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L’Employer Branding nel processo selettivo: perché è importante lavorare nella mia azienda

Uno sguardo al processo di creazione di un’immagine aziendale che possa aiutare alla ricerca dei migliori candidati da assumere, attraverso il concetto di Employer Branding: un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

Andrea Caputo

 

Ci sono tanti motivi per i quali un individuo sceglie l’azienda alla quale fare domanda di lavoro: retribuzione, vicinanza geografica, tipo di impiego offerto… Certo, ci sono molti casi in cui non si può scegliere, nei quali il posto migliore è quello in cui ti assumono.

Ma, anche in quest’ultima circostanza, se per assurdo due diverse aziende fossero disposte ad assumermi e fossero equivalenti in quanto a paga, qualità del lavoro, tipo di impiego e collocazione geografica, quale sceglierei? Presumibilmente la più prestigiosa! È qui che rientra il concetto di Employer Branding, un insieme di azioni intraprese dalle aziende per costruire intorno a sé un’immagine accattivante e positiva che possa attrarre i futuri lavoratori.

 

Cosa si intende per Employer Branding

‘Il termine Employer Brand è stato coniato da Ambler e Barrow nel 1996′ e si riferisce all’ ‘insieme di benefici funzionali, economici e psicologici garantiti dall’impiego e identificati con l’azienda’.

Secondo questi autori, i benefici funzionali sono le attività che l’employer (datore di lavoro) offre all’employee (impiegato) per poter mostrare e sviluppare le proprie abilità; i benefici economici si riferiscono, ovviamente, all’aspetto retributivo; mentre i benefici psicologici si riferiscono al senso di appartenenza che gli impiegati provano nei confronti del proprio datore di lavoro.

Di fronte a questo scenario, dunque, appare chiaro come il processo selettivo possa essere inteso anche come il risultato di azioni che l’azienda ha portato avanti ancor prima di arrivare ad esso. Queste azioni riguardano per l’appunto la costruzione della propria immagine legata al brand, affinché risulti accattivante e positiva ai futuri candidati. La creazione di una immagine è utile all’azienda, in quanto può rappresentare una prima opzione di filtraggio (screening) dei candidati che si propongono per occupare una posizione all’interno dell’organizzazione rimasta vacante (vacanza). Infatti, si presuppone che parte dei candidati che fanno domanda di assunzione in un’azienda sia quella formata da quelle persone che credono nell’azienda, ovvero che la sentono vicina alle proprie aspettative, qualità e ambizioni. In questo modo, l’organizzazione avvicina a sé i candidati con caratteristiche a lei ideali, utili alla propria causa, scoraggiando, di conseguenza, quelli che invece non hanno delle caratteristiche in linea con l’immagine del brand.

 

Attrazione e ritenzione dei talenti

Ogni azienda punta a trovare gli impiegati migliori, i cosiddetti talenti. Molto spesso il talento può essere riscontrato all’interno delle competenze dell’individuo (skills). Per skills si intende molto spesso competenze di carattere tecnico, utili perciò a svolgere un determinato compito, cioè il saper fare. Accanto a queste ci sono le competenze di carattere psicologico dell’individuo che lavora sia come singolo sia come parte di un gruppo, cioè il suo saper essere. E quindi il talento, in questo senso, è inteso come quel candidato che ben si adatta alle caratteristiche del compito da svolgere, ma anche a quella che viene definita la cultura organizzativa dell’azienda: cioè tutte quelle caratteristiche psicologiche peculiari dell’azienda e anche del settore, che descrivono il clima dell’azienda, la qualità dei rapporti tra i colleghi, ma anche lo slang usato nel reparto, e i riti di iniziazione dei nuovi arrivati, che permettono al novizio di poter essere considerato uno di noi.

In questo senso, le strategie di Employer Branding riescono anche a far affrontare agilmente il processo di entrata e sistemazione del nuovo arrivato, che entra a far parte di un gruppo di persone qualificate (per skills e competenze psicologiche) al suo stesso livello; idealmente tutti saranno sulla stessa lunghezza d’onda.

 

Strategie di Employer Branding

Alla luce di questo, i pochi studi scientifici che riguardano l’Employer Branding hanno messo in evidenza come le strategie dell’azienda rivolte all’attrazione e ritenzione dei talenti debbano riguardare due aspetti:

  • Hard: ovvero caratteristiche tangibili come la retribuzione, le caratteristiche della posizione da ricoprire…;
  • Soft: ovvero caratteristiche del clima, della cultura, delle aspettative e delle ambizioni dell’azienda.

La creazione di un’immagine accattivante non è finalizzata solo a catturare i talenti, ma anche a trattenerli: far sì cioè che loro si identifichino talmente tanto con il brand, da non desiderare di andar via, e di continuare ad operare per il suo bene e il suo sviluppo, i quali, in un’ottica di identificazione con l’azienda, vanno a coincidere con il proprio bene e il proprio sviluppo. In questo modo, si può allontanare, se non rimuovere, la situazione di attrito che chiude il ciclo della permanenza del soggetto nell’organizzazione; il tutto a beneficio di quest’ultima e dei suoi impiegati.

 

Employer reale ed ideale

Per poter pianificare delle strategie efficaci di Employer Branding, Bonaiuto e colleghi (2010) hanno condotto uno studio su un campione di 1605 studenti universitari italiani, somministrando dei questionari contenenti item che riguardano le caratteristiche che dovrebbero possedere sia un employer reale sia un employer ideale:

  • Per employer reale si intendono tutte quelle organizzazioni che attualmente operano nel mercato (ad es. Coca-Cola, Adidas, Armani…);
  • Per employer ideale, invece, si intende un luogo di lavoro ipotetico che rispecchi in generale le preferenze dei candidati.

È ovvio che, dal punto di vista di un candidato, il fatto che l’employer reale coincida con il suo prototipo ideale sia un fattore a favore dell’azienda che lo assume, in quanto aumenta il legame psicologico del lavoratore nei suoi confronti, ed è un predittore di una performance di alto impegno.

Identificare le caratteristiche di un employer ideale comuni a molte persone è utile per elaborare delle strategie di Employer Branding per intercettare quei talenti utili all’employer reale, sottraendoli ai competitors. I risultati di questo studio hanno mostrato nove caratteristiche fondamentali che deve possedere un’azienda, secondo gli studenti universitari italiani: integrazione e valorizzazione del dipendente, reputazione e prestigio, creatività, internazionalità dell’impiego, merito, innovazione, sistema equo di ricompense, garantire una posizione permanente, responsabilità sociale (cioè, l’azienda contribuisce a migliorare la vita del consumatore); a questi va aggiunta anche la dimensione del teamwork.

 

Employer branding nella selezione del personale

Inoltre,  come messo in evidenza da Anderson (2009), nel processo selettivo intervengono due parti, che operano in maniera biunivoca: l’organizzazione e i candidati. Entrambe svolgono dei processi di valutazione della controparte:

  • L’organizzazione è attenta alle caratteristiche del candidato per decidere se fargli o meno una proposta di lavoro;
  • I candidati, a loro volta, valutano il modo in cui l’organizzazione si pone verso di loro attraverso la qualità del processo selettivo.

L’autore fa alcuni esempi, per far capire come entrambe le parti si influenzino a vicenda con le loro azioni, reali o mentali. In uno di questi ipotizza che il candidato si ritiri dalla selezione: in questo modo l’azienda sicuramente, dal proprio punto di vista, riduce i costi della selezione, ma potrebbe perdere un potenziale lavoratore dalle elevate performance a lungo termine.

Interessante è far notare come la qualità della selezione possa influire anche sulla prestazione in loco del candidato, e quindi nel caso in cui quest’ultimo abbia avuto una visione negativa del processo selettivo, e dunque dell’azienda, la performance attuata potrebbe subire dei cali. In questo modo sembra che il candidato, inconsciamente, spinga se stesso a non far parte di quella organizzazione, di cui ha avuto una brutta impressione, mettendo in atto una prestazione non sufficiente. Oppure, nel caso in cui venisse assunto, la prestazione a lungo termine potrebbe non essere delle migliori perché influenzata da quella immagine negativa che si è creata al momento della selezione.

Ancora, un candidato che ha avuto una percezione negativa di un employer può essere dannoso in quanto, soprattutto in caso di non assunzione, condividerà le sue impressione con amici, parenti, colleghi, ovvero potenziali candidati e clienti futuri.

Queste considerazioni mettono in evidenza come un’azienda, per puntare in alto, debba considerare anche quegli aspetti soft delle relazioni con gli stakeholders (consumatori, azionisti, impiegati…), che non sono da dare per scontati, in quanto possono rappresentare, a lungo termine, sia dei costi sia dei vantaggi.

Inoltre, questi studi fanno notare come si possa fare un passo avanti, facendo in modo che l’azienda si preoccupi di come venga considerata al suo interno (dai lavoratori) e all’esterno (dagli utenti), facendo attenzione ai minimi particolari di ogni sua azione, che sono significativi. In questo modo si può andare oltre la semplice considerazione dell’impiegato come unità lavoratrice, considerandola, invece, una risorsa umana a pieno titolo, il che significa gestirla, nei suo pro e nei suoi contro; una mossa che va nella sua direzione, ma che, inevitabilmente, si riflette sull’azienda stessa.

Call for papers – Terapie psicologiche per ansia e depressione: costi e benefici (Padova, 18-19 novembre 2016)

Università di padova - LogoLa diffusione delle terapie psicologiche per ansia e depressione ha ricadute benefiche e quantitativamente rilevanti sulla diminuzione della spesa sanitaria globale, delle assenze dal lavoro, dell’abuso di alcol, dell’incidentalità sul lavoro e sulla strada.

Accanto all’approfondimento scientifico, il convegno si propone di stimolare anche in Italia iniziative simili a quelle da tempo avviate in Gran Bretagna e note col nome di IAPT: Improving Access to Psychological Therapies. Nel corso del convegno verrà formalizzato un documento non solo scientifico, ma di più ampio respiro culturale, volto a mondo del lavoro, organi di informazione, vertici politici, agenzie sanitarie.

Ospite d’onore sarà il professor David Clark (Oxford University).

