proposta di alcuni semplici esercizi, le autrici cercano di evidenziare come sia arduo liberarsi della depersonalizzazione, e come anche il tentativo di eliminarla possa in realtà avere l’effetto di ingigantirla: costruire una rigida routine di evitamento per cercare di arginare la sofferenza e sottrarsi a certe sensazioni spiacevoli, allo stesso tempo priva la persona di importanti aspetti della propria vita. Analizzando le possibili cause alla base del DPD, il libro ipotizza un’origine multifattoriale, data dalle componenti psicologiche, biologiche, chimiche o ambientali:

  • Origine traumatica (abusi, abbandono, particolari avvenimenti storico-sociali, stress di livello estremo, oppure altri disturbi psicologici, come ad esempio l’ansia associata alle fasi sintomatiche del DOC);
  • Uso di stupefacenti (marijuana, ketamina o altri allucinogeni);
  • Anomalie neurochimiche o neuroanatomiche, nella forma della trasmissione di certi segnali neurochimici che possono avere effetti sull’esperienza di depersonalizzazione e della comunicazione tra alcune aree del cervello che possono interferire con l’integrazione sensoriale.

Nel quarto capitolo, il testo analizza i problemi associati al disturbo di depersonalizzazione, distinguendo tra depersonalizzazione cronica (o primaria, solitamente legata ad un trauma o ad una forte sofferenza emotiva di qualche genere, o all’uso di droga) ed episodica (o secondaria, talvolta utile a gestire situazioni estremamente stressanti con una compostezza distaccata e insensibile). La depersonalizzazione ed altre esperienze dissociative sono infatti estremamente comuni anche in molti disturbi psicologici: il disturbo di panico, il PTSD, il disturbo borderline di personalità, il disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi dell’umore. E’ comune che un sovraccarico emotivo favorisca la comparsa delle reazioni di depersonalizzazione.

Nel quinto capitolo, le autrici approfondiscono la depersonalizzazione secondo la prospettiva dell’Acceptance and Commitment Therapy, offrendo un contributo originale su questo argomento. Secondo tale prospettiva, vengono evidenziati i sei processi disfunzionali che facilitano la sofferenza mentale:

  • Fusione cognitiva;
  • Definirsi in base alle proprie convinzioni su di sé;
  • Rimuginazione e preoccupazione;
  • Evitamento esperenziale;
  • Mancanza di valori chiari;
  • Repertorio comportamentale ristretto

L’intreccio di tali fattori, produce una tendenza all’inflessibilità psicologica, con una propensione generale a cercare di evitare le esperienze spiacevoli e, con esse, certi ambiti importanti della vita. In tale ottica, la depersonalizzazione può costruire una routine inflessibile, nel tentativo di limitare la sofferenza e contemporaneamente ostacolare la ricchezza e la diversità delle esperienze.

Nel capitolo settimo, le autrici offrono particolare risalto alla gestione della depersonalizzazione attraverso la ACT, proponendone i sei processi funzionali spiegati con esempi ed esercizi di pronta applicazione:

  • La defusione cognitiva, una strategia che serve ad affrontare i processi spiacevoli, evitando che pensieri ed emozioni spiacevoli condizionino i comportamenti;
  • Entrare in contatto con il proprio Sé osservante, (inteso come la parte di sé stessi che ha sempre osservato ogni pensiero, stato d’animo, ruolo, interesse e fase di sviluppo fisico attraversati) per non perdere di vista la transitorietà delle esperienze emotive e gli alti e bassi della vita;
  • La mindfullness, come consapevolezza immediata dell’esperienza;
  • La disponibilità e l’accettazione, in opposizione all’evitamento;
  • Chiarire i propri valori, e rivelare così le aree importanti della propria vita che possono orientare nelle scelte che contano;
  • L’azione impegnata, cioè coerente con i propri valori e compiuta con accettazione e disponibilità a provare l’inevitabile malessere.

Accanto all’ACT, il libro propone un altro approccio orientato all’accettazione: la terapia dialettico-comportamentale (DBT), concepita originariamente dalla Linehan per il trattamento del disturbo borderline di personalità, e fondato sull’accettazione delle ambiguità e delle contraddizioni della vita in risposta ai sentimenti contraddittori (ad esempio grandiosità ed insicurezza) e alla presenza di idee opposte, normalmente provati da ognuno di noi, che non implicano necessariamente un guasto al sistema. Secondo tale approccio quindi, è necessario in tali situazioni agire nel mondo più funzionale, anche quando contraddice i nostri sentimenti, sviluppando quattro abilità: la mindfullness, la tolleranza della sofferenza, la regolazione delle emozioni e l’efficacia interpersonale. Le autrici illustrano nel settimo capitolo tali abilità, adattate alla depersonalizzazione, presentando degli esercizi utili per il loro apprendimento.

Nel capitolo ottavo, il libro suggerisce delle strategie di terapia comportamentale, utili ad ancorarsi al momento presente attraverso l’esposizione alle cose, alle emozioni e alle sensazioni che creano disagio, al fine di ottenere una vita più piena. Vengono così presentati degli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta, che implicano l’esporsi a ciò che di fatto possa essere collegato a depersonalizzazione o sensazioni di depersonalizzazione. L’obiettivo delle autrici è spiegare come attraverso il comportamento si possa aumentare il contatto con la realtà e gli aspetti piacevoli della vita, per ‘fingere finché non lo si sente‘, lasciando cioè che i comportamenti precedano l’entusiasmo, nella speranza che questo poi arrivi.

Nel nono capitolo viene dato spazio agli altri possibili trattamenti: dalla terapia cognitivo comportamentale tradizionale (TCC), risultata efficace per la cura della depersonalizzazione, alla terapia farmacologica, orientata alla cura dei sintomi della depersonalizzazione, sottolineando come gli antidepressivi possano alleviare la depressione secondaria o il malessere associati al DPD, gli stimolanti possono aiutare i sintomi cognitivi, e le benzodiazepine possono alleviare l’ansia secondaria. Le autrici fanno riferimento anche a due trattamenti sperimentali: la stimolazione magnetica transcranica e la cingolotomia, presentandone rischi, vantaggi e prospettive per il futuro.

La disortografia – Introduzione alla psicologia

La disortografia è una disabilità di apprendimento caratterizzata da un importante e durevole difetto di assimilare le regole grammaticali in assenza di un deficit neurologico.

Disortografia: introduzione

Ancora una volta ci troviamo nell’ambito dei disturbi specifici dell’apprendimento per parlare di un deficit rientrante nella sfera dei disturbi legati alla scrittura. La scorsa settimana si è parlato di disgrafia, questa volta presentiamo la disortografia: condizione caratterizzata da una marcata difficoltà nell’apprendimento della scrittura. La disortografia si manifesta attraverso la presenza di errori insoliti a livello ortografico in relazione al livello di scolarità, all’età e al quoziente intellettivo del bambino.

Disortografia: di cosa si tratta

La disortografia è una disabilità di apprendimento caratterizzata da un importante e durevole difetto di assimilare le regole grammaticali in assenza di un deficit neurologico.
Le caratteristiche più comuni della disortografia sono:
– Confusione di fonemi e di grafemi;
– Errori di ortografia;
– Problemi di scrittura simili ai dislessici;
– Problemi legati alla codifica di alcune parole scritte;
– Errori nel copiare le parole;
– Inversione di sillabe;
– Tagli arbitrari di parole;
– Omissione di lettere necessarie in una parola;
– Coniugazioni di verbi errate;
– Errori di analisi del testo;
– Lentezza, esitazione e povertà nella scrittura.

