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L’ effetto Forer, ovvero come mai gli oroscopi ci azzeccano sempre (1948) di Bertram R. Forer

#14: L’effetto Forer di Bertram R. Forer (1948). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi.

 

 

Tra gli anni ‘40 e ‘50, la psicologia si allontana dalla matrice filosofica europea per abbracciare procedure e tecniche di indagine maggiormente scientifiche. Di qui la necessità di creare strumenti ad hoc (nasce nel 1942 la prima versione dell’MMPI), sebbene si usassero già metodi di indagine che permettevano di ricostruire il funzionamento soggettivo in breve tempo, come il Test di Rorschach, la cui prima forma nasce intorno agli anni ’20, o altri test proiettivi.

Nel 1948 il professor Forer, psicologo, decide di testare la validità delle procedure diagnostiche tanto in voga presso i suoi colleghi. Egli non giudica uno o l’altro strumento, nient’affatto: Forer è convinto che offrire a una persona una descrizione di com’è implica che la persona vi si riconosca sempre, per il solo fatto che gli è stata fornita una descrizione, e che la confermi, conducendo sé e il proprio terapeuta a fatidici bias interpretativi.

L’individuo non avrebbe le competenze critiche per confrontare la descrizione scritta con la propria autovalutazione: questo è chiaro, tutti gli studenti che preparano l’esame di psicopatologia sono convinti di avere tutti i disturbi psichici contemplati nel manuale. Per far sì che una persona si riconosca in una descrizione basterà fornirle un breve scritto, molto vago e generico, con frasi non del tutto assurde.

Allo scopo di testare questa ipotesi, Forer chiede ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, strumento consistente in una serie di hobby, aspirazioni personali o caratteristiche a cui segue un’interpretazione qualitativa.

Dopo una settimana, restituisce ai partecipanti un quadro della loro personalità. Chiede cortesemente di non confrontarsi con gli altri, ma di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione e gli studenti rispettano la richiesta. Per fortuna, perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano delle seguenti frasi.

  • Hai un grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri
  • Mostri la tendenza a criticare te stesso
  • Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio
  • Quando avverti qualche debolezza sei facilmente in grado di compensarla
  • La tua maturazione sessuale ha presentato criticità
  • Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato
  • A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta
  • Quando sei accerchiato da restrizioni e limiti ti senti insoddisfatto, preferisci il cambiamento e la complessità.
  • Ti vanti di avere delle idee tue e non accetti affermazioni altrui se non sorrette da prove soddisfacenti
  • Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto con gli altri
  • A volte sei estroverso, affabile, socievole, mentre altre volte sei introverso, diffidente e riservato
  • Alcune delle tue ispirazioni tendono a essere irrealistiche
  • La sicurezza è uno dei tuoi obiettivi nella vita

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti dalle descrizioni di Forer è di 4.26.

Forer conclude quindi il suo lavoro affermando che la grande validità degli strumenti psicologici tanto vantata dai diagnosti può essere facilmente superata da una validità soggettiva, dichiarata dal paziente, di fronte a frasi di carattere generico e approssimativo.

Credere di aver individuato un profilo corretto sulla base di quanto il paziente si riconosce nella descrizione effettuata è ugualmente fallace, perché presuppone la capacità di un’autovalutazione oggettiva.

Analizzando il grado di accordo degli studenti con le varie frasi presentate, Forer afferma che nel valutare le singole proposizioni aumenta la capacità critica dei soggetti, mentre la lettura di un report generale sulla propria personalità induce le persone a riconoscersi in misura maggiore.

È esattamente questo il meccanismo per cui spesso ci riconosciamo in descrizioni estremamente generiche sviluppate da professionisti o meno di ambiti disparati.

Lo studio ha sicuramente numerosi limiti ascrivibili anche alla poca familiarità con le tecniche statistiche a cui siamo abituati oggi. Uno su tutti, se un professore di psicologia chiedesse di compilare un test e restituisse il risultato della sua valutazione (quando ancora si deve sostenere l’esame!) anche oggi forse pochi studenti manifesterebbero un ampio grado di disaccordo, indipendentemente dal risultato presentato.

 

Effetto Forer (VIDEO):

 

Autostima nei bambini: “Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso” (2015) – Recensione

A fronte dei tanti consigli pratici per accrescere l’autostima nei bambini, abbiamo anche sufficienti vademecum su come affrontare quelle situazioni in cui l’autostima viene scalfita da esperienze negative? Come aiutare i piccoli a mandare giù un boccone così amaro per la loro età e digerirlo? Un aiuto prezioso è raccolto del libro ‘Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso‘.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Navigando nel web è facile trovare siti internet in cui si dispensano consigli su come aumentare l’autostima nei bambini. Inutile negarlo, viviamo nell’epoca dell’autoaffermazione, raggiungere un certo successo personale, quasi senza lasciare spazio a sconfitte e fallimenti, è diventato uno scopo primo in molti di noi e dunque sarebbe bene preparare il terreno anche ai più piccoli, in modo che siano pronti a sentirsi sicuri di sé e in grado di affrontare meglio il mondo.

Cosa sia l’autostima, è difficile spiegarlo in poche parole, ma la definizione più accreditata in letteratura è quella di Battistelli che la definisce come un ‘Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso‘. Cooley e Mead invece, danno una definizione di autostima meno concentrata sul singolo individuo e più relazionale, essi la definiscono come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

Tra le interazioni più importanti nel corso della crescita troviamo naturalmente quella con i genitori, a queste si aggiungono quelle con gli insegnanti e con i pari. Ecco così che si creano, in un continuo influenzarsi a vicenda, aspettative su ciò che l’individuo vorrebbe essere e ciò che gli altri gli suggeriscono di dover essere: queste aspettative si uniscono, quasi fossero tasselli di un puzzle, arrivando a definire il Sé ideale di ognuno di noi.

L’autostima è tanto maggiore quanto più il Sé reale (ciò che realmente siamo) si avvicina al Sé Ideale (ciò che vorremmo essere).

Un’autostima positiva è considerata il fattore centrale di un buon adattamento socio-emozionale, essa è connessa a un funzionamento personale più efficace: per esempio la depressione è stata collegata a uno stile cognitivo che comporta una valutazione eccessivamente critica e negativa del Sé (Beck, 1976).

Un’autostima sana è stata sempre considerata importante nei bambini perché è in età infantile che si gettano le basi delle percezioni di Sé che si avranno nel corso della vita. La competenza socio emozionale che deriva da un autovalutazione positiva può essere una forza che aiuterà a evitare al bambino gravi problemi futuri (Pope et al, 1993).

Capita a volte, però che il divario tra Sé Ideale e Sé Reale si amplifichi, generando un abbassamento del livello di autostima.

Una persona con bassa autostima essenzialmente sarà una persona convinta che ci sia poco in lei di cui andare fieri, una bassa autostima può essere limitatamente dannosa se influisce negativamente solo su poche parti del concetto di sé correlate agli aspetti importanti della propria vita (Pope et al, 1993).

Eppure noi tutti, prima o poi, facciamo i conti con un punto d’arresto, un momentaneo stop alla nostra autoaffermazione, e spesso le prime esperienze le si fanno da bambini: un brutto voto a scuola, un battibecco con un amico e così la distanza tra il Sé reale e il Sé ideale viene improvvisamente ad estendersi, non senza conseguenze negative sulla vita emotiva e relazionale dei più piccoli.

 

Autostima nei bambini: ‘Quando manca l’applauso’

Ritornando al punto di partenza dell’articolo, la domanda sorge abbastanza spontanea: a fronte dei tanti consigli pratici per accrescere l’autostima nei bambini, abbiamo anche sufficienti vademecum su come affrontare quelle situazioni in cui l’autostima viene scalfita da esperienze negative? Come aiutare i piccoli a mandare giù un boccone così amaro per la loro età e digerirlo?

Un aiuto a mio avviso estremamente prezioso è raccolto del libro ‘Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso‘.

Il libro, scritto da Roberto Gilardi ed edito da Franco Angeli, espone in poche e scorrevoli pagine cosa si intende per autostima, come si costruisce e come si “coltiva” l’autostima nei bambini e nei ragazzi e dunque come valorizzarli. E le battute d’arresto alla costruzione della stima di sé? L’autore mostra anche cosa significa insuccesso e soprattutto come rendere l’insuccesso costruttivo per la crescita di adulti e ragazzi.

Frase emblema del libro è: Se vuoi costruire autostima in tuo figlio insegnagli a fare una torta.

Il libro si divide in cinque capitoli: partendo dalle basi, l’autore non lascia i lettori soli a navigare nel mare delle idee confuse sul concetto di autostima e sul processo in cui l’autostima nei bambini prende forma. Gilardi fa chiarezza sul tema, concentrandosi soprattutto sugli oggetti di stima, criteri sui quali misuriamo la valutazione di noi stessi. Già da queste prime righe, si evince un pratico suggerimento ai lettori: mettersi in guardia dalle generalizzazioni valutative di noi stessi e degli altri. Sentirsi di ‘Non valere nulla‘ oppure sentirsi ‘un figo’ non sono altro che fraintendimenti, essi non corrispondono alla realtà, sono astrazioni generali effettuate su aspetti particolari (prendere 6 in matematica non significa essere un buono a nulla).  L’autore pone così l’attenzione ai diversi oggetti di stima con cui misuriamo noi stessi: dall’aspetto fisico alle competenze, dai valori all’amore per se stessi.

Ecco che il secondo capitolo offre una mappa orientativa (con tanto di illustrazione e di Voi siete qui) per aiutare i lettori a destreggiarsi nel duro tentativo di aiutare i più giovani a recuperare una buona stima di sé nonostante esperienze ed ambienti avversi. Il capitolo si apre con una lunga lista di domande avanzate da alcuni genitori all’autore del libro, nel corso di alcuni incontri in un Liceo Artistico. Le voci e le domande sono dunque quelle di veri genitori e insegnanti alle prese con i problemi dei propri figli e dei propri alunni, l’autore prende spunto da queste, cercando di fornire delle risposte: è così che viene presentato anche il modo in cui stendere un buon piano d’azione e tutte le diverse modalità di sostegno all’autostima dei bambini e dei ragazzi che si possono offrire quando non “si riceve l’applauso”.

Il terzo capitolo sposta l’accento su come siano le influenze altrui a decretare il successo di una persona e, per rendere la lettura più scorrevole, l’autore propone qui (come in molte altre parti del libro) un racconto molto divertente di come siano le aspettative genitoriali, e dell’ambiente esterno in generale, a fare di un povero bambino una macchina da guerra spronata a bruciare in fretta tutte le tappe. Ridendo si riflette, ci si riconosce negli aneddoti e, forse, si riesce a fare qualche mea culpa.

Il quarto capitolo affronta più da vicino il tema dell’insuccesso e del fallimento, anche qui corredato da numerose storie e aneddoti. L’autore va oltre i racconti, però, e dedica diverse pagine delineando i principali modi con cui gli adulti possono aiutare i più giovani ad affrontare un insuccesso: accoglienza, comprensione, correzione, revisione.

Il libro si chiude con un ultimo capitolo, a mio avviso sublime, che mette a confronto successo ed esistenza e, per far ciò, l’autore racconta e si fa narratore di ciò che penserebbe un lettore anziano, molto in là con gli anni, mentre legge le prime pagine del libro ‘Quando manca l’applauso’. Per chi ha una visione diversa della vita, meno legata all’affanno dell’affermarsi e forse più attraccata a ricordi e rimpianti, come cambia il concetto di successo? Che peso ha l’esistenza e la consapevolezza di essere solo una parte infinitesimale dell’universo sulla valutazione di noi stessi dopo un fallimento?

Lungo tutto il libro si assiste a un dialogo tra l’autore e la propria coscienza che, quasi a rappresentare un lettore impaziente, da libero sfogo a domande e frecciatine rivolte allo scrittore, aiutandolo però a seguire un filo del discorso lineare e una presentazione degli argomenti assolutamente non dispersiva. Che sia una metafora di come dalle pressanti aspettative degli altri si può ricavare anche qualcosa di positivo per il proprio cammino?

Consiglio la lettura del libro a tutti i professionisti che lavorano con bambini e adolescenti e soprattutto ai genitori: l’autore riesce a far riflettere senza colpevolizzare nessuno, offre una visione più ampia delle risorse personali che ognuno può attivare per non lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi. Un esempio di risorsa per sostenere il processo di fortificazione dell’ autostima nei bambini e nei ragazzi? Come dice la frase emblema del libro: fare una torta! Preparare un dolce insieme significa:

…dedicare tempo, e dedicare tempo significa trasferire valore, quel valore e quell’amore per sé che magicamente prende corpo e si cementa nell’animo di una persona che sente di essere importante, di avere valore ed essere degno di amore, attenzione e tempo dedicato.

Pedofilia: caratteristiche, decorso e prospettive terapeutiche

Secondo la definizione fornita dal DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), la pedofilia comporta un’attività sessuale con bambini prepuberi (di età uguale o inferiore a tredici anni), perdurante da almeno sei mesi e che determina una compromissione generale del funzionamento personale, sociale e lavorativo e/o disagio soggettivo.

Per potersi definire tale il pedofilo deve avere almeno sedici anni e intrattenere relazioni sessuali con vittime di almeno cinque anni più giovani d’età. Le modalità del contatto possono variare dalle carezze alla vera e propria penetrazione (bocca, ano e vagina), utilizzando vari gradi di violenza, anche con l’inserimento di corpi estranei. Per evitare che il bambino riveli l’abuso gli si possono rivolgere minacce ovvero si può mostrare un’attenzione particolare ai suoi bisogni per conquistarsi affetto, fiducia e silenzio.

Riguardo alla tipologia delle vittime esse possono essere interne alla famiglia (figli, parenti) o esterne; solitamente presentano tratti di attrattività fisica, una vanità che porta facilmente a sottovalutare i rischi di esporsi al pedofilo, e che viene sovente usata come pretesto dal pedofilo stesso, con attribuzione di responsabilità alla vittima (“il minore mi ha provocato o sedotto”). La prevalenza del disturbo (ovvero la proporzione di pedofili sulla popolazione generale, in un preciso momento) si attesta tra il 3% e il 5% nei maschi, mentre tra le femmine la percentuale è inferiore (American Psychiatric Association, 2013).

 

Pedofilia: fattori di rischio e decorso

I fattori di rischio chiamati in causa nello sviluppo del disturbo sono di natura sia genetica che ambientale. Riguardo al primo aspetto si è visto che disturbi del neurosviluppo già nella fase della gestazione aumentano la probabilità di insorgenza della patologia, ma gioca un ruolo anche l’abuso infantile subìto, anche se non è possibile stabilire un nesso causale diretto tra abuso infantile e pedofilia adulta (American Psychiatric Association, 2013).

 Un sostegno al ruolo dell’abuso infantile nella genesi della pedofilia è fornito da Finkelhor (1984) con la teoria dell’abusatore abusato, per cui, attraverso l’atto pedofilico, il soggetto ricerca una sensazione di dominio dopo essere stato vittimizzato a sua volta, configurandosi un atto di vendetta mediante cui il dolore del passato viene trasformato in piacere. Inoltre, la mancanza di adeguate abilità sociali sarebbe alla base della scarsa disponibilità della gratificazione sessuale con adulti e la scelta di bambini prepuberi (citato in Dèttore, 2001).

La pedofilia può avere inizio nella fanciullezza o nella prima adolescenza e la frequenza delle fantasie e dei comportamenti può variare in risposta a episodi di vita stressanti, diminuendo in genere con l’età. Le recidive risultano quasi doppie per i soggetti pedofili con preferenza per i maschi.