Il convegno si terrà il 18-19 novembre 2016 a Padova, per iniziativa del Dipartimento di Psicologia Generale, in collaborazione col Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, con SIPsOT ed altre società scientifico-professionali.

Sarà gratuito e ospiterà simposi con comunicazioni orali e sessioni poster sul tema: esperienze-pilota di trattamenti psicologici e interventi strutturati brevi (low-intensity psychological interventions) per ansia e depressione, nel panorama italiano, con documentazione d’efficacia; dimensioni, spesa e tipologia delle risposte del SSN e del privato.

 

Invio dei lavori

Gli abstract dovranno essere inviati a: [email protected]

entro il 10 settembre 2016 e comprendere: titolo, autori, eventuale affiliazione, indirizzo email e recapito telefonico per contatti rapidi; a seguire un testo non superiore a 250 parole.

 

La pianificazione mentale delle attività attraverso un network di aree cerebrali

La rappresentazione mentale del futuro, il pensiero prospettico e la simulazione di esperienze future sono componenti fondamentali del comportamento finalizzato ad un obiettivo, che consentono di ottenere più facilmente obiettivi immediati e a lungo termine. Modelli computazionali e animali hanno evidenziato la presenza di una codifica spaziale prospettica da parte dell’ippocampo, mediata da interazioni con la corteccia prefrontale. Nel suo insieme, questo network di aree costituisce il meccanismo putativo della simulazione di eventi futuri.

 

Lo studio: l’attività cerebrale durante un compito di pianificazione mentale

Un recente studio pubblicato su Science rivela che le interazioni tra ippocampo e corteccia prefrontale permettono anche agli esseri umani di pianificare e navigare lungo un percorso da una posizione ad un’altra. I risultati prodotti dallo studio forniscono inoltre la prova diretta dell’esistenza di questo network di aree cerebrali, evidenziando i complessi processi che sottendono la navigazione obiettivo-orientata.

Per raccogliere i dati sull’attività cerebrale durante un compito di pianificazione/navigazione, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare un test computerizzato in due giorni consecutivi. Il primo giorno i soggetti hanno imparato a muoversi virtualmente lungo cinque posizioni target, ciascuna contrassegnata da una coppia di immagini, all’interno di un ambiente circolare. Il giorno successivo, i partecipanti, partendo da una delle cinque posizioni target, dovevano spostarsi, altrettanto virtualmente, verso una posizione successiva, suggerita dai ricercatori, pianificando il percorso più breve.

Durante il compito del secondo giorno, i ricercatori hanno effettuato scansioni ad alta risoluzione dell’intero cervello attraverso risonanza magnetica funzionale, sia nelle fasi in cui gli individui erano intenti a pianificare il percorso, sia durante la navigazione (virtuale).

 

I risultati dello studio

L’analisi dei dati ha rivelato che la corteccia orbitofrontale, già nota per la sua interazione con l’ippocampo durante la navigazione guidata da informazioni presenti in memoria, svolge un ruolo chiave nella classificazione di ciò che costituisce un “obiettivo futuro” o “punto finale” di uno spostamento. La porzione frontopolare (della corteccia frontale) sembra invece svolgere un ruolo di regolazione della codifica di queste informazioni nell’ippocampo.

Infine, i dati suggeriscono il coinvolgimento di altre tre regioni cerebrali: la corteccia paraippocampale, la corteccia peririnale e il complesso retrospleniale. Nello specifico, queste tre aree possiedono un ruolo cruciale nella “visualizzazione” (virtuale e mentale) di contesti e spazi futuri/successivi nella navigazione.

I dati di questo studio sono sufficientemente dettagliati da aver permesso ai ricercatori di determinare anche quando un “sotto-obiettivo” (stimolo secondario che si trova lungo un percorso verso la meta) veniva rilevato: il riconoscimento di questa tipologia di stimoli è stato preferito al riconoscimento dei “non- obiettivi”.

Nel complesso, l’intero corpo di risultati fornisce spunti interessanti per comprendere il modo in cui il cervello umano naviga all’interno dello spazio.

Come il cinema fantasy può venirci in aiuto nella costruzione di una solida alleanza nella psicoterapia per giovani (nerd)

Narrativa e filmografia fantasy, consentono notevoli appigli per la formazione di metafore, utili alla creazione di una buona alleanza terapeutica nella psicoterapia con giovani e adolescenti, categoria talvolta di più difficile accessibilità.

 

Wikipedia ci dice che, stereotipicamente, al mondo dei nerd appartengono quei ragazzi tendenzialmente solitari, poco portati alla socialità e al conformismo; solitamente molto intelligenti, per i nerd attività come informatica, tecnologia, fumetti, videogiochi, letteratura e filmografia fantasy, non hanno segreti.

Generalmente tali individui vengono tacciati di immaturità cronica, proprio a causa della fonte delle loro passioni, considerate con accento dispregiativo, roba da bambini. Schivi e moderni Peter Pan, vagano così furtivi, scambiandosi manuali chilometrici sul prossimo gioco di ruolo, di nascosto dal capoufficio guardingo, consapevoli del misfatto agli occhi dell’adulto. Scorrendo i vari siti e blog dedicati al mondo nerd e confluenti, si scopre che questo è, appunto, solo uno stereotipo: le risorse presenti in tale universo, offrono infatti un ventaglio tanto variegato quanto ricco di metafore, utilizzabili a scopo sia psicoeducativo che terapeutico.

La stereotipia legata ai nerd, può d’altra parte profeticamente prender vita, in alcuni giovani predisposti ad una vulnerabilità di fondo, protesi ad esempio verso un rassicurante ritiro sociale o verso un subdolo mondo ossessivo. In questo caso l’universo nerd offrirà un vasto, quanto rassicurante conforto, pieno di speranze credibili, miti giusti, raminghi impavidi, demoni da poter sconfiggere e poteri da scoprire per affrontare il tutto: chi mai potrebbe rinunciare?

Il pericolo insito nel fattore di mantenimento è in vista, proprio perché il paese dei balocchi è dietro l’angolo e la tana del Bianconiglio è così invitantemente confortevole.

La costruzione di una relazione con gli adolescenti, specialmente se dotati di una personalità timida e riservata è già di per sé complessa (Isola L. Mancini F 2003). Quando si ha a che fare con una psicoterapia per nerd, talvolta, è come si fosse in presenza di un muro confinante con un’altra dimensione: solo spingendosi oltre, si potrà costruire prima un linguaggio comune e poi una solida alleanza terapeutica.

 

Psicoterapia per nerd: un caso clinico

Andrea è un sedicenne timido e asociale, affetto da un disturbo ossessivo compulsivo severo, con due precedenti tentativi di terapie alle spalle. La sua vita ruota attorno a videogiochi, filmografia fantasy-horror e mondo degli youtubers. Il centro assoluto delle sue passioni è Halo, un videogioco fantasy-fantascientifico legato ad una community ricchissima di blog, fans, romanzi, serie animate e fumetti di complemento.

Adotto spesso in terapia la metafora del parassita, chiedendo al paziente di immaginare il peggior parassita che gli venga in mente, quello che gli suscita più disgusto e suggerendogli poi di considerarlo come origine delle ‘voci’ disturbanti. Notoriamente i parassiti succhiano energia dal proprio ospite: più è forte l’ospite più sono forti loro. Tuttavia per quanto il parassita possa essere mimetizzato con essi, è qualcosa di diverso. Utilizzo questa metafora per favorire, ovviamente, la differenziazione (Lakatos A. Reinecker H. 2005)

Ma in questo caso specifico di psicoterapia per nerd è ad un tipo di parassita particolare cui mi interessa far riferimento, un parassita mellifluo, imbonitore e sagace. Il Gravemind in Halo ha una mente suprema, antichissima, molto potente avendo assorbito milioni di anime, con lunghissimi tentacoli e migliaia di possibilità di contaminare altri corpi inermi. Con voce subdola, languida e in rima, carezza l’orgoglio della vittima ignara sino alla capitolazione finale.

Il disturbo ossessivo compulsivo aveva avuto un esordio molto precoce nella vita di Andrea, influenzando così tutta la sua preadolescenza. Nonostante la sua quotidianità fosse seriamente danneggiata dagli estenuanti rituali, egli era convinto di riuscire a sfidarsi ogni giorno, e di fare continuamente passi avanti sulla strada della guarigione. Ciò che in realtà accadeva era che ogni millimetro che il parassita gli concedeva, ai suoi occhi appariva un chilometro, mentre dall’esterno erano ben evidenti evitamenti costanti e comportamenti protettivi sempre più variegati.

Il Gravemind lo teneva abilmente in ostaggio, un equilibrio perfetto e diabolico, che soprattutto teneva lontano il terapeuta: era in grado di sfidarsi, non aveva bisogno di aiuto. Un modulo, questo, che si ripeteva da tempo impedendogli di instaurare una relazione terapeutica efficace, e finendo per alimentare sconforto e  sfiducia verso la terapia: esattamente l’obiettivo difensivo del subdolo parassita.

Ogni sforzo di Andrea era teso a difendere l’integrità dell’aura di felicità della sua camera. Essa conteneva quanto per lui di più caro e prezioso: se qualcosa di esterno l’avesse violata, una patina nerastra avrebbe densamente ricoperto ogni superficie e la serenità sarebbe scomparsa dal suo mondo. Le concessioni del Gravemind, lo tenevano impigliato in una tela di Penelope fatta di sforzi sovrumani, che in barba alla perenne promessa non lo portavano mai alla meta.

Validando e accogliendo compassionevolmente le sfide di Andrea, in questa ‘psicoterapia per nerd‘ spostai l’ago della bussola su ciò che per lui era più importante. Parlai dell’aura positiva della camera facendo riferimento ai colori pastello (King S. 1994); utilizzai gli horcrux (Rowling J.K 2005) in senso positivo per mostrargli come gli oggetti della camera appartenessero e fossero parte di lui: la sua esperienza con loro li aveva resi tali e così come in quelli di Voldemort, parte della sua anima era in essi racchiusa facendoli brillare di luce propria e inattaccabile. La sua camera assunse le forme dell’Arca, l’unica installazione al sicuro, in Halo, dal Gravemind benché temporaneamente.

