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Il divano è meglio di Freud di Gianfranco Buffardi (2016) – Recensione

Il libro “Il divano è meglio di Freud” è una riflessione acculturata e stimolante del dott. Gianfranco Buffardi sui fattori aspecifici presenti nelle relazioni d’aiuto. La sua lettura scorre fluida tra colti spunti e ironici accenni.

Introduzione

L’esposizione degli argomenti, a volte, prende spunto dalle sequenze scritte e illustrate da Charles Monroe Schulz. Charlie Brown, Rita Van Pelt e altri personaggi dei Peanuts, con i loro sagaci dialoghi, sono i nostri compagni di viaggio. Inoltre, le considerazioni tecniche sono spesso accompagnate da colti rimandi, mai scontati e sovente brillanti, e aneddoti personali di esperienza clinica (citando Jaspers: “esistenze per altre esistenze”). Sia il clinico esperto che un educatore, senza altisonanti qualifiche professionali, potrà trarre utili informazioni e validi accorgimenti per il suo lavoro quotidiano.

Il valore terapeutico dei fattori aspecifici delle relazioni d’aiuto

Con chiarezza e tocchi d’umorismo l’autore attinge alla sua esperienza clinica e formazione teorica (neoesistenziale) per proporre un testo che non si assurge a saggio o a manuale ma, come lui stesso lo definisce, a una “sorta di resoconto ragionato”. Lo scrittore ha voluto aggiungere, svincolandosi da posizionamenti teorici e metodologici, quelli che per lui sono i fattori comuni o aspecifici delle relazioni d’aiuto. Invece di enucleare le componenti divergenti tra i diversi modelli teorico-pratici, ha evidenziato gli elementi delle metodologie, del setting e dell’approccio relazionale che non sono legati ad un modello psicologico di riferimento, ma che possono ritrovarsi in gran parte delle pratiche operative consolidate, avvalorate da un potenziale terapeutico e di cura.

Ergo, il testo vuole presentare un insieme di fattori aspecifici che in psicoterapia e nelle professioni d’aiuto in generale svolgono un ruolo significativo e di efficacia all’interno della relazione terapeutica (intesa come ogni relazione “educativa”). Secondo l’autore hanno un ruolo importantissimo per il risultato finale della terapia, a volte anche più importante dei fattori specifici. Invero, ritiene che i suddetti fattori siano eticamente più validi di quelli specifici del modello utilizzato dal singolo professionista teoricamente orientato. Inoltre, riconosce a queste componenti aspecifiche un intrinseco contenuto terapeutico, presente nella maggior parte delle professioni d’aiuto e che necessitino di una formazione mirata e particolareggiata per essere adeguatamente acquisite.

Nella presentazione del suo lavoro, per prima cosa, l’autore chiarisce, a livello epistemologico, il senso delle parole dei temi basilari che fungeranno da cardine concettuale alle sue esposizioni argomentative.

Descrive così il suo modello di riferimento (esistenziale), chi sono i suoi maggiori esponenti e quali sono i principi teorici (sceglie i più integrabili e universalizzabili). Introduce, in seguito, il concetto di epigenesi, di aiuto, di cambiamento e di meta-apprendimento; approfondisce il tema dell’aiuto, lo sviluppo storico delle professioni d’aiuto; puntualizza sul concetto di terapia, cura e di determinismo dei modelli terapeutici.

La critica al determinismo assoluto in psicologia

Una delle considerazioni che maggiormente ho apprezzato e trovato arricchente è stata la critica al determinismo assoluto.
Nello specifico, adducendo al principio di Indeterminazione di Heisenberg del 1927 e al teorema di Incompletezza di Gödel del 1930-31 (così come similmente evidenziato dallo stesso Zichichi in “Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo”) l’autore riflette sul concetto di impossibilità di raggiungere una conoscenza totale di tutti gli elementi presenti in un sistema e di tutte le componenti in esso interagenti. Non vi è dunque la possibilità di annoverare e afferrare tutti gli elementi concorrenti alla piena comprensione di un sistema, sia questo di matrice psicologica, matematica o fisica. Anche nelle scienze cosiddette “precise” come la matematica, la fisica e la chimica è impossibile comprendere tutti i fattori in gioco. Questa considerazione può essere traslata nel campo della psicologia e della comprensione dei suoi costituenti, molto meno “precisi”, dei loro similari matematici o fisici.

Ritengo utile tale affermazione non solo riguardo al valore intrinseco di una corretta disamina su chi ha realmente il trattamento migliore in un confronto metodologico tra i differenti approcci psicoterapeutici, ma anche a livello di relazione terapeutica, tra consulente e consultante, durante la discussione empatica circa la tendenza alla generalizzazione che il primo effettua tramite le sue credenze disfunzionali o rappresentazioni disturbanti, spesso fonte di dolore e problematicità psicologica. Dibattere con il paziente sulla reale indeterminazione di molti elementi alla base delle nostre personali considerazioni potrebbe aiutare a rendere meno dogmatiche e irremovibili le disfunzionali convinzioni che spesso il cliente propone nel setting psicoterapeutico.

Quali sono i fattori aspecifici della terapia?

Nel quarto capitolo il libro entra nel vivo e l’autore puntualizza che il termine “aspecifico” indica gli elementi che sono “assolutamente specifici” del rapporto di consultazione. Gli riconosce un valore “nobile” e importante poiché definisce ed eleva la qualità del rapporto tra due persone e le situa in un contesto relazionale esclusivo e originale.
Dopo aver delucidato i termini e il campo teorico su cui si muove la sua riflessione, l’autore divide i fattori aspecifici in: legati al consultante (colui che chiede aiuto), legati al terapeuta (consulente), specifici del setting (regole d’incontro) e del rapporto terapeutico (interattivo).
Il suo scopo è quello di individuare il loro potenziale terapeutico e di cura.

Per quanto concerne il primo gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consultante), partendo dal concetto di singolo come risultato dell’interazione tra le proprie caratteristiche genetiche, gli accadimenti e gli aiuti alla crescita di cui ha usufruito, lo scrittore li divide in: consapevolizzazione di necessitare d’aiuto; scelta; organizzazione della richiesta; narrazione e organizzazione mentale di ciò che deve narrare; disponibilità all’empatia.

Per quanto attende il secondo il gruppo di fattori (fattori aspecifici legati al consulente), lo psichiatra campano tiene a sottolineare che la creazione dell’alleanza terapeutica, strumento ormai considerato un must del rapporto terapeutico efficace, sia per la maggior parte compito del consulente e che i seguenti fattori siano attori importanti di un adeguato rapporto di consulenza: competenza clinica; autenticità, accettazione ed empatia; ricerca di sintonia; atteggiamento complementare/simmetrico.

In riferimento ai fattori aspecifici del setting, Buffardi reputa ogni elemento al suo interno non privo di significato. Include molte componenti e ci fa intendere che la sua comprensione dovrebbe essere poliedrica e particolarmente attenta ai seguenti fattori: qualità del setting; implementazione del campo affermativo; implementazione del senso di riconoscibilità e di “appartenenza”.

Infine, i fattori aspecifici del rapporto terapeutico sono considerati come molto frequenti e non sempre pienamente evidenti alla coscienza. La focalizzazione, la cognitivizzazione, la costruzione di una scala di valori, la sofferenza vissuta, l’ampliamento delle mappe interne e il cambiamento della visione del mondo sono i fattori presentati in questa sezione. Questo è il capitolo che ho trovato più interessante, probabilmente poiché ho trovato riflessioni teorico-pratiche davvero integrate e super-partes.

Il libro si conclude con due capitoli che puntano a completare la “quadratura del cerchio”, riguardo il tema proposto, introducendo le componenti aspecifiche comuni delle principali psicoterapie e i parametri per l’acquisizione di un’adeguata capacità di aiuto, di formazione personale e di etica professionale.
Considero questi due ultimi capitoli non meno importanti degli altri, anzi, qui si evince ancora meglio la competenza e la vasta esperienza dell’autore. Sono avanzati notevoli nozioni che possono sapientemente fungere da base concettuale per una valida e corretta professionalità nel campo delle relazioni d’aiuto.

Conclusioni

Nel complesso, il libro, con le sue 144 pagine, introduce, illustra e propone la lucida analisi personale di un clinico esperto e capace di esporre con erudizione e funzionalità quelli che sono i fattori aspecifici che svolgono quotidianamente un ruolo nella nostra pratica clinica. Comprenderli e tenerli presenti durante la terapia potrà sicuramente facilitare il nostro ruolo e rendere più agevolare il superamento del disagio psicologico.

Il sorriso della Monna Lisa: emblema della relazione di Leonardo con il suo primitivo oggetto d’amore?

Quello della Gioconda è senza dubbio uno dei ritratti più celebri al mondo: il sorriso della Monna Lisa ha affascinato gli storici e gli appassionati d’arte e ha fatto versare fiumi d’inchiostro.

 

 

La donna ritratta da Leonardo da Vinci (1452-1519) è stata da molti identificata con Monna Lisa Gherardini: idea, questa, già sostenuta dal Vasari, che, nelle ‘Vite’ scrisse:

Prese Leonardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie; et quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo . . . Et in questo di Leonardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, Et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.

Per altri, dietro le aggraziate vesti femminili ci sarebbe un allievo-amante di Leonardo che si fece ritrarre con abiti femminili; per altri ancora si tratterebbe di un lavoro commissionato da Giuliano de’ Medici per immortalare la sua amante, la nobildonna Pacifica Brandani.

Della Gioconda è stato analizzato tutto: volto, abiti, sfondo, ma ciò che colpisce maggiormente di questa opera meravigliosa è il sorriso della Monna Lisa, impercettibile ed enigmatico, a metà tra il celato e l’evidente, che varia a seconda dei punti di osservazione e che incarna l’essenza dell’attimo in divenire, ovvero dei sentimenti dell’uomo in continuo mutamento.

A mio avviso il sorriso della Monna Lisa non è espressione di gioia, sentimento transitorio, quanto piuttosto espressione di quella tranquilla serenità tipica di chi domina con la ragione e tipica anche dello stesso Leonardo.

 

 

Cosa nasconde il sorriso della Monna Lisa? L’analisi di Freud

Sulla personalità e sul genio del Maestro da Vinci sono state spese milioni di parole; di lui scrisse anche il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), che cercò di delineare la figura ed il carattere dell’artista, partendo da un sogno che il da Vinci accenna nei suoi manoscritti:

ne la mia prima ricordazione della mia infanzia è mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocca colla sua coda, e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra (Codice Atlantico C-61r).

Nell’ottobre del 1909, Sigmund Freud, appena rientrato dall’America, scrisse a Carl Jung:

Da quando sono tornato ho avuto un’idea.  Il mistero del carattere di Leonardo mi è divenuto improvvisamente trasparente.

Freud costruì una psico-biografia dell’artista vinciano partendo dal sogno del nibbio e ricordando che Leonardo era figlio illegittimo del notaio Pietro da Vinci e di una contadina di nome Caterina, quindi era figlio ‘di sola madre’, ‘figlio dell’avvoltoio’.  Da fonti storiche si apprende, infatti, che Leonardo trascorse i primi anni d’infanzia esclusivamente con la madre e che poi andò a vivere con il padre e con la giovane moglie di quest’ultimo, Donna Albiera, che, non potendo avere un figlio suo, adottò quello del marito. La separazione dalla madre Caterina, che morì quando Leonardo aveva cinque anni, segnò profondamente la sua personalità.

Con la fantasia dell’avvoltoio Leonardo rievocò la sua condizione di figlio privo del padre ed il suo rapporto, molto intenso, con la madre.

Freud descrisse il Maestro da Vinci come un insaziabile ed affamato ricercatore, sempre ‘profondamente alla cerca della forma perfetta’.  Questa sua continua tendenza a ricercare la perfezione lo portò a non essere mai pienamente soddisfatto delle proprie opere e a ritenerle sempre incomplete: ciò accadde anche con la Gioconda, opera sulla quale lavorò per quattro anni senza tuttavia portarla a definitivo compimento e per questo mai consegnata al committente.

Quando iniziò a lavorare al ritratto della Gioconda, Leonardo aveva ormai una cinquantina d’anni e nel volto e nel sorriso della Monna Lisa probabilmente ritrovò il suo primitivo oggetto d’amore, ovvero la madre. Da quel momento in poi quel sorriso si ripeterà su tanti volti dipinti da Leonardo, in particolare in ‘Sant’Anna, la Vergine, il Bambino, l’Agnello‘, dove lo sguardo ed il sorriso di Sant’Anna, chiaramente leonardeschi, rimandano senza dubbio a quelli più celebri della Gioconda. Il sorriso di Sant’Anna è inequivocabilmente lo stesso sorriso della Monna Lisa, anche se, forse, è meno enigmatico e più benevolente. Il dipinto è molto significativo da un punto di vista psicoanalitico: la Vergine e sua madre Anna, infatti, sembrano coetanee e dunque il Bambino sembra avere due madri, esattamente come due madri ebbe Leonardo (la madre naturale Caterina e la matrigna Albiera).

I sorrisi leonardeschi, verosimilmente, rimandano a quelli della giovane e tenera ragazza madre di nome Caterina. Lo stesso paesaggio ritratto alle spalle della Gioconda rimanda all’infanzia di Leonardo: troviamo infatti rappresentato un affluente dell’Arno che nasce proprio dalle montagne di Vinci: una sorta di ricollocazione della madre nel luogo della sua prima infanzia felice ed una sintesi della storia dei suoi primi anni di vita.

Nel corso degli anni il Maestro aggiunse e rifinì continuamente i dettagli della Gioconda, quasi fosse alla ricerca della perfezione, come se avesse scelto Monna Lisa per esprimere i suoi stati d’animo più profondi e la sua personalità, soprattutto nei suoi aspetti più inconsci ed irrazionali: nascosta tra le forme del celebre dipinto, l’avvoltoio-madre continua a compiere l’atto di quell’antica fantasia di Leonardo.

Nuovi sviluppi nella ricerca sulla sclerosi multipla

Nel presente articolo viene presentata la recente scoperta sul gene NR1H3 della sclerosi multipla effettuata da un team di ricercatori dell’università della British Columbia di Vancouver, in Canada e pubblicata sulla rivista Neuron, che aprirebbe la strada alla comprensione di una probabile causa genetica di questa malattia neurodegenerativa.

La sclerosi multipla e la nuova scoperta

La sclerosi multipla (SM) è: [blockquote style=”1″]an inflammatory disease characterized by myelin loss and neuronal dysfunction[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016), quindi si verifica un impedimento nel corretto flusso di informazioni tra il cervello e il corpo. In particolare, questa scoperta è cruciale [blockquote style=”1″]per la comprensione della sclerosi multipla. Si conosce poco dei processi biologici che innescano la malattia e questa scoperta ha un enorme potenziale per lo sviluppo di nuovi trattamenti, mirati alle cause della malattia e non solo ai suoi sintomi[/blockquote] ha così commentato il ricercatore che ha guidato lo studio, Carles Vilariño-Güell.

L’importanza di questa scoperta risiede nel fatto che per la prima volta è stata individuata una mutazione genetica che può essere collegata allo sviluppo della sclerosi multipla.
Nello specifico, la mutazione individuata è a carico del già nominato, gene NR1H3 che è la causa della perdita della proteina LXRA, la quale ha il compito di controllare i livelli con cui i diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi, si esprimono nei processi infiammatori e in quelli immunitari. In altri termini, questa proteina funge come: [blockquote style=”1″]un interruttore on-off su altri geni capaci di bloccare l’eccessiva infiammazione che danneggia la mielina o in grado di riparare il danno formando altra mielina [/blockquote](Montebelli M. R., 2016), spiega il Direttore delle Ricerche sulla malattia di Alzheimer presso la UBC, Weihong Song.