La diagnosi pone non pochi problemi per la tendenza del pedofilo a negare l’impulso sessuale (e il relativo disagio emotivo) o a minimizzarne l’impatto sulla vittima (un atto innocuo, per cui non provare colpa, ansia e vergogna): ecco perché un indicatore utile può risultare la misurazione psicofisiologica dell’interesse sessuale.

Attraverso il test fallometrico, che usa la registrazione continua dei cambiamenti del volume del pene quando un soggetto è esposto alla visione di figure potenzialmente eccitanti su uno schermo o mediante l’immaginazione, si può infatti registrare l’attivazione fisiologica sessuale del soggetto di fronte a stimoli rappresentanti bambini nudi, benchè i risultati possano essere fuorviati da quei pedofili che non dispongano di un’adeguata risposta peniena (Murphy e Flanagan, 1981, citato in Strano e coll., 2001).

Posta la diagnosi, un decorso sfavorevole della patologia appare associato a fattori quali la precocità di insorgenza, l’alta frequenza degli atti e l’assenza di disagio soggettivo con sentimenti di colpa o vergogna, l’abuso di alcool o di droga. Viceversa, se l’intervento è richiesto spontaneamente, rilevando una motivazione elevata al trattamento, la prognosi è di solito più favorevole (Kaplan e Sadock,1993).

Quest’ultimo caso è piuttosto raro, nella misura in cui la scarsa consapevolezza della malattia e l’assenza di disagio per l’atto, collegati alla piacevolezza della stimolazione sessuale, determinano tipicamente una scarsa adesione al trattamento, per lo più richiesto per evitare spiacevoli conseguenze sociali (crisi coniugali, detenzioni, isolamento), e non per una rinuncia decisa ai propri istinti. A questo indubbio limite si affiancano altre problematiche, come la reazione del terapeuta, contraddistinta sovente da disgusto, condanna e punizione (Gabbard, 1995, citato in Strano e coll., 2001), poiché gratificare l’istinto pedofilico equivale a compromettere l’evoluzione di un bambino innocente.

 

Pedofilia: approccio psicoterapeutico

Alla luce di tali difficoltà, al terapeuta è richiesto di mantenere uno stile terapeutico basato sulla “responsabilizzazione compassionevole”: si ritiene comunque il paziente responsabile del comportamento di abuso, riconoscendo empaticamente le origini del disturbo.

All’interno degli approcci psicoterapeutici attualmente disponibili per la cura della pedofilia, la terapia cognitivo-comportamentale fornisce un valido supporto, ponendosi l’obiettivo di controllare i propri impulsi sessuali verso i prepuberi, riducendo i comportamenti devianti attraverso l’utilizzo di programmi di condizionamento. La tecnica elaborata da Cautela nel 1967 per esempio prevede di immaginare una scena a carattere pedofilico, a cui affiancare un’altra fantasia con conseguenze spiacevoli, come l’essere arrestati (citato in Strano e coll., 2001). L’efficacia delle tecniche comportamentali sembra inoltre aumentare se si associa alla scena sessuale una sostanza corrosiva e di cattivo odore, come l’acido valerianico, che riduce il desiderio sessuale. Per considerarsi efficace un trattamento deve prevedere anche un miglioramento del comportamento sociale, poiché le difficoltà di relazione con gli adulti potrebbero spingere i pedofili verso la scelta deviante: a tal proposito, Lanning indica la tipologia del pedofilo inadeguato, naturalmente non attratto dai bambini, ma che arriva a sostituirli agli adulti nei confronti dei quali prova profonde insicurezze (citato in Strano e coll., 2011).

 Accanto a training di abilità sociali connesse alla sfera sessuale, la terapia cognitiva si propone di modificare in senso più adattivo tipici errori di pensiero quali la negazione (“non sono stato io”) oppure la minimizzazione (“non ho fatto niente di male”), attraverso specifiche tecniche di ristrutturazione cognitiva (Dèttore, 2001).

Completerà il quadro l’analisi degli eventi che hanno condotto nel tempo al disturbo (come un rifiuto) in modo da innalzare l’autostima e indirizzare gli impulsi in direzione di mete sessuali adulte (Strano e coll., 2011).

Una fase cruciale del trattamento è costituita dalla prevenzione delle ricadute (Marlatt, 1982, citato in Dèttore, 2001) in cui vengono analizzate le circostanze in grado di scatenare un nuovo abuso, così come le conseguenze negative a lungo termine dell’indulgere negli impulsi sessuali. A tal fine vengono individuate situazioni ad “alto rischio”, come il passare davanti a una scuola elementare, che potrebbero esitare nel comportamento pedofilico, soprattutto nel periodo immediatamente successivo al termine della terapia, quando il controllo degli impulsi può non essere ottimale.

Riguardo all’associazione con la terapia farmacologica, è stato evidenziato da tempo l’utilizzo del medrossiprogesterone (MPA) acetato che sembra avere effetti positivi sul controllo degli impulsi sessuali, soprattutto a carattere violento, benchè il suo uso sia limitato, per via degli effetti collaterali potenzialmente dannosi a lungo termine. Inoltre, la riduzione degli impulsi attraverso i farmaci, pare rafforzare i benefici della psicoterapia (Kaplan e Sadock,1993).

La personalità delle persone bulimiche – Disturbi dell’alimentazione e personalità

L’instabilità dell’umore, delle relazioni e l’impulsività sono gli aspetti più tipici della personalità bulimica. È il cosiddetto disturbo di personalità borderline, che si presenta nel 28% delle bulimiche. Cifra alta, che diventa ancora più alta se si pensa che lo stesso disturbo di personalità nella popolazione generale si manifesta solo nel 6% dei soggetti. 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità bulimica (Nr. 18)

 

La personalità bulimica: i tratti borderline

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato, oltre che  da impulsività e instabilità nelle relazioni, anche da gesti autolesivi, sentimenti cronici di vuoto, rabbia inappropriata, paure intense di abbandono. I tratti tipici di questo disturbo di personalità riflettono alcune caratteristiche di coloro che mangiano in maniera compulsiva. In particolare, l’impulsività è una caratteristica fondamentale della bulimia e di tutti coloro che utilizzano alcuni comportamenti compensatori per regolare l’ingestione eccessiva  di cibo, ad esempio il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi o di diuretici.

Per quanto riguarda l’instabilità affettiva, i sentimenti di vuoto cronico e la rabbia inappropriata, sono compensati dall’assunzione di grosse quantità cibo che successivamente potrebbero  essere espulse attraverso comportamenti compensatori (Westen et al. , 2006).  L’impulsività è caratterizzata dalla mancanza di premeditazione e dall’incapacità di valutare i rischi e le conseguenze della messa in atto di un gesto, per esempio l’improvvisa decisione di  espellere quello che si è ingerito senza considerare i rischi fisici che ne conseguono (Fahy, Eisler, 1993).

 

La personalità bulimica: i tratti più frequenti

Alcuni studi sull’impulsività suggeriscono che i pazienti affetti da anoressia sono meno  impulsivi rispetto ai soggetti di controllo non psichiatrici (Claes et al. , 2002; Fahy, Eisler, 1993). Viceversa, i pazienti con bulimia (Claes et al. , 2002) sono più impulsivi rispetto a quelli con anoressia e ai soggetti di controllo non psichiatrici.  Le pazienti con bulimia mostrano per lo più personalità borderline (31%) e dipendente (31%), mentre la personalità ossessivo-compulsiva è scarsamente presente in questa patologia alimentare (Sansone et al. , 2005). Ma è possibile incontrare anche altri tratti personologici, in particolare il narcisismo patologico, che riflette la preoccupazione per l’aspetto fisico, il bisogno di validazione esterna, e la tendenza a investire troppo sull’autostima (Steiger et al. , 1997). In aggiunta, il narcisismo può persistere dopo il miglioramento del disturbo alimentare, suggerendo che  potrebbe essere un tratto caratteristico delle bulimiche (Lehoux   et al. , 2000).

Insomma, mentre l’anoressia nervosa potrebbe essere collegata a una personalità ansiosa, insicura, che costruisce la propria traballante fiducia in se stessa controllando il peso e l’alimentazione, la bulimica potrebbe corrispondere a una personalità impulsiva e istintiva, che vorrebbe recuperare il controllo di sé  mediante le condotte purgative del vomito e dell’assunzione di  lassativi (Vitousek, Manke, 1994). Una visione convincente e suggestiva, sebbene alcuni sostengano che si tratti di una semplificazione (Srinivasagam et al., 1995; von Ranson et al, 1999).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La perfetta simmetria delle cose: il racconto della bambina – Ritratti

La bambina si lega sempre i capelli subito prima di apparecchiare la tavola. Tiene l’elastico tra le labbra, mentre le mani formano la coda di cavallo. La stessa sequenza di gesti rapida e decisa di quando avrà trent’anni. Di solito dispone prima i bicchieri. I bicchieri sono la misura del resto.

Se li metti nella posizione giusta, il resto viene da sè. Il piatto piano – posto sotto, concentricamente, a quello fondo – deve sfiorare con la sua linea la circonferenza di vetro del bicchiere. Chi guarda dall’alto, deve avere la propria attenzione catturata per un attimo dal perfetto equilibrio dei cerchi. Un po’ come i cerchi delle Olimpiadi, ma senza compenetrazione reciproca. Poi le posate, la loro distanza dai piatti calcolata con precisione grazie ai quadrati disegnati sulla tovaglia (le tovaglie, se è necessario, hanno sempre quadrati disegnati). Il tovagliolo, le piace metterlo nel bicchiere, avvoltolato come ha visto fare al ristorante. Quando la bambina ha riprodotto l’identico effetto del ristorante per la prima volta, ha spiato con la coda dell’occhio la reazione del papà. A lui è piaciuto molto. Lei si è sentita felice. Lui le ha chiesto di farlo sempre. Lei si è sentita ancora più felice.

Il papà lavora fino a ora di cena nello studio dotato di un’entrata indipendente. La bambina sa che può chiamarlo con l’interfono solo in casi di vera emergenza. Deve muoversi piano, non fare rumore mentre gioca. O, come adesso, mentre apparecchia la tavola. Le pareti dello studio sono insonorizzate, ma la regola vale lo stesso. Il papà le ha detto una volta che spesso le regole che la vita le presenterà non saranno logiche, per cui meglio abituarsi da subito. A lei è piaciuto molto quel discorso. Non tanto il contenuto, che non ha capito bene, quanto l’impressione che il papà le parlasse per la prima volta come una persona più grande.

La mamma, quando non è nella sua camera alla scrivania, a correggere i compiti dei suoi alunni o su Facebook, è fuori. In palestra, a fare spinning o zumba, di solito uno dopo l’altro. La bambina ha imparato che quando torna dalla ginnastica, almeno tre volte alla settimana, capita più spesso che la baci e le faccia i complimenti per come tiene in ordine la sua stanza e apparecchia la tavola. Stasera non è andata in palestra. Mentre dispone i bicchieri, alla bambina arriva, un po’ ovattata ma non abbastanza da coprirne la concitazione, l’irritazione, una frase che la mamma dice, incalzante, al telefono:

«Come lo sei venuta a sapere? Ne parli come di una cosa certa. Ne sei sicura?»

La bambina capisce che la mamma sta parlando con la sua amica preferita, che insegna nella stessa scuola e che è venuta parecchie volte a trovarla a casa. Sa che mentre la mamma insegna matematica, anche se una matematica un po’  più difficile di quella che sta studiando lei, quest’altra signora insegna storia, anche se una storia un po’ più difficile di quella che sta studiando lei. Poi il volume della voce si abbassa, come se la mamma stesse facendo uno sforzo per contenerla.

Sente sbattere la porta della stanza. La mamma entra nel soggiorno cucina. Ha quel suo modo di spostare le cose con movimenti bruschi dei giorni in cui per la bambina è meglio muoversi silenziosamente. La bambina non vede l’ora che il padre arrivi.

«Quante volte ti ho detto di non preparare la tavola come un robot? Con tutta questa precisione. Ho una figlia, non un robot».

«Scusa mamma».

«E’ così difficile fare le cose che ti chiedo? Magari senza farmele ripetere migliaia di volte? Ho letto su internet che tutta questa  precisione nei bambini, quando poi si fanno grandi può trasformarsi in una malattia. Vuoi diventare una malata?»

«Che succede».

Quando sente la voce del papà, è sempre come se qualcuno smettesse di tenerla premuta contro un muro.

«Niente, non ti intromettere, è una cosa tra me e lei», dice la mamma, con una smorfia di rabbia.

«Non mi intrometto, stai calma. Vorrei solo sapere che sta succedendo».

«La solita questione della precisione, sta succedendo. Sto cercando di insegnarle che rischia di ammalarsi. Gliel’ho detto un sacco di volte, ma evidentemente è più forte di lei. Magari è già malata».

«Non dire sciocchezze. Così la spaventi».

La bambina si è seduta a tavola. In momenti come questo fa finta di essere altrove. Spesso ci riesce. Per andarsene aiuta molto immaginare di essere un drone che sorvola la tavola e controlla la simmetria delle cose. Non solo dei piatti e delle posate. La simmetria delle cose rispetto a se stesse. Le cose, se le osservi bene, dalla giusta prospettiva, rivelano la loro simmetria con se stesse. Il loro essere fatte di due metà perfettamente bilanciate. Anche quando a prima vista non sembra proprio. Lì dove sta ora, non le arrivano le parole, solo la sensazione fisica di una tensione crescente.

«Non ti permettere di dire davanti a lei che dico sciocchezze».

«Ne possiamo parlare dopo da soli?»

La bambina guarda la madre diventare rossa.

«Non mi trattare come una deficiente, hai capito, stronzo?», urla.

«Va bene. Non volevo. Calmati adesso, per favore».

«Io non ho intenzione di stare qua a farmi prendere per scema da voi due, che come al solito vi coalizzate contro di me». Ho gettato la mia vita per voi due, e questo è il ringraziamento. Avevo una carriera universitaria assicurata e invece sono tappata in una scuola media di merda».

«Ti prego, non tirare di nuovo fuori questa storia. Ne parliamo dopo».

«Da quando ti conosco con te ne parliamo dopo. Di tutto parliamo dopo, ma poi non parliamo mai. Invece parliamo adesso. Io non ce la faccio più. Sto per crollare. Quando sono a casa ho bisogno del vostro appoggio, non del colpo di grazia..».

Il papà della bambina rimane in silenzio. Sa che se le chiede di nuovo di calmarsi, getterà altra benzina sul fuoco.

«Mi sono stufata di prendere botte da tutti. A scuola e pure qui, a casa mia».

Il papà della bambina sa che cosa fare quando lei dà un segnale del genere. La interrompe, con il tono più calmo che possiede:

«Perché scusa, è successo qualcosa a scuola?»

La mamma della bambina si blocca per un attimo, interdetta. La bambina ora fissa la tovaglia rossa, immaginando se stessa, rimpicciolita, dentro uno dei quadrati. Ha portato con sè una provvista di briciole di pane, sufficiente per sopravvivere a lungo.

«Sì, è successo qualcosa. Perchè, ti interessa?»

«Certo che mi interessa. Interessa anche a tua figlia. Dai, che è successo?»

La mamma esita, poi dice:

«Poco fa mi ha chiamato Franca. Mi ha detto che ci sono dei genitori che si sono lamentati di me. Pare che qualcuno abbia detto che vado troppo lentamente, e che così non terminerò mai il programma».

«Adesso capisco meglio. Secondo me però non ti devi preoccupare. I genitori trovano sempre qualcosa di cui lamentarsi. Di solito danno agli insegnanti la colpa dell’idiozia dei figli. Molto probilmente uno o due si saranno lamentati e la cosa si è ingigantita».

