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Anomalisa ovvero l’arte del contatto umano nelle differenze individuali

Anomalisa è un film di animazione molto originale. E’ stato definito “il film più umano dell’anno” anche se, pensate un po’, di umani non ne compaiono affatto. Ed è una occasione utile per discutere dell’incapacità di amare dal momento che regala a chi lo guarda, a patto di essere spettatori attenti e pazienti, la chiave per l’interpretazione di quella tragica cecità relazionale che va sotto il nome di narcisismo.

Anomalisa: la trama del film

Micheal Stone è un oratore motivazionale, placidamente sconcertato da ciò che vede attorno a sé: le persone hanno tutte lo stesso volto. La sua famiglia, moglie e figlio, la stessa voce. All’interno dell’albergo in cui soggiorna per lavoro conosce una donna, un’anomalia di nome Lisa che gli regala la capacità di tornare a giocare il gioco più importante della vita: l’arte di conoscersi.

L’ideale di perfezione e l’inevitabile delusione in Anomalisa

Quando perdiamo interesse verso le altre persone, dopo che l’ideale salvifico di perfezione che vi avevamo scorto lascia il posto agli umani difetti, tutto crolla, e l’idea di avere avuto a che fare con un essere speciale che poteva riempire il nostro vuoto lascia il posto a un mito da cestinare. E’ un modo per dirlo, per descrivere ciò che succede alle persone che hanno bisogno di utilizzare gli altri per riportare l’autostima a livelli di sopravvivenza. Ma si sa, l’idealizzazione ha il suo mortale nemico nella realtà psicologica della persona che è di fronte a noi e prima o poi tutto cessa. Ci ritroviamo soli, in una terra desolata dove nessun altro può raggiungerci. Non contenti, ci ripetiamo che la colpa è degli altri. Prima o poi smettiamo di cercare. Ci sentiamo condannati a vivere una affollata solitudine. La realtà diventa una tela dipinta da gente noiosa che non smette di deluderci.

Nell’esperienza dell’infelicità narcisistica, se iniziando a conoscere qualcuno ci sembrerà di cogliere qualcosa di negativo (diciamo pure il chiaro segno di qualcosa che non ci piace) potremmo automaticamente iniziare a credere (grazie a un vero e proprio pensiero automatico che opera al di fuori della coscienza, ma che nondimeno è in grado di guidarci nelle azioni) di essere di fronte proprio a quel tipo di persona che tanto odiamo, lo stesso tipo di persona che ci ha fatto soffrire in passato e che prima o poi si rivelerà una delusione proprio come tanti altri. E questo è un modo per difendersi dall’intimità. Ma vale anche al contrario: quante volte, sulla base di qualche indizio di circostanza ci sforziamo di vedere nella novità che abbiamo di fronte proprio quel tipo di persona che tanto desideravamo? E quante volte in seguito ci ritroviamo inevitabilmente delusi? Profondamente risentiti. “Sono tutti uguali” recita la cantilena che infliggiamo al nostro migliore amico che non riesce a consolarci.

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Riconoscere le differenze individuali nel rapporto con le persone

Le differenze individuali, le anomalie, creano il valore intrinseco dell’esistenza sociale ma per qualcuno evitarle può essere rassicurante. La scarsa differenziazione dei personaggi di Anomalisa, tutti uguali, sembra suggerire che nel vuoto relazionale del narcisismo patologico, il mondo diventa una estroflessione delle nostre difficoltà a comunicare; gli altri il bersaglio di proiezioni intense che ne cancellano l’individualità.

La soluzione, la chiamata per il cambiamento sta nell’ascolto, sta nelle anomalie. Nella capacità di capirle come se fossero le nostre. I circuiti specchio fanno il loro dovere e finalmente la “magia” si compie. Siamo abituati a pensare che solo impronte digitali e volti siano unici e non replicabili. Ma al mondo non esistono due cuori anatomicamente uguali per forma e per dimensione, e magari neanche per tono di rosso. Non esistono due risate identiche o due pensieri uguali. Ascoltarli sarebbe la soluzione. D’altronde gli esperti insistono: non esiste altra cura che l’empatia per il narcisismo.

Ogni giorno, anche mentre si fa la spesa, quando intravediamo un’anomalia sul volto di qualcun altro, nella sua voce, in una cicatrice, nel modo in cui fa qualcosa, abbiamo già iniziato a vederlo nella sua individualità, perché [blockquote style=”1″]ogni persona che incontrate è un individuo. Proprio come voi. Ogni persona a cui parlate ha avuto la sua giornata. Ogni persona a cui parlate ha avuto un’infanzia. Tutti hanno un corpo, e ogni corpo..ha sofferto.[/blockquote]

In sostanza, quando ci accorgiamo degli altri, gli altri ce ne sono grati. Se rimaniamo nel presente senza attaccare nè fuggire, l’ansia presto sparirà. E saremo finalmente artisti della relazione e dell’incontro.
Micheal Stone questa lezione pare conoscerla bene, dal momento che la insegna agli altri, perché il suo lavoro è capire i bisogni degli altri. Ma i suoi errori sono imperdonabili. E se a parlare si fa presto (o a scrivere), mettere in pratica è tutta un’altra storia.

Neuroscienze: il lato cognitivo della corteccia motoria

E’ una regione del cervello che governa il movimento, ma non solo. Inaspettatamente si attiva anche durante lo svolgimento di alcuni compiti cognitivi. Lo studio dell’IRCCS Medea è stato appena pubblicato su Frontiers in Human Neuroscience.

Comunicato Stampa

 

L’area cerebrale che si attiva quando compiamo un movimento si attiva anche quando eseguiamo compiti cognitivi, come ricordare una sequenza di numeri o parole, ascoltare una melodia, immaginare come possa apparire un oggetto da un altro punto di vista o addirittura provare empatia quando vediamo un’altra persona soffrire.

Lo dice un gruppo di ricerca dell’IRCCS Medea – la Nostra Famiglia di San Vito al Tagliamento – che ha esaminato i dati in letteratura su studi di neuroimaging, cioè quei lavori che indagavano quali aree cerebrali venivano attivate in soggetti impegnati in un determinato compito: in particolare sono stati presi in esame gli studi sulla corteccia motoria primaria, una regione del lobo frontale tradizionalmente pensata come l’area che governa il movimento.

Il lavoro, appena pubblicato sulla rivista Frontiers in Human Neuroscience, modifica il ruolo di quest’area del cervello, conferendole anche una possibile dimensione cognitiva.

I ricercatori hanno eseguito uno studio di meta-analisi quantitativa combinata con l’uso di mappe dell’architettura cellulare della corteccia motoria, per verificare che effettivamente le attivazioni corticali durante compiti cognitivi avvenissero all’interno dell’area indagata e non in quelle limitrofe.

In totale sono stati analizzati dati provenienti da 126 esperimenti, 1.818 soggetti e 2.030 coordinate di attivazione cerebrale.

Ebbene, gli studi di neuroimaging indagati hanno riportato attivazione funzionale nella corteccia motoria durante sei diverse categorie di compiti cognitivi: l’immaginazione motoria, la memoria di lavoro, la rotazione mentale, l’elaborazione sociale, la lingua e l’elaborazione uditiva.

L’analisi ha evidenziato che le diverse categorie cognitive attivano in maniera consistente diversi settori dell’area motoria e ha valutato anche l’ampiezza e la localizzazione del tessuto cerebrale dedicato.

Compiti di elaborazione sociale, emozioni, empatia attivano l’area 4a dell’emisfero sinistro, compiti linguistici (elaborazione verbi di azione) attivano le aree 4a e 4p di entrambi gli emisferi cerebrali, la rotazione mentale attiva l’area 4a sinistra, la working memory attiva l’area 4a destra, la simulazione mentale dei movimenti attiva entrambe le aree 4a e 4p di sinistra, e l’elaborazione uditiva attiva l’area 4a di sinistra.

Risulta inoltre un’area comune (area 4a sinistra) che è impegnata durante lo svolgimento di compiti appartenenti a molte (4/6) delle categorie cognitive testate: quest’area corrisponde alla rappresentazione nella corteccia motoria della mano.

Il nostro lavoro conferma le nuove ipotesi che propongono un coinvolgimento della corteccia motoria anche in compiti cognitivi come il linguaggio, l’empatia, le abilità visuomotorie – spiega Barbara Tomasino, ricercatrice dell’IRCCS Medea responsabile dello studio – La nostra interpretazione è che quest’area si attivi probabilmente come prodotto della simulazione mentale, implicita o esplicita, o di meccanismi di attenzione motoria. Ovvero i soggetti potrebbero usare la simulazione mentale durante lo svolgimento dei compiti appartenenti alle sei categorie studiate, e questo attiverebbe la corteccia motoria primaria.

 

Ufficio Stampa IRCCS “E.Medea”, San Vito al Tagliamento, Italy

Binge eating: abbuffarsi fino a scoppiare

Tra i disturbi del comportamento alimentare è il più diffuso ma anche il meno noto: parliamo del Binge Eating Disorder (BED) – le abbuffate compulsive.

Articolo tratto da La Repubblica del 14 giugno 2016

 

 

Una patologia da poco inserita nel DSM – il manuale diagnostico degli psichiatri americani – e che colpisce negli USA il 2,6% della popolazione contro l’1,7%  complessivo di anoressia e bulimia.

Ne parliamo con uno dei massimi esperti mondiali, Carlos Grilo dell’Università di Yale, incontrato a Verona, dove ha tenuto la lettura magistrale al convegno dell’AIDAP.

[blockquote style=”1″]Spesso anche i sanitari non sono addestrati a riconoscere e affrontare il Binge Eating e a distinguerlo dalla bulimia: nel Binge Eating Disorder nn ci sono comportamenti compensatori come il vomito o l’uso di lassativi per controllare il peso. [/blockquote]

Spesso chi ne soffre è giudicato goloso o mangione. Ma a chiunque può capitare di prendere due tartine in più dal buffet, o fare il bis di dolce per poi dirsi che non avrebbe dovuto.

[blockquote style=”1″]Qui stiamo parlando di persone che magari cenano in compagnia e poi tornano a casa e ricominciano a mangiare, ingurgitando quantità anomale di cibo.[/blockquote]

Un malessere che ha poco a che vedere con la ghiottoneria, e molto con la perdita di controllo. I binge eaters mangiano in solitudine, provano vergogna e sensi di colpa ma quando cominciano non riescono a fermarsi anche a costo di stare male. Per fortuna non tutti gli episodi sono così acuti. [blockquote style=”1″]Per il DSM-5 si può diagnosticare il binge eating se il paziente fa abbuffate di questo tipo una volta alla settimana per almeno 3 mesi, accompagnate da un profondo malessere. [/blockquote]

Il BED è piuttosto diffuso anche tra i maschi e l’età media in cui insorge è intorno ai 21 anni. [blockquote style=”1″]Quando chi ne soffre prende a sopravvalutare la propria immagine corporea: In una società come la nostra, ossessionata dalla forma fisica tutti siamo più o meno insoddisfatti. Queste sono persone per cui il peso, la forma del corpo è una preoccupazione costante, è quello che definisce la loro identità. [/blockquote]

E’ questo il vissuto di circa la metà dei binge eaters, quelli che soffrono di più, che rispondono meno alle terapie e che spesso soffrono: oltre il 50% di depressione, il 40% di ansia, l’abuso di sostanze è frequente.

Tanto che la perdita di controllo, caratteristica del BED ha portato i ricercatori a metterlo in relazione con la dipendenza: [blockquote style=”1″]Qualche affinità c’è perchè nel disturbo c’è una componente genetica (la presenza di familiari binge eaters è un fattore di rischio) e gli studi di imaging cerebrale mostrano delle peculiarità nel circuito della gratificazione. Stiamo cercando di capire se ci sia un’iperreattività al cibo e non è escluso che ci siano affinità con chi soffre di dipendenza da sostanze o dal gioco. [/blockquote]

Ad essere una droga non è il cibo in sè, ma gli alimenti molto processati, ricchi di sale, zucchero e grassi così come i dolcificanti artificiali, potrebbero indurre una dipendenza.

 

Il binge eating - Articolo tratto da La Repubblica

Cooperazione: l’attivazione cerebrale è differente tra uomini e donne

Quando parliamo di comportamento sociale, è noto come sussistano chiare differenze di genere. Un nuovo studio suggerisce come il comportamento cooperativo non faccia eccezione.

 

Pubblicato sul The journal scientific reports, lo studio rivela che uomini e donne mostrano differenze significative nell’attività cerebrale quando si trovano ad eseguire, insieme ad altri, un compito cooperativo.

Il team di ricerca co-guidato da Joseph Baker della Standford University School of Medicine, sostiene che i risultati potrebbero far luce sulle differenze evolutive tra uomini e donne riguardo alla cooperazione. Inoltre, nuove ricerche, contribuiranno allo sviluppo di nuove strategie per promuovere e migliorare le capacità cooperative tra esseri umani, migliorando anche la clinica per il trattamento di quei disturbi riguardanti il comportamento sociale.

La ricerca è stata condotta su un campione di 222 partecipanti, dei quali 110 erano donne. Ognuno di loro era assegnato ad un rispettivo partner. Ogni coppia poteva essere così composta da due maschi, da due femmine oppure da un maschio ed una femmina.

Le coppie così formate, erano impegnate in un compito in cui avrebbero dovuto collaborare. Seduto frontalmente davanti ad un monitor, ogni partecipante doveva premere un pulsante nel momento in cui un cerchio sullo schermo del computer cambiava colore.

L’obiettivo, per ogni singola coppia, era di premere il pulsante contemporaneamente, avendo a disposizione 40 tentativi, cercando di raggiungere la migliore sincronizzazione comportamentale possibile. Durante il compito i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale di ciascun partecipante di ogni coppia.

Nel complesso il team di ricercatori ha scoperto che le coppie maschili riuscivano ad ottenere una sincronizzazione migliore rispetto alle coppie femminili. Inoltre il brain imaging ha evidenziato un’attivazione cerebrale simile tra i partner delle coppie delle stesso sesso.

E’ interessante inoltre notare che la performance cooperativa tra coppie eterosessuali era altrettanto buona, quanto le coppie maschio-maschio, ma in esse non appariva la stessa sincronia di attivazione cerebrale tra i partner.

I ricercatori sono cauti e considerano questo studio esplorativo, dato che ha considerato una sola forma di cooperazione. Per di più non è stata valutata l’intera attività cerebrale, ma ci si è soffermati solo su alcune aree. È ipotizzabile infatti che la mancanza di sincronia cerebrale rilevata nelle coppie eterosessuali, possa in realtà verificarsi in aree non indagate.

Tuttavia, i ricercatori ritengono che da questi risultati si possa partire per saperne di più sull’ evoluzione della cooperazione nei due sessi, riuscendo ad ottenere anche implicazioni di rilevanza clinica.

Invecchiamento positivo e centenari: teorie e studi sulla longevità

La ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.

Manuel Fanì Covelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Alcune teorie sull’ invecchiamento positivo

Il concetto di invecchiamento è sempre stato definito con un un’accezione negativa, una fase della vita caratterizzata da una progressiva perdita di interessi e di obiettivi. Di fronte ad una costante crescita della popolazione anziana, si è fatta strada l’ idea di una terza età non solo come un periodo di declino, ma anche come una fase costellata da nuovi progetti, attività e vita sociale.

Di pari passo, la ricerca scientifica ha sviluppato un insieme di teorie che spiegassero meglio questo nuovo approccio all’ invecchiamento, denominandolo invecchiamento positivo.

Tra i primi studiosi a proporre una teoria ci furono Rowe e Khan (1987, 1997): l’ invecchiamento “di successo”, a differenza di quello patologico e quello usuale, è caratterizzato da un’elevata funzionalità a livello generale e da bassi rischi di patologie e disabilità correlate ad esse (ne è un esempio l’osteoporosi, che va ad inficiare la fragilità ossea aumentando il rischio di fratture). Elevate capacità fisiche ed un mantenimento di buone capacità cognitive, come nel problem solving e nell’apprendimento di nuove competenze, permetterebbero un positivo livello generale di funzionamento che getterebbe le basi per una fase di vita attiva e produttiva, due fattori che andrebbero a rinforzare il concetto di autoefficacia percepita (Bandura, 2000), sottostante alla credenza di poter intervenire sulla propria vita in maniera diretta e funzionale.