La ricerca

I ricercatori canadesi hanno utilizzato una grande banca dati, la Canadian Collaborative Project on Genetic Susceptibility, contenente materiale genetico di oltre 2.000 famiglie canadesi (Montebelli M. R., 2016).

Lo studio ha previsto l’analisi di [blockquote style=”1″]seven MS patients from two multi-incident families presenting severe and progressive disease, with an average age at onset of 34 years[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016).

Da queste analisi è stato dunque rilevato che la mutazione ha conseguenze sulle funzioni biologiche in quanto una proteina difettosa, la descritta LXRA, può sviluppare forme di sclerosi multipla.
È stato rilevato come, la mutazione riguardante il gene NR1H3 sembri aumentare il rischio di sviluppare una sclerosi multipla primaria progressiva nei soggetti che sono stati esaminati.

Il Direttore della MS Society of Canada Research presso la UBC e della Coastal Health’s MS and Neuromyelitis Optica Clinic di Vancouver, afferma infatti che: [blockquote style=”1″]se sei portatore di questo gene […] ci sono molte possibilità di sviluppare una forma di sclerosi multipla a rapida evoluzione. Individuare la presenza di questo gene ci dà una finestra di opportunità precoce e critica per mettere in campo tutte le nostre forze per cercare di bloccare lo sviluppo della malattia. Cosa che finora non potevamo fare[/blockquote] (Montebelli M. R., 2016).

Per concludere: [blockquote style=”1″]Our study indicates that pharmacological activation of LXRA or its targets may lead to effective treatments for the highly debilitating and currently untreatable progressive phase of MS[/blockquote] (Wang Z., Sadovnick AD., Traboulsee AL., Ross JP, Bernales CQ, Encarnacion M., Yee IM., de Lemos M., Greenwood T., Lee JD., Wright G., Ross CJ., Zhang S., Song W., Vilariño-Guell C., 2016).

It follows: il lato oscuro del diventare adulti (2014) di David R. Mitchell – Recensione

It follows sembra una favola horror, che, con il tema classico della donna in pericolo e una trama apparentemente semplice, parla di cose che semplici non sono per niente, contrapponendo gli opposti che altro non sono che i due lati della medaglia: la vita e la morte.

 

ATTENZIONE SPOILER !! – Quartiere residenziale americano. Detroit. Al giorno d’oggi, più meno. Villette a schiera, un viale alberato, un tranquillo scorcio di periferia al tramonto.

Una ragazza. Giovane, bella e terrorizzata. Fugge facendo risuonare i tacchi alti sul selciato. Si guarda alle spalle, si blocca. Ma non c’è niente, assolutamente niente. Tanto che il padre la chiama, da dentro la casa, chiedendole che succede, con toni di perplessità nella voce. E lei, con la voce spezzata dalla paura, risponde che va tutto bene. Rientra in casa, poi riesce, e mette in moto la macchina a gran velocità. Si ferma su una spiaggia (nel frattempo è calato il buio). Piangente, seduta davanti al mare, telefona al padre per dirgli che gli vuole bene. Il mattino seguente giace morta sulla spiaggia.

Un’altra ragazza, Jay, anche lei giovane e bella, esce con Hugh, un ragazzo che le piace. Vanno al cinema. Ingannano l’attesa prima della proiezione del film giocando al ‘se fosse‘. Se tu potessi essere qualcuno tra queste persone chi vorresti essere?

Lui le indica, in mezzo agli altri spettatori, una ragazza vestita di giallo. Ma Jay quella ragazza non la vede: crede che lui stia scherzando. Invece, lui diventa nervoso e le chiede di andare via, perché non si sente bene. Lasciano precipitosamente il cinema e vanno a cena fuori. E tutto sembra andare di nuovo per il meglio. Tanto che il giorno dopo escono di nuovo e, a fine serata, fanno sesso in macchina.

E dopo, mentre lei parla sognante del tempo che passa e di quanto, da piccola, non vedesse l’ora di diventare grande, di essere mano nella mano con un bel ragazzo, lui improvvisamente la aggredisce: vuole addormentarla con del cloroformio. E Jay si risveglia legata ad una sedia. Ma Hugh dice che non vuole farle del male, ma metterla in guardia: attraverso il rapporto sessuale lui le ha tramesso una cosa. Una malattia? No. Un follower. Un qualcosa che la seguirà ovunque, assumendo varie forme. Uno sconosciuto tra la folla. Oppure una persona conosciuta e familiare, ma solo nell’aspetto. Il follower la seguirà, lentamente, inesorabilmente, quando meno se l’aspetta, comparendo dal nulla. E, se la prende, la ucciderà. Gli altri non lo vedono. Solo lei e le persone, se ancora sono vive, che ne sono state contagiate prima di lei.

Perché un modo per liberarsene c’è, apparentemente l’unico: fare sesso con qualcun altro; così il follower comincerà ad interessarsi alla nuova preda. Ma, se riuscirà ad ucciderla, tornerà a quella precedente. Ecco perché Hugh ci tiene particolarmente che Jay segua le istruzioni e rimanga in vita il più a lungo possibile.

Così, proprio mentre una donna comparsa dal nulla e dall’aspetto un tantino sinistro comincia a camminare inesorabilmente verso di loro, Il ragazzo carica Jay in macchina e la riporta a casa, dove ci sono ad attenderla, la sorella Kelly e gli amici di sempre, Paul e Yara. Sarà vero o sono solo i deliri di uno psicopatico? Nei giorni seguenti, in effetti, la cosa inizia a seguire Jay, dovunque si trovi.

– FINE SPOILER –

It Follows (2014) Trailer:

https://www.youtube.com/watch?v=f92P688jx9U

Questa, a grandi linee, la trama di questo horror atipico; poco sangue, molta tensione. Basterebbe già solo la colonna sonora di Disasterpiece, devo dire.

Colpisce, l’acqua che torna sempre, da quella del mare, a quella del lago, a quella della piscina, l’acqua che è un altro protagonista del film.

Il bello delle opere d’arte è che si prestano a varie chiavi di lettura, più o meno vicine alle intenzioni originarie dell’ autore; ognuno ci mette del suo.

It follows sembra una favola horror, che, con il tema classico della donna in pericolo e una trama apparentemente semplice, parla di cose che semplici non sono per niente, contrapponendo gli opposti che altro non sono che i due lati della medaglia: la vita e la morte, con la sua inevitabilità, lenta e inesorabile, come il follower che, lentamente, ma inesorabilmente, segue il suo obiettivo… ‘E’ lenta ma non stupida!‘ dice Hugh a Jay.

E poi  l’amore e il sesso, la fiducia e la paura, il crescere e lasciare il passato alle spalle, il senso di responsabilità, i legami familiari, i rapporti con gli amici, l’attrazione e la repulsione, la solitudine, l’apparenza e la realtà, il pericolo e la sicurezza, ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto, chi siamo, chi vorremmo essere, chi sono gli altri e chi crediamo che siano…e chi più ne ha, più ne metta.

Il tutto declinato nel momento della vita in cui ci si lascia alle spalle l’adolescenza e ci si affaccia alla prima età adulta. I teenager di questo film sono veri nelle loro fragilità e sembrano tanto soli: gli adulti non ci sono, non si vedono se non in fotografia. Non è a loro che si chiede aiuto, non ci crederebbero e, comunque, anche se presenti, fanno parte di un mondo parallelo.

La chiave di lettura della malattia sessualmente trasmissibile è riduttiva; del resto, si contrae la maledizione facendo sesso, ma, allo stesso modo, così ce ne si libera. Piuttosto, c’è un senso come di persecuzione, qualcosa che fa breccia nell’apparente normalità del quotidiano, e che sconvolge tutto…niente sarà più come prima. Non ti puoi sottrarre. E c’è una responsabilità che nessuno vuole prendersi. Nessuno sa da dove è partito tutto questo. L’unica cosa che conta è sbarazzarsene quanto prima, scaricando il problema su qualcun altro. Ma tanto poi torna. Sempre. Ti segue. Sempre. Anche se dici che non ci credi.

Ha le forme più varie, perché, forse, prende per ognuno la forma che più lo riguarda. E parla delle paure più profonde di ciascuno, quelle dalle quali non si scappa mai. E, forse, non è un caso che si risvegli con il risveglio del desiderio, perché la paura e il desiderio sono sempre legati.

Parto con ipnosi Ericksoniana: l’inconscio al servizio di mamma e bambino

Le donne che affrontano il parto con ipnosi sperimentano intensità di dolore ridotte, richiedono dosaggi inferiori di anestetici a beneficio del nuovo nato, necessitano meno frequentemente di stimolazione artificiale del travaglio tramite ossitocina.

 

L’applicazione dell’ipnosi e dell’autoipnosi in preparazione al parto è forse uno degli ambiti più studiati.

Le donne che affrontano il parto con il supporto di tecniche ipnotiche sperimentano intensità di dolore ridotte, richiedono dosaggi inferiori di anestetici a beneficio del nuovo nato, necessitano meno frequentemente di stimolazione artificiale del travaglio tramite ossitocina e danno alla luce bambini con più alti punteggi APGAR (indice di salute del neonato) (Cyna, Andrew e McAuliffe, 2006; Vande Vusse et al., 2007; Brown e Hammond, 2007; Landolt  e Milling, 2011).

L’ipnosi e l’autoipnosi sono efficaci nella riduzione dei tempi del travaglio soprattutto nelle donne primipare (Landolt e Milling, 2011, Jenkins e Pritchard, 1993) e diminuiscono l’incidenza della depressione post-partum (Guse, Wissing e Hartman, 2006).

Infine, l’ipnosi è facilmente integrabile con altri percorsi strutturati di preparazione al parto (Harmon, Hynan & Tire, 1990) e può essere efficacemente utilizzata in tutte le fasi della gravidanza poiché si tratta di metodiche totalmente prive di effetti collaterali. Ad esempio, l’ipnosi può contribuire a controllare le nausee, stabilizzare la pressione e gestire ansia.

 

 

Cosa significa preparare il parto con ipnosi?

Innanzitutto occorre precisare che esistono numerosi approcci diversi all’ipnosi e in questo articolo tratteremo essenzialmente l’ipnosi Ericksoniana.

L’ipnosi Ericksoniana lavora attivando e valorizzando le risorse di ciascuna persona e per questo è ritenuto l’approccio più efficace quando si lavora in un’ottica di benessere (Walters e Havens, 1994). Nei percorsi di preparazione al parto si cerca, infatti, il benessere della donna e del bambino, non solo dal punto fisico, ma anche psicologico ed emozionale (Guse, Wissing e Hartman, 2006).

Oltre ad apprendere la gestione del dolore, attraverso le tecniche ipnotiche e il parto con ipnosi le future mamme posso approfondire le modalità di ascolto di sé e del bambino, per meglio comprendere le proprie emozioni, aspetto fondamentale nel delicato periodo post partum.

La relazione con il bambino si instaura già durante la gravidanza e tale relazione si definisce attaccamento madre-feto o attaccamento prenatale (Cranley, 1981; Cannella 2005). Si tratta di un concetto relativamente nuovo e per certi aspetti ancora poco studiato (Salisbury et al., 2003). In concreto, l’attaccamento prenatale si traduce in tutti quei comportamenti di cura fisica (alimentazione, esercizio fisico, astensione da alcool e fumo) e sintonizzazione emotiva (parlare al feto, accarezzare la pancia, prestare attenzione ai movimenti, immaginarne il volto, preparazione del nido). Una buona relazione prenatale favorisce la qualità della relazione madre bambino dopo il parto (Siddiqui e Hägglöf, 2000).

Anche i padri possono essere coinvolti nel percorsi di preparazione del parto con ipnosi Ericksoniana. Infatti, maggiore è il coinvolgimento dei padri nella fase prenatale, migliore è supporto sia durante il parto, sia nelle settimane immediatamente successive che riescono a fornire, favorendo un migliore clima emotivo sia per la madre, sia per il bambino e contribuendo a prevenire la depressione post-partum.

Rendendo vivida l’interazione con il piccolo in grembo e strutturando un equilibrio emotivo più armonico per la donna e per la coppia, l’ipnosi Ericksoniana favorisce il benessere del bambino e dei genitori che si preparano ad accoglierlo (Hohmann-Marriott, 2009).

Creature di un Giorno (2015) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

In Creature di un giorno, Irvin Yalom tramite le storie di diversi personaggi-pazienti, affronta alcuni tra i principali temi esistenziali come la finitezza della vita, il timore per la vecchiaia, la perdita delle persone amate, il desiderio di vivere una vita piena di significato.

 

Irvin D. Yalom, autore di Creature di un giorno, è uno psichiatra, psicoterapeuta, professore emerito della Stanford University e scrittore. Tra le sue opere, alcuni romanzi che affrontano temi esistenziali, filosofici e di interesse psicoterapeutico. Ad esempio il protagonista del suo noto libro ‘La cura Schopenauer’, è uno psichiatra a cui viene fatta una diagnosi di un tumore maligno.  Le riflessioni e i timori del medico, derivanti dalla scoperta della grave malattia, si snodano attraverso le storie dei partecipanti ai gruppi di psicoterapia che egli segue.

Su State of Mind abbiamo recensito di Irvin Yalom i seguenti libri: Sul lettino di Freud, Le lacrime di Nietzche, Guarire d’amore (NdR).

Anche in Creature di un giorno, Yalom tramite le storie di diversi personaggi-pazienti, affronta alcuni tra  i principali temi esistenziali come la finitezza della vita, il timore per la vecchiaia, la perdita delle persone amate, il desiderio di vivere una vita piena di significato.

E’ interessante notare il taglio del libro perché l’autore nel raccontare i protagonisti di ogni capitolo svela parte del suo dialogo interno e quindi, inevitabilmente, parla anche di sé e di come i temi dei pazienti vadano di volta in volta a sollecitarlo.

Il primo capitolo ‘La cura contorta’ inizia con una mail che Yalom riceve da un collega scrittore che presenta un blocco creativo. Il giorno dell’appuntamento quando vede arrivare il paziente si sorprende perché si aspettava uno scrittore di mezza età mentre si presenta un signore molto anziano, che Yalom si affretta subito ad aiutare togliendogli la borsa di mano e guidandolo fino alla sedia con uno scambio di battute:

P: ‘Grazieee, grazieee, giovanotto. E mi dica, lei quanti anni ha?’

Y: ‘Ottanta’ risposi

P: ‘Ahhh, avere ancora ottant’anni!’

Y: ‘E lei? Quanti ne ha? ‘

P: ‘Ottantaquattro. Si, esatto ottantaquattro. So di averla stupita. Molti sono convinti che ne abbia poco più di trenta’.

Nelle storie presentate il tema dell’età emerge di frequente, anche per il modo con cui i pazienti si pongono nei confronti di Yalom in considerazione della sua età e perché egli stesso esplicita come alcuni temi gli sono molto familiari a causa della fase della vita in cui si trova.

E non è un caso che vengano trattati questi argomenti perché un obiettivo dell’autore è proprio quello di portare all’attenzione dei lettori l’importanza dei temi esistenziali che, pur essendo fonte di notevoli problemi nella vita delle persone, vengono talvolta trascurati in quanto non rientrano nelle categorie diagnostiche tradizionali.