Si tratta, in soldoni, di un problema che insorge, il più delle volte come conseguenza della dislessia, ma in alcuni casi può manifestarsi anche in maniera isolata.

Disortografia: come si manifesta

I segni distinguibili della disortografia possono essere:
– le omissioni di lettere o parti di parola, per esempio fole per folle;
– sostituzioni o inversioni di grafemi;
– errori relativi alle regole ortografiche;
– errori di separazione o fusione di parole.

La grammatica è importante nella produzione di un testo fluente. Gli studenti con disortografia spesso presentano evidenti problemi nella gestione delle regole grammaticali al punto da rendere difficile la comprensione di quanto scritto.
Molti disortografici, inoltre, dimostrano estrema lentezza nella scrittura ed evidenti problemi nel copiato e in tutti i compiti scritti. Tutto questo, ha come esito il rimanere indietro nell’apprendimento rispetto ai compagni di classe. Le conseguenze, chiaramente, sono marcate sia da un punto di vista psicologico, rispetto al gruppo dei pari, sia sociali, in casi estremi si mettono in atto forme di evitamento.

Disortografia: errori tipici

Di seguito sono riportati gli errori più tipici presentati dai disortografici:
– sostituzione di lettere simili graficamente, m/n – v/f – b/d – p/q;
– sostituzione di lettere omofone, b/p – t/d – f/v – s/z;
– inversioni di lettere, da/ad – per/per – da/pa;
– difficoltà di riconoscere gruppi sillabici complessi; gn – ch – gl;
– difficoltà di lettura delle non parole;
– difficoltà di mantenere il rigo di lettura;
– confondere i rapporti spaziali e temporali, dx/sx – ieri/oggi giorni/mesi);
– difficoltà di espressione verbale;
– difficoltà nella ricopiatura dalla lavagna;
– difficoltà a prendere appunti;
– lentezza nella lettura;
– difficoltà nella lettura ad alta voce;
– nella lettura/scrittura ripete sillabe/parole/frasi;
– lettura e scrittura invertita;
– saltare le parole;
– mancata comprensione del testo.

Disortografia: cosa è compromesso

Nel bambino disortografico esiste una grave compromissione del linguaggio, con scarse capacità di percezione e discriminazione visiva e uditiva. Inoltre, il disortografico non riesce ad avere una adeguata rappresentazione grafica di quanto si scrive. Queste persone mostrano una non differenziazione dei due emisferi per le diverse abilità di scrittura, e una mancanza di integrazione spazio-tempo che non gli permette di avere una opportuna conseguenza temporale degli eventi.

Disortografia: cause

In ambito neuropsicologico è stata definita come un meccanismo di non adeguato funzionamento a opera dei diversi processi che generano la scrittura (DeThorne et al., 2008).
Questi meccanismi complessi riguardano numerose funzioni cerebrali, e si esprimono come una carenza di integrazione tra le specifiche reti imputate alla lettura e alla comprensione. L’adeguata acquisizione dei processi che portano al corretto uso della lingua sono mediate dall’attenzione, dalla memoria, dallo spazio e dal tempo, dalla capacità sequenziale, dal ragionamento e dall’astrazione di concetti. Tutto questo non è integrato nel disortografico.
Solitamente, questi problemi insorgono durante la seconda elementare e si protraggono nel tempo. Il più delle volte passano inosservati e confusi con i normali problemi riscontrati durante l’apprendimento, ma se perdurano nel tempo e si intensificano sono indicatori di un estremo disagio a carico della scrittura.

Molti studi, ancora, propendono per l’ipotesi genetica, infatti la probabilità di essere disortografico è otto volte maggiore nei bambini i cui genitori hanno un disturbo inerente alla sfera dell’apprendimento (Bishop et al., 2005). La probabilità è ancora più elevata tra i gemelli identici, il cui tasso di verificabilità del disturbo si aggira intorno all’80% (Owen et al., 2002).
In ultima analisi alcuni studi di genetica confermano si possa trattare di un problema imputabile ai geni presenti sui cromosomi 1, 2, 3, 4, 6, 15, 17 e 18 (Petrill et al., 2006; Plomin et al., 2005).

Disortografia: conseguenze e comorbidità

La disortografia, porta a un evidente dispendio di energie nei compiti scritti, affaticando lo studente che appare al cospetto degli altri svogliato o disattento. È frequente l’associazione con altre problematiche relative alla sfera dell’apprendimento come la dislessia o la discalculia.
I bambini con disortografia possono mostrare disagio psicologico più o meno marcato di fronte ai compagni di classe. Il timore è che gli altri potrebbero avere una scarsa percezione del loro valore con conseguente manifestazione di ansia, bassa autostima e in casi estremi depressione. Di conseguenza possono esitare nel fare domande in classe e ad ammettere che non hanno capito qualcosa, oltre ad assumere sempre una posizione di sudditanza psicologica nei confronti degli amici.

Disortografia: come curarla

Esistono per i disortografici, come per tutti coloro che mostrano disturbi dell’apprendimento programmi personalizzati da utilizzare a seconda del deficit manifestato dal bambino. Inoltre, possono essere usate delle strategie per gestire tale problematica:
– utilizzare un computer;
– utilizzare un dizionario per gli esami con domande saggio;
– usare compiti in cui si prediligono risposte brevi;
– dare più tempo nell’eseguire un compito.

In ultima analisi, è necessario incoraggiare e supportare gli studenti ogni volta che raggiungono un traguardo. In questo modo si riesce a tenere alta l’autostima.

Disortografia: diagnosi

La diagnosi di disortografia può essere effettuata solo alla fine del secondo anno della scuola primaria da uno psicologo e/o da un neuropsichiatra che spesso è affiancato da altre figure professionali, come ad esempio il logopedista.
Inizialmente, il bambino si sottopone a una adeguata valutazione testistica approfondita; questo perché, essendo ogni disortografico diverso dagli altri, è necessario avere una visione globale e dettagliata del problema presentato allo scopo di poter individuare il tipo di intervento idoneo da poter applicare.

Disortografia: terapia

Al termine del percorso diagnostico è possibile attuare specifici trattamenti mirati a integrare e compensare i problemi presentati. Inoltre, sono previsti interventi regolati dalla legge 170/10, come ad esempio la possibilità di usare programmi di videoscrittura al computer, ottenere tempi più lunghi per lo svolgimento dei compiti scritti, e così via.
Infine, possono essere coinvolti nell’iter terapeutico la famiglia e il contesto sociale extrascolastico, importanti per creare una rete di supporto al disortografico.
La collaborazione tra tutti questi soggetti è indispensabile per concertare al meglio un intervento integrato volto al miglioramento repentino della condizione del bambino.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Uno studio interdisciplinare per osservare gli effetti degli attacchi terroristici del 13 novembre sulla popolazione francese

In che modo gli eventi traumatici degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 si sviluppano nella memoria della popolazione, a livello collettivo o individuale? Come la memoria individuale interagisce e si nutre della memoria collettiva e viceversa? E’ possibile, studiando alcuni markers cerebrali, prevedere se nelle vittime si svilupperà un disturbo post-traumatico da stress, e chi si riprenderà più rapidamente?

 

Quelle appena presentate sono alcune delle questioni affrontate nell’ambizioso programma del 13 Novembre coordinato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), dall’’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (Inserm), dall’Hésam Université e dalla collaborazioni di ulteriori numerosi partner.

Questo programma di ricerca transdisciplinare, co-diretto dallo storico Denis Peschanski e dal neuropsicologo Francesco Eustache, si baserà sulla raccolta e l’analisi dei dati di 1000 volontari intervistati quattro volte in dieci anni.