In pochissimo tempo tra me e Andrea si creò un linguaggio comune, fatto di moltissime metafore narrative e filmografiche, con Halo e il Gravemind al centro: il Gravemind tentò più volte di opporre resistenza convincendo Andrea che poteva farcela da solo, e invariabilmente accadeva che uscisse fuori una nuova sfida.

Io utilizzavo sempre un atteggiamento compassionevolmente neutro, orientato su ciò che più contava: non esiste il giusto o sbagliato, ma ciò che conviene o meno per arrivare dove vuoi. Andrea si fidò presto della nostra alleanza terapeutica e, cosa più importante, riconobbe il Gravemind per ciò che era e lo nominò. Riconobbe, inoltre, la sua importanza nel suggerirgli le sfide, e imparò a diffidare da esse, creandosene di proprie in terapia con il mio aiuto.

Aveva compreso chi era il vero nemico. E lo aveva compreso dal suo punto di vista.

 

L’importanza delle metafore

In molti casi le metafore non hanno dei soggetti così specifici, ma assumono contorni più generali, soprattutto se si riferiscono a concetti astratti ed emozioni. Nella mia pratica clinica trovo spesso che emozioni scomode come la rabbia, ben si prestano ad esser rappresentate con metafore di tipo epico.

Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra verso il campo di battaglia indicato dal tuo secondo: vendicherai finalmente i tuoi padri periti ingiustamente nel tempo andato, quale onta per la tua casata! Ma una volta giunto, scopri solo una terra riarsa dal sole cocente, qua e là puntellata dal biancore opaco di riconoscibili ossa; lance ancora affilate giacciono a terra. Non trovi un solo nemico ancora in vita, una sola spada da combattere e nemmeno una goccia di sangue da versare. Cosa puoi fare a questo punto?

Immagina di essere un guerriero assetato di sangue e vendetta, armato di tutto punto, la cotta di maglia brillante e l’armatura solida; spada alla mano ti dirigi mento a terra, verso il campo utilizzato come base dall’esercito nemico: vendicherai le razzie scoperte nel tuo villaggio al ritorno dalla caccia. Ma una volta giunto scopri che il campo è ormai deserto: l’esercito deve essersi mosso con un paio di giorni di anticipo su di te. A questo punto ti aspetta una scelta. Non hai viveri né acqua per il viaggio, la tua armatura è pesante e il sole cocente. Cosa puoi fare?

Queste due metafore rappresentano due versioni leggermente diverse della rabbia: nel primo caso ci troviamo di fronte ad una rabbia sorda, una seconda fase del lutto non elaborata nel tempo (Kübler-Ross E. 1969), da individuare magari in depressioni croniche. Essa pone l’accento su frustrazione e disperazione: l’obiettivo è quello di rendere ben visibile la condizione di immobilità e inutilità dell’azione ricorrente, proprio attraverso la connessione con la realtà del momento presente.

Nel secondo caso, c’è una situazione di iperinvestimento comune in molti disturbi, e si fa riferimento direttamente all’agenda del controllo dell’ACT e alla disperazione creativa (Harris R. 2011).

Attraverso queste rappresentazioni i pazienti riescono ad assumere una prospettiva combattiva, molto utile e motivante in questa categoria di persone; esse riescono così ad utilizzare un linguaggio che comunemente associano alla protezione e all’evitamento della sofferenza, proprio come strumento per accettarla ed imparare non considerarla più un demone assetato di sangue.

Julieta (2016) di P. Almodovar – Recensione del film

Il film Julieta di Pedro Almodovar attraversa i temi del segreto, del silenzio, del vuoto, della colpa. Temi traumatici per eccellenza. La trama va avanti per flashback sapientemente ricostruiti. 

Melania Continanza

 

Il nuovo film di Almodovar (2016) è stato definito come un ‘viaggio interiore che risale il tempo‘, ‘un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda‘ (M. Gandolfi).

Visto attraverso le lenti di uno psicoterapeuta, Julieta appare anche come un film sul trauma e sulla dissociazione. La scena si apre con la protagonista che sta per trasferirsi dalla Spagna al Portogallo con il compagno (Lorenzo), alle prese con gli scatoloni da riempire, piene di cose e di ricordi.

La parte apparentente normale di Julieta viene presto a contatto con la parte emotiva (Van der Hart et al., 2006), che riemerge da un incontro casuale con Beatriz, amica di infanzia di sua figlia Antía, la quale le riattiva il ricordo, che la convince a restare a Madrid, ritornare sui luoghi del suo passato, ricostruire la sua storia.

Lentamente si delinea la storia traumatica della donna, che è ben rappresentata dalla foto di sé insieme a sua figlia, in pezzi, ricomposta in modo approssimativo. A poco a poco riemerge e viene ricomposta tramite la narrazione, in una lettera aperta che la madre scrive alla figlia e in cui ripercorre le tappe del suo passato. Il film attraversa i temi del segreto, del silenzio, del vuoto, della colpa. Temi traumatici per eccellenza. La trama va avanti per flashback sapientemente ricostruiti: l’incontro casuale con Xoan in treno e l’amore passionale da cui nasce la figlia, il suicidio misterioso di uno strano personaggio conosciuto in treno, l’incontro con la famiglia di origine, la morte di Xoan in una giornata di mare in tempesta.

Julieta non ha commesso nessun crimine, ma non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio dell’uomo del treno (prima), e per la morte di Xoan, compagno tanto amato (poi). Essa non riesce a perdonarsi l’accaduto e trasmette come un gene alla figlia il senso di colpa.

Dopo la morte di Xoan, Julieta entra in uno stato mentale che più che depressivo assomiglia a uno shut down dissociativo, in cui la figlia, insieme all’amica Bea, si prende cura diligentemente di lei. Fino a quando, a 18 anni, Antía decide di andare in ritiro spirituale e lascia perdere le tracce di sé alla madre. Julieta la aspetta per tre lunghi anni, tre anni segnati dal rito della torta, ogni anno comprata nel giorno del compleanno della figlia e buttata nell’immondizia, fino a quando un giorno la donna esce dallo stato dorsovagale grazie alla rabbia. Riesce finalmente a tornare a investire sulla sua vita, ma non prima di avere messo sottosopra la casa e agito attivamente la sua emotività.

Julieta è anche un dramma esistenziale, che mette in scena il triangolo drammatico (Karpman, 1968), in cui ciascuno è sia vittima di un destino crudele, che persecutore (Julieta costringe la figlia adolescente ad accudirla durante la depressione, facendole perdere i suoi anni migliori), che salvatore (Julieta va a accudire Ava, la donna con cui il compagno aveva avuto una relazione clandestina).

E’ il dramma della colpa e dell’espiazione, in cui ‘ognuno ha quello che si merita‘, come Julieta che vive nella solitudine e nel vuoto, così Antía, che perde a sua volta suo figlio per annegamento, e così Ava, che finisce i suoi giorni stremata dalla sclerosi multipla. Il dramma che pervade tutti, nessuno escluso, si staglia sullo sfondo di una famiglia di origine fortemente trascurante, assente, in cui la madre di Julieta, malata, viene tenuta chiusa a chiave in camera e trascurata dal marito.

Il finale lascia intravedere una possibilità di cambiamento. Attraverso la ricostruzione e l’elaborazione del trauma, e grazie all’incontro con una figura positiva, Lorenzo, che fa da base sicura per Julieta (se non così passionale come Xoan, ma discreto, presente, prevedibile), la protagonista intraprende il viaggio verso la figlia, la quale finalmente (dopo la morte del figlio), avendo compreso la sofferenza della madre, le scrive il mittente su una lettera, come a volere essere cercata, e il film si chiude aprendosi all’esplorazione di un diverso futuro possibile.

 

 

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DEL FILM JULIETA:

Le bugie dei bambini: i genitori sono davvero in grado di riconoscerle?

Molti genitori credono di poter smascherare le bugie dei bambini. I più piccoli sono dei bugiardi relativamente inesperti e la lunga esperienza di un genitore dovrebbe facilitare la differenziazione tra verità e bugie dei figli. Tuttavia non è così.

Greta Lorini

 

Un’ampia gamma di studi ha dimostrato che le persone non sono macchine della verità molto accurate, in quanto poco abili nel riconoscere se qualcuno sta mentendo oppure sta dicendo la verità. Molti genitori credono, tuttavia, che la possibilità di smascherare le bugie raccontate dai loro figli possa essere un’eccezione a questa regola.

Tenendo conto che i bambini sono dei bugiardi relativamente inesperti e che la lunga esperienza di un genitore dovrebbe facilitare la differenziazione tra verità e bugie dei figli, questo potrebbe anche essere vero. Tuttavia non è così.

Gli adulti hanno difficoltà nel riconoscere le bugie dei bambini e i genitori ne hanno ancora di più quando si tratta dei loro figli, come dimostra un recente studio in pubblicazione sul Journal of Experimental Child Psychology. Sebbene, quindi, l’onestà sia un aspetto essenziale all’interno di una relazione di fiducia genitore-figlio, le relazioni molto strette sembrano proprio compromettere la nostra capacità di individuare le bugie, soprattutto le bugie dei bambini.

 

Bugie dei bambini: lo studio della Brock University

La ricerca guidata da Angela Evans, presso la Brock University (Ontario, Canada), ha coinvolto 108 bambini (età: 8-16 anni). Condotti in laboratorio, è stato spiegato loro che avrebbero preso parte ad un test. Una volta mostrato ai bambini il tasto di risposta ai quesiti del test, sono stati lasciati soli nella stanza, con la possibilità di sbirciare le risposte.

I ricercatori, una volta rientrati in laboratorio, hanno chiesto a tutti i bambini se avessero o meno sbirciato le soluzioni del test, videoregistrando le risposte: poco più della metà lo aveva fatto (50 hanno sinceramente negato di aver sbirciato, 49 hanno falsamente negato di aver sbirciato, i 9 che hanno sinceramente ammesso di aver sbirciato sono stati esclusi dallo studio). In seguito tre gruppi di adulti hanno visionato le registrazioni, fornendo giudizi sulla sincerità o falsità dei bambini. Questi gruppi includevano 80 genitori dei bambini coinvolti, 72 genitori i cui figli non facevano parte dello studio e 79 studenti universitari che non erano genitori. Il primo gruppo ha valutato solo i video dei propri figli.

