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Psicopatologia della scomparsa della figura del padre nella società moderna

Il Padre non è solo il padre concreto – il papà – ma secondo la psicologia junghiana – anche una potente immagine archetipica che costella quadri psicologici individuali e collettivi. Cosa ha prodotto nel sociale e individualmente l’eclissi del padre autoritario, soppiantato dall’attuale assenza di figure di riferimento normativo?

 

La figura maschile nel ruolo di padre

Semplificando il discorso per entrare direttamente nel vivo dell’argomento, si potrebbe affermare che nella nostra società, la funzione maschile è strettamente legata alla funzione paterna. Cosa s’intende però per “funzione maschile”? In che modo, inoltre questa “figura maschile” si trasforma in figura paterna e quindi in ruolo del padre?
Intenzionalmente si sta qui chiamando “funzione” il maschile, riferendosi con ciò a quello che dal punto di vista biologico rappresenta il maschile nella storia dell’evoluzione della nostra specie. In questa prospettiva, infatti, si evolve e si struttura come funzione specie specifica, la successiva figura del “padre”. Il padre è in questa logica una vera e propria conquista evolutiva, tipica della specie umana, che nasce come costrutto sociale e culturale, sino a stabilizzarsi archetipicamente in una prospettiva junghiana, con una varietà di comportamenti (pattern) che dal punto di vista psichico finiscono nella successione delle ere e delle genealogie, per costituire una base ereditaria, istintuale, innata.

Ciò non significa che il ruolo paterno sia sempre uguale, epoca dopo epoca. Affatto. Ogni epoca ha le sue specifiche caratteristiche con le quali viene reinterpretato e potremmo dire “reinventato” il ruolo paterno. Eppure per quanto si possano modificare le attese di ruolo, da un’epoca all’altra – pensiamo al padre “padrone” dei primi del ‘900, in contrapposizione al padre “mammo” di fine millennio, sino al “papi” di questi ultimissimi anni – ciò non è sufficiente per modificare pattern comportamentali, che hanno potuto contare su migliaia e migliaia di anni per divenire strutture psichiche ereditarie, immagini archetipiche collettive.

La psicopatologia derivante dalla scomparsa della figura del padre

A questo punto occorre prestare attenzione a un passaggio fondamentale, poiché è proprio da questa contraddizione, tra immagine archetipica, pattern comportamentale ereditato da un lato, e dall’altro l’attesa sociale contingente, che si determina una delle principali divaricazioni tra l’Io del soggetto, la sua immagine sociale, e le sue basi istintuali innate.

Quando questa divaricazione diviene insostenibile per l’individuo, si determina una profonda frattura tra il Sé e l’Io del soggetto, che spesso sfocia nella psicopatologia. La psicopatologia a cui assistiamo oggi, infatti, dal punto di vista biopsicosociale, è una psicopatologia che poggia su basi profondamente differenti da quelle degli anni passati. I sintomi prevalenti sono differenti, le sindromi prevalenti sono diverse e i tratti di personalità prevalenti sono altri. Dalle isterie di due secoli fa, si è passati alle nevrosi ossessive, da queste alle depressioni e poi agli attacchi di panico di fine secolo scorso, sino alle forme più compulsive del sintomo di questi ultimi anni: ludopatie, disturbi del comportamento alimentare, cyber-sex, dipendenze patologiche, dipendenze affettive, workaholism.

Si tratta di patologie che, secondo alcuni psicoanalisti, hanno anche motivazioni rintracciabili nel collettivo. Si assiste difatti a un allentamento nella struttura sociale del freno simbolico dovuto proprio all’imago paterna. Il Padre, è in questo, esattamente la struttura simbolica che funge da freno inibitorio rispetto alle pulsioni istintuali, aggressive, tese al godimento puro e immediato. L’archetipo paterno è la norma strutturante del desiderio, l’immagine che interiorizzata regola il Super-Io, la funzione che consente la sublimazione per il godimento sfrenato, il quale solo così arginato potrà mutarsi – appunto – in capacità desiderante. La “funzione paterna” è così del tutto indipendente dalla sessualità del soggetto. A differenza del “maschile”, essa è una conquista sociale e culturale e può essere per questo efficacemente esercitata anche da altri soggetti: istituzioni, madre, insegnanti, politici, religiosi.

A proposito di politica, è interessante notare come anche a questo livello, si assista alla frantumazione dell’ideale dell’arte del governo, dell’immagine “alta” e nobile del politico, dell’uomo chiamato a rappresentare la “polis”. Questo è avvenuto specularmente al degrado totale della figura paterna, che è coincisa con la sua più recente e grottesca mutazione: l’immagine del “papi”. Un padre – il “papi” – che al contrario della sua funzione archetipica, normante, limitante, di freno al godimento, è del tutto “evaporato”, sino a tramutarsi esso stesso nell’emblema di un piacere smisurato e incontinente. Quest’immagine è però l’effetto di una costellazione sociale attuale e non già la sua causa. Sempre restando nell’alveo della politica, anche il ritorno di movimenti populistici, ispirati da forme più primarie e istintuali di comportamento sociale, sembra coincidere con un altro genere di decadimento dell’imago paterna. Sono queste forme di rifiuto di un padre già degenerato, che non hanno difatti la struttura archetipica delle ribellioni al paterno di fine anni ’60 del secolo scorso. Quel paterno, quello delle contestazioni studentesche del ’68, era un padre dispotico, normativo, che ha richiesto una crescita da parte del figlio, chiamato a una forma di superamento del padre stesso attraverso forme di lotta – sovente ideologizzate – ma pur sempre dense di contenuti, simbologia, pensiero in contrapposizione frontale al padre autoritario. Crono non fu detronizzato da una ribellione istintuale, ma da figli che avevano acquisito la maturità e il potere per affrontare il padre tiranno ad armi pari.

I rigurgiti populisti attuali, invece, non passano per un’interiorizzazione del paterno e quindi non ne prevedono il superamento, quanto piuttosto la rinuncia. L’ipertrofia delle consultazioni di massa referendarie – senza peraltro che si siano, almeno in Italia, compiuti i dettami costituzionali di un popolo reso capace di essere autonomo dal punto di vista delle condizioni culturali e dunque di un esercizio del voto consapevole – appaiono come una sorta di resa del potere ai figli. “Potere ai piccoli”: dice scrappy, nipotino di scooby-doo. Non è però l’ascesa un potere che si tramanda, un passaggio di consegne che si compie, ma un mero ribaltamento della logica di responsabilità che da padri inesistenti o inadeguati, si scarica su figli incontentabili e umorali, disabituati alla frustrazione, all’attesa, a reggere il peso formativo dei “no”. Questi figli non intendono ricostruire un’immagine paterna più adeguata, intendono farne a meno.

Si tratta di un rischio psicologico enorme e le psicopatologie contemporanee – tutte giocate sul filo della compulsione – ne sono l’emblema. Il senso del limite, della finitezza, del sacrificio, del differimento del piacere, sono tutte condizioni abolite nelle attuali forme del disagio mentale. Come può, infatti, svilupparsi il desiderio senza frustrazione? E come può svilupparsi il pensiero creativo senza desiderio?

Se un padre autoritario può essere abbattuto, proprio perché la sua autorità ha consentito al figlio di entrare e accedere alla dimensione del desiderio – viceversa un padre istintuale e dedito solo al piacere e al proprio godimento non ha probabilmente educato figli capaci di effettuare un’opera di ricostruzione, ha allevato una prole regredita allo stato pre-paterno: figli “maschi” che faticano a diventare padri e figlie “femmine” che stentano a divenire donne.

Una società senza padri è come una psiche senza funzione paterna: caotica e infeconda, insicura – perché (de)privata dell’interdizione – e dunque della tutela offerta dal limite. Insicurezza e caos sono una miscela per i fondamentalismi, l’aggressività, i movimenti scomposti di figli che non hanno più certezze.
C’è da dire che ciò che può valere archetipicamente e a livello collettivo, non necessariamente vale per tutti i singoli soggetti di quella collettività. Anzi, è proprio questa consapevolezza che ci lascia la speranza di qualche figlio capace di pensare e costruire un nuovo modello paterno in cui egli stesso possa identificarsi.

Riflessioni psicologiche sul romanzo Stoner di John Williams

La storia narrata da John Williams nel romanzo Stoner (2012) è la biografia di un professore universitario nato nell’ultimo decennio dell’800 e cresciuto in una fattoria insieme a due genitori nati stanchi e vecchi. William Stoner trascorre un’esistenza desolante, gli avvenimenti sono piatti e privi di colpi di scena rocamboleschi, ma la sfera di significati con cui costruisce il suo sé, il rapporto con gli altri e infine le aspettative, i desideri e le aspirazioni dall’infanzia fino alla maturità sono interessanti e rilevanti.

Con una narrazione scorrevole e pulita, intrisa di tatto e linearità, l’autore coglie abilmente i vissuti e facilita, nei lettori più attenti, la condivisione affettiva e la riflessione sui circoli viziosi che rafforzano le modalità disfunzionali di spiegarsi gli eventi che sfociano, talvolta, in pericolose profezie auto-avveranti.

 

Una famiglia stanca e distanziante

Stoner nasce e cresce in una famiglia predisposta allo sforzo, senza alcun interesse per il calore e le relazioni affettive. La comunicazione è assente e talvolta scarna, e il silenzio diventa l’unico suono assordante che pervade i momenti di contatto e di separazione tra i membri. La coppia genitoriale appare brutta, trascurata, stanca e rassegnata agli occhi del piccolo protagonista che non possiede gli strumenti adeguati per prepararsi ad un mondo sconosciuto, progressivamente scolorito e raffreddato dall’anaffettività. Fin da bambino, William carica sulle spalle il peso delle aspettative famigliari mirate a trasformarlo in un adulto precoce, un bracciante dedito ai campi e contemporaneamente uno studente ligio al dovere, escludendo così il gioco e le relazioni sociali. In sostanza anche Stoner nasce già vecchio, a 17 anni ha le spalle curve per la stanchezza fisica, un riflesso della fatica psicologica incitata e tramandata dai genitori come l’unico modus vivendi possibile.

[blockquote style=”1″]Erano una famiglia solitaria – e lui era l’unico figlio – tenuta insieme dalla necessità della fatica. La sera sedevano tutti e tre nella piccola cucina illuminata da un’unica lampada al cherosene a guardare la fiamma gialla: spesso, durante quell’oretta di pausa tra la cena e il letto, l’unico suono era quello di un corpo che si muoveva con fatica su una sedia, o il leggero scricchiolio di una chiave che cedeva un poco sotto il peso degli anni. [/blockquote](Williams, 2012, p.10)

Le parole si spendono solo in occasioni importanti, tra queste l’ingresso di William all’università di Agraria. Ancora una volta è la coppia genitoriale a stabilire il futuro del figlio optando per una facoltà finalizzata ad approfondire l’unica passione che sono stati in grado di coltivare. Nella prima transizione significativa che sancisce l’uscita del figlio dalla casa d’origine il discorso è orientato sull’importanza dello studio nel futuro lavorativo, l’accento è posto sull’autosufficienza a cui il figlio dovrà ricorrere a spada tratta, il congedo è arido e distaccato. In quello che dovrebbe essere un evento straordinario dove la felicità per l’inizio della carriera scolastica è solitamente mista all’infelicità della separazione, il tono affettivo è apatico e monocorde. Non stupisce l’indifferenza con cui Stoner affronta per la prima volta lo studio della disciplina, accontentandosi di voti appena sufficienti: probabilmente è in quel momento che inizia a ribellarsi dal volere dei genitori anche se in modi passivi e silenziosi.

La separazione-individuazione dalla famiglia d’origine si realizza in due momenti distinti: quando il protagonista rinuncia all’agraria per dedicarsi con fervente passione alla letteratura e nel momento in cui decide di proseguire gli studi. Questa volta la famiglia non è preparata al distacco definitivo dal figlio avvertito con un dolore stanco, impotente, trattenuto e vergognato. Il padre si oppone con poca convinzione ed energia, terminando con una frase di circostanza pronunciata con rassegnazione e impotenza, mentre la madre prorompe in una reazione di tristezza incasellata dallo sforzo ed energicamente compressa dalla vergogna di chi non è mai stato abituato ad esternare le emozioni. Lo stupore del protagonista davanti all’unico momento di commozione e opposizione è espresso differentemente nella solitudine e in pubblico: di fronte alla madre, Stoner evita il contatto emotivo allontanandosi con fatica, mentre da solo rimane immobile ad osservare il vuoto nel buio, come se in qualche modo non potesse più allontanare la meraviglia di aver colto una sfumatura emotiva mai osservata in tutti quegli anni di silenzio assordante.

Notevole è il ritorno per le vacanze, nel quale il protagonista si accorge di essere stato sostituito da un bracciante che si fa carico della gran parte del lavoro senza lamentarsi. In quel momento in cui l’equilibrio famigliare si è ricostituito con l’ingresso di un nuovo arrivato, il protagonista sembra accolto come un estraneo i cui progressi sono complimentati con felicità priva di risentimento. L’estraneità è avvertita in prima istanza da Stoner ma è in qualche modo l’estraneità con cui la famiglia guarda l’unico figlio che si ribella ai desideri famigliari, si slaccia e si riscatta costruendo un’altra parte di sé, senza fare rumore. Il sentimento di perdita nasce nel momento in cui William sente il distacco dalle figure di attaccamento e da questo sentimento parte la necessità impellente di accrescere l’amore nei loro confronti, come se la distanza accentuasse la sensazione di inamabilità da correggere con uno sforzo ad amare di più. Da ciò si deduce la tendenza illusoria di poter controllare gli eventi e di modificarli con le proprie forze anche quando questi esulano dalla responsabilità personale.

Stoner è in qualche modo consapevole dell’inutilità di consacrarsi al lavoro dei campi specialmente quando, alla morte dei genitori, si ritrova a paragonare la terra che li ha seppelliti con la terra alla quale hanno dedicato l’intera vita. La terra diventa il simbolo della logorante ossessione per il lavoro che ha spezzato comunque quelle esistenze nelle quali la compulsione allo sforzo sopportata con rassegnazione tacita ed austera costruisce il senso degli eventi e, al tempo stesso, distrugge la possibilità di essere altro e di coltivare, quindi, le parti di sé creative e costruttive. In quelle parti rientra anche l’amore sano verso il figlio soppresso dal silenzio e dal distacco, privo di carezze e di contatto, che il protagonista imprimerà nella memoria condizionando così le scelte nei legami futuri. A parte ciò i genitori non hanno nessuna colpa, dal momento che hanno trasmesso al figlio l’unico tipo di amore che conoscevano e di cui, a loro volta, si sono nutriti nei loro precedenti legami primari. In questo senso il circolo vizioso tende a perpetrarsi senza consapevolezza di generazione in generazione, costruendo situazioni disfunzionali che si ripetono nel tempo e generano sofferenze continue.

 

Edith, Grace e Katherine: l’amore nelle sue forme

Il primo innamoramento di Stoner è rivolto ad una ragazza dell’alta società, di bell’aspetto e apparentemente molto diversa. Edith è frivola, acida, aggressiva, sadica, una donna a dir poco insopportabile che rifiuta il contatto fisico ed emotivo e sabota ogni tentativo di avvicinamento tra Stoner e la bambina, Grace. L’interesse del protagonista si posa su una donna che dimostra, fin dai primi incontri, un distacco e una mancanza di interesse che rasentano l’indignazione e il rispetto. Edith desidera la popolarità e gli ammiratori, non considera Stoner come un partner di vita, ma si affretta a sposarlo quando riceve l’approvazione dei genitori.