Uno dei maggiori studiosi dell’ invecchiamento, Baltes, nella sua definizione di sviluppo dell’uomo ha stabilito come principio base la dialettica “guadagni-perdite”: l’età anziana sarebbe predominata da perdite, a differenza dell’adolescente. Queste perdite verrebbero affrontate grazie a due concetti fondamentali della teoria: le risorse e le riserve. Le risorse, fisiche, cognitive e di personalità sono in relazione sistemica, ed in caso di declino esse verrebbero intaccate seguendo un “processo a cascata”. Le riserve invece sono rappresentate da tutte quelle capacità, competenze e nozioni apprese durante l’arco di vita che potrebbero venir sfruttate proprio nella terza età per riorganizzare e rivalutare la propria vita (ad esempio dopo il pensionamento o di fronte ad un importante lutto). Il culmine della teoria di Baltes che spiega come sia possibile un invecchiamento positivo è dato da un insieme di strategie di Selezione, ottimizzazione e compensazione, che applicate in maniera coordinata permetterebbero all’individuo anziano di minimizzare le perdite e massimizzare i guadagni per indirizzare autonomamente la sua vita (Baltes e Baltes, 1990).

La teoria della “selezione socio-emozionale” proposta dalla Carstensen (Carstensen, Isaacowitz, Charles, 1999; Lang, Carstensen, 2002) va a focalizzarsi sulla diversa percezione del tempo da parte dell’anziano rispetto alle altre fasi della vita: una percezione del tempo come limitato porterebbe gli individui a regolare il loro approccio alla vita seguendo una via più “conservatrice”. L’ invecchiamento positivo sarebbe così il risultato di una selezione e ottimizzazione di quelle relazioni più consolidate e capaci di dare una maggior sicurezza e una maggior vicinanza emotiva, “scartando”, invece, quelle più superficiali e negative. Questo processo di ristrutturazione sarebbe mosso da un cambiamento di obiettivi: Se nella gioventù prevalgono obiettivi di espansione del Sè, nell’età anziana vi è una ricerca di conferma del sé e questo può avvenire solo tramite il supporto di una rete sociale capace di fornire un’adeguata intimità relazionale centrata su emozioni positive.

Le teorie illustrate sinora hanno mostrato una certa passività da parte dell’anziano nel suo contesto sociale o, comunque, si sono focalizzate su un intervento compensativo. La recente teoria formulata da Kahana e Kahana (Kahana, Kahana et al., 2002; Kahana, Kahana, Zhang, 2005) vede l’anziano in un’ ottica proattiva, capace attivamente di intervenire sul proprio ambiente. In questo modello teorico due variabili entrano in gioco nell’ invecchiamento positivo: i fattori socio-culturali, come ad esempio l’aver vissuto in prima persona una guerra, e l’esposizione ad eventi stressanti, quali possono essere un divorzio o un lutto. L’anziano riesce a fronteggiare questi due aspetti critici grazie alle proprio risorse interne, come una buona percezione di sé, una buona autoefficacia ma anche una buona motivazione nell’investire il proprio tempo in attività fisiche, e alle proprie risorse esterne come l’avere una buona capacità economica ed una rete sociale. Oggi, inoltre, hanno una particolare rilevanza anche le risorse emergenti quali l’utilizzo del Pc e la navigazione nel Web (come evidenziato dagli stessi autori).

La combinazione di queste risorse permetterebbe l’attuazione di comportamenti e strategie preventive finalizzate ad un invecchiamento di successo e alla prevenzione dei disturbi e delle malattie.

Progettare l’ invecchiamento positivo

Ma come è realmente possibile prevenire quei disturbi e quelle malattie che potrebbero ridurre il proprio benessere fisico, psicologico e sociale durante la terza e quarta età? Quali sono i fattori protettivi della salute che risulterebbero importanti per un adeguato invecchiamento positivo?

Essi possono essere definiti come un insieme di circostanze che contrasterebbero l’azione dei fattori di rischio, fattori che possono aumentare la probabilità di perdere la salute o di comprometterla e possono essere di natura individuale o di natura sociale. Tra i primi vanno annoverati le caratteristiche individuali di personalità, come ad esempio l’estroversione che favorirebbe l’instaurarsi di una buona rete sociale e amicale, permettendo ad un individuo anziano di percepirsi amato e valorizzato.

Un altro fattore protettivo è la capacità di “progettare” la salute e il benessere: secondo Rutter e Rutter (1995) l’uomo mette in atto delle catene longitudinali, cioè delle scelte o dei comportamenti che messi in atto in un preciso momento avrebbero dei vantaggi (o svantaggi) a lungo termine, instaurando una spirale continua di piccoli effetti. Si pensi ad un anziano che inizia a frequentare un’università della terza età: questa scelta comporterà l’accrescimento delle conoscenze, l’allenamento delle capacità cognitive e l’ampliamento della propria rete sociale, o ad un altro che decide di smettere di fumare e seguire una dieta equilibrata.

La resilienza in età anziana, definita da Staudinger et al. (1999) come la capacità di gestire in modo costruttivo gli eventi critici della vita, sarebbe una forza motrice alla base di un comportamento strategico, capace di motivare l’anziano ad investire in nuovi obiettivi di vita, di vedere il futuro lì dove non c’è.

Baltes propone un sistema integrato di risorse, che insieme concorrerebbero a determinare buoni livelli di funzionamento e benessere:
Risorse senso-motorie: intese come una buona autonomia e capacità fisica, ad esempio avere un buon udito o una buona vista;
Risorse cognitive: risorse correlate all’efficienza intellettiva generale: avere una adeguata flessibilità cognitiva per adattare il proprio pensiero a situazioni e problemi nuovi.
Risorse di personalità: dipendenti dai propri tratti di personalità e da come essi vengano espressi;
Risorse sociali: avere il supporto di una buona rete sociale.

Ogni tipologia di risorsa, secondo Baltes e Lang (1997) avrebbe una diversa velocità di declino. Tramite diversi studi effettuati, è stato mostrato come gli anziani con elevate risorse in tutte e quattro le categorie fossero maggiormente attivi e sani.
Conservare le risorse risulta essere di fondamentale importanza per contrastare la vulnerabilità dell’anziano all’esposizione dei fattori di rischio. Ottimizzarle, mantenerle e saperle esplicitare strategicamente, sia a livello personale che sociale, risulta essere alla base di un invecchiamento salutare e positivo.

Molte patologie croniche, come il diabete o i disturbi cardiovascolari, inoltre, possono essere prevenute adottando uno dieta sana. Una dieta mediterranea, basata su cereali, verdure, pesce ed olio d’oliva e sulla riduzione del consumo di carne a favore di un maggior utilizzo di proteine vegetali sembrerebbe ridurre il rischio di malattie neurodegenerative e di tumori (Sofi e collaboratori, 2008).

I centenari

Gli anziani che raggiungono il secolo di vita sono oggi in continuo aumento, solo in Italia se ne contano circa 8000. La psicologia sta mostrando un grande interesse per questa tipologia di anziano: molte ricerche stanno cercando di capire quali siano i fattori psicologici alla base (fattori di personalità, aspetti emotivi, processi cognitivi) per poi tentare di definire un modello teorico generale.

Sinora sono state formulate diverse classificazioni di anziani centenari, utili proprio per definire quali siano i fattori responsabili della centenarietà. Franceschi (2000) distingue tra centenari di classe A, centenari di classe B e centenari di classe C. I primi sono anziani autonomi e attivi, gli ultimi, quelli di classe C sono non autonomi e con uno stato fisico e mentale precario mentre nel mezzo ci sono i centenari che si trovano in una condizione intermedia.

Everet e colleghi (2003) propongono un’ulteriore distinzione:
Centenari “sopravvissuti”: centenari a cui è diagnosticata una demenza o un deficit cognitivo entro gli 80 anni;
Centenari “ritardatari”: centenari ai quali i deficit sono diagnosticati dopo gli 80 anni;
Centenari “fuggitivi”: anziani che hanno compiuto 100 anni “sfuggendo” ad ogni tipo di deficit.

Questi ultimi rappresentano l’èlite dei centenari ed è su questa categoria che si sono focalizzati gli studi per comprendere meglio le variabili (individuali e ambientali) che hanno interagito per permettere ad un individuo anziano di raggiungere tale età, seppure rappresentino una percentuale molto bassa, 15-20%, di tutta la popolazione centenaria.

Perls (2004) propone che questa categoria abbia fatto un largo utilizzo di processi cognitivi di riserva, che abbiano portato a resistere ai cambiamenti patologici dovuti a demenze o ad altri deficit di deterioramento cognitivo. In generale, d’accordo con le teorie sull’ invecchiamento, possiamo dire che nei centenari rimangono intatte le abilità cristallizzate, come ad esempio le conoscenze procedurali, a discapito di quelle fluide. Rimane quindi fondamentale mantenere attive ed allenate le abilità cognitive dedicandosi ad attività intellettive, come ad esempio la lettura di libri, l’apprendimento di una nuova lingua, di uno strumento musicale o ad attività più quotidiane ma che richiedano l’utilizzo dei propri processi cognitivi, come la gestione del proprio libretto dei risparmi.

La memoria, una della abilità cognitive che prima decade nell’anziano e di fondamentale importanza in una vita attiva e dinamica, mostra nella centenarietà un cambiamento più caratteristico e specifico rispetto agli altri processi mentali.

Fromholt e colleghi (2003) nei suoi studi sulla memoria autobiografica hanno mostrato come i centenari avessero una capacità mnestica simile a quella del gruppo di controllo composto da anziani più giovani, ricordando maggiormente eventi delle prime fasi dell’età adulta (15-30 anni) e ricordi più recenti. Un aspetto importante messo in luce da questi studi è quello emotivo: il task dell’esperimento consisteva nell’associare un preciso e singolo ricordo personale ad un’ immagine presentata (un oggetto, un amico, ecc.). I centenari associavano alle diverse immagini ricordi con una valenza neutra piuttosto che ricordi segnati da una valenza emotiva (Mather & Carstensen,2005).

Una spiegazione di tale comportamento potrebbe essere suggerita dalla teoria della gerostrascendenza di Tornstam (1999) secondo cui le persone che raggiungono i 100 anni di vita mettono in atto una ristrutturazione dei propri obiettivi di vita secondo una visione meno materialista e più razionale e trascendentale che comporterebbe una revisione di se stessi e delle proprie relazioni. Emergerebbe un atteggiamento disinteressato verso la vita, considerando il tempo come una variabile ormai limitata e limitante. Di conseguenza, come mostrato negli studi di Fromholt, il ricordo sarebbe distaccato e oggettivo.

Mammarella e colleghi, in uno studio del 2013, confermano ulteriormente la teoria proposta da Tornstam. I partecipanti, durante la prima fase di tale esperimento dovevano apprendere una serie di immagini randomizzate, immagini sia con una valenza emotiva che religiosa, mentre nella seconda dovevano riconoscere le immagini come vecchie, cioè se rientravano nel gruppo di immagini precedente apprese, o nuove. Il gruppo sperimentale era composto da 18 centenari con un’ età media di 100 anni, quello di controllo da 18 anziani con età media di 75 anni. Le ipotesi furono confermate: se per gli “anziani giovani” vi era una migliore performance con le immagini emotive, i centenari ricordavano un maggior numero di immagini religiose. Come ipotizzato da Tornstam, un cambiamento di atteggiamento e di priorità di vita dopo gli 80 anni influenzerebbe la codifica delle informazioni: per i centenari le immagini religiose diventerebbero più salienti rispetto a quelle emotive, correlate ad un atteggiamento più positivo ma anche più concreto.

Non sono molti gli studi sul linguaggio, l’attenzione e il ragionamento nei centenari, ma in generale è emerso come i centenari non presentino forti differenze con gli anziani più giovani in compiti di fluenza verbale (Searl, Gabel e Fulks, 2002) e di attenzione visiva (Silver e colleghi, 1998).
Tuttavia, una vita longeva non può dipendere solo dai fattori cognitivi, ma anche dalle caratteristiche di personalità, i centenari fuggitivi sono estroversi, energici, capaci di gestire i propri stati emotivi in maniera coscienziosa: essi ottengono punteggi bassi su scale di valutazione dell’ansia, mostrandosi capaci di applicare strategie di coping funzionali di fronte ad eventi stressanti e debilitanti. Non può prescindere nemmeno da un adeguato sostegno ambientale, una figura amica che possa prendersi cura dell’anziano nei momenti di bisogno. Inoltre la componente familiare delle centenarietà è molto forte, un pool di geni condivisi all’interno di una famiglia sarebbero cruciali per raggiungere il secolo di vita senza patologie debilitanti (tant’è che nei centenari si riscontrano meno mutazioni nei geni regolanti lo sviluppo delle disabilità).

Ogni singolo fattore esposto da solo sarebbe insufficiente a garantire la centenarietà, ma un’ interrelazione tra loro potrebbe garantire il raggiungimento del secolo di vita. Si attendono nuove ricerche visto il crescente interesse verso questa tematica della psicologia dell’ invecchiamento che possano meglio spiegare come i diversi fattori possano influire sulla complessità del processo.

 

Psicorock. Storie di menti fuori controllo (2016) di Gaspare Palmieri – Recensione

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

 

Il firmamento del rock è affollato di stelle sofferenti che hanno dovuto nel corso della loro vita fare i conti con varie forme di disagio psicologico. Le persone che lavorano in ambito artistico, ed in particolare in ambito musicale, infatti, sembrano soffrire di problemi psichiatrici in misura maggiore rispetto ad altre professioni.

Il libro Psicorock di Gaspare Palmieri, nato dalle suggestioni di un articolo dello psicologo inglese Wills (che ripercorre le biografie di diversi grandi jazzisti dell’epoca del bebop dalle vite alquanto tormentate, cercando di formulare ipotesi diagnostiche), traccia un filo tra storia della musica e psichiatria. L’intento dell’autore è di imparare qualcosa di più sui disturbi psichiatrici partendo da un insolito e interessante punto di osservazione: capire perché certi musicisti in un determinato periodo storico soffrano di problemi psichiatrici e/o dipendenze.

Partendo dai grandi compositori classici, passando dai geniali jazzisti del bebop, fino alle stelle del rock e del pop, l’autore prende in esame dal punto di vista clinico le storie, le biografie, le interviste e la produzione artistica di molti musicisti famosi, soffermandosi di volta in volta sui testi delle canzoni, su particolari esperienze di vita e persino sulla composizione e sul rapporto con lo strumento.

In un susseguirsi di capitoli dai titoli ironici ed evocativi (‘L’edipo rock di Jeff Buckley‘, ‘Il DOC’n’Roll dei Ramones’, ‘Brian Wilson e il controtransfert surf-rock‘, ‘Gli ambidestri rock e il corpo calloso di Jimi Hendrix‘, per citarne alcuni) l’autore racconta le storie di vita di diversi musicisti la cui strada per varie ragioni ha incrociato quella della psichiatria. Da Elvis ‘re mammone del rock e delle pillole‘, al disagio esistenziale di Kurt Cobain, alla psicosi di Syd Barrett, emerge un quadro preoccupante, in cui la presenza di sofferenza mentale supera di gran lunga la percentuale riscontrabile nella popolazione “normale”.

Epoche molto creative dal punto di vista artistico (e musicale in particolare) hanno visto vere e proprie epidemie di disturbi psichiatrici, che hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica e prodotto interessanti pubblicazioni.

Si pensi al periodo del bebop quando l’America razzista del maccartismo da un lato e l’ignoranza delle conseguenze negative dell’assunzione di certe droghe dall’altro, hanno contribuito allo stile di vita sregolato e clandestino dei musicisti che si è incrociato con la predisposizione individuale al sensation seeking, certamente correlato con la creatività e l’attrazione verso il mondo dell’arte.