In generale, nessun gruppo a cui è stato chiesto di valutare le bugie dei bambini ha fornito giudizi di verità/falsità più accurati dell’effetto casuale. Tuttavia, i genitori hanno fornito giudizi molto differenti sui propri figli, mostrando un bias più forte rispetto ai genitori che giudicavano i figli altrui o ai non-genitori. I genitori, infatti, hanno creduto ai loro bambini circa il 92% del tempo, indipendentemente dalla loro sincerità o disonestà, mentre gli altri gruppi hanno giudicato erroneamente verità e bugie dei bambini più o meno allo stesso modo.

Gli autori dello studio hanno pertanto concluso che la vicinanza del legame genitore-figlio non rende più facile giudicare la verità. Al contrario, i genitori sembrano essere sbilanciati in favore dell’onestà dei propri bambini.

D’altra parte, i genitori potrebbero essere motivati ​​a credere alle dichiarazioni dei loro figli, spinti dalla speranza di aver fatto un buon lavoro nel trasmettere loro il valore dell’onestà. I genitori potrebbero voler tenere a mente questi risultati la prossima volta che sorprendono il loro bambino con le mani nella marmellata!

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica (2016) – Recensione

A cent’anni della nascita di Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini e Annamaria Sorrentino co-fondatori della scuola a lei intitolata, pubblicano “ Entrare in Terapia. Le sette porte della terapia sistemica ”; il testo raccoglie anche il contributo dei didatti della scuola, testimoniando il modello del lavoro d’equipe tanto caro all’approccio sistemico.

Liliana Redaelli

Gli autori si propongono di accompagnare il lettore nel percorso che si sviluppa all’interno dell’incontro terapeutico, offrendo tracce da seguire, maturate e affinate negli anni attraverso l’integrazione del modello della terapia sistemica classica con la ricerca clinica e con altri modelli vitali della psicoterapia. Il testo offre una visione sistemica complessa e integrata, una prospettiva multidimensionale dell’uomo e della sua esistenza, un approccio alla sua conoscenza in sintonia con l’epistemologia della complessità di Edgar Morin.

Le 7 porte della terapia sistemica

Se negli anni ’70 la via principale per la comprensione del disagio psichico passava attraverso la lettura del sistema relazionale entro cui il malessere e il sintomo si generava, in questo libro sono sette i sentieri da percorrere, sette porte che il terapeuta deve responsabilmente tenere in considerazione. Il percorso terapeutico parte dalla telefonata, seguita da uno o due colloqui preliminari che danno avvio alla fase di consultazione (tra i cinque e i sette incontri) in cui è possibile mettere a fuoco un’ipotesi condivisa su ciò che è stato, sugli aspetti funzionali e disfunzionali, individuando un progetto riparativo, che recuperi e stimoli le risorse di ciascuno, per passare poi alla terapia vera e propria.

La prima porta d’accesso alla terapia è quindi l’analisi della domanda. Riprendendo l’importanza data da Mara Selvini Palazzoli al contesto entro cui prendono forma i significati, gli autori individuano quattro possibili scenari: la domanda di un familiare per un paziente non richiedente, la domanda relazionale, la non domanda in una condizione coatta e la domanda individuale. Partendo da questi quattro differenti contesti gli autori individuano le convocazioni e le procedure più efficaci da mettere in atto sia al telefono che nei primi colloqui preliminari, consigliando le modalità opportune allo specifico caso, definendo le tematiche da affrontare nelle primissime battute di questi incontri e cercando di tutelare i terapeuti inesperti da eventuali rischi in cui potrebbero imbattersi.

La seconda porta è quella della diagnosi sistemica che comprende tredici dimensioni attraverso le quali è possibile connettere il funzionamento della famiglia con la sofferenza di un suo membro, in base al principio dell’interdipendenza dei soggetti all’interno del proprio sistema. Si valuta, quindi, l’aspetto sincronico del qui ed ora, tenendo conto anche dei fatti che segnano la storia del soggetto e della famiglia.

La terza porta, quella della sintomatologia, entra nel mondo interno del paziente collegando il disturbo alle difese messe in atto, in una visione complessificata e processuale del sintomo, in contrapposizione a una rigida e semplicistica descrizione nosografica.

La quarta porta, la diagnosi dell’attaccamento, apre una prospettiva teorica che è sia relazionale che individuale. Riprendendo gli studi sull’attaccamento, sulle riorganizzazioni post-traumatiche, sul contributo di Lorna Benjamin, il terapeuta può cogliere come meglio entrare in relazione con il paziente tenendo in considerazione le specifiche concezioni del mondo e dei rapporti che il soggetto si è costruito partendo dalla situazione relazionale in cui si è trovato a crescere.

La quinta porta riguarda la diagnosi di personalità, intesa come organizzazione difensiva rispetto ai vissuti soggettivi di sofferenza, agli stress relazionali ed esistenziali, alle sfide evolutive, organizzazione che diviene disfunzionale quanto rigida e pervasiva.

Le sesta porta, costitutiva dell’identità della terapia familiare, consiste nella diagnosi trigenerazionale attraverso la quale si accede all’analisi di quale bambino e figlio sia stato il genitore e quali siano stati i modelli da lui interiorizzati. La modalità in cui il genitore ha elaborato la sua posizione di figlio, infatti, ha un’influenza decisiva sulla sua identità e quindi anche sulla sua genitorialità.

La settima porta, la diagnosi basata sulle emozioni del terapeuta, pone l’attenzione sull’importanza delle emozioni vissute dal terapeuta stesso, come fondamentale via sia per la conoscenza, che per la prevenzione di possibili distorsioni antiterapeutiche nella relazione con il paziente. Il terapeuta dovrà quindi saper identificare e discriminare gli aspetti controtransferali dalle proprie risonanze, consapevole della propria storia e delle proprie modalità di funzionamento. Per essere capace e presente, il terapeuta deve in primis aver fatto i conti con se stesso. Grazie a questo passaggio il terapeuta potrà essere empatico all’interno di un paradigma di responsabilità. Il destino dell’incontro terapeutico, infatti, non dipende solo dalla messa in atto di procedure consolidate, ma si gioca nella relazione tra il terapeuta e il paziente, basandosi sulla capacità di “essere con l’altro”, sia che si tratti di un individuo che di una famiglia.

Dopo aver analizzato le procedure opportune da seguire durante la consultazione all’interno dei quattro contesti della domanda, gli autori si concentrano sull’analisi della terapia, considerandone le fasi e gli eventuali formati (allargamenti, terapia parallela o terapia congiunta).

Conclusioni

Questo libro, sicuramente utile a orientare i terapeuti proponendo procedure e pratiche efficaci, è un testo sulla terapia sistemica che non si limita a dare indicazioni cliniche, ma che rimanda a una solida visione antropologica, filosofica ed epistemologica. È un testo che sollecita il terapeuta, e la sua équipe, a padroneggiare una tecnica, senza dimenticarsi che nell’esercizio di questa resta prioritario l’autenticità del rapporto tra sé e l’altro.

La psicoterapia tra epistemologia ed ermeneutica: una questione aperta

La psicoterapia si è ritagliata uno spazio tra le scienze con teorie validate empiricamente e metodi formalizzati.
L’applicazione di modelli e approcci empiricamente supportati da studi clinici randomizzati non dà, però, certezze circa l’impossibilità di violazioni del setting, applicazioni di tecniche inappropriate, errori e fallimenti terapeutici.

 

Il dibattito tra scienze della natura e scienze dello spirito secondo Dilthey

Il dibattito tra scienze della natura e scienze dello spirito risale a Dilthey. Le scienze della natura hanno per oggetto i fatti, una realtà esterna all’uomo che rimane tale nel momento in cui si conosce. Nelle scienze dello spirito i fatti si presentano dall’interno, hanno una connessione con la psiche. I significati della realtà hanno una dimensione storica e sociale e nell’atto della conoscenza vi è una partecipazione a essa.

Non si può comprendere, quindi, l’individuo prescindendo dal contesto storico-sociale nel quale è inserito e non si può anteporre l’individuo isolato alla storia se non attraverso una finzione.

Dilthey enfatizza l’aspetto psicologico della conoscenza, una conoscenza storica ripensata e ricostruita sull’esperienza vissuta (Erlebnis). Il comprendere è di tipo psicologico-ermeneutico e non causale-esplicativo.
L’ermeneutica traduce, interpreta per raggiungere secondo l’autore l’oggettività delle scienze della natura.

 

Le prospettive di Heidegger e Gadamer sulla conoscenza

Diversa è la prospettiva di Heidegger per il quale il comprendere è un modo di essere dell’Esserci (Dasein), influenzato da una comprensione preliminare. Gadamer riprende e condivide il concetto di precomprensione o pregiudizio. I giudizi sono influenzati dalla propria visione del mondo che costituisce una condizione fondamentale del processo cognitivo. Il pregiudizio va quindi abitato e non eliminato con prudenza e saggezza pratica, senza prescindere da sé e dalla concreta situazione ermeneutica. Il circolo ermeneutico che si esplicita con un costante dialogo tra domanda e risposta porta alla fusione di orizzonti dell’interprete con la sua precomprensione e dell’interpretato che porta con sé il suo vissuto.

L’epistemologia è letteralmente discorso sulla conoscenza certa, sulla scienza. Si occupa delle condizioni che determinano la conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungerla.

 

Come conoscere la realtà e con quali limiti

E’ possibile raggiungere una qualche verità? Quali sono i mezzi conoscitivi? Qual è l’oggetto di questa verità?
La storia della filosofia ci racconta che diverse risposte sono state date a queste domande. Solo per fare qualche esempio, alcuni hanno fondato nella conoscenza sensibile, altri nella ragione i mezzi conoscitivi, mentre rispetto alla realtà si è oscillato tra una realtà interna al soggetto e una realtà esterna. Le teorie della confermabilità e della falsificazione si sono contrapposte nella ricerca della strada maestra del metodo, e sono agli antipodi l’anarchismo epistemologico che sostiene l’inesistenza di un metodo canonico, la concezione di una scienza normale che progredisce gradualmente e il concetto di rivoluzione scientifica determinata da un nuovo paradigma che supera radicalmente il vecchio e promuove il progresso della conoscenza.