Spero anche che queste storie aumenteranno la consapevolezza dei terapeuti riguardo ai temi esistenziali. In queste dieci storie vedo i miei pazienti come persone che soffrono di malattie che sfuggono alle categorie tradizionali

A riguardo Yalom fa spesso riferimento ai limiti di un approccio centrato sulla necessità di fare diagnosi, in quanto rischia di annullare e di far perdere di vista l’unicità di ciascun paziente; per il modello applicato (che definisce umanistico e olistico) la cosa più importante che possa fare un terapeuta è offrire al paziente una relazione che risulti autentica e risanatrice. A questo proposito egli fa notare come la varietà delle storie presentate in Creature di un giorno abbia richiesto un ventaglio di interventi personalizzati e come ogni paziente abbia tratto vantaggio dalla terapia in un modo tutto personale e talvolta inaspettato.

E finanche nelle situazioni che appaiono disperate la persona può trovare la forza per affrontarle purché accada qualcosa che riesca a far leva sulle sue stesse risorse. A questo proposito può essere esemplificativo (anche se non scaturito in modo diretto dalla terapia) il caso di Astrid, protagonista del capitolo ‘Tiri fuori un po’ di classe per i suoi figli’, che racconta come in un momento di grande disperazione per una grave malattia che l’affliggeva, fosse accaduto qualcosa che all’improvviso le aveva permesso di riprendersi. Infatti, mentre in ospedale – aspettando che arrivasse la sua famiglia a trovarla – si disperava senza riuscire a smettere di piangere un’infermiera le disse: ‘Tiri fuori un po’ di classe per i suoi figli’.

La paziente spiega a Yalom che, anche se non sa come, queste parole hanno avuto l’effetto di scuoterla e di portarla a pensare a qualcun altro oltre a se stessa; dopo giorni di disperazione in cui era totalmente sopraffatta dalla paura di morire, quelle parole le avevano permesso di vedere che poteva ancora fare qualcosa per la sua famiglia, che poteva diventare un esempio per loro.

Tempo dopo, anche l’infermiera in questione si rivolgerà a Yalom, avendone sentito parlare da Astrid, e in quell’occasione emergerà che le parole dell’infermiera non erano state pronunciate come incoraggiamento ma piuttosto con rabbia e invidia per l’interesse e l’affetto con cui la famiglia della ricoverata circondava quest’ultima (l’infermiera viveva invece una situazione familiare difficile). Ma, come accade spesso anche in terapia, l’effetto di un intervento più che alle intenzioni del curante è dovuto al modo con cui lo recepisce il paziente; cioè al significato che quest’ultimo attribuisce alle parole e agli eventi, in riferimento ai suoi temi personali che vengono sollecitati.

Creature di un giorno è il titolo anche del decimo capitolo e racconta di Jarod, un medico trentaduenne appassionato di filosofia dai tempi del college, che lo aveva scelto come terapeuta proprio dopo aver letto alcuni dei suoi romanzi a tema filosofico. Nel corso delle sedute, il paziente, preoccupato che Yalom mantenesse un’immagine positiva di lui, aveva omesso di raccontare che oltre alla relazione affettiva di cui stava parlando in terapia, da breve tempo frequentava anche un’altra donna; si sentiva in colpa per il suo comportamento tanto più che la compagna era malata e temeva, quindi, che comunicando quanto stava accadendo avrebbe dato una immagine negativa di sé.

Yalom per far mettere a fuoco al paziente il peso che attribuisce all’opinione che il terapeuta ha di lui, anche a scapito della terapia stessa visto che aveva evitato di riferire delle difficoltà che stava vivendo nella vita affettiva, gli propone di leggere insieme alcuni brani dei ‘Pensieri’ di Marco Aurelio tra cui:

Siamo tutti creature di un giorno; colui che ricorda e colui che è ricordato. Tutto è effimero, tanto il ricordo che l’oggetto del ricordo…

Inoltre a fine seduta gli chiede di riflettere sul possibile collegamento tra la sua difficoltà a prendere decisioni e il bisogno che l’altro si formi e mantenga un’immagine positiva di lui.

Nei giorni successivi Jarod, grazie anche alla lettura dei ‘Pensieri’ a cui si dedica, riesce effettivamente a comprendere meglio alcuni aspetti di sé. Spiega, quindi, nel colloquio seguente, il suo proposito di parlare con le due donne per comunicargli che non si sente pronto per una relazione seria con nessuna e che si è reso conto di dover fare prima un lavoro importante su se stesso; comprende, inoltre, di voler apportare delle modifiche alla carriera professionale intrapresa perché non sente sia frutto di una vera scelta.

Interessante osservare come i modi per far cogliere al paziente il significato delle difficoltà che avverte  possano essere molteplici. In questo caso, l’interesse del paziente per la filosofia viene utilizzato per avviare una riflessione su alcuni passaggi dei ‘Pensieri’ volta a far cogliere come la stima di se stessi e la capacità di autovalutazione dovrebbero essere principalmente il frutto di processi di giudizio interni e non ricavati dall’immagine che rimanda l’altro.

Ho citato solo alcuni protagonisti del libro ma ci sono anche Charles, Natasha, Alvin, Rich, Justine, Sally, Ellie, Helena e Andrews.

Nei casi presentati si può osservare come Yalom cerchi di guidare il paziente a comprendere il motivo autentico del sintomo. Infatti, l’attenzione posta ai temi esistenziali è anche finalizzata a non farsi ‘ingannare’ dalla spiegazione iniziale fornita dal paziente, la quale, in genere, è legata soprattutto alla manifestazione ‘di superficie’ del problema.

Infine, nella postfazione l’autore spiega l’importanza che attribuisce alla relazione tra il terapeuta e il paziente:

In questi racconti spero di far capire come il focalizzarsi sul qui ed ora possa essere usato con il massimo vantaggio. Non mi stanco di richiamare l’attenzione sul legame con il paziente: faccio controlli del processo in corso; mi informo ripetutamente sullo stato del nostro incontro nel corso della seduta; chiedo al paziente se ha delle domande da rivolgermi; cerco notizie sulla nostra relazione nei sogni. In breve, non manco mai di dare la massima priorità allo sviluppo di un legame onesto, trasparente, proficuo tra noi.

Creature di un giorno, come altre pubblicazioni dell’autore, può risultare interessante per i terapeuti di diversa formazione per almeno due motivi:  perché presenta una modalità di lavoro che fa riferimento non solo a un modello di psicoterapia ma piuttosto a un atteggiamento aperto e creativo del professionista e quindi trasversale ai diversi orientamenti.

In ogni caso ho concepito, o a volte ho trovato per caso, un approccio diverso per ciascun paziente, che non si può consultare in un manuale di terapia.

L’altro motivo è rappresentato dallo stile personale dell’autore che, forse anche grazie alla sua esperienza clinica di oltre cinquanta anni, negli episodi che racconta non si limita a illustrare la storia del paziente e alcuni passaggi terapeutici ma riporta anche le sue riflessioni, descrive e commenta la relazione terapeutica, le problematiche che incontra con le peculiarità della persona in cura. Inoltre nel descrivere le sue considerazioni sull’andamento della terapia, in particolare nei passaggi incerti, non nasconde la sua preoccupazione di avere commesso degli errori e la conseguente valutazione circa il modo di modificare l’intervento.

P.A.T.H. (planning alternative tomorrows with hope): come e perché utilizzare strumenti di sviluppo personale nei percorsi di ripresa per persone con diagnosi psichiatrica

Negli ultimi decenni, nel panorama letterario, scientifico, e dei servizi di salute mentale, sono emersi nuovi approcci che promuovono forme di guarigione sociale, clinica e personale in casi di diagnosi psichiatrica.

OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

 

Il primo studioso a teorizzare diverse sfaccettature dei processi di ripresa fu Anthony che nel 1993, scrisse sul Recovery:

 Un processo profondo e unico di cambiamento delle attitudini, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e ruoli. Sentirsi realizzati vivendo una vita soddisfacente, piena di speranza nonostante le limitazioni causate dalla malattia. Recovery comporta lo sviluppo di nuovi significati e apprendimenti nella vita di una persona che cresce e si sviluppa oltre gli effetti catastrofici della condizione patologica

Insieme al paradigma del Recovery ne sono emersi altri ad esempio: ‘Whole Life, Whole person, Whole System’, ‘Open Dialogue’ e persino ‘Tojisha Kenkyu‘ in Giappone. Essi hanno lo scopo di promuovere un cambiamento di cultura sulla malattia mentale, ridurre lo stigma interno ed esterno associato alla condizione patologica e favorire possibilità di guarigione anche in condizioni considerate croniche come nei casi di schizofrenia.

Tali approcci riguardano non solo una metodologia, ma anche l’assetto dei servizi e delle organizzazioni che promuovono salute mentale come ad esempio nel caso dell’Open Dialogue che in Finlandia dell’Ovest è l’unico approccio utilizzato con pazienti con diagnosi psichiatrica (Seikkula et al. 2009).

In comune questi approcci, fortemente attuali oggi, hanno alcuni elementi che riguardano un maggior focus sul problema anziché sulla diagnosi psichiatrica, sui valori anziché sulle tecniche, sull’intervento immediato e sul coinvolgimento della rete sin dalle prime fasi della crisi, sulla (ri)costruzione di una rete sociale supportiva forte, sulla considerazione della realtà vissuta dal soggetto come tale anziché sulla patologizzazione dei comportamenti, sulla esplorazione di possibilità di miglioramento piuttosto che l’implementazione di modelli prestabiliti di trattamento (soprattutto farmacologico o socio-riabilitativo).

 

 

I limiti del paradigma medico nei casi di diagnosi psichiatrica

Sebbene nel paradigma Bio-Psico-Sociale (i.e. Waltzer, 1982) siano considerati diversi fattori all’origine del disturbo, spesso, di fatto, gli interventi si concretizzano in cura centrata sul riassetto degli squilibri chimici a livello celebrale, e quindi sull’aspetto biologico, tanto che ad oggi il farmaco rimane il rimedio considerato come fondamentale nella maggioranza dei casi di diagnosi di schizofrenia.

Negli ultimi anni, si sono sempre più fatte strada visoni diverse che mettono in discussione il paradigma medico tradizionale discostandosi da ogni forma di riduzionismo, incluso quello biologico. Questa riflessione è supportata dalla diffusione e dalla forte considerazione che ha riscontrato il libro ‘Indagine su una Epidemia’ scritto dal giornalista americano Robert Whitaker, il quale fornisce una argomentazione scientifica, basata sulla raccolta di dati longitudinali di grandi popolazioni in merito agli effetti a lungo termine dell’utilizzo degli psicofarmaci. La domanda dalla quale egli parte è quanto gli psicofarmaci abbiano influenzato il decorso a lungo termine dei disturbi mentali negli ultimi decenni, e quanto siano aumentate le probabilità che le persone con diagnosi psichiatrica in cura farmacologica abbiano una prognosi maggiormente favorevole considerando l’evoluzione della scienza e della farmacologia. Sulla base dei dati raccolti, il giornalista suggerisce maggiore cautela nell’utilizzo di psicofarmaci, sopratutto neurolettici.  Riprendendo le parole di Peter Tyrer.

E’ arrivato il momento di riconsiderare il principio secondo cui gli antipsicotici debbano essere sempre la prima scelta nel trattamento delle persone con un episodio psicotico. Non si tratta di un urlo selvaggio dalla foresta, ma di un’opinione presa in considerazione da importanti ricercatori …. Ci sono evidenze scientifiche sempre più convincenti che ci dicono che, se consideriamo gli effetti avversi degli antipsicotici, il gioco  – per esprimerci in modo semplice – non vale la candela.

Peter Tyrer, Editor – British Journal of Psychiatry, August 2012

 

Dunque, la tematica di re-definizione personale, in particolare dall’essere malato cronico all’essere attore di un percorso di ripresa, si posiziona al centro dell’approccio attuale. Le parole riabilitazione e cura, così strettamente legate a quelle di cronicità e malattia mentale possono lasciare maggior spazio a quelle di ripresa e diversità. In questa prospettiva, ciascuno può fare un percorso di consapevolezza riguardante i propri limiti o le proprie potenzialità che gli permetta di raggiungere le proprie aspirazioni.

 

 

Diagnosi psichiatrica: oltre il paradigma medico

I significati che vengono attribuiti all’esperienza di vita e alle narrazioni personali assumono una importanza particolare nel confermare la malattia oppure nel supportare il percorso verso il benessere e la ripresa, di cui la persona è protagonista. L’obiettivo è dunque quello di contribuire a risolvere problematiche personali, sociali o relazionali che possono aver prodotto una diminuzione del benessere mentale, in modo tale che la persona possa tornare (o iniziare) a ricoprire un ruolo sociale significativo, potendo contare su un sistema di supporto sociale efficace. La collaborazione tende a incoraggiare la riscoperta di un senso positivo di sé, l’accettazione non rassegnata della realtà nei suoi aspetti più disagevoli e problematici nonché l’attribuzione di senso alle proprie esperienze, anche quelle negative.

Date queste premesse, le implicazioni dal punto di vista degli interventi e delle politiche dei servizi di salute mentale sui pazienti, inclusi quelli con diagnosi di schizofrenia, sono chiare: da un lato si limita l’impatto sfavorevole di diagnosi sui soggetti, dall’altro si cerca di diminuire lo stigma legato all’esperienza di udire le voci o avere altre percezioni considerate inusuali favorendone la ripresa dagli aspetti che causano disagio. Da un lato si diversificano i tipi di intervento e possibilità rivolte alle persone con diagnosi psichiatrica, dall’altro si cercano strumenti innovativi che possano favorire la comprensione delle possibilità, in una dialettica paritetica in cui la persona con esperienza diretta possa essere accompagnata nell’attraversare le difficoltà connesse al disagio.

E’ proprio per rispondere a questa esigenza che si ricercano strumenti di pianificazione centrati sulla persona con diagnosi psichiatrica, che permettano quindi di collaborare intorno a degli obiettivi come definiti dal soggetto e dalle sue narrazioni. Essi, non necessariamente riguardano la riduzione della disabilità connessa alla malattia, la prevenzione delle ricadute e delle ospedalizzazioni, l’ aderenza alla terapia farmacologica, la gestione dei sintomi connessi alla malattia etc. ma piuttosto, le aspirazioni, il rafforzamento di una identità positiva, e altri aspetti che riguardano la persona nel suo complesso, e la sua intera vita.

 

 

Il P.A.T.H. :  Planning Alternative Tomorrows With Hope

Il P.A.T.H. ben si inserisce in questo panorama, rappresentando uno strumento che si addice alla collaborazione paritetica tra il soggetto e figure di riferimento (es. amici, operatori di riferimento, clinici e familiari) allo scopo di  costruire, mediare e negoziare significati e possibilità. P.A.T.H. è un acronimo che significa Planning Alternative Tomorrows With Hope (trad. Pianificare un Futuro Alternativo con Speranza).

 

P.A.T.H. (planning alternative tomorrows with hope) come e perché utilizzare strumenti di sviluppo personale nei percorsi di ripresa di persone con diagnosi psichiatrica
Esempio di P.A.T.H.

 

E’ uno strumento di pianificazione personale potente, creativo, basato sul disegno; è orientato all’azione, è personale ed incentrato sullo sviluppo di narrative. Si tratta di uno strumento che accompagna delle fasi di cambiamento all’interno di un processo sociale, processo che non avviene in solitudine, ma all’interno di un circolo di supporto.

Non è uno strumento che viene utilizzato sulla persona, non è una valutazione o un test, ma la modalità di compilazione avviene secondo il principio della co-produzione e quindi assume direzioni e caratteristiche diverse in funzione di chi lo disegna.