«Ma che cazzo dici!?», sbotta la mamma della bambina, «ma che ingigantita?! I miei problemi per te dipendono sempre dal fatto che io ingigantisco..».

«Non tu, non fraintendermi».

La bambina nota che il padre è diventato rosso.

«Non fraintendo un cazzo. Con te è sempre la stessa storia».

«Adesso basta. Io stavo cercando di aiutarti».

La mamma della bambina si alza e pianta le mani sul tavolo, facendo spostare la tovaglia. La bambina nota che in un attimo la simmetria della disposizione delle cose è perduta.

«Non ho bisogno del tuo aiuto»., dice la mamma della bambina con la voce strozzata, e se ne va.

La bambina e il papà rimangono in silenzio. La bambina ricalca con l’indice il perimetro di un quadrato.

«Tutto bene?»

«Sì, papà»..

Si siede vicino a lei. Imita con l’indice il gesto della bambina, come un’altra creatura che cerchi la via d’uscita in quel labirinto infinito di quadrati. L’indice del papà fa finta di rincorrere quello della bambina, che fa finta che le scappi una risata.

«Non devi preoccuparti per mamma. In questo periodo è molto stanca per il lavoro, e questo la fa essere nervosa. Ma non devi mai dubitare del bene che ti vuole».

Alla bambina, non sa perchè, viene da piangere, ma si trattiene. Non vuole che il papà si preoccupi per lei.

 

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia – 01

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Arriva l’estate: come si modificano l’umore e lo stato della mente

D’estate s’impazzisce di più? Ma no, succede anche d’inverno! Però oggi parliamo di estate, l’estate che sta arrivando. E allora scriviamo che in estate s’impazzisce di più in certe forme, mentre d’inverno s’impazzisce di più in altre forme che oggi non c’interessano, ne riparleremo a settembre.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 18/06/2016

Lo stato della mente in relazione alle stagioni

Fin dall’età classica si riteneva che lo stato della mente, l’umore come si diceva allora, fosse sensibile alle stagioni. Secondo Ippocrate, nei periodi freddi prevale la produzione della bile nera, responsabile della melanconia – quella che oggi chiamiamo depressione– mentre in estate vince la produzione della bile gialla, causa della collera che oggi chiamiamo episodio maniacale. Ovvero euforia, senso di grandiosità, entusiasmo irrefrenabile, attenzione saltellante, spese pazze decise sull’onda di una gioia patologica, loquacità querula, insopportabile e fastidiosa, amichevolezza invadente e inopportuna, e così via. E soprattutto: il maniacale non dorme mai, e non ti molla finché, crollando da sonno, sei tu, l’amico o il parente, che chiami il soccorso psichiatrico. Lui o lei no, non lo farebbe mai, la persona in stato maniacale si sente benissimo, mentre fuori sul balcone sta parlando col sole.

L’episodio maniacale però non è che l’altra faccia della depressione, e –come molti sanno- quando sono accoppiati depressione e maniacalità vanno sotto il nome di disturbo bipolare. Sembra una condanna a vivere emozioni insensate: insostenibilmente tristi d’inverno e ridicolmente allegri d’estate. Che fare, per non impazzire? Forse dormire, diceva Amleto. Ed effettivamente un buon sonno notturno ci preserva dalle malattie del giorno, come si spiega con chiarezza il prof. Paolo Girardi in un suo libro sulla medicina del sonno. È bene dormire regolarmente se si vuole fuggire alla stretta della sofferenza mentale. È indispensabile che i ritmi siano regolari: una loro interruzione, modificazione o inversione è un fattore di rischio per i disturbi psichici. Già Ippocrate –ancora lui- sottolineava l’importanza di un regolare ritmo sonno-veglia, già lui sottolineava che i pazienti dovrebbero passare il giorno svegli e la notte dormendo.

E non solo d’inverno, ma anche d’estate aumenta il rischio di suicidio. Suicidarsi accade non solo durante la depressione del gelido inverno, ma anche al sole estivo della fase maniacale. La percentuale dei suicidi nella popolazione si eleva nei mesi che precedono il solstizio d’estate, in aprile, maggio e giugno, mentre un altro picco invernale e depressivo inizia da metà ottobre. Tra i pazienti psichiatrici ricoverati, i suicidi e i comportamenti violenti aumentano da luglio e rimangono alti fino a novembre. E, in parallelo al suicidio, aumenta anche il tentativo di suicidio, più soggette al quale sono le donne rispetto agli uomini.

 

Qual è la relazione tra la sofferenza mentale e le stagioni?

Perché accade questo aggravarsi della sofferenza mentale nelle stagioni? Perché il nostro destino è adattarci, e ci siamo adattati anche all’alternanza della luce e delle tenebre e alla giostra delle stagioni, al succedersi dei periodi freddi e caldi. E come d’inverno è giusto che il ritmo del corpo rallenti e ci s’insonnolisca, quasi andando in letargo, è altrettanto giusto e naturale che d’estate ci si riattivi, ci si scaldi appunto, ci s’infervori nel flusso della vita. La tristezza dell’inverno si riduce durante la bella stagione, grazie alla maggiore intensità dei raggi solari che stimolano la melatonina, ormone regolatore biologico che influenza positivamente l’umore.

La luce solare aiuta ad attenuare l’ansia e l’affanno del vivere correlati alla depressione e favorisce il benessere della mente e del corpo. E però, ogni fenomeno ha il suo risvolto corrotto, la sua malattia. E così il rallentamento invernale può decadere in fredda depressione, mentre la vitalità dell’estate si può tramutare in una grottesca euforia senza legittimità e senza sostanza.

Un’altra ipotesi tira in ballo la secrezione della melatonina, l’ormone che aumenta in inverno e si riduce in estate. Messa così è più una concomitanza di eventi che una vera spiegazione. Secondo altri, in inverno ci si deprime perché la riduzione dell’esposizione alla luce provocherebbe una desincronizzazione del ritmo sonno-veglia. Anche la diminuita ampiezza dell’oscillazione quotidiana della temperatura influirebbe. Tutte belle ipotesi, anche se suonano in parte casuali come lanci di sassi nell’acqua.

Peraltro d’estate è anche possibile il peggioramento della depressione, in contraddizione con quanto detto finora. Questo perché anche l’estate, come il Natale, è un periodo festivo. E le feste possono rimarcare il contrasto tra lo stato d’animo nero e triste del depresso e l’allegria circostante, e tutta l’esperienza può essere vissuta come un disperato abbandono. Abbandono spesso reale e non affatto immaginario: d’estate è realmente frequente che i malati psichici vengano lasciati soli da parenti e conoscenti in partenza per le vacanze.
E anche l’ansia e i suoi disturbi possono peggiorare d’estate. La vivacità e l’affollamento sia nelle città che nei luoghi di vacanza genera agitazione, alienazione, timore, desiderio di fuga e sovvertimento minaccioso degli abituali ritmi di vita. Gli ansiosi, disorientati, si trovano di fronte all’eccesso di tempo libero che devono gestire, e anche questo diventa una minaccia, un vuoto da riempire come se si trattasse di una prestazione.

Coprofagia: spesso associata a demenza neurodegenerativa

Tra gli esseri umani la coprofagia è stata descritta per la prima volta nel 1897 all’interno dei manicomi. Ancora oggi però è difficile stimarne l’incidenza, considerata la difficoltà dei pazienti a parlarne con il proprio terapeuta data dalla stigmatizzazione del comportamento.

 

Cosa si intende per coprofagia

La coprofagia, ossia la pratica di ingerire escrementi, è piuttosto comune nel mondo animale, ma raramente viene riscontrata tra gli esseri umani.

Tra conigli e roditori, ad esempio, ricorre principalmente a scopo nutritivo, mentre in altre specie trascende questo obiettivo; i cani, ad esempio, possono mangiare i loro stessi escrementi come una sorta di punizione alternativa a quella che verrebbe loro inflitta dal padrone.

Tra gli esseri umani la coprofagia è stata descritta per la prima volta nel 1897 all’interno dei manicomi. Ancora oggi però è difficile stimarne l’incidenza, considerata la difficoltà dei pazienti a parlarne con il proprio terapeuta data dalla stigmatizzazione del comportamento.

 

Coprofagia: quando si manifesta

La coprofagia solitamente si associa alla presenza di ritardo mentale, tumori al lobo frontale, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia, epilessia, demenza e feticismo. Le cause di questo comportamento non sono ad oggi chiare; alcuni studi di lesione effettuati sulle scimmie comunque suggeriscono il coinvolgimento dell’amigdala.

Nel tentativo di esaminare lo spettro dei disturbi psichiatrici e neurologici associati alla coprofagia, i ricercatori della Mayo Clinic, esaminando le cartelle cliniche di 12 pazienti ricevuti tra il 1995 e il 2015 che avevano mostrato questi comportamenti, hanno osservato nella metà la presenza di demenza neurodegenerativa e, più in generale, la comorbilità tra questa pratica e svariati disturbi psichiatrici.

Dopo aver selezionato i pazienti (età media 55 anni, range da 20 ad 88 anni) dal database della clinica sulla base di alcune keywords presenti nelle cartelle cliniche (ad es., poop, feces eat), sono state esaminate tutte le scansioni di neuro-imaging condotte al tempo. Dall’analisi di queste ultime, tra i pazienti coprofagi e dementi si rilevava un’atrofia da moderata a severa al lobo temporale mediale e un’atrofia lieve nel lobo frontale.

Tra i comportamenti frequentemente riscontrati tra i coprofagi in esame vi erano: scatolia (pratica di annusare le feci), ipersessualità, aggressività e tendenza ad ingerire oggetti di ogni tipo.

Per ciò che riguarda i trattamenti farmacologici impiegati per la risoluzione della coprofagia, stando allo studio del team della Mayo Clinic, l’aloperidolo (antipsicotico) era l’unico farmaco in grado di sortire effetti significativi. Invece, le modificazioni comportamentali e l’uso di antiepilettici e antidepressivi non avevano prodotto risultati significativi.

Poiché la coprofagia si accompagna al rischio di infezioni e persino di morte è importante indagarne la natura, i correlati neurofisiologici e valutare i migliori trattamenti possibili.

L’importanza delle parolacce: Anche Francesco le diceva (2016) di N. Fioretti – Recensione

Sostenitrice di un lessico meno controllato, scelgo di leggermi ‘Anche Francesco le diceva‘ di Natale Fioretto, per avere la conferma dell’importanza sociolinguistica che le parolacce e il turpiloquio possiedono.

 

Ho passato ore della mia adolescenza sui volumi dell’enciclopedia Utet che possedevano i miei nonni. Quei libri, così grandi rispetto alla mia fisicità, mi facevano immaginare di essere in un film d’avventura sul punto di svelare un grande mistero.

Tra i tanti tomi, mia nonna ne aveva acquistato uno piuttosto curioso dal titolo ‘Dizionario del lessico amoroso. Metafore, eufemismi e trivialismi‘. Presa dal mio spirito romantico un giorno lo sfogliai e capii che di romantico c’era ben poco! Termini molto forti si susseguivano nelle numerose pagine costringendomi a chiuderlo subito e riporlo nella libreria nel timore di essere sorpresa in flagrante… cosa avrebbero pensato di me?

Oggi invece, sostenitrice di un lessico meno controllato, scelgo di leggermi ‘Anche Francesco le diceva‘ di Natale Fioretto, per avere la conferma dell’importanza sociolinguistica che le parolacce e il turpiloquio possiedono. L’autore infatti afferma:

Siamo erroneamente portati a pensare che il turpiloquio tolga pregio ed efficacia alla comunicazione, ma da un punto di vista squisitamente linguistico i termini “turpi” non inficiano la comunicazione, semmai la arricchiscono di connotazioni di varia pregnanza provocando risposte di tipo neurologico e psicosociale.

Fioretto evidenzia la carica emotiva che l’emittente esprime utilizzando un linguaggio scurrile. Percepiamo chiaramente i sentimenti e le passioni, e l’ascolto di determinate parole volgari ci svela inoltre la partecipazione fisica dell’interlocutore come l’accelerazione del battito cardiaco quando si è arrabbiati o eccitati.

Interessante la riflessione in ambito politico partendo dal presupposto che una lingua improntata alla spontaneità riflette l’aspetto sincero e autentico di chi si esprime. Arma a doppio taglio però mi viene da pensare… preferiamo un politico che sappia controllare la sua emotività come il caso di Vincenzo De Luca, oppure chi si fa prendere da un facile cameratismo come Silvio Berlusconi? Difficile come scelta, ma ora sappiamo per certo che sono strategie comunicative altamente studiate. Scrivo nei giorni seguenti le elezioni amministrative (andremo al ballottaggio), i 5 stelle hanno raggiunto buoni risultati… Merito del Vaffa-Day di Grillo?

Fioretto tocca anche il tema complesso della religione riportando parole scurrili uscite dalla bocca di Martin Lutero ed espressioni scatologiche di Francesco D’Assisi. Era lui che le diceva ed ovviamente contro il demonio. Seguendo le orme del santo umbro il nostro attuale Francesco le dirà?

L’autore riporta che l’utilizzo di ‘male parole’ può svolgere diverse funzioni tra le quali ad esempio quella espletiva o quella abituale. Nella prima esprimiamo impulsivamente l’emozione che stiamo provando del tipo ‘che figata!‘, in quella abituale inseriamo le parolacce nel lessico comune desemantizzandone il significato come il termine ‘casino‘.

Alla fine della sua trattazione Fioretto pone l’accento sulla necessità di inserire questo tipo di linguaggio nel processo di apprendimento di una lingua. Questo forse è utile se non siamo ancora arrivati nel paese straniero perché in realtà le parolacce sono le prime cose che apprendiamo, le prime parole che gli autoctoni che ci vogliono bene ci spiegano e ci dicono di imparare. Conoscere il turpiloquio del posto che ci ospita non ci pone in una totale sottomissione nei confronti dell’altro: se tu mi sorridi e nel mentre mi stai insultando io so di non potermi fidare di te. Mi chiedo inoltre… Apprenderle in un ambito educativo ne legittima poi l’uso tanto da non vedere poi il turpiloquio come la pecora nera del linguaggio? Questo sì che sarebbe interessante capire.

Al termine della lettura si è vogliosi di sapere ancora. Se l’intenzione di Fioretto era quella di portare il lettore ad una propria riflessione e ad una ricerca più approfondita sul tema credo ci sia riuscito in pieno. Incuriosita e più consapevole me ne torno in salotto a sfogliarmi il ‘volume della vergogna’ lasciatomi in eredità dai miei nonni.

Oggettivazione sessuale della donna: quale relazione con i sintomi psicopatologici?

Oggettivazione sessuale: Il termine “oggettivazione” è un concetto che non ha ancora una definizione unanimemente condivisa. La maggior parte degli studiosi di tale fenomeno, però, concorda nel ritenere che con “oggettivazione” si intenda il trattare una persona come uno strumento privo di autonomia e soggettività.

Luisa Bono, Elena Villa, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Che cos’è l’oggettivazione: le teorie

Già nel 1797, il filosofo Kant ne aveva fatto materiale di pensiero. Secondo le sue riflessioni l’oggettivazione implica il trattare una persona come un oggetto, riducendo l’individuo a uno stato di mero strumento. Il filosofo metteva in evidenza come questo particolare comportamento offenda l’umanità e la dignità di una persona, ovvero ciò che ci definisce e ci distingue dagli animali e dagli oggetti.

MacKinnon (1988), prendendo spunto dalla teoria kantiana, sottolinea l’aspetto depersonalizzante dell’oggettivazione, che porta a non considerare la persona nella sua identità e soggettività, ma la riduce a semplici parti del corpo. Kant e MacKinnon sono in accordo sui danni e sullo svilimento che l’individuo oggettivato può provare: l’oggettivazione può compromettere il modo in cui l’individuo considera e costruisce se stesso.