In pubblico recita la parte della moglie devota, perfetta e premurosa, in privato è svilente, distanziante e isterica. La doppia faccia stordisce William che reagisce adattandosi passivamente. A parte qualche sporadico impeto di passione meccanica e improvvisa, il letto coniugale è permeato da una distesa di ghiaccio impermeabile. Il fallimento matrimoniale avanza già prima che la cerimonia sia compiuta. Stoner non si oppone fin dal principio: capisce al volo che il legame non sarebbe mai diventato soddisfacente, che Edith non è mai stata la donna fantasticata prima di conoscerla, ma continua a sopportare l’infelicità senza sollevare lamentele, in totale solitudine.

A legare i due personaggi è proprio il senso di solitudine che li ha colti fin dai primi legami. Edith è cresciuta in un ambiente diverso, dove ogni manifestazione di rabbia e rancore veniva spazzato sotto il tappeto con cordialità e la coppia genitoriale si preoccupava di mantenere una parvenza di felicità forzatamente cortese, e fronte di ciò, non stupisce la disorganizzazione psichica manifestata in vari momenti del libro: ride istericamente, piange, diventa irascibile, si distanzia e si avvicina con veemenza, è gelosa, possessiva, svalutante. Il vuoto prende forma così nell’estrema variabilità degli affetti che si susseguono come un vulcano in eruzione. A questo proposito Edith sembra per l’esattezza un vulcano pronto ad esplodere in modalità improvvise e imprevedibili, al contrario di Stoner che si struttura come un deserto lineare e faticoso, per poi prorompere anche lui in maniera caotica e scissa nell’ultima parte. Sono pochi i momenti in cui il protagonista esprime la rabbia e la delusione che sembrano oscurate dall’impotenza di fronte alla realtà. Il progressivo distacco dalla figlia ne è un esempio lampante: inizialmente Stoner assume una funzione materna nei confronti di Grace, ignorata totalmente dalla madre, ma l’alleanza padre-figlia diventa scomoda per Edith che distrugge ogni tentativo di riavvicinamento tra i due. Edith è feroce e al tempo stesso seduttiva con Grace che si ritrova a subire repentini attacchi d’ira e di cura, inaspettati, lancinanti e invadenti: la sgrida con energia e poi le compra i vestiti e organizza le feste in suo onore per renderla visibile agli altri bambini. In realtà il suo atteggiamento è finalizzato a richiedere le attenzioni del marito che, rassegnato dai rifiuti e dall’atmosfera famigliare desolante, investe sulla figlia l’amore che non ha mai ricevuto. Stoner è tenerissimo con Grace, gioca con lei quando l’atmosfera è serena, ma non riesce a proteggerla quando si intromette la moglie a cui si sottomette con rassegnazione.

L’amore vero e sufficientemente sano arriva finalmente con Katherine e Stoner lo riconosce immediatamente per le sensazioni suscitate nello stare insieme. La rappresentazione di sé inamabile è tale che William non riconosce quanto possa essere desiderabile agli occhi dell’esterno e in particolare di una giovane, carina e promettente studentessa sulla strada per spiccare il volo. A partire dall’aspetto fisico fino a toccare i tratti caratteriali, Katherine è il contrario di Edith: è spontanea, naturalmente bella, allegra, e ama in modo sano. Stoner se ne accorge perché se ne innamora con lentezza e gradualità, scopre lati di lei che all’inizio non aveva notato, ne condivide gli interessi e percepisce un affetto ricambiato e costruttivo. Così si tramuta anche l’idea dell’amore: in gioventù quando non lo aveva ancora conosciuto credeva che fosse un dono per pochi eletti, desiderato ma lontano da sé, per poi considerarlo un processo di conoscenza e disvelamento dell’essere umano, progressivo e dettato dalla volontà, dall’intelligenza, dal cuore (Williams, 2012, p. 226). Qualcosa è cambiato perché mentre all’inizio ha scelto una partner senza consapevolezza dei propri desideri e bisogni, adesso sembra essere cosciente di queste qualità e finalmente vive una storia serena che gli permette di scoprire la vita non più sul lato della pesantezza da patire in silenzio, bensì sulla via della naturale spontaneità. L’individualità è integrata nella corporeità, le persone non sono più senza anima e cuore, ma diventano soggetti dotati di un’individualità impressa nel corpo che abitano.

[blockquote style=”1″]Si accorse che, prima di allora, non aveva mai conosciuto il corpo di un altro; e capì anche che era per quel motivo che, in qualche modo, aveva separato l’io delle persone dal corpo che le conteneva. E infine realizzò, con piena consapevolezza, che non aveva mai conosciuto nessuno con tanta intimità e fiducia, con il calore umano di chi si dona completamente ad un altro.[/blockquote] (Williams, 2012, p. 227)

Le difficoltà non mancano neanche in questo rapporto; in qualità di docente universitario la relazione con Katherine diventa per Lomax, l’acerrimo nemico, il pretesto perfetto per colpirlo alle spalle. Stoner non combatte, non si ribella, soccombe non perché sia privo di interesse verso la ragazza, ma perché non possiede la capacità di riscattarsi: il cambiamento da un tipo di relazione all’altro è troppo repentino per diventare solido e duraturo. Le parti di sé non sono elaborate a sufficienza e ritornare ad essere quello che è sempre stato è un processo immediato. In altre parole dopo aver vissuto un’intera vita sotto il peso dell’impotenza appresa, la perdita è un’aspettativa indelebile, pertanto combattere diventa inutile perché la partita è già persa in partenza. Il declino del protagonista prende l’avvio in due punti principali: il primo è quando abbandona Grace, il secondo, quando lascia Katherine. In entrambi i casi rimane un lutto rassegnato, ma non elaborato, che prende forma dappertutto: la dissociazione separa il corpo dalla mente, suscitandogli reazioni di distacco ed estraneità da sé e si evidenzia attraverso gli atteggiamenti che si susseguono rapidamente e contemporaneamente in maniera disorganizzata, dalla passività disperata all’irascibilità irruenta.

La comprensione e l’accettazione compaiono sporadicamente nel rapporto con Grace che, ormai adolescente, riversa la rabbia sadico-masochistica nutrita per anni e anni verso la coppia genitoriale; dai disturbi alimentari alla gravidanza indesiderata, frutto di uno dei tanti rapporti sessuali promiscui e non protetti per poi sfociare drammaticamente nella dipendenza da alcol, la ragazza presenta il conto al padre rimasto inerme di fronte alla pazzia di una madre che la considerava un’estensione narcisistica dei suoi bisogni. Edith, ossessionata dalla popolarità, realizza in un istante di aver contratto un legame frettoloso e superficiale con un uomo che non ha mai desiderato, e strumentalizza la figlia per colmare il vuoto dei bisogni insoddisfatti. Agli occhi della madre, Grace è un giocattolo da vestire e imbellettare per sfoggiarlo all’esterno e da punire e ignorare quando rivolge le attenzioni al padre che la ama, ma non riesce a proteggerla. Stoner sembra essere consapevole della responsabilità mancata e probabilmente le perdona la gravidanza indesiderata, il sesso facile che ai primi del Novecento costituiva uno scandalo inaudito e inammissibile, e infine la dipendenza dall’alcol che si trascinerà nell’età adulta. Grace e Stoner condividono l’incapacità di autodeterminarsi, evitano di esprimere costruttivamente la rabbia e la delusione che sfociano in reazioni autodistruttive. Il senso di colpa pervade entrambi: Grace sente di aver deluso il padre, e Stoner sente di aver deluso Edith. Nell’ultima fase in cui i coniugi si perdonano e interrompono la lotta, il protagonista avverte un senso di autocritica per non essere stato in grado di cambiare l’atteggiamento della moglie.

[blockquote style=”1″]Se fossi stato più forte, pensava. Se avessi saputo di più. Se avessi potuto comprendere. E alla fine spietato pensò: se l’avessi amata di più [/blockquote](Williams, 2012, pp. 315-316).

Ancora una volta l’amore è percepito come l’antidoto alle situazioni incontrollabili: aggiungendo più dosi, la situazione cambia, o meglio, la persona cambia, e le illusioni di monitorare gli eventi in tal senso diventano pericolose appunto perché l’affetto in sé, sebbene elargito in quantità smisurate, non modifica una personalità. È curioso che tra Katherine ed Edith la scelta si posi sulla donna che gli ha procurato più sofferenza, accantonando l’unica che l’abbia reso felice, seppur per un breve lasso di tempo. Non ci sono molti rimpianti per Katherine, solo un fremito nel tenere in mano il suo libro, ma quando si tratta di stabilire con quale delle due continuare il rapporto, Stoner posa l’attenzione di nuovo su Edith. Non chiede il divorzio nonostante soffra per l’allontanamento dell’altra partner, rimane con la consorte senza esprimere nessuna considerazione e affetto nei suoi riguardi, ad eccezione degli attimi finali in cui la malattia del protagonista peggiora e la moglie, finalmente, inizia ad intenerirsi. È a partire da quel momento che William prova spietatamente il senso di responsabilità per ciò che non è andato per il verso giusto, come se lui solo potesse caricarsi di tutto il peso della coppia.

Probabilmente in quell’ultima fase della vita il protagonista si aggrappa a questo pensiero, lasciando scivolare via il rimpianto di aver condotto una vita misera ed infelice con una donna che avrebbe potuto lasciare fin dalle prime battute di incontro. Stoner sapeva com’era, ma non sapeva perché desiderava proprio lei. Non era Edith in sé, ma la sensazione che le suscitava Edith a risuonargli familiare e quindi ad attirarlo. Forse con Katherine ha trovato il vero se stesso, sperimentando altre sensazioni più costruttive, ma la gamma emotiva era troppo intensa da essere accolta in poco tempo.

Per un uomo che ha vissuto nell’inconsapevolezza di sé, nell’idea che in lui non ci fosse niente di bello da offrire agli altri, reiterata nel tempo dal distacco e dalle denigrazioni esterne, l’avvenimento straordinario è l’incontro con una donna sinceramente interessata e in grado di offrirle il calore e l’affetto di cui necessita: da ciò l’evitamento diventa una strategia naturale, appunto perché quel tipo di amore appare sconosciuto e immeritevole di essere vissuto. In tal senso per lui è stato più facile tornare alle origini, adattarsi passivamente ad una vita desolante invece di invertire la rotta e buttarsi nella novità. Non si può predire l’andamento della storia con Katherine, ma è ormai nota la relazione con Edith, le dinamiche di rottura e mantenimento, pertanto le trasformazioni radicali sono inattese e improbabili. Dopo anni insieme, William è consapevole delle strategie relazionali della moglie e sceglie di sentire quelle sensazioni con lei, di vivere in altre parole, un tipo di vita da cui non riesce a staccarsi, la vita impotente, silenziosa e faticosa che ha respirato fin da piccolo.

 

I significati personali in Stoner

La narrazione presenta alcuni punti che costituiscono il fil rouge nella storia del protagonista. I legami primari di attaccamento improntati su uno stile distanziante e rifiutante, la disposizione allo sforzo nel lavoro dei campi e successivamente nella carriera universitaria, l’autosufficienza compulsiva, il senso di solitudine e l’isolamento dalle relazioni sociali, nonché il senso di sé come inamabile e inadeguato suggerirebbero un’organizzazione di significato personale di tipo depressivo (Guidano, 1992; Reda, 2014).

Nell’ultima parte del romanzo Stoner oscilla tra la rabbia che zampilla improvvisamente con i colleghi, Edith e gli studenti, e la disperazione e l’isolamento ricercato a casa e nello studio. Le attività si alternano tra l’inerzia e la compulsione: alcune scene lo ritraggono in veranda in uno stato di immobilità perenne, altre eccessivamente occupato a ricevere gli studenti, a partecipare attivamente alle riunioni e a correggere i compiti. Questa ambivalenza potrebbe sottolineare una duplice tendenza ad affrontare il sentimento di inamabilità; da una parte con un atteggiamento auto-accusatorio che porta al rallentamento motorio, alla disperazione e alla cessazione delle attività intraprese, dall’altra parte con una disposizione a darsi da fare il più possibile, incrementando i compiti. Questa dicotomia è visibile anche nei momenti in cui il protagonista affronta le discussioni in pubblico, partendo dalla timidezza e goffaggine per finire con la sfrontatezza senza limiti. Oltre a questo, William manifesta in varie occasioni i sintomi dissociativi di fronte agli eventi emotivamente più impattanti; l’incontro con il professor Sloane che, attraverso l’interrogazione orale, è il primo essere umano a dimostrargli considerazione e attenzione e l’amore di Katherine che lo sbilancia da un vissuto di integrazione a non-integrazione di sé, da percepirsi un tutt’uno a un estraneo che si osserva dall’esterno, da vedere i corpi separati dalla mente, a integrati in una sola unità.

Nell’organizzazione depressiva lo scompenso avviene in seguito ad una perdita reale o immaginaria, ipotetica o presente (Guidano, 1992; Reda, 2014). Nel caso di Stoner, ci sono alcuni avvenimenti in grado di scatenare il vissuto di perdita; l’allontanamento dalla figlia e il suo comportamento sregolato in età adulta, la fine della relazione con Katherine e lo scandalo nell’università. In questi casi la disperazione è affrontata silenziosamente e in solitudine e il malessere psicologico prende forma in un corpo che invecchia a vista d’occhio e si ammala velocemente. Il dolore non è elaborato, ma soppresso e trasformato in una malattia che risucchia il protagonista e lo porta lentamente verso la fine.

Il fallimento e l’impotenza si mostrano negli ultimi istanti dove l’esistenza viene esaminata ancora una volta da una prospettiva esterna. A partire dall’amicizia per arrivare al matrimonio, alla relazione con Katherine e infine alla carriera universitaria, permane l’idea di aver condotto una vita mediocre e insoddisfacente, con due amici, uno morto, l’altro pressoché assente, con cui ha intrattenuto dei legami superficiali, una moglie con cui ha intrattenuto un rapporto coniugale passivo, una ragazza che amava ma che non è stato capace di tenersi stretto, e infine una posizione lavorativa poco brillante. Non che questo sia un ritratto della realtà, bensì il personale modo di spiegarsi gli eventi improntato sull’impotenza davanti ad un destino ineluttabile e sul senso di colpa per non aver migliorato ciò che non poteva cambiare, come l’intimità mancata con Edith.

La solitudine invade i momenti di sconforto e tocca l’apice negli ultimi istanti di vita. Non è casuale che il protagonista muoia da solo, anzi, è una decisione che prende con consapevolezza per vivere l’esperienza in assenza degli altri. L’isolamento è una reazione che sottolinea un’aspettativa di incomprensione esterna: in altre parole la solitudine è ricercata non solo per non disturbare gli altri, ma anche perché non ci si aspetta una comprensione empatica (Reda, 2014). D’altronde l’ambiente da cui è circondato è realmente non protettivo e anaffettivo, a tal punto che Edith spende le sue ultime parole in una preoccupazione rivolta alla solitudine che dovrà affrontare, senza preoccuparsi di quello che pensa e sente il marito. Stoner si congeda così dal mondo esterno, solo con un libro qualsiasi che diventa il simbolo dell’unica base sicura alla quale si è sempre aggrappato e che non gli ha mai procurato dolore: la passione per la letteratura.