Il rapporto tra creatività e disagio psichico è interessante e complesso: numerosi studi hanno individuato un’alta prevalenza di disturbi mentali in persone dotate di talento creativo, anche se nella fase creativa vera e propria il disturbo deve essere sufficientemente controllato per non interferire in maniera negativa con la produzione artistica.

Gli artisti possono soffrire di disturbi psichiatrici anche gravi e nonostante ciò produrre opere eccezionali. In molti casi è proprio la musica a rappresentare una grande risorsa, un modo per esprimere stati d’animo dolorosi ed entrare in contatto con parti di sé altrimenti intollerabili: Jim Morrison scriveva canzoni e poesie per affrontare esperienze angoscianti, esplorando i meandri più oscuri e inaccettabili della mente e la sua band agiva come struttura contenitiva e via per incanalare il suo genio aiutandolo ad astenersi da droghe e alcol nella fase creativa; per Amy Winehouse creare musica era un processo insieme doloroso e terapeutico, l’unico modo per entrare in contatto con le parti più fragili e sofferenti di sé senza anestetizzarsi con le sostanze. Talvolta, come emerge dalle interviste di Emily Maguire e Martin Kolbe, la musica è anche un’occasione per superare lo stigma legato alla malattia mentale, diffondendo informazioni e spezzando l’isolamento che spesso caratterizza le vite di persone affette da disturbi psichiatrici.

L’autore prende anche in considerazione l’allarmante dato di elevata mortalità fra i musicisti: pur essendo stato sfatato il mito del Club dei 27, secondo cui ci sarebbe un picco di mortalità fra i musicisti popolari proprio a 27 anni, emerge un aumentato rischio a partire dall’inizio della fama. Interessante è la riflessione relativa alla correlazione fra esperienze traumatiche avvenute in età infantile (Adverse Childhood Experiences – ACE) e mortalità prematura fra le rockstar: in questo senso la rincorsa del successo musicale potrebbe essere un tentativo di coping per sfuggire alle traumatiche esperienze del passato. In realtà in molti casi sono proprio le conseguenze del successo a diventare insostenibili e a spingere i musicisti lungo una china di autodistruzione, talvolta amplificata e rinforzata dai media, spesso attratti più dagli eccessi comportamentali dell’artista che dalla sua produzione musicale.

Un ruolo da protagoniste sul palcoscenico della vita sregolata delle rockstar è naturalmente riservato alle sostanze: farmaci, droghe varie e alcol sono quasi un fil rouge che attraversa le pagine delle variegate storie di Psicorock.

Ciò in parte a causa dell’ignoranza degli effetti negativi che in alcuni periodi storici ha contribuito all’uso massiccio di certe sostanze (eroina e LSD, per esempio), in parte come comportamento di ribellione e rottura verso il sistema, in parte come tentativo (il più delle volte controproducente, a dire il vero) di stimolare la creatività, in parte, forse soprattutto, come modalità di coping e anestesia emotiva rispetto a vissuti altrimenti intollerabili.

Spesso l’abuso di sostanze rappresenta, infatti, un tentativo terapeutico per l’artista. Tentativo che in realtà amplifica gli aspetti depressivi e autodistruttivi e che spesso ha un esito fatale: Elvis, Janis Joplin, Amy Winehouse sono solo alcuni dei musicisti la cui dipendenza da sostanze (rispettivamente farmaci, eroina, alcol) ha avuto un ruolo diretto del causarne la prematura scomparsa.

Altro grande capitolo del rapporto fra mondo della musica e psichiatria è quello della cura. In molti casi il rifiuto delle cure e la difficoltà a fidarsi ed affidarsi è uno degli elementi che accompagna la discesa agli inferi dell’autodistruzione, come per Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse.

In altri casi è proprio l’incontro con medici o terapeuti dall’etica discutibile ad esacerbare il problema o far precipitare la situazione: Elvis ha trascorso la sua vita imbottito di ogni sorta di pillole regolarmente prescritte dal suo medico curante; Brian Wilson, leader dei Beach Boys, è stato preso in cura dal discusso dr. Landy per anni in una terapia costante 24 ore su 24 che abbracciava, o meglio controllava rigidamente ogni aspetto della sua vita. In questo caso lo psicologo ha talmente oltrepassato i confini setting terapeutico da farsi sospendere la licenza dalla Corte Federale per circonvenzione di incapace. Tanta è stata l’influenza nella vita di Wilson di questo legame che egli stesso ha definito quel periodo ‘gli anni di Landy‘.

Quale che sia il rapporto con la cura e i curanti, ciò che emerge dalle autobiografie di molte rockstar uscite negli ultimi anni è un crescente spazio dedicato a dettagliate descrizioni di percorsi di riabilitazione. Amy Winehouse ha perfino dedicato una canzone (Rehab, appunto) a questo tema. In contrapposizione all’apologia degli eccessi che ha caratterizzato gli anni 60/70, pare che oggi sia molto più rock occuparsi del processo di guarigione: ‘sex, rehab and rock’n’roll?‘ si chiede l’autore…

Il libro di Gaspare Palmeri non ha l’ambizione né l’intento di delineare nuove teorie sul rapporto tra rock e follia, mettendo anzi in evidenza come ogni storia sia unica e diversa dalle altre. L’autore ripercorre con sguardo clinico attento e curioso le storie di vita di alcuni protagonisti del rock cercando, con prosa scorrevole e nello stesso tempo accurata dal punto di vista clinico, di andare oltre la superficialità che troppo spesso si incontra nei resoconti giornalistici e che mira solo a fare notizia, a discapito della vera comprensione della sofferenza che sta dietro a ogni storia.

La valutazione diagnostica dell’autismo: la ADOS 2 – Report dal corso della Fondazione Don Gnocchi Onlus

La Fondazione Don Gnocchi Onlus in collaborazione con le edizioni Hoegrefe ha organizzato un corso teorico-pratico circa l’uso dell’ ADOS 2, uno degli strumenti più diffusi per la diagnosi di autismo.

Introduzione

Il corso si è svolto a Milano il 1,2,3 Luglio 2016, presso il centro Carlo Girola. La Fondazione Don Gnocchi nei suoi “28 Centri, attivi in 9 regioni italiane, con un totale di 3.696 posti letto offre un’ampia gamma di servizi, occupandosi di: bambini e ragazzi affetti da complesse patologie acquisite e congenite; pazienti di ogni età che necessitano di interventi riabilitativi”. I disturbi dello Spettro dell’Autismo sono tra le patologie che gli operatori della Fondazione trattano.

L’autismo rappresenta una patologia cronica e complessa di competenza dei servizi di Neuropsichiatria Infantile sia per la diagnosi sia per la riabilitazione. Dopo più di sessanta anni dalla sua individuazione da parte di L. Kanner (1943) le conoscenze in merito al disturbo dello spettro autistico, nella denominazione del DSM 5 o sindrome da alterazione globale dello sviluppo psicologico, secondo l’ICD-10, (International statistical classification of diseases and related health problems) sono in continua evoluzione e se ne aggiungono di nuove grazie alla ricerca condotta in tutto il mondo.

La Seconda Edizione dell’Autism Diagnostic Observation Schedule ADOS 2 (C.Lord, M. Rutter, P. C. DiLavore, S. Risi, R. J. Luyster, K. Gotham, S. L. Bishop, W. Guthrie ) arricchisce e migliora lo strumento di riferimento mondiale per la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.

La docente di questo corso è stata la dottoressa Raffaella Faggioli, educatrice professionale, psicologa e psicoterapeuta riconosciuta esperta di autismo; la Faggioli ha fornito le conoscenze necessarie per un utilizzo clinico corretto di ADOS 2 .

Obiettivi del corso sono stati: acquisire conoscenza della struttura di ADOS 2, delle procedure di somministrazione di ADOS 2 e delle procedure di decodifica e calcolo dei cut-off diagnostici. Un’importante differenza con la maggior parte dei test psicologici è che il campione di riferimento su cui avviene il confronto dei punteggi non è un campione di soggetti normali “free diagnosis”, bensì un campione di soggetti con diagnosi di disturbo dello spettro dell’autismo. Ciò è valido per i moduli da 1 a 5 mentre per il modulo Toddler fornisce un indice di rischio.

Cosa valuta la ADOS 2

La Ados 2 è una prova semi-strutturata basata sull’osservazione del comportamento del bambino in diverse situazioni opportunamente predisposte e poi codificate dall’esaminatore. Possono somministrare questo test solo le figure professionali autorizzate alla diagnosi, medici specialisti in neuropsichiatria infantile e gli psicologi. L’edizione italiana della Ados 2 è del 2013 ed è stata curata da C. Colombi, R. Tancredi, A. Persico e R. Faggioli.

Cosa valuta questo strumento? Cosa si cerca mediante l’uso di Ados per fare diagnosi?
Si cercano, durante le osservazioni di gioco, comportamenti bizzarri in ambito comunicativo, dell’interazione sociale e nell’ambito della flessibilità/rigidità.
Nessuna anomalia o comportamento o assenza di un comportamento è sintomo specifico solo dell’autismo; questo rende il processo diagnostico complesso e rende necessario che sia affidato a un professionista esperto di autismo e dello sviluppo neurotipico.

Gli aspetti del comportamento che cerchiamo sono quelli che esprimono i criteri diagnostici descritti nel DSM5 per il disturbo dello spettro autistico. Ovvero:
Presenza di un disturbo persistente della comunicazione sociale e dell’interazione sociale (affetto sociale);
pattern di comportamenti ripetitivi o attività e interessi ristretti;
insorgenza entro i 3 anni, ma possono manifestarsi anche più avanti;
I sintomi causano una compromissione clinicamente significativa della qualità di vita.

La relatrice illustra alcuni aspetti da considerarsi campanelli d’allarme di un funzionamento non normotipico visibile in bambini sotto i tre anni. Si tratta di segni da monitorare e approfondire non di sintomi effettivi. Tra questi aspetti vi sono: l’essere bambini “troppo autonomi” rispetto all’età; fatica nel contatto oculare; gesti ripetitivi; interessi focalizzati; difficoltà o assenza del gioco spontaneo del “far finta” , fatica nell’adeguamento al contatto fisico ( fatica a cambiarlo, vestirlo); Tendenza a mettere in fila tutti gli oggetti.
Questi aspetti vengono osservati durante la somministrazione dell’ ADOS 2 mediante situazioni di gioco appositamente strutturate.

Materiale del test

La Ados 2 è strutturata in cinque moduli distinti, ciascuno con uno specifico materiale di lavoro e protocollo di notazione. I moduli sono i seguenti:

– Modulo Todler, proposto ai bambini dai 12 ai 30 mesi che non abbiano ancora sviluppato un linguaggio fluente. Si compone di 11 sessioni di attività strutturate finalizzate ad indagare aspetti relativi all’affetto sociale ( ad es. indicare, risposta al nome, divertimento condiviso nell’interazione) e al comportamento ristretto e ripetitivo. A differenza dei moduli successivi il Toddler fornisce un indicatore di rischio non un cut-off.
– Modulo 1. Ideato per bambini dai 31 mesi che non hanno sviluppato il linguaggio fluente. Si compone di 10 sessioni di attività strutturate finalizzate ad indagare aspetti relativi all’affetto sociale e al comportamento ristretto e ripetitivo ( ad esempio interessi ripetitivi insoliti o ripetitivi).
– Modulo 2.Pensato per bambini che producono linguaggio per frasi complete anche se non pienamente fluente, anche se hanno meno di 30 mesi. Si compone di 14 sessioni di attività di gioco di immaginazione e d interazione congiunta, conversazione, descrizione ed altro.
– Modulo 3. E’ strutturato per bambini e giovani adolescenti con linguaggio verbale fluente (frasi complesse e interconnesse tra loro, dove usa presente, passato e futuro). Si compone di 14 sessioni di attività, nelle quali oltre all’attività di gioco di immaginazione e interattivo sono previste la conversazione e l’intervista circa le emozioni e relazioni amicali.
– Modulo 4, è pensato per tardo adolescenti e adulti con linguaggio verbale fluente. In questo protocollo sono minori le attività di gioco proposte ed è inserita un’intervista sulle emozioni, abilità sociali, amicizia e relazioni. E’ importante stimolare la conversazione su queste tematiche.

Le domande sulle emozioni riguardano gioia, paura, rabbia e tristezza. Chiediamo una definizione delle emozioni suddette, di cosa le provoca e come si sentono.
E’ consentito che l’operatore possa fare degli esempi di situazioni che tipicamente attivano un’emozione. L’ultima domanda dell’intervista riporta un piano positivo elicitando una situazione che provoca contentezza e rilassamento.

I criteri da considerarsi per la scelta del modulo da somministrare sono l’età cronologica e lo sviluppo del linguaggio.

Preparare la somministrazione

La dottoressa Faggioli suggerisce di valutare il livello intellettivo (QI) del bambino e lo sviluppo del linguaggio verbale con gli strumenti appostiti specifici per la fascia di età.
La disabilità intellettiva può essere associata all’autismo e ne determina la caratteristica di alto o basso funzionamento.
Inoltre è utile proporre al genitore la compilazione del questionario ADI-R circa il comportamento del bambini nella prima infanzia.
Ados 2 e ADI-r sono gli strumenti testologici più utilizzati a scopo di ricerca sull’autismo e pertanto i più diffusi in letteratura scientifica.
Per utilizzare questo strumento è importante possedere una formazione specifica ed esperienza clinica con l’età evolutiva e con l’autismo; per l’utilizzo della ADOS 2 a scopi di ricerca oltre ai requisiti appena descritti, la relatrice ricorda che è necessario conseguire un “patentino” apposito rilasciato da esperti abilitati a questa certificazione.

Il corso è stato arricchito di esemplificazioni cliniche e di video di somministrazioni che hanno facilitato l’apprendimento.
Il corso ha permesso di entrare nel mondo dell’autismo e conoscerne le fragilità e i comportamenti tipici anche a coloro tra gli allievi che ancora non hanno maturato elevata esperienza clinica nell’ambito.

In sintesi, a mio parere questo corso è:
CONSIGLIABILE agli psicologi che lavorano con l’età evolutiva, anche se non lavorano nello specifico con bambini o ragazzi con autismo poiché lo strumento orienta il clinico ad osservare atteggiamenti tipici dello spettro.
MOLTO CONSIGLIATO a psicologi e neuropsichiatri infantili, coinvolti nel trattamento delle persone con autismo.
QUASI OBBLIGATORIO agli psicologi e neuropsichiatri infantili che si occupano della diagnosi di autismo.

 

Orientamento professionale e disabilità: una sfida da non perdere

Grandi trasformazioni come la globalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico e mutamenti sociali hanno cambiato la natura stessa del lavoro e le abilità richieste ai lavoratori: sempre di più, in questo scenario, occorre approfondire le competenze tecniche necessarie per progettare e garantire un servizio di orientamento professionale che possa aiutare i soggetti disabili a rispondere a questi cambiamenti particolarmente sfidanti.

 

Esiste oramai una massa impressionante di studi che documentano i grandi cambiamenti che stanno interessando il mondo del lavoro. Nonostante il nostro paese possa facilitare l’inserimento occupazionale dei soggetti affetti da disabilità attraverso l’emanazione di leggi in loro favore, grandi trasformazioni come la globalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico e mutamenti sociali hanno cambiato la natura stessa del lavoro e le abilità richieste ai lavoratori.

Sempre di più, in questo scenario, occorre approfondire le competenze tecniche necessarie per progettare e garantire un servizio di orientamento professionale che possa aiutare i soggetti disabili a rispondere a questi cambiamenti particolarmente sfidanti.

Nonostante le difficoltà, infatti, i dati suggeriscono che i disabili disoccupati sono desiderosi di trovare una occupazione (Taylor, 1994); allo stesso tempo, la letteratura mette in luce tre difficoltà specifiche che gli esperti di orientamento professionale dovranno tener presente e affrontare efficacemente, nell’erogazione di un servizio di orientamento a questa popolazione.

 

 

1. Limitazione nelle prime esperienze lavorative

In generale, la carenza di esperienze lavorative limita le future possibilità di carriera e spesso i soggetti disabili entrano nell’età adulta con un background povero di esperienza lavorativa; questa mancata esperienza rende molto difficoltosa l’accessibilità ad una prima occupazione, perpetuando il periodo di inesperienza e lasciando la persona con una ancora non formata identità professionale definita, rendendo l’uscita da questo meccanismo a spirale molto difficile (Holland, 1985).