Qualche anno più tardi, Nussbaum (1995), rivisitando il costrutto di oggettivazione, definisce due differenti tipologie di oggettivazione: una “positiva” che avviene nel caso in cui una persona è sì vista e trattata come un oggetto, ma in modo tale per cui non ne venga negato l’aspetto umano (l’autrice riporta come esempio il fatto che in una relazione amorosa, benché ci sia rispetto reciproco tra le due parti, possa esistere un comportamento di oggettivazione nel momento in cui l’individuo “oggettivante” sfrutta il proprio partner allo scopo di raggiungere il piacere sessuale) e un’oggettivazione “negativa” che avviene nel caso in cui venga deliberatamente sminuito l’aspetto umano.

Più recentemente, Papadaki (2010) approfondisce le sfumature e i differenti gradi di danno dell’oggettivazione qualora sia presente o assente intenzionalità da parte di chi la mette in atto. Soffermandosi quindi proprio sul fatto che l’oggettivazione possa non essere intenzionale, mette in guardia sull’importanza di educare le persone a prestare attenzione ai comportamenti oggettivanti, in modo tale da poterli riconoscere e quindi evitare.

 

L’oggettivazione sessuale e l’auto-oggettivazione

Una particolare forma di oggettivazione dell’individuo è l’oggettivazione sessuale: “il valore di una persona è confinato alla sua capacità di attrazione sessuale, a esclusione di altre caratteristiche” (Volpato, 2011, p. 108). L’oggettivazione sessuale, definita  anche come sessualizzazione (Volpato, 2011) indica una valutazione della persona esclusivamente basata sulla sua funzione sessuale, che considera solo alcune parti del corpo (quelle erotiche) di un individuo che non viene più visto nella sua interezza. L’oggettivazione sessuale avviene quando delle componenti sessuali o funzioni di una donna sono considerate separate dalla sua persona, riducendole a stato di meri strumenti, o qualcosa di altro come se potessero essere una rappresentazione di lei. In questo modo è come se si considerasse una persona intera identificandola con il suo corpo (Bartky, 1990).

L’oggettivazione sessuale ha come possibile conseguenza l’auto-oggettivazione, il considerarsi o trattarsi come un oggetto sessuale (Moradi & Huang, 2008): la persona interiorizza una visione di sé come un oggetto che ha lo scopo di soddisfare il piacere altrui. Questo fenomeno ha una serie di esiti negativi: prima di tutto una crescita di emozioni negative, soprattutto legate al proprio corpo, che non si considera all’altezza degli standard culturali imposti, ansia e depressione. Vi può essere inoltre una diminuzione dell’attenzione e della concentrazione nel momento in cui ci si impegna in un’attività mentale o fisica, proprio perché le energie psicofisiche sono impegnate nel controllo del proprio aspetto. Infine, soprattutto nelle donne, l’ auto-oggettivazione porta ad avere una minore consapevolezza dei propri stati psichici interni e delle sensazioni fisiche (Volpato, 2011) associato a Disturbi della sfera alimentare.

Fredrickson e Roberts (1997) proposero la teoria dell’ oggettivazione sessuale per spiegare le conseguenze che l’ oggettivazione sessuale poteva avere, soprattutto sulle donne. In particolare gli autori affermano che le esperienze di oggettivazione sessuale a cui le donne sono sottoposte promuovono una forte auto-oggettivazione, e che la società fin dal passato ha rinforzato il ruolo subordinato della donna e l’ha spinta a credere che un atteggiamento subordinato al mondo maschile e la bellezza esteriore siano l’unico mezzo di affermazione e di acquisizione di potere per il genere femminile.

Più recentemente, alcuni autori (Roberts & Gettman, 2004) hanno ulteriormente sviluppato questa teoria dimostrando che una delle conseguenze dirette dell’oggettivazione sessuale femminile è rappresentato dal fatto che le donne, facendo proprio il punto di vista dell’ osservatore (un punto di vista maschile), sacrificano la propria identità soggettiva e si preoccupano sempre di più di curare il loro aspetto fisico. Come conseguenza, tentano sempre più di adattare il proprio corpo a canoni estetici e modelli difficilmente raggiungibili, che poco rappresentano il genere femminile nella realtà.

Il malcontento nei confronti di una mancata aderenza a questi canoni ‒ imposti dalla società, dai mass media e dal sesso opposto ‒ genera numerose conseguenze negative: ansia e frustrazione nei confronti di un corpo “imperfetto” e una soppressione o interferenza con i propri stati interni. L’essere continuatamente messe a confronto con dei modelli di bellezza irraggiungibili genera nelle donne sentimenti di ansia e vergogna per il proprio corpo. Le donne cercano quindi di ritirarsi dallo sguardo altrui e si richiudono in uno stato di confusione (Botta, 2003).

 

L’oggettivazione sessuale correlata ai Disturbi Alimentari

Diversi strumenti sono stati sviluppati al fine di indagare lo stretto legame tra oggettivazione sessuale, auto-oggettivazione, sentimenti di vergogna e disordini alimentari, ‒ Self-Objectification Questionnaire (Noll & Fredrickson, 1998); Objectified Body Counsciousness Scale (McKinley & Hyde, 1996); Interpersonal Sexual Objectification Scale (Kozee et al. 2007). I risultati delle ricerche che li hanno utilizzati hanno mostrato come la vergogna per il proprio corpo costituisca un importante fattore nella relazione tra auto-oggettivazione e disturbi alimentari (Breines, Crocker & Garcia, 2008; Szymanski & Henning, 2007; Tiggerman & Kuring, 2004).

In un famoso esperimento, Fredrickson e colleghe (1998) hanno studiato il legame presente tra auto-aggettivazione, attenzione all’aspetto fisico e vergogna per il proprio corpo attraverso il paradigma del “costume da bagno”, un esperimento che ha coinvolto 72 studentesse. Queste venivano assegnate casualmente a una tra due condizioni: nella condizione sperimentale le ragazze erano invitate a provare un costume da bagno davanti a uno specchio a figura intera (condizione definita dalle autrici come “auto-oggettivante”); nella condizione di controllo dovevano invece provare un maglione. A seguire veniva loro somministrato un questionario per indagare i sentimenti associati all’esposizione del proprio corpo e le tematiche inerenti ai comportamenti alimentari assunti; venivano infine offerti biscotti e bevande al cioccolato. I risultati mostrarono che il gruppo sperimentale focalizzava in misura maggiore l’attenzione sul proprio corpo, esibiva livelli più bassi di autostima e più alti livelli di vergogna per il proprio aspetto e consumava in misura minore i cibi ultra calorici proposti.

In aggiunta, le autrici sottolineano che anche molto tempo dopo la situazione sperimentale di auto-oggettivazione, i partecipanti continuavano a formulare pensieri (e una distorta percezione di sé) collegati al proprio aspetto fisico, testimoniando quindi che gli effetti di questo processo sono duraturi in quanto permangono anche dopo che la prova si è conclusa.

Il Ministero della Salute indica come, anche in Italia, si assista a un incremento di nuovi casi di disordini alimentari soprattutto nel genere femminile nella fascia tra i 12 e i 25 anni.

L’ incidenza dell’ anoressia nervosa si aggira intorno allo 0.2-0.8%, mentre quello della bulimia nervosa intorno al 3%. Anche i Disturbi Alimentari Non Altrimenti Specificati (DCA-NAS) sono in aumento: i valori di incidenza si aggirano tra il 3,7 e il 6,4% con un’ età di esordio tra i 10 e i 30 anni. Questi comportamenti, segnala il Ministero della Salute, sono, quasi nello loro totalità, correlati ad altri disturbi psichiatrici: è infatti in aumento la comorbidità con depressione e disturbo ossessivo–compulsivo.

Gli standard culturali e gli stereotipi della società sono per la maggior parte condizionati dai mass media (tv, internet, riviste). Botta (2003), in merito all’influenza dei mass media correlati all’ oggettivazione sessuale e ai disturbi della sfera alimentare, costruisce un esperimento volto ad analizzare la correlazione tra lettura di riviste e disturbi alimentari e l’insoddisfazione nei confronti del proprio corpo. Lo studio, compiuto su un gruppo di adolescenti americani, mostra che per le femmine la lettura di riviste di moda possa spingere a desiderare un corpo ancora più sottile, attraverso comportamenti patologici di anoressia e bulimia.

Anche nello studio di Stanfort e Maccabe (2002) emerge una vasta insoddisfazione per il proprio corpo considerato non nel suo intero, ma nelle sue componenti e  i risultati mostrano che la maggior parte del campione femminile indica che vorrebbe la parte inferiore del proprio corpo maggiormente (o eccessivamente?) magra.

 

L’oggettivazione sessuale correlata ai Disturbi d’Ansia e alla Depressione

La sessualizzazione della popolazione femminile mostra, inoltre, una correlazione con i disturbi quali bassa stima di sé, sentimenti negativi e depressione. L’ “Osservatorio Nazionale Salute Donna” evidenzia infatti che in Italia la patologia depressiva si manifesta principalmente tra i 14 e i 44 anni, colpendo soprattutto il sesso femminile, in rapporto 2:1 con il sesso maschile. Tolman e colleghi (2006) hanno suggerito l’ipotesi secondo cui  l’interiorizzazione dei moderni ideali di magrezza e di femminilità può portare a non sentirsi adatta ai canoni imposti, contribuendo a generare, nella popolazione più vulnerabile, un umore sempre più deflesso, causando nelle ragazze la soppressione di una più autentica idea del proprio corpo sostituita da un’immagine non autentica.

In uno studio longitudinale, Stice e colleghi (Stice, Spangler, & Agras, 2000) hanno mostrato come l’interiorizzazione di un ideale di estrema magrezza e l’insoddisfazione per il corpo associata a diete e sintomi bulimici, rendessero le donne maggiormente vulnerabili e successivamente vittime di depressione. Altri studi hanno portato alle medesime conclusioni, come, per esempio lo studio di Hawkins, Richards, Granley e Stein (2004) che riportano una situazione sperimentale in cui mostravano ad alcune giovani adolescenti 40 fotografie delle riviste Cosmopolitan, Vogue e Glamour. Gli autori hanno diviso le partecipanti in due gruppi: al gruppo sperimentale venivano mostrate solo foto contenenti immagini di modelle, mentre al gruppo di controllo venivano presentate immagini di donne di tutti i giorni, o altre fotografie connotate dagli sperimentatori come “neutre”.

Gli autori hanno indagato nello specifico alcune variabili tra cui autostima, soddisfazione per il proprio corpo e confronto sociale, valutati attraverso la Rosenberg Self-Esteem Scale (SES), la Body-Esteem Scale (BES) e la Sociocultural Attitudes Towards Appearance Questionnaire (SATAQ).  I risultati hanno evidenziato ancora una volta che le ragazze esposte ai modelli idealizzati di magrezza mostravano, oltre ad una vulnerabilità a breve termine di comportamenti alimentari patologici, anche sentimenti di depressione e minore considerazione di sé, rispetto al gruppo di controllo.  Dallo studio è infatti emersa una forte correlazione tra i punteggi ottenuti in relazione a “bassa stima di sé” e “confronto sociale” e un maggior numero di sintomi ansiosi e depressivi nei confronti del proprio corpo dopo la condizione sperimentale.

L’ oggettivazione sessuale inoltre conduce, a partire dall’ adolescenza, ad avere complicazioni nella sfera delle relazioni e della sessualità: un esperimento di Tolman e colleghi (Tolman, Impett, Tracy & Michael, 2006) rileva come le ragazze con una prospettiva del proprio corpo oggettivata mostrino una minore attenzione alle precauzioni e minori attenzioni nell’ambito della salute sessuale. Anche altri studi in merito a questo argomento (Ward, 2002; Durham, 1998) mostrano che la frequente esposizione a specifici standard di bellezza può alterare le aspettative che le ragazze si creano nei riguardi delle esperienze sessuali, portando ansia, insoddisfazione e frustrazione.

Secondo  Wiederman (2001), una ragazza che mostra insoddisfazione per un corpo che percepisce distante dagli standard imposti dai media può rimanere vincolata solo al giudizio del partner, limitando i suoi desideri, la sua sicurezza e il suo piacere.

Lo stesso concetto è stato rinforzato anche da altri autori, come ad esempio Roberts e Gettman (2004). Gli autori enfatizzano come la percezione distorta del proprio corpo, nel caso di ragazze sessualizzate e oggettivate, conduca a un minore apprezzamento e riconoscimento dei propri sentimenti e piaceri nella sfera della sessualità.

L’insoddisfazione nei confronti del proprio corpo sta prendendo piede anche nel delicato mondo della chirurgia estetica. In Italia c’è una grandissima diffusione di interventi estetici per le donne; basti pensare che il 70% degli interventi chirurgici per l’impianto di protesi effettuati nel nostro paese è legato a ragioni di tipo estetico.

 

Conclusioni

I mass media giocano un ruolo fondamentale nella diffusione degli standard culturali stereotipici della nostra società; sono il mezzo attraverso cui vengono proposti modelli da seguire e perseguire e per cui ogni differenza rispetto al canone viene considerata intollerabile. Le donne vengono rappresentate come sempre giovani, belle, truccate, sono “volti ricondotti a maschere della chirurgia estetica. Corpi gonfiati a dismisura come fenomeni da baraccone di un circo perenne che ci rimandano un’idea di donna contraffatta, irreale” (Zanardo, 2010, pag. 191). Parallelamente, i media esaltano l’aspetto di virilizzazione dell’uomo e la sottomissione della donna in favore dei suoi desideri.

Affinché sia contrastato il fenomeno dell’ oggettivazione sessuale della donna, sarebbe auspicabile un intervento preventivo rivolto ai bambini e agli adolescenti volto ad aumentare la consapevolezza del potere che i media assumono nel diffondere una cultura erotizzante e nel promuovere stereotipi di genere (Bargh, Chen e Burrows (1996)): è necessario far comprendere l’importanza di assumere un comportamento che non sia di passiva ricezione sviluppando una maggior criticità nel codificare i messaggi proposti dai mass media.

A questo si aggiunge l’importanza attribuita ad un training all’autostima, alle life skills  considerati fattori protettivi per promuovere, in primis il benessere dei bambini e quindi dei futuri adulti, che saranno in grado di contrastare i fenomeni di influenza sociale di cui l’oggettivazione sessuale fa parte (APA, 2010).

I genitori e la famiglia in generale hanno un primo e importante ruolo nell’aiutare i figli a interpretare i messaggi a cui sono sottoposti e a proteggerli da una precoce oggettivazione sessuale (APA, 2010). Questo vale soprattutto quando i bambini sono molto piccoli e quindi più vulnerabili e bisognosi di maggior protezione e sostegno da parte degli adulti.

Fred Kaeser (2011) invita i genitori a guidare e, se necessario, fare chiarezza e sostenere i bambini che sono esposti ai numerosi quotidiani messaggi oggettivanti. L’autore suggerisce di parlare onestamente ai propri figli del mondo ipersessualizzato presente intorno a loro, di aiutarli a creare un senso critico mostrando quali possano essere gli effetti negativi, in modo tale che agiscano consapevolmente, consci delle conseguenze positive e negative che possono avere le loro scelte.