Le barriere linguistiche nella comunicazione tra figli adolescenti e genitori immigrati

Per la maggior parte dei genitori a volte può essere piuttosto difficile parlare con i figli adolescenti. Ancor di più lo è quando genitori e figli parlano lingue diverse, uno scenario piuttosto comune per un elevato numero di famiglie immigrate negli Stati Uniti.

 

Un recente studio dell’Iowa State University ha evidenziato come questa barriera linguistica può condurre a severe conseguenze negative per quel che concerne l’autocontrollo e i comportamenti aggressivi negli adolescenti. Proprio per questo Schofield, l’autore principale dello studio, sostiene che migliorare la comunicazione tra genitori e figli potrebbe avere importanti implicazioni sociali.

Per giungere a queste conclusioni Schofield e colleghi hanno utilizzato i dati raccolti da alcune osservazioni di interazioni tra madri e figli di origine messicana. Gli autori hanno osservato che nel campione composto da madri e figli che parlavano la stessa lingua la disciplina positiva e la calda genitorialità da parte delle madri portavano ad un aumento dell’autocontrollo e ad una diminuzione dell’aggressività nell’adolescente. Nel campione composto invece da madri e figli che parlavano lingue diverse, gli adolescenti mostravano un minor autocontrollo e una maggiore aggressività.

Un dato molto importante che è emerso dallo studio è che in presenza di questa barriera linguistica la comunicazione quotidiana non risultava un problema. I meccanismi scatenati dalla presenza della differenza linguistica derivavano da conversazioni più complesse, come ad esempio l’esposizione di regole da parte dei genitori o l’esposizione di alcune preoccupazioni da parte degli adolescenti. Schofield ipotizza che questo possa essere dovuto dal fatto che gli adulti danno per scontata la comprensione reciproca che si viene ad instaurare nel corso di una conversazione, processo che dall’altra parte i ragazzi stanno ancora cercando di imparare e capire.

Come fa notare Schofield, i genitori vogliono sempre assicurarsi che i loro figli capiscano il motivo per cui si stanno comportando in un determinato modo, spiegare le loro azioni e vedere se sono stati coerenti e incoerenti, ma là dove c’è una barriera linguistica tutto questo slitta in secondo piano. A lungo andare può accadere che il ragazzo si stanchi di provare ad abbattere l’ostacolo della lingua, abbandonando così la comunicazione con i genitori.

Gli adolescenti, non rivolgendosi più ai genitori iniziano a confidarsi in modo esclusivo con i loro coetanei. Questo non significa che i figli non si sentano amati o che i loro genitori siano cattivi, vi è semplicemente una difficoltà ad affrontare argomenti e questioni complesse.

Ciò che più preoccupa gli studiosi è il fatto che nei casi gli adolescenti siano figli di immigrati che parlano una lingua differente da quella dei genitori, questa disconnessione comunicativa con i genitori diventa uno scenario quotidiano e nella norma.

Per evitare che questo accada è necessario abbattere questa barriera linguistica intrafamiliare. Secondo Schofield questo si potrebbe fare sostenendo i genitori immigrati ad imparare la lingua del paese in cui sono residenti, non che quella dei loro figli – immigrati di seconda generazione-, e sostenere i figli adolescenti ad imparare in misura maggiore la loro lingua madre. Si tratta di un progetto di fondamentale rilevanza in quanto negli Stati Uniti più di 16 milioni di bambini sono figli di almeno un genitore immigrato.

L’autostima e il ruolo degli ideali: cosa ci spinge a superare limiti sempre più ambiziosi

Autostima: Le persone si muovono attraverso molteplici piani ideali, alcuni sono legati alle abitudini concrete (“ideale di andare in palestra due volte la settimana”), altri sono legati a ideali più astratti da realizzare (“diventare una persona sportiva e dinamica”). In generale la percezione di una distanza tra come siamo e come vorremmo essere genera emozioni negative di tristezza, tale per cui siamo portati in qualche modo a minimizzare tale differenza percepita.

 

Introduzione

Alla vigilia delle olimpiadi di Londra del 2012, il marciatore Alex Schwazer fu trovato positivo ad un controllo anti-doping e venne squalificato dalla competizione e condannato a diversi mesi di sospensione dalle gare.
Diverso tempo dopo il marciatore dichiarerà di aver passato un periodo di forte stress emotivo dopo l’oro vinto ai giochi olimpici del 2008, stress che lo avrebbe portato a fare uso di sostanze per non tradire le aspettative e per tenere sempre lo stesso livello di agonismo.
Cosa spinge una persona, (in questo caso un atleta), a ricorrere a mezzi illeciti rischiando la propria carriera, per superare limiti sempre più ambiziosi? Perché nonostante i traguardi raggiunti a volte le persone si spingono oltre e non sono mai soddisfatte delle proprie caratteristiche?

 

L’autostima

In letteratura psicologica per autostima si intende la valutazione, positiva o negativa, che l’individuo da di se stesso. In generale si distingue fra aspetti conoscitivi del sé, il concetto di sé ovvero cosa “sappiamo” di noi stessi, e aspetti valutativi, ovvero l’ autostima, intendendo con questo concetto cosa “proviamo” nei confronti di noi stessi.
Non tutti sono d’accordo con la distinzione tra aspetti valutativi e conoscitivi del sé, ma alcuni autori pensano che tale demarcazione non abbia alcun valore pratico (Shavelson, Hubner, Stanton, 1976).

Al di là degli aspetti legati alla sua definizione, l’autostima è risultata potentemente legata al benessere individuale, all’identità e all’adattamento della persona nei vari contesti di vita (Meleddu, Scalas, 2003).
L’ autostima non è solo legata a delle qualità che il soggetto percepisce di possedere attualmente, ma è costruita attraverso gli ideali e le aspirazioni a cui la persona tende.
Gli esseri umani adulti non si muovono solo sul piano del reale, ma ragionano anche su ipotesi, costruendo mentalmente cosa vorrebbero diventare, come vorrebbero essere o apparire.

 

La definizione di autostima di William James

Questo tipo di cognizioni fanno parte dei domini del sé ideali e sono stati studiati da un filone di ricerche che si rifà alle teorizzazioni di William James (1890). Lo psicologo americano scrisse di un pugile che si vergognava e non era soddisfatto per essere “solo” il secondo pugile al mondo. Questo esempio è emblematico della caratteristica dell’ autostima come istanza costruttiva, ovvero del suo dipendere dalle cognizioni e dagli schemi dell’individuo. La psicologia cognitiva ha descritto le cornici attraverso cui l’individuo dà senso a se stesso e agli eventi.

 

L’autostima secondo i modelli di psicologia cognitiva

In generale i modelli di psicologia cognitiva che risentono dell’influenza della cibernetica presentano il sé come un sistema che si autoregola. Carver e Scheier (1990) si sono concentrati sul modo in cui l’individuo regola le proprie azioni, cercando di minimizzare la distanza tra il suo stato attuale e il suo stato ideale. In pratica l’assunto centrale della teoria è che la gente si muove attraverso mete e monitora il proprio percorso verso di esse, confrontando continuamente la percezione del proprio comportamento rispetto agli standard di riferimento. Quando l’individuo percepisce una discrepanza tra il proprio stato attuale e la meta cerca delle strategie comportamentali per ridurre tale discrepanza.

Le persone si muovono attraverso molteplici piani ideali, alcuni sono legati alle abitudini concrete (“ideale di andare in palestra due volte la settimana”), altri sono legati a ideali più astratti da realizzare (“diventare una persona sportiva e dinamica”). In generale la percezione di una distanza tra come siamo e come vorremmo essere genera emozioni negative di tristezza, tale per cui siamo portati in qualche modo a minimizzare tale differenza percepita. Esistono però due tipi di ideali studiati: gli ideali propriamente intesi, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui tendere e a cui riferirsi, e gli ideali negativi (sé temuti) ovvero situazioni, persone (reali o simboliche), mete e circostanze da cui le persone cercano di distanziarsi e di tenere lontane perché giudicano negativamente.
In generale il senso comune e la letteratura ipotizzano un ruolo negativo degli ideali sull’ autostima, specie se essi sono troppo ambiziosi e irraggiungibili (Marsh, 1993).

In generale si può dire che nonostante il chiaro valore che l’autoregolazione verso le mete ha per la società, poiché spinge l’individuo a migliorarsi e a tendere verso nuovi obiettivi, la rincorsa verso gli ideali ha dei costi individuali in termini di risorse mentali e senso del proprio valore.
A volte la psicologia del senso comune e la traduzione delle intuizioni in risultati misurabili non vanno proprio di pari passo; l’operazionalizzazione delle discrepanze e la misurazione dell’impatto degli ideali sull’ autostima non è stato facile.

Misurare la discrepanza con gli ideali e il loro impatto sull’ autostima si è rivelata un’operazione dotata di diversi problemi metodologici, nonostante il valore euristico che tale impostazione ha (come abbiamo visto nell’esempio del doping e in vari casi di cronaca). Recentemente, un approccio basato su equazioni strutturali con variabili empiricamente pesate (Scalas, Marsh, 2008) è sembrato risolvere i problemi.
Possiamo dire che sicuramente gli ideali hanno un valore psicologicamente pregnante sul sé della persona, ma che questo aspetto sia complicato da numerose variabili come per esempio l’educazione (stili di autoregolazione appresi), l’affettività generale dell’individuo e i suoi valori personali.

Ipocondria: è colpa di Irene se mi sono ammalato – Ritratti

Quando inserisco la chiave nella serratura, noto che la mano mi trema. Tanto che mi sembra di non centrare il bersaglio al primo colpo. Mi ricordo subito di stamattina, al bar. Quando ho afferrato la tazzina, era come se improvvisamente la mano avesse bisogno della mia totale attenzione per metterci la forza necessaria. E poi, portando la tazzina alla bocca, quello stesso tremore.

 

Appena aperta la porta di casa, mi investe la sigla di House of Cards sparata a tutto volume. Passo rapidamente dietro alla poltrona di mio padre, lanciandogli un ‘ciao, tutto a posto?’ a cui lui risponde con un grugnito cordiale ma definitivo. Della serie: ‘prendo volentieri atto che sei rientrato, però sta iniziando proprio ora l’episodio, quindi non rompere le palle’. Mi chiudo nella mia stanza. Mi butto sul letto e chiudo gli occhi. Li riapro dopo pochi secondi, con un’espressione sgomenta, quando una fitta crampiforme alla gamba, all’interno del polpaccio, accende nella mia mente un collegamento evidentissimo. Tremore, più inceppamento della coordinazione, più dolore crampiforme al polpaccio, uguale sclerosi laterale amiotrofica.

Mi alzo dal letto con l’esplosività muscolare di Ben Johnson strafatto di doping e mi siedo alla scrivania, davanti al pc. Non mi sfiora l’idea che basterebbe il gesto atletico istintivo che il mio corpo ha appena compiuto per escludere la malattia che ho paura di covare. In questi casi la mente se ne fotte di considerare i dati a confutazione. Quando abbiamo paura dell’imminenza della morte, tutte le informazioni, per quanto evidenti, che ci stiamo sbagliando, e che in realtà non sta succedendo niente di pericoloso, non le consideriamo proprio. Anzi, se pure ci capita di ascoltare informazioni del genere, magari perché qualcuno ce le fornisce candidamente (“scusa come fa uno che ha la sclerosi laterale amiotrofica a giocare così a calcetto?”), prederle in seria considerazione ci sembra una leggerezza da incoscienti. Insomma, quando abbiamo paura di morire se ne fa affanculo Popper e tutto il suo approccio falsificazionista. Anche perché la paura, spessissimo, non è esattamente quella di avere una malattia mortale, ma che quella malattia mortale stia iniziando, e se prendiamo sotto gamba i primi, sfumatissimi segnali vuol dire che ci condanniamo da soli a morte.

L’ipocondria non è solo questione di paura della morte. E’ anche paura di aver perso l’occasione di salvare la vita a noi stessi. Paura non solo di morire, ma di morire come dei coglioni superficiali.

Un’altra cosa. Tutto questo vale ovviamente quando noi abbiamo paura di covare una malattia letale; perché con la paura che hanno gli altri è tutta un’altra storia. In quel caso, anche se tre giorni prima abbiamo passato otto ore nella sala d’attesa di un centro privato di diagnostica per immagini per farci fare la costosissima TAC cranica che porterà alla luce il nostro tumore frontale, ci incazziamo se l’altro, che so, il nostro amico che tentiamo ripetutamente di rassicurare con argomenti logici, continua a cacarsi sotto perché secondo lui il suo tumore è in fase terminale.

Dicevo, mi siedo al pc e digito su google Sclerosi Laterale Amiotrofica. Mentre il pc carica la schermata, il cuore mi martella la gola. Sullo schermo compare una pagina di testo. Inizio a leggere senza alcun ordine frasi a caso. All’inizio i soggetti notano di avere difficoltà mentre camminano o corrono, magari inciampando più spesso…i primi segni della SLA nella mano o nel braccio, notando che semplici compiti come abbottonarsi una camicia, scrivere o girare la chiave in una serratura diventano difficili…notano difficoltà nel parlare… Poi, improvvisamente, è come se qualcuno mi stesse facendo delicatamente calzare una guaina di tessuto caldo. A partire dai piedi, salendo fino alle ginocchia, e così via. E man mano che mi infilano in questa tuta invisibile di calore, mi sento sempre più calmo. Tanto che riesco a leggere un pezzo del testo dall’inizio: La SLA causa una vasta gamma di disabilità, alla fine viene persa la capacità del cervello di controllare i movimenti volontari ed i pazienti perdono la forza e la capacità di muovere le braccia, le gambe e il corpo. Quando i muscoli nel diaframma e nella parete toracica non funzionano più, i pazienti con SLA non possono respirare senza il supporto di una macchina.

Quando arrivo alla fine sono completamente rilassato. Non ho più paura. Perché non sono più logorato dal dubbio. Ora ho la certezza di avere la SLA. E questa certezza mi porta un sollievo paradossale. Ora so che devo solo prepararmi ad essere attaccato a una macchina per respirare. Però quasi mi congratulerei con me stesso per essermene accorto così presto.

Scrivo un whatsup a Irene. “Perché ora non ci sei?”. Lo cancello. Lo riscrivo e lo invio. Mi aspetto che non risponda. Infatti non risponde.

Non mi sfiora nemmeno per un attimo, nemmeno marginalmente, la consapevolezza che questo messaggio è il punto finale della parabola emotiva che ho percorso. E questo punto finale – chiedere ad Irene attenzione, rassicurazione, amore (purtroppo, nell’unico modo in cui so farlo, rispondendo, negativamente, al suo posto) – coincide col punto inziale di quella parabola. Bene o male, il mio attacco di ipocondria inizia e finisce con Irene. Nel senso che non mi sarei mai ammalato di SLA se Irene non avesse pronunciato quella frase parlando del suo capo – “lui non é come te, lui dedica la vita ad aiutare le persone”; se questo non mi avesse fatto venire un dubbio atroce su se e quanto Irene mi ami; se questo dubbio non ne avesse amplificato un altro, di dubbio, ancora più profondo, radicato – non sono più abbastanza per lei, forse non lo sono mai stato -; se non avessi pensato quanto poco serva perché qualcuno sia meglio di me.