 

 

2. Capacità decisionali

Legata alla mancanza di esperienza lavorativa vi è un ulteriore competenza, la presa di decisione. Questa permette agli individui di verificare se le proprie scelte hanno avuto successo o meno, fornendo importanti feedback al lavoratore. Talvolta, le persone disabili denunciano l’avere avuto meno occasioni di poter partecipare ai processi decisionali, compromettendo così, lo sviluppo appropriato delle loro capacità di presa di decisione e responsabilizzazione (Curnow, 1989).

 

 

3. Concetto di sé negativo a seguito di processi discriminatori

Un’ altra difficoltà che gli esperti di orientamento professionale dovranno tener presente è che l’atteggiamento nei confronti della disabilità può speso affliggere la persona disabile tanto quanto la disabilità stessa.

L’esposizione prolungata ad atteggiamenti e comportamenti pregiudizievoli da parte della società può chiaramente contribuire a creare un’immagine di sé negativa o poco capace.

Per gli psicologi Szymanski e Trueba (1994) vi sono difficoltà che affliggono i disabili, come ad esempio una rappresentazione di sé più negativa e meno capace, che non derivano da loro danni funzionali, ma sono esclusivamente il prodotto di stigma, marginalità e discriminazione a cui sono andati incontro per molti anni.

 

 

Caratteristiche di un buon orientamento professionale rivolto a persone con disabilità

A causa di queste difficoltà, è ancora più importante e urgente che gli operatori di orientamento professionale impostino i loro servizi respingendo questi processi di castificazione e applicando i principi che ispirino la filosofia dell’empowerment. Attivare un processo di empowerment, nel contesto di orientamento, significa aumentare nelle persone la possibilità di controllo sulla propria vita e sulle condizioni che la influenzano, così come è vissuto dalle persone che non presentano disabilità (Harp, 1994).

Un orientamento professionale rivolto ai disabili si deve fondare su quattro postulati (Emener, 1991):

  • Ciascun individuo è di grande valore e dignità;
  • Ogni persona deve avere la possibilità di sviluppare al massimo le proprie potenzialità e deve essere messo nelle condizioni di poterlo fare;
  • Nelle persone vi è una naturale propensione alla crescita e al miglioramento;
  • Ogni individuo deve essere lasciato libero di decidere nella gestione della propria esistenza.

Dato il continuo cambiamento nel mondo del lavoro e le difficoltà a cui sono sottoposte le persone con disabilità, sembra sempre più evidente la necessità di facilitare il processo di inserimento e sviluppo occupazionale attraverso un aiuto concreto e competente a questo target più svantaggiato. Un efficace percorso di orientamento professionale che tenga conto della sofferenza meno visibile dei disabili può essere un utile strumento per potenziare le possibilità di scelta e di riuscita della loro vita professionale (Gysbers, 2002).

Il senso di colpa nei pazienti depressi: come viene vissuto

E’ possibile ipotizzare che il grave senso di colpa tipicamente esperito dai soggetti depressi, sia (arbitrariamente) autoriferito a se stessi in quanto persone, assumendo caratteristiche di stabilità e globalità, il che causerebbe un intaccamento del valore individuale e dell’autostima. In questo senso, la pervasività dell’emozione e il carico di sofferenza sono comprensibili data l’individuazione del locus di colpevolezza non nell’azione effettuata, quindi situazionale e modificabile, ma nell’esistenza stessa della persona.

Angelica Gandolfi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il senso di colpa nella depressione

Il senso di colpa può essere definito come un costrutto complesso che comprende componenti cognitive, affettive e comportamentali (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2014). Esso è ritenuto avere un ruolo centrale nei disturbi depressivi. Il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (DSM), giunto alla V edizione, pone il senso di colpa tra i sintomi di inclusione per la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD, Major Depressive Disorder), associandolo a possibili valutazioni negative non realistiche, preoccupazioni e ruminazioni. In questo senso, le persone possono da un lato interpretare in modo distorto eventi quotidiani neutri come prova di difetti personali, dall’altro provare un eccessivo senso di responsabilità per situazioni spiacevoli.

In studi recenti, Zahn e collaboratori (Green, Lambon Ralph, Moll, Deakin e Zahn, 2012; Lythe, Moll, Gethin, Workman, Green, Lambon Ralph, Deakin e Zahn, 2015) hanno trovato, tramite l’utilizzo di tecniche di neuroimmagine, evidenze neurali che supportano questa teoria. Gli autori partono da modelli cognitivi che suggeriscono un nesso di causalità tra valutazioni autocolpevolizzanti e vulnerabilità al disturbo depressivo maggiore (Ghatavi, Nicolson, MacDonald, Osher e Levitt, 2002).

I pazienti con disturbo depressivo maggiore, rispetto alle altre persone, più frequentemente si sentono inadeguati e privi di valore e provano senso di colpa, anche inappropriato (O’Connor, Berry, Weiss e Gilbert, 2002.). Questa tendenza svalutativa, però, è generalmente presente solo nel giudizio verso se stessi e non in quello verso altri. Tali bias e distorsioni cognitive, unitamente ai sintomi distintivi depressivi, sono stati analizzati, in queste indagini, ricercandone una spiegazione ed eventuali anomalie a livello dei sistemi neurali, al fine di favorire la comprensione globale patogenica del disturbo depressivo maggiore.

Neuroscienze: cosa avviene a livello cerebrale

In lavori precedenti, la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia ad emissione di positroni (PET) avevano permesso di individuare una regione chiave implicata nella fisiopatologia del disturbo depressivo maggiore, la corteccia cingolata subgenuale, che mostra, nei soggetti con episodi depressivi, alterazioni nel metabolismo a riposo (Drevets, Savitz, Trimble, 2008) e anomalie di connettività con una più estesa rete corticolimbica, di cui fa parte (Sheline, Price, Yan e Mintun, 2010).

Sembra che la corteccia cingolata subgenuale e la regione del setto adiacente (SCSR) si attivino nell’attribuzione di colpa verso se stessi, ma non in quella verso gli altri (Zahn, Moll, Paiva, Garrido, Krueger, Huey e Grafman, 2009). Esse sono connesse al lobo temporale anteriore (ATL), implicato nella concettualizzazione generale dei sentimenti morali, auto ed etero diretti, che definiscono le caratteristiche dei comportamenti sociali propri e altrui (id.). Queste rappresentazioni morali permettono valutazioni adeguate ed equilibrate delle situazioni, calibrando le attribuzioni colpevolistiche, insieme alle cognizioni ed emozioni conseguenti. L’accoppiamento funzionale tra ATL e SCSR risulta quindi essere il correlato anatomico della differenziazione delle esperienze di colpa, che permette ai soggetti sani di incolpare se stessi senza danneggiare la propria autostima o il proprio valore personale (Green, Ralph, Moll, Stamatakis, Grafman e Zahn, 2010). La scoperta di Zahn et al. (Green, Lambon Ralph, Moll, Deakin e Zahn, 2012; Lythe, Moll, Gethin, Workman, Green, Lambon Ralph, Deakin e Zahn, 2015), ancora una volta tramite l’uso della fMRI, è l’alterazione di questa connettività in soggetti, in remissione da un anno, che hanno sofferto di disturbo depressivo maggiore. L’attribuzione di colpa verso se stessi, quindi, in questi individui, non attiva parallelamente la regione dedita alle rappresentazioni morali, per cui non può avvenire un confronto tra il proprio comportamento e le normative concettualizzate. Questo scollegamento comporterebbe il tipico bias per cui le autocolpevolizzazioni depressive risulterebbero esagerate, rigide, generalizzate al valore personale globale, proprio per la mancata razionalizzazione, che sarebbe invece permessa dal confronto con le rappresentazioni morali.

Il legame tra senso di colpa e sintomi depressivi

Per comprendere al meglio i legami che il senso di colpa ha con i sintomi depressivi, tuttavia, pare utile analizzare tale costrutto, per focalizzare in modo migliore sovrapposizioni con alterazioni significative dell’umore.
Miceli e Castelfranchi (1995), che ritengono il senso di colpa come uno dei più pervasivi stati di sofferenza esperibili dall’individuo, rilevano al suo interno tre centrali e fondamentali componenti di tipo cognitivo:
– La valutazione negativa di dannosità. Il colpevole valuta in termini di dannosità o cattiveria l’azione da lui compiuta o la semplice intenzione dell’azione (scopo). Questa è condizione necessaria ma non sufficiente all’esperienza del senso di colpa.
– L’assunzione di responsabilità. È necessario, ma ancora una volta non sufficiente, che il soggetto assuma di aver causato qualcosa direttamente o indirettamente (non nel caso del senso di colpa per l’intenzione all’azione) e di aver (avuto) lo scopo di causare quel qualcosa o, comunque, il potere di evitarlo, prevederlo o prevenirlo.
– La compromissione dell’autostima morale. Per passare da un’assunzione di colpevolezza al senso di colpa, l’individuo deve condividere i valori o le norme rispetto ai quali si sente colpevole. L’azione commessa o ideata e l’assunzione di responsabilità causano, cioè, una compromissione dell’autoimmagine morale, un abbassamento dell’autostima in relazione ai valori personali.

Gli autori considerano quest’ultimo punto come non solo necessario, ma anche sufficiente a generare senso di colpa. Le autovalutazioni negative implicate nella riduzione dell’autostima morale, infatti, avrebbero anche forti implicazioni emotive, riscontrabili in: un senso di sconfitta e umiliazione per non essere stati all’altezza dei propri valori; il rammarico e il rimorso per aver fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare e che, quindi, si desidera ardentemente non aver fatto; il disprezzo per se stessi, per la propria bassezza morale. Sconfitta, umiliazione, rammarico, rimorso e disprezzo, insieme alla sofferenza con e per la vittima, costituirebbero le componenti emotive di questo stato. A tal proposito, Miceli e Castelfranchi (1995) delineano l’identificazione con la vittima come una componente aggiuntiva del senso di colpa, attribuendole, in particolare, un ruolo importante nella genesi della colpa durante lo sviluppo. Gli autori individuano anche un ulteriore aspetto conseguente un’esperienza simile, confermato da ricerche successive (Zeelenberg e Breugelmans, 2008), quello dell’attivazione dello scopo di riparare, rimediando anche ai danni subiti alla propria autostima.

La riparazione può spiegare le incoerenze, emerse nel corso degli anni, della ricerca sulle relazioni tra senso di colpa e psicopatologia. Tilghman-Osborne e collaboratori (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2010) considerano tali contraddizioni relative alle definizioni e alle misurazioni del costrutto adottate nei vari studi. In particolare, per quanto riguarda il rapporto con la depressione, alcuni autori hanno definito il ruolo positivo del senso di colpa nella riduzione o nella prevenzione dei sintomi grazie proprio alla funzione di motivare al rimedio e all’espiazione (Tangney,1991). Dal lato opposto, altri studi hanno trovato correlazioni positive tra colpa e depressione, sottolineando la valenza negativa del senso di colpa, che rifletterebbe il dolore e la tensione interiori, con conseguenze sfavorevoli per l’umore (Harder 1995). In generale, i lavori che hanno definito e misurato il senso di colpa come un processo doloroso e disadattivo, hanno trovato correlazioni positive con il disturbo depressivo, mentre gli studi che hanno guardato la colpa come un meccanismo di adattamento hanno identificato correlazioni negative (Tilghman-Osborne, Cole e Felton, 2010). Questa differenza, tuttavia, sembra essere anche legata alla variabile età. Sempre secondo gli autori, la concettualizzazione di colpa avrebbe più probabilità di rimandare a componenti adattive e riparative se applicata ai bambini, a componenti maladattive e disfunzionali se riferita agli adulti.

Il senso di colpa comportamentale e il senso di colpa caratteriale

Un altro modo per spiegare la possibile compresenza di componenti funzionali e non, è prendere come riferimento la distinzione tra senso di colpa comportamentale (BSB, Behavioral self-blame) e senso di colpa caratteriale (CSB, Characterological self-blame) riportata in altri scritti di Tilghman-Osborne e collaboratori (Tilghman-Osborne, Cole, Felton e Ciesla, 2008). Il senso di colpa comportamentale prevede un’attribuzione di controllo all’individuo, in quanto riguarda l’attuazione o la mancata esecuzione di comportamenti che provocano esiti negativi o che avrebbero potuto prevenirli. Il valore adattivo, in questo senso, risiede nella possibilità di riflettere sul proprio comportamento per evitare risultati simili in futuro. Prendendo come esempio il subire un furto per strada, una considerazione a posteriori possibile potrebbe essere “non avrei dovuto camminare da solo di sera”. Il senso di colpa caratteriale, invece, può essere considerato come uno stile cognitivo auto-riflessivo in cui si incolpa se stessi in quanto persone, per carenze individuali, per il proprio carattere. È generalmente accompagnato dall’autocritica, dall’autoconsiderazione di essere totalmente responsabili e meritevoli del risultato negativo e da processi di ruminazione. Riprendendo l’esempio precedente, potrebbe essere formulata l’affermazione autoreferenziale “sono uno stupido e mi metto sempre nei guai”. Sia il senso di colpa comportamentale sia quello caratteriale sono quindi attribuzioni interne di causalità, ma il primo rimanda a componenti modificabili e situazionali, il secondo ad aspetti globali e stabili della persona. Proprio per questo, gli autori hanno trovato il senso di colpa caratteriale maggiormente correlato alla depressione.

Colpa e senso di colpa

Proseguendo nell’analisi delle sfaccettature del costrutto, pare utile riportare anche la distinzione effettuata da Hooge et al. (de Hooge, Nelissen, Breugelmans e Zeelenberg, 2011) tra colpa e senso di colpa, intendendo la prima come un’emozione adattiva, utile agli individui per proteggere e migliorare le relazioni sociali, e il secondo come una valutazione di trasgressione morale reale o immaginaria, che suscita preoccupazione e sentimenti di tensione e rimorso e tendenze all’azione, che ne annullino le conseguenze. La pervasività dello stato di disagio sembra essere dovuto proprio al fattore responsabilità personale, al considerare, cioè, colpa personale l’esistenza e il fare parte della situazione negativa.

Conclusioni

Cercando di integrare tutte le informazioni raccolte, è possibile ipotizzare che il grave senso di colpa tipicamente esperito dai soggetti depressi, sia (arbitrariamente) autoriferito a se stessi in quanto persone, assumendo caratteristiche di stabilità e globalità, il che causerebbe un intaccamento del valore individuale e dell’autostima. In questo senso, la pervasività dell’emozione e il carico di sofferenza sono comprensibili data l’individuazione del locus di colpevolezza non nell’azione effettuata, quindi situazionale e modificabile, ma nell’esistenza stessa della persona.

La discrepanza tra le severità dei giudizi auto ed etero diretti, inoltre, sarebbe dovuto a una disconnessione tra le aree cerebrali coinvolte nell’esperienza del senso di colpa e nella formulazione di rappresentazioni morali. Nel momento in cui, sempre in soggetti vulnerabili alla depressione, sia attribuita a sé una responsabilità per un evento negativo, non vi sarebbe possibilità di effettuare un confronto con standard e norme valoriali appresi, estremizzandone quindi la gravità e l’irrimediabilità.

Lungi dal voler spiegare un modo esaustivo i complicati intrecci tra senso di colpa e sintomi depressivi, il presente lavoro vuole lasciare uno spunto di riflessione sull’importanza della delicatezza nella comunicazione terapeutica con pazienti di questo tipo. Il rischio che aleggia nel favorire l’agentività e un locus of control interno, ponendo l’individuo in posizione centrale e responsabile rispetto alla sua sofferenza, infatti, potrebbe essere quello di incrementare il senso di colpa, le cognizioni di indegnità e le emozioni di disperazione, dovuti al considerarsi la causa irrimediabile del suo dolore. L’avanzamento delle conoscenze sui meccanismi sottostanti la genesi e l’espressione del disturbo è di fondamentale importanza per la strutturazione di terapie che massimizzino le possibilità di miglioramento, strutturate secondo i concetti di gradualità e di personalizzazione.