Alcuni studi si sono occupati di stabilire quali possano essere le caratteristiche individuali che rendono le donne maggiormente sensibili all’ oggettivazione sessuale, in particolare lo studio di Posavac, Posavac e Posavac (1998, 2002) e lo studio di Volpato (2011) hanno messo in evidenza quanto le variabili individuali possano mitigare gli effetti di un’ oggettivazione sessuale: in particolare gli autori hanno suggerito che i media non mostrano un evidente effetto nelle donne che presentano un’ elevata autostima e che quindi non considerano il proprio corpo così distante dai canoni imposti dai mass media e dai modelli da loro proposti e nelle donne che hanno un adeguato livello di autostima, ma che si dimostrano disinteressate dalla componente fisica considerando di maggior importanza le proprie competenze e abilità intellettive.

 

 

Lo stadio operatorio formale secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla psicologia

Lo stadio operatorio formale inizia dagli undici-dodici anni e si conclude verso i 15 anni. In questo periodo si verificano una quantità di trasformazioni a livello cognitivo che portano a uno sviluppo esponenziale del pensiero, poiché il preadolescente è ormai in grado di implementare processi mentali che variano dal particolare – concreto al generale- astratto.

 

Stadio Operatorio formale: introduzione

Siamo giunti all’ ultima puntata con la teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo nel bambino. Durante questa ultima fase il protagonista non sarà più il bambino, ma il preadolescente.
Infatti, lo stadio operatorio formale inizia dagli undici-dodici anni e si conclude verso i 15 anni. In questo periodo si verificano una quantità di trasformazioni a livello cognitivo che portano a uno sviluppo esponenziale del pensiero, poiché il preadolescente è ormai in grado di implementare processi mentali che variano dal particolare – concreto al generale – astratto.

 

Stadio Operatorio formale: in cosa consiste

Questa fase delle operazioni intellettuali formali, ovvero operazioni mentali eseguite su contenuti astratti o formali, riguarda concetti non immediatamente percepibili. Il preadolescente è in grado di staccarsi mentalmente dal concreto per iniziare a estendere i contenuti inviluppandoli in una realtà più ampia. Quindi, si parte dal reale per arrivare a produrre ragionamento ipotetico o astratto.

Il pensiero in questo stadio è molto immaginativo, in gergo si definisce di logica – proposizionale, ovvero si fantastica su cose tendenzialmente probabili. Tutto questo è possibile grazie allo sviluppo di capacità mentali totalmente reversibili, che portano, alla fine della fiera, alla formazione di concetti generali, credenze o verità, indubbiamente soggettive.

Queste nozioni generali sono desunte da una serie di strutture logiche di base possedute precedentemente e che, solo in questo momento, è possibile astrarre utilizzando una serie di principi:
1. Proporzionalità, rispettare le reali proporzioni e relazione tra le variabili;
2. operazioni combinatorie, capacità di ricavare tutte le combinazioni possibili tra diverse variabili;
3. relatività dei movimenti e delle velocità, percepire le diverse sfumature dovute alla distanza e al movimento;
4. nozione di probabilità, si tratta di ragionare in base al calcolo combinatorio;
5. nozione di correlazione, stabilire la reale relazione di causa ed effetto tra le variabili in base a elementi comuni;
6. compensazione moltiplicativa, l’aumento del peso può essere compensato da una diminuzione dell’altezza;
7. Forma di conservazione che oltrepassa l’esperienza, conservazione non verificabile in quanto non sperimentabile come nel caso del principio di inerzia.

Le operazioni descritte sono puramente intellettive poiché il preadolescente giunge alle conclusioni tramite un processo di esclusione mentale di alcune variabili concrete.
Il pensiero formale è caratterizzato, inoltre, dalla capacità di separare, che consiste nel considerare in modo disgiunto e staccato diverse variabili di un sistema. Quindi, il preadolescente è in grado di comprendere che alcuni fenomeni sono costituiti da parti e di conseguenza scomponibili.

 

Stadio Operatorio formale: evoluzione del pensiero

Durante il periodo delle operazioni formali si assiste a una evoluzione del pensiero rispetto allo stadio precedente poiché non più solo concreto e tangibile, ma squisitamente astratto e fantasticato.
Le capacità intellettive sono molto più flessibili e manipolabili e possono generare sintesi o ipotesi nuove e diverse.
Il bambino molto piccolo è solamente uno spettatore ed è capace di pensare solo concretamente, mentre ora, da quasi adolescente, astrae concetti rendendoli generali. L’adolescente, infatti, potrebbe allontanarsi tanto dalla realtà al punto da non trovare, in casi estremi, riscontro e avere dei conflitti.

Il processo di pensiero a cui ci riferiamo è definito ipotetico-deduttivo e si sviluppa gradualmente, svincolandosi dalla realtà per cedere il posto all’immaginazione. In questo modo, si generano rappresentazioni mentali degli oggetti attraverso la creazione di schemi intellettivi, copie della realtà che, attraverso l’utilizzo dell’inclusione in classi, tipiche del pensiero concreto, determinano e generano il ragionamento per ipotesi. Così facendo ci si allontana dalla realtà attraverso la fantasia ed è possibile creare nuove teorie per merito della riflessione spontanea che, chiaramente, prende spunto e parte da qualcosa di tangibile.

 

Stadio Operatorio formale: egocentrismo

Il preadolescente, esattamente come accadeva per il bambino piccolo, è ancora totalmente centrato su se stesso. Siamo ancora alle prese con l’egocentrismo che in questa fase diventa metafisico e non più intellettuale, malgrado conservi delle caratteristiche simili a quelle del bambino. Solo in un secondo momento, grazie al raggiungimento dell’equilibrio che consiste nel riaccomodarsi alla realtà circostante attraverso la creazione di schemi d’azione, egli potrà riflettere e comprendere il pensiero altrui con l’interpretazione dell’esperienza. A questa epoca siamo molto lontani dal pensiero concreto perché al mondo reale sono affiancate [blockquote style=”1″]le costruzioni indefinite della deduzione razionale e della vita interiore[/blockquote] (Miller, 1992).

Altra caratteristica del pensiero formale è il riflettere sul proprio pensiero e su quello degli altri, si acquisiscono delle capacità metacognitive, che consentono di ragionare su questioni sociali, immaginando le diverse prospettive e implicazioni future, o sulle conseguenze dei propri pensieri.

 

Stadio Operatorio formale: la personalità

Durante questa fase di sviluppo del pensiero formale si pongono le basi per la definizione della propria personalità.
La costruzione della personalità ha inizio verso gli otto anni, si struttura intorno ai 12 anni e, inevitabilmente, è influenzata dalla cultura, dalle regole e dal senso di moralità.
La personalità è il risultato finale che si ottiene nel momento in cui tutte le fasi di pensiero sono state raggiunte, sviluppate e si è definito un minimo di progetto evolutivo sulla propria persona.

Per questo, l’adolescente in questo periodo fantastica progetti e sogna il futuro, facendo i conti con il reale, la società, in cui non si riconosce, perché gli impedisce, con le sue regole, di far sbocciare il suo essere.
L’amore, l’essere al centro del suo mondo costituiscono le basi per entrare a far parte di diritto nel mondo circostante, apportando un contribuito specifico rispetto alle proprie potenzialità e caratteristiche personologiche.
In questo periodo il pensiero è caratterizzato da idee astratte e consente all’adolescente di raggiungere un certo equilibrio fra assimilazione e accomodamento.

Per verificare l’effettiva evoluzione del pensiero, Piaget utilizza l’esperimento del pendolo: al preadolescente è presentato un pendolo con una cordicella a cui è appeso un piccolo oggetto. Il compito è scoprire quali elementi, lunghezza della corda, peso del solido, ampiezza di oscillazione, slancio impresso al peso, riesce a variare a suo piacere per determinare la frequenza delle oscillazioni. Lavorando in maniera logica e ordinata sulle diverse componenti, l’adolescente arriverà ben presto a capire che la frequenza del pendolo dipende dalla lunghezza della sua cordicella. Insomma, scopre come usando la logica si riesce a raggiungere l’obiettivo.
Ovviamente il pensiero logico-formale non è ancora quello teorico-scientifico, che non si forma nel periodo adolescenziale, ma molto più tardi.

 

Stadio Operatorio formale: conclusioni

Con il raggiungimento delle operazioni formali, l’adolescente completa e definisce le sue abilità cognitive. I diversi processi logici di pensiero operazionale concreto sono stati combinati e arricchiti per cedere il passo a un pensiero più organizzato, astratto, e strutturato.
Il pensiero così caratterizzato non resta stabile ma tende ad evolversi con l’età, diventa logico, teorico e flessibile e continua a svilupparsi attraverso l’età adattandosi a diverse situazioni e condizioni.

Anche l’egocentrismo pian piano si dissolve e si plasma in relazione alle esperienze individuali derivanti anche dal mondo del lavoro e dalle relazioni sociali. Questi cambiamenti che si verificano solo dopo i 15 anni, non determinano un mutamento strutturale di pensiero, ma solo una modifica qualitativa nei contenuti e nella stabilità nel tempo dei processi appresi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Il programma Dear Body: un protocollo Mindfulness per i disturbi alimentari – Report dalla Conferenza Internazionale Mindfulness

Il programma presentato prende il nome di “Dear Body” ed è un programma che cerca di integrare più aspetti nella gestione dei problemi alimentari (soprattutto negli aspetti legati alle abbuffate) ponendo al centro la mindfulness, affiancata coraggiosamente dalla terapia cognitiva e dall’analisi transazionale.

Questo articolo è fa parte del reportage sulla Conferenza Internazionale Mindfulness (ICM2). La prima parte la trovate qui e la seconda parte qui.

 

Conferenza Internazionale Mindfulness: il simposio “Mindfulness and wellbeing”

Venerdi 13 pomeriggio, scelgo il simposio del convegno di Roma dal titolo “mindfulness and wellbeing”, titolo che appare piuttosto astratto, ma che tuttavia attira la mia attenzione e non si rivela in alcun modo tale.

Ho la fortuna di essere presente quando Charlotte Thaarup-Owen presenta il suo approccio integrato alla cura dei disturbi alimentari attualmente portato avanti in Australia e Bali con risultati rilevanti (in attesa di pubblicazione a quanto riportato da lei stessa). Si tratta di un metodo, Mindfulness-Based, al trattamento dei problemi legati all’alimentazione, che combina Mindfulness, Terapia Cognitiva e Analisi Transazionale. Nel continente oceanico l’obesità e i problemi legati ad essa sono un’emergenza piuttosto concreta. In Australia è riportato che almeno 2 su 3 individui sono obesi. La presentazione ha inizio dopo un piccolo “body scan” guidato da lei e seguito dal suono delle campane tibetane. Nella concezione ampia e attuale di Ludwig (2016) sia quello che mangiamo, sia le condizioni del corpo quando mangiamo, influenzano la perdita o l’acquisto di peso. Ne consegue, banalmente, che lo stato del corpo psico-fisico, risulta piuttosto rilevante per tutto quello che concerne il mondo dei disturbi dell’alimentazione.

 

La mindfulness e l’alimentazione

Il ruolo della mindfulness è stato già investigato come strumento per una migliore gestione della propria salute. Camilleri et al (2015) hanno per esempio riscontrato una correlazione tra alti livelli di mindfulness, un peso salutare e l’inclinazione all’esercizio fisico. Così come la ricerca riporta che la mancanza di regolazione emotiva è un fattore di rischio per le abbuffatte (Lowe, Butrun, Dide 2009) e che proprio la regolazione emotiva è rafforzata dalla pratica minfulness (Siegel, 2007).

I benefici della pratica mindfulness sono stati infatti sottolineati da molti; è addirittura Siegel a paragonare la pratica di mindfulness all’attaccamento sicuro in termini di aree e circuiti cerebrali che si attivano. È la pratica che sembra proprio andare ad agire sull’attivazione della corteccia pre-frontale, aumentando la regolazione corporea (digestione, frequenza cardiaca), migliorando l’equilibrio emotivo, la modulazione della paura, l’empatia, l’insight, e l’intuizione.

 

Il programma Dear Body

Il programma presentato prende il nome di “Dear Body” ed è un programma, come detto prima, che cerca di integrare più aspetti nella gestione dei problemi alimentari (soprattutto negli aspetti legati alle abbuffate) ponendo al centro la mindfulness, affiancata coraggiosamente dalla terapia cognitiva e dall’analisi transazionale.
Il nome “Dear”Body non risulta affatto casuale, è anzi centrale proprio il richiamo ad un atteggiamento gentile e di profondo ascolto del corpo stesso in modo da favorire il cambiamento di prospettiva: il corpo da nemico combattuto, odiato, coperto, può divenire un’amorevole parte di noi che merita cure e attenzioni consapevoli.

Questo protocollo è il risultato di 4 anni di studi pilota e di attente analisi della letteratura nel tentativo di migliorare e colmare alcune delle lacune presenti (come ad esempio la mancanza di aspetti legati alla compassion soprattutto rispetto al proprio corpo, il ruolo importante dell’esercizio del bodyscan, e infine l’aggiunta del “Taking in the Good” (TIG) una pratica creata da Hanson (2013) per aumentare le esperienze positive).

Il pilastro alla base è che la mindfulness attraverso la consapevolezza può ridurre le abbuffate e aumentare l’attenzione e la compassione per il proprio corpo e per i suoi bisogni, migliorando l’esperienza interna con il corpo stesso.

Nello specifico il programma è composto da 6 elementi:

  1. TRAINING ATTENTIVO: riduce l’ansia aumentando la capacità di notare i pensieri, ed è anche uno strumento per la gestione di impulsi.
  2. LA CONSAPEVOLEZZA DEL CORPO; richiama la presenza mentale sul corpo e consente la comprensione del linguaggio di questo, la capacità di notare stati di ansia, di craving, la fame e la sazietà, per esempio. Connettersi con gentilezza con il corpo riduce l’inclinazione ad abusarne attraverso l’eccessivo mangiare, le condotte di binge, il digiuno o le condotte di compenso come il vomito, mentre aiuta ad aumentare la voglia di nutrire e prendersi cura del proprio corpo.
  3. GESTIONE DELLO STRESS: anche a causa della reazione a catena dell’ormone cortisolo (ormone dello stress), glucosio e insulina si tende ad aumentare di peso quando si è sotto stress.
  4. LA CONSAPEVOLEZZA DEI SENTIMENTI: la tendenza all’evitamento viene sostituita con l’apprendimento di “stare con l’ emozione”, per essere presenti con esse e vederle come “visitatori temporanei”. Questo elemento si concentra anche su come cambiare e rompere le abitudini utilizzando sia la terapia cognitiva che la terapia comportamentale che la mindfulness.
  5. IL CICLO DI BINGE / DIETA: utilizza l’analisi transazionale per capire la danza tra il genitore e il bambino nel ciclo dieta / abbuffata, un programma che prende il nome di ‘Hector’. Conoscere Hector significa sapere come sta il proprio corpo, quali sono le emozioni e quali i pensieri, aumentando la capacità di riconoscerli più facilmente come un pattern ricorrente.
  6. TAKING IN THE GOOD: dalle Neuroscienze apprendiamo l’importanza di concentrarsi sulle esperienze positive (Hanson). Recentemente diverse ricerche indicano un legame tra l’ossitocina e meno desiderio di carboidrati e un senso di sazietà più veloce.

 

In buona sostanza il programma poggia sulle basi del protocollo Mindfulness Based Stress Reduction, integrandolo con contributi provenienti dalle neuroscienze, dalla terapia cognitiva e dalla analisi transazionale.

Nel percorso sono previste anche informazioni base sulle diete, sull’esericizio fisico e l’impatto di sane relazioni sociali nel benessere globale.
Tutti gli esercizi e le pratiche sono mirate alla relazione con il cibo, il mangiare, il peso e il corpo con particolare attenzione ad unirvi elementi di compassion.
Nel programma viene fornito materiale sia di lettura che audio per le pratiche come nei percorsi MBSR o MBCT.