Non mi sarei mai ammalato di SLA se avessi capito in tempo tutte queste cose, e non fossi stato vittima della nostra consueta cecitá su noi stessi.

 

 

 

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L’intervento psicologico in Pronto Soccorso potrebbe ridurre la violenza giovanile

Una nuova ricerca realizzata presso il Michigan Youth Violence Prevention Center, suggerisce che una singola seduta di consulto psicologico della durata di 30 minuti, realizzata durante una visita di Pronto Soccorso, possa ridurre i comportamenti violenti futuri di giovani adolescenti a rischio.

 

L’attuale studio riporta uno dei sei interventi testati nei quartieri di riferimento per diminuire la violenza giovanile.

I ricercatori hanno scoperto che il breve intervento psicologico (Brief Intervention), realizzato da un terapeuta in un setting strutturato, è stato efficace nel ridurre le aggressioni violente nei partecipanti nei due mesi successivi al periodo di studio.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Academic Emergency Medicine, ha visto la partecipazione di 409 giovani provenienti da due quartieri ad alto rischio a Flint, nel Michigan. Giovani uomini e giovani donne tra i 14 e 20 anni, che tra l’Ottobre 2011 e Marzo 2015, avevano utilizzato il Dipartimento di Emergenza Hurley Medical Center in seguito ad episodi di violenza in cui erano rimasti coinvolti.

I partecipanti di un quartiere hanno poi ricevuto l’intervento di counseling, di 30 minuti, mentre i partecipanti dell’altro quartiere ricevevano solo le cure mediche tradizionali.

L’intervento di consulenza era focalizzato sul rinforzo degli obiettivi personali, lo svolgimento di esercizi progettati per esplorare i benefici derivanti dall’evitamento di comportamenti violenti, oppure era volto a sviluppare nuove competenze nella gestione della rabbia e dei conflitti. Infine lavorare sulle strategie per rendere duraturi i nuovi cambiamenti comportamentali.

Questo tipo di approccio a brevissimo termine si è mostrato particolarmente funzionale con gli adolescenti, particolarmente riluttanti ad affrontare qualsiasi percorso preventivo o riabilitativo della propria condizione.

P. Carter, principale autore dello studio, sottolinea che:

Episodi di violenza rappresentano, da oltre dieci anni, la principale causa di morte per la popolazione giovanile di più basso status sociale. I dipartimenti di emergenza rappresentano un punto di contatto fondamentale con questi ragazzi, e da qui poter effettuare un primo intervento a scopo preventivo e rieducativo.

Dallo studio è stato rilevato che, dopo due mesi dalla visita, i partecipanti che avevano ricevuto la consulenza hanno riportato un livello di comportamenti violenti del 10% più basso, rispetto al gruppo di controllo che non aveva ricevuto l’intervento psicologico.

Conclude Carter:

Molti giovani delle aree urbane, spesso non frequentano regolarmente la scuola o non ricevono regolari cure primarie, i dipartimenti di emergenza rappresentano un luogo importante in cui è possibile interagire con loro e affrontare le questioni problematiche presenti nelle loro vite, dalla violenza, all’alcol o droga

 

 

L’arte di aiutare gli altri: il modello di Carkhuff

Il modello di Carkhuff offre una base per comprendere e gestire le relazioni umane come tali. In particolare, permette di forzare le relazioni, attraverso una sistematica formazione e può diventare una relazione d’aiuto, che consiste in processi che comportano la crescita di una persona o di entrambe le persone coinvolte per mezzo del loro relazionarsi e delle risorse che da ciò ne possono scaturire.

Grazia Martina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Il modello di Carkhuff: introduzione

[blockquote style=”1″]Tutti noi, nessuno escluso, siamo nati con le potenzialità per crescere. Se impariamo a mettere in pratica questo potenziale, vivremo una vita d’intensità e di pienezza indicibili. Riusciremo a sviluppare delle risposte di crescita che ci permetteranno di andare ovunque e di fare qualsiasi cosa.[…] Crescere è la nostra vera ragione di vita. I processi umani rappresentano il veicolo della nostra crescita. Noi, come esseri umani, siamo il prodotto dei nostri processi. In effetti, siamo umani solo se siamo in grado di gestire i processi umani. E alla fine, o moriremo crescendo, oppure moriremo condizionati ed impotenti, profughi e senza casa nel nostro stesso mondo.[/blockquote]

Allievo di Rogers, psicoterapeuta, è considerato il più grande esperto internazionale di counseling e relazione d’aiuto. Il modello di Carkhuff integra le feconde intuizioni della Scuola Rogersiana con gli approcci di tipo cognitivo comportamentale, in un’esposizione semplice, piana e rigorosa, che chiarisce ed approfondisce le abilità fondamentali del processo di aiuto: prestare attenzione, rispondere, personalizzare, iniziare.

 

L’influenza di Rogers al modello di Carkhuff

Migliorare i processi terapeutici è stata l’ossessione di Carkhuff, e in questo sforzo ha seguito Rogers: migliorare i processi terapeutici significava innanzitutto migliorare i processi interpersonali nella terapia o nel processo d’aiuto. Potremmo dire che Rogers è più filosofo, mentre Carkhuff è più pragmatico e più concentrato sui dettagli delle cose. Ciò che a lui interessa prioritariamente sono gli aspetti tecnici legati all’efficacia della relazione di aiuto (professionale e non professionale) e l’efficacia dei metodi formativi (o addestramento) indispensabili per l’acquisizione “meccanica” di questa particolare competenza umana. Migliorare i processi terapeutici significava innanzitutto migliorare i processi interpersonali nella terapia o nel processo di aiuto.

Rogers aveva individuato una triade di atteggiamenti personali che lui riteneva condizioni necessarie e sufficienti perché i processi interpersonali si dispieghino in senso costruttivo e pertanto l’aiuto si realizzi.

Il primo atteggiamento è quello di genuinità o spontaneità dell’operatore di aiuto. Nel processo di aiuto, la genuinità dell’operatore si evidenzia nell’essere sempre se stesso, sempre in collegamento con i propri sentimenti e con ciò che nel rapporto si sta svolgendo dentro di lui, senza sentire la necessità di negarlo o di deformarlo. La genuinità implica la congruenza fra i livelli psicologici (fra ciò che sente, ciò che pensa, ciò che si fa e ciò che si è).
Data la premessa che l’operatore sia un essere psicologicamente costruttivo, la genuinità è, per Rogers, la condizione base dell’aiuto, sulla quale vanno ad appoggiare tutte le altre.
Senza genuinità, l’helper ( ovvero chi aiuta) è reso da se stesso inefficace prima ancora di iniziare ad operare.

La seconda disposizione umana è ciò che Rogers chiama accettazione incondizionata o considerazione positiva incondizionata. La persona è accettata indipendentemente da ciò che pensa, fa, o dice, solo per quello che è e per la sua motivazione a cambiare.
L’atteggiamento di accettazione incondizionata si riflette nella capacità dell’helper di interagire senza dare giudizi morali né di riprovazione né di approvazione. Il processo di aiuto è un’opportunità che si offre alla persona per prendere piena consapevolezza di comportamenti o modi di essere che possono presentarsi come moralmente riprovevoli, anzi che spesso lo sono, perché è anche per questo che l’aiuto viene chiesto. Il processo di aiuto deve servire a rinforzare questa presa di coscienza morale della persona e la disponibilità a cambiare.
Il poter trovare un interlocutore non giudicante e affettuoso è per Rogers la condizione essenziale per lo sviluppo di una piena maturità della persona.

Il terzo atteggiamento personale consiste nella comprensione empatica. Mentre le prime due disposizioni costituiscono il terreno di base su cui si costruisce il rapporto con l’altra persona, quest’ultima disposizione è più fine e interviene quando già il rapporto esprime i suoi contenuti e la sua dinamica particolare. La comprensione empatica riguarda appunto la capacità dell’helper di cogliere accuratamente la situazione personale di colui che gli sta di fronte: da ciò che dice e da ciò che è. La comprensione accurata dell’altro dovrebbe prodursi con un insieme di sentimento (coinvolgimento affettivo) e di intelligenza percettiva.

Queste tre disposizioni personali hanno la caratteristica di essere di tipo “passivo”. Un helper capace di autenticità, di accettazione completa, di empatia accurata è un operatore che ha sviluppato una piena competenza responsiva, una capacità cioè di accogliere la persona dell’altro, creare un’ecologia relazionale, un “clima” o “un’atmosfera” dentro la quale la persona si sente accettata e ben protetta.

 

Il modello di Carkhuff

Il modello di Carkhuff offre una base per comprendere e gestire le relazioni umane come tali. In particolare, permette di forzare le relazioni, attraverso una sistematica formazione e può diventare una relazione d’aiuto, che consiste in processi che comportano la crescita di una persona o di entrambe le persone coinvolte per mezzo del loro relazionarsi e delle risorse che da ciò ne possono scaturire.

Nel contesto della relazione d’aiuto, è possibile individuare una linea di “ specializzazione progressiva” che parte dalle relazioni spontanee nella vita quotidiana per arrivare a forme d’aiuto via via più complesse, che si definiscono, a seconda del loro grado di strutturazione o di profondità, come counseling e psicoterapia. Egli riassume il processo d’aiuto nel modello di Carkhuff, come egli stesso riporta, nel seguente modo:
– per cambiare o migliorare, i clienti devono agire in modo diverso da quanto fatto in precedenza: agire per muoversi da dove si trovano a dove vogliono essere;
– per riuscire a fare questo devono capire accuratamente i propri obiettivi e come raggiungerli: capire dove si trovano in rapporto a dove desiderano essere;
– per capire questo devono esplorare il loro mondo in maniera esperienziale: capire dove si trovano in rapporto al loro mondo ed alle persone per loro significative.

I clienti devono poi imparare ad utilizzare il feedback delle loro azioni per riciclare l’intero processo  nella direzione di una più accurata esplorazione e comprensione dei suddetti elementi, perseguendo un’azione sempre più efficace nella direzione dei loro obiettivi.

Carkhuff ha esteso entrambi i punti fondamentali del sistema rogersiano, vale a dire
– l’analisi delle disposizioni personali dell’operatore d’aiuto;
– l’articolazione dell’apparato tecnico metodologico, indispensabile per una relazione d’aiuto efficace.

E’ stato dimostrato che, l’efficacia di una relazione di aiuto si può ricondurre a due fattori generali: il rispondere e l’iniziare. Il fattore rispondere richiede che gli helper sappiano entrare nello schema di riferimento degli “ helpee “ (chi riceve aiuto) e sappiano comunicare con grande accuratezza, una loro reale comprensione delle esperienze a loro volta comunicate dagli helpee.

Il fattore rispondere rileva l’importanza di dimensioni quali l’empatia o sensibilità; il rispetto o calore umano; concretezza o specificità dell’helper nel mettere a fuoco il vissuto degli helpee e altre abilità ancora. L’abilità dell’helper di rispondere facilita, da parte degli helpee, l’esplorazione del loro vissuto e lo sviluppo dell’insight.

In seguito, il modello della relazione d’aiuto è stato completato con l’aggiunta delle cosiddette abilità di pre-aiuto o di prestare attenzione. Prestare attenzione agli helpee facilita il loro coinvolgimento nel processo d’aiuto. Attraverso l’azione, gli helpee producono e ricevono un feedback: quest’informazione retroattiva che scaturisce dall’azione, mette in moto un processo in cui le fasi dell’aiuto si riattivano nuovamente, riciclandosi.

L’obiettivo finale dell’aiuto è quello d’impegnare gli helpee in processi che portano alla crescita e allo sviluppo delle loro dimensioni umane. L’oggetto considerato non sono più le attitudini generali dell’helper quanto piuttosto le specifiche abilità che devono essere sequenzialmente messe in atto nel processo di aiuto.

Possiamo concludere l’ analisi del modello di Carkhuff definendolo come:

– un modello bipolare: descrive contemporaneamente la dinamica dei processi intrapersonali e la dinamica interpersonale. Ciascuna delle abilità o competenze dell’helper (prestare attenzione; rispondere; personalizzare; iniziare) è collegata ad una fase di maturazione o sviluppo dell’helper (essere coinvolto e motivato al processo di aiuto; esplorare la propria situazione verbalizzando ed esponendo all’helper il “materiale” attorno al quale verte la difficoltà; comprendere il proprio ruolo, i deficit, le risorse, le prospettive, gli obiettivi; agire, nel senso di organizzare delle azioni concrete per la soluzione del problema, raggiungere qualche obiettivo). Su questa “corrispondenza” fra abilità dell’helper ed effetto di attivazione che si produce nell’helpee, Carkhuff insiste particolarmente.

– un modello sequenziale: la proposta dell’ autore descrive una linea progressiva di abilità che va da quelle relativamente più semplici e basilari a quelle via via più complesse. Il modello di Carkhuff indica una traccia di training ma anche una scala di misurazione del grado di competenza interpersonale raggiunto dall’operatore di aiuto, scandisce le priorità e l’ordine con cui tali abilità vanno via via introdotte nel processo di aiuto.

– un modello bifasico: evidenzia una fase che è possibile chiamare “discendente” (o interiorizzante) e una fase ascendente (o esteriorizzante). Le operazioni tecniche delle prime due fasi del modello, il rispondere e il personalizzare portano la persona a immergersi in se stessa, a prendere conoscenza di sé, oltreché del suo “problema”; è un lavoro di riordino mentale ed emotivo gradatamente sempre più profondo affinché la persona possa scavare dentro di sé le fondamenta di un agire solido e correttamente direzionato. Le operazioni della fase finale, l’iniziare, è invece uno stimolo per risalire dallo psichismo verso un comportamento esterno, per passare dal momento di preparazione psicologica all’azione e al vivere veri e propri.
La tecnica discendente del rispondere è la tecnica rogersiana della riformulazione.
La tecnica ascendente dell’iniziare costituisce invece la parte originale del suo modello.
La tecnica del personalizzare è stata introdotta nel modello a metà fra il rispondere e l’iniziare, proprio per costituire un cuscinetto di raccordo fra questi due punti apparentemente inconciliabili.
Il modello è sincretico, cioè composto mediante integrazione di vari orientamenti di aiuto, alcuni anche fra loro tradizionalmente in antitesi.

I test cognitivi non sono sempre predittivi delle capacità di guida nei pazienti con demenza

Nuovi studi affermano che non esiste un unico test cognitivo che può predire se una persona con demenza sia in grado di guidare. I risultati della revisione degli studi pubblicati in tale ambito indicano che le batterie di test che indagano molte abilità cognitive (batterie globali) invece di una sola possono risultare più utili per valutare le capacità di guida nei pazienti con demenza.

 

Le persone con demenza hanno fino a otto volte in più la probabilità di essere vittime di un incidente d’auto rispetto ad altri anziani. Ma nelle prime fasi della malattia, spesso le persone con una diagnosi di demenza possono guidare in modo sicuro, come scrive il gruppo di studio nel “Journal of The American Geriatrics Society”.

Avere una diagnosi di demenza non significa che l’individuo dovrebbe rinunciare alla patente di guida, tuttavia a causa della natura progressiva della malattia, ciò avviene inevitabilmente nelle fasi intermedie della malattia. Le loro capacità di guida dovrebbero essere costantemente monitorate ed esaminate.