Il problema fondamentale rimane, però, quello dell’implicazione e dell’induzione: ogni cigno bianco conferma che i corvi sono neri, ossia ogni esempio non in contrasto con la teoria ne conferma una parte o nessuna teoria è mai vera in quanto, mentre esiste solo un numero finito di esperimenti a favore, ne esistono teoricamente anche un numero infinito che potrebbero falsificarla.

 

La psicoterapia come scienza

La psicoterapia si è ritagliata uno spazio tra le scienze con teorie validate empiricamente e metodi formalizzati.
L’applicazione di modelli e approcci empiricamente supportati da studi clinici randomizzati non dà, però, certezze circa l’impossibilità di violazioni del setting, applicazioni di tecniche inappropriate, errori e fallimenti terapeutici. D’altra parte il lavoro clinico quotidiano, sia svolto in strutture pubbliche o in studi privati fa incontrare pazienti resistenti al cambiamento, poco collaborativi, con i quali è molto difficile costruire una buona alleanza terapeutica, in sostanza diversi da quelli accuratamente selezionati per gli studi empirici. Esiste una discrepanza tra quella che è l’efficacy e l’effectiveness dimostrata dai dati che attestano gli insuccessi, le recidive e i drop-out per i singoli disturbi.

Il controllo delle variabili in gioco nel processo terapeutico è problematico in considerazione della dimensione partecipante del terapeuta, del vissuto del paziente e della complessità dell’interazione interpersonale. Gli eventi interni ed esterni al setting sono in parte indeterminabili. Inoltre, paziente e terapeuta pur essendo variabili distinte, agiscono in terapia relazionandosi con modalità specifiche e uniche secondo le caratteristiche di personalità.
Per questi motivi i concetti di misurabilità e di dimostrabilità per essere operazionalizzati devono tener conto di questi limiti, limiti che scontano per questi motivi anche i trattamenti manualizzati.

Come misurare il miglioramento dei pazienti

Un’altra considerazione che va tenuta presente è con riferimento al concetto di “guarigione” o forse meglio di miglioramento.
Su quali parametri li misuriamo: sulla diminuzione dei segni e dei sintomi o sulla scomparsa degli stessi, sul miglioramento della qualità di vita del paziente, sulla sua soddisfazione, o su quella del terapeuta. Come possiamo ritenere soddisfacente un intervento? Entro quale periodo lo stesso paziente dovrebbe mantenere uno stato di benessere? Come misurarlo?

Naturalmente queste difficoltà non devono esimere dall’applicare il metodo scientifico per la verifica di ciò che compie la psicoterapia, ma devono far riflettere sulla necessità di trovare vie specifiche che possano contemperare il rigore metodologico con le complessità da affrontare. Un tentativo originale è quello della “psicoterapia cognitiva modulare” (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero 2006). Il razionale consiste nel prendere singoli moduli di terapia e sottoporli a verifica, senza operare sull’intero processo terapeutico. Ad esempio se un paziente con diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo, tra le altre credenze ha quella del perfezionismo, potremmo misurare l’intervento su questa credenza applicando un intervento modulare che si avvarrebbe di tecniche specifiche e misurarne l’efficacia. In questo modo il controllo delle variabili sarebbe più semplice e permetterebbe un maggiore rigore. Così andremmo a costruire tanti piccoli mattoni che messi uno sull’altro andrebbero a formare un edificio stabile.

Naturalmente questo modello epistemologico non oscurerebbe definitivamente una dimensione ermeneutica che lascia spazio all’intuizione del clinico sul come, quando e perché applicare alcuni moduli piuttosto che altri e non eluderebbe quei fattori aspecifici che sono una componente del processo terapeutico ineludibile.
Del resto non possiamo dimenticare l’intenzionalità, che caratterizza l’agente cognitivo, il progettuale dischiudersi al mondo come possibilità e soggettività trascendentale.
La psicoterapia non può trascurare il vissuto che si genera dall’essere nel mondo, dalla presenza nel contesto storico determinato per ricostruire il senso irripetibile di quell’Esserci singolare.
La comprensione della persona come progetto esistenziale in cui il sintomo assume un significato intellegibile non può prescindere dall’incontro, da una relazione unica da dove emerge il riconoscimento dell’Essere, della sua Esistenza, del suo Valore, contro ogni riduzionismo, contro le tentazioni tecnicistiche.

 

La psicoterapia tra epistemologia ed ermeneutica

Applicare, quindi, i criteri epistemologici delle scienze della natura o adagiarsi ai metodi dell’interpretazione filosofica?
Sono preferibili i canoni nomologici-deduttivi o i paradigmi induttivi-statistici? Il circolo ermeneutico che ruolo può assumere?
Qualsiasi strada si voglia intraprendere ipotesi e orizzonti teorici sono comunque alla base di ogni spiegazione e la pluralità dei modelli esplicativi ci porta a una zona intermedia tra epistemologia scientifica ed ermeneutica, il territorio, secondo noi, al momento più consono alla psicoterapia.

Hutten (1974; 1976), molto vicino a Eistein, raccorda in questo senso le due prospettive: l’uomo ha un funzionamento gerarchizzato in livelli di complessità crescenti e integrati. Il livello organico può essere oggetto dell’epistemologia, il livello mentale ha bisogno di teorie della comunicazione, ossia di spiegazioni ermeneutiche che traducano senso e significato. I vari piani interagiscono e necessitano per essere spiegati e compresi, di teorie multiple che diano conto della complessità dell’espressione umana.

La capacità euristica attraversa matrici conoscitive e operazioni d’intellegibilità che si possono avvalere del metodo scientifico, ma non possono rinunciare all’ermeneutica come possibilità di rappresentare una conoscenza che ha una dimensione esterna e un’interna in reciproca interrelazione.
D’altra parte chiunque cerchi di appropriarsi di una verità esaustiva, è destinato a restare insoddisfatto. Quello della conoscenza è un procedere approssimativo e contingente che riconosce i suoi limiti per cercare di superarli, seguendo faticosamente le tracce che ogni spiegazione lascia sul terreno della crescita del sapere.

Strategie di prevenzione del gioco d’azzardo patologico: progetti attuati in Trentino Alto-Adige

L’esordio del gioco d’azzardo patologico può verificarsi durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma in altri individui si manifesta durante la mezza età o addirittura la tarda età adulta. Generalmente il disturbo da gioco d’azzardo si sviluppa nel corso degli anni e la maggior parte degli individui che sviluppa tale disturbo evidenzia un pattern di gioco che gradualmente aumenta sia di frequenza sia di quantità di scommesse.

Elena Tonazzolli e Alexander Benvenuto – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Cosa significa cadere nella trappola del gioco d’azzardo patologico?

Secondo l’articolo 721 del codice penale sono considerati giochi d’azzardo quelli ‘nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi aleatoria’. Quindi questa attività ludica ha una peculiarità in più che la differenzia dalla maggior parte degli altri giochi, e cioè la speranza del guadagno.

Solo nel 1977 il gioco d’azzardo patologico è comparso nella Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-9) e nel 1980 è stato inserito nella sezione dei ‘Disturbi del controllo degli impulsi non altrimenti classificati’ del DSM-III.

Nella nuova edizione del DSM-5 il gioco d’azzardo patologico (GAP) è stato riclassificato nell’area delle dipendenze (addictions) o per essere più precisi tra i disturbi non correlati a sostanze per le similarità tra il gioco d’azzardo patologico e le dipendenze da alcool e altre sostanze d’abuso (Costantini, 2015).

Il gioco d’azzardo comporta il rischiare qualcosa di valore nella speranza di ottenere qualcosa di valore maggiore. In molte culture, gli individui scommettono su giochi ed eventi, e la maggior parte lo fa senza avere problemi. Tuttavia, alcuni soggetti sviluppano una sostanziale compromissione correlata ai loro comportamenti legati al gioco d’azzardo. La caratteristica essenziale del disturbo è un comportamento disadattivo legato al gioco, persistente o ricorrente che sconvolge attività famigliari, personali e/o professionali.

Il disturbo da gioco d’azzardo è definito da un cluster di 4 o più sintomi elencati nel criterio A del DSM-5 che si verificano in qualunque momento nello stesso periodo di 12 mesi. La gravità del disturbo si basa sul numero di criteri manifestati.

Negli individui con disturbo da gioco d’azzardo può essere presente una distorsione del pensiero (per esempio: negazione, superstizioni, un senso di potere e controllo sugli esisti degli eventi casuali, eccessiva sicurezza).

L’esordio del disturbo può verificarsi durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma in altri individui si manifesta durante la mezza età o addirittura la tarda età adulta. Generalmente il disturbo da gioco d’azzardo si sviluppa nel corso degli anni e la maggior parte degli individui che sviluppa tale disturbo evidenzia un pattern di gioco che gradualmente aumenta sia di frequenza sia di quantità di scommesse.

 

 

Il gioco d’azzardo in Italia: epidemiologia

I primi contatti con il gioco d’azzardo avvengono sin dalle scuole primarie e l’abitudine a giocare d’azzardo è già ben consolidata in tarda adolescenza (Ferland, Ladouceur, Vitaro,  2002).

Prima una persona inizia a giocare tanto più è a rischio di sviluppare un problema di gioco d’azzardo patologico in età adulta.

In Italia, ad oggi sono state intraprese poche ricerche epidemiologiche riguardo al gioco d’azzardo su larga scala.  I dati disponibili possono fornire un’idea indicativa, in quanto non esistono studi accreditati, esaustivi e validamente rappresentativi del fenomeno. A partire dal 2003, il volume del gioco d’azzardo in Italia ha avuto un andamento crescente.

Nel 2011 in Italia sono stati spesi in gioco d’azzardo quasi 80 miliardi di euro. La somma maggiore è stata giocata negli apparecchi (slot machine e videolottery), che hanno raccolto il 56,3% del fatturato totale; seguono i gratta e vinci (12,7%), il lotto (8,5%), le scommesse sportive (4,9%), il superenalotto (3%) e infine il bingo e le scommesse ippiche.