E’ stato creato da Marsha Forest, John O’Brien e Jack Pearpoint, nel 1991 e può essere usato come strumento di pianificazione per ogni transizione di persone o gruppi. Inizialmente è stato usato all’interno di scuole, con ragazzi pre-adolescenti, ma anche in teams, distretti, scuole e aziende. Si parte dai sogni per focalizzare meglio degli obiettivi realizzabili, la rete di supporto, i punti di forza e un piano d’azione. Ecco alcune domande che rappresentano dei punti fondamentali per la costruzione del piano:

  1. Quali sono le parole chiave o immagini che rappresentano i tuoi sogni?
  2. Quali obiettivi ci potremmo dare in un anno di tempo?
  3. Tornando al presente, guardando alla tua situazione in modo più oggettivo possibile, come la descriveresti?
  4. Quali persone vorresti coinvolgere nel tuo percorso?
  5. Per muoversi verso i tuoi obiettivi, servono energie e forze, ci saranno difficoltà da superare e problemi da risolvere, cosa ti serve per rimanere sulla rotta del tuo percorso?
  6. Rifletti sui tuoi obiettivi e pensa ai prossimi 3 (o 6 ) mesi, dovrebbe essere un tempo sufficiente per intraprendere azioni verso il loro raggiungimento, quali azioni avrai intrapreso?
  7. Il primo passo: identifica la prima azione, quali persone possono supportarti e come aggirare possibili difficoltà

 

 

Disturbi alimentari: la famiglia bulimica – Magrezza non è bellezza nr. 22

L’attitudine della bulimica a separarsi velocemente dal nucleo familiare è probabilmente non solo una forma di fuga da una famiglia bulimica disfunzionale, ma anche una forma di conflitto più profondo che tende a portarle alla separazione dai genitori.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La famiglia bulimica (Nr. 22)

 

Sulle famiglie dei pazienti bulimici sono stati prodotti un gran numero di studi e osservazioni (Fairburn, Cooper, 1982; Johnson   et al. , 1982; Kent, Clopton, 1988; Pyle et al. , 1986). Il primo dato emerso è il peso corporeo, che è maggiore tra i familiari di questi pazienti rispetto ai soggetti di controllo (Garfinkel et al. , 1980; Herzog, 1982; Strober, 1981). Poiché la tendenza a ingrassare è influenzata da fattori genetici, la disregolazione alimentare si manifesta principalmente in famiglie predisposte a un aumento ponderale.

È anche vero, però, che i bambini con problemi alimentari possono imitare i modelli genitoriali, e alcune famiglie  sovrappeso potrebbero incoraggiare l’alimentazione, utilizzando il cibo come mezzo per manipolare e gestire le difficoltà emotive.

 

La famiglia bulimica: come le pazienti percepiscono i genitori

Solitamente le bulimiche si pongono obiettivi irrealistici di perdita di peso, esercitando sullo stesso un controllo patologico  (Fairburn, Cooper, 1982; Pyle et al. , 1981; Russell, 1979): alcuni studi hanno evidenziato che i pazienti bulimici percepiscono i  propri genitori (soprattutto i padri) come più controllanti (Pole   et al. , 1988; Rorty et al. , 2000), mentre gruppi di anoressiche hanno prodotto un modello misto di risultati (Castro, 2000) assimilabili maggiormente al controllo e all’iperprotezione (Murray et al. , 2000).

Un genitore invadente e controllante crea una vulnerabilità alla psicopatologia attraverso lo sviluppo di un orientamento perfezionista (Enns et al. , 2000; Soenens et al. , 2005), e in effetti alcune indagini hanno evidenziato che il controllo paterno ha degli effetti maggiori sull’alimentazione rispetto a quello materno, questo non significa comunque che la genitorialità materna non  sia coinvolta: il controllo materno potrebbe essere indirettamente connesso ad atteggiamenti disattivi dei pazienti che li portano a  sviluppare perfezionismo patologico.

Questa scoperta suggerisce che un’autovalutazione negativa riguardante l’orientamento perfezionista potrebbe essere la forza trainante nello sviluppo psicopatologico di un disturbo alimentare (Shafran et al. , 2002); e infatti, le eccessive colpevolizzazioni esercitate dai genitori sono legate a un abbassamento dell’autostima dell’adolescente che porta, conseguentemente, a innalzare i propri standard personali  (Soenens et al. , 2005).

 

Caratteristiche della famiglia bulimica

Nella famiglia bulimica, le pazienti sono più dipendenti rispetto alle altre donne nei confronti del padre e della madre, verso cui si manifesta una relazione conflittuale. Le bulimiche hanno una tendenza a mostrare una maggiore propensione alla separazione dai padri rispetto alle anoressiche, per problemi di adattamento (Hoffman, 1984; Rice   et al. , 1990). L’attitudine della bulimica a separarsi velocemente dal nucleo familiare è probabilmente non solo una forma di fuga da una famiglia bulimica disfunzionale, ma anche una forma di conflitto più profondo che tende a portarle alla separazione dai genitori  (Grotevant, Cooper, 1985; Lapsley et al. , 1989).

I padri delle bulimiche vengono descritti spesso come distanti emotivamente: questo dato potrebbe riguardare il ruolo svolto dai padri nella famiglia bulimica, piuttosto che una caratteristica della personalità. In ogni caso, le pazienti bulimiche dichiarano di non trascorrere molto tempo con il padre, come invece fanno le adolescenti normali. Si è anche osservato che durante l’infanzia, i padri sono stati vicino alle figlie, ma hanno assunto un atteggiamento sempre più distante durante l’adolescenza (Podolnick, 1987).

Sono stati prodotti inoltre diversi studi sul ruolo delle famiglie divorziate nella genesi della bulimia (Igoin-Apfelbaum, 1985; Herzog, 1982; Johnson, Flach, 1985). I figli di genitori divorziati mostrano una maggiore disregolazione emotiva, se considerati nella loro interezza psichica (Slater, Haber, 1984; Enos, Handal,  1986). Se centrati sulla fisicità, sono risultati maggiormente esposti a sviluppare bulimia.  La relazione coniugale dei genitori dei bulimici è stata descritta come emotivamente povera. Queste famiglie sviluppano una serie di difficoltà anche da un punto di vista sessuale. Diversi soggetti bulimici hanno riferito che i genitori dormivano in letti o camere separate; in alcuni casi è emersa una totale ripugnanza del padre nei confronti della madre.

La disarmonia coniugale dei genitori sembrerebbe una caratteristica significativa della famiglia bulimica. Tuttavia, nonostante la scarsa qualità della relazione coniugale, le bulimiche non denunciano violenze tra  i genitori. Solitamente tendono a riferire la poca empatia e la scarsa attenzione dei genitori nei loro confronti, fino a sentirsi delle sconosciute per entrambi (Bruch, 1970). I genitori di soggetti bulimici non sono in grado o non vogliono manifestare i sentimenti, per questo non riescono a esprimere un sostegno emotivo. In genere, le bulimiche avrebbero desiderato un dialogo maggiore con i genitori su qualsiasi argomento, ma riferiscono di non averne avuto molto.

Da osservare, infine, che nella famiglia bulimica è presente un atteggiamento repressivo verso gli argomenti che hanno a che fare con la sfera della sessualità  (Sights, Richards, 1984).

L’eziologia della bulimia è chiaramente multifattoriale. Tuttavia, considerate nel loro insieme, le informazioni sopra riportate rivelano fattori familiari che possono contribuire allo  sviluppo del disturbo psichico (Dolan et al., 1989). Mangiare rappresenta sicuramente una necessità biologica, ma il cibo è anche nutrimento psicologico e cura. Il rifiuto del cibo può simboleggiare da parte del bambino/a una mancanza di accettazione delle cure prestategli, mentre l’eccesso di cibo può essere considerato un sostitutivo delle cure e delle attenzioni di cui ha bisogno. L’abuso di cibo sembra quindi determinato dal desiderio di anestetizzare sentimenti di dolore, vergogna e disgusto  (Menzies, 1970).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Conflitto lavoro-famiglia: un equilibrio difficile da realizzare

Oggi più che mai siamo tenuti ad interrogarci sul modo in cui la sfera lavorativa e quella familiare si influenzano a vicenda. Viviamo in un’epoca in cui il mercato del lavoro richiede costantemente flessibilità, mobilità e capacità di assumersi dei rischi. In che modo il soddisfacimento di queste richieste impatta sulla realtà familiare? E, al contrario, come la sfera familiare può facilitare o ostacolare la carriera del lavoratore?

 

Le teorie sulla relazione tra famiglia e lavoro

Molte teorie hanno cercato di fornire una risposta a questi interrogativi e Zedeck e Mosier (1990), nell’articolo Work in the Family and Employing Organization, ne hanno trattate alcune. Una delle ipotesi più accreditate è la teoria del travaso ed essa ritiene che tutto ciò che avviene in uno dei due ambiti finisca inevitabilmente per influenzare l’altro. Di conseguenza, ad esempio, se il lavoratore è felice a lavoro tenderà probabilmente ad essere felice anche a casa, mentre se la situazione lavorativa non è ottimale anche quella familiare potrebbe peggiorare. Questa assoluta assenza di confini potrebbe determinare una diffusione dello stress lavorativo anche in ambito familiare (e viceversa), incrementando ulteriormente la portata delle difficoltà incontrate.

La teoria della compensazione postula, invece, un “bilanciamento” dei bisogni frustrati in un’area con le soddisfazioni acquisite nell’altro ruolo. In questo senso una persona molto dedita al lavoro che trascura la propria vita personale per quella professionale molto probabilmente otterrà, in quest’ultima area, delle gratificazioni che bilanceranno le frustrazioni familiari.

La teoria della segmentazione ritiene invece, in modo piuttosto irrealistico, che l’individuo sia in grado di compartimentalizzare completamente le proprie esperienze nei due ambiti e che non ci sia alcuna relazione tra queste: secondo questa teoria ciò che accade in famiglia non ha nessun impatto sulla vita professionale del lavoratore, e viceversa.

In quarto luogo l’approccio strumentale considera ciò che accade in relazione ad un ruolo come un mezzo che può essere utilizzato per acquisire beni utili per l’altro ruolo. In questo senso il denaro guadagnato con il proprio ruolo professionale può contribuire alla realizzazione familiare, ad esempio mediante l’acquisto di una casa.

In conclusione Zedeck e Mosier citano la teoria del conflitto, la quale ritiene che ognuna delle due aree pone inevitabilmente delle richieste ed il soddisfacimento di tali richieste in uno dei due ambiti può richiedere molti sacrifici nell’altro ambito. In molte di queste teorie risalta la possibilità che ci siano forti correlazioni tra il ruolo lavorativo e quello familiare, sia in senso positivo, attraverso lo sviluppo di risorse, sia negativamente, tramite la produzione di problematiche più o meno gestibili.

 

I problemi familiari che possono influenzare la vita professionale

Morrison e Deacon (1993) hanno rilevato principalmente quattro problemi familiari che possono influenzare la vita professionale:
– Perdita del sostegno familiare, associata a scarsa energia da impiegare in ambito lavorativo, aggressività, depressione e difficoltà relazionali;
– Interferenza delle necessità familiari sul lavoro, correlata a burnout e minore impegno nello sviluppo delle proprie potenzialità;
– Frustrazione dei bisogni familiari con conseguente utilizzo del lavoro per il soddisfacimento degli stessi, legata a problemi d’autostima e sensi di colpa;
– Motivazione eterodiretta al lavoro, in cui le necessità familiari hanno la piena priorità rispetto a quelle professionali, e sarebbe associata a cattivi rapporti con i colleghi di lavoro e spreco di potenziale.

 

Le variabili delle due sfere da considerare

Cortini e Manuti (2008) ricordano come diverse evidenze empiriche hanno mostrato che ci sono numerose variabili in grado di mediare le due sfere di vita, come il numero dei figli, la presenza e l’aiuto offerto dai nonni, la presenza, nel nucleo familiare, di persone con disabilità, le caratteristiche personali del lavoratore e del partner, oltre che del luogo di lavoro (orari, contratto, stipendio) e del clima organizzativo che pervade tale luogo. Inoltre avrebbero un ruolo fondamentale anche le capacità di coping del lavoratore e del partner, ovvero quelle capacità d’adattamento che consentono di affrontare le situazioni stressanti.

 

Conclusioni

In conclusione si può affermare che i due ambiti appaiono più legati di quanto si pensi e che sarebbe necessario lavorare sullo sviluppo di condizioni che rendano tale coesistenza maggiormente vantaggiosa, ad esempio mediante l’incremento ed il miglioramento dei servizi all’infanzia, il quale aiuterebbe le donne nella loro realizzazione professionale, oppure attraverso un maggior coinvolgimento del sistema familiare nell’attività lavorativa della persona in modo tale da offrire ai familiari una migliore comprensione della situazione del lavoratore e, dunque, un maggiore sostegno.

Recovery e sistemi di salute mentale. Quali strade possibili?

Recovery è il principio del 21 secolo raccomandato in linee guida cliniche e professionali nonché focus esplicito nelle politiche internazionali sulla salute mentale

Roberta Casadio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

 

Recovery è il principio del 21 secolo raccomandato in linee guida cliniche e professionali nonché focus esplicito nelle politiche internazionali sulla salute mentale (Slade, Adams & O’Hagan, 2012). Nel 2005, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha organizzato a Helsinki una Conferenza Europea che rappresenta il primo tentativo, dopo la storica dichiarazione di Caracas del 1986, di trasferire ai governi responsabilità ben definite: a fine lavori i Ministri della Salute di cinquantadue Paesi europei hanno approvato all’unanimità un Documento che racchiude le priorità stabilite in merito.

Secondo quanto scritto nell’accordo, politiche e pratiche di salute mentale dovrebbero essere focalizzate a promuovere il benessere, contrastare la discriminazione e l’emarginazione sociale, prevenire, fornire servizi efficaci e adeguati, favorire il reinserimento in società delle persone che sperimentano seri disturbi.

…la salute mentale ed il benessere mentale sono fondamentali per la qualità della vita e la produttività degli individui, delle famiglie, delle comunità e delle nazioni. Conferiscono un senso alla nostra esistenza permettendoci di essere cittadini creativi e attivi. (..) Essendo la salute mentale una componente centrale del capitale umano, sociale ed economico delle nazioni, questa deve quindi essere considerata come parte integrante essenziale di altri campi della politica pubblica, quali i diritti dell’uomo, l’assistenza sociale, l’educazione e l’occupazione

Dichiarazione di Helsinki, 2005

La Dichiarazione pone quindi la salute mentale al centro del potenziale umano, sociale ed economico delle diverse nazioni ed esorta gli Stati a considerarla come parte integrante delle proprie politiche sociali.

 

 

Favorire percorsi di recovery: dalla malattia alla persona

L’invito è pertanto a riflettere sulla (ri)organizzazione e struttura dei Servizi di salute mentale dato che ancora oggi, in molti Paesi dell’Europa, la gran parte dei fondi destinati alla psichiatria vengono investiti per ospedalizzare o segregare in istituzioni chiuse.  Al contrario, è più che mai necessaria a tal proposito la promozione di azioni intersettoriali, attraverso partnership tra i servizi psichiatrici, quelli socio-sanitari ed altre agenzie, ponendo al centro la risposta ai bisogni complessivi dell’individuo e della sua rete prefigurando così scenari di welfare comunitario (Mezzina, 2016).

Quindi, se da un lato è necessario promuovere servizi di salute mentale in aree territoriali e servizi comunitari, dall’altro l’attenzione deve essere spostata dalla malattia in sé alla totalità della persona nonché alla sua rete di appartenenza e ai gruppi sociali di riferimento per favorire percorsi di ripresa e recovery.