La demenza è una condizione incurabile che può essere causata da varie malattie, la più comune è la malattia di Alzheimer. La demenza colpisce la memoria ed altre funzioni cognitive necessarie per la guida.
Per determinare quanto bene i test cognitivi predicano le capacità di guida, i ricercatori hanno analizzato i dati provenienti da 28 studi esaminando i test cognitivi e le prestazioni di guida in pazienti con demenza.
Alcuni studi hanno utilizzato sia test su strada che test cognitivi per determinare la capacità di guida.
I test cognitivi utilizzati valutavano l’attenzione e la concentrazione, la memoria, il linguaggio, lo stato mentale generale, le funzioni esecutive, il ragionamento e il problem-solving.

Nel complesso, il legame tra test di una singola funzione cognitiva e capacità di guida era inconsistente: i singoli test cognitivi hanno predetto la capacità di guida delle persone con demenza solo per il 46 per cento dei casi.
Le persone con prestazioni deficitarie ai test delle funzioni esecutive, di attenzione e di concentrazione avevano prestazioni deficitarie alla guida per poco più della metà del tempo.
Le altre abilità cognitive sono state collegate ad una guida sicura per meno della metà del tempo, tra cui memoria e linguaggio risultavano le meno rilevanti per la capacità di guida.

Al contrario, in sei studi sono stati utilizzati test globali per misurare le capacità cognitive. Tali batterie di test prevedevano in modo costante e affidabile se una persona era in grado di guidare in modo sicuro.
La mancanza di orientamento (per esempio guidare sul lato sbagliato della strada o l’incapacità di mantenere la posizione di corsia) è un indicatore chiave per determinare se la guida si è deteriorata.
Ad oggi, oltre alle prove su strada, non vi è consenso sui test da utilizzare per la valutazione. I ricercatori stanno lavorando per sviluppare una batteria di test adeguata e condivisa, anche perché con l’invecchiamento della popolazione, avremo un numero crescente di persone con deficit cognitivi.

“Questi giovani sono tutti uguali!”. Conformismo adolescenziale e bisogno di autonomia

L’adesione alle norme di un gruppo si manifesta in modo plateale nel fenomeno del conformismo: ragazzi di una medesima compagnia adottano abiti, acconciature, modi di fare simili, tali da accentuare una sorta di identità collettiva.

Chiara Carlucci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

L’adolescenza come fase della vita

L’ adolescenza è quel periodo di transizione tra la fanciullezza e l’età adulta, e si configura come un percorso segnato da una serie di cambiamenti di vario tipo.
Indiscutibilmente a questa età si assiste a mutamenti di tipo fisico, in quanto è proprio in adolescenza che si manifesta la pubertà. Ma è pur vero che a questi cambiamenti corporei si accompagnano rilevanti modificazioni dell’assetto sociale e personale.

È opinione comune che a questa età il rapporto figli – genitori divenga difficile. Sicuramente tra i ragazzi adolescenti e i loro genitori si inizia a far sentire il cosiddetto “gap generazionale”, ossia una discontinuità nel modo di comportarsi. Tale discontinuità riguarda non solo il ruolo genitoriale rivestito nel presente, ma anche un confronto in merito al passato, quando i genitori erano a loro volta adolescenti. Ragazzi e ragazze vestono in modo diverso rispetto ai propri genitori, parlano un linguaggio differente con argomenti diversi.

 

L’appartenenza ai gruppi durante l’adolescenza

Queste diversità, i gusti e le scelte quotidiane dei ragazzi e delle ragazze, rendono manifesto il bisogno di autonomia dalla famiglia, e nel contempo danno visibilità all’appartenenza al gruppo di coetanei.
Man mano che l’adolescente si allontana dalla famiglia ricerca sempre più attivamente la relazione con i pari.
Inizialmente, durante la preadolescenza, vi sono delle piccole cricche, formate da gruppi di soli ragazzi o sole ragazze.
Successivamente questi gruppi omogenei per sesso e molto esclusivi divengono più ampi, delle vere e proprie compagnie, comprendendo membri di sesso diverso. Appartenere a un gruppo di pari rappresenta il soddisfacimento di un bisogno di indipendenza, e pare un obiettivo che l’adolescente considera irrinunciabile; ma entrare a far parte di un gruppo non è semplice. Anche il gruppo adolescenziale ha delle norme, la cui accettazione più o meno consapevole determina non solo l’appartenenza, ma anche il grado di soddisfazione personale che se ne ricava e il modo in cui si viene percepiti dall’altro (Berti, Bombi, 2005).

 

Il conformismo ai gruppi di appartenenza

L’adesione alle norme di un gruppo si manifesta in modo plateale nel fenomeno del “ conformismo ”: ragazzi di una medesima compagnia adottano abiti, acconciature, modi di fare simili, tali da accentuare una sorta di identità collettiva.

Si tratta di un fenomeno che spesso suscita allarme negli adulti che stanno a stretto contatto con l’adolescente. I genitori temono che i propri figli siano disposti a cedere a qualsiasi influenza, e che il gruppo proponga inevitabilmente comportamenti antisociali.
I primi studi che hanno esaminato il conformismo, negli anni ’50, hanno posto l’accento sulla funzione socializzante e adattiva che il gruppo assume di contro all’inadeguatezza della famiglia a svolgere tale compito.
Tali ricerche non hanno fatto altro che enfatizzare gli aspetti negativi del conformismo e dell’appartenenza al gruppo: l’adolescente è rappresentato come un soggetto passivo, il cui processo di emancipazione dalla famiglia si realizza secondo modalità regressive di fusione con il gruppo (Coleman, 1983).

Una ricerca di Amerio ha messo in discussione tale visione, ponendo l’accento sul gruppo percepito come “scambio” e luogo di interazioni sociali complesse. Per quest’autore lo “stare insieme” degli adolescenti è molto importante sul piano affettivo, cognitivo e sociale.
Il ragazzo che rispetta le norme del proprio gruppo di appartenenza non è passivo, piuttosto è un soggetto attivo, il quale costruisce le proprie competenze in un contesto di interazione sociale (Amerio, cit. in Trentini, 1987).

 

La devianza giovanile

Una serie di ricerche che sono state condotte negli anni a seguire ha messo in luce che le preoccupazioni dei genitori in merito al conformismo e al favoritismo adolescenziale riguardavano il fatto che potesse verificarsi, all’interno del proprio gruppo di appartenenza, una tendenza all’omologarsi a delle norme di gruppo un po’ trasgressive, quali il fumare, il bere, il drogarsi (Darcy, Deanna, Vivek, 2000).
Queste considerazioni hanno stimolato ulteriori ricerche che hanno coinvolto un gran numero di ragazzi adolescenti. Essi sono stati intervistati in merito alle norme e ai comportamenti condivisi all’interno del proprio gruppo di pari.

Analizzando le varie risposte sembrerebbe che alcuni comportamenti trasgressivi, quali il fumare, il bere una volta ogni tanto, guidare in modo spericolato, erano dai giovani considerati tollerabili ma, di contro, il rifiuto delle droghe pesanti era una regola importantissima del gruppo.
Queste considerazioni pongono l’accento su un ulteriore fenomeno, ossia la cosiddetta “devianza adolescenziale”.

Bisogna infatti tener presente che l’inizio dell’adolescenza segna un picco nel comportamento antisociale (Coie e Dodge, 1998). L’adolescente, un po’ per moda, un po’ per acquisire visibilità all’interno del proprio gruppo, inizia ad infrangere le regole.
Molto frequenti a questa età sono le assenze ingiustificate a scuola e le fughe da casa. Sovente a queste lievi condotte trasgressive si aggiungono azioni illegali vere e proprie, quali piccoli furti, atti di vandalismo, risse.

Una ricerca condotta da Bonino, Cattelino e Ciairano nel 2003 (cit. in Berti, Bombi, 2005) ha esaminato queste condotte devianti adolescenziali ed ha constatato che raramente questi comportamenti sfocino in condotte delinquenziali, in quanto queste trasgressioni svolgono delle funzioni psicologiche, quali l’affermazione del sé, il desiderio di piacere ai coetanei e di cementare il rapporto con essi attraverso delle condotte oppositive nei confronti degli adulti.
Quindi, anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad un omologarsi al proprio gruppo al fine di sentirsi indipendenti dagli adulti, sebbene la propria compagnia di coetanei proponga delle norme trasgressive.

 

Il decremento del conformismo adolescenziale dopo i 15 anni

Ma è vero che il conformismo adolescenziale raggiunge il suo culmine tra gli 11 e i 15 anni per poi decrescere nella tarda adolescenza, dove diviene importante, agli occhi dei giovani stessi, saper resistere alle pressioni dei coetanei. Dal bisogno selettivo indiscriminato del ragazzo si passa a forme di appartenenza più selettiva, per cui l’adolescente partecipa solo a quelle situazioni sociali che danno sostegno all’immagine sociale di sé cui tende (Bar Yam, 1987).

Infatti il conformismo si ridimensiona notevolmente con il trascorrere degli anni, e una regione di ciò è anche relativa alla perdurante importanza della famiglia che ridimensiona l’influenza del gruppo.

Sembrerebbe infatti che ragazzi e ragazze, quando si tratta di fare il nome delle persone per loro più importanti, nominano tipicamente i genitori o qualche parente stretto. Il gruppo di pari influenza sicuramente i gusti musicali, le mode del momento e la scelta degli amici da frequentare, ma se si tratta di affrontare o ricevere consigli su questioni importanti sono i genitori ad essere consultati (Steinberg, 2001).
Inoltre, nella tarda adolescenza, il gruppo di coetanei viene ridimensionato di importanza.
Sicuramente i ragazzi continuano a frequentare il proprio gruppo di amici al fine di trascorrere il tempo con coetanei che hanno le medesime abitudini e bisogni, ma col trascorrere del tempo essi tendono a privilegiare un amico della propria età come confidente dei propri dubbi e stati d’animo e come consigliere delle proprie scelte.

Per di più padre e madre risultano essere i punti di riferimento principali in alcuni ambiti decisionali, come ad esempio la scelta del lavoro.

 

Conclusioni

Concludendo si può quindi asserire che il conformismo adolescenziale è un fenomeno abituale di questa età e non preoccupante.
I giovani si conformano alle norme del proprio gruppo al fine di raggiungere l’indipendenza dalla propria famiglia.
Ciò non significa che i genitori vengano ridimensionati d’importanza, al contrario restano delle figure di riferimento essenziali quando si tratta di affrontare questioni ritenute più importanti, in particolar modo quelle che concernono il proprio futuro.

Senza dimenticare che il processo di conformismo in un certo senso fa in modo che i genitori non vengano più percepiti come delle figure controllanti e quindi un po’ “fastidiose” per l’adolescente bisognoso di autonomia. Bensì con il trascorrere dell’età, e di conseguenza con la conquista di una maggiore indipendenza, il ragazzo impara a percepire i propri genitori come figure dal ruolo più amichevole e quindi vi si rapporterà ad essi con maggior facilità.

Animato, inanimato, trasformato…semplicemente cibo: come si rappresentano gli alimenti nel cervello?

Nonostante la centralità di questo “concetto” nelle nostre vite, la ricerca ha fatto poco per scoprire l’organizzazione semantica del cibo nel nostro cervello. Una rassegna della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste mette in ordine la conoscenza finora acquisita, inserendola nelle teorie attualmente usate per spiegare la categorizzazione semantica.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

 

L’approfondimento offre un inquadramento concettuale utile alla ricerca futura, anche per mettere alla prova le diverse teorie. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Psychonomic Bulletin Review.

È sorprendente che, nonostante il cibo sia un elemento centrale delle nostre vite, le neuroscienze abbiano dedicato finora pochi sforzi nel comprendere come questo venga rappresentato nel cervello. Consci di questa mancanza, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA dove dirige il laboratorio INSuLa, e Francesco Foroni, ricercatore della SISSA, hanno compilato una rassegna, che ha analizzato i lavori disponibili.

Una delle novità della ricerca è di aver preso in considerazione anche i lavori su pazienti con lesioni cerebrali. Sono infatti purtroppo pochissime le ricerche di questo genere e Rumiati e Foroni hanno dunque cercato fra quelle ricerche che hanno usato fra gli stimoli oggetti nella categoria alimentare, filtrando poi i risultati attraverso la lente delle teorie più diffuse di categorizzazione semantica.

La prima teoria, l’ipotesi sensoriale-funzionale fu proposta da Elizabeth Warrington, Rosaleen McCarthy e Tim Shallice negli anni ‘80 del secolo scorso. Secondo questa teoria gli oggetti sono divisi in base al tipo di analisi che viene fatta sullo stimolo. In pratica secondo questa teoria, gli oggetti animati sono esaminati principalmente in base alle loro caratteristiche sensoriali (colore, granulosità superficiale, sapore, odore, ecc.) mentre i manufatti sono analizzati in base alla loro funzione. Questa teoria ha ricadute interessanti sul cibo, perché fa supporre che i cibi non processati (non cotti o elaborati dell’uomo in qualche modo) ricadrebbero nella seconda categoria (insieme agli oggetti inanimati) mentre i cibi “naturali” (una mela per esempio) in quella degli oggetti animati.

Una seconda teoria (dominio-specifica) è stata formulata più recentemente da Alfonso Caramazza e sostiene che i nostri meccanismi di categorizzazione semantica sono stati plasmati dalla selezione naturale. Per questo motivo raggruppiamo gli oggetti in categorie importanti per la nostra sopravvivenza (animali, piante, conspecifici, ecc.). Questa teoria non divide gli oggetti in categorie rigide (come la precedente) e per il cibo, una categoria fondamentale per la sopravvivenza, fa supporre che le caratteristiche rilevanti possano essere tanto funzionali quanto di natura sensoriale.

Rumiati e Foroni hanno inoltre esaminato i dati alla luce di un’altra visione della categorizzazione semantica che deriva direttamente dalle teorie dell’embodied cognition. Secondo questa posizione la categorizzazione degli oggetti è fondata sull’attivazione del sistema sensoriale e motorio.

Per capire meglio può essere utile un esempio: udire la parola rosso attiverebbe anche le aree del cervello dedicate alla percezione del colore, nonostante questo non sia stato direttamente osservato. L’esposizione a un certo oggetto (in questo caso di natura visiva ma evocato in modalità udiva) mette in funzione le aree sensoriali anche quando non stimolate, e questa attivazione serve a comprendere e riconoscere l’oggetto di cui si sta facendo esperienza. L’osservazione di un utensile, per esempio un martello, provocherà l’attivazione delle aree che controllano la muscolatura della mano, e via dicendo. Secondo questa visione l’esposizione a stimoli alimentari porterà all’attivazione delle aree del gusto, per esempio, anche se queste non vengono attivate in maniera diretta con l’assaggio.

La rassegna mostra che il quadro è ancora troppo frammentario per far prevalere un’impostazione teorica sull’altra.

La ricerca legata al cibo nell’ambito alla categorizzazione semantica è ancora troppo scarsa – spiega Rumiati. – Quello che osserviamo però di importante è che è proprio la categoria ‘cibo’ che può aiutare la ricerca a disambiguare fra le varie impostazioni anche nel quadro più generale: il cibo infatti è uno stimolo trasversale, che possiede caratteristiche degli oggetti animati e anche di quelli inanimati, in più è fondamentale per la sopravvivenza e quindi ha un valore importante a livello evolutivo.