La mente ossessiva: curare il disturbo ossessivo compulsivo (2016) di F. Mancini – Recensione

Quando si dice DOC si intendono due cose: un funzionamento ossessivo orientato all’impossibile compito della ricerca della certezza assoluta che genera una cascata di dubbi senza fine. La seconda è il tentativo disperato di evitare la colpa che per esperienze infantili è giudicata intollerabile e foriera di ostracismo.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo o DOC, come ormai gli stessi pazienti usano affettuosamente chiamarlo, quasi fosse un cagnolino che si aggira dispettoso per casa è una vera piaga sociale per due motivi: la sua incidenza elevata (un milione di Italiani) è addirittura sottostimata perché i pazienti da un lato si vergognano di confessarlo anche alle persone care, dall’altro non sanno che esiste un approccio terapeutico, appunto quello cognitivo comportamentale più efficace dei farmaci e che consente una migliore qualità di vita quando non è del tutto risolutivo.

Inoltre gli ossessivi, e lo dico per esperienza personale, tribolano enormemente al punto da desiderare di essere psicotici e perdere definitivamente la ragione (il che non è vero neppure per gli invidiati psicotici che non se ne stanno affatto a godersi un bel mondo di loro invenzione).

Infatti sono assediati da pensieri e impulsi che li tormentano in continuazione e li accompagnano sempre non essendo dunque possibile risolvere con il semplice evitamento delle situazioni temute come nel panico perché il mostro è dentro di loro. Contemporaneamente sono però assolutamente lucidamente consapevoli dell’assurdità dei loro pensieri e ciò genera paura per gli esiti possibili, tristezza per le limitazioni drammatiche che vivono e l’autosvalutazione, vergogna che li porta ad isolarsi. Non credo sia un caso che nei Vangeli i matti più matti di tutti erano chiamati ossessi anche se, occorre precisarlo, ancora la sequenza dei DSM non aveva definito bene i confini.

Quando si dice DOC si intendono due cose: un funzionamento ossessivo orientato all’impossibile compito della ricerca della certezza assoluta che genera una cascata di dubbi senza fine e che sembra abbia ispirato il Magnifico che aveva lo studio vicino a piazza Duomo quando scriveva ‘di doman non c’è certezza‘. Tale funzionamento a mio parere  presente nel DOC si estende anche al di fuori ed è presente ogni qual volta la posta in ballo in caso di errore è considerata elevatissima o irrinunciabile. Lo ritroviamo dunque anche in altri disturbi d’ansia accomunati dalla percezione della minaccia esterna ed interna (l’ansia stessa) ad uno scopo importante.

La seconda è il tentativo disperato di evitare la colpa che per esperienze infantili è giudicata intollerabile e foriera di ostracismo: la trappola si chiude quando gli stessi sintomi (ossessioni e compulsioni) diventano a loro volta motivo di colpa e ostracismo.

Il volume è il frutto di un lavoro di squadra che ha consacrato il centro APC/SPC come struttura di eccellenza in Italia per l’intervento sul DOC. Ai vent’anni di esperienza si sono poi aggiunti altri 5 anni per la gestazione del libro di cui un mese per scriverlo e 5 anni e 11 mesi per assicurarsi che non ci fossero colpevoli errori. E’ possibile che nei mesi a venire gli acquirenti siano raggiunti da telefonate per segnalare refusi e piccoli errori da correggere a penna.

Non posso parlare troppo bene del volume per l’invidia che provo a non essere tra gli autori. Devo riconoscere però, ob torto collo, che esso mantiene sempre un delicato equilibrio tra la presentazione delle tecniche e delle prassi operative efficaci rispondendo alla domanda ‘si, ma che si deve fare concretamente?‘ senza diventare un, tanto di moda, libro di ricette sconnesse, e una elegante descrizione del funzionamento del paziente ossessivo o meglio dell’ossessivo che è in noi, senza cedere alla tentazione dell’onanismo cogitativo.

Teoria raffinatissima e prassi concreta ben amalgamate fanno di questo libro tanto atteso del più grande esperto mondiale di DOC, una lettura irrinunciabile per colleghi giovani e stagionati.

Cinquecento pagine da leggere una prima volta per capire il senso dell’esperienza ossessiva e da tenere poi nel cassetto della scrivania per consultarlo prima delle sedute. Gli autori guidano il lettore negli anfratti del ragionamento lucido e folle ad un tempo. E’ un viaggio da cui non tutti sono tornati ma già abbiamo fatto partire le squadre di soccorso.

Trattamenti antidepressivi più precisi grazie ad un esame del sangue

Un recente studio realizzato presso il King College di Londra, ha evidenziato come sia possibile prevedere l’efficacia di un trattamento antidepressivo mediante la rilevazione dei livelli ematici di due biomarcatori.

 

Nella situazione attuale, circa la metà di tutti i pazienti depressi risultano resistenti ai trattamenti farmacologici più comunemente utilizzati, mentre un terzo appare completamente resistente verso tutti i farmaci disponibili. Fino ad oggi non è stato possibile conoscere preventivamente se un paziente avrebbe risposto positivamente o meno al trattamento, o a quale farmaco avrebbe risposto meglio. Per cui l’unico approccio utilizzato è stato sempre quello di trovare il farmaco migliore mediante tentativi ed errori.

Il nuovo studio è stato pubblicato sul The International Journal of Neuropsychopharmacology, ed ha preso in considerazione due biomarcatori (MIF e IL-1β) che segnalano i livelli di infiammazione presente nel sangue, e che sono coinvolti in diversi meccanismi cerebrali connessi con la depressione.

A due campioni indipendenti di pazienti depressi sono stati effettuato due prelievi del sangue, uno precedente al trattamento, ed uno successivo.

Dalle analisi è risultato che i livelli dei due biomarcatori nel sangue, mostravano una precisa e affidabile correlazione con la risposta del paziente al farmaco antidepressivo assunto. I pazienti con valori di MIF e IL-1β più alti hanno mostrato una correlazione di efficacia estremamente bassa verso la risposta positiva ai tradizionali farmaci antidepressivi, rispetto ai paziente che avevano valori dei due biomarcatori più bassi.

Questi risultati confermano ed estendono la crescente evidenza che con alti livelli di infiammazione ematica diminuisca l’efficacia dei trattamenti farmacologici antidepressivi.

Il professore Carmine Pariante dell’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience (IoPPN), a capo dello studio, afferma che, l’identificazione di biomarker per prevedere la risposta ai farmaci, è un passo fondamentale per ridurre l’onere sociale ed economico della depressione, e per migliorare la qualità di vita dei pazienti.

Questo studio fornisce un approccio clinico adatto per la personalizzazione della terapia antidepressiva. Per cui ai pazienti che riportano un livello di infiammazione ematica al di sopra di una certa soglia, potrà essere preventivamente scelta una strategia terapeutica più decisa, mediante l’utilizzo sinergico di più farmaci antidepressivi e antinfiammatori.

La dottoressa Annamaria Cattaneo del IoPPN sottolinea che, si tratta del primo studio che ha utilizzato un esame del sangue per prevedere, in due gruppi clinici indipendenti di pazienti depressi, la risposta ad una serie di somministrazioni di antidepressivi comunemente descritti.

Ora sarebbe davvero importante proseguire, con uno studio clinico più ampio che metta a confronto il metodo classico di somministrazione dei farmaci per prove ed errori, con questo nuovo approccio guidato da test ematici.

Disturbi alimentari: quanto conta la famiglia

Se si esaminano gli studi sui comportamenti genitoriali risulta che madri e padri maturano convinzioni positive sulla malattia e tendono a indirizzare i propri figli verso il piano di realtà. In questi casi gli esiti di malattia sono migliori rispetto ai casi in cui i genitori tendono a minimizzarne le manifestazioni comportamentali.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi alimentari: quanto conta la famiglia (Nr. 20)

Il ruolo della famiglia come fattore di sofferenza emotiva

Da sempre la psicologia è impegnata nella riflessione sul ruolo della famiglia come fattore di sofferenza emotiva. Nel bene e nel male, si tratta di una componente che non si può trascurare. Nel male, perché psicoterapeuti, psicologi e persino psichiatri di fronte al paziente si sentono irresistibilmente genitori vicari e forse migliori dei genitori originali. È una tentazione a cui non sfugge nessun operatore della salute mentale.

Ma non ci sono solo gli aspetti negativi. Una maggiore consapevolezza dei possibili inferni familiari, infatti, è un tratto decisamente positivo della modernità. Nella letteratura contemporanea c’è un’attenzione per bambini e adolescenti del tutto assente in quella del passato. Nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione gli studi presentano dati contrastanti. I genitori tendono spesso ad attribuire particolari significati a questa patologia, e i modelli che utilizzano per interpretare i sintomi e i comportamenti ad essa associati sono molteplici.

 

I comportamenti genitoriali nei confronti dei disturbi alimentari dei figli

Negli ultimi anni si è registrato un interesse crescente nel settore. Alcuni genitori interpretano questo disturbo come un’ossessione o una dipendenza che il proprio figlio non è in grado di padroneggiare. La pensano così i genitori che sanno essere empatici, che si mostrano interessati e preoccupati piuttosto che controllanti e autoritari nei confronti dei propri figli.

Se si esaminano gli studi sui comportamenti genitoriali risulta che madri e padri maturano convinzioni positive sulla malattia e tendono a indirizzare i propri figli verso il piano di realtà. In questi casi gli esiti di malattia sono migliori rispetto ai casi in cui i genitori tendono a minimizzarne le manifestazioni comportamentali. Constatare che solitamente i genitori considerano la patologia alimentare come una malattia misteriosa non sorprende affatto. Un basso livello di “coscienza di malattia” può provocare frustrazione e confusione, e può esitare in comportamenti contraddittori da parte dei genitori, in quanto basati su un sistema di credenze non adeguate. In effetti, i genitori che hanno espresso forte preoccupazione per le manifestazioni della malattia hanno avuto approcci positivi nei confronti della stessa rispetto a quelli che si mostravano più sicuri delle proprie azioni e dei propri comportamenti (Moss-Morris et al. , 2002).

Analizzare le strategie adottate dai genitori per interpretare i significati inerenti allo sviluppo della malattia può portare a una condizione di maggiore benessere del paziente. Le indagini effettuate in ambito adolescenziale indicano che i genitori si comportano con i figli affetti da disturbo alimentare esattamente come la restante parte dei genitori. Ma sarebbe necessario studiare altre variabili di accudimento, come la vergogna e i favoritismi, che sono legati alla genesi della psicopatologia alimentare (Gilbert, Gerlsma, 1999), alle quali sono associati mancanza di autostima e problemi interpersonali (Gilbert et al. , 1999).

Di solito il decorso della malattia interferisce con le dinamiche relazionali familiari. Appaiono critici i comportamenti rifiutanti e iperprotettivi da parte dei genitori, che rappresentano un fattore di rischio per l’esordio dei disturbi alimentari (Castro et al., 2000). Gli studi di McFarlane e colleghi (1995) hanno rilevato che il principale determinante del benessere negli adolescenti esposti a situazioni di stress era caratterizzato da uno stile di accudimento basato sull’empatia, senza la presenza di eccessiva intrusione e controllo. Secondo Oliver e Paull (1995), la relazione dei genitori con figli affetti da disturbo alimentare è dominata dal sottile senso di scarsa autostima che circola tra loro.

 

Le terapie della famiglia per i disturbi alimentari

Per quanto riguarda le terapie della famiglia, alcuni studi hanno sottolineato che i risultati migliori si ottengono nell’anoressia, con trattamenti effettuati in età adolescenziale sull’intera famiglia del paziente (van Furth et al., 1996; Robin et al. , 1999; le Grange, 1999; Gowers, Nord, 1999). In particolare, i genitori in terapia possono aiutare nella comprensione del ruolo svolto nella genesi del disturbo. Peraltro, utilizzare i genitori nel trattamento potrebbe, almeno in parte, diminuire i tassi di abbandono del trattamento (Halmi et al., 2005). Va da sé che sarebbe opportuno avviare trial randomizzati per poter trarre conclusioni più adeguate in merito.

L’applicabilità della terapia familiare alla bulimia è stato oggetto di un numero esiguo di studi, che riferiscono la presenza di scarsi benefici (Russell et al., 1987). Schmidt e collaboratori (2007) rilevano che la terapia familiare potrebbe coadiuvare la terapia cognitivo-comportamentale con gli adolescenti, che però tendenzialmente rifiutano il trattamento con la famiglia. Ma Le Grange e colleghi (2007) sostengono che la terapia individuale genera un più giustificativo miglioramento sui sintomi rispetto a quella familiare. In conclusione, la famiglia può giocare un ruolo importante per comprendere sia la genesi del disturbo sia le condizioni che portano il soggetto a esercitare delle resistenze al trattamento (le Grange et al. , 2010).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Disturbo Ossessivo Compulsivo e rischio di suicidio

E’ credenza comune che i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) non siano a rischio di suicidio. Vari studi contraddicono tale convinzione, suggerendo che una percentuale compresa tra il 5% e il 25 % di soggetti con DOC ha tentato il suicidio almeno una volta nella vita. I pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo, inoltre, presentano una maggiore incidenza di idee suicidarie rispetto alla popolazione non clinica (Alonso et al, 2010; Balci et al. 2010; Torres et al., 201; Dhyani et al., 2013).

 

Alessitimia e senso di responsabilità come fattori di rischio per il suicidio nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo

Tra i fattori associati al rischio di suicidio nei pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo sono identificabili alessitimia ed eccessivo senso di responsabilità.
Il termine alessitimia è stato introdotto per descrivere un insieme di caratteristiche cognitive e affettive osservate in soggetti con disordini psichiatrici e psicosomatici (Sifneos, 1996). L’alessitimia è un costrutto multidimensionale costituito da quattro elementi fondamentali: a) difficoltà a identificare (DIF) e descrivere (DDF) i sentimenti, b) difficoltà nel distinguere i sentimenti dalle sensazioni corporee, c) riduzione della fantasia, d) pensiero concreto e scarsamente introspettivo (Taylor et al., 1997). Gli alessitimici potrebbero presentare disregolazione emotiva, ossia l’incapacità di autoregolare e inferire le proprie emozioni a causa della mancata consapevolezza delle stesse (Panayiotou et al., 2015).
A causa di tali deficit gli alessitimici mostrano, generalmente, livelli d’ansia significativi, depressione, distress psicologico, sintomi somatici e disturbi della sfera emozionale (De Berardis et al., 2010).

L’alessitimia è presente nel 20%-40% di pazienti con Disturbo ossessivo compulsivo e risulta associata a maggiore severità del disturbo, scarso insight (De Berardis et al., 2005; Carpenter et al., 2011), aumentato rischio suicidario (De Berardis et. al, 2008). In effetti, vari studi mettono in luce associazioni positive tra alessitimia e pregressi tentativi di suicidio, anche in assenza di sintomi depressivi (Hintikka et al., 2004; De Berardis et al.,2008). La sofferenza psicologica risulta spesso intollerabile per l’individuo alessitimico, che può trovare evidenti difficoltà a verbalizzare e descrivere i propri sentimenti. I soggetti alessitimici potrebbero allora essere spinti a esprimere tale sofferenza con un atto suicidario (Pompili, 2010; De Berardis et al., 2013).

Il ruolo del senso di responsabilità nel DOC è stato ampiamente indagato. La responsabilità, è stata definita da Salkovskis et al. (2000) come:[blockquote style=”1″] la convinzione di avere il potere di determinare o prevenire esiti negativi cruciali.[/blockquote] Nel modello cognitivo del Disturbo ossessivo compulsivo l’eccessivo senso di responsabilità è stato identificato come uno dei principali componenti cognitivi, rappresentando un fattore di vulnerabilità e di mantenimento del disturbo (Smari et al., 2008).