Il compito diventa quello di promuovere la cittadinanza per le fasce più svantaggiate e vulnerabili della popolazione, innalzando la loro qualità di vita, favorendo la loro autonomia ed emancipazione anche dalla dipendenza dai servizi, in modo che il concreto esercizio dei diritti accresca complessivamente le loro possibilità e capacità di scelta e di azione (Dell’Acqua, 2014). E’ oggi chiaro che quando si parla di ripresa (e.g. Recovery) non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso che è volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).

 

 

Recovery: gli interrogativi ancora aperti

Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).  Oggi è disponibile un ampia letteratura in merito a questo e accanto alle preziose testimonianze di persone che hanno fatto percorsi positivi di ripresa dal disagio mentale (Romme & Escher, 2009), la ricerca sta validando dal punto di vista scientifico di cosa si tratti quando si parla di recovery. A questo proposito, sono disponibili reviews sistematiche (Doughty & Tse, 2005; Leamy et al., 2011), studi randomizzati e controllati, (Barbic et al., 2009; Greenfield et al., 2008) e linee guida (Davidson et al., 2009).

L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non contaminano. A tal proposito, emergono alcune questioni ancora non risolte:

  • Può essere il sistema di cure compatibile con le aspettative sociopolitiche che esso gestisca appieno il rischio e provveda al controllo sociale?
  • Cosa ancora deve cambiare affinché i sistemi di salute mentale possano maggiormente supportare i processi di ripresa?
  • Si possono sviluppare servizi orientati al recovery quando lo stigma e la discriminazione sono così alti nei confronti del disagio mentale nella nostra società?
  • In pratica, come può avvenire il passaggio da servizi centrati sulla crisi e al controllo ad un maggiore sbilanciamento verso l’offerta di una più ampia gamma di possibilità offerte, risorse e opportunità che facilitino i processi di ripresa, autonomia e benessere?
  • Può la forza lavoro esistente cambiare pensiero nei confronti del disagio e assorbire nuove competenze focalizzando i concetti di agency, empowerment, recovery, anziché quelli di deficit, disfunzione, sintomatologia e rischio?

Dopo aver stimolato una riflessione sui temi appena citati, è di dovere citare delle realtà orientate al recovery che sono affermate nel panorama italiano ed europeo. Alcuni esempi ne sono la ‘Soteria House‘ in Gran Bretagna, ‘Recovery Houses’ in Italia, il ‘Recovery College’ nei Paesi Bassi, le ‘Recovery Learning Communities’ in Massachusset per citare alcuni esempi.

Alcune di queste realtà sono parte integrante dei servizi di salute mentale pubblici offerti ai cittadini, altre rappresentano realtà nate da iniziative legate al terzo settore e che rappresentano un’alternativa al sistema di cure tradizionale. E’ necessario considerare tuttavia, come la loro efficacia e i valori che le ispirino, raggiungano la loro massima espressione quando si intrecciano ed entrano in una dialettica costruttiva con l’Istituzione che porti al cambiamento e alla reciproca contaminazione.

Teneramente folle. Il rapporto complicato tra un padre con disturbo bipolare e le figlie (2014) – Cinema & Psicologia

Il film Teneramente folle (2014) di Maya Forbes è la versione romanzata della biografia della regista stessa. Maya e sua sorella China, infatti, hanno vissuto per un periodo sole con il padre affetto da disturbo bipolare, mentre la madre si trovava per studio a New York.

Introduzione

Negli anni sono stati prodotti, sia in Italia che all’estero, diversi film che hanno affrontato il tema del disturbo bipolare, ma questo ha la particolarità di incentrarsi su come la malattia incida e influenzi il rapporto tra il paziente e le sue figlie. Cosa significa per i bambini vivere con un genitore affetto da un disturbo mentale? Come viene vista, vissuta e compresa la malattia? I figli si trovano immersi in una situazione che non comprendono pienamente e che è accompagnata da emozioni diverse, che oscillano dalla tenerezza alla paura. Emblematico in questo senso è il titolo originale del film “Infinetely Polar Bear” che è tratto da una frase del film in cui la piccola Faith, non comprendendo bene che cosa sia il disturbo bipolare, spiega così agli amici la malattia del padre “mio padre è un Orso Polare”.

Teneramente folle: trama del film

Ci troviamo in Massachussetts alla fine degli anni ’70. Cameron Stuart (interpretato da Mark Rufalo) è felicemente sposato con Maggie (Zoe Saldana) con cui ha avuto due figlie: Amelia e Faith. Cameron è affetto dal disturbo bipolare (un tempo chiamato “psicosi maniaco depressiva”) ed in seguito all’ultima delle sue crisi perde il lavoro, viene ricoverato e la moglie lo allontana da casa. Maggie si trova quindi da sola a gestire e a mantenere economicamente la famiglia dal momento che i suoceri, pur avendo notevoli possibilità economiche non forniscono loro alcun aiuto. Maggie non riesce a trovare un lavoro sicuro ma dopo che ottiene una borsa di studio per un master di Business Administration alla Columbia University di New York ha un piano per il bene delle figlie: ottenere il titolo in 18 mesi per poi tornare e cercare un lavoro più soddisfacente che possa consentirle di dare loro una educazione scolastica migliore.

Per raggiungere il suo scopo è costretta a lasciare a malincuore le figlie in Massachussetts e chiede al marito, con cui non vive più da tempo, di trasferirsi a casa loro ad occuparsi delle bambine. Lei è l’unica ad avere fiducia in lui, poiché sia i suoceri che i vicini di casa e conoscenti, non solo non pensano che Cameron stia così bene da poter occuparsi a lungo delle figlie ma, soprattutto, contestano l’indipendenza di Maggie, il ruolo “maschile” che ella assume all’interno della famiglia. Il film Teneramente folle descrive quindi tutto il periodo in cui Cameron si trova ad occuparsi delle figlie e a cercare di recuperare con loro un rapporto di affetto e fiducia. La relazione è influenzata dalle fasi maniacali e depressive di Cameron e, pertanto, oscilla costantemente tra momenti di condivisione e affetto ad altri più tesi e difficili. Cameron riuscirà comunque a cavarsela spinto dal desiderio di riconquistare l’affetto della moglie.

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Il disturbo bipolare

Secondo il DSM –5 il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore caratterizzato dall’alternanza di episodi maniacali e depressivi o misti (disturbo bipolare tipo I), oppure da episodi depressivi e ipomaniacali (disturbo bipolare tipo II).
Il disturbo bipolare, nel DSM 5, viene separato dai disturbi depressivi e collocato in una categoria unitaria, tra il capitolo dei disturbi dello Spettro Schizofrenico e gli altri disturbi Psicotici e quello dei Disturbi Depressivi, riconoscendo che si tratta di un disturbo “a ponte” tra queste due diagnosi in termini di sintomi, storia familiare e genetica.

Nello specifico:
EPISODIO MANIACALE: Un periodo di tempo caratterizzato da umore persistentemente elevato o irritabile associato ad un aumento di attività o energia presenti per gran parte della giornata per almeno una settimana. Devono essere presenti almeno 3 (4 se umore irritabile) dei seguenti sintomi: autostima ipertrofica o grandiosità; ridotto bisogno di sonno; logorrea; fuga delle idee; distraibilità; aumento della attività finalizzata; coinvolgimento in attività piacevoli ma pericolose. L’alterazione dell’umore ha una gravità tale da provocare un netto deterioramento nelle attività socio-lavorative dell’individuo o da richiedere l’ospedalizzazione per prevenire eventuali danni a se stesso o agli altri.

EPISODIO IPOMANIACALE : Un periodo di tempo caratterizzato da umore persistentemente elevato o irritabile e persistente aumento di attività o energia per almeno 4 giorni. Devono essere presenti almeno 3 (4 se umore irritabile) dei seguenti sintomi: autostima ipertrofica o grandiosità; ridotto bisogno di sonno; logorrea; fuga delle idee; distraibilità; aumento della attività finalizzata; coinvolgimento in attività piacevoli ma pericolose. Sebbene sia osservabile un cambiamento netto nel funzionamento dell’individuo, non è presente una compromissione marcata come invece avviene durante un episodio maniacale. Non è necessaria l’ospedalizzazione. Non sono presenti sintomi psicotici.

EPISODIO DEPRESSIVO: Caratterizzato da umore depresso o perdita di interesse e di piacere per le attività per quasi tutto il giorno per un periodo minimo di due settimane, associato ad almeno 5 dei seguenti sintomi: Perdita o incremento dell’ appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione psicomotoria o rallentamento psicomotorio; diminuzione dell’energia; eccessivo o inappropriato senso di colpa e impotenza; difficoltà a concentrarsi; ricorrenti pensieri di morte, ideazione suicidaria senza un piano specifico, tentativi di suicidio o piani per commettere il suicidio.

L’episodio depressivo nell’ambito del disturbo bipolare presenta alcune peculiarità che lo differenziano sia dalla depressione endogena unipolare che da quella reattiva e situazionale. E’ infatti caratterizzato dal predominio dell’apatia sulla tristezza, dell’inibizione psicomotoria sull’ansia, e dell’ipersonnia sull’insonnia (Colom e Vieta, 2006).

EPISODIO MISTO: Si caratterizzano per la compresenza di una sintomatologia maniacale e depressiva combinate differentemente tra loro secondo l’alterazione dell’umore, le cognizioni e il comportamento. Sono associati ad un grave rischio suicidario.

Per quanto riguarda gli aspetti cognitivi del disturbo bipolare, così come si parla di “triade negativa” di pensieri distorti catastrofici nella visione di sé, del mondo e del futuro nella depressione, allo stesso modo è possibile individuare una “triade positiva” nella mania (Colom e Vieta, 2006). I pensieri automatici maniacali sono caratterizzati da cognizioni e interpretazioni positive che non corrispondono alla realtà; si tratta di una visione eccessivamente positiva e rigida.

Le manifestazioni del disturbo bipolare nel personaggio del protagonista

E’ la voce di Amelia, la primogenita, a narrarci gran parte degli eventi e a metterci al corrente del disturbo del padre. Già dalle prime battute vengono sottolineate alcune bizzarrie comportamentali che molto spesso possono essere sottovalutate e ricondotte ad una personalità più estroversa ed eccentrica, mentre in realtà si tratta di sintomi conclamati. La stessa Maggie spiega alle figlie che, pur essendo sempre stata a conoscenza della diagnosi del marito, aveva sottovalutato la gravità della situazione (“negli anni ‘70 quasi tutti avevano avuto un esaurimento nervoso…”). Quelli che possono sembrare agli osservatori esterni comportamenti solamente eccentrici, come Cameron che girava per il campus in bicicletta indossando una barba finta, nascondono un profondo malessere. Le fasi maniacali, sebbene associate ad un incremento di energia, idee, progetti e voglia di fare non sempre sono accompagnate da emozioni di piacere. Possono essere presenti ideazioni paranoidee, angoscia e tensione.

Le fasi maniacali

Per gran parte della durata del film Cameron mostra un umore costantemente elevato, a tratti irritabile soprattutto quando viene contestato, associato a una notevole energia. Mostra la perdita delle inibizioni, del buon senso, dell’esame di realtà. Festeggia il proprio licenziamento senza preoccuparsi delle conseguenze. Si mostra eccessivamente loquace e disponibile con i vicini senza redensi conto di superare il limite: tra aiutare una signora a portare fino a casa le buste della spesa e proporle poi di sistemarle le cose nel frigo o di spostarle i mobili il passo è breve. La reazione del suo interlocutore è dapprima perplessità fino poi ad arrivare all’evitare di incontrarlo. L’incremento dell’energia fa sì che Cameron si senta complessivamente bene, gli consente di dedicarsi a numerose attività e di pulire l’intera casa in un pomeriggio. Tuttavia tutta questa energia, anche se può sembrare un aspetto positivo, in realtà non riesce ad essere incanalata in modo produttivo. Cameron inizia mille cose diverse che poi vengono lasciate incompiute e su cui appende il cartello “non spostare, ci lavorerò più tardi”.

E’ proprio la sensazione di benessere apparente, l’ avere mille idee e molta energia per metterle in pratica a rendere difficile per chi soffre del disturbo realizzare di avere un problema. Gran parte dei pazienti, dopo essersi sottoposti a trattamento farmacologico, provano nostalgia per l’ebbrezza della mania e la vita quotidiana sembra adesso per loro piatta e priva di emozioni. L’incremento dell’energia e la fuga delle idee a breve termine può anche consentire alla persona di raggiungere alcuni obiettivi (per es. lavorativi) ma a lungo termine causa malessere. Spesso alla mania seguono periodi di depressione anche grave. Inoltre se non trattato adeguatamente il disturbo può peggiorare: con il tempo i cicli di alternanza tra mania e depressione si fanno più rapidi. In mania, proprio per la perdita di obiettività, possono essere fatte scelte impulsive controproducenti.

Le fasi depressive

Durante le fasi depressive (rappresentate nel film in misura minore rispetto a quelle maniacali), si nota come Cameron perda interesse per tutto ciò che lo circonda, incluse le figlie. Resta immobile davanti al frigo vuoto o seduto in poltrona mentre il mondo gli scorre letteralmente davanti, senza che lui reagisca in alcun modo. E’ un periodo di assenza di emozioni, sia positive ma anche negative, tutto ciò di cui pare aver bisogno è la vicinanza delle figlie, il non essere lasciato solo a fronteggiare tutto questo. In queste scene sono quindi ben rappresentati l’umore depresso, la perdita di energia, il rallentamento psicomotorio e l’incuria personale (esce di casa in vestaglia senza indossare i pantaloni). Se prima lasciava a metà numerose attività, adesso si limita a restare immobile a fumare.

Il rapporto con i farmaci e le sostanze

Nel film vengono affrontate anche altre due tematiche correlate al disturbo dell’umore: l’uso di sostanze come automedicazione e il rapporto con i farmaci.

C’è un alto tasso di comorbilità tra il disturbo bipolare e l’abuso di alcol e di altre sostanze (Newman et al. 2012). I problemi del disturbo bipolare e dell’abuso di sostanze tendono a potenziarsi a vicenda: le sostanze interferiscono con la farmacoterapia, aggravano l’impulsività, compromettono la capacità di giudizio e aumentano il rischio di comportamenti suicidari. A loro volta gli sbalzi di umore possono costituire stimoli interni che peggiorano il carving per le sostanze (Newman et al. 2012)

Cameron interrompe l’utilizzo dei farmaci e lo “sostituisce” con l’assunzione di birra.
Anche quando la terapia farmacologica sembra funzionare molti pazienti ne interrompono l’assunzione credendo di stare bene e non averne più bisogno (Goodwin e Jamison, 1990), aumentando però il rischio di ricadute sintomatiche. I motivi che portano alla interruzione della farmacoterapia possono essere diversi: la negazione della malattia, gli effetti secondari, il sentirsi a disagio ad assumere sostanze psicotrope, la mancanza della sensazione di euforia, il credere di poter controllare il proprio umore. Hanno quindi un ruolo centrale gli atteggiamenti verso la malattia e il modello di salute di ciascun paziente; queste convinzioni possono pertanto essere modificate attraverso la terapia cognitiva e interventi di psicoeducazione sul disturbo (Newman et al. 2012)

La relazione tra Cameron e le figlie

Le emozioni veicolate in questa relazione padre-figlie sono numerose e si alternano influenzate dall’andamento del disturbo dell’umore di Cameron; le principali sono la tenerezza, la vergogna, la paura, la rabbia e il senso di colpa.