Nella rassegna gli autori hanno fornito una visone schematica delle previsioni coerenti con ciascuna delle teorie indicate.

In questo modo chi farà ricerca in futuro avrà un riferimento da utilizzare nel progettare esperimenti e stimoli – aggiunge Rumiati.

Una raccomandazione importante che emerge nella rassegna è sul fronte degli stimoli sperimentali: serve maggior attenzione sulle variabili che si mettono in gioco quando si presenta un alimento.

Ci sono molte dimensioni implicate: le caratteristiche sensoriali (il colore per esempio), ma anche il grado di ‘trasformazione’ dell’alimento (è un alimento naturale, o cucinato?), e le calorie percepite (quanto nutriente è?). Tutte cose da tenere sotto controllo – conclude la scienziata.

Il gruppo di Rumiati alla SISSA ha infatti messo a punto un database, gratuito e aperto a tutti, dove sono disponibili immagini di cibo standardizzate rispetto a queste variabili, che può essere molto utile a chi fa ricerca in questo campo. Il database si chiama FRIDA ed è disponibile alla pagina http://foodcast.sissa.it.

VIII Giornata Cognitiva Varesina, Maggio 2016 – Report dal Convegno

Si è svolta sabato 7 maggio 2016 l’ottava giornata cognitiva varesina, convegno annuale organizzato da Silvia Rinaldi e Adriana Pelliccia, dedicato ad argomenti clinici sempre stimolanti e intrigante.

 

Perché a Varese si incontrano psicoterapisti che, pur all’interno del paradigma cognitivo, portano diverse prospettive e orientamenti, a cominciare dal confronto tra anima costruttivista e razionalista del cognitivismo italiano.

Le giornate varesine seguono una loro vena d’imprevedibilità nella scelta del tema da dibattere, con trovate che risvegliano la curiosità dei partecipanti. Quest’anno il tema era il segreto, o meglio il fantasma del segreto. Il segreto in psicopatologia, sia cognitiva che non, una riflessione sugli episodi, gli eventi, ma anche gli affetti e i pensieri, insomma tutte le cose che sono tenute nascoste, che non sono condivise e non sono confidate.

E sono molte queste cose, in psicopatologia. In tutte le sofferenze legate ai traumi sessuali, per cominciare, il segreto la fa da padrone. Il segreto su episodi ambigui, non facili da decifrare, sia per l’età delle vittime che per la condotta subdola del perpetratore. Ma anche in late patologie emotive vi sono segreti. Nei disturbi alimentari, in cui il cibo non mangiato o vomitato viene nascosto. Nell’abuso di sostanze, in cui la dipendenza dalle droghe, dall’alcol o da altro è continuamente dissimulata. E così via. È un tema da psicologia familiare, sociale e sistemica, ma ha anche i suoi rivolti cognitivi.

La rosa dei relatori era molto ricca. Il primo ad affrontare il tema del segreto è stato Giorgio Rezzonico, che ha parlato via skype superando coraggiosamente alcuni ostacoli di salute che lo tormentano. Rezzonico, provocatorio all’interno di un programma che già voleva essere poco ortodosso, nella relazione ‘Il segreto dei segreti‘ ha finito per accennare anche agli aspetti positivi del segreto, della sua natura di segale che protegge lo spazio privato del sé, per usare una vecchia espressione di Masud Khan.

A Rezzonico ha risposto Christine Meier, che nella relazione ‘L’omaggio avvelenato‘ ha delineato una psicopatologia del segreto nelle relazioni, campo in cui la collega è molto preparata.

Dopo la Meier, Silvia Nanni ha parlato delle applicazioni in criminologia del tema del segreto. La sua relazione si chiamava ‘Il segreto e le immagini‘.

Patrizia Todisco ha portato la sua lunga esperienza nei disturbi alimentari per parlare dei segreti delle anoressiche e delle bulimiche, mentre Mario Redo ha esplorato il tema del segreto nell’adolescenza, altra età ricca di detti di non detti, altrettanto propizi per il segreto.

Una relazione istruttiva è stata quella di Pellai, che ha parlato del tema attuale della distruzione della privacy favorita dalle tecnologie social online. La casistica di Pellai è molto ricca e illuminante su come nei social ci si esponga a una patologia rovesciata del segreto, in cui tutto è confessato pubblicamente e ingenuamente. E al tempo stesso Pellai ha esplorato la faccia nascosta, in cui soprattutto i giovani si fanno adescare da individui che percorrono il web alla ricerca di vittime da affascinare, contando sul segreto per compiere i propri misfatti.

Il convegno è proseguito nel pomeriggio con una serie di plenarie brevi, aperta da Silvia Rinaldi, e poi con le presentazioni sul segreto nella terapia sensomotoria (Patti e Bazzana), il segreto nelle donne (Pulatti), nei bambini (Tomba), nella coppia (Dodet) e nelle corsie di ospedale (Trotti).

Disturbi alimentari: La famiglia anoressica

Famiglia anoressica: Le donne con anoressia hanno a che fare con madri più iperprotettive e controllanti rispetto alla restante parte della popolazione. Inoltre, i padri sono più invadenti, si rapportano alle figlie solo per fornire loro un sostegno emotivo tramite il cibo e spesso interagiscono con le figlie riproponendo la stessa relazione maladattiva sviluppata con la moglie, caratterizzata principalmente da emozioni negative.

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi alimentari: La famiglia anoressica (Nr. 21)

 

La famiglia anoressica

La letteratura esistente in merito alle cure genitoriali nei confronti dei bambini con anoressia ci dice che i genitori, nel gestire l’interazione con il figlio/a, sviluppano processi di negoziazione in cui cercano di mediare tra i propri sentimenti di colpa e di frustrazione, sforzandosi di comprendere la malattia per adattarsi alla cura del bambino (Treasure et al. 2001).

È stato anche osservato che i pazienti con anoressia tendono a negare i loro problemi e a idealizzare la propria famiglia, un atteggiamento che può mascherare le reali questioni familiari di fondo. Le anoressiche mostrano una minore indipendenza, un eccessivo senso di colpa, sfiducia e risentimento in situazioni conflittuali per entrambi i genitori. Una famiglia in cui i confini sono particolarmente fragili, ovvero “invischiata”, per usare un termine sistemico, rappresenta un importante fattore di genesi e sviluppo del disturbo alimentare (Minuchin, 1978). Una famiglia del genere presenta una carenza di differenziazione e di individuazione. Oltre all’anoressia, problemi di mancata differenziazione sono stati associati ad altri disturbi psicologici tra cui la depressione, i disturbi d’ansia e ‘”identità di genere” (Fish et al. , 1991; Fullinwider-Bush, Jacobvitz, 1993; Jacobvitz, Bush, 1996).

Le donne con anoressia hanno dimostrato di essere meno individualizzate rispetto ai soggetti di controllo (Smolak, Levine, 1993), e mostrano bassi livelli di indipendenza familiare (Felker, Stivers, 1994; Federico, Grow, 1996). Le anoressiche, generalmente, riferiscono problemi di confine relazionale con la madre e con il padre (Kog, Vandereycken, 1989; Kog et al. , 1987). Le difficoltà inerenti i confini non sembrano essere specifici per l’anoressia, anche se in presenza di depressione materna potrebbero essere fondamentali per lo sviluppo del disturbo alimentare.

 

Le relazioni dell’anoressica con la madre e il padre

La discrepanza dei risultati potrebbe essere dovuta al fatto che i bambini con disturbo alimentare hanno una minore percezione del cattivo funzionamento familiare rispetto alle bambine (Kanakis, Thelen, 1995). La famiglia delle anoressiche è stata descritta come rigida, con alto livello di invischiamento, conflitti e iperprotezione. Ma è uno scenario che rischia di essere semplicistico. Un quadro più ricco è quello che emerge dall’osservazione della diade madre-figlia. Le donne con anoressia hanno a che fare con madri più iperprotettive e controllanti rispetto alla restante parte della popolazione. Inoltre, i padri sono più invadenti, si rapportano alle figlie solo per fornire loro un sostegno emotivo tramite il cibo e spesso interagiscono con le figlie riproponendo la stessa relazione maladattiva sviluppata con la moglie, caratterizzata principalmente da emozioni negative.

Sembra dunque che una relazione invischiante col padre determini una maggiore possibilità di sviluppare anoressia, mentre i problemi di confine con le madri hanno un impatto diverso sullo stato di salute delle figlie. I problemi di confine sembrano produrre relazioni più patologiche con le madri, stante quando riferiscono le adulte anoressiche. Forse perché le anoressiche adulte soffrono di una forma più cronica di disturbo alimentare, che è accompagnato da relazioni più problematiche con la madre. È importante prendere in considerazione il rapporto padre-figlia per capire come la violazione dei confini sia legata ai sintomi anoressici.

Un certo numero di studi ha anche suggerito l’importanza del ruolo paterno in anoressia (Calam et al. , 1990; Steiger et al. , 1989): i padri possono promuovere un adeguato e sano sviluppo delle proprie figlie e sono necessari per aiutare la prole a effettuare il naturale processo di individuazione nei confronti delle madri (Kalter et al. , 1985).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Giovani e pornografia: quali effetti sullo sviluppo psicoemotivo?

Pornografia: La domanda che ci poniamo in questo articolo è quale effetto potrebbe avere la visione di contenuti pornografici, spesso espliciti, sullo sviluppo psicoemotivo e/o cerebrale di un ragazzo?

Chiapasco E., Fantuzzi G.

 

Introduzione: l’uso della tecnologia da parte dei ragazzi

Le statistiche mostrano come in media i giovani si connettano ad internet ad un’età sempre più precoce; i dati ISTAT relativi al 2014 evidenziano infatti che il 44,4% dei bambini dai 6 ai 10 anni e l’80,8% dei ragazzi dagli 11 ai 14 anni è connesso al mondo del web.

I ragazzi svolgono moltissime attività online, giocano, cercano informazioni, ascoltano musica, guardano video, socializzano. Tra queste attività ce n’è una che a nostro avviso necessita di una particolare attenzione, quella della visione e scambio di materiale con contenuti sessuali.

Non esistono dati precisi sul fenomeno ma secondo una indagine condotta dal Telefono Azzurro e Doxa Kids nel nostro paese, pare che il 35,9% dei ragazzi scambi immagini/video/testi con contenuti sessuali (cd sexting) ( Telefono Azzurro & Doxa Kids, 2014).

 

Gli effetti della pornografia sullo sviluppo psicoemotivo dei giovani

La domanda che ci poniamo in questo articolo è quale effetto potrebbe avere la visione di questi contenuti, spesso espliciti, sullo sviluppo psicoemotivo e/o cerebrale di un ragazzo? Secondo la dott.ssa Reisman (2003), famosa ricercatrice nel campo della sessualità, la visione di un contenuto inappropriato (come può esserlo uno pornografico) determina una forte reazione emotiva, modificando la struttura cerebrale dell’emisfero sinistro e, quindi, la sua funzionalità cognitiva. Inoltre, uno studio recente, condotto dal Max Planck Institute, ha indagato il volume della materia grigia nel cervello rispetto all’uso di materiale pornografico (Kühn, & Gallinat, 2014). La ricerca è stata condotta su 64 soggetti maschi adulti considerati “forti consumatori di pornografia (“con più di 4 ore a settimana”). Attraverso il monitoraggio con risonanza magnetica, i ricercatori hanno osservato che il volume della materia grigia nel nucleo caudato destro dello striato è più piccolo in coloro che fanno un uso eccessivo di video pornografici rispetto a chi, invece, non ne è un consumatore abituale.

È inoltre possibile ipotizzare che più giovane sarà il soggetto che visualizza queste immagini, meno sviluppati saranno gli strumenti (e le strutture cerebrali) che avrà a disposizione per poter capire ciò che vede. Secondo Tagliavini, infatti, in giovane età non è necessario che un’esperienza sia particolarmente intensa per esser traumatica e perturbante (Tagliavini, 2011); questo perché il sistema nervoso non è ancora completamente sviluppato e, quindi, anche eventi lievemente perturbanti potrebbero agire comunque in modo traumatizzante per il soggetto.

Un segnale sensoriale derivante dalla vista o dall’udito, infatti, trova una risposta nell’organismo attraverso l’attivazione emotiva a carico dell’amigdala (centro deputato a gestire le emozioni e coinvolto nei sistemi della memoria emozionale), senza che la neocorteccia, ossia la nostra parte più razionale e cognitiva, ne venga necessariamente coinvolta (Goleman, 1997). I bambini, non avendo ancora tutte le strutture cerebrali sufficientemente evolute per poter integrare a livello cognitivo l’esperienza esperita, affideranno ad una parte più emotiva l’elaborazione degli input esterni. L’esperienza della visione di alcuni contenuti pornografici in giovane età, a partire da una iperattivazione emotiva e dall’impossibile integrazione di tali contenuti a livello cognitivo, potrebbe quindi generare delle memorie, in alcuni casi traumatiche, che potrebbe condizionarne il loro futuro sviluppo affettivo/sessuale.

 

Conclusioni

Se si lascia alla pornografia il compito di avvicinare i giovani alla sessualità il rischio è quello di offrire loro una rappresentazione della vita sessuale disincarnata, volgare e priva di qualsivoglia connotazione emotiva-sentimentale. Il rischio è, quindi, quello di connotare normale ed accettabile qualcosa che, invece, è molto lontano da una sana sessualità.
Di fronte a un fenomeno così esteso e pervasivo che coinvolge ragazzi ad una età sempre più precoce, diventa assolutamente necessario promuovere in loro delle nuove competenze che consentano di poter decodificare correttamente un’immagine per poterla collocare nella giusta cornice di riferimento. In quest’ottica, se da una lato il mondo degli adulti dovrebbe attivarsi con urgenza per proteggere i ragazzi dalla visione di certi contenuti, dall’altro dovrebbe investire risorse per una educazione alla sessualità e all’affettività già in programmi pensati per le scuole elementari con una particolare attenzione a quello che avviene nel mondo del web.
La protezione da certi contenuti e l’educazione alla sessualità e all’affettività, devono essere considerate un diritto per i nostri ragazzi e un dovere per un mondo adulto che sembra talvolta osservare questi fenomeni senza poi concretamente intervenire.

Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) – Recensione

Questo testo affronta in maniera chiara una delle condizioni cliniche che causano elevata sofferenza mentale, spesso non diagnosticata perché ritenuta da molti professionisti della salute mentale troppo rara da incontrare o ritenendola secondaria rispetto ad altri disturbi: il Disturbo di Depersonalizzazione (DPD, Depersonalization Disorder), che rientra in una delle tante problematiche psicologiche non appartenenti ad una categoria specifica.

 

Il libro è stato scritto in tempi in cui la nosografia psichiatrica faceva riferimento al DSM-IV-TR, ma nel DSM-V la depersonalizzazione viene descritta in maniera inalterata, aggiungendo una descrizione meticolosa che non è cambiata nel tempo, forse proprio perché ancora poco studiata e poco diagnosticata.