La stima dei giocatori d’azzardo problematici varia dall’1,3% al 3,8% della popolazione generale, mentre la stima dei giocatori d’azzardo patologici varia dallo 0,5% al 2,2% (Coriale e al., 2015).

Seguendo i diversi studi sulla prevalenza del gioco d’azzardo patologico nel periodo adolescenziale si osserva, che il 40% degli studenti italiani tra i 15 e i 19 anni (45.000) afferma di aver giocato almeno una volta nell’arco del 2008 e il 52% di questi ha iniziato a giocare per caso (Capitanucci 2012).

Come nella popolazione adulta i ragazzi giocano di più delle coetanee (52,6% vs 28,8%) ed infine sempre seguendo Capitanucci (2012), si osserva una percentuale maggiore di giovani giocatori patologici se confrontati con la popolazione adulta.

La fascia giovane della popolazione, inoltre, è ugualmente esposta rispetto a quella adulta a pubblicità di giochi d’azzardo (non selettiva, spesso in onda in fasce protette o in popolari programmi di intrattenimento): web, televisione, riviste presentano allettanti inviti a giocare inducendo a credere che giocare d’azzardo sia divertente, eccitante ed un buon modo per fare soldi facilmente. L’accesso facile al gioco e la crescente prevalenza di gioco patologico tra i giovani dovrebbero quindi essere considerati questioni di interesse pubblico anche in Italia, ponendo in luce la necessità di un buon lavoro di prevenzione con iniziative mirate (Capitanucci, 2012).

 

 

Quale tipo di prevenzione è più utile?

Ma quali sono le caratteristiche di un intervento preventivo efficace? Basandoci sul modello di Uhl (2007) possiamo distinguere 3 diversi tipi di prevenzione :

  • La prevenzione primaria che si rivolge alla popolazione generale o ad un gruppo di persone non a rischio all’interno del quale non si riscontra ancora il problema in questione. La letteratura internazionale riguardo al gioco d’azzardo patologico suggerisce di lavorare sulla popolazione per favorire la comprensione esatta delle reali possibilità di vincita;
  • La prevenzione secondaria che si rivolge ad un gruppo a rischio il cui problema è alle fasi iniziali, ma non è del tutto sviluppato (le conseguenze negative non si sono ancora manifestate). Gli interventi in questo caso sono focalizzati sull’identificazione della problematica, sulla risoluzione (spesso collegata con l’astinenza totale) e/o sul miglioramento (spesso collegato con la riduzione) della stessa;
  • La prevenzione terziaria che riguarda gli interventi tesi ad impedire il progredire di una malattia conclamata, mediante trattamento, azioni di cura e riabilitazione in presenza di gioco patologico (Uhl, 2007; Capitanucci, 2012).

Tra i sistemi di classificazione della prevenzione è importante citare quello di Gordon (1983) che distingue tra:

  • Prevenzione universale: rappresenta programmi di prevenzione il cui target è un intero gruppo (studenti);
  • Prevenzione selettiva: si rivolge ad un sottogruppo considerato ad alto rischio (per esempio ragazzi di famiglie disagiate), ma che non mostrano ancora segni di un coinvolgimento con le stesse;
  • Infine la Prevenzione Indicata è rivolta ad un gruppo che mostra i primi segni di abuso o che mostrano altri segni gravi che potrebbero aumentare le possibilità di un abuso.

Vi è, infine, un’ulteriore distinzione tra prevenzione a livello di contesto (chiamata anche strutturale) e prevenzione a livello di comportamento. Se si agisce direttamente sul gruppo o sull’individuo, cercando di prevenire un certo problema cambiando direttamente il comportamento delle persone, allora ci troviamo ad un livello di prevenzione del comportamento. Se, invece, cerchiamo di prevenire il problema cambiando il contesto e/o l’ambiente in cui gli individui vivono, stiamo utilizzando una strategia a livello di contesto (normative, regolamenti e divieti).

La prevenzione del gioco d’azzardo patologico risulta un atto complesso da affidare agli specialisti del settore e le azioni preventive per ritenersi efficaci devono essere evidence-based (Capitanucci, 2012) e prevedere sia azioni mirate a diminuire fattori di rischio che a interventi atti a potenziare i fattori protettivi.

Lo scopo di questo articolo è quello di presentare recenti progetti con finalità preventiva che riguardano la realtà nazionale con un’attenzione particolare ai lavori svolti negli ultimi anni in Trentino-Alto Adige.

 

 

Le azioni preventive in Italia: I progetti realizzati dall’associazione AND (Azzardo e Nuove Dipendenze)

Per quanto riguarda la realtà italiana sono interessanti due progetti realizzati dall’associazione AND (Azzardo e Nuove Dipendenze), che dal 2003 si occupa di prevenzione, sensibilizzazione, formazione, ricerca e trattamento sul gioco d’azzardo.

I due progetti sono: ‘Il caso Lucky non si può influenzare‘, realizzato in collaborazione con l’ASL di Sondrio su finanziamento della regione Lombardia e ‘Scommettiamo che non lo sai‘, realizzato nel 2008 su commissione del MIUR (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca).

Il progetto ‘Il caso di Lucky non si può influenzare‘ si basava sulla presentazione nelle classi medie ed inferiori di un video convalidato scientificamente in Canada dal professor Ladouceur e adattato da AND. Il programma era finalizzato a modificare conoscenze ed attitudini degli adolescenti riguardo il gioco d’azzardo. Ci si focalizzava soprattutto sulle percezioni erronee sul caso. Il video presentato durava 20 minuti ed illustrava soprattutto l’indipendenza delle puntate, chiarendo altri frequenti errori cognitivi.

Il progetto ‘Il caso Lucky non si può influenzare‘ mostra tra i suoi risultati cambiamenti significativi e misurabili: Il video Lucky incrementa le conoscenze dei soggetti e modifica le loro cognizioni erronee sul gioco d’azzardo. Sia a breve termine che a distanza di sei mesi. Il grandissimo vantaggio di questo video è il suo facile ed economico inserimento nei programmi scolastici, senza ulteriori interventi o particolari competenze da parte dell’insegnante.

L’altro progetto che riguarda la realtà italiana è ‘Scommettiamo che non lo sai?‘. Consiste fondamentalmente in una guida cartacea sui rischi del gioco d’azzardo. Il progetto era rivolto agli studenti del biennio delle scuole secondarie nel torinese ed aveva ancora una volta lo scopo di correggere le cognizioni erronee ed aumentare le conoscenze sul gioco d’azzardo. I risultati sperimentalmente misurati in due momenti ripetuti con un gruppo sperimentale e uno di controllo, hanno mostrato che il testo presentato ai ragazzi incrementava significativamente le conoscenze dei soggetti e modificava le loro cognizioni erronee.

I due progetti presentati sembrerebbero essere molto efficaci, è stato dimostrato infatti che un intervento precoce ha spesso un impatto maggiore (Capitanucci, 2012).

Risulta senza dubbio molto utile offrire un numero consistente di sessioni mirate e tempestive a carattere educativo, ma la prevenzione aumenta la sua efficacia se comprende diversi aspetti e spazi delle persone. In altre parole, la scuola è sicuramente un ambiente favorevole, in cui fare prevenzione, ma non è l’unico. La realtà trentina a tal proposito ci offre esempi di prevenzione svolti anche al di fuori dell’ambito scolastico.

 

 

La prevenzione del gioco d’azzardo patologico in Trentino-Alto Adige

 

Il Forum Prevenzione di Bolzano

Quasi l’intero lavoro di prevenzione che viene svolto in Alto Adige-Südtirol è fatto, programmato e seguito direttamente o in collaborazione con il Forum Prevenzione di Bolzano. La peculiarità del Forum è quella di occuparsi esclusivamente di prevenzione e di promozione della salute e di esser indipendente (anche se esiste una costante collaborazione) dai SERT e da qualsiasi altra struttura sanitaria. Una struttura di questo genere è del tutto innovativa nella realtà italiana.

Il Forum Prevenzione di Bolzano cerca di seguire il ‘modello cubico’ di prevenzione proposto da Siedler (2007) che prevede una sistematicità in tre dimensioni: la prima dimensione mostra la necessità di affiancare una prevenzione di tipo comportamentale ad una a livello di contesto. È necessario poi offrire in modo adeguato e contingente una prevenzione universale, selettiva ed indicata. Infine, la terza dimensione suggerisce di intervenire in diversi contesti sociali partendo dal micro-contesto (costituito per esempio dalla famiglia o dalla scuola), raggiungendo un macro-contesto e cambiando, se necessario anche legislativamente, le condizioni generali o i criteri di contesto su cui si basa una società.

 

Il progetto pilota di Merano: aggiornamento e formazione del personale di sale gioco

Nello specifico tra i progetti realizzati dal Forum o in collaborazione con esso vi è il progetto pilota realizzato a Merano sulla formazione del personale di sale da gioco.

Per quanto riguarda la prevenzione del gioco d’azzardo patologico, i punti fondamentali che sono stati toccati riguardavano l’inquadramento del fenomeno, i vari giochi accessibili, il coinvolgimento della popolazione, le stime del giocato, l’importanza di formare una certa sensibilità sul tema per i lavoratori addetti, l’illustrare le problematicità ed il significato del gioco per alcune persone ed infine la tutela dei minorenni e quindi il dovere del personale di controllare l’età anagrafica dei propri clienti.

Per quanto riguarda il riconoscimento precoce di giocatori a rischio sono stati dati diversi spunti su cui riflettere e molti consigli sulle particolarità da osservare e che riportano ad una possibile forma di gioco problematico (frequenza visite, durata di gioco all’interno delle sale gioco, comportamenti aggressivi verso le macchinette o il personale, aumento del denaro speso, la cura del proprio aspetto ecc.).

Infine diverso tempo è stato speso per spiegare al personale l’importanza di instaurare un contatto umano con i propri clienti. L’azione di prevenzione in questione si presenta in forma indiretta poiché non è rivolta direttamente alle persone sulle quali si vuole prevenire una certa problematica, ma a cosiddette figure chiavi, che hanno in un secondo momento la possibilità o il dovere di agire sulle persone che mostrano una certa problematica.