Le bambine sentono la mancanza del padre e ne cercano costantemente la vicinanza, sia scrivendogli lettere sia recandosi a trovarlo durante il ricovero. Sono tuttavia consapevoli che il padre per certi aspetti deve essere accudito e guidato negli impegni quotidiani. Fin dal primo giorno di convivenza dopo la partenza della madre, ma già ne erano consapevoli durante il periodo successivo al ricovero di lui, hanno imparato che devono provvedere a se stesse per le cose di tutti i giorni, come svegliarsi in tempo per andare a scuola, preparare la colazione, pulire casa e fare il bucato. Ci si aspetta che sia compito del padre accudire le figlie, occuparsi di loro anche nella monotona e faticosa routine casalinga e non solo farle divertire portandole in giro per i boschi o cucinando il loro piatto preferito. Il compito genitoriale è essere sempre presenti, condividendo le cose belle ma anche quelle brutte, lasciare i figli liberi di esplorare ma essere per loro un punto di riferimento verso cui tornare in caso di bisogno. Maggie riesce in questo, anche a distanza. Cerca sempre di spiegare alle figlie le motivazioni delle sue decisioni, le rende partecipi del suo stato emotivo e spiega a grandi linee la patologia del marito sottolineandone però gli aspetti positivi di lui come padre facendo sì che anche le figlie si fidino di lui e gli vogliano bene.

Cameron però, quando è preso dalla foga dei suoi pensieri, dall’energia incanalata in mille attività diverse lasciate in sospeso, non riesce ad assumersi le responsabilità di genitore anche se poi riesce sempre a rimediare a modo suo, come quando non avendole svegliate in tempo per andare a scuola porta il pacco di biscotti in ascensore affinché le figlie non debbano rinunciare alla “colazione che è il pasto più importante della giornata”. Cameron non è un cattivo padre, fa tutto quello che gli è possibile fare influenzato dall’andamento del suo umore.

Di fronte a questo comportamento paterno le bambine in parte si responsabilizzano, rendendosi autonome e gestendosi da sole: sono loro a pulire i piatti e la casa, si svegliano da sole in orario per poi svegliare anche il padre e così via. Sono per certi aspetti piccole adulte. Amelia arriva a suggerire al padre un piano per riunire la famiglia: deve prendere le medicine, responsabilizzarsi, cercarsi un lavoro per mantenere moglie e figlie “e forse allora mamma lo riprenderebbe in casa”. Tuttavia a lungo termine percepiscono la fatica degli incarichi che si sono assunte, hanno la sensazione che dovrebbero essere loro le figure bisognose di affetto e supporto da parte degli adulti e protestano arrabbiandosi con Cameron. La rabbia delle figlie nei confronti del padre è quindi una “rabbia da protesta” per mancato accadimento e si manifesta quando per l’ennesima volta si trovano a gestire gli impegni degli adulti.

Cameron in base ai suoi sbalzi di umore è imprevedibile nelle sue reazioni. Già durante il ricovero, quando Maggie porta le figlie a salutarlo lui all’inizio scherza con loro dicendo di picchiarlo sul “Pancione” ingrossato dai farmaci ma quando Amelia lo colpisce lui reagisce un po’ troppo bruscamente e la perplessità e la paura compaiono sul volto della bambina. Una persona imprevedibile genera ansia perché non è possibile stabilire come reagirà in ogni occasione, è un qualcosa che non è possibile gestire. Finchè il padre è imprevedibile predomina l’ansia, ma quando diventa involontariamente pericoloso per l’incolumità delle figlie allora le emozioni espresse diventano la paura e il terrore. Cameron lascia di notte le figlie sole in casa sminuendo e invalidando le loro paure. Le vuole forti, coraggiose, indipendenti ma non comprende che deve accogliere i loro timori più che giustificati. Amelia cerca di farlo sentire in colpa per averle messe in una situazione di pericolo. Sul momento Cameron reagisce frustrato e adirato, ma quando ritorna in sé ecco che monta alla porta una serratura più sicura. Vuole bene alle bambine e quando l’umore è abbastanza stabile riesce ad occuparsi di loro nel modo migliore.

Un’altra emozione prevalente è la vergogna che Amelia e Faith provano quando il padre manifesta comportamenti insoliti in pubblico. Cameron vuole fare conoscenza di tutti i vicini, si mostra disponibile fino all’inverosimile e le figlie lo allontanano. Non vogliono invitare amici in casa perché si vergognano di lui: temono che gli altri non comprenderebbero il problema, che le deridano e isolino. I loro amici però colgono solo l’aspetto simpatico di Cameron e alla fine non si sconvolgono più di tanto.

Amelia soprattutto si sente in colpa verso il genitore. Non vogliono che lui vada con loro ma non ce la fa a lasciarlo solo a casa. Percepisce la solitudine e il rifiuto degli altri nei confronti del padre e lo proietta anche in altre circostanze “mi dispiace che hai venduto la nostra vecchia auto. Ora non la vorrà più nessuno…”. Non vuole essere la causa della sofferenza del padre.

La scena conclusiva del film è centrata proprio sul senso di colpa di Amelia che non accetta l’invito del padre a passare il pomeriggio con lui. Riuscirà ad andare avanti con la sua vita solo quando voltandosi vedrà nell’espressione di Cameron comunque serenità senza malinconia né rimprovero.

Il tradimento online e le ripercussioni nella coppia

Il tradimento online si differenzia dal tradimento classico per l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche dotate nella maggior parte dei casi di connessione internet ed è definito come una tipologia di infedeltà costituita da una relazione romantica e/o sessuale che prende luogo tramite un contatto online e si mantiene maggiormente nel tempo attraverso conversazioni elettroniche che avvengono con comunicazioni tramite chat, giochi online, gruppi online.

Tosco A.*, Vianzone S.**, Chiapasco E.***

La soddisfazione nella relazione di coppia: i fattori che la determinano

Le relazioni di coppia sono da anni uno dei principali oggetti di studio da parte della psicologia. Si è dibattuto a lungo su cosa possa determinare una buona riuscita della relazione e cosa, invece, ne porti alla dissoluzione. Da quanto emerso, sembra che i concetti di autostima, benessere personale, soddisfazione all’interno della coppia e tradimento siano legati tra loro.

Ci si è concentrati per molto tempo sul costrutto di soddisfazione di coppia in quanto appare legato alla continuazione della relazione: più sono alti i livelli di soddisfazione all’interno della coppia, maggiori sono le possibilità che la coppia stessa duri a lungo (Erol & Orth, 2014). La soddisfazione di coppia, a sua volta, è influenzata da diversi fattori tra cui è possibile citare la comunicazione tra i partner, la capacità di esprimere e gestire le emozioni, aspetti legati alla personalità di ciascun individuo, l’attrazione verso il partner e la soddisfazione sessuale (Egeci & Gencoz, 2006; Fisher & McNulty, 2008; Gattis et al., 2004; Mark & Herbenick, 2014). Oltre a questi, sembra che l’autostima e il benessere personale giochino un ruolo particolarmente importante nel determinare il livello di soddisfazione della relazione. Nello specifico, vari studi (Diener et al.,1999; Erol & Orth, 2014; Murray et al., 1996; Shackelford, 2001) mostrano come essere sposati o, comunque, trovarsi in una relazione intima porti ad alti livelli di benessere personale che, a sua volta, dipende da una buona autostima. Sarebbe quest’ultima, secondo gli autori, a determinare un maggior senso di soddisfazione all’interno della coppia.

La dissoluzione della relazione: cosa la determina

All’opposto, uno degli elementi più comuni che portano alla dissoluzione della relazione è il tradimento da parte di uno o entrambi i partner (Heintzelman et al., 2014; Marin et al., 2014; Negash et al., 2014). I dati in letteratura mostrano come tra il 22 e il 25% degli uomini e tra l’11 e il 15% delle donne abbiano rapporti sessuali extraconiugali (Allen et al., 2005; Mark et al., 2011). Tra le conseguenze negative dell’infedeltà è possibile riscontrare la perdita della fiducia, un abbassamento dell’autostima, problemi emotivi come sintomi depressivi e ansiosi nel partner che ha subito il tradimento e sofferenza psicologica in chi ha commesso il tradimento (Brady et al., 2009; Gordon et al., 2004; Hall & Fincham 2009). A livello sociale, inoltre, la maggior parte delle persone disapprova l’infedeltà, la considera immorale e non perdonabile (Gallup, 2007, 2008). Il tradimento è, inoltre, la causa più comune di divorzio riportata dalle coppie (Marin et al., 2014; Winek & Craven, 2003). Nonostante questo, esistono varie ragioni che portano a tradire il proprio partner. Una delle prime motivazioni è la necessità di distrarsi dalla routine e dalla quotidianità (Hertlein e Piercy, 2006). Alcune persone, invece, lo fanno per vendicarsi del proprio compagno/a, altre perché sono state sedotte o per esprimere la propria libertà sessuale. Infine, c’è chi riferisce di provare dei vuoti all’interno della propria relazione che devono essere riempiti con altre persone (Pham et al., 2013; Yeniceri & Kokdemir, 2006).

Il tradimento online

Un discorso a parte va dedicato al tema del tradimento online che è spesso fonte di svariate riflessioni. Il tradimento online, innanzitutto, si differenzia dal tradimento classico per l’utilizzo di apparecchiature tecnologiche dotate nella maggior parte dei casi di connessione internet ed è definito come una tipologia di infedeltà costituita da una relazione romantica e/o sessuale che prende luogo tramite un contatto online e si mantiene maggiormente nel tempo attraverso conversazioni elettroniche che avvengono con comunicazioni tramite chat, giochi online, gruppi online (Young et al., 2000). Accade spesso che da un banale ed innocente scambio di e-mail nasca un’intensa e appassionata relazione online che può poi scaturire in un incontro faccia a faccia e in un rapporto sessuale (Young et al., 2000). Dunque, la relazione diventa di tipo emozionale e/o sessuale con un’altra persona diversa dal proprio partner (Kimberly e Young, 2008).

Parlare di tradimento online assume connotazioni piuttosto complesse, in quanto non è possibile stabilire a priori quale sia il limite definito da ciascuna coppia; il tradimento online non è un assoluto, la linea di demarcazione tra ciò che è tale e ciò che non lo è appare piuttosto sottile.
Emergono, comunque, delle differenze significative tra uomini e donne: i primi, infatti, appaiono più risentiti nei casi di infedeltà sessuale, mentre le donne patiscono maggiormente l’infedeltà emotiva del proprio partner (Guadagno e Sagarin, 2015).

Come per il tradimento classico, anche nel caso del tradimento online esistono varie motivazioni che spingono le persone a metterlo in atto. Tra le teorie più accreditate è possibile ritrovare il modello ACE, elaborato da Young e collaboratori (Young et al.,2000), secondo cui la persona che tradisce lo fa spinto dalla consapevolezza dell’anonimato (A), dalla convenienza del rapporto (C) e dalla possibilità di fuga dalla realtà che il rapporto virtuale permette (E). Un altro modello che prova a spiegare i motivi che accompagnano un individuo a ricercare una relazione online è il modello AAA proposto da Cooper (2002). Secondo questo modello, una relazione online è basata su una buona accessibilità (A), data dal fatto che al giorno d’oggi è notevolmente più semplice procurarsi a poco prezzo apparecchi quali computer, smartphone o tablet; inoltre, una relazione online è affidabile (A) in quanto entrambi i membri si ritrovano nella medesima situazione, il che è probabile che porti a rispecchiarsi; infine, vige la regola dell’anonimato (A) come per il modello ACE.

Uno degli aspetti che incide in maniera più negativa è il segreto che si instaura all’interno della coppia. Il segreto è spesso anche il motore stesso della relazione online, tant’è che molte relazioni hanno fine nel momento in cui vengono accidentalmente scoperte (Mileham, 2004).

È possibile osservare alcune variazioni nelle abitudini dei soggetti che potrebbero aver intrapreso una relazione online come, ad esempio, un cambiamento nella routine sonno/veglia, la richiesta di maggiore privacy, la tendenza ad ignorare le faccende della famiglia, un aumento nell’utilizzo della menzogna, un cambiamento di personalità, la perdita di interesse in ambito sessuale e un minore investimento nella relazione coniugale (Young, 2006).

Nella maggior parte dei casi, l’incontro online è precedente all’incontro fisico. Sono stati individuati ben sette specifici aspetti dell’intimità correlata ad internet (Hertlein e Piercy, 2012):
1. Internet è utilizzato come un moderatore;
2. È largamente accessibile a tutti;
3. È conveniente in termini di costi;
4. Rende gli utenti anonimi, nel rispetto della privacy;
5. Facilita un’approssimativa interazione nella vita reale;
6. Considera l’ambiguità nella definizione dei comportamenti problematici;
7. Permette alle persone un diverso grado di accordo nei termini della realtà contro i propri ideali.

Da quanto detto finora, è possibile affermare come il tradimento sia un problema pervasivo con grosse ripercussioni sulla relazione e sui singoli individui coinvolti. La perdita di fiducia verso il proprio partner, il malessere emotivo, l’aumento di sentimenti quali rabbia, ansia, insicurezza, gelosia e risentimento portano a un drastico abbassamento del benessere personale e dell’autostima (Duba et al., 2008; Negash et al., 2014; Shackelford et al., 2002; Theiss & Solomon, 2008).

Cosa si può fare in questi casi? A chi rivolgersi per chiedere aiuto e/o consiglio?

Lo abbiamo domandato all’avvocato Edoardo Rossi, presidente dell’AMI (Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani) della Regione Piemonte e Valle d’Aosta. Come spiega l’avvocato, il tradimento tradizionale e il tradimento online sono spesso connessi: più spesso un tradimento online si concretizza in un tradimento tradizionale, ma l’aspetto virtuale è quasi sempre presente. Molte sono le situazioni in cui uno dei due partner cerca di procurarsi le prove del tradimento subito. Bisogna fare molta attenzione a questi comportamenti, in quanto leggere messaggi di un amante nel cellulare del coniuge o la sua posta elettronica è considerato reato e, inoltre, tale materiale non può essere usato come prova per dimostrare il tradimento.

Sono necessarie prove raccolte in modo lecito come, ad esempio, quelle procurate da un investigatore privato.

[blockquote style=”1″]Giuridicamente il tradimento deve essere provato deve venir meno il rapporto di fiducia ed è rilevante il fatto che il coniuge non adempia ai compiti richiesti dall’atto matrimoniale (…) ciò che preoccupa è la continuità dei messaggi, la sequenza di messaggi che porta alla crisi coniugale (…) il tradimento deve essere la causa che fa finire il matrimonio[/blockquote] afferma l’avvocato Rossi.

Risulta fondamentale prestare attenzione a queste situazioni soprattutto nel caso in cui si sia in presenza di minori che, spesso, diventano le vittime e la parte realmente lesa di tutta la vicenda. Secondo l’avv. Rossi in questi casi è fondamentale un lavoro in sinergia, a massima tutela della coppia, tra psicologi e avvocati. Alcune ricerche (Atkins et al., 2010; Marin et al., 2014) hanno dimostrato come coppie in crisi a causa dell’infedeltà del coniuge siano state in grado di superare i problemi legati al tradimento attraverso una terapia di coppia che le ha supportate nel ricostruire la relazione, ritrovare la fiducia persa, aumentare il senso di benessere personale e la soddisfazione all’interno della vita coniugale.
È necessario essere consapevoli che si lavora per il bene delle coppie, provando a cercare e valutare con loro la possibilità di qualche risorsa propria di quella coppia, che possa permettere una risoluzione del problema.