E’ stato ipotizzato che l’eccessivo senso di responsabilità potrebbe essere correlato a una maggiore severità del Disturbo Ossessivo Compulsivo, a sintomi depressivi, a sentimenti di colpa e impulsività (Arnzt et al., 2010) e a un aumento dell’ideazione suicidaria, soprattutto nei soggetti DOC più vulnerabili, ad esempio quelli fortemente alessitimici.
Tuttavia, a oggi, la relazione tra alessitima, senso di responsabilità e ideazione suicidaria in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo è stata scarsamente studiata.

Lo studio su alessitimia, senso di responsabilità e rischio suicidario nei pazienti con DOC

A tal proposito risulta particolarmente interessante il lavoro di De Berardis et. al (2015), “Alexithymia, responsibility attitudes and suicide ideation among outpatients with obsessive-compulsive disorder: An exploratory study”. Gli obiettivi del lavoro di De Berardis et al (2015) sono stati essenzialmente due: da un lato, valutare le possibili differenze cliniche tra pazienti alesstimici e non alessitimici relativamente a severità del disordine, insight, senso di responsabilità e ideazione suicidaria; dall’altro indagare le variabili cliniche associate all’ideazione suicidaria.

Il campione e gli strumenti

Lo studio è stato condotto su un campione di 104 soggetti di età compresa tra i 18 e i 45 anni con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo. La diagnosi è stata effettuata mediante assessment clinico basato sulla somministrazione della Structured Clinical Interviews for DSM-IV Axis I Disorders (SCID-I), della Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS) e della Toronto Alexitimia Scale – 20 (TAS-20).
Sono stati esclusi i soggetti con disabilità intellettiva, quelli che facevano uso di sostanze e gli individui che presentavano altri disturbi psichiatrici in comorbilità.

I soggetti sono stati reclutati in vari centri di salute mentale del Nord e Centro Italia.
La severità del Disturbo ossessivo compulsivo è stata valutata mediante la somministrazione della Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS), una scala somministrata dal clinico per la valutazione della severità di ossessioni e compulsioni, indipendentemente dal numero e dal tipo di ossessioni e compulsioni presenti. La valutazione dell’item #11 della Y-BOCS è stata presa in considerazione come misura del livello di insight del soggetto. Punteggi ≥ 3 all’item #11 della Y-BOCS rappresentavano la soglia per determinare il confine tra consapevolezza e mancata consapevolezza di malattia (insight scarso o assente).

L’alessitimia è stata valutata utilizzando la versione italiana della Toronto Alexithiymia Scale (TAS-20). Un punteggio ≥ 61 è stato considerato indicativo di alessitimia. La TAS-20 ha una struttura a tre fattori: il Fattore 1 valuta la capacità di identificare i sentimenti e distinguerli dalle sensazioni corporee che accompagnano gli stati di attivazione emotiva (difficoltà nell’identificazione dei sentimenti [DIF]); il Fattore 2 riflette l’incapacità di comunicare sentimenti ad altre persone (difficoltà nella descrizione dei sentimenti [DEF]); il Fattore 3 valuta il pensiero orientato all’esterno (EOT). Il 26% (n=27) del campione ha ottenuto punteggio ≥ 61 ed è stato considerato positivo per l’alessitimia.

Per valutare l’ideazione suicidaria, sono stati presi in considerazione i punteggi ottenuti dai soggetti alla Scale of Suicide Ideation (SSI), una scala a tre punti somministrata dal clinico, con item in grado di indagare l’intenzione suicidaria. Maggiore è il punteggio totale ottenuto alla scala, maggiore è la severità dell’ideazione suicidaria. Un punteggio ≥ 6 è stato utilizzato come soglia di cut-off per identificare un’ideazione suicidaria clinicamente significativa. Il 28.8% (n=30) dei pazienti è stato considerato positivo per questa variabile.
La Responsability Attitude Scale (RAS), un questionario di 26 item, è stato utilizzato per valutare atteggiamenti e credenze relative al senso di responsabilità.
La Montgomery Asberg Depression Rating Scale (MADRS) è stata infine utilizzata per valutare la presenza di eventuali sintomi depressivi.

Analisi dei risultati

Le analisi statistiche condotte sul campione – costituito da 52 maschi e 52 femmine con età media di 32.1 ± 8.0 anni, con durata media di malattia di 9.9 ± 6.8 anni ed età media di insorgenza del disturbo compresa tra 22.2 ± 6.0 anni – hanno evidenziato che nove partecipanti (8.7%) avevano già tentato il suicidio in qualche momento della propria vita mentre dodici soggetti presentavano una storia familiare positiva (11.5%) per il suicidio. Il confronto tra individui con e senza alessitimia, controllati per genere, età, età di insorgenza dei sintomi, durata di malattia e punteggi alla MADRS, ha evidenziato che i pazienti alessitimici ottenevano punteggi più elevati alla Y-BOCS (sia nella sottoscala ossessioni, sia nella sottoscala compulsioni), alla RAS e alla SSI rispetto ai soggetti non alessitimici. I pazienti con alessitimia, inoltre, mostravano minore consapevolezza di malattia e maggiore ideazione suicidaria rispetto ai controlli. Le analisi hanno inoltre evidenziato un’associazione tra scarso insight, punteggi elevati alla RAS e alla sottoscala DIF della TAS-20 e maggiore ideazione suicidaria.

In base alle conoscenze attualmente disponibili sull’argomento, lo studio di De Berardis et al. (2015) è il primo ad aver esaminato la relazione tra alessitimia, eccessivo senso di responsabilità e ideazione suicidaria in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo.
In generale, i risultati della ricerca di De Berardis et al. (2015) mettono in luce come i pazienti con alessitimia mostrino maggiore severità del Disturbo ossessivo compulsivo insight ridotto, responsabilità eccessiva e maggiore intensità dell’ideazione suicidaria; questi dati potrebbero essere spiegati facendo riferimento al concetto di “alessitimia secondaria acuta” (Frebergers, 1977). L’alessitimia secondaria acuta può essere spiegata come un fenomeno stato-dipendente, transitorio, che compare a seguito dell’esposizione ad eventi stressanti e che tende a diminuire con la risoluzione dell’episodio stesso.

Visto che nello studio di De Berardis et al (2015) i soggetti DOC alessitimici evidenziano punteggi più elevati alla Y-BOCS e minore insight rispetto ai non alessitimici, è plausibile ipotizzare che punteggi alti alla RAS (elevato senso di responsabilità) e alla SSI (intensa ideazione suicidaria) riflettano un fenomeno stato-dipendente, probabilmente correlato alla maggiore severità del DOC e allo scarso insight di malattia. In effetti, un ridotto insight è associato a forme più severe di Disturbo ossessivo compulsivo (Fontenelle et al., 2013).

Inoltre, l’associazione tra la dimensione DIF (identificare sentimenti) della TAS-20 e l’ideazione suicidaria emersa nello studio di De Berardis et al. (2015) è in linea con i dati di precedenti ricerche che hanno dimostrato come la dimensione DIF della TAS-20 risulti correlata a elevata ideazione suicidaria anche in assenza di sintomi depressivi (Marasco et al., 2011; Carano et al., 2012; Sakuraba et al., 2005).

Conclusioni

A differenza di altri disordini psichiatrici, l’eccessivo senso di responsabilità (che potrebbe essere letto in termini di responsabilità sociale) manifestato dai soggetti DOC potrebbe derivare da un’ipervalutazione del pensiero altrui (Moritz et al., 2013) ed essere correlato alla presenza di un intenso senso di colpa rispetto alle difficoltà emotive esperite da tali soggetti nell’ambito delle relazioni sociali (Mazza et al., 2010). E’ interessante notare che i risultati dello studio di De Berardis et al. (2015) supportano l’idea che gli individui con maggiori difficoltà a identificare i propri sentimenti (DIF) e scarso insight manifestino un eccessivo senso di responsabilità, che a sua volta correla positivamente con una più intensa ideazione suicidaria. Su queste basi, è possibile ipotizzare che la presenza di alessitimia in pazienti DOC potrebbe essere correlata a una cronica incapacità di fronteggiamento di situazioni stressanti, anche quando lo stressor è lieve (ipotesi dell’alessitimia secondaria) (Martin, 1985; Alkan et al., 2013). Questa scarsa resistenza alle situazioni stressanti potrebbe essere associata a una maggiore severità del disordine (alessitimia secondaria acuta) (Freyberger, 1977) e, di conseguenza, a un eccessivo senso di responsabilità, che potrebbe peggiorare ulteriormente i sintomi DOC, innescando un circolo vizioso (Ghassemzadeh et al., 2005).

In effetti, la difficoltà nel differenziare i sentimenti e distinguerli dalle sensazioni corporee e dall’arousal emotivo potrebbe interferire con l’abilità di tali pazienti di proteggersi adeguatamente da eventi di vita stressanti e con la gestione del senso di responsabilità (Rachman, 1993). Visto che un senso di responsabilità eccessivo può innescare o incrementare sentimenti di colpa (Mancini et al., 2006) e considerato che tali sentimenti potrebbero essere particolarmente problematici e severi in individui con alessitimia, è possibile che tali variabili incrementino ulteriormente il rischio di suicidio.

Quindi, visto che è stato dimostrato che la colpa patologica è associata a un aumentato rischio di suicidio (Sani et al., 2011), gli individui con alessitimia potrebbero sviluppare colpa patologica in conseguenza all’eccessivo senso di responsabilità e alla maggiore severità dei sintomi DOC, determinando rischio di suicidio anche in assenza di sintomi depressivi clinicamente significativi.

Lo studio di De Berardis et al. (2015) ha natura esplorativa e pertanto ha vari limiti che dovrebbero essere evidenziati. Anche se la severità del DOC e l’ideazione suicidaria sono stati analizzati usando scale di valutazione somministrate e valutate da clinici, alessitimia e senso di responsabilità sono stati valutati con scale di valutazione self-report. Inoltre è stato impiegato un disegno di ricerca trasversale che limita le conclusioni circa la causalità: lo studio manca di dati follow-up. In effetti la natura trasversale della ricerca non permette di trarre conclusioni definitive su quale elemento (alessitimia o responsabilità) possa essere quello primario. Inoltre, la ridotta ampiezza del campione non permette di generalizzare i risultati.

Nonostante questi limiti e la necessità di ulteriori ricerche sull’argomento è comunque possibile affermare che i dati emersi dalla ricerca di De Berardis et al. (2015) presentano importanti risvolti per la pratica clinica: i professionisti della salute mentale dovrebbero essere consapevoli del fatto che l’assenza di sintomi depressivi clinicamente significativi non è sufficiente ad escludere la presenza di ideazione suicidaria in pazienti DOC; tale dimensione dovrebbe essere sempre indagata, soprattutto in presenza di alessitimia, scarso insight ed eccessivo senso di responsabilità.

My blue box: una “scatola degli attrezzi” per aiutare i bambini a comprendere il disagio mentale dei genitori

Nasce il primo sito web italiano di informazione e prevenzione rivolto ai figli di genitori con disagio mentale.

 

Il sito web My Blue Box per aiutare i figli di genitori con disagio mentale

Finalmente è nato per la prima volta in Italia un sito web o meglio, un contenitore, una scatola appunto, che racchiude una serie di strumenti per aiutare i figli a comprendere e ad affrontare il disagio mentale di uno o entrambi i genitori. Si tratta quindi di un servizio di informazione e allo stesso tempo prevenzione nell’ambito della salute mentale.

My Blue Box: come aiutare i bambini con genitori psichiatrici

I destinatari del progetto sono coloro che spesso vengono ignorati proprio perché in apparenza non manifestano il bisogno di ricevere supporto. Si tratta dei figli, più o meno grandi, di genitori affetti da disagio psichico come, ad esempio, depressione, disturbo bipolare, schizofrenia. In Europa ci si riferisce a questi bambini con l’acronimo COPMI (Children of Parents with Mental Illness).

La maggior parte dei progetti si rivolge agli utenti della salute mentale escludendo coloro che non manifestano apertamente un disagio. In realtà essere figlio di una persona che soffre di un disagio psichico non è semplice. I bambini si trovano a trasportare da soli un enorme fardello di emozioni, pensieri e responsabilità. Questi vissuti sono illustrati chiaramente all’interno del video di presentazione del sito, in cui è possibile vedere un bambino che tenta inutilmente di scalare da solo una montagna, portando sulle spalle un enorme zaino. Lo zaino contiene i dubbi e le paure di questo bambino che molto spesso non riesce a comprendere lo “strano” comportamento del genitore che magari resta a letto tutto il giorno, si arrabbia con lui senza motivo o si comporta in modo bizzarro.

Le emozioni più frequenti nei bambini con genitori affetti da disagio mentale

Ciò che non conosciamo, ciò che non comprendiamo, ciò che è imprevedibile ci genera paura e ansia proprio perché non riusciamo a gestirlo. Se il bambino non comprende le motivazioni che portano il genitore a comportarsi in un certo modo, è probabile che attribuisca a se stesso la causa di questo. Ecco quindi che accanto a emozioni di paura e ansia per ciò che non riesce a spiegarsi, alla vergogna che si accompagna alle manifestazioni in pubblico del genitore e alla consapevolezza di appartenere ad una famiglia “diversa” da quella dei compagni e amici, si unisce anche il senso di colpa per essere un cattivo bambino responsabile della sofferenza del proprio genitore. Talvolta sono i figli stessi a doversi prendere cura di sé e dei propri genitori quando questi non sono in grado di gestire la famiglia. Sono bambini spesso non considerati dagli operatori sanitari e che portano il fardello da soli e sentono di non poterne parlare con nessuno, alimentando il senso di vergogna e di isolamento.

Le finalità del sito

Ecco quindi perché nasce questo portale. Un sito rivolto proprio a questi milioni di bambini “invisibili”, per fornire loro strumenti di comprensione del disagio mentale dei genitori. Uno spazio quindi di informazione ma allo stesso tempo anche di prevenzione di un possibile loro futuro disagio. Il portale contiene spazi rivolti ai figli che cercano di capire, spazi dedicati ai genitori che vogliono iniziare con loro un dialogo e uno spazio dedicato agli operatori sanitari che si trovano ad affrontare queste tematiche. Sono presenti racconti di esperienze personali e materiale da far leggere ai figli o da leggere insieme per aiutarli a capire cosa sta accadendo nella loro vita. Vengono inoltre periodicamente segnalati eventi o gruppi a tema e link ad altri siti e blog, tutto nell’ottica di formare una rete per aiutarsi reciprocamente a comprendere e a gestire le difficoltà.

Il messaggio trasmesso dal portale è principalmente quello del “se ne può parlare” ma soprattutto “se ne deve parlare”: si devono esprimere i propri vissuti anche cercando aiuto quando serve. Isolarsi nella propria sofferenza non alimenta il malessere e non consente di aiutare l’altro.
Ecco quindi che nella parte finale del video si vede il bambino che riesce a scalare la montagna supportato dall’aiuto e cooperazione di altre persone. Lo zaino è sempre lì, ancora più grande e pesante, nessuno può toglierlo e trasportarlo al nostro posto, come d’altra parte non è possibile cambiare determinate situazioni, ma se qualcuno ci aiuta possiamo comunque trovare la forza e il modo di trasportarlo lungo tutto il nostro percorso di vita.

 

Rischio più elevato di ansia nelle donne e nei giovani sotto i 35 anni

Secondo una revisione della letteratura scientifica esistente effettuata dall’Università di Cambridge, le donne hanno il doppio delle probabilità di avere ansia rispetto agli uomini. Lo studio ha anche rivelato che le persone provenienti dall’ Europa occidentale e dal Nord America hanno maggiori possibilità di soffrire di ansia rispetto alle persone di altre culture.

 

Ansia e soggetti più a rischio

La revisione, che è stata pubblicata sulla rivista Brain and Behavior, ha evidenziato come i disturbi d’ansia associati ad altri problemi di salute (cardiache, il cancro e anche la gravidanza) spesso aumentino i disagi e le complicazioni.

I disturbi d’ansia spesso si manifestano con eccessiva preoccupazione, paura e tendenza ad evitare situazioni potenzialmente stressanti e questi sono alcuni dei problemi di salute mentale più diffusi nella popolazione occidentale. Il costo annuale relativo ai disordini negli Stati Uniti è stimato a $ 42300000. Nell’Unione Europea, oltre 60 milioni di persone sono colpite annualmente da disturbi d’ansia.