Dato il coinvolgimento di diverse centinaia di persone, questo studio è il primo a livello mondiale in termini di dimensioni, numero di discipline comprese e protocollo utilizzato. Infatti i risultati attesi porteranno beneficio nei settori socio-storico e biomedico, ma non solo, avranno implicazioni anche per quanto riguarda la politica e la salute pubblica.

Dopo l’appello lanciato lo scorso novembre da Alain Fuchs, presidente del CNRS, la comunità di ricerca sta cercando di chiarire i problemi che deve affrontare la società a seguito degli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia nel corso dello scorso anno. Questo invito ha dato luogo a un programma interdisciplinare di una durata prevista di 12 anni.

Coordinato dal CNRS e dall’INSERM in collaborazione con l’Hésam Université, questo progetto si propone di studiare la costruzione e l’evoluzione della memoria dopo gli attacchi del 13 novembre 2015, e il rapporto tra memoria individuale e collettiva.

All’interno del progetto 13 novembre, il ruolo del CNRS sarà quello di sostenere due scienziati scelti per monitorare gli studi che coinvolgono 150 ricercatori di diverse discipline in un programma a lungo termine di una portata senza precedenti – spiega Alain Fuchs – L’Inserm invece si è impegnata sin dall’inizio unendo all’interno del progetto le scienze umane e sociali con gli ultimi progressi delle neuroscienze.

È proprio grazie a questo programma interdisciplinare e ambizioso che sarà possibile rispondere alle domande poste in precedenza.

Saranno raccolte e analizzate le testimonianze di 1000 volontari. Alcuni di questi hanno sperimentato gli eventi da vicino: i sopravvissuti, i loro familiari e amici, la polizia, i militari, i vigili del fuoco, i medici e gli operatori sanitari coinvolti. Altri sono stati colpiti indirettamente, vale a dire i residenti e gli utenti dei quartieri interessati, i Parigini provenienti da altre zone, e infine gli abitanti di diverse città francesi, tra Caen e Metz.

Anche la scala utilizzata in questo studio lo rende innovativo: i 1000 partecipanti saranno seguiti per 10 anni in quattro campagne di interviste filmate (nel 2016, 2018, 2021 e 2026). Le linee guida per le interviste sono state scritte congiuntamente da storici, sociologi, psicologi, psicopatologi e neuroscienziati, in modo tale che il materiale raccolto venga utilizzato da ogni disciplina.

Verrà inoltre eseguito uno studio biomedico in 180 dei 1000 partecipanti: 120 persone colpite direttamente dagli attacchi, alcune delle quali sono affette da disturbo post-traumatico da stress, e 60 che vivono a Caen. Le interviste e la risonanza magnetica al cervello, condotte contemporaneamente e riprese, contribuiranno a far luce su l’impatto dello stress traumatico sulla memoria (inclusi i pensieri e le immagini intrusivi, caratteristica del disturbo post-traumatico da stress), e di identificare i markers associati alla resilienza cerebrale al trauma.

In parallelo, la ESPA, in collaborazione con il programma 13 Novembre, analizzerà attraverso un questionario su Internet l’impatto psico-traumatico degli attacchi terroristici su coloro che sono stati direttamente esposti, e la validità dei canali di assistenza sanitaria.

Il programma è di importanza fondamentale per tutte le discipline scientifiche rappresentate. Gli storici e i sociologi cercheranno di capire come le singole testimonianze vadano a costruire la memoria collettiva. I linguisti misureranno l’evoluzione del lessico e le costruzioni sintattiche. Il neuropsicologo si concentrerà sul consolidamento e ri-consolidamento della memoria e del suo funzionamento. Per quanto riguarda i neuroscienziati, si lavorerà sulle modifiche delle rappresentazioni mentali, sul disturbo post-traumatico da stress e sulla possibilità di eliminare ricordi dolorosi. Gli psicopatologi si concentreranno sull’impatto degli attacchi terroristici sull’immagine di sé, i meccanismi di difesa e il rapporto con la distruttività.

Inoltre, il programma 13 Novembre sarà utile per il diritto penale, le politiche di sostegno alle vittime, la gestione delle crisi e le pratiche commemorative. Le interviste filmate avranno anche un valore come patrimonio mondiale, i quanto preserveranno e trasmetteranno la memoria degli attacchi del 13 novembre.

Il progetto 13 Novembre ha avuto inizio il 13 maggio a Caen e il 2 giugno a Bry-sur-Marne per quanto riguarda le interviste filmate. Lo studio biomedico ha invece avuto inizio il 7 giugno presso l’impianto di imaging biomedico Cyceron a Caen. I primi risultati dovrebbero essere disponibili in autunno 2017, mentre quelli finali sono attesi nel 2028, due anni dopo le ultime interviste.

Amaxofobia: superare la paura di guidare

L’ amaxofobia è la paura invalidante di guidare un automezzo che può avere ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. L’ amaxofobia è una fobia specifica del sottotipo situazionale; si può presentare in diverse situazioni, con modalità differenti e si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche e con differenze interindividuali.

Gaia Benetti, Karoline Nicolussi, OPEN SCHOOL BOLZANO

Fobie specifiche e Amaxofobia

L’ amaxofobia (dal greco antico amaxos, “carro”) è la paura invalidante di guidare un automezzo. Clinicamente, è possibile classificare l’ amaxofobia, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) e nell´ICD-10 (World Health Organization, 2011), come fobia specifica del sottotipo situazionale.
La fobia specifica è definita come una paura persistente, della durata di almeno sei mesi, sproporzionata ed irrazionale verso oggetti o situazioni specifiche, spesso causa di stati ansiosi che possono assumere anche la forma di attacchi di panico. La persona, pur riconoscendo che la paura è esagerata rispetto al pericolo reale, tende ad evitare o a sopportare con forte ansia lo stimolo fobico. La fobia specifica, per essere clinicamente significativa, deve provocare uno stato di stress psicofisiologicamente rilevante ed interferire con la vita della persona. Nel caso del sottotipo situazionale si tratterebbe di un’ansia invalidante causata da una situazione specifica. (American Psychiatric Association, 2015)

Amaxofobia: paura di cosa?

L’ amaxofobia, come fobia situazionale, è caratterizzata da una paura inadeguata e persistente provocata dalla guida di un automezzo o dagli stimoli (reali o immaginati) ad essa collegati. Tale fobia si può riscontrare sia nella popolazione femminile sia in quella maschile di tutte le fasce d’età e livello socio-culturale; le differenze che sembrano sussistere sarebbero, invece, nelle modalità di manifestazione e nella gestione del disturbo da parte dei soggetti (Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Sembra però utile sottolineare che, come nella maggior parte dei disturbi d’ansia, le fobie specifiche colpiscono maggiormente la popolazione femminile rispetto a quella maschile (in rapporto di circa 2 a 1) (Wade, 2010; American Psychiatric Association, 2015) e ciò potrebbe essere uno dei motivi per cui la maggior parte degli studi effettuati, nell’ambito dell’ amaxofobia, spesso utilizzano o citano esclusivamente un campione femminile (cfr. Alpers, Wilhelm, & Roth, 2005; cfr. Taylor, Deane, & Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014).

Inoltre, Taylor e Paki (2008), in una ricerca su di un campione non clinico, hanno rilevato una percentuale tra il 7% e l’8% dei partecipanti caratterizzata da una moderata o estrema paura di guidare ed ansia ad essa collegata; inoltre, in tale ricerca, è emersa una differenza di genere nella tendenza ad evitare alcune situazioni di guida o ad affrontarle con stati di ansia che caratterizzerebbero maggiormente il campione femminile rispetto a quello maschile. Tali evidenze sono state confermate da una successiva ricerca di Taylor, Alpass, Stephens e Towers (2010).