Una crisi di coppia necessita sempre di una valutazione professionale interdisciplinare accurata per poter essere affrontata nel rispetto dei membri della coppia stessa e degli eventuali figli presenti. Una valutazione e un intervento che non dovrebbe quindi limitarsi ad una serie di atti giudiziali ma tenere conto anche della sofferenza che, inevitabilmente, appartiene sia alla persona tradita che al traditore.

La Discalculia – Introduzione alla Psicologia

Anoressia nervosa: il piacere di dimagrire contro la paura di perdere peso

L’anoressia nervosa è un disturbo dell’alimentazione che colpisce principalmente le ragazze e le giovani donne, la cui diagnosi è basata su tre principali criteri: la significativa riduzione di assunzione di cibo che conduce ad una perdita di peso, una percezione distorta del proprio peso e del proprio corpo e una intensa paura di ingrassare.

 

Tuttavia, secondo il team del prof. Philip Gorwood dell’Université Paris Descartes, quest’ultimo criterio andrebbe rivalutato, assumendo che la paura di ingrassare altro non sarebbe che l’altro lato della medaglia del vero rinforzo positivo dei pazienti anoressici, ossia la sensazione positiva connessa al perdere peso. Infatti, considerando le conclusioni di un recente articolo comparso su Translational Psychiatry firmato da questo team, gli anoressici proverebbero piacere nel dimagrire più che paura di ingrassare.

Infatti, come dimostrato da precedenti studi che avevano impiegato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Fladung et al., 2010), tra i pazienti anoressici, ma non tra i soggetti di controllo, si osserva uno specifico pattern cerebrale connesso alla ricompensa durante l’elaborazione autoreferenziale di stimoli visivi connessi alla fame. Nel dettaglio, gli anoressici presentano sensazioni positive connesse al dimagrimento in associazione ad una significativa attivazione dello striato ventrale, una struttura cerebrale coinvolta nel circuito della ricompensa.

Nel presente esperimento il gruppo di ricerca ha valutato le caratteristiche della risposta cognitiva, emozionale e fisiologica in pazienti anoressiche adulte comparate a dei controlli sani impiegando immagini di corpi femminili disturbo-specifiche. In particolare, il campione comprendeva 71 anoressiche (diagnosi con criteri DSM-5), provenienti dalla Clinique des Maladies Mentales et de l’Encéphale (CMME), un centro specializzato nel trattamento dei disturbi alimentari a Parigi, e 20 soggetti di controllo sani, ossia senza pregressi o attuali disturbi dell’alimentazione, accoppiati alle pazienti per genere, età e livello educativo.

A seguito della somministrazione dell’intervista strutturata Mini International Neuropsychiatric Interview, dell’Eating Attitude Test, del Body Shape Questionnaire (BSQ) e del Bulimic Investigatory Test, i soggetti erano sottoposti ad un paradigma di stimolazione visiva.

Nel dettaglio venivano presentate 120 immagini raffiguranti corpi femminili nudi, catalogati come sottopeso, normopeso e sovrappeso, e contemporaneamente veniva valutata la risposta emotiva delle anoressiche a seguito della domanda ‘Come ti sentiresti se avessi la stessa forma fisica?‘ su una scala con punteggio da 1 (Molto male) a 4 (Molto bene). Contemporaneamente veniva valutata la risposta di conduttanza cutanea (SCR) allo stimolo. La scelta di impiegare questo indice psicofisiologico deriva dal non voler essere influenzati dalla narrativa dei pazienti e dal desiderio di voler meglio comprendere la fisiopatologia sottostante l’anoressia.

I risultati dello studio evidenziano come le anoressiche a livello emotivo ottengano maggiori punteggi positivi rispetto ai controlli alla presentazione delle immagini di donne sottopeso e più bassi con le immagini di donne normopeso e sovrappeso. Inoltre, la differenza tra i sentimenti positivi durante il processamento delle immagini di corpi sottopeso era significativamente maggiore tra le anoressiche e i controlli, se comparati con i sentimenti negativi connessi alle figure di donne sovrappeso.

Valutando i dati della SCR si osserva che le pazienti anoressiche reagiscono di più a tutti le immagini rispetto ai controlli ed in maniera significativa con le immagini di donne sottopeso, come sottolineato dalla frequenza e dall’intensità della risposta.

E’ quindi sulla base di questi risultati che il team del prof. Gorwood ha stabilito l’ipotesi che le anoressiche siano connotate maggiormente da un senso di gratificazione nel dimagrire piuttosto che da un senso di paura di ingrassare.

L’autismo non è solo questione di cervello. Ipersensibilità tattile, ansia ed evitamento dei contatti sociali

Autismo: Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neurobiologia della prestigiosa Harvard Medical School ha scoperto che la presenza nei topi delle stesse modificazioni genetiche riscontrabili negli umani autistici, determina nei roditori un’alterata discriminazione tattile e un’ipersensibilità al tocco, misurate rispettivamente attraverso la capacità di distinguere diverse tessiture e la reazione ad uno sbuffo di aria sul dorso.

 

L’alterata reattività agli stimoli sensoriali nell’autismo

Tra le caratteristiche che contribuiscono alla formulazione di una diagnosi di autismo il DSM 5, manuale di riferimento internazionale per la classificazione dei disturbi mentali, cita tra i vari criteri [blockquote style=”1″]iper o ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente[/blockquote].

Il 95% degli autistici manifesta infatti un’aberrante reattività agli stimoli sensoriali e il 60,9% ha un’alterata sensibilità tattile e una soglia di reazione più bassa alla vibrazione e al dolore termico; tuttavia le alterazioni neurologiche alla base di questa particolare sensorialità, seppur così diffusa, ed i suoi effetti sulle altre caratteristiche del quadro autistico sono perlopiù sconosciuti.

 

Neuropsicologia: i contributi della ricerca per delineare il fenotipo autistico

La ricerca genetica si è infatti sempre più interessata a specifiche funzioni cerebrali trascurando i possibili contributi del sistema nervoso periferico e del midollo spinale nel determinare il fenotipo autistico.

Questo mese è apparsa sulla rivista Cell una ricerca che vuole proprio colmare almeno in parte questa lacuna.

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Neurobiologia della prestigiosa Harvard Medical School ha scoperto che la presenza nei topi delle stesse modificazioni genetiche riscontrabili negli umani autistici, determina nei roditori un’alterata discriminazione tattile e un’ipersensibilità al tocco, misurate rispettivamente attraverso la capacità di distinguere diverse tessiture e la reazione ad uno sbuffo di aria sul dorso.

La ricerca è ancora più interessante poichè si è posta l’ulteriore obiettivo di verificare se queste anomalie sensoriali avessero una ripercussione sui comportamenti ansiosi e sulle interazioni sociali dei topi, misurati attraverso test quali la capacità di rimanere in uno spazio verde e l’abilità di interagire con altri topi mai visti prima.

I roditori portatori delle mutazioni genetiche riscontrabili nella popolazione autistica hanno in effetti manifestato una forte tendenza all’evitamento di queste situazioni soprattutto se l’ablazione dei geni avveniva in età dello sviluppo piuttosto che in soggetti già adulti.
La qualità dell’esperienza tattile durante l’infanzia di un bambino potrebbe quindi rivestire un ruolo importante nel consolidamento delle competenze sociali e nell’abilità comunicativa.

 

Conclusioni

La dimostrata relazione tra le prime fasi del processamento delle informazioni sensoriali, l’ansia e i comportamenti sociali potrebbe quindi contribuire allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici destinati agli autistici nell’età dello sviluppo e stimolare la ricerca ad interessarsi alle altre numerose anomalie sensoriali che interessano i neurodiversi e potrebbero avere un loro peso nel determinare tratti emotivi e comportamentali altrettanto comuni e spesso invalidanti.
Speriamo quindi di leggere a breve i risultati di nuove ricerche come questa.

Il ruolo del gioco nel bambino oncologico

Diviene importante favorire, nell’ambiente ospedaliero, l’attività ludica, facendo sì che vengano messi a disposizione dei piccoli pazienti degli spazi allestiti e dedicati al gioco. La sua salute mentale dipende, per buona parte, dalla possibilità di giocare, in quanto questa contribuisce a diminuire lo stress emotivo, favorisce la comprensione di quanto capita e aiuta il bambino a sviluppare le capacità necessarie per superare l’ardua prova della malattia.

Antonella Francioso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Il gioco del bambino oncologico

L’infanzia è un periodo della vita in cui l’occupazione principale dei bambini è il gioco. Quest’attività è fondamentale per sviluppare la loro salute fisica e mentale. Si realizza individualmente o in gruppo.

Il gioco, basato sull’intenzione di divertirsi e sullo sviluppo psicosociale, fornisce nuove sensazioni, crea e ricrea situazioni di vita giornaliere ed aiuta i bambini a scoprire il mondo. Esso mantiene un contatto con la realtà e la trasforma ed adatta ai desideri dei bambini. Alcune situazioni possono ostacolare il gioco e una di queste è l’ospedalizzazione. Il cancro dei bambini è una malattia che richiede molteplici ricoveri ospedalieri. In questo processo i bambini sono costretti a lasciare le loro case e la compagnia delle persone che amano per adattarsi ad un ambiente estraneo che li coinvolge in tutto. La malattia e l’ospedalizzazione dei bambini in questo senso rappresenta una rottura da quella che è la loro vita giornaliera. Essi si ritrovano in luoghi ristretti, dove le abitudini ospedaliere e l’ambiente stesso riducono il tipo di attività che sono abituati a praticare e possono interrompere il loro sviluppo naturale (Lima, K. Y. N., Santos V. E. P., 2015).

L’adattamento psicologico alla malattia è stato rintracciato in un insieme di fattori quali lo stadio della malattia, lo sviluppo e la personalità del bambino, il funzionamento familiare, le precedenti esperienze di vita e di interazione con il team di trattamento. Ciò comporta la necessità di interventi psicologici che facilitano “il coping con il cancro e la promozione di uno sviluppo normale”.

 

Il gioco in ospedale

La Child-Centered Play Therapy è per i bambini uno degli interventi terapeutici più appropriati dal punto di vista evolutivo essendo il gioco per il bambino un ” mezzo naturale di auto-espressione”. Il gioco è considerato un “ancora di salvezza” per un bambino con il cancro; un mezzo attraverso il quale esprimono il senso del loro disagio (Chari U., Hirisave U., Appaji L., 2012).

Il gioco nell’ospedale ha molteplici obiettivi:
– assicura un tipo di collegamento con l’ambiente famigliare;
– contribuisce a creare una continuità nella vita quotidiana;
– fa emergere i sentimenti negativi che potrebbero accompagnare il bambino durante l’ospedalizzazione, mentre possono essere “trasformati” attraverso il gioco;
– riduce l’angoscia e l’ansia, sviluppando il rispetto per i punti di vista e i sentimenti altrui;
– aiuta i bambini a conservare la loro autostima e la fiducia;
– contribuisce allo sviluppo di nuove soluzioni creative nei problemi osservati;
– insegna in modo divertente.

Quasi in tutti i casi dell’ospedalizzazione, i bambini subiscono le procedure mediche invasive, comprese la cateterizzazione, l’iniezione endovena e le analisi del sangue. Il gioco può aiutare i piccoli pazienti ad acquisire dimestichezza con tali procedure e ad imparare esattamente come vengono effettuati, in modo da ridurre il loro timore ed aiutare il loro adattamento e incoraggia la partecipazione dei genitori, fratelli e sorelle. Quindi, i bambini raggiungono una più forte sensazione di normalità e continuazione della loro vita passata, alleviando l’ansia dei genitori e
facilita la comunicazione fra i bambini.

 

Il gioco come mezzo di comunicazione

Il gioco è un eccellente mezzo di comunicazione e di sviluppo delle relazioni sociali e dell’assistenza reciproca e riduce la regressione, cioè, il ritorno alle fasi precedenti dello sviluppo. Tale regressione fra i bambini può essere indicata dai vari disturbi, ad esempio l’enuresi, o comportamenti come il pianto continuo, la ricerca di cure parentali, gli scoppi di rabbia e aggressione. Il gioco porta ad esternare desideri repressi, l’ansia e il timore, e permette ai bambini di esprimersi in modo più creativo e dà gioia e divertimento (Koukourikos K., Tzeha L., Pantelidou P., Tsaloglidou A., 2015).

Giocare coi compagni mette le fondamenta dell’apprendimento, ma anche delle funzioni sociali: la relazione in cui sia presente il gioco genera non solo abilità sociali, ma anche sviluppo intellettuale. Se un bambino si trova ad essere ospedalizzato, poiché avrà a disposizione del tempo dopo le cure e potrà sentirsi molto solo o addirittura depresso, le attività ricreative devono essere integrate in modo efficace nell’insieme dell’ambiente terapeutico.

Quando un bambino è ammalato, il gioco acquista una rilevanza ancor più marcata poiché diventa un modo privilegiato di comunicazione e normalità. Esso in ospedale assume una doppia funzione: a livello ricreativo assicura al bambino la continuità dello sviluppo psico-fisico, mentre a livello terapeutico protegge la salute mentale da mutamenti che potrebbero essere percepiti come disastrosi (Scarponi, 2007). Inoltre, l’attività ludica può essere considerata una motivazione socializzante in quanto rappresenta quella condizione che semplifica l’aggregazione dei bambini, permettendo lo scambio, la comunicazione e la collaborazione con l’altro.

 

Il gioco come preparazione alle terapie

Il gioco può anche essere usato, nell’ambito dell’esperienza patologica, come tramite di preparazione del bambino al ricovero, alle dolorose terapie o agli interventi chirurgici. In tali situazioni si utilizzano personaggi che s’ispirano ai cartoni animati o ai fumetti, li si fa diventare protagonisti di storie di malattie raccontate dai pazienti, allo scopo di stimolarli nel porre domande dirette riguardanti le loro condizioni e gli interventi a loro preannunciati.

Diviene importante favorire, nell’ambiente ospedaliero, l’attività ludica, facendo sì che vengano messi a disposizione dei piccoli pazienti degli spazi allestiti e dedicati al gioco. La sua salute mentale dipende, per buona parte, dalla possibilità di giocare, in quanto questa contribuisce a diminuire lo stress emotivo, favorisce la comprensione di quanto capita e aiuta il bambino a sviluppare le capacità necessarie per superare l’ardua prova della malattia. Quest’ultima rappresenta un grande pericolo psicosociale. Anche se molti bambini si adeguano alle loro condizioni con grande ostilità, alcuni si isolano, evitano relazioni con i pari e con la famiglia. Molte volte lottano con una scarsa autostima, scetticismo e paura. Paura degli operatori ospedalieri, delle procedure mediche, della morte. L’aiuto dei suoi pari può essere una componente preziosa per l’adattamento alla malattia cronica, dando origine ad un’assemblea per la discussione coi coetanei di sentimenti che appaiono indicibili agli amici sani, ai genitori, ai medici. Il gruppo può riconoscere e rispondere ai bisogni dei bambini di conoscenza, contenimento, cambiamento (Scarponi D., Pession A., 2010).

 

Com’è cambiato il gioco per effetto della tecnologia

Nello studio di Nunes de Lima e Pereira Santos, condotto tra ottobre 2013 e gennaio 2014, nell’Ospedale di Natal, in Brasile, si osserva che i bambini usano degli strumenti elettronici come forma di intrattenimento, come il computer e la TV. Col passare del tempo il gioco è cambiato a causa della tecnologia. L’aspetto positivo di tale cambiamento è che questi strumenti elettronici sono facilmente maneggiabili anche dai bambini che non possono lasciare i loro letti. L’uso di tali giochi nel processo di cura tiene i bambini occupati e li distrae dal pensiero della malattia e del trattamento farmacologico.