Per info sul sito vengono presentati tramite video e non solo, i protocolli e le iniziative del centro (workshop, ritiri e altro ancora).
Il contributo di Charlotte Thaarup-Owen è stato sicuramente uno tra i più interessanti dell’evento.

Le consiglio una Song-therapy…Intervista a Romeo Lippi, lo psicologo del rock

Mi sono imbattuto casualmente in Romeo Lippi un paio d’anni fa, mentre vagabondavo per il web alla ricerca di materiale per il mio libro di Psicorock. Romeo si definisce infatti “lo psicologo del rock” ed è riuscito in modo molto efficace ad integrare le sue due grandi passioni per la musica e per la psicologia, organizzando gruppi di “Song-therapy”, che hanno la finalità di favorire la crescita personale in modo assolutamente innovativo attraverso l’ascolto in gruppo di canzoni cantautorali.

 

Romeo Lippi è anche un comunicatore formidabile con migliaia di follower sui social network (ha anche scritto un libro sull’uso dei social per gli psicologi), probabilmente perché i contenuti che propone sul rapporto tra psicologia e canzoni sono autentici, profondi e coinvolgenti. Ho avuto anche la fortuna di incontrarlo durante un suo “pellegrinaggio” a Modena (ovviamente a carattere enogastronomico…) e mi sono deciso a intervistarlo per capire meglio la sua attività decisamente rock!

– Ciao Romeo, ci racconti la tua storia. Quale formazione psicoterapica hai? Dove svolgi la tua attività clinica?

Ciao Gaspare! Ho una formazione di psicoterapia integrata presso l’Aspic di Roma. L’integrazione mi ha permesso di unire psicologia e canzoni. Lavoro a Viterbo.

Come è nata l’idea di introdurre le canzoni nel tuo lavoro?

È nata dall’urgenza di fare musica. Mi lamentavo con il mio maestro/supervisore del fatto che, lavorando molto, non avevo tempo da dedicare alle canzoni. Mi disse: “perché non unisci la tua passione con la psicologia?”. Da lì nacque il blog e la pagina Facebook; da un anno invece portiamo avanti progetti “fisici” come la psicologia del rock nelle scuole, i seminari-evento dedicati alle connessioni tra cantautorato e psicologia (“Cantautori: terapeuti dell’anima”), i laboratori e i gruppi di Songtherapy.

Ci racconti cosa succede esattamente nei gruppi di song-therapy?

10/20 persone in una stanza, a terra, sui tappeti. C’è un giro iniziale per dare voce allo stato emotivo del momento dei partecipanti. Poi inizia un lavoro di gruppo che cambia ogni volta: la carta d’identità musicale, il rilassamento evocativo, la rockin’ chair, “truccati come i kiss”, “disegna la tua maschera da concerto” e molti altri. Nella seconda parte chi vuole può fare delle esplorazioni individuali: attraverso le canzoni racconta un proprio problema e insieme cerchiamo di affrontarlo. C’è sempre un’atmosfera molto emotiva, calda; usare le canzoni permette di dare voce a se stessi senza parlare, di dare all’altro senza esporsi troppo, di creare dei significati comuni con i componenti del gruppo.

Ci fai qualche esempio di canzoni particolarmente evocative?

Ci sono “canzoni motivazionali” come “L’Estate Addosso” o “Gli Immortali” di Jovanotti. Lorenzo viene spesso citato come autore che fornisce carica, energia, vitalità, speranza. Ci sono quelle più riflessive: come “Creep” dei Radiohead o alcuni brani dei Cure, un must per esprimere stati di tristezza. Moby, Explotions in the Sky e The XX per rilassarsi e immaginare paradisi perduti. E ancora “canzoni di conforto”: “Abbi cura di te” di Levante, “La cura” di Battiato. Canzoni che ti insegnano come vivere: come “un medico” di Fabrizio De André o “Costruire” di Niccolò Fabi.

– Ho letto recentemente un tuo articolo sul valore catartico e terapeutico dell’ascolto delle canzoni tristi. Ci racconti qualcosa di più?

Parte tutto da una ricerca del 2016. Secondo le conclusioni degli autori, l’ascolto di musica triste potrebbe aiutare ad accettare ed affrontare un problema, specialmente quando tratta di situazioni quotidiane negative. La musica triste infatti permetterebbe alle persone la ri-esperienza del vissuto, al fine di aiutare ad elaborare la difficoltà, cosa che la musica cosiddetta “felice” non fa. La tristezza è un’emozione utile: se non si è mai tristi non ci si rende conto di quello che non va nella nostra vita. Allora ascoltare una canzone triste può diventare una vera e propria presa di coscienza; come se l’inconscio ci dicesse “adesso stai qui, ascolti, stai fermo, stai un po’ male e rifletti”. Il primo passo per il cambiamento è proprio quello di fermarsi e analizzare la situazione: una canzone triste può fare questo, farci riflettere prima di ripartire. Il mio video che ti allego ne è un ottimo esempio: di solito le persone, guardandolo e ascoltando la canzone (un brano della mia band “Le Ferite”), si commuovono e poi riflettono sulle proprie situazioni.

 

L’articolo prosegue sotto il video:

https://www.youtube.com/watch?v=1TdIW7cSS00

Come utilizzi la canzone invece nel setting individuale? Fate ascolti in seduta? “Prescrivi” ascolti per casa?

In una prima fase, chiedo sempre al paziente di compilare con me o a casa una lista di canzoni che ama; poi le ascoltiamo insieme e lui/lei mi spiega che significato hanno queste canzoni all’interno della sua esistenza. Poi queste o altre canzoni, che a volte escono fuori all’improvviso nella mia mente o in quella del paziente, ci accompagnano durante il percorso: canzoni per lavorare su un trauma, per rilassarsi, per comprendere una dinamica relazionale, per dire addio a qualcuno, per dare una “soundtrack” ai propri cambiamenti di vita. I benefici della terapia rimangono così ancorati a quelle canzoni: ogni volta che il paziente sente quel brano sorride, pensa al setting e alle tante cose buone che abbiamo fatto. Le introiezioni positive della terapia sembrano così rimanere in quella canzone: come gemme in un anello.

– Utilizzi anche le biografie dei cantautori nei tuoi gruppi. In che modo?

Pensa a Kurt Cobain: bello, ricco, famoso, talentuoso; ma tremendamente infelice in alcuni momenti, tanto da uccidersi. Spesso le biografie degli artisti ci aiutano a capire che, per essere felici, bisogna lavorare sui nostri bisogni profondi e non sulle sirene della sola soddisfazione dell’edonismo. Inoltre ci aiutano a vedere come trasformare le sofferenze e i limiti in risorse: Califano che fa della sua voce roca un marchio inequivocabilmente riconosciuto, Ozzy Osborne che da ragazzino problematico diventa una superstar, John Lennon che sceglie di lasciare il mondo del Glitter per seguire se stesso e diventa il simbolo della pace e della non violenza.

So che lavori nelle scuole. Credi che la canzone sia uno strumento di comunicazione efficace per i più giovani?

Trovami un ragazzo a cui non piaccia la musica e che non voglia parlare di musica. È un argomento vincente con loro: posso creare relazione in maniera informale, veloce e efficace senza che mi vedano come lo strizzacervelli che li etichetta come matti o delinquenti.

Ho visto che tieni anche seminari di song-therapy per i colleghi. C’è interesse per questo argomento? A chi sono rivolti in particolare?

L’interesse dei colleghi è enorme. Comprendono che le canzoni possano essere un valido strumento per rendere la professione più divertente per loro e per gli utenti, per innovare e per incrementare le prese in carico. Appunto faremo una nuova formazione adesso a Roma e a Pordenone e a Ottobre a Modena. Sono aperti sia a colleghi già iscritti all’ordine ma anche a studenti che vogliono vedere come integrare una passione come la musica nella professione. C’è posto anche per insegnanti e educatori: le conoscenze teoriche e pratiche che fornisco durante il training possono essere usate anche in setting di sostegno, riabilitazione e apprendimento.

Recentemente Niccolò Fabi ha condiviso su Facebook una tua analisi psicologica della sua canzone Costruire. Bel colpo! I musicisti cosa pensano della tua attività? Come viene accolto di solito “lo psicologo del rock” nel mondo della musica?

In realtà l’articolo parlava dell’effetto che la canzone “Costruire” di Fabi ha avuto sui partecipanti ad un gruppo di Songtherapy: questo brano ha coeso il gruppo intorno all’idea di investire sulle relazioni, quelle del gruppo in primis. Sono molto contento che Niccolò Fabi l’abbia ricondivisa sul suo canale con parole veramente emozionanti (ha postato il mio articolo e ha scritto: “quante cose possono accadere dopo la pubblicazione di una canzone…questa è una delle più gratificanti”). I musicisti sono molto interessati al mio approccio: scopriamo che abbiamo molte più cose in comune di quanto pensiamo; alla fine sia io che loro lavoriamo con e attraverso le emozioni. A volte mi è capitato di essere stato accolto con un po’ di freddezza o di ironia: pensavano che “lo psicologo del rock” fosse uno scherzo, che non fossi un vero psicologo o avevano il timore classico di “essere psicanalizzati”; ma bastano pochi minuti poi per scoprirci in quello che siamo: delle persone che amano la musica, l’incontro con l’altro, la comunicazione vera.

Hai scritto un libro sull’uso di Facebook per gli psicologi. In che modo i nuovi media possono diventare strumento di lavoro per gli psicologi?

Si chiama appunto “Facebook per Psicologi”. Secondo me ignorare il mondo di Internet è una follia: come fai a parlare con un adolescente che vive sui social se non li conosci? Internet e Facebook forniscono grandi possibilità di studio, di promozione e di informazione per il grande mondo della “Psi”; la nostra missione per il futuro è usare questi mezzi per evitare la deriva tecnologica a favore del contatto reale con l’altro; ma non possiamo farlo demonizzando i social media, dobbiamo aiutare le persone a usarli per quello che sono, cioè mezzi, per raggiungere la soddisfazione dei propri bisogni: far capire che comunque una carezza o una lacrima sono molto più belle e forti di mille mi piace.  Appunto “Lo psicologo del rock” che era iniziato come un blog adesso ha molte attività “fisiche”: non voglio creare una pseudorelazione con le persone che seguono il mio progetto, non voglio che mettano solo “mi piace” a quello che scrivo, voglio fare musica, ascoltare musica e incontrare persone, guardandoci negli occhi e non attraverso uno schermo.

Progetti per il futuro? Cosa ti frulla nella tua testa rock?

Tante cose. Ora partiremo con una  serie di appuntamenti: facciamo “Cantautori: terapeuti dell’anima” in uno dei festival letterari più importanti d’Italia e stiamo ultimando gli accordi per portare i “laboratori di Songtherapy” in festival musicali italiani e europei. Per il futuro: voglio creare qualcosa che integri canzoni e psicologia in un’esperienza totale,  portarlo in giro e vivere così di musica e di contatto emotivo.

Orientamento scolastico e lavorativo: i genitori come risorsa o ostacolo nella carriera dei figli?

La famiglia si sta configurando come uno dei luoghi naturali deputati all’orientamento scolastico o all’orientamento lavorativo di adolescenti e giovani adulti, in quanto essa esercita un’inverosimile pressante influenza sullo sviluppo vocazionale dei propri membri.

 

Secondo molti psicologi, sempre più negli ultimi anni, la famiglia si sta configurando come uno dei luoghi naturali deputati all’orientamento scolastico o all’orientamento lavorativo di adolescenti e giovani adulti (Scarpellini, Strologo, 1976; Ribolzi, 1989).

Se, finora, le agenzie di socializzazione deputate a esercitare la funzione orientativa sono state la scuola e le agenzie informative presenti sul territorio, oggi, l’attenzione degli psicologi dell’orientamento è rivolta alle famiglie, poiché queste stanno esercitando un’inverosimile pressante influenza sullo sviluppo vocazionale dei loro membri (Pombeni, D’Angelo, 1998).

 

Orientamento scolastico e lavorativo: in che modo i genitori agiscono condizionando il destino dei figli?

Secondo le psicologhe Pombeni e D’Angelo (1998) ci sarebbero almeno 7  tendenze genitoriali in grado di condizionare erroneamente le scelte dei figli:

  1. Tendenza a drammatizzare le scelte scolastiche o lavorative, attribuendogli un peso maggiore rispetto a quello che rivestono. Questa tendenza carica di significato il processo di scelta e, se il figlio dovesse intraprendere una scelta che porta all’insuccesso, connoterebbe l’esperienza come fallimento personale, scoraggiandosi in maniera eccessiva;
  2. Tendenza a trasferire le aspettative personali e i propri desideri di successo sui figli, senza accorgersi degli interessi, delle passioni e delle loro reali qualità, indispensabili per un orientamento scolastico di successo;
  3. Tendenza a continuare a guardare lo scenario lavorativo senza accettarne i cambiamenti. Un esempio è quello del mito del posto fisso in una società che invece è votata alla flessibilità e al cambiamento;
  4. Tendenza a sovrastimare le informazioni ingenue, i “sentito dire” e sottostimare il valore, ad esempio, di percorsi di orientamento scolastico o lavorativo presso istituti affidabili;
  5. Tendenza a selezionare tra le diverse opzioni secondo un unico criterio che si crede importante o maggiormente rassicurante. Ad esempio scegliere una università solo perché facoltosa o solo perché vicino alla propria abitazione;
  6. Tendenza ad attribuire ai propri figli delle caratteristiche, rifiutando l’idea che altri, amici, insegnanti o orientatore,  possano invece vedere in loro aspetti che i genitori non gli riconoscono;
  7. Tendenza a sostituirsi ai figli nella scelta vocazionale scolastica e professionale, adducendo un’ ancora incompleta maturità o non competenza, togliendo loro un’enorme possibilità di responsabilizzazione ed emancipazione nel percorso di orientamento scolastico.

Proprio per queste ragioni, un buon percorso di orientamento scolastico o lavorativo, dovrebbe tener presente, laddove necessario, la possibilità di intraprendere azioni orientative anche nei confronti dei genitori dell’orientato.

Questo consentirebbe una doppia azione che faciliterebbe il processo di empowerment e permetterebbe al cliente di utilizzare la rete famigliare come risorsa piuttosto che esserne ostacolato (Cortini, 2008).

 

L’importanza di lavorare con i genitori durante il percorso di orientamento

Secondo Pombeni e D’Angelo (1998), attraverso pochi incontri con la famiglia del cliente, l’orientatore faciliterebbe la comprensione delle caratteristiche del processo di scelta e aprirebbe uno spazio di ragionamento coi genitori che permetterebbe il raggiungimento di tre importanti obiettivi:

  1. Aumentare la conoscenza rispetto alle dinamiche relative alla transizione tra cicli di studio e scelte professionali. In questo modo l’orientatore ha l’obiettivo di aiutare i genitori del cliente a comprendere l’importanza e la delicatezza della fase di vita che sta attraversando il proprio figlio, una fase che lo impegna nella costruzione della propria identità e, a percepire se stessi, come possibili risorse utilizzabili dal figlio per fronteggiare le difficoltà proprie di un percorso di orientamento scolastico o lavorativo.
  2. Il secondo obiettivo è quello di accrescere le informazioni e le indicazioni rispetto agli scenari lavorativi. L’orientatore, infatti, oltre ad avere solide competenze psicologiche è anche un analitico conoscitore del panorama lavorativo e quindi amplierà la gamma di alternative lavorative che si possono considerare, conducendo una approfondita analisi delle diverse opzioni vagliabili.
  3. Terzo obiettivo dell’orientatore sarà quello di invitare i genitori a un coinvolgimento più intenso sul piano dell’esperienza personale nel percorso di orientamento scolastico o lavorativo del figlio. Il terzo obiettivo, infatti, vedrà l’orientatore aprire uno spazio di riflessione più intimo, offrendo ai genitori la possibilità di esplicitare le idee, le attese e le paure che nutrono rispetto alle scelte vocazionali dei figli e a ciò vedono in loro come potenzialità; uno spazio, soprattutto, per raccontare i propri vissuti personali e per riflettere su come questi possano giocare un ruolo nel destino vocazionale dei propri figli.