Secondo una delle autrici, l’illustre esperta professoressa Fugen Neziroglu, psicoterapeuta cognitiva e comportamentale, sapientemente intervistata dal Dott. Sanavio, purtroppo la depersonalizzazione/derealizzazione spesso non viene diagnosticata, e molti di questi pazienti hanno invece ricevuto una diagnosi di depressione, due disturbi che pur avendo sintomi in comune tra loro, in realtà sono molto diversi:

I pazienti depersonalizzati solitamente si chiedono se ci sia qualcosa di sbagliato nel loro cervello, come se si sentissero neurologicamente danneggiati. Sanno quello che dovrebbero provare, ma non sentono più nulla. Raccontano di sentirsi insensibili e di vivere in un mondo irreale. Inoltre, anche le loro percezioni risultano alterate: gli oggetti sembrano molto distanti, appaiono strani, i rumori possono essere più forti di quanto siano in realtà. Questa sintomatologia non viene vissuta, invece, dai pazienti depressi.

Talvolta questi pazienti giungono con un’autodiagnosi (miracoli di Internet).

Con una esposizione chiara e dettagliata, il libro offre una spiegazione dettagliata sul DPD, rivolgendosi sia ai non addetti ai lavori sia ai clinici che cercano un solido punto di riferimento per il trattamento dei loro pazienti, offrendo sostanzialmente le proposte terapeutiche secondo i principi dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e della DBT (Dialectical Behaviour Therapy), e suggerendo in ultima analisi altri possibili strategie di intervento, compresa quella farmacologica.

Nei primi tre capitoli vengono di fatto presentati gli aspetti di questa condizione, spiegandone i sintomi e i criteri diagnostici, e come il DPD possa influenzare la vita di una persona. I sintomi vengono descritti in base alle possibili modalità di esperire la depersonalizzazione, in riferimento alla diverse aree della vita che possono venire colpite.

Attraverso la proposta di alcuni semplici esercizi, le autrici cercano di evidenziare come sia arduo liberarsi della depersonalizzazione, e come anche il tentativo di eliminarla possa in realtà avere l’effetto di ingigantirla: costruire una rigida routine di evitamento per cercare di arginare la sofferenza e sottrarsi a certe sensazioni spiacevoli, allo stesso tempo priva la persona di importanti aspetti della propria vita. Analizzando le possibili cause alla base del DPD, il libro ipotizza un’origine multifattoriale, data dalle componenti psicologiche, biologiche, chimiche o ambientali:

  • Origine traumatica (abusi, abbandono, particolari avvenimenti storico-sociali, stress di livello estremo, oppure altri disturbi psicologici, come ad esempio l’ansia associata alle fasi sintomatiche del DOC);
  • Uso di stupefacenti (marijuana, ketamina o altri allucinogeni);
  • Anomalie neurochimiche o neuroanatomiche, nella forma della trasmissione di certi segnali neurochimici che possono avere effetti sull’esperienza di depersonalizzazione e della comunicazione tra alcune aree del cervello che possono interferire con l’integrazione sensoriale.

Nel quarto capitolo, il testo analizza i problemi associati al disturbo di depersonalizzazione, distinguendo tra depersonalizzazione cronica (o primaria, solitamente legata ad un trauma o ad una forte sofferenza emotiva di qualche genere, o all’uso di droga) ed episodica (o secondaria, talvolta utile a gestire situazioni estremamente stressanti con una compostezza distaccata e insensibile). La depersonalizzazione ed altre esperienze dissociative sono infatti estremamente comuni anche in molti disturbi psicologici: il disturbo di panico, il PTSD, il disturbo borderline di personalità, il disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi dell’umore. E’ comune che un sovraccarico emotivo favorisca la comparsa delle reazioni di depersonalizzazione.

Nel quinto capitolo, le autrici approfondiscono la depersonalizzazione secondo la prospettiva dell’Acceptance and Commitment Therapy, offrendo un contributo originale su questo argomento. Secondo tale prospettiva, vengono evidenziati i sei processi disfunzionali che facilitano la sofferenza mentale:

  • Fusione cognitiva;
  • Definirsi in base alle proprie convinzioni su di sé;
  • Rimuginazione e preoccupazione;
  • Evitamento esperenziale;
  • Mancanza di valori chiari;
  • Repertorio comportamentale ristretto

L’intreccio di tali fattori, produce una tendenza all’inflessibilità psicologica, con una propensione generale a cercare di evitare le esperienze spiacevoli e, con esse, certi ambiti importanti della vita. In tale ottica, la depersonalizzazione può costruire una routine inflessibile, nel tentativo di limitare la sofferenza e contemporaneamente ostacolare la ricchezza e la diversità delle esperienze.

Nel capitolo settimo, le autrici offrono particolare risalto alla gestione della depersonalizzazione attraverso la ACT, proponendone i sei processi funzionali spiegati con esempi ed esercizi di pronta applicazione:

  • La defusione cognitiva, una strategia che serve ad affrontare i processi spiacevoli, evitando che pensieri ed emozioni spiacevoli condizionino i comportamenti;
  • Entrare in contatto con il proprio Sé osservante, (inteso come la parte di sé stessi che ha sempre osservato ogni pensiero, stato d’animo, ruolo, interesse e fase di sviluppo fisico attraversati) per non perdere di vista la transitorietà delle esperienze emotive e gli alti e bassi della vita;
  • La mindfullness, come consapevolezza immediata dell’esperienza;
  • La disponibilità e l’accettazione, in opposizione all’evitamento;
  • Chiarire i propri valori, e rivelare così le aree importanti della propria vita che possono orientare nelle scelte che contano;
  • L’azione impegnata, cioè coerente con i propri valori e compiuta con accettazione e disponibilità a provare l’inevitabile malessere.

Accanto all’ACT, il libro propone un altro approccio orientato all’accettazione: la terapia dialettico-comportamentale (DBT), concepita originariamente dalla Linehan per il trattamento del disturbo borderline di personalità, e fondato sull’accettazione delle ambiguità e delle contraddizioni della vita in risposta ai sentimenti contraddittori (ad esempio grandiosità ed insicurezza) e alla presenza di idee opposte, normalmente provati da ognuno di noi, che non implicano necessariamente un guasto al sistema. Secondo tale approccio quindi, è necessario in tali situazioni agire nel mondo più funzionale, anche quando contraddice i nostri sentimenti, sviluppando quattro abilità: la mindfullness, la tolleranza della sofferenza, la regolazione delle emozioni e l’efficacia interpersonale. Le autrici illustrano nel settimo capitolo tali abilità, adattate alla depersonalizzazione, presentando degli esercizi utili per il loro apprendimento.

Nel capitolo ottavo, il libro suggerisce delle strategie di terapia comportamentale, utili ad ancorarsi al momento presente attraverso l’esposizione alle cose, alle emozioni e alle sensazioni che creano disagio, al fine di ottenere una vita più piena. Vengono così presentati degli esercizi di esposizione e prevenzione della risposta, che implicano l’esporsi a ciò che di fatto possa essere collegato a depersonalizzazione o sensazioni di depersonalizzazione. L’obiettivo delle autrici è spiegare come attraverso il comportamento si possa aumentare il contatto con la realtà e gli aspetti piacevoli della vita, per ‘fingere finché non lo si sente‘, lasciando cioè che i comportamenti precedano l’entusiasmo, nella speranza che questo poi arrivi.

Nel nono capitolo viene dato spazio agli altri possibili trattamenti: dalla terapia cognitivo comportamentale tradizionale (TCC), risultata efficace per la cura della depersonalizzazione, alla terapia farmacologica, orientata alla cura dei sintomi della depersonalizzazione, sottolineando come gli antidepressivi possano alleviare la depressione secondaria o il malessere associati al DPD, gli stimolanti possono aiutare i sintomi cognitivi, e le benzodiazepine possono alleviare l’ansia secondaria. Le autrici fanno riferimento anche a due trattamenti sperimentali: la stimolazione magnetica transcranica e la cingolotomia, presentandone rischi, vantaggi e prospettive per il futuro.

La disortografia – Introduzione alla psicologia

Uno studio interdisciplinare per osservare gli effetti degli attacchi terroristici del 13 novembre sulla popolazione francese

In che modo gli eventi traumatici degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 si sviluppano nella memoria della popolazione, a livello collettivo o individuale? Come la memoria individuale interagisce e si nutre della memoria collettiva e viceversa? E’ possibile, studiando alcuni markers cerebrali, prevedere se nelle vittime si svilupperà un disturbo post-traumatico da stress, e chi si riprenderà più rapidamente?

 

Quelle appena presentate sono alcune delle questioni affrontate nell’ambizioso programma del 13 Novembre coordinato dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), dall’’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (Inserm), dall’Hésam Université e dalla collaborazioni di ulteriori numerosi partner.

Questo programma di ricerca transdisciplinare, co-diretto dallo storico Denis Peschanski e dal neuropsicologo Francesco Eustache, si baserà sulla raccolta e l’analisi dei dati di 1000 volontari intervistati quattro volte in dieci anni.

Dato il coinvolgimento di diverse centinaia di persone, questo studio è il primo a livello mondiale in termini di dimensioni, numero di discipline comprese e protocollo utilizzato. Infatti i risultati attesi porteranno beneficio nei settori socio-storico e biomedico, ma non solo, avranno implicazioni anche per quanto riguarda la politica e la salute pubblica.

Dopo l’appello lanciato lo scorso novembre da Alain Fuchs, presidente del CNRS, la comunità di ricerca sta cercando di chiarire i problemi che deve affrontare la società a seguito degli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia nel corso dello scorso anno. Questo invito ha dato luogo a un programma interdisciplinare di una durata prevista di 12 anni.

Coordinato dal CNRS e dall’INSERM in collaborazione con l’Hésam Université, questo progetto si propone di studiare la costruzione e l’evoluzione della memoria dopo gli attacchi del 13 novembre 2015, e il rapporto tra memoria individuale e collettiva.

All’interno del progetto 13 novembre, il ruolo del CNRS sarà quello di sostenere due scienziati scelti per monitorare gli studi che coinvolgono 150 ricercatori di diverse discipline in un programma a lungo termine di una portata senza precedenti – spiega Alain Fuchs – L’Inserm invece si è impegnata sin dall’inizio unendo all’interno del progetto le scienze umane e sociali con gli ultimi progressi delle neuroscienze.

È proprio grazie a questo programma interdisciplinare e ambizioso che sarà possibile rispondere alle domande poste in precedenza.

Saranno raccolte e analizzate le testimonianze di 1000 volontari. Alcuni di questi hanno sperimentato gli eventi da vicino: i sopravvissuti, i loro familiari e amici, la polizia, i militari, i vigili del fuoco, i medici e gli operatori sanitari coinvolti. Altri sono stati colpiti indirettamente, vale a dire i residenti e gli utenti dei quartieri interessati, i Parigini provenienti da altre zone, e infine gli abitanti di diverse città francesi, tra Caen e Metz.

Anche la scala utilizzata in questo studio lo rende innovativo: i 1000 partecipanti saranno seguiti per 10 anni in quattro campagne di interviste filmate (nel 2016, 2018, 2021 e 2026). Le linee guida per le interviste sono state scritte congiuntamente da storici, sociologi, psicologi, psicopatologi e neuroscienziati, in modo tale che il materiale raccolto venga utilizzato da ogni disciplina.

Verrà inoltre eseguito uno studio biomedico in 180 dei 1000 partecipanti: 120 persone colpite direttamente dagli attacchi, alcune delle quali sono affette da disturbo post-traumatico da stress, e 60 che vivono a Caen. Le interviste e la risonanza magnetica al cervello, condotte contemporaneamente e riprese, contribuiranno a far luce su l’impatto dello stress traumatico sulla memoria (inclusi i pensieri e le immagini intrusivi, caratteristica del disturbo post-traumatico da stress), e di identificare i markers associati alla resilienza cerebrale al trauma.

In parallelo, la ESPA, in collaborazione con il programma 13 Novembre, analizzerà attraverso un questionario su Internet l’impatto psico-traumatico degli attacchi terroristici su coloro che sono stati direttamente esposti, e la validità dei canali di assistenza sanitaria.

Il programma è di importanza fondamentale per tutte le discipline scientifiche rappresentate. Gli storici e i sociologi cercheranno di capire come le singole testimonianze vadano a costruire la memoria collettiva. I linguisti misureranno l’evoluzione del lessico e le costruzioni sintattiche. Il neuropsicologo si concentrerà sul consolidamento e ri-consolidamento della memoria e del suo funzionamento. Per quanto riguarda i neuroscienziati, si lavorerà sulle modifiche delle rappresentazioni mentali, sul disturbo post-traumatico da stress e sulla possibilità di eliminare ricordi dolorosi. Gli psicopatologi si concentreranno sull’impatto degli attacchi terroristici sull’immagine di sé, i meccanismi di difesa e il rapporto con la distruttività.

Inoltre, il programma 13 Novembre sarà utile per il diritto penale, le politiche di sostegno alle vittime, la gestione delle crisi e le pratiche commemorative. Le interviste filmate avranno anche un valore come patrimonio mondiale, i quanto preserveranno e trasmetteranno la memoria degli attacchi del 13 novembre.

Il progetto 13 Novembre ha avuto inizio il 13 maggio a Caen e il 2 giugno a Bry-sur-Marne per quanto riguarda le interviste filmate. Lo studio biomedico ha invece avuto inizio il 7 giugno presso l’impianto di imaging biomedico Cyceron a Caen. I primi risultati dovrebbero essere disponibili in autunno 2017, mentre quelli finali sono attesi nel 2028, due anni dopo le ultime interviste.

Amaxofobia: superare la paura di guidare

L’ amaxofobia è la paura invalidante di guidare un automezzo che può avere ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. L’ amaxofobia è una fobia specifica del sottotipo situazionale; si può presentare in diverse situazioni, con modalità differenti e si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche e con differenze interindividuali.

Gaia Benetti, Karoline Nicolussi, OPEN SCHOOL BOLZANO

Fobie specifiche e Amaxofobia

L’ amaxofobia (dal greco antico amaxos, “carro”) è la paura invalidante di guidare un automezzo. Clinicamente, è possibile classificare l’ amaxofobia, nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2015) e nell´ICD-10 (World Health Organization, 2011), come fobia specifica del sottotipo situazionale.
La fobia specifica è definita come una paura persistente, della durata di almeno sei mesi, sproporzionata ed irrazionale verso oggetti o situazioni specifiche, spesso causa di stati ansiosi che possono assumere anche la forma di attacchi di panico. La persona, pur riconoscendo che la paura è esagerata rispetto al pericolo reale, tende ad evitare o a sopportare con forte ansia lo stimolo fobico. La fobia specifica, per essere clinicamente significativa, deve provocare uno stato di stress psicofisiologicamente rilevante ed interferire con la vita della persona. Nel caso del sottotipo situazionale si tratterebbe di un’ansia invalidante causata da una situazione specifica. (American Psychiatric Association, 2015)

Amaxofobia: paura di cosa?

L’ amaxofobia, come fobia situazionale, è caratterizzata da una paura inadeguata e persistente provocata dalla guida di un automezzo o dagli stimoli (reali o immaginati) ad essa collegati. Tale fobia si può riscontrare sia nella popolazione femminile sia in quella maschile di tutte le fasce d’età e livello socio-culturale; le differenze che sembrano sussistere sarebbero, invece, nelle modalità di manifestazione e nella gestione del disturbo da parte dei soggetti (Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Sembra però utile sottolineare che, come nella maggior parte dei disturbi d’ansia, le fobie specifiche colpiscono maggiormente la popolazione femminile rispetto a quella maschile (in rapporto di circa 2 a 1) (Wade, 2010; American Psychiatric Association, 2015) e ciò potrebbe essere uno dei motivi per cui la maggior parte degli studi effettuati, nell’ambito dell’ amaxofobia, spesso utilizzano o citano esclusivamente un campione femminile (cfr. Alpers, Wilhelm, & Roth, 2005; cfr. Taylor, Deane, & Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014).