La fortuna di potersi affiancare, nel qui ed ora, ad una persona che ha un comportamento di dipendenza, non è possibile in tante altre forme di dipendenza. È questa una particolarità del gioco d’azzardo patologico. Inoltre il personale di sale giochi hanno la possibilità di riconoscere precocemente forme patologiche di gioco d’azzardo, perché sono presenti proprio nel momento e nel luogo in cui sta avvenendo l’esperienza di gioco.

Purtroppo, però, l’Italia non prevede una regolamentazione legislativa per una adeguata formazione del personale. Sta, quindi, nella libera scelta e nell’etica del personale, cercare di intervenire o monitorare la situazione all’interno delle sale. Sicuramente l’inesistenza di una regolamentazione indebolisce estremamente azioni preventive di questo genere. È importante, però, aggiungere come durante la formazione si è cercato di spiegare al personale che è economicamente vantaggioso per l’azienda intervenire per prevenire forme patologiche di gioco d’azzardo.

Un giocatore abituale, ma senza alcuna forma di dipendenza spenderà, infatti, una cifra meno elevata, ma costante nel tempo. Giocatori patologici, invece, giocheranno fino a quando non affogheranno nei debiti e non potranno più giocare, per un motivo o l’altro. Anche in questo caso, le spese sono state minime e l’utilità dell’intervento sembrerebbe superare in ogni caso il costo. La formazione è stata pagata dal Comune, un costo irrisorio, che anche in tempi di crisi può essere supportato per la salute della popolazione.

Purtroppo manca una qualsiasi forma di valutazione per misurare l’utilità dell’intervento. Sarebbe stato utile un riscontro sia delle opinioni del personale, che una valutazione sulle conoscenze acquisite. Sarebbe stato, inoltre, molto interessante approfondire se il personale delle sale giochi abbiano seguito i consigli e le conoscenze acquisite durante le due giornate di formazione e aggiornamento.

 

Il progetto ‘Fate il nostro gioco’ – Bolzano

Un secondo progetto nato nel 2009 da Canova e Rizzuto è stato proposto nell’autunno 2013 anche a Bolzano. L’idea del progetto denominato ‘Fate il nostro gioco‘ è quella di usare la matematica come strumento di prevenzione per immunizzarsi dal rischio degli eccessi del gioco. In altre parole, la speranza è che grazie al pensiero logico e critico, si riesca a sconfiggere in parte quello magico, che ha la potenzialità di farci cadere nella trappola del gioco.

Nell’autunno del 2013 è stata allestita a Bolzano una sala con diverse postazioni di gioco d’azzardo (un tavolo da Poker, diverse Slot Machine, il gioco della roulette). La mostra è stata offerta a titolo gratuito a piccoli gruppi accompagnati nelle varie postazioni da guide reclutate dalla facoltà di matematica e informatica nelle Università di Innsbruck e Bolzano. Le guide sono state formate riguardo le caratteristiche matematiche di probabilità e meccaniche dei diversi giochi oltre ai diversi aspetti psicologici del gioco d’azzardo patologico e ai diversi modi di approccio al pubblico ed eventuali giocatori.

L’aspetto della preparazione pratica e teorica delle guide ha giocato un ruolo fondamentale dal momento che l’idea era quella di far giocare gli ospiti, accompagnando però il gioco con spiegazioni sulle probabilità di vincita e sulla meccanica del funzionamento dei giochi. In questo modo si è cercato di portare i diversi gruppi target alla consapevolezza delle basse probabilità di vincita, e che quest’ultima non ha niente a che fare con la bravura del singolo ma dipende piuttosto dalla fortuna e meccanica dei diversi giochi.

Il progetto di Canova e Rizzuto si basa su un approccio cognitivo che vede nelle cause principali del gioco d’azzardo patologico una serie di bias cognitivi, cioè errori nel pensiero logico. L’approccio cognitivo ha avuto una serie di riscontri scientifici e gioca quindi sicuramente, un ruolo fondamentale nella nascita, evoluzione e mantenimento del gioco d’azzardo patologico.

Lo scopo del progetto era quello di offrire fattori protettivi che permettessero agli utenti di valutare la situazione del gioco nell’ottica di un pensiero logico.

 

Restrizione delle aree da gioco

Seguendo la logica del sistema cubico spiegato precedentemente, il Forum Prevenzione si è fatto promotore negli anni di diverse proposte legislative per arginare la problematica del gioco d’azzardo patologico. Queste leggi sono un ottimo esempio di prevenzione strutturale (o a livello di contesto) che puntano ad una diminuzione della ormai altissima e facile disponibilità del gioco d’azzardo e cercano quindi di salvaguardare le fasce più deboli.

In breve verranno presentati i quattro passaggi fondamentali che hanno portato alla regolamentazione del gioco d’azzardo lecito in Alto Adige.

La legge provinciale del 14 dicembre 1988, n.58, regola le norme in materia di esercizi pubblici. Precisamente l’art.11 regolamenta lo svolgimento dei giochi leciti. In questa legge, però, non erano ancora state pensate alcune norme di tutela per il giocatore d’azzardo.

La legge provinciale del 13 maggio 1992, n.13, invece, regola le norme in materia di pubblico spettacolo, ma anche in questo caso non veniva specificato nulla sulla regolamentazione dei giochi leciti.

Bisognerà aspettare il 22 novembre del 2010, con la legge provinciale n. 13, per intravedere le prime importantissime restrizioni e regolamentazioni per i giochi leciti in Alto Adige-Südtirol. Più precisamente viene aggiunto alla legge provinciale del 1992 l’art. 5-bis che richiama l’attenzione sull’importanza della tutela di determinate categorie di persone e per prevenire il vizio del gioco indica il divieto di concedere ‘l’esercizio di sale da giochi e di attrazione se le stesse siano ubicate in un raggio di 300 metri da istituti scolastici di qualsiasi grado, centri giovanili o altri istituti frequentati principalmente da giovani o strutture residenziali o semi-residenziali operanti in ambito sanitario o socio assistenziale’ (Legge provinciale del 22 novembre 2010 n.13). L’autorizzazione per l’esercizio di sale da gioco viene concessa per 5 anni e a scadenza ne può essere richiesto il rinnovo. Per le autorizzazioni esistenti il termine decorre dal 1 gennaio 2011. Inoltre aggiunge la possibilità della giunta provinciale di individuare altri luoghi sensibili, prendendo in considerazione l’impatto sul contesto urbano e sulla sicurezza urbana; nonché dei problemi connessi con la viabilità, l’inquinamento acustico e il disturbo della quiete pubblica. Viene, infine, vietata qualsiasi attività pubblicitaria relativa all’apertura o all’esercizio di sale da giochi e di attrazione.

L’art. 2 della stessa legge (1992), invece, modifica la legge provinciale del 1988, che abbiamo già visto precedentemente e regolamenta l’offerta dei giochi leciti negli esercizi pubblici (bar, ristoranti etc.). La stessa indica con l’art. 1-bis che i giochi leciti non possono essere messi a disposizione in un raggio di 300 metri da gli stessi posti sensibili che valgono per le sale giochi.

Arriviamo, infine, alla legge provinciale dell’11 ottobre 2012, n. 17, che modifica ulteriormente la legge provinciale del 14 dicembre 1988, n.58, aggiungendo il comma 1ter. Esso indica la rimozione di tutti gli apparecchi da gioco già installati negli esercizi pubblici. Il termine ultimo per la rimozione è di due anni dall’entrata in vigore del comma 1-bis del 2010. Inoltre conferisce ai sindaci, quindi ai singoli Comuni, il diritto e il dovere dei controlli e di far eseguire le norme previste. Questo ultimo disegno di legge colma un vuoto normativo della legge provinciale n. 58 del 1988 che regolamentava i posti sensibili e le distanze da rispettare, ma non prevedeva ne sanzioni per i trasgressori e neanche chi fosse responsabile dell’applicazione della legge.

Riassumendo:

  • Alle sale giochi non viene più rinnovata la concessione a fine durata (5 anni), se quest’ultime si trovano all’interno di un raggio di 300 metri dai posti sensibili precedentemente elencati.
  • Tutti gli apparecchi devono essere tolti dagli esercizi pubblici (bar, ristoranti etc.) entro la fine dell’anno 2012, se quest’ultimi si trovano all’interno di un raggio di 300 metri dagli stessi posti sensibili sopra elencati.
  • I singoli Comuni e i rispettivi sindaci hanno la possibilità di intervenire, sanzionando i gestori e hanno il compito di far rispettare le normative vigenti. Inoltre possono individuare ulteriori posti sensibili.

Queste azioni che rientrano all’interno di una prevenzione strutturale sono in linea con il modello 3M di Kielholz & Ladewig (1973) che considera l’accessibilità dell’oggetto o comportamento di dipendenza una delle maggiori cause per lo sviluppo della dipendenza. Anche il DSM-IV-TR (2001) e Eidenbenz (2011) riportano una correlazione positiva e preoccupazione tra la disponibilità del gioco d’azzardo legalizzato e la prevalenza della patologia del gioco d’azzardo.

Le diverse leggi della provincia di Bolzano prevedono concrete restrizioni dell’offerta del gioco d’azzardo e hanno potere retroattivo.

 

 

Considerazioni conclusive

Il lavoro intrapreso nella provincia di Bolzano per prevenire e arginare il fenomeno del gioco d’azzardo patologico rappresenta il tentativo di un lavoro di prevenzione globale, che interviene su diverse dimensioni.

Il Progetto Pilota di Merano consiste in un’azione di prevenzione in forma indiretta, non rivolta direttamente ai giocatori patologici.

Tale progetto ha messo in luce come il personale di sale da gioco o casinò, occupi un ruolo importante nella dipendenza dal gioco d’azzardo. Queste figure sarebbero potenzialmente in grado, instaurando un contatto umano con i propri clienti, di riconoscere precocemente forme patologiche di gioco d’azzardo, essendo presenti proprio nel momento e nel luogo in cui avviene l’esperienza di gioco.