La funzione protettiva della nostalgia

La nostalgia si configura come un’emozione vicina alla tristezza, che ci porta a ripensare a qualcosa che fu e che non può più essere e mescola insieme l’appagamento per quello che si è vissuto con l’accettazione che si tratta di un tempo trascorso che non tornerà.

 

Nostalgia, dal greco ‘nostos’, ritorno e ‘algos’, dolore. Il dolore del ritorno.

Molto è stato scritto sulla nostalgia, in modo diretto o indirettamente, scrivendo della nostalgia, sulla nostalgia o con la nostalgia nelle parole e nella testa. Essa si configura come un’emozione vicina alla tristezza, che ci porta a ripensare a qualcosa che fu e che non può più essere e mescola insieme l’appagamento per quello che si è vissuto con l’accettazione che si tratta di un tempo trascorso che non tornerà.

 

La funzione della nostalgia come risorsa esistenziale

Se tutte le emozioni ci segnalano qualcosa e in questo senso ci servono, a cosa serve la nostalgia? Oltre ad aver ispirato scrittori, musicisti e poeti (e l’intera Odissea, giusto per dirne una), la nostalgia è stata analizzata come risorsa esistenziale. In particolare, Routledge e colleghi hanno svolto nel 2011 una serie di studi, da cui è nata una pubblicazione che in italiano suonerebbe come ‘Il passato che dà senso al presente: la nostalgia come risorsa esistenziale’.

Dopo una tradizione di ricerca che ha guardato alla nostalgia come fattore maladattivo, per non dire addirittura psicopatologico di per sé, a partire dal 2004 diversi autori hanno svolto studi in cui si è dimostrato come il fatto di perdersi in ricordi nostalgici aumenti il tono dell’umore nel lungo termine, rinforzi l’autostima e rafforzi la sensazione di vicinanza agli altri (Wildschut, Sedikides, Arndt, & Routledge, 2006).

 

L’attribuzione di senso alla vita

E se la nostalgia avesse anche una funzione esistenziale, sì, ma in senso positivo e protettivo? Routledge e colleghi hanno cercato di rispondere a questa domanda e hanno svolto una serie di studi partendo dall’ipotesi che la nostalgia abbia la funzione di sostenere e rinforzare l’attribuzione di senso alla vita. Già in studi precedenti, si era visto che in risposta a stimoli che aumentavano la consapevolezza dell’inevitabilità della morte, le persone che avevano una maggiore tendenza di tratto a sperimentare nostalgia riferivano una maggiore percezione di significato della vita e avevano meno pensieri di morte, rispetto a partecipanti con una minore propensione a essere nostalgici. Inoltre, stimolare sentimenti nostalgici nei partecipanti rendeva meno accessibili i pensieri collegati alla morte (Routledge, Arndt, Sedikides, & Wildschut, 2008).

Da un punto di vista interpersonale, invece, sembra che la nostalgia funzioni come spinta verso la ricerca di un maggiore contatto sociale, e dall’altra parte la maggior parte dei ricordi nostalgici sono ricordi che implicano la compagnia e la condivisione con altre persone (Wildschut et al., 2006).

 

Nostalgia: cosa emerge dagli studi

Gli studi di Routledge e colleghi sono 6 e hanno analizzato nello specifico:

  • In che misura un aumento di nostalgia comporti anche un aumento nella percezione di significato della propria esistenza
  • Quanto la relazione tra nostalgia e senso della vita passi per il contatto interpersonale e il supporto sociale
  • Quanto la nostalgia funzioni come fattore protettivo contro la mancanza di senso, aumentando quindi quando il significato della vita viene minato
  • Infine, se e quanto la nostalgia rafforzi il benessere psicologico e attenui gli effetti negativi delle esperienze stressanti

Nei primi due studi gli autori hanno rilevato che il livello di nostalgia evocato da una canzone scelta dai soggetti era in grado di predire la percezione di senso, attraverso la mediazione dalla quantità di sostegno sociale percepito: in sostanza, il fatto di sperimentare sentimenti nostalgici aumentava la sensazione di essere amati e sostenuti da altre persone per noi significative, il che a sua volta portava con sé la sensazione di vivere una vita sensata.

Nel terzo e nel quarto studio i ricercatori hanno suddiviso i 54 partecipanti in due gruppi: a metà di loro hanno fatto leggere un estratto da un saggio dall’eloquente titolo ‘Il nostro problema esistenziale: solitudine, depressione, ansia e morte‘ che sosteneva fondamentalmente che la vita non ha senso, mentre all’altra metà hanno fatto leggere un brano sui computer. Subito dopo, hanno misurato il livello di nostalgia riferito dai partecipanti. I risultati hanno mostrato come i soggetti nella prima condizione riferissero in livello maggiore sentimenti nostalgici, confermando il ruolo protettivo di questa emozione, che sembra aumentare in situazioni in cui il senso dell’esistenza personale viene minato.

Nel quinto studio i ricercatori hanno rilevato che stimolare sensazioni nostalgiche in persone con una scarsa percezione di senso della vita aumenta il benessere personale. In questo senso, è interessante notare come un’emozione che viene spesso accostata alla tristezza sia in realtà fonte di maggiore benessere per persone che faticano a percepire un senso dell’esistenza più ampio. E già in questo modo, un’importante funzione positiva della nostalgia sembra emergere.

Il sesto e ultimo studio ha esplorato meglio quanto emerso dallo studio precedente, valutando in modo sperimentale in che misura un compito difficoltoso (composto da una parte in cui veniva richiesto di parlare in pubblico e una parte in cui venivano richiesti complicati calcoli matematici) fosse più stressante per soggetti con una bassa percezione di significato della vita e quanto l’impatto stressante del compito fosse moderato dalla nostalgia, vista come fattore protettivo.

I dati hanno confermato che in effetti le persone con una tendenza generale a attribuire poco senso all’esistenza si mostravano più provati dal compito stressante, ma anche che questo surplus di stress veniva eliminato quando ai soggetti veniva richiesto di ricordare un episodio che stimolava nostalgia prima del compito. In un certo senso, i ricordi nostalgici funzionavano come fattore protettivo contro il livello di stress suscitato dal compito, nei soggetti più esposti a questo tipo di stress perché “portatori” di una bassa percezione di significato globale dell’esistenza.

 

Un sentimento da coltivare serenamente

Riassumendo, cosa ci dicono i risultati di questi studi? Innanzi tutto, che la nostalgia è una risorsa in termini psicologici, che aiuta a orientare e sostenere la percezione di un significato più ampio nell’esistenza. Non solo: la nostalgia funziona anche come fattore protettivo contro stimoli che minano il senso della vita, come considerazioni negative esistenziali su ansia, depressione e morte. Infine, sembra disinnescare la pericolosità di questi stimoli rispetto al nostro benessere personale, aiutandoci a mantenere un senso globale con cui orientarci nelle scelte e nelle decisioni.

Quindi, colpo di scena, sembra che il pessimismo cosmico e la nostalgia non solo siano due cose contrapposte, ma addirittura che la seconda curi il male al cuore provocato dal primo.

Imparare a coltivare la nostalgia, allora, può aiutarci a mantenere una linea, una direzionalità nel caos, anche a fronte di momenti di vita potenzialmente stressanti, diventando una modalità di guardare al passato in modo integrativo, mettendo insieme quello che siamo stati e quello che siamo, navigando a vele spiegate verso quello che per noi ha senso essere.

Neanche a dirlo, tutto questo Pessoa l’aveva detto 30 anni fa:

C’è qualcosa di lontano in me, in questo momento. Sto sulla terrazza della mia vita ma non si tratta esattamente di questa vita. Mi trovo sopra la vita e dal mio punto di osservazione la osservo. Essa si estende sotto il mio sguardo, in terrazzi e declivi, come un paesaggio diverso, fino al fumo delle case bianche dei borghi della vallata. Chiudendo gli occhi continuo a vedere, proprio perché non guardo. Se li apro non vedo più niente, perché non vedevo. Mi sento tutto una nostalgia vaga, non del passato o del futuro, ma una nostalgia del presente, anonima, prolissa e incompresa. (Pessoa, 1986).

Il disturbo da stress post traumatico e le informazioni errate fornite dal New York Times

Dai dati raccolti è stato rilevato che quanto viene raccontato dal New York Times, principale testata giornalistica americana, a proposito del disturbo da stress post traumatico è stato spesso incorretto, o quantomeno incompleto.

 

Le informazioni del New York Times sul disturbo da stress post traumatico

[blockquote style=”1″]Il new York Times riflette un’immagine della popolazione affetta da Disturbo da stress post traumatico (PTSD) che non rappresenterebbe la vera situazione epidemiologica del fenomeno.[/blockquote]

Questo è quanto traspare da un’ampia ricerca eseguita alla Drexel’s Dornsife School of Public Health e pubblicata su American Journal of Orthopsychiatry, che ha preso in considerazione tutti gli articoli con riferimenti al disturbo da stress post traumatico pubblicati sul New York Times dal 1980 ad oggi (2015). In totale sono stati presi in esame 871 articoli.

Jonathan Purtle, ricercatore a capo dello studio, afferma: [blockquote style=”1″]I mass media plasmano la consapevolezza dell’opinione pubblica, sulle problematiche riguardanti la salute mentale e come essa dovrebbe essere affrontata, gestita e trattata fornendoci continue e a volte parziali informazioni o suggerimenti a proposito di fattori di rischio, sintomatologie o possibilità di intervento. Inoltre, i media possono anche influenzare gli atteggiamenti della comunità politica o sulle istituzioni preposte, ed incidere sui successivi interventi relativi in materia di salute mentale.[/blockquote]

Dai dati raccolti è stato rilevato che quanto viene raccontato dal New York Times, principale testata giornalistica americana, a proposito del disturbo da stress post traumatico è stato spesso incorretto, o quantomeno incompleto.
Per prima cosa, è da sottolineare come il 50.6% degli articoli hanno preso in considerazione popolazioni di militari o ex militari, trasmettendo l’idea che il disturbo sia maggiormente presente in tale categoria di soggetti. Tuttavia svariate ricerche ci hanno dimostrato che casi di disturbo da stress post traumatico si ritrovino con un’incidenza 13 volte maggiore, nella popolazione civile rispetto a quella militare. Quindi situazioni di trauma a noi più comuni come, casi di violenza sessuale, o violenza di altro genere, incidenti o disastri ambientali hanno un’incidenza maggiore sul fenomeno rispetto ai veterani del Vietnam che manifestano il disturbo.

Tuttavia l’immagine offerta dal New York Times guida l’opinione pubblica a credere esattamente il contrario, ovvero che siano proprio i reduci militari a soffrire principalmente del fenomeno. L’importanza delle informazioni trasmesse dai grandi media la ritroviamo poi nell’influenza che questi esercitano sull’azione politica: dal 1989 al 2009 il 91,4% delle proposte legislative riguardanti il disturbo da stress post traumatico si rivolgevano alla popolazione militare.
In secondo luogo la ricerca si è soffermata sul modo in cui il disturbo da stress post traumatico viene presentato in molti articoli, come viene “incorniciato”.

 

La rappresentazione di chi è affetto da disturbo post traumatico da stress fornita dal New York Times

J.Purtle e i suoi collaboratori hanno trovato che molto spesso vengono raccontate situazioni riguardanti casi giudiziari in cui l’imputato è un soggetto che soffre di PTSD o di persone con PTSD che abusano di sostanze (maggiore incidenza in questo caso nella popolazione militare).
La rappresentazione di queste tematiche negative può creare dei fraintendimenti che portano a credere che le persone affette da disturbo da stress post traumatico siano pericolose e tendono ad essere poi potenzialmente stigmatizzate all’interno della società.

La rappresentazione ristretta limita la consapevolezza del disturbo all’interno della popolazione e limita soprattutto le possibilità di intervento e l’incentivazione dei trattamenti.
Sicuramente, i risultati ci mostrano come la consapevolezza pubblica nei confronti del disturbo da stress post traumatico sia negli anni aumentata; tuttavia c’è bisogno di un allargamento di prospettiva, che includa una più precisa descrizione del disturbo all’interno della società e una maggiore focalizzazione sulle possibilità di guarigione e soprattutto prevenzione sociale.

Io sono vivo, voi siete morti (2016) di Emmanuel Carrère – Recensione

Una biografia “romanzata” di Philip Kindred Dick, autore di fantascienza tra i più affascinati dalla psicologia e tra i più saccheggiati dal cinema (da sue opere sono tratti, tra gli altri, Total Recall, Minority Report e Blade Runner).

 

Nel 1993 Emmanuel Carrère pubblicava in Francia un libro dal titolo ‘Io sono vivo, voi siete morti’, raccontando la vita di uno scrittore di fantascienza, Philip Dick, già allora considerato autore cult. Il libro di Carrère, già a suo tempo tradotto in italiano ma passato abbastanza inosservato, viene ripubblicato quet’anno da Adelphi, dopo che l’autore ha cominciato a riscuotere un notevole successo anche da noi, soprattutto grazie a Limonov, L’avversario e Il regno. Si tratta quindi di una novità apparente, ma non per questo trascurabile, giacché la vecchia edizione, uscita per Theoria nel 1995, oltre ad essere meno felicemente tradotta non è più da tempo disponibile.

Io sono vivo, voi siete morti occupa un posto decisamente singolare nella bibliografia dickiana, già da decenni saturata di saggi critici e presidiata dalla monumentale biografia di Lawrence Sutin, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick (pubblicata in Italia da Fanucci). La forma di Io sono vivo, voi siete morti, in effetti, lo avvicina a un romanzo più che a una biografia. Lo si potrebbe accostare un po’ alle biografie romanzate di Irving Stone, che riscuotevano un successo planetario una quarantina di anni fa; e un po’ all’ultimo libro di Truman Capote A sangue freddo, che rifondeva in una narrazione romanzesca l’accurata indagine sulla vita delle persone coinvolte in un (tragico) episodio di cronaca. Dick diventa dunque a sua volta il personaggio di una storia, le cui fonti sono in parte attendibili, in parte persino dichiaratamente inattendibili (secondo Carrère, per esempio, sarebbe stata totalmente inventata da Thomas Disch la ricostruzione di come funzionasse il Gioco del Ratto, del quale Dick sarebbe stato da ragazzo un eccelso interprete). Il personaggio Dick, tuttavia, riflette anche l’autore Carrère, per il quale le opere dello scrittore americano rappresentarono, dichiaratamente, una lettura decisiva. E Carrère non esita a entrare nei suoi stessi romazi in prima persona, dato che Il regno, dove si dovrebbe raccontare la storia degli esordi del Cristianesimo, si sofferma per oltre cento pagine sulla provvisoria ma fervente conversione di Carrère stesso.