L’ amaxofobia si può presentare in diverse situazioni e con modalità differenti. Secondo Massaro (2014), infatti, la paura di guidare si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche ma con differenze interindividuali nella manifestazione del problema. Nel dettaglio, è possibile distinguere:
la paura di guidare da soli in genere in assenza di una specifica persona al proprio fianco;
la paura di guidare di notte o quando è buio;
la paura di guidare in autostrada e su strade a scorrimento veloce;
la paura di guidare attraverso le gallerie;
la paura di valicare i ponti, in particolare se alti o lunghi;
la paura del traffico nel quale ci si può trovare bloccati o rallentati mentre si è alla guida;
la paura di allontanarsi oltre ad una certa distanza da casa (Massaro, 2014).”
Una paura a sé stante sembrerebbe essere quella di impazzire alla guida ed essere colti da un raptus rischiando, così, di investire veicoli o pedoni oppure trovarsi coinvolti in incidenti stradali (Massaro, 2014; Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Amaxofobia: possibili cause e caratteristiche cliniche

I fattori e le cause che potrebbero essere alla base dello sviluppo di questo disturbo sembrerebbero molteplici. La paura di guidare potrebbe presentarsi all’interno di un quadro generale di disturbo d’ansia o essere correlata ad un disturbo claustrofobico (timore di restare bloccati in una galleria o nel traffico) o agorafobico (paura di attraversare ponti). L’ amaxofobia potrebbe essere, altrimenti, conseguenza diretta di una situazione traumatica (incidenti causati o subiti o meno in prima persona, incidenti subiti da persone care o ai quali si ha assistito) o dipendere da stati di depressione secondari all’invecchiamento del conducente che diventa insicuro delle sue capacità.

Talvolta anche specifici pregiudizi culturali nei confronti della popolazione femminile, potrebbero diventare fonte di ansia ed errate convinzioni di incompetenza alla guida indipendentemente dal conseguimento della patente di guida. Inoltre, l’ amaxofobia potrebbe insorgere in soggetti con elevate pulsioni aggressive che temono di poterle attualizzare alla guida, in preda a raptus improvvisi. Infine, la paura può nascere da una generale condizione di bassa fiducia in se stessi e nelle proprie abilità o da un tema personale che rimanda ad una forte ansia da separazione che potrebbe mantenere il soggetto ad una condizione di dipendenza o di ambivalenza fra autonomia e timore di crescere. (Massaro, 2014). Taylor, Deane e Podd (2006) avrebbero, inoltre, identificato quattro possibili “situazioni pericolose”, fonti di elevata ansia, per un soggetto amaxofobico. I timori maggiormente espressi da questi soggetti sarebbero, infatti, legati alla paura di subire o provocare incidenti, di guidare in specifiche situazioni, condizioni e manovre, di avere attacchi di panico o sintomi d’ansia e il puro giudizio sociale. Tali paure possono diventare talmente pervasive ed invalidanti al punto da indurre il soggetto a guidare solo in particolari e specifiche condizioni per lui ottimali, o a mettersi al volante vivendo un importante stato di disagio psicofisico o in altri casi ad evitare del tutto la guida.

Amaxofobia: diagnosi

L’ amaxofobia può essere diagnosticata qualora siano soddisfatti tutti i criteri per una fobia specifica del sottotipo situazionale. Al fine di meglio indagare e comprendere la gravità della sintomatologia del paziente è possibile, inoltre, indagare la “storia automobilistica” del soggetto ed utilizzare una serie di questionari standardizzati.

Gli studi inerenti a tale fobia consigliano di indagare la storia del paziente ed eventuali cause valide che possono essere alla base della paura della guida; inoltre, tutte le informazioni inerenti al rapporto del soggetto con la guida (quando è stata conseguita la licenza di guida, la frequenza di guida, ecc.) possono essere estremamente utili per avere un quadro globale della situazione del paziente (cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006). Infine, possono essere somministrati i seguenti questionari al fine di rilevare importanti informazioni sia per il profilo diagnostico sia per stilare un adeguato piano di intervento e processi riabilitativi (cfr. Taylor, Deane & Podd, 2000; cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014):

– Driving cognitions questionnaire (DCQ) per valutare la presenza e la frequenza di cognizioni negative (preoccupazioni legate ad incidenti, paura di attacchi di panico e timore dei giudizi sociali) riguardo alla paura di guidare (Ehlers, Taylor, Ehring, Hofmann, Deane, Roth & Podd, 2007).
– Driving Skills Questionnaire (DSQ): per misurare la competenza percepita delle proprie capacità di guida in situazioni specifiche (McKenna, Stanier & Lewis, 1991 citato da Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– Driving situations questionnaire (DSQ): al fine di misurare l’entità dell’ansia e dell’evitamento in diverse situazioni di guida (Ehlers, Hofmann, Herda, & Roth, 1994).
– Driving Behavior Survey (DBS): per rilevare i comportamenti ansiosi alla guida (Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– State-trait anxiety inventory (STAI): uno strumento di autovalutazione, che permette di identificare l’ansia di tratto, uno stato emotivo stabile e persistente e l’ansia di stato, una condizione emotiva temporanea collegata a una determinata situazione e che varia nella sua intensità nel corso del tempo e in dipendenza delle situazioni. (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg & Jacobs, 1983).
– Fear questionnaire (FQ): uno strumento di autovalutazione per l’identificazione di comportamenti di evitamento, misurando fobie (sottogruppi agorafobia, fobia sociale e la paura di incidenti) e stati ansioso-depressivi (Marks & Mathews, 1979).
– Beck depression inventory-second edition (BDI-II): per misurare la gravità della depressione nell’ambito clinico (Beck, Steer, & Brown, 1996).
– Mobility Inventory for Agoraphobia (MIA): per valutare comportamenti di evitamento agorafobici e la frequenza di attacchi di panico in diverse situazioni; ogni situazione è valutata sia quando la persona è accompagnata, alla guida, da una persona di fiducia sia quando è da sola nel condurre l’automezzo (Chambless, Caputo, Jasin, Gracely & Williams, 1985).

Un’accurata analisi diagnostica ci consentirà di definire il profilo clinico del nostro paziente e delineare, quindi, il piano di intervento terapeutico più consono ed efficace.

Amaxofobia: Trattamento

Le diverse possibili cause e le eterogenee caratteristiche cliniche dell’ amaxofobia, pongono l’accento sull’importanza di valutare in modo scrupoloso la personale “cornice” all’interno della quale il disturbo si colloca, al fine di avvalersi del trattamento terapeutico più adeguato al singolo paziente.
L`amaxofobia, come una fobia specifica, rientra nella categoria dei disturbi d’ansia (American Psychiatric Association, 2015) per i quali la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulta il trattamento d’elezione. L’efficacia della CBT è stata, infatti, provata e dimostrata da numerosi studi (cfr. Deacon & Abramowitz, 2004; cfr. Norton & Price, 2007). Ugualmente, per l’ amaxofobia legata ad agorafobia, claustrofobia e ad altre fobie specifiche, la terapia cognitivo-comportamentale risulta essere il metodo clinicamente più efficace (cfr. Wade, 2010).