Può essere opportuno, inoltre, ove possibile, che l’attività ludica venga affiancata da attività quali la pittura e il disegno, la plastilina, il decoupage, il teatro dei burattini, il racconto di fiabe; insomma tutte quelle attività ricreative che, in qualche modo, possano contribuire a stimolare nel bambino l’espressione, in qualsiasi forma, delle proprie angosce e paure. All’interno dell’ospedale dove è stato condotto lo studio, è presente una stanza giochi deputata allo svolgimento di tante attività che vede come protagonisti i bimbi ricoverati e in cura per vari tipi di tumore. E’ stato notato come il tempo passato a giocare è anche un’occasione di socializzazione tra bambini, i quali si mostrano ansiosi di questa opportunità.

 

Apprendere con la giocoterapia ed esprimere i propri vissuti

Attraverso la giocoterapia i bambini vengono motivati all’apprendimento di nuove abilità, individuali e sociali, e di strategie di coping. Questo compito della giocoterapia appare di fondamentale interesse se riflettiamo su quanto lo sviluppo di alcune abilità individuali e sociali possa essere influenzato dai lunghi periodi di isolamento e ospedalizzazione che questi bambini devono affrontare durante l’iter terapeutico e la loro storia di malattia. Inoltre, la possibilità di accedere all’uso di strategie di coping, quando ci si confronta con eventi negativi o stressanti, gioca un ruolo determinante nel benessere psicofisico, sia perché riduce il rischio di conseguenze dannose che potrebbero risultare da un evento stressante, sia perché aiuta a contenere le reazioni emotive negative.

In base alla teoria di Bandura, gli individui imparano osservando il comportamento di altre persone. Si parla, in tal caso, di apprendimento per osservazione. La persona osserva gli altri o presta attenzione a ciò che le sta intorno, all’ambiente fisico, ma anche agli elementi simbolici, come le parole e le immagini. Gli incontri di giocoterapia forniscono molti esempi di appredimento tramite osservazione. Difatti, guardando attentamente un modello che mette in atto un comportamento o che prova un’emozione, l’osservatore ha anche la possibilità di scrutare come l’ambiente circostante reagisce, ottenendo così preziose informazioni non solo su comportamenti nuovi o già acquisiti, ma anche sulle loro eventuali conseguenze.
Il gruppo terapeutico riferisce la condizione in cui si può usufruire del piacere di stare in gruppo mediante la dimensione concreta del fare.

L’apprendimento non deve essere passivo, ma il risultato dell’azione volontaria del bambino, occupato in attività che possano divertirlo. Lo scopo di quest’ultime deve essere quello di motivare il bambino a mettere in gioco le sue competenze pregresse creando un’occasione ideale per l’integrazione di nuove conoscenze. E’ per questo che si favorisce il gioco; il bambino apprende giocando e il gioco, simbolico, di movimento, con le costruzioni, di gruppo, diviene una strategia elegante di conoscenza della realtà. Tramite il gioco, il bambino sperimenta diverse capacità, controlla le sue potenzialità, amplia la conoscenza dell’ambiente circostante. Bisogna saper prestare attenzione al bambino e dargli la possibilità di espressione e comunicazione.

I principali sentimenti provati dai bambini durante il gioco sono la gioia e la contentezza. Esso riduce le tensioni e rende più gioioso l’ambiente in cui si sta. E’ una necessità terapeutica nella cura pediatrica. Inoltre, gli studi hanno messo in rilievo la relazione fra le emozioni e le difese immunitarie. I pazienti in situazioni piacevoli, di gioia, mostrano un aumento delle difese immunitarie ed un incremento del loro stato di benessere. Questo stato di benessere è espresso anche dai bambini: “Il clown gioca con noi e ci fa divertire”. Lo scopo è quello di ridurre il trauma dell’ospedalizzazione usando la risata come misura di terapia (Lima, K. Y. N., Santos V. E. P., 2015).

La giocoterapia permette, quotidianamente, ai piccoli pazienti dell’oncologia pediatrica di trovare, dentro l’ospedale, uno spazio e un tempo, in cui poter dare voce ai propri vissuti emotivi e cognitivi legati all’esperienza di malattia. Il vissuto di ogni membro viene sostenuto e dotato di significato, attraverso l’alleanza terapeutica e la collaborazione col gruppo. Così, i pazienti prendono il controllo della loro esperienza e possono manipolarla e cambiarla. E’ infatti il gruppo che stabilisce cosa e come si può condividere, acconsentendo in questo modo la manifestazione esclusiva dei vissuti che si sente in grado di controllare e sostenere e la conduzione anche di vissuti emotivi altrimenti intollerabili all’esterno della situazione di gruppo. La giocoterapia di gruppo adempie diversi compiti tra cui quello fondamentale di rendere meno penosa e angosciosa l’esperienza delle procedure medico-infermieristiche dolorose che regolarmente questi bambini sono obbligati a combattere.

Le attività svolte in gruppo, tramite la condivisione di esperienze simili, permettono al bambino di conseguire nuove abilità individuali e sociali e nuove modalità di far fronte allo stress attraverso l’uso di diversi pattern di apprendimento. Tramite l’osservazione, il bambino nel gruppo ha l’opportunità di acquisire nuove modalità con cui dominare le sue paure e di verificare la possibilità che anche un’esperienza negativa, incerta e dolorosa, sia fronteggiabile. Attraverso il fare impara ad utilizzare il gioco come una nuova modalità di comunicazione dei propri vissuti cognitivi ed emotivi. Gli aspetti concreti dell’ “imparare facendo” non devono però far tralasciare gli aspetti cognitivi e metacognitivi che inevitabilmente sono coinvolti nel processo di conoscenza e che sostengono la successiva interiorizzazione delle azioni e del loro significato.

Soprattutto l’ansia, collegata all’attesa delle cure mediche invasive, sembra trovare, all’interno di diversi setting psicoterapeutici, una collocazione utile che permette la comunicazione di sentimenti come la paura, la rabbia e l’angoscia, che la sostengono. Ansia e tensione acutizzano il dolore ampliandone la percezione e consumando le energie psico-fisiche del piccolo paziente. Le tecniche cognitivo-comportamentali tendono a ridurre ansia e tensione, “spostando” l’attenzione cognitiva ed emozionale su qualcos’altro, come un gioco o un compito; le tecniche di rilassamento si focalizzano sul controllo della tensione che ha quasi sempre risvolti somatici.

 

Conclusioni

Concludendo, il gioco ha dato la possibilità ai fatti e agli oggetti concreti di trovare “le parole per dire”: “ho male”, “ho paura del male”, “ho paura di stare da solo”, “ho bisogno di aiuto”. I bambini seguiti con la giocoterapia hanno l’opportunità di trovare espressioni per il loro dolore che, privato della preoccupazione e dell’ansia, è avvertito come minore. Il gioco facilita la comunicazione, l’interazione ed aiuta ad alleviare la tensione del bambino quando deve ricevere procedure dolorose e traumatiche, fornendo così un’umanizzazione della cura (Soares V., Silva L. F., Cursino E. G., Goes F. G. B., 2014).
Esso promuove una relazione di fiducia, tranquillità e sicurezza fra tutti i soggetti coinvolti (Lima K. Y. N., Santos V. E. P., 2015).

Individuato nuovo target terapeutico per curare il morbo di Parkinson

Pubblicato sulla prestigiosa rivista Science Translational Medicine lo studio del ricercatore italiano Roberto Di Maio, che ha elucidato un approccio terapeutico in grado di correggere il danno mitocondriale alla base del processo neurodegenerativo del Parkinson.

COMUNICATO STAMPA – Palermo, 20.07.2016

 

In Italia circa 240.000 persone soffrono di questa patologia, oltre 1,2 milioni in Europa, quasi tutte over 50 anni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che il numero di persone affette dal morbo aumenterà notevolmente nel giro dei prossimi 20 anni, facendone – insieme ad altre patologie neurodegenerative – una delle principali causa di morte per malattia. In Italia, dove gli ultrasessantenni costituiscono quasi un quarto della popolazione, il peso di queste patologie è particolarmente significativo.

Cosa accade nelle persone colpite? Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa i cui sintomi tipici (tremori, rigidità, difficoltà a camminare, ma anche – con il progredire della malattia – disturbi cognitivi e demenza) sono il risultato della morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. La patologia è caratterizzata dall’accumulo di una proteina, chiamata α-Sinucleina. Questa proteina, sia durante i normali processi di invecchiamento, che in condizioni patogeniche, presenta la tendenza ad aggregarsi fino a formare strutture fibrillari, un processo strettamente correlato ai fenomeni neurodegenearativi, che sembra essere associato alla disfunzione mitocondriale: è noto infatti che quest’ultima porti ad un accumulo di α-Sinucleina, e che alti livelli di questa proteina compromettano la funzione mitocondriale, ma i meccanismi patogenici di questa interazione rimangono oscuri.

 

“Questo studio ha svelato come la α-Sinucleina alteri la funzione mitocondriale, innescando fenomeni neurodegenerativi nelle aree cerebrali più suscettibili, come nel caso dei neuroni che rilasciano dopamina” spiega Roberto Di Maio, dal 2008 ricercatore Ri.MED presso l’Università di Pittsburgh. “Alcune forme modificate di α-Sinucleina si legano ad un recettore della membrana mitocondriale, noto come TOM20, che riconosce una piccola sequenza di amminoacidi definita MTS (mitochondrial targeting sequence) e che consente l’importazione delle proteine necessarie alla corretta funzione mitocondriale. L’esame del tessuto cerebrale post-mortem di pazienti affetti da Parkinson ha confermato che l’interazione α-Sinucleina/TOM 20 è associata alla perdita di proteine mitocondriali nei neuroni che rilasciano dopamina, come osservato nei modelli sperimentali. I risultati ottenuti in questo studio hanno, inoltre, consentito di testare il potenziale terapeutico dell’MTS nel prevenire l’interazione tra TOM20 e le forme alterate di α-Sinucleina”.

 

I risultati evidenziano un grande potenziale terapeutico: somministrando alla cellula neuronale la piccola sequenza di amminoacidi MTS è possibile correggere il meccanismo alla base del danno mitocondriale e impedire così il processo neurodegenerativo del Parkinson.

 

Il meccanismo patogenico dell’α-Sinucleina nel morbo di Parkinson

Per la prima volta, questo studio caratterizza il meccanismo patogenico dell’α-Sinucleina, indentificandone le specie tossiche e rivelando potenziali nuove strategie terapeutiche nella prevenzione del morbo di Parkinson

“Questo è solo l’inizio di una serie di studi mirati allo sviluppo di terapie rivoluzionarie nella cura del morbo di Parkinson” afferma il Dr. Di Maio “Nel corso dello studio ho verificato con i miei occhi la sofferenza causata dalla malattia, sia nel paziente che nei familiari: ora che finalmente abbiamo una strada, dobbiamo percorrerla fino allo sviluppo di terapie efficaci”.

Il Dr. Di Maio si trova attualmente presso l’Institute for Neurodegenerative Diseases dell’Università di Pittsburgh grazie alla borsa di studio post-doc della Fondazione Ri.MED e – una volta realizzato in Sicilia il Centro di Ricerche per le Biotecnologie e la Ricerca Biomedica – rientrerà a Palermo, sua città natale, in qualità di principal investigator.

“Ehi, hai mangiato dal mio piatto!”: comportamenti alimentari alterati nella demenza frontotemporale

Iperfagia, fissazioni alimentari per un solo cibo, persino ingestione di oggetti non edibili: la demenza frontotemporale è associata a una vasta varietà di comportamenti alimentari alterati, che peggiorano la situazione già difficile del paziente. Una review condotta da ricercatori della SISSA, mette in ordine la conoscenza in questo campo, con particolare attenzione ai meccanismi cerebrali che potrebbero essere coinvolti nei sintomi.

 

Questa conoscenza è utile anche per comprendere i disordini alimentari nelle persone sane. La rassegna è stata pubblicata sulla rivista Neurocase.

La ‘Banana lady‘ descritta da Andrew Kertesz (‘The Banana Lady and Other Stories of Curious Behavior and Speech’, 2006) mangiava solo banane e beveva litri e litri di latte ogni giorno. Continuava a chiedere al marito di assicurarsi che in casa ci fossero sempre abbastanza latte e banane.

Dopo la sua morte, l’analisi del cervello confermò la diagnosi già fatta dai medici: la donna era affetta da demenza frontotemporale, una demenza senile seconda per incidenza solo alla malattia di Alzheimer. I comportamenti alimentari alterati sono molto frequenti in questa malattia al punto da rientrare anche nei criteri diagnostici.

Una review sistematica condotta da Marilena Aiello, ricercatrice della SISSA, in collaborazione con Vincenzo Silani (IRCCS Istituto Auxologico di Milano) e Raffaella Rumiati, professoressa e coordinatrice del laboratorio iNSuLa (Neuroscienza e Società) alla SISSA, ha messo in rassegna le ricerche fatte in questo campo, fornendo un quadro complessivo utile a stabilire lo stato dell’arte in questo ambito oltre a suggerire nuove linee di ricerca:

Abbiamo messo insieme quello che appariva come un’immagine frammentaria, focalizzandoci sul tipo di disturbi e sulle ipotesi sui meccanismi cerebrali alla loro base – spiega Aiello – Questo potrà essere utile anche per capire i comportamenti alimentari alterati nelle persone sane

I disturbi descritti dalla letteratura sono molteplici: si va dal semplice aumento dell’appetito, alla sovralimentazione incontrollata, dall’assenza del senso di sazietà, fino ai cambiamenti nelle preferenze alimentari, in certi caso molto singolari, come per la Banana lady descritta sopra. Si può arrivare addirittura all’ingestione di oggetti.

Si osservano anche altri comportamenti legati all’alimentazione piuttosto stravaganti, come quello di rubare il cibo dal piatto degli altri.

Naturalmente questi comportamenti sono problematici, sia a livello sociale, ma anche per quel che riguarda la salute del paziente che tende ad aumentare di peso – precisa Aiello – anche se in ogni individuo si possono osservare conseguenze diverse. C’è anche chi perde peso, perché si alimenta con una gamma ristretta di cibi in maniera ossessiva.

Dall’analisi degli studi messi in rassegna si identificano alcune zone cerebrali collegate, in particolare la corteccia orbito-frontale e un probabile coinvolgimento dell’ipotalamo. L’ipotalamo è un’area del cervello che regola le interazioni fra la quantità di cibo consumata e l’omeostasi energetica dell’organismo.

L’origine delle anomalie alimentari nella demenza frontotemporale è probabilmente multifattoriale – spiega Aiello – È possibile che sia implicata un’alterazione del sistema nervoso autonomo, caratterizzata da una valutazione alterata dei segnali dell’organismo, come fame, sazietà, appetito. Il danno all’ipotalamo potrebbe causare una perdita del segnale inibitorio, che quindi provocherebbe comportamenti come l’iperfagia.

Ci sono probabilmente anche fattori sensoriali e cognitivi, continua a spiegare Aiello che complicano il quadro:

Per esempio in quei pazienti che mangiano gli oggetti c’è forse un problema di natura semantica, di riconoscimento dell’oggetto e delle sua funzione. 

Tutti questi meccanismi – conclude Aiello – Sono interessanti per comprendere la malattia e mettere a punto terapie ottimali per contrastare questi sintomi. Allo stesso tempo ci svelano alterazioni che per alcuni aspetti potrebbero essere in atto, magari con un’intensità diversa, in individui che hanno comportamenti alimentari irregolari.

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