Molti sono gli studi che indagano il numero di persone con disturbi d’ansia e le persone a maggior rischio di sviluppo: i ricercatori hanno effettuato una revisione globale nel tentativo di sintetizzare tali risultati.

Tra il 1990 e il 2010 la percentuale complessiva di persone con disturbo d’ansia è rimasta sostanzialmente invariata: circa quattro persone su 100 hanno sperimentato ansia. La più alta percentuale di persone con ansia è in Nord America, dove quasi otto persone su 100 hanno ansia; la percentuale più bassa è in Asia orientale, dove meno di tre su 100 persone hanno questo problema di salute mentale.

Le donne hanno quasi il doppio delle probabilità di sviluppare ansia rispetto agli uomini; i giovani sotto i 35 anni di età, al netto del genere, ne sono colpiti in modo sproporzionato.

I ricercatori hanno anche scoperto che le persone con altri disturbi di salute hanno spesso molta più probabilità di sviluppare disturbi d’ansia. Ad esempio, nei paesi dell’occidente circa uno su dieci soggetti (10,9%) con malattia cardiovascolare soffre di disturbo d’ansia generalizzato, tra cui le donne evidenziano livelli d’ansia più elevati. I pazienti con sclerosi multipla hanno un disturbo d’ansia (circa uno su tre, 32%).

Conclusioni

In conclusione, le donne e i giovani sono colpiti maggiormente rispetto agli uomini da disturbi d’ansia. Inoltre, le persone che hanno una condizione di salute cronica concomitante sono particolarmente a rischio. I disturbi d’ansia possono essere altamente invalidanti ed è importante per i nostri servizi sanitari capire quali individui sono a più alto rischio in un’ottica di prevenzione.

I disturbi d’ansia colpiscono molte persone e possono portare a disabilità e rischio di suicidio Anche se molti studi hanno esaminato questo importante argomento, rimangono ancora lacune significative da cercare di colmare con nuove ricerche. I dati relativi ai gruppi emarginati sono difficili da ottenere e queste persone potrebbero essere ad alto rischio rispetto alla popolazione generale. La ricerca futura potrebbe essere diretta allo studio di questi gruppi allo scopo di colmare le diverse lacune presenti.

La disgrafia – Introduzione alla psicologia

Disgrafia: Questo termine risale all’inizio dello scorso secolo e si riferisce a un disturbo legato alla scrittura riguardante la dimensione delle lettere, la distanza tra lettere e l’ortografia. Le persone affette da questo disturbo mostrano capacità di scrittura inferiori alla media in relazione all’età, al QI e al livello di istruzione.

Disgrafia: introduzione

Parlare di disturbi specifici dell’apprendimento lascia intendere l’esistenza di una serie di patologie inerenti a questa area tra cui la più nota è la dislessia, di cui si è parlato la scorsa settimana. Invece, meno conosciuta ai più è la disgrafia, disturbo legato alla sfera della scrittura.

Questo termine risale all’inizio dello scorso secolo e si riferisce a un disturbo legato alla scrittura riguardante la dimensione delle lettere, la distanza tra lettere e l’ortografia.
Le persone affette da questo disturbo mostrano capacità di scrittura inferiori alla media in relazione all’età, al QI e al livello di istruzione.

Disgrafia: Etimologia e storia

Disgrafia è un termine composto da due parole greche: ” Dys ” che significa ” difficoltà con ” o “povero” e” graphia ” ovvero scrittura, quindi si intende una difficoltà con la scrittura.

Inizialmente, nel 1940, questa patologia fu definita agraphia, termine ideato dal medico austriaco Josef Gerstmann. Successivamente, H. Joseph Horacek, nel suo libro Brainstorms, descrisse l’agrafia non come caratterizzata da una totale incapacità nello scrivere, ma dalla presenza di carenze nell’ambito della scrittura. In questo caso la persona affetta da tale patologia non mostra né un trauma cerebrale, che possa giustificare la problematica manifestata, né una perdita totale dell’uso della scrittura, per cui si trattava di qualcosa di diverso dall’agrafia. Quindi era necessario effettuare una differenziazione: con agrafia si indica la perdita della scrittura derivante da un infarto o trauma cerebrale, mentre nella disgrafia la scrittura è mantenuta ma presenta delle anomalie e colpisce giovani, adulti e bambini.

Disgrafia: di cosa si tratta?

La disgrafia è una condizione che causa problemi con l’espressione della scrittura non legati alla pigrizia, ma inerenti alle capacità di apprendimento. Molti bambini con disgrafia, non riescono a scrivere correttamente una parola su una riga e la grandezza delle lettere è variabile, al punto da far apparire la scrittura disordinata. Inoltre, faticano a riportare per iscritto quanto pensano o ricordano.

Nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali-5 (DSM-5) non è usato il termine disgrafia, ma questo deficit è definito tramite la frase “perdita di espressione scritta”, perché coloro che ne soffrono faticano molto in questo compito sia a livello motorio sia cognitivo, ed è inserito nella categoria dei disturbi specifici dell’apprendimento. In ogni caso, qualunque sia la modalità usata per definire questa patologia è importante capire che la scrittura lenta o sciatta non è necessariamente un segno che il bambino possa avere problemi intellettivi o cognitivi. Quindi, se ci fossero delle avvisaglie in tal senso sarebbe necessaria una diagnosi accurata che porti a confermare o meno la presenza di un disagio nell’apprendimento.

Per scrivere sono necessarie una serie di complesse capacità motorie, riprodotte in sequenza, e una serie di processi volti alla elaborazione del linguaggio. Nei bambini disgrafici queste abilità non sono adeguatamente integrate. Infatti, risultano essere più lenti e hanno una serie di difficoltà nello scrivere. Senza aiuto, un bambino con disgrafia farà sicuramente fatica a scuola, con tutte le conseguenze negative che possano verificarsi sia a livello emotivo sia comportamentale.

Disgrafia: diffusione

I sintomi della disgrafia non sono rari, specialmente tra i bambini piccoli che iniziano a scrivere, ma bisogna verificare se queste difficoltà perdurano nel tempo o sono legate solo a un periodo specifico. Nel primo caso, allora, è possibile procedere con una valutazione specifica volta a giungere a una adeguata diagnosi per inquadrare la problematica presentata. La disgrafia è molto diffusa, solo che spesse volte si confonde con le normali difficoltà comunemente incontrate quando si impara a scrivere o con problemi inerenti alla sfera cerebrale e intellettiva.

Disgrafia: cause

Non esiste ancora una specifica causa individuata che possa portare alla genesi della disgrafia. Solitamente è il cervello che gestisce il tutto: prende informazioni acquisite e immagazzinate in memoria per poi riprodurle in un secondo momento attraverso la scrittura. In persone disortografiche tutto questo non avviene, infatti si rilevano problemi sia a livello di organizzazione delle informazioni memorizzate sia nella riproduzione su carta o digitale delle informazioni apprese. Questo si traduce in un prodotto finale caratterizzato da una scrittura di difficile lettura, piena di errori e, cosa più importante, che non trasmette ciò che il bambino intendeva scrivere realmente.

Spesse volte il bambino presenta problemi a carico della memoria di lavoro, che utilizza un processo di codifica per immagazzinare nuove parole scritte. Questo meccanismo nel disgrafico non funziona e per questo si verifica una difficoltà nel ricordare come scrivere una lettera o una parola, con conseguenti complicazioni nella scrittura.

I bambini con disgrafia non hanno un disturbo dello sviluppo motorio, ma possono avere difficoltà a pianificare i movimenti sequenziali delle dita che portano ad avere una buona grafia.
Inoltre, è stata riscontrata familiarità tra i disortografici, e per questo è possibile possa esserci un problema a livello genetico che porta a tramandare il disturbo di padre in figlio.

Disgrafia: i sintomi

I sintomi della disgrafia rientrano in sei categorie: visuo-spaziale, motoria, elaborazione del linguaggio, ortografia / scrittura, grammatica e l’organizzazione del linguaggio, in presenza di capacità di scrittura in ritardo rispetto ai coetanei. I sintomi manifestati sono alcuni tra i seguenti:

1. difficoltà visuo-spaziale:
problemi con la forma e la spaziatura tra lettere;
difficoltà a organizzare parole da sinistra a destra nella pagina;
difficoltà a scrivere su una linea e dentro i margini;
difficoltà a leggere le mappe, il disegno o la riproduzione di una forma di un testo.

2. difficoltà motorie:
problemi a tenere una matita in modo corretto;
incapacità di usare adeguatamente le forbici;
problemi a colorare all’interno dei margini;
posizionare il polso, il braccio, il corpo o la carta in maniera scomoda durante la scrittura.

3. problemi di elaborazione linguistica:
difficoltà a riportare le idee su carta rapidamente;
difficoltà a capire le regole di un gioco;
non si seguono le indicazioni;
perdere il filo del discorso.

4. Problemi di ortografia / Problemi di scrittura a mano:
difficoltà a capire le regole ortografiche;
difficoltà a distinguere se una parola è errata;
parlare corretto, ma con errori di ortografia per iscritto;
combinare le parole in modo errato;
problemi con il controllo ortografico e quando lo fa, non riconosce la parola corretta;
mischiare maiuscole e minuscole;
mischiare il corsivo con lo stampatello;
difficoltà a leggere la propria scrittura;
Evitamento dello scrivere;
Stanchezza eccessiva nello scrivere;
Elaborati pieni di scarabocchi e cancellature.

5. Grammatica:
Punteggiatura non corretta;
Utilizzo di troppo virgole;
Mescolare i tempi verbali;
Non si iniziano le frasi con la lettera maiuscola;
Non si scrivono frasi complete, e spesse si usano elenchi puntuali.

6. Organizzazione della scrittura:
difficoltà a raccontare una storia o si inizia da metà racconto;
si tralasciano fatti e dettagli importanti, o si forniscono troppe informazioni;
i discorsi sono sempre vaghi;
le frasi sono confuse;
non si arriva mai al punto o si scrivono sempre le stesse cose più e più volte.

Disgrafia: Indicatori meno noti di disgrafia

Esistono i seguenti indicatori che, se manifestati di frequente, lasciano dedurre la presenza di una disgrafia. Si tratta di dolore durante la scrittura, che inizia nell’avambraccio e poi si diffonde in tutto il corpo. Questo dolore può peggiorare o addirittura apparire in concomitanza di un periodo di particolare stress. Le persone con disgrafia non attribuiscono mai questo dolore a un problema con la scrittura, ma credono sia dovuto a un qualcosa di organico.

I sintomi della disgrafia variano anche a seconda dell’età del bambino e i primi segni compaiono generalmente quando si inizia a scrivere. In particolare, i bambini in età prescolare possono essere riluttanti a scrivere e disegnare, mentre quelli in età scolare spesso mostrano una grafia illeggibile e hanno bisogno di pronunciare le parole ad alta voce durante la scrittura. Gli adolescenti, invece, scrivono frasi semplici, con molti errori grammaticali.

Disgrafia: diverse tipologie

È possibile individuare diversi tipologie di Disgrafia:
1. dislessica, la scrittura spontanea è illeggibile, mentre quella copiata è abbastanza buona, e l’ortografia è pessima. La velocità del movimento delle dita è nella norma.
2. motoria, è dovuta a un deficit delle capacità motorie, scarsa destrezza, scarso tono muscolare, e / o goffaggine motoria non meglio specificata. In generale, la scrittura è povera e illeggibile, anche quando si copia un documento. La velocità del movimento delle dita è nella norma.
3. spaziale, è determinata da una difficoltà nella percezione dello spazio, la scrittura e il copiato sono incomprensibili, l’ortografia normale.

Alcuni bambini possono avere una combinazione di due o tutte e tre queste tipologie di disgrafia.

Disgrafia: comorbidità

Molti bambini con disgrafia hanno anche altri problemi di apprendimento:

Dislessia.
– Disturbi del linguaggio: i bambini possono avere difficoltà ad apprendere nuove parole, utilizzare una grammatica corretta e a trasformare i pensieri in parole.
Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): problemi di attenzione, impulsività e iperattività.
– Disprassia: condizione che provoca scarso coordinamento motorio e fisico che possono influire sulla scrittura.

Disgrafia: diagnosi

Segni di disgrafia spesso appaiono durante i primi anni di scuola elementare, ma i segnali diventano evidenti alle medie o superiori. Spesso, come sempre, una diagnosi precoce aiuta a uscire prima dal problema. Gli psicologi specializzati, in alcuni casi, anche quelli scolastici, possono effettuare diagnosi di disgrafia purché opportunamente specializzati nei disturbi dell’apprendimento. La diagnosi sarà effettuata tramite test opportunamente selezionati per misurare le capacità motorie e la produzione della scrittura. Durante il test, il professionista può chiedere al bambino di scrivere frasi o di copiare un testo. Inoltre, saranno valutate anche la postura, come è impugnata la matita, la stanchezza, se ci sono dolori muscolari e la velocità di produzione di un testo.

Disgrafia: trattamento

Il trattamento per la disgrafia varia e può includere esercizi motori, per rafforzare il tono muscolare, migliorare la destrezza e la coordinazione occhio-mano, e di controllo della scrittura, oltre ai trattamenti riguardanti esercizi di memoria o neuropsicologici. L’uso del computer è consigliabile rispetto alla carta. Spesse volte a una riabilitazione cognitiva e motoria neuropsicologica sono affiancati incontri con uno psicoterapeuta adiuvanti al miglioramento del benessere del bambino.

Disgrafia: conseguenze

L’impatto della disgrafia sullo sviluppo del bambino varia a seconda dei sintomi e dalla loro gravità. I bambini con disgrafia possono restare indietro nel lavoro scolastico impiegano molto tempo a scrivere e a prendere appunti e per questo possono scoraggiarsi e evitare compiti in cui è richiesto l’uso della scrittura. Inoltre, le capacità motorie di alcuni bambini disgrafici sono molto deboli e per questo faticano nelle attività quotidiane, come ad esempio abbottonare le camicie o allacciare le scarpe.

I bambini con disgrafia possono sentirsi frustrati o in ansia perché si sentono sempre dei falliti nella vita rispetto ai loro coetanei. Inoltre, se giudicati pigri o sciatti dalle insegnanti potrebbero sviluppare una serie di problemi psichici come bassa autostima, ansia, pensieri cattivi ricorrenti e depressione. Tutto questo, alla lunga potrebbe portare a isolamento sociale e problemi col gruppo dei pari.

Disgrafia: come si può intervenire

Se il bambino ha la disgrafia un team di docenti e specialisti della scuola potrà inserirlo in un programma educativo individualizzato, che può includere un apprendimento intensivo della scrittura e esercizi motori. Non vi è alcun farmaco per il trattamento della disgrafia. Tuttavia, i bambini che hanno anche l’ADHD, a volte, sostengono che i farmaci per l’ADHD alleviano i sintomi della disgrafia. I bambini, in ogni caso possono essere aiutati tramite delle strategie da eseguire anche a casa con i genitori:
– Annotarsi esattamente quali sono le difficoltà presentate dal bambino
– Prima di scrivere il bambino può fare un esercizio anti stress: stringere le mani in fretta o strofinarle per alleviare la tensione.
– Giocare con l’argilla o con una palla in gommapiuma può aiutare a rafforzare i muscoli della mano.
Infine, ma non meno importante, lodare il bambino per lo sforzo impiegato nel raggiungere il risultato può motivare ad andare avanti mantenendo alta l’autostima.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Report dal Gruppo di Interesse Speciale “ACT for Health” – 29 giugno 2016, Verona

Verso una migliore comprensione del modello ACT che ne consenta un utilizzo coerente con la Relational Frame Theory, nelle diverse situazioni della pratica clinica.

 

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) rappresenta un modello sempre più diffuso e utilizzato all’interno di diversi contesti clinici, ed offre interventi empiricamente validati in diverse problematiche psicologiche e comportamentali, come l’ansia, la depressione, il dolore cronico, promuovendo la flessibilità psicologica dell’individuo.