Nel caso specifico in cui l’ amaxofobia abbia, invece, un’origine traumatica sarà opportuno intervenire con un percorso terapeutico indicato in caso di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In un articolo di De Jongh, Holmshaw, Carswell e Van Wijk (2011) si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
La CBT aiuterebbe i pazienti ad identificare e modificare i pattern distorti di pensiero riguardanti se stessi, l’evento traumatico e il mondo e consentirebbe, inoltre, sia di ridurre i sintomi ansio-depressivi post traumatici che di promuovere l’incremento di fiducia, sicurezza e di regolazione emotiva (Trappler, & Newville, 2007; De Jongh, Holmshaw, Carswell & Van Wijk, 2011); ugualmente, l’EMDR è stato riconosciuto e confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati (World Health Organization, 2013).

Nei casi in cui, l’approfondimento diagnostico evidenzi un disturbo di amaxofobia secondario ad altri “temi” quali conflitto interno tra autonomia e paura di crescere, condizioni di dipendenza o paura dell’abbandono, stati di aggressività inconscia, contesti culturali pregiudiziosi nei confronti delle donne e invecchiamento associato a stati depressivi, i punti centrali di un intervento psicoterapeutico potranno riguardare l’elaborazione del conflitto dipendenza-autonomia, il superamento della necessità di controllo, l’elaborazione delle pulsioni aggressive, la modificazione dell’immagine di Sé e l’aumento dell’autostima del soggetto. (Massaro, 2014)
Infine è utile evidenziare che, nel trattamento di disturbi d’ansia e di fobie, l’integrazione alla terapia cognitivo e cognitivo-comportamentale degli approcci basati sulla mindfulness e sulla psicoterapia ipnotica sembrerebbe aumentare l’efficacia dell’intervento psicoterapeutico (cfr. Öst, 2008; Greeson & Brantley, 2012; cfr. Alladin, 2016).

Conclusioni

L’ amaxofobia, è un disturbo che può avere importanti ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. La paura di guidare “frena” la libertà e l’autonomia dell’individuo.
La fobia di guidare si può superare ma è fondamentale un intervento terapeutico basato su un approccio multimodale, in quanto sussistono diverse comorbilità e varie possibili cause alla base del disturbo: l’ amaxofobia può essere legata ad un Disturbo d’Ansia in generale, ad altre fobie specifiche (claustrofobia, agorafobia), ad una situazione traumatica, ad uno stato depressivo secondario ad altre condizioni come l’invecchiamento, a specifici pregiudizi culturali o a fattori di personalità.

I trattamenti che ad oggi si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, sono la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Un’interessante direzione per future ricerche, volte a sviluppare un trattamento il più possibile adatto all’ amaxofobia, potrebbe situarsi negli approcci basati sulla mindfulness integrati in una cornice terapeutica con un approccio di base cognitivo-comportamentale.

Conformismo e ansia sociale negli adolescenti

Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri. Lo studio di alcuni ricercatori cinesi ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

 

Abstract

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo,  ha una connotazione positiva, ovvero serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita.

L’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri. Uno studio compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo. La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più alle opinioni espresse dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

Il conformismo sociale

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo, ha una sua ragione d’essere. Infatti, esso serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita. Inoltre, il conformismo sociale ha anche una valenza protettiva legata al fatto di ricevere l’accettazione e la protezione del gruppo sociale di appartenenza (Morgan e coll., 2015, citati in Zhang e coll., 2016).

 

 

L’ansia sociale

Dal punto di vista clinico, l’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri (APA, 2013). L’ansia sociale è costituita da due componenti, ovvero essa può derivare dalle interazioni sociali, per cui l’individuo teme qualsiasi confronto, anche comunicativo, con l’alterità; oppure può evidenziarsi ogniqualvolta la persona deve compiere una performance pubblica: in questo caso, l’ansia è provocata dalla paura del giudizio sociale (Zhang e coll., op. cit.).

Alla base dell’ansia sociale c’è una scarsa autostima, come messo in evidenza da van Tuijl e coll. (2014), citati in Zhang e coll. (op. cit.). Per evitare le situazioni problematiche, l’individuo mette in atto delle condotte di evitamento. Questi comportamenti impoveriscono sempre di più il soggetto della ricchezza delle interazioni sociali e riducono ulteriormente l’autostima (Zhang e coll., op. cit.).

 

Ansia sociale e conformismo nell’adolescenza

Uno studio (Zhang, Deng, Yu, Zhao e Liu, 2016) compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo.

Questa indagine ha coinvolto 152 soggetti adolescenti, di più istituti scolastici della regione cinese di Gansu. È stata considerata questa fascia di età, in quanto il rapido sviluppo corporeo, le insicurezze relative alla propria immagine corporea, il cattivo rapporto con gli adulti, la grande attenzione al giudizio dei coetanei determinano un incremento dell’ansia sociale (Zhao e coll., 2014). Sovente, come diverse ricerche hanno rilevato, gli adolescenti tendono a lenire la loro ansia sociale con l’alcol. Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri (Zhang e coll., op. cit.).

Lo studio dei ricercatori cinesi, quindi, ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

Per sondare il grado di ansia sociale è stata adoperata una scala di valutazione (SAS – C), adatta all’età evolutiva. Per indagare le cognizioni relative al disagio, derivante dall’esposizione sociale, si è usato un questionario strutturato, predisposto per tale scopo. Per verificare il grado di conformismo sociale è stata utilizzata una prova al computer, nella quale sono state presentate delle figure geometriche in coppia. Ai ragazzi è stato chiesto di verificare l’uguaglianza delle due figure, ovvero se esse erano uguali oppure presentavano delle difformità di grandezza. Contemporaneamente sullo schermo del computer compariva la risposta data al quesito dalla maggior parte dei coetanei.

La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più ai giudizi espressi dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

Stress lavoro correlato nell’ASST di Lodi: analisi dei dati del 2015

Stress lavoro correlato: A seguito dell’approvazione del Testo Unico 81 del 2008 (art.28), la tematica “stress” è diventata sempre più protagonista della Sicurezza sul Lavoro.
In questo scenario, l’ASST di Lodi ha attivato programmi di Prevenzione dello Stress lavoro correlato attraverso visite psicologiche preventive per i neo-assunti e di sostegno psicologico.

I. Cacciatori, C. Grossi , S. Marazzina
U.S.S.D. Psicologia Clinica, Dipartimento Salute Mentale, Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) di Lodi – Area di Psicologia del Lavoro

 

Abstract

Durante queste visite oltre all’anamnesi personale e lavorativa vengono somministrati dei test volti a fornire indicatori della presenza di eventuali fattori di rischio psicosociale, burnout e stress lavoro correlato.
I dati del presente articolo riportano una descrizione di quanto raccolto dai referti effettuati nell’anno 2015, da cui è emersa una differenza relativa al genere ed all’età, una differenza nel numero di prime visite e di visite a richiesta in fasce d’età di 10 anni, riportando dati significativi a riguardo. E’ stata fatta inoltre una suddivisione per visualizzare il numero di colloqui di cui hanno avuto bisogno pazienti inviati dal Medico Competente.
Le analisi dei dati hanno inoltre riportato una classificazione dei test maggiormente utilizzati, cui fa capo la Resilience Scale e la percentuale di soggetti che si sono mostrati resilienti e quanti a rischio di burnout, analizzando nello specifico le varie sottoscale del MBI.
Infine è stata valutata la percentuale di soggetti a cui è stato indicato un trasferimento e quanti invece hanno concluso con un percorso di counselling, evidenziando così l’efficacia del processo.

Introduzione: lo stress lavoro correlato

L’interesse per lo stress e per le sue manifestazioni è andato gradualmente crescendo nel corso degli ultimi trent’anni.
In tutti i settori lavorativi e nell’ambito di alcuni governi Nazionali, si è verificata una crescente convinzione che l’esperienza dello stress nella vita moderna, come sul lavoro, ha delle conseguenze indesiderate per la salute e la sicurezza degli individui nonché per la salute delle organizzazioni o degli ambienti sociali (Ferrari, 2012).