Il gioco di specchi non finisce qui, perché Philip Dick era a sua volta un maestro nel descrivere situazioni simili ai quadri di Escher, nei quali cioè l’ambiente dipinto e l’ambiente dell’osservatore sembrano scambiarsi di posto e le prospettive sono ingannevoli. In L’uomo nell’alto castello (noto anche come La svastica sul sole), Dick racconta un mondo nel quale uno scrittore racconta a sua volta di un mondo alternativo e si serve come fonte di ispirazione dell’I Ching, cioè del Libro dei mutamenti, l’oracolo cinese caro, tra gli altri, a Carl Gustav Jung (che ne scrisse la prefazione consultandolo). Sennonché è anche lo stesso Dick ad aver usato l’I Ching per comporre il proprio romanzo; mentre il mondo alternativo lumeggiato dal suo protagonista non è che la realtà da noi conosciuta (nel romanzo Tedeschi e Giapponesi hanno vinto la Seconda guerra mondiale). In Valis, invece, il protagonista si chiama Phil Dick come l’autore ed ha un alter ego che si chiama Horselover Fat (il nome deriva dall’etimologia greca di phil-ippos, amatore di cavalli e il cognome è la traduzione in inglese dell’aggettivo tedesco dick, cioè grasso).

Il titolo del libro di Carrère, allora, non potrebbe essere una chiave per comprenderne il senso nascosto? Occorre ricordare, tra l’altro, che ‘Io sono vivo, voi siete morti‘ è una battuta tratta dal più enigmatico romanzo di Dick, Ubik, e che Ubik è un’entità definita in decine di modi diversi. Potremmo immaginare che non esista nessuno scrittore francese di nome Emmanuel Carrère e che fosse stato invece Dick a scrivere un’autobiografia da pubblicarsi postuma. D’altronde (come si ricorda esplicitamente in Io sono vivo, voi siete morti) non sarebbe stata la prima volta per Dick di scrivere un romanzo nel quale il protagonista vive le sue stesse esperienze. In Confessioni di un artista di merda al centro della scena sono due coppie: per una i modelli sono Dick stesso e la moglie; per l’altra i vicini di casa. Per rendere il suo Carrère credibile, Dick avrebbe prodotto una serie di romanzi mainstream da pubblicare postumi, prendendosi così anche una clamorosa rivincita su chi lo considerava “solo” uno scrittore di fantascienza. Né mancherebbero indizi anche per questa ipotesi: in Divina invasione, secondo romanzo della trilogia di Valis assistiamo a una reincarnazione di Dio: potrebbe ben trattarsi di un ballon d’essai per Il regno.

Se però uno scrittore chiamato Carrère esistesse veramente, quale potrebbe essere il corretto atteggiamento del recensore di fronte al romanzo su un romanziere? Si potrebbe scrivere una recensione inventando il contenuto del libro. Purtroppo, però, una tale eventualità si verifica fin troppo frequentemente tra chi scrive di libri altrui senza leggerli. Si potrà allora raccontare l’aspetto fondamentale della poetica di Dick che più lo allontana dallo stile narrativo qui impiegato dal suo biografo francese. Carrère, infatti, segue con incredibile levità un percorso esistenziale tortuoso, dal quale emerge prepotente il tema dell’alienazione. I romanzi e i racconti di Dick sono profondamente perturbanti, ansiogeni, claustrofobici. I personaggi dickiani sono spesso disturbati o vivono in mondi che inevitabilmente li spingeranno alla follia o, nel più benigno dei casi, verso una condizione nevrotica. Mentre il vero autore di riferimento per Dick, spesso nominato e spesso evocato dalla sua narrativa, è Carl Gustav Jung, che appassiona lo scrittore americano per la descrizione di un mondo mentale che trascende l’esperienza soggettiva e la suppone derivante da un inconscio collettivo. Questo metterebbe in potenziale comunicazione culture radicalmente differenti come quella cinese e quella occidentale. Tanto differenti da potersi guardare tra loro come se l’una fosse extraterrestre rispetto all’altra.

Ma infine, allora, cosa pensa veramente il vostro recensore del libro che ha tra le mani? Che si tratta di un libro eccezionalmente ben scritto, la cui lettura potrebbe intrigare sia chi non abbia mai letto una riga di Dick (e magari nemmeno intenda aprire un libro di fantascienza); sia chi abbia divorato ogni romanzo e ogni racconto dello scrittore americano. Anzi, forse questi sono esattamente i due lettori ideali. Nel corso di Io sono vivo, voi siete morti, infatti, Carrère descrive minutamente l’atmosfera e i temi principali di diverse opere dickiane. Chi volesse scoprire Dick a partire da Carrère si troverebbe quasi ogni capolavoro già pre-raccontato. A qualcuno, ciò non creerà problemi.

Socialità infantile, movimenti sincronici e comportamenti prosociali nei bambini

Il desiderio più grande dei bambini è quello di avere delle amicizie. Le aggregazioni sociali infantili hanno delle peculiarità ben specifiche, quali il parlare lo stesso idioma, l’età simile, la medesima etnia. Un ruolo fondamentale nella nascita della socialità infantile e dei legami sociali in generale e, quindi, delle azioni prosociali lo rivestono i movimenti sincronici, che si ritrovano all’interno di attività collettive infantili, come lo sport, le attività motorie e le attività ludiche.

 

 

Le caratteristiche della socialità infantile

Il desiderio più grande che i bambini manifestano è quello di avere delle relazioni amicali con i coetanei. Sin dalle prime fasi della sua vita, il piccolo vuol far parte di un gruppo sociale. Le aggregazioni sociali infantili hanno come paradigmi fondanti delle peculiarità specifiche. La ricerca di Kinzler e collaboratori (2010) ha esplicitato queste caratteristiche, che, amalgamandosi, divengono l’identità sociale del gruppo. Esse sono il parlare lo stesso idioma, l’età pressoché simile, la medesima etnia.

Queste tipicità riflettono gli elementi distintivi individuali. In altri termini, il senso di appartenenza al gruppo si sviluppa nella misura in cui tale aggregato è uno specchio di sé. Questo costrutto si sviluppa molto precocemente: infatti, l’infante ha da subito una predilezione per tutto ciò che appare simile a sé.

A questo riguardo, Kelly e collaboratori (2005) hanno evidenziato che un infante di tre mesi ricerca con più facilità il contatto oculare con individui della propria etnia piuttosto che di etnie diverse. Fra i sei e i dodici mesi i piccoli preferiscono ascoltare la voce dei propri coetanei piuttosto che degli adulti (Legerstee e coll., 1996). Inoltre, quando si presentano delle immagini di altri bambini e di adulti, la loro attenzione è calamitata dalle fotografie dei coetanei (Sanefuji e coll., 2006). La preferenza per le persone che parlano l’idioma, che abitualmente ascoltano, è già evidente dal quinto mese di vita. Infatti, secondo Kinzler e collaboratori (2007), i bambini prediligono stare con adulti che utilizzano l’idioma che ascoltano quotidianamente e da essi amano ricevere dei giocattoli, piuttosto che da adulti che si esprimono in un’altra lingua. Successivamente, dai tre anni in poi, comincia la predilezione dei piccoli per i coetanei dello stesso sesso (Shutts e coll., 2010). A cinque anni se si chiede ai minori di scegliere dei compagni di gioco, fra bambini dello stesso sesso, che parlano il medesimo idioma o una lingua differente, essi scelgono piccoli con cui condividono la parlata (Kinzler e coll., 2009).

Il sapere di far parte di un gruppo sociale crea nei bambini delle emozioni positive: la socialità infantile implementa, dunque, le azioni prosociali. D’altra parte, l’appartenenza ad un’aggregazione sociale incrementa, abbastanza precocemente, le idee negative e i pregiudizi nei confronti degli altri gruppi, dei quali l’individuo non fa parte, come messo in evidenza già negli anni Settanta del secolo scorso da Taifel (1970).

Il bambino, quindi, apprende che esistono, nei contesti in cui è inserito, dei gruppi sociali, di alcuni ne fa parte, da altri ne resta escluso.

Molti studi suggeriscono che i preconcetti sociali sono evidenti e tendono a stabilizzarsi già nei bambini di sette anni (Nesdale e coll., 2004).

 

Movimenti sincronici e comportamenti prosociali

Un ruolo fondamentale nella nascita della socialità infantile e dei legami sociali fra bambini lo rivestono i movimenti sincronici, che si ritrovano all’interno di attività collettive, come ad esempio la danza, gli sport, le attività motorie e le attività ludiche.

Questa sincronia riduce i preconcetti sociali e aumenta la cooperazione. La ricerca di Tunçgenç, Cohen e Fawcett (2015) stabilisce, ad esempio, che i bambini, nella fascia di età fra quattro e sei anni, aiutano più facilmente un compagno di giochi se sono impegnati in attività ludiche che prevedono dei movimenti sincronici.

Inoltre, la sincronia cinetica implementa lo sviluppo della socialità infantile e di un’identità gruppale comune, che trascende, per esempio, l’appartenenza dei singoli individui a gruppi sociali differenti (Bailey, 2005).

Uno studio (Tunçgenç e Cohen, 2016), condotto dai ricercatori dell’Università di Oxford e del Wadham College, in Gran Bretagna, si è posto l’obiettivo di indagare gli effetti dei movimenti sincronici, ovvero se essi facilitano i legami sociali fra i membri di un gruppo e, soprattutto, se incentivano la nascita di legami sociali anche fra individui che appartengono a gruppi differenti.

Per indagare questi aspetti è stata fatta una sperimentazione con centodue bambini, di cui cinquantatre bambine, con un’età media di circa otto anni. I ricercatori hanno scelto questa età, perché da otto – nove anni i bambini sono in grado di compiere movimenti sincronici simili a quelli che eseguono gli adulti (Tunçgenç e Cohen, 2016). I partecipanti sono stati selezionati fra gli alunni di una scuola primaria, con uguale status socio – economico (tutti appartenevano alla classe media) e di etnie differenti. Per saggiare gli effetti dei movimenti sincronici è stata utilizzata un’attività ludica, il gioco islandese, che prevede la formazione di due squadre (squadra arancione e verde), costituite ciascuna da tre bambini (due maschi e una femmina o due femmine e un maschio), che si fronteggiano. Tale gioco prevede dei movimenti sincronici all’interno della stessa squadra e fra squadre rivali. Al termine del gioco i piccoli hanno compilato un questionario.

La ricerca ha dimostrato che i movimenti sincronici incrementano la socialità infantile, i legami sociali e, quindi, le azioni prosociali fra bambini sia nell’ambito della stessa squadra che fra squadre rivali.

Cézanne: la sua personalità turbolenta e i pensieri ossessivi

Cézanne aveva un pensiero ossessivo: non voleva essere toccato dagli altri; quando incontrava qualche conoscente gli faceva segno da lontano di non avvicinarlo.

Breve biografia di Paul Cézanne

Paul Cézanne (1839–1906) rappresenta, insieme a Vincent Van Gogh (1853-1890) e a Paul Gauguin (1848-1903), l’anello di congiunzione tra l’arte dell’Ottocento e le Avanguardie del Novecento.

Cézanne nacque in una famiglia molto agiata ed era destinato ad affiancare il padre nella sua attività di banchiere, ma ben presto decise di dedicarsi alla pittura, causando, con questa sua scelta, frequenti liti in famiglia. Aveva un carattere schivo ed introverso ed una personalità contraddittoria: peregrinava continuamente dalla Provenza a Parigi, si avvicinava e, subito dopo, si allontanava dagli impressionisti: la sua aderenza al movimento, infatti, fu sempre molto distaccata.

La sua personalità turbolenta

Aveva difficoltà ad instaurare sane relazioni umane e, alla fine, scelse la solitudine. Era insieme timido ed ansioso e, con l’avanzare dell’età, il suo carattere si fece sempre più suscettibile e diffidente.
In un celebre saggio intitolato “Le doute de Cézanne” Maurice Merleau-Ponty ha evidenziato gli aspetti contraddittori della personalità dell’artista francese, scrivendo:
[blockquote style=”1″]Aveva bisogno di cento sedute di lavoro per una natura morta, di centocinquanta pose per un ritratto. Quella che noi chiamiamo una sua opera, per lui non era che un abbozzo, un tentativo di pittura. Nel 1906, all’età di 67 anni, un mese prima di morire ha scritto: ‘Mi trovo in un tale stato di turbamento mentale, in un turbamento tanto grande che temo a volte che la mia debole ragione non regga…adesso mi pare che vada meglio; vedo più giusto nell’orientamento dei miei studi. Arriverò un giorno allo scopo tanto cercato e così a lungo inseguito? Studio sempre la natura dal vivo e mi pare di fare qualche lento progresso’. La pittura era tutto il suo mondo, la sua sola maniera di esistere.[/blockquote]

I pensieri ossessivi di Cézanne

Cézanne aveva un pensiero ossessivo: non voleva essere toccato dagli altri; quando incontrava qualche conoscente gli faceva segno da lontano di non avvicinarlo. Ordinò anche alla sua domestica di non toccarlo e di cercare di camminargli a debita distanza. Preoccupò spesso amici e conoscenti con le sue collere e le sue depressioni. Con l’avanzare dell’età i tratti della sua personalità divennero sempre più patologici: era angosciato ed il suo fastidio nell’essere toccato da estranei divenne pensiero ossessivo.

E pensiero ossessivo divenne anche monte Sainte-Victoire: Cézanne aveva sempre dipinto volentieri il paesaggio della sua Provenza, ma nell’ultimo periodo di vita ritrasse il monte Sainte-Victoire in maniera quasi ossessiva, gli dedicò circa cinquanta opere, tra il 1896 ed il 1906.
Il suo carattere chiuso con tendenze paranoiche lo portò ad un quasi totale isolamento: celebri sono le sue sfuriate con l’amico Zola e con Manet, al quale ebbe a dire: [blockquote style=”1″]non le stringo la mano, signor Manet, perché sono due settimane che non la lavo.[/blockquote]

Negli ultimi vent’anni di vita si dedicò totalmente alla pittura e pian piano si staccò da tutti, anche dalla moglie da cui si separò definitivamente nel 1895.
Si rinchiuse sempre più in se stesso, alla ricerca di sempre nuove sperimentazioni formali: immerso nella natura e lontano dal frastuono dell’umanità, Cézanne riuscì a tramutare l’arte in una vera e propria ricerca filosofica dell’essenza profonda delle cose.
Ormai in età avanzata, l’artista si chiedeva se tutta la sua pittura non derivasse da un disordine dei suoi occhi. I suoi contemporanei, oltre che gli storici successivi, si chiesero piuttosto se non ci fosse stato alla base qualche squilibrio mentale.

Maurice Merleau-Ponty ipotizzò che Cézanne fosse schizoide:
[blockquote style=”1″]La perdita dei contatti tranquilli con gli uomini, l’impotenza a padroneggiare le situazioni nuove, la fuga nelle abitudini, in un ambiente che non ponga problemi, la rigida opposizione fra teoria e pratica, fra ‘zampe’ e libertà solitaria, tutti questi sintomi consentono di parlare di una costituzione morbosa e, in particolare, di schizoidia.[/blockquote] (Maurice Merleau-Ponty, 1948).

La schizoidia è una forma di psicopatia per cui l’individuo che ne soffre tende ad isolarsi dall’ambiente in cui vive; lo schizoide perde il contatto vitale con la realtà o manifesta una scissione per quanto attiene ai rapporti con l’ambiente e con se stesso, dunque Cézanne soffrì, probabilmente, di schizoidia.

Conclusioni

Cézanne era un artista che dipingeva lentamente, ogni sua pennellata era il frutto di un’attenta analisi delle cose e delle forme che esistono in natura; fece un lungo cammino in solitudine durante il quale sperimentò un linguaggio nuovo che aprì la strada alle avanguardie del post impressionismo. E durante questo cammino, accompagnato da ossessioni e schizoidia, cominciò ad intendere la pittura come mezzo di indagine per penetrare la struttura delle cose; intuì che c’era un altro modo di dipingere e riuscì a trasferire sulla bidimensionalità della tela la tridimensionalità della realtà.

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