Inoltre, Taylor e Paki (2008), in una ricerca su di un campione non clinico, hanno rilevato una percentuale tra il 7% e l’8% dei partecipanti caratterizzata da una moderata o estrema paura di guidare ed ansia ad essa collegata; inoltre, in tale ricerca, è emersa una differenza di genere nella tendenza ad evitare alcune situazioni di guida o ad affrontarle con stati di ansia che caratterizzerebbero maggiormente il campione femminile rispetto a quello maschile. Tali evidenze sono state confermate da una successiva ricerca di Taylor, Alpass, Stephens e Towers (2010).

L’ amaxofobia si può presentare in diverse situazioni e con modalità differenti. Secondo Massaro (2014), infatti, la paura di guidare si può manifestare nella realtà o nelle fantasie anticipatorie dei soggetti, in condizioni specifiche ma con differenze interindividuali nella manifestazione del problema. Nel dettaglio, è possibile distinguere:
la paura di guidare da soli in genere in assenza di una specifica persona al proprio fianco;
la paura di guidare di notte o quando è buio;
la paura di guidare in autostrada e su strade a scorrimento veloce;
la paura di guidare attraverso le gallerie;
la paura di valicare i ponti, in particolare se alti o lunghi;
la paura del traffico nel quale ci si può trovare bloccati o rallentati mentre si è alla guida;
la paura di allontanarsi oltre ad una certa distanza da casa (Massaro, 2014).”
Una paura a sé stante sembrerebbe essere quella di impazzire alla guida ed essere colti da un raptus rischiando, così, di investire veicoli o pedoni oppure trovarsi coinvolti in incidenti stradali (Massaro, 2014; Studio Ergo Psicologia e Psicoterapia, 2014).

Amaxofobia: possibili cause e caratteristiche cliniche

I fattori e le cause che potrebbero essere alla base dello sviluppo di questo disturbo sembrerebbero molteplici. La paura di guidare potrebbe presentarsi all’interno di un quadro generale di disturbo d’ansia o essere correlata ad un disturbo claustrofobico (timore di restare bloccati in una galleria o nel traffico) o agorafobico (paura di attraversare ponti). L’ amaxofobia potrebbe essere, altrimenti, conseguenza diretta di una situazione traumatica (incidenti causati o subiti o meno in prima persona, incidenti subiti da persone care o ai quali si ha assistito) o dipendere da stati di depressione secondari all’invecchiamento del conducente che diventa insicuro delle sue capacità.

Talvolta anche specifici pregiudizi culturali nei confronti della popolazione femminile, potrebbero diventare fonte di ansia ed errate convinzioni di incompetenza alla guida indipendentemente dal conseguimento della patente di guida. Inoltre, l’ amaxofobia potrebbe insorgere in soggetti con elevate pulsioni aggressive che temono di poterle attualizzare alla guida, in preda a raptus improvvisi. Infine, la paura può nascere da una generale condizione di bassa fiducia in se stessi e nelle proprie abilità o da un tema personale che rimanda ad una forte ansia da separazione che potrebbe mantenere il soggetto ad una condizione di dipendenza o di ambivalenza fra autonomia e timore di crescere. (Massaro, 2014). Taylor, Deane e Podd (2006) avrebbero, inoltre, identificato quattro possibili “situazioni pericolose”, fonti di elevata ansia, per un soggetto amaxofobico. I timori maggiormente espressi da questi soggetti sarebbero, infatti, legati alla paura di subire o provocare incidenti, di guidare in specifiche situazioni, condizioni e manovre, di avere attacchi di panico o sintomi d’ansia e il puro giudizio sociale. Tali paure possono diventare talmente pervasive ed invalidanti al punto da indurre il soggetto a guidare solo in particolari e specifiche condizioni per lui ottimali, o a mettersi al volante vivendo un importante stato di disagio psicofisico o in altri casi ad evitare del tutto la guida.

Amaxofobia: diagnosi

L’ amaxofobia può essere diagnosticata qualora siano soddisfatti tutti i criteri per una fobia specifica del sottotipo situazionale. Al fine di meglio indagare e comprendere la gravità della sintomatologia del paziente è possibile, inoltre, indagare la “storia automobilistica” del soggetto ed utilizzare una serie di questionari standardizzati.

Gli studi inerenti a tale fobia consigliano di indagare la storia del paziente ed eventuali cause valide che possono essere alla base della paura della guida; inoltre, tutte le informazioni inerenti al rapporto del soggetto con la guida (quando è stata conseguita la licenza di guida, la frequenza di guida, ecc.) possono essere estremamente utili per avere un quadro globale della situazione del paziente (cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006). Infine, possono essere somministrati i seguenti questionari al fine di rilevare importanti informazioni sia per il profilo diagnostico sia per stilare un adeguato piano di intervento e processi riabilitativi (cfr. Taylor, Deane & Podd, 2000; cfr. Taylor, Deane e Podd, 2006; cfr. Costa, Carvalho, Cantini, Freire Rocha & Nardi, 2014):

– Driving cognitions questionnaire (DCQ) per valutare la presenza e la frequenza di cognizioni negative (preoccupazioni legate ad incidenti, paura di attacchi di panico e timore dei giudizi sociali) riguardo alla paura di guidare (Ehlers, Taylor, Ehring, Hofmann, Deane, Roth & Podd, 2007).
– Driving Skills Questionnaire (DSQ): per misurare la competenza percepita delle proprie capacità di guida in situazioni specifiche (McKenna, Stanier & Lewis, 1991 citato da Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– Driving situations questionnaire (DSQ): al fine di misurare l’entità dell’ansia e dell’evitamento in diverse situazioni di guida (Ehlers, Hofmann, Herda, & Roth, 1994).
– Driving Behavior Survey (DBS): per rilevare i comportamenti ansiosi alla guida (Clapp, Olsen, Beck, Palyo, Grant, Gudmundsdottir & Marques, 2011).
– State-trait anxiety inventory (STAI): uno strumento di autovalutazione, che permette di identificare l’ansia di tratto, uno stato emotivo stabile e persistente e l’ansia di stato, una condizione emotiva temporanea collegata a una determinata situazione e che varia nella sua intensità nel corso del tempo e in dipendenza delle situazioni. (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg & Jacobs, 1983).
– Fear questionnaire (FQ): uno strumento di autovalutazione per l’identificazione di comportamenti di evitamento, misurando fobie (sottogruppi agorafobia, fobia sociale e la paura di incidenti) e stati ansioso-depressivi (Marks & Mathews, 1979).
– Beck depression inventory-second edition (BDI-II): per misurare la gravità della depressione nell’ambito clinico (Beck, Steer, & Brown, 1996).
– Mobility Inventory for Agoraphobia (MIA): per valutare comportamenti di evitamento agorafobici e la frequenza di attacchi di panico in diverse situazioni; ogni situazione è valutata sia quando la persona è accompagnata, alla guida, da una persona di fiducia sia quando è da sola nel condurre l’automezzo (Chambless, Caputo, Jasin, Gracely & Williams, 1985).

Un’accurata analisi diagnostica ci consentirà di definire il profilo clinico del nostro paziente e delineare, quindi, il piano di intervento terapeutico più consono ed efficace.

Amaxofobia: Trattamento

Le diverse possibili cause e le eterogenee caratteristiche cliniche dell’ amaxofobia, pongono l’accento sull’importanza di valutare in modo scrupoloso la personale “cornice” all’interno della quale il disturbo si colloca, al fine di avvalersi del trattamento terapeutico più adeguato al singolo paziente.
L`amaxofobia, come una fobia specifica, rientra nella categoria dei disturbi d’ansia (American Psychiatric Association, 2015) per i quali la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) risulta il trattamento d’elezione. L’efficacia della CBT è stata, infatti, provata e dimostrata da numerosi studi (cfr. Deacon & Abramowitz, 2004; cfr. Norton & Price, 2007). Ugualmente, per l’ amaxofobia legata ad agorafobia, claustrofobia e ad altre fobie specifiche, la terapia cognitivo-comportamentale risulta essere il metodo clinicamente più efficace (cfr. Wade, 2010).

Nel caso specifico in cui l’ amaxofobia abbia, invece, un’origine traumatica sarà opportuno intervenire con un percorso terapeutico indicato in caso di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In un articolo di De Jongh, Holmshaw, Carswell e Van Wijk (2011) si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
La CBT aiuterebbe i pazienti ad identificare e modificare i pattern distorti di pensiero riguardanti se stessi, l’evento traumatico e il mondo e consentirebbe, inoltre, sia di ridurre i sintomi ansio-depressivi post traumatici che di promuovere l’incremento di fiducia, sicurezza e di regolazione emotiva (Trappler, & Newville, 2007; De Jongh, Holmshaw, Carswell & Van Wijk, 2011); ugualmente, l’EMDR è stato riconosciuto e confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come trattamento efficace per la cura del trauma e dei disturbi ad esso correlati (World Health Organization, 2013).

Nei casi in cui, l’approfondimento diagnostico evidenzi un disturbo di amaxofobia secondario ad altri “temi” quali conflitto interno tra autonomia e paura di crescere, condizioni di dipendenza o paura dell’abbandono, stati di aggressività inconscia, contesti culturali pregiudiziosi nei confronti delle donne e invecchiamento associato a stati depressivi, i punti centrali di un intervento psicoterapeutico potranno riguardare l’elaborazione del conflitto dipendenza-autonomia, il superamento della necessità di controllo, l’elaborazione delle pulsioni aggressive, la modificazione dell’immagine di Sé e l’aumento dell’autostima del soggetto. (Massaro, 2014)
Infine è utile evidenziare che, nel trattamento di disturbi d’ansia e di fobie, l’integrazione alla terapia cognitivo e cognitivo-comportamentale degli approcci basati sulla mindfulness e sulla psicoterapia ipnotica sembrerebbe aumentare l’efficacia dell’intervento psicoterapeutico (cfr. Öst, 2008; Greeson & Brantley, 2012; cfr. Alladin, 2016).

Conclusioni

L’ amaxofobia, è un disturbo che può avere importanti ricadute negative nella quotidianità della persona in termini di limitazioni nella vita sociale e lavorativa. La paura di guidare “frena” la libertà e l’autonomia dell’individuo.
La fobia di guidare si può superare ma è fondamentale un intervento terapeutico basato su un approccio multimodale, in quanto sussistono diverse comorbilità e varie possibili cause alla base del disturbo: l’ amaxofobia può essere legata ad un Disturbo d’Ansia in generale, ad altre fobie specifiche (claustrofobia, agorafobia), ad una situazione traumatica, ad uno stato depressivo secondario ad altre condizioni come l’invecchiamento, a specifici pregiudizi culturali o a fattori di personalità.

I trattamenti che ad oggi si sono rivelati efficaci, in questo ambito clinico, sono la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia cognitivo-comportamentale centrata sul trauma (TF-CBT) e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Un’interessante direzione per future ricerche, volte a sviluppare un trattamento il più possibile adatto all’ amaxofobia, potrebbe situarsi negli approcci basati sulla mindfulness integrati in una cornice terapeutica con un approccio di base cognitivo-comportamentale.

Conformismo e ansia sociale negli adolescenti

Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri. Lo studio di alcuni ricercatori cinesi ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

 

Abstract

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo,  ha una connotazione positiva, ovvero serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita.

L’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri. Uno studio compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo. La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più alle opinioni espresse dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

Il conformismo sociale

Frequentemente gli individui tendono ad uniformarsi alle opinioni delle altre persone che costituiscono il loro ambiente sociale. Questo atteggiamento, denominato conformismo, ha una sua ragione d’essere. Infatti, esso serve a favorire l’adattamento dell’individuo al suo contesto di vita. Inoltre, il conformismo sociale ha anche una valenza protettiva legata al fatto di ricevere l’accettazione e la protezione del gruppo sociale di appartenenza (Morgan e coll., 2015, citati in Zhang e coll., 2016).

 

 

L’ansia sociale

Dal punto di vista clinico, l’ansia sociale è caratterizzata da un’intensa sensazione di disagio che l’individuo prova nelle situazioni pubbliche, nelle quali potrebbe ricevere un giudizio negativo da parte degli altri (APA, 2013). L’ansia sociale è costituita da due componenti, ovvero essa può derivare dalle interazioni sociali, per cui l’individuo teme qualsiasi confronto, anche comunicativo, con l’alterità; oppure può evidenziarsi ogniqualvolta la persona deve compiere una performance pubblica: in questo caso, l’ansia è provocata dalla paura del giudizio sociale (Zhang e coll., op. cit.).

Alla base dell’ansia sociale c’è una scarsa autostima, come messo in evidenza da van Tuijl e coll. (2014), citati in Zhang e coll. (op. cit.). Per evitare le situazioni problematiche, l’individuo mette in atto delle condotte di evitamento. Questi comportamenti impoveriscono sempre di più il soggetto della ricchezza delle interazioni sociali e riducono ulteriormente l’autostima (Zhang e coll., op. cit.).

 

Ansia sociale e conformismo nell’adolescenza

Uno studio (Zhang, Deng, Yu, Zhao e Liu, 2016) compiuto dai ricercatori cinesi (Università di Pechino, Università del Nord – Ovest di Lanzhou) ha voluto indagare le correlazioni che esistono fra adolescenza, ansia sociale e conformismo.

Questa indagine ha coinvolto 152 soggetti adolescenti, di più istituti scolastici della regione cinese di Gansu. È stata considerata questa fascia di età, in quanto il rapido sviluppo corporeo, le insicurezze relative alla propria immagine corporea, il cattivo rapporto con gli adulti, la grande attenzione al giudizio dei coetanei determinano un incremento dell’ansia sociale (Zhao e coll., 2014). Sovente, come diverse ricerche hanno rilevato, gli adolescenti tendono a lenire la loro ansia sociale con l’alcol. Solitamente gli adolescenti che soffrono di ansia sociale sono più attenti al giudizio degli altri (Zhang e coll., op. cit.).

Lo studio dei ricercatori cinesi, quindi, ha analizzato gli adolescenti per stabilire le connessioni che esistono fra ansia sociale e conformismo sociale.

Per sondare il grado di ansia sociale è stata adoperata una scala di valutazione (SAS – C), adatta all’età evolutiva. Per indagare le cognizioni relative al disagio, derivante dall’esposizione sociale, si è usato un questionario strutturato, predisposto per tale scopo. Per verificare il grado di conformismo sociale è stata utilizzata una prova al computer, nella quale sono state presentate delle figure geometriche in coppia. Ai ragazzi è stato chiesto di verificare l’uguaglianza delle due figure, ovvero se esse erano uguali oppure presentavano delle difformità di grandezza. Contemporaneamente sullo schermo del computer compariva la risposta data al quesito dalla maggior parte dei coetanei.

La ricerca ha stabilito che gli adolescenti che hanno i più alti punteggi nella scala di valutazione dell’ansia sociale sono quelli che si attengono di più ai giudizi espressi dalla maggioranza dei loro coetanei. In altre parole, l’ansia sociale conduce ad un maggiore conformismo.

 

 

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