L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute nel Lavoro definisce lo stress lavoro correlato come [blockquote style=”1″]la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste.[/blockquote]

Tale condizione, determinata da fattori legati al contesto lavorativo, alle attività svolte e all’organizzazione del lavoro, ha conseguenze non solo sul benessere dell’individuo (patologie cardiovascolari, immunitarie, gastrointestinali, ecc.), ma anche sul benessere dell’azienda in cui esso lavora.
Successivamente all’approvazione del Testo Unico 81 del 2008 (articolo 28), la tematica è diventata sempre più protagonista nella Sicurezza sul Lavoro.

Il rischio da Stress Lavoro Correlato interessa tutte quelle figure caricate da una duplice fonte di stress: personale e della persona oggetto d’aiuto. Esso in particolare colpisce i medici e le altre figure sanitarie, compresi volontari e studenti, gli addetti ai servizi di emergenza, tra cui poliziotti e vigili del fuoco, psicologi, psichiatri e assistenti sociali, sacerdoti e religiosi, insegnanti ed educatori, avvocati e ricercatori.
In questi soggetti, se non opportunamente seguiti, può iniziare a svilupparsi un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato (burnout).

Il burnout comporta esaurimento emotivo, depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento di ridotta realizzazione personale. Il soggetto tende a sfuggire l’ambiente lavorativo assentandosi sempre più spesso e lavorando con minor entusiasmo ed interesse, a prova della frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi. Il burnout si accompagna spesso ad un deterioramento del benessere fisico, a sintomi psicosomatici come l’insonnia e psicologici come la depressione. I disagi si avvertono dapprima nel campo professionale, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale: l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive ed il rischio di suicidio sono elevati nei soggetti affetti da burnout (Tomei et. al., 2013).

E’ importante raccogliere quindi una serie complessa di informazioni sulla qualità di vita e di lavoro della persona per poterne fare una valutazione omogenea riguardante la condizione psicologica legata allo stress lavoro correlato, quali: informazioni sulla sua condotta al lavoro (assenteismo, cambio di mansione o assenza per malattia); l’ambiente di lavoro nel quale opera, quali sono i rischi legati alle mansioni svolte; il rapporto con i colleghi e con i superiori nel posto di lavoro; le strutture relazionali fuori dal contesto lavorativo; le aspettative di realizzazione personale legate a quella determinata occupazione e la gratificazione che da essa ne deriva.

Prevenzione dello stress lavoro correlato e sostegno psicologico nell’ASST di Lodi

L’ASST di Lodi ha attivato programmi di Prevenzione dello Stress lavoro correlato attraverso il supporto dell’U.S.S.D Psicologia Clinica-Area di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione.
I dati che saranno presentati in seguito riguardano nello specifico le visite psicologiche effettuate dal servizio di Psicologia del lavoro nell’anno 2015 suddivise in preventive per i neo-assunti e di sostegno psicologico per i già dipendenti dell’Azienda.

Nel primo caso, il nuovo dipendente viene inviato ed invitato dal medico competente dell’ASST ad effettuare un colloquio psicologico finalizzato a rilevare eventuali fattori di vulnerabilità e/o di rischio legati alla mansione e fornire informazioni inerenti la gestione del rischio da stress lavoro correlato.
Nel secondo caso, invece, si offre ai lavoratori un supporto psicologico volto a sostenere il dipendente in situazioni di difficoltà lavorative a diversi livelli.

I soggetti: dati strutturali

Nell’anno 2015 sono entrati in contatto con il servizio di Psicologia del lavoro 75 soggetti, quasi il doppio rispetto al 2014, che ne registrava 40. Di questi 75 si sono presentati fisicamente presso il nostro ufficio 67 casi (vedi grafico 1).

Grafico 1: stress lavoro correlato nell' ASST di Lodi
Grafico 1: Soggetti entrati in contatto con il servizio di Psicologia del Lavoro

Come evidenziato dal grafico 2 sotto riportato, la distribuzione secondo il genere di coloro che si sono presentati rileva una consistente maggioranza del genere femminile (52 casi) con una percentuale sul campione pari al 77% dei casi.

Grafico 2: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 2: Distribuzione dei soggetti per genere

I dipendenti hanno un’età compresa tra i 21 e i 60 anni ed emerge una chiara collocazione prevalente nelle fasce inferiori ai 40 (di 7 soggetti il dato non è pervenuto).
Il grafico 3 riporta la distribuzione dei soggetti per fasce di età, comprendenti ciascuna un range di 10 anni.

Grafico 3: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 3: Distribuzione dei soggetti per fasce d’età

E’ stata effettuata un’ulteriore suddivisione del campione, in relazione all’accesso a questo ambulatorio:
prime visite, di esclusiva pertinenza dell’ufficio di psicologia del lavoro
visite a richiesta, che comprende i dipendenti inviati sotto suggerimento del medico competente, gli accessi spontanei e coloro che sono stati inviati dal responsabile della Unità Operativa, i quali vengono sottoposti all’attenzione del servizio di counselling psicologico presso l’ufficio di psicologia clinica a cui fa capo la dottoressa Ivana Cacciatori.
Come si vede dal grafico 4, si è riscontrata una percentuale significativa di prime visite tra i 21 e i 40 anni, mentre una percentuale significativa di visite a richiesta è stata riscontrata nella fascia d’età che va dai 41 ai 60 anni, con progressivo aumento tra i 51 e 60.

Grafico 4: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 4: Distribuzione dei soggetti per fasce d’età in relazione al tipo di accesso

Sul totale dei soggetti, osservando le percentuali nel grafico sotto riportato, la maggior parte, il 63%, si sono presentati per una visita preventiva come neo-assunti, il 23% hanno richiesto la visita personalmente, il 13% è stato inviato dal medico competente e l’1% è stato inviato sotto suggerimento del responsabile della propria Unità Operativa. Nessun soggetto si è presentato per una visita a richiesta del Responsabile dell’U.O. in cui lavora (grafico 5).

Grafico 5: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 5: Distribuzione del campione totale per tipologia d’invio

Sono stati valutati inoltre il numero di colloqui a cui sono stati sottoposti i dipendenti giunti al nostro ambulatorio tramite invio da parte del medico competente (vedi grafico 7).
L’analisi dei dati riporta una maggioranza significativa per 2 colloqui.

Grafico 7: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 7: Distribuzione per numero di colloqui dei dipendenti con invio da parte del MC

Dati relativi ai test somministrati

Sia durante le visite preventive che durante quelle a richiesta del lavoratore/medico competente/responsabile U.O. possono essere somministrati ai soggetti dei test volti a fornire indicatori della presenza di eventuali fattori di rischio psicosociale, burnout e stress lavoro correlato.
I test utilizzati nel servizio di Psicologia del lavoro sono i seguenti:
Resilience Scale (Wagnild and Young) – Scala della Resilienza
MBI – Maslach Burnout Inventory
TAS – Toronto Alexithymia Scale
Test di Ferrari e Sinibaldi
BPI – Burnout Potential Inventory
WSRQ – Work Stress Risk Questionnaire
ProQUOL – Professional Quality of Life
Beck Depression Inventory
ASQ – Anxiety Scale Questionnaire (Scala d’ansia IPAT)

Bisogna considerare che il test, in qualità di strumento diagnostico ed in relazione alle sue specificità, è stato e viene tutt’ora somministrato a discrezione dello psicologo che si occupa di diagnosi, nella misura e con la frequenza necessari ad individuare le peculiarità di interesse clinico: proprio in ragione di questa specificità e singolarità nella funzione diagnostica, alcuni soggetti possono essere stati esclusi dalla somministrazione di tali strumenti, mentre altri pazienti possono essere stati sottoposti a più prove testistiche.
Ne emerge un quadro complessivo variegato che conta un numero totale di test eseguiti pari a 109 distribuiti come segue

Grafico 8: stress lavoro correlato nell' ASST di Lodi
Grafico 8: Distribuzione per test eseguiti

Appare immediatamente evidente come la scala che misura la resilienza (Resilience Scale di Wagnild e Young) appaia come la più somministrata.