Quanto il controllo delle emozioni spiacevoli, così come l’evitamento esperienziale, influenzano il paziente nella condizione di una patologia organica?‘ ‘In che modo la mindfulness, come procedura necessaria nel trattamento ACT, può favorire la consapevolezza del qui e ora?’ ‘Il focus sul momento presente e sull’azione impegnata verso i propri valori come agisce nei contesti di malattia organica?

Di questi e altri temi si è parlato durante il recente incontro nazionale del Gruppo di Interesse Speciale (GIS) “ACT for Health” svoltosi a Verona nella giornata di mercoledì 29 giugno. L’iniziativa è stata promossa dal dottor Giuseppe Deledda, coordinatore del Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, e presidente del Gruppo di Interesse Speciale ACT for Health.

Il Gruppo di Interesse Speciale Act for Health di ACT Italia prima e, successivamente lo Special Interest Group internazionale in seno all’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS) nascono con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di una comunità clinica, di studio e di ricerca che riunisca tutti gli interessati all’applicazione dei processi ACT nell’ambito della psicologia della salute.

Tali riunioni, occasione di crescita e confronto per i sempre più numerosi professionisti che vi partecipano, portano avanti il lavoro del GIS, che si pone tra gli obiettivi quello di creare recenti protocolli d’intervento, dare rilevanza alla formazione tramite il coinvolgimento di ospiti con lunga esperienza clinica e di ricerca, e promuovere l’applicazione del metodo a livello internazionale.

All’incontro hanno partecipato come relatori Joseph Ciarrochi professore presso l’Istituto di Psicologia e dell’Educazione dell’Australian Catholic University, past president dell’ACBS e co-autore del libro ‘The Weight Escape‘, e il dottor Daniel J. Moran, PhD presso l’Hofstra University di New York, presidente eletto dell’ACBS e co-autore del volume ‘ACT in practice: case conceptualization in Acceptance and Commitment Therapy‘, considerato un testo fondamentale nella pratica di tale approccio. Entrambi gli ospiti rivestono un ruolo di assoluto rilievo nel panorama della scienza contestuale del comportamento. Ed è proprio enfatizzando questo concetto che il dottor Moran ha voluto iniziare il suo intervento: l’ACT fonde le sue radici epistemologiche nel comportamentismo, delineandosi come un approccio funzionale e contestuale basato sulla Relational Frame Theory. Non esiste in quest’ottica una distinzione reale tra comportamento manifesto (visibile) e privato (emozioni e pensieri), poiché sono entrambi comportamenti, allo stesso modo.

La giornata è stata fonte di condivisione di diversi temi d’interesse, e ha avuto come argomento le applicazioni dell’ACT, una delle terapie più interessanti del panorama scientifico internazionale, fornendo ai clinici presenti spunti pratici e di riflessione di assoluta utilità.

Durante la prima parte della mattinata il professor Ciarrochi ha introdotto i partecipanti all’interno della cornice del modello ACT e delle terapie di terza generazione, esponendo i concetti di flessibilità psicologica, di accettazione e di evitamento esperenziale.

Una specifica disamina è stata poi condotta sulle strategie d’intervento per il paziente affetto da patologie organiche, un campo in cui l’approccio ACT ha fornito diverse prove di efficacia e di efficienza, focalizzandosi sulla consapevolezza del problema da parte del paziente. Da qui, il terapeuta ACT favorisce scelte coerenti con i propri valori e l’utilizzo di strategie basate sulla self-compassion, volte a una diminuzione delle risposte disfunzionali eccessivamente controllanti o evitanti, al fine di favorire l’accettazione, l’apertura e il movimento del paziente nel contesto di malattia. La condizione di patologia organica comporta nell’individuo un notevole distress e risulta necessario rendere il paziente più flessibile, durante un percorso mirato a rafforzare risposte speculari e alternative a quelle di evitamento, indebolendo il controllo di queste risposte sul comportamento dell’individuo.

Un esempio di queste risposte disfunzionali Ciarrochi l’ha portato facendo riferimento alla sua pratica clinica con i pazienti affetti da obesità dove l’evitamento esperenziale è molto diffuso, con conseguenze dannose per la salute di chi lo attua. Questa strategia di risposta al problema impedisce però di vivere una vita in relazione con i propri valori, ed è proprio con la costruzione di azioni impegnate, dapprima piccole, poi sempre più estese, connesse a quei valori, che il professor Ciarrochi lavora nella motivazione del paziente alla perdita di peso.

Nell’intervento successivo, che ha concluso la mattinata, il dottor Moran ha mostrato una panoramica del Mindful Action Plan, svincolando la Mindfulness dall’idea di atto meditativo fine a sé stesso, e incoraggiando la visione della Mindfulness come azione promotrice di consapevolezza del momento presente.

L’invito di Moran è quello di generalizzare l’esperienza mindfulness a contesti che non sono unicamente quelli della meditazione, ma che dovrebbero coinvolgere la nostra quotidianità, come il mangiare, il guidare, l’essere genitore… in maniera consapevole. Purtroppo come riportato da Moran, in una società sempre in movimento come quella in cui viviamo, risulta sempre più difficile essere presenti a ciò che stiamo facendo e vivendo.

Il fine della Mindfulness, nell’ottica ACT, è quello di ridare spazio a un’ormai perduta consapevolezza, per togliere potere al nostro pilota automatico (metafora che sta a indicare l’insieme di automatismi comportamentali costruiti attraverso le esperienze del passato). Risulta quindi fondamentale diventare più consapevoli della propria esperienza per poter generare una risposta diversa da quella prodotta dal pilota automatico, caratteristica della modalità del fare, chiedendosi tre semplici domande: ‘Cosa fai?‘, ‘Cosa pensi?‘ e ‘Come ti senti?‘, la risposta alle quali, secondo Moran, può portare l’individuo nel momento presente.

Inoltre tale pratica in un contesto di evitamento esperienzale e fusione cognitiva, permette al soggetto di accrescere la defusione e l’accettazione, evitando che pensieri, emozioni e ricordi interferiscano sulla vita in modo nocivo.

Infine, portando come motivazione l’efficacia e l’efficienza che dovrebbero caratterizzare l’intervento terapeutico, Moran ci fornisce una check-list per un Mindful Action Plan. Così come un pilota di aerei prima di partire per il suo viaggio, anche chi vuole intraprendere un’azione mindful dovrebbe assicurarsi di vagliare tutte le sei voci della griglia, cioè di ‘essere‘, ‘nel momento presente‘, ‘accettando‘, ‘notando‘, ‘facendo‘, nella ‘direzione di ciò a cui tengo‘.

L’intervento del dottor Moran si è concluso con una pratica esperienziale molto inconsueta e differente da quelle a cui la tradizione mindfulness ci ha abituati, ovvero una pratica di consapevolezza accompagnata da un sottofondo heavy metal.

Tra un’ironica battuta e un pezzo metal, quindi è terminata un’interessante e proficua giornata di condivisione d’idee e conoscenze, nella direzione dei valori dei molti terapeuti presenti, come ad esempio quello di ridurre la sofferenza e migliorare la qualità di vita delle persone che incrociamo durante il nostro cammino lavorativo e personale. In questo senso è utile e necessario coltivare con gentilezza la nostra abilità di essere nel momento presente con una piena consapevolezza e apertura alla propria esperienza e a fare ciò che conta.

 

Sono qui e ora, accetto quello che provo e noto i miei pensieri, mentre mi muovo verso quello che è importante per me.

Hacking, oltre la fiction: modelli e teorie psicologiche e criminologiche

Hacking: Recentemente e a livello internazionale gli orizzonti di ricerca di psicologia e criminologia sono sempre più inclini ad investire tempo e risorse per l’indagine del fenomeno di criminalità virtuale noto come “Hacking” (dall’inglese to hack: intaccare, con riferimento alla violazione di un sistema informatico). Sulla base della crescente domanda da parte di committenze private e stakeholder istituzionali – preoccupati per la salvaguardia delle relative banche dati – ricercatori da ogni parte del mondo hanno cercato di delineare “profili” in grado di rendere tale forma di crimine prevedibile e arginabile sul nascere.

Hacking: la storia

La mutevolezza dell’inarrestabile progresso in fatto di Information Technology non rende possibile alcuna conclusione univoca e definitiva su chi siano gli hacker e come possano essere fermati, è tuttavia possibile esplorare le variabili sottendenti tale forma di crimine onde aumentare la consapevolezza dell’utenza in ottica preventiva.

Doverosa è la premessa cronologica: venuto al mondo durante gli anni ’80 tra i talentuosi studenti del MIT, l’hacking rappresentava inizialmente un atto rivoluzionario ed irriverente, in grado di abbattere barriere burocratico-politiche in nome di un mito se vogliamo illuminista, incentrato sul potere dell’intelletto capace di sfidare l’impossibile, di violare l’inviolabile. Tale idea, nonostante i numerosi processi evolutivi dell’hacking in relazione al progresso in seno all’IT, permane anche ai giorni nostri poiché il cyber-spazio si configura come una dimensione al di là di geografia, politica e identità (Ramsdell, 2011), sfumando i confini tra lecito ed illecito. Non a caso la principale tassonomia per categorizzare gli hacker si presenta come una tripartizione morale: i cappelli neri (si muovono nell’illegalità per fini criminali), i cappelli grigi (zona di confine e redenzione) ed i cappelli bianchi (compiono violazioni ma su commissione di servizi segreti ed istituzioni, a fini di indagini e tutela dell’ordine).

Tra queste sfumature etiche si annovera ad esempio l’hacktivismo, associato nel pensiero comune alla maschera di Guy Fawkes, divenuta icona degli hacker di Anonymous: impegnati nella lotta contro il terrorismo sul fronte digitale, sfruttano mezzi illeciti per fini eroici, testimoniando in favore del noto aforisma di Macchiavelli “Il fine giustifica i mezzi”.

Gli hacker: chi sono e qual è la loro personalità

Restringendo il campo a termini descrittivi, chi sono gli hacker? Secondo numerosi autori (Jeong S. & McSwiggen, 2014; Jafarkarimi, 2015; Donner, 2016), trasversalmente a categorizzazioni e tassonomie, l’hacker è sempre giovane, bianco e di sesso maschile. Il ruolo della famiglia, in termini di stile parentale, è stato inoltre studiato come fattore di rischio o protezione: Sasson & Mesch (2014) hanno riscontrato che gli adolescenti provenienti da una famiglia fortemente coesa sono meno inclini a compiere attività illecite e rischiose online, ma allo stesso tempo uno stile parentale incentrato sul monitoraggio e la supervisione della attività su Internet potrebbe incentivare gli agiti di trasgressione.

Per quanto riguarda la personalità degli hacker, Fasanmi et al. (2011) hanno studiato il ruolo di alcune variabili (sesso, età, necessità di realizzazione, psicoticismo, nevroticismo ed estroversione) nel predire l’attitudine giovanile verso la frode via Internet: è stato scoperto che tendono maggiormente a compiere atti illeciti online giovani utenti di sesso maschile, significativamente bisognosi di realizzazione.

In modo ricorrente molteplici evidenze scientifiche conducono ad una significativa relazione tra il genere maschile e l’hacking (Seigfried-Spellar, 2014): curioso è l’allineamento di tali dati con la teoria di Simon Baron Cohen (2011) sul cervello autistico come estremizzazione del cervello maschile, da sistematizzatore a ipersistematizzatore. D’altronde, sulla possibilità di una sovrapposizione tra tratti autistici e hacking, lo stesso Julian Assange, fondatore di Wiki-leaks, ha scritto nella sua autobiografia (2011): [blockquote style=”1″]Come tutti gli hacker, e come tutti gli uomini, sono un po’ autistico [/blockquote] sottolineando il radicato mito pop dell’hacker come geek (cervellone), alimentato da romanzi, libri e telefilm.

Sebbene l’ipotesi di hacking e tratti autistici offra una spiegazione plausibile al talento per la violazione di codici come espressione dell’interesse ristretto per sistemi chiusi e prevedibili in fatto di regole, questo potrebbe fuorviare a livello legale: interpretare l’hacking come fatto “clinico” potrebbe, in ambito processuale, indurre gli avvocati della difesa a discolpare atti estremamente lesivi.

Esattamente come crimini che avvengono nella realtà tangibile, anche i crimini della realtà virtuale sono risultato di condotte devianti e ristrettezza empatica. Premesse teoriche in fatto di comportamento regressivo online (Norman, 1996) o della garanzia di invisibilità, asincronia, unite a introiezione solipsistica, dissociazione e minimizzazione dell’autorità nel cyber-spazio (Suler, 2004), pongono le basi per le ipotesi di studio dell’hacking come condotta deviante e carenza empatica. Sebbene manchino ad oggi ritrovati specifici sulla relazione tra hacking, callous unemotional traits o psicopatia clinica, Fanti et al. (2013) hanno dimostrato come comportamenti di cyber-aggressione siano associati ad alti livelli di narcisismo e psicopatia subclinica utilizzando la Dark Thriad (Jones & Paulhus, 2014) su un campione di adolescenti.

Trasversalmente alla tipologia di atto criminale praticato sulla Rete, è chiaro come la realtà virtuale funzioni da filtro per la moralità individuale: la vittima danneggiata dal furto di identità o dal trasferimento improprio di dati o denaro, è reificata e deumanizzata come testimoniato dalle interviste di Zhengchuan Xu e collaboratori (2013) a sei giovanissimi hacker Cinesi. I dati qualitativi emersi hanno permesso di tracciare un’evoluzione comune in termini di processo di decadenza morale e acquisizione identitaria come hacker: dapprima la passione per il computer e la curiosità domina il rapporto con il mezzo, a seguire un crescendo di abilità messe alla prova dalle prime frodi creano sfide stimolanti ed incalzanti, fino all’esordio criminale ai danni di singoli o comunità.

Dai report inglesi della NCA (National Crime Agency, 2013) sono evidenti le modalità di reclutamento e affiliazione di vere e proprie comunità hacker online: da parte di tali organismi, curioso è il fare leva sull’adrenalinico senso di sfida nella violazione di sistemi che spesso si configura in una concatenazione di prove a mo’ di videogame. Evidenze cliniche (Mustafa Solmaz et al., 2011) hanno tracciato a proposito un interessante parallelismo tra dipendenza da Internet e hacking. Una volta iniziato il processo di affiliazione, diventa problematico per l’individuo fermarsi, fino all’esordio sintomatologico di astinenza qualora il soggetto sia drasticamente allontanato dal mezzo.

Gli antecedenti dell’hacking

La ricerca ad oggi ha delineato modelli statistici in grado di descrivere predittori del fenomeno, nella cornice criminologico-psicologica della General Theory of Crime (Gottfredson & Hirschi, 1990), della Routine Activity Theory (Felson & Cohen, 1979) e della Social Learning Theory (Bandura, 1977).

Donner (2014) ha riscontrato un basso livello di autocontrollo come predittore di attività criminali in Rete, dato comprovato da Philips et al. (2015) in concomitanza con percezione di assenza di guardiani adeguati e da Marcum e collaboratori (2014) in associazione con l’influenza di pari devianti.
Più precisamente, la costellazione di questi antecedenti, tutt’oggi da approfondire, delinea come segue il terreno fertile per diventare hacker. Bassi livelli di autocontrollo costituiscono il primo passo per infrangere barriere morali e legali, unito alla convinzione dell’assenza di autorità vigilanti nel contesto virtuale, insieme con l’accettazione o il supporto di pari sociali, creerebbero la miscela esplosiva per comportamenti “cyber-criminali”. Un ulteriore filone di indagine potrebbe ricercare un nuovo antecedente nell’aver subito sulla propria pelle atti di cyber-criminalità, come dimostrato a proposito del cyber-bullismo e dell’uso problematico di Internet (Gámez-Guadix et al, 2013).

Infine, ancora carente è la letteratura sui fattori di protezione che impediscono agli adolescenti di attuare comportamenti devianti online: Casidy e collaboratori (2016) hanno attualmente identificato nell’educazione religiosa una barriera morale sufficiente contro il coinvolgimento nella criminalità online, tuttavia numerosi sono le potenziali chiavi di indagine per il futuro, tra cui i pattern di attaccamento e il loro ruolo nello spiegare le attitudini ed i comportamenti di nativi e migranti digitali nel cyber-spazio.

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