Resilience Scale di Wagnild e Young

Scala di autovalutazione elaborata da Wagnild e Young nel 1993, con lo scopo di misurare la resilienza disposizionale negli adulti.
La resilienza è il processo di fronteggiamento e superamento degli effetti legati all’esposizione a fattori di rischio o eventi traumatici. Viene vista come la capacità dell’uomo di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente. La versione del test somministrata presso l’ufficio di Psicologia del Lavoro consta di 10 item, con scala Likert a 7 punti (1 “fortemente in disaccordo”;7 “pienamente in accordo”).

Interpretazione dei risultati del test

I punteggi hanno un range che va da 10 a 70, suddiviso nelle seguenti categorie:
Resilienti (con un punteggio uguale o maggiore di 59)
Mediamente resilienti (con un punteggio tra 48 e 58)
Non resilienti (con un punteggio inferiore o uguale a 47)

Le persone resilienti sono capaci di adattarsi e resistere di fronte alle difficoltà, hanno una buona capacità di mantenere il controllo, di attuare strategie di coping e ricerca di risorse ambientali per fare fronte alle sfide della vita. Le persone mediamente resilienti sono generalmente in grado di fare fronte ad eventi stressanti; risentono tuttavia della qualità e della quantità di questi eventi e di conseguenza riescono ad affrontarli con una varietà di modi non sempre perfettamente e propriamente adattivi. Le persone non resilienti sono invece quelle persone che generalmente soccombono di fronte alle difficoltà.

Dalle rilevazioni testistiche nell’arco del 2015 i dati relativi alla resilienza dei casi analizzati attraverso la Resilience Scale di Wagnild e Young emerge quanto segue:
resilienti il 49%
mediamente resilienti il 35%
non resilienti il 16%

Grafico 10: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi

Grafico 10: Distribuzione dei casi a cui è stata somministrata la Resilience Scale di Wagnild e Young

Maslach Bornout Inventory

Si tratta di un questionario sviluppato nel 1981 da Maslach e Jackson e composto da 22 items, volti a stabilire se nell’individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nel burnout. Ad ogni domanda, il soggetto deve rispondere segnando un valore da 0 a 6 per indicare l’intensità e frequenza con cui si verificano le sensazioni descritte nella domanda stessa.
Esso affronta tre diversi campi della professionalità:
esaurimento emotivo
depersonalizzazione
gratificazione personale.
Esaurimento emotivo: la dimensione attinente alla sfera del sentire: il soggetto si sente sfinito, svuotato dal punto di vista emozionale, senza più forza per ricominciare. Le sue risorse emozionali sono consumate e non c’è modo di reintegrarle. La sensazione del soggetto è quella di aver oltrepassato i limiti, di aver esaurito le proprie energie psicologiche, senza una sorgente da cui poter attingere. La persona si sente incapace di rilassarsi e recuperare, sente che non ha più energie da spendere per l’altro (Maslach & Leiter, 2012).
Come evidenziato nel grafico 11, il 40% dei soggetti presenta un livello di esaurimento emotivo basso, mentre il 43% di loro presenta un livello di esaurimento emotivo alto.

Livello di esaurimento emotivo medio è stato riscontrato nel 17% dei casi.

Grafico 11: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 11: Distribuzione secondo il livello di esaurimento emotivo al test MBI
Depersonalizzazione: è la dimensione attinente alla sfera interpersonale: il soggetto “esaurito” non ha più energia disponibile per l’aiuto all’utente. Perciò gradualmente si ritira dalla relazione, instaurando un atteggiamento di indifferenza/insofferenza verso i bisogni degli altri ed un cinico disinteresse verso i loro sentimenti. Come conseguenza spesso si sviluppa un senso di colpa e un disconoscimento di sé da parte dell’operatore che vede nel suo comportamento rinnegate le motivazioni iniziali che l’avevano spinto a scegliere proprio quella professione (Maslach & Leiter, 2012).
Nella casistica presente nei nostri archivi 2015 un livello di depersonalizzazione alto è stato rilevato nel 39% dei casi; un livello medio nel 39% dei casi; mentre un basso livello di depersonalizzazione nel 22% dei casi.

Grafico 12: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 12: Distribuzione secondo il livello di depersonalizzazione al test MBI
Gratificazione personale: è la dimensione autoriflessiva: il soggetto si chiede se il ruolo che ricopre è adatto alle proprie capacità. Inizia un sentimento di inadeguatezza circa la propria capacità di stare in relazione con l’altro che può condurre ad un vero e proprio verdetto di fallimento. Le conseguenze possono essere crollo di motivazione, perdita dell’autostima e depressione.
Nelle valutazioni del 2015 sono emersi questi dati in relazione alla gratificazione personale:
il 48% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale BASSO;
il 39% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale MEDIO;
il 13% dei casi ha manifestato un livello di gratificazione personale ALTO.
Il livello di gratificazione personale corrisponde al valore inversamente proporzionale rispetto al rischio burnout.

Grafico 13: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 13: Distribuzione secondo il livello di gratificazione personale al test MBI

Indicazioni al trattamento dello stress lavoro correlato

In relazione al campione delle visite a richiesta si è proceduto con una analisi secondo indicazioni al trattamento.
Nello specifico, in un processo di analisi delle singole casistiche, è stata registrata come si vede dal seguente grafico l’indicazione di trasferimento di posizione lavorativa o il suggerimento ad un percorso di counselling psicologico. I dati riportano una percentuale di suggerimento evidentemente bassa.

Grafico 14: stress lavoro correlato nell'ASST di Lodi
Grafico 14: Distribuzione delle indicazioni al trattamento del campione inviato dal MC

Conclusioni

Dall’analisi dei dati emerge una maggior presenza del genere femminile, con una percentuale più elevata di prime visite nel range d’età che va dai 21 ai 40 anni, mentre si riscontra la maggior percentuale di visite a richiesta nella fascia d’età che va dai 41 ai 60 anni, da sottolineare inoltre un aumento significativo delle visite a richiesta specialmente nella fascia d’età che va dai 51 ai 60 anni.
I dati mostrano che tra le visite a richiesta, la maggior parte sono a richiesta del lavoratore, seguite da quelle a richiesta del medico competente, mentre in percentuale decisamente inferiore quelle a richiesta del responsabile dell’U.O. Nella maggior parte dei casi il soggetto ha avuto bisogno di un massimo di due colloqui.

Questi dati sottolineano l’importanza di una gestione organizzativa del personale differenziata.
Il test maggiormente utilizzato, è la Resilience Scale. La maggior parte dei soggetti a cui è stato somministrato questo test riporta buone capacità di resilienza. Un altro test utilizzato spesso nel 2015 è l’MBI; le analisi dei dati relative alle sottoscale dell’MBI sono state precise: la maggioranza dei soggetti ha manifestato alto esaurimento emotivo, alta depersonalizzazione e bassi livelli di gratificazione personale.
L’ analisi delle singole casistiche, ha riportato una percentuale d’indicazione di trasferimento di posizione lavorativa e la necessità di un percorso di counselling psicologico bassa, fattore che dispone a favore dell’efficacia del processo in relazione all’indice UP-DOWN SIZING proposto dalla Regione Lombardia c.c. 18/11/2010.

La lettura dei dati permette di evidenziare come l’esistenza di un servizio di integrazione alla sorveglianza sanitaria, a supporto dell’attività del Medico Competente, consenta ai dipendenti di richiedere un supporto psicologico e al Medico Competente di indicare/prescrivere una valutazione SLC così da prevenire eventuali ritorsioni negative individuali ed organizzative. I dati riportano che degli interventi erogati analizzati (il 37% del campione totale) il 74% ha avuto una remissione sintomatica con un numero medio di 2 colloqui, contro il 26% dei casi non gestiti che continua a perpetrare l’indicatore Up Down Sizing (spostamenti interni del personale dipendente).

Le ipotesi ragionevoli per futuri sviluppi sono la possibilità di rendere più omogenea, la somministrazione dei test: fornire una baseline comune a tutti i soggetti (o perlomeno ai neoassunti) consentendo l’analisi del rischio di stress lavoro correlato in un percorso di costante monitoraggio.
Tale approccio è già stato in buona parte concretizzato dalla somministrazione diffusa del test Resilience Scale di Wagnild e Young.

 

Disoccupazione: la CBT riduce i sintomi depressivi e migliora il processo di ricerca di un nuovo impiego

Tra i disoccupati, coloro che permangono in questa situazione per un lungo periodo di tempo, risultano significativamente più a rischio di sviluppare depressione rispetto alla popolazione generale di riferimento. 

 

La disoccupazione è uno dei problemi maggiormente riscontrabili nella società odierna e correla con la sintomatologia depressiva (Jefferis et al., 2011; Lerner et al., 2004). In particolare, tra i disoccupati, coloro che permangono in questa situazione per un lungo periodo di tempo, risultano significativamente più a rischio di sviluppare depressione rispetto alla popolazione generale di riferimento (Mossakowski, 2009; Paul & Moser, 2009).

Una nuova ricerca stabilisce come l’impiego delle principali tecniche cognitivo-comportamentali (CBT) di norma insegnate ai pazienti depressi, si configuri come predittore del successo nel trovare un lavoro.

Secondo i risultati ottenuti dal team di ricercatori della Ohio State University, la capacità di identificare i pensieri negativi e in seguito di reinterpretarli in maniera più positiva per generare risposte comportamentali adattive, aiuterebbe di molto il processo di ricerca di un nuovo lavoro. Tra l’altro, tali abilità permetterebbero di pianificare quotidianamente attività piacevoli, tese a migliorare l’umore.

Perciò, quando impiegate dal soggetto disoccupato, di sovente incline a provare sentimenti di sconforto e più in generale negativi, le tecniche CBT sarebbero in grado di migliorare l’umore del soggetto e incrementare la sua disposizione a cercare lavoro.

Secondo il dott. Daniel Strunk, co-autore dello studio e professore associato di psicologia presso la Ohio State University, questo sarebbe il primo disegno di ricerca in grado di dimostrare gli effetti delle tecniche cognitivo-comportamentali non sono sui sintomi depressivi, ma anche sul funzionamento e sulle attività quotidiane.

Lo studio ha coinvolto 75 disoccupati con età compresa tra 20 e 67 anni, i quali erano invitati a compilare un sondaggio online, ricompilato poi 3 mesi dopo il primo. Tale sondaggio includeva una serie di questionari che misuravano i sintomi depressivi e una serie di variabili psicologiche, come disposizioni disfunzionali, rimuginio e stili di pensiero negativi (i.e., lo stile di pensiero che determina attribuzioni stabili e globali riguardo gli eventi spiacevoli o stressanti e una percezione globalmente negativa di se stessi).

Oltre a ciò, i soggetti rispondevano a delle domande che indagavano la loro disposizione a mettere in pratica abilità tipicamente insegnate nella cornice teorica cognitivo-comportamentale, come il prestare attenzione ai pensieri negativi. Infatti, avere consapevolezza della negatività dei propri pensieri automatici e delle relazioni intercorrenti tra pensieri ed emozioni, edulcora il vissuto emotivo del paziente al presentarsi di un evento stressante e sprona lo stesso a reinterpretare in modo positivo i propri pensieri.

Altre tecniche, invece, si concentrano sui compiti comportamentali, come ad esempio la frammentazione dei compiti più scoraggianti in svariati step, che a primo acchito risultano meno frustranti e più semplici da portare a termine.

Riportiamo un breve elenco degli strumenti impiegati dal team; per maggiori informazioni si veda in bibliografia il link dell’articolo originale:

  • Expanded Attributional Style Questionnaire Short Form (EASQ-SF): questionario di 12 item valutante lo stile di pensiero negativo.
  • Ruminative Response Scale (RRS): questionario di 22 item che misura la tendenza dell’individuo ad indugiare in pensieri ruminativi.
  • Dysfunctional Attitude Scale (DAS): questionario di 40 item che misura le credenze relative alla felicità, al perfezionismo, alla dipendenza sociale, basato sulla teoria della depressione di Beck.
  • Cognitive-Behavioral Avoidance Scale (CBAS): questionario di 31 item che valuta l’evitamento, caratteristica presente nella depressione.
  • Competencies in Cognitive Therapy Scale (CCTS): questionario di 29 item che misura la padronanza delle abilità generalmente insegnate dai terapeuti CBT.
  • Job Search Self-Efficacy Scale (JSSE): questionario di 10 item che valuta l’abilità percepita del soggetto nel completare una serie di attività lavorative.
  • Depression Anxiety Stress Scale (DASS): questionario di 42 item comprendente 3 sottoscale valutanti la sintomatologia depressiva, ansiosa e lo stress.

Dalle analisi preliminari si osservava che un terzo dei partecipanti riportava una sintomatologia depressiva da moderata a grave, sebbene è giusto ricordare che attraverso un solo questionario non era possibile porre diagnosi in tal senso. Il rimanente terzo del campione totalizzava punteggi corrispondenti ad una sintomatologia depressiva assente o lieve.

Ciò che è emerso dallo studio è che i soggetti che riportavano di impiegare più spesso le tecniche CBT, erano gli stessi che mostravano nei tre mesi successivi un miglioramento nell’umore e che contemporaneamente ricevevano più offerte di lavoro nello stesso periodo (p = .008).

Ciò che colpisce è che per testare la possibilità che la sintomatologia depressiva si riduca a causa della offerta di lavoro ricevuta, i ricercatori hanno utilizzato lo status lavorativo (offerta di lavoro ricevuta o meno) presente nel follow-up per valutare se questo era in grado di predire il cambiamento dei sintomi depressivi, ma la relazione ottenuta nella regressione non risultava significativa (p = .43). Osservando i risultati delle analisi statistiche, solo le competenze CBT risultavano in grado di predire il miglioramento nell’umore e della disposizione a cercare lavoro; le altre variabili non ottenevano valori significativi.

Concludendo, sembrerebbe che molti disoccupati in cerca di lavoro potrebbero scoraggiarsi a seguito di continui rifiuti da parte delle aziende. Tuttavia, persistere ed utilizzare tecniche CBT permetterebbe ai soggetti in questione di evitare lo scoraggiamento, disposizione che, in ultima analisi, predisporrebbe all’incremento della sintomatologia depressiva.

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