Il progetto ‘Fate il nostro gioco’ presenta indubbiamente molti punti forti. Organizzato in maniera ottimale, dà la possibilità a moltissime persone di prendere coscienza del fenomeno del gioco d’azzardo sia patologico che non, e di raccogliere informazioni sul funzionamento meccanico dei giochi, al fine di acquisire dei validi strumenti (la conoscenza delle probabilità, della meccanica dei giochi etc.) utili a contrastare il pensiero magico legato al gioco.

Infine, riguardo all’azione di prevenzione che prevede la restrizione delle aree da gioco, in linea con l’opinione scientifica, riteniamo che sia assolutamente necessario regolarizzare il gioco d’azzardo con delle restrizioni. La tendenza nazionale degli ultimi 15-20 anni, invece, è stata del tutto inversa, liberalizzando a dismisura l’offerta di gioco. Da questo punto di vista, l’Alto Adige-Südtirol ha preso un’altra via già anni fa, anticipando e proponendo un inquadramento legislativo che sembra essere molto più completo e utile del Decreto Balduzzi. Personalmente siamo dell’opinione che questa normativa abbia anticipato i tempi (almeno a livello nazionale) e sia quindi innovativa e una concreta azione preventiva. Il contatto con il gioco era (ed è ancora) fin troppo facile e casuale.

La maggiore criticità dei progetti qui presentati, nello specifico di quelli svolti in Trentino Alto- Adige, riguarda la mancata valutazione d’efficacia.

La valutazione di tipo semi-sperimentale e sperimentale (con gruppi di controllo) permette di conoscere quali sono i progetti che garantiscono efficacia (risultati di abbassamento del gioco di azzardo patologico) e maggior efficienza (miglior impiego delle risorse e ottimizzazione del rapporto costi/ efficacia). Questo è un aspetto che, se nel breve periodo richiede un modesto investimento, per il coinvolgimento di personale esperto nella valutazione (Università o Centri di ricerca), nel medio e lungo periodo garantisce politiche sociali di prevenzione molto più mirate e incisive. (Caneppele, Marchiaro, 2014).

È dunque auspicabile in futuro, porre maggior attenzione a questo aspetto, al fine di migliorare i progetti preventivi e focalizzare attenzione e risorse su metodi efficaci ed efficienti.

Sulla soppressione del Tribunale per i Minori, perchè così non va proprio bene

La questione inerente la postulata soppressione del Tribunale per i Minorenni si correla, necessariamente, ad una valutazione, dal respiro nettamente più ampio, inerente le modalità attuative di un tale intervento, nonché la riorganizzazione dell’apparato concepito dal legislatore a tutela del minore.

Così, un favore nei confronti di detta soppressione potrebbe incontrare l’adesione da parte degli operatori del diritto, esclusivamente ove tale organo risultasse effettivamente inglobato in un vero e proprio Tribunale per la Famiglia.

Diversamente, ove venisse a configurarsi una sorta di abolizione sic et simpliciter del Tribunale per i Minorenni, non si potrebbe non provare perplessità verso una soluzione che farebbe “invecchiare la società giuridica” di qualche decennio, provocando un effetto tabula rasa dei principi base della cultura normativa, ormai da tempo orientata, scritta e pensata alla luce dell’esclusivo interesse dei minori, siano essi vittime di reati, bimbi in stato di abbandono o prole di coppie in crisi.

Il rischio, in altre parole, è che le pratiche processuali che vedono coinvolto un minorenne, a dir poco delicate, vengano analizzate e poi decise da una magistratura solo prima facie specializzata, ma, invero, priva di puntuale competenza in materia minorile, tanto da concretarsi una violazione, più o meno esplicita, della disciplina costituzionale e delle raccomandazioni europee.

Rischio fugato, invece, ove – come inizialmente prospettato – fosse stata prevista la creazione di un Tribunale e di un Ufficio autonomo di Procura, demandati in via esclusiva della trattazione di ogni procedimento riguardante un soggetto non maggiorenne. In similari ipotesi, del resto, la specializzazione della magistratura, in uno con l’esclusività della sua funzione, nel civile come nel penale, divengono fattori vitali a garanzia dei diritti del minore, ove si pensi, tra le altre considerazioni, al fatto che, con il noto giusto processo, il Pubblico Ministero minorile non possiede la facoltà, facente capo alla Procura minorile (della quale, però, non sono ancor chiari ruolo e previsione in seno alla discussa riforma), di aprire d’ufficio un processo a tutela del minore.

E allora, come si può pensare di creare sezioni specialistiche senza dotarle di autonomia funzionale? Ancora, occorrerebbe che i magistrati assegnati alle sezioni specializzate venissero esonerati dai turni cosiddetti ordinari, nell’ottica di garantir loro un’azione immediata in caso di appurato o ipotetico pericolo per il minore. Di qui, l’opportunità e l’auspicio che, alla linea finora tracciata in vista della possibile soppressione dei Tribunali per i Minorenni, siano apportate sensibili modifiche volte, dati alla mano, ad una tangibile – e non solo apparente – razionalizzazione del sistema giustizia.

PER FIRMARE LA PETIZIONE none

 

 

Hanno preso posizione riguardo all’abolizione dei Tribunali per i minorenni:

 

Fermiamo l’abolizione dei Tribunali per i Minorenni!

Vi chiedo pochi minuti di attenzione per una questione di grande importanza di cui la stampa si sta occupando pochissimo: la Riforma della Giustizia “Orlando”, che ha appena concluso il suo Iter alla Camera e sta passando al Senato, contiene una parte che riguarda la riforma del Tribunale per i Minorenni.

Fino a gennaio la Riforma sembrava andare nella direzione di una sorta di passaggio dal TM al nuovo Tribunale per la Famiglia, che avrebbe riunito tutte le competenze sui Minori.

Ma a gennaio la inaspettata approvazione di un emendamento in Commissione Giustizia della Camera (il n.25 proposto dalla deputata PD Ferranti) ha fatto tracollare la situazione, portando ad una abolizione tout court del Tribunale per i Minorenni, a favore di non meglio specificate sezioni specializzate.

La riforma, così come è al momento, è destinata a riportarci indietro di 50 anni, proprio nel momento in cui la nostra Giustizia Minorile sta ricevendo i maggiori tributi nel resto d’Europa.

La riforma ridurrà drasticamente la specializzazione dei Magistrati (sia Giudicanti che Inquirenti) che si occupano di Minori, portando nella maggior parte d’Italia ad una situazione nella quale si occuperanno di questioni delicatissime (penale minorile, abuso sessuale in infanzia, separazioni ad alta conflittualità, maltrattamenti ai bambini,…) Magistrati che non hanno specializzazione sui temi dei Minorenni, e che si devono occupare di questa materia al pari di incidenti stradali, marchi, fallimenti,…

Quando il Ministro Castelli, nel 2003, propose la chiusura del Tribunale per i Minorenni, ci fu un sollevamento di scudi sia in Parlamento che negli organi di Stampa. Oggi, invece, la riforma sta conducendo il suo iter senza che gli organi di stampa stiano dando alla questione la giusta rilevanza.

Tutte le rappresentanze degli “operatori del settore” (Magistrati, Magistrati Minorili, Avvocati minorili, ordine degli assistenti sociali, ordine degli psicologi, tutte le organizzazioni che compongono il Gruppo CRC, incaricato di verificare il rispetto in Italia della Convenzione ONU sui diritti dei minori,…) hanno preso una posizione durissima contro la soppressione dei Tribunali per i Minorenni.

Ma c’è bisogno che a prendere posizione siano tutti i Cittadini, perché l’abolizione dei TM è una ferita al nostro Paese, che lo riporta indietro di decenni sulla cultura della Tutela dei bambini e degli adolescenti!

Vi chiedo di firmare questa petizione per chiedere ai senatori che compongono la commissione giustizia di stralciare dalla riforma gli articoli riguardanti la disciplina minorile, per portarla a una discussione piu’ accurata e meno frettolosa.

(Il testo della petizione è a cura di Paolo Tartaglione, NdR).

Fagocitosi: il cervello ha bisogno di fare pulizia per rimanere in buona salute

Fagocitosi: La ricerca che è stata condotta dal Centro di neuroscienze presso l’Università dei Paesi Baschi ha indagato i meccanismi che mantengono il cervello pulito in soggetti con malattia cerebrale, in particolar modo valutando cosa accade durante le malattie neurodegenerative.

Silvia Ciresi

 

Introduzione: cos’è la fagocitosi

Quando i neuroni muoiono, i loro residui devono essere rimossi velocemente per permettere al tessuto cerebrale circostante di continuare a funzionare correttamente e non essere danneggiato. L’eliminazione dei neuroni morti avviene tramite un processo chiamato fagocitosi ed è effettuato da cellule altamente specializzate nel cervello chiamate cellule microglia. Queste piccole cellule hanno molte ramificazioni, sono in costante movimento e sono specializzate ed attrezzate per rilevare e distruggere qualsiasi elemento estraneo presente, inclusi i neuroni morti. O almeno così si pensava fino ad ora.

 

Lo studio sul processo della fagocitosi

Questo studio, che è stato pubblicato il 26 maggio 2016 su Biology, indaga per la prima volta il processo di morte neuronale ed il processo della fagocitosi da parte della microglia nel cervello malato ed in particolar modo nei pazienti con epilessia. A tale scopo, gli scienziati hanno effettuato gli studi sia su cervelli di pazienti affetti da epilessia sia su quelli di topi epilettici.

È noto che durante la crisi epilettica associata a convulsioni, i neuroni muoiono. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nel cervello sano, durante un attacco epilettico, la microglia sembra essere “cieca” e non essere in grado di individuare i neuroni morti e distruggerli. Data la premessa effettuata precedentemente, risulta chiaro come questo comportamento appaia anomalo: in tal caso, i neuroni morti non possono essere eliminati e si accumulano, espandendo i danni della morte cellulare anche ai neuroni limitrofi, fino a tale momento preservati dal danno e così si innesca una risposta infiammatoria che peggiora il danno cerebrale già presente.

 

Conclusioni

Questa scoperta apre nuove strade future da esplorare per individuare nuove terapie farmacologiche che potrebbero alleviare gli effetti delle malattie cerebrali. Infatti, lo stesso gruppo di ricerca sta attualmente sviluppando nuovi farmaci, con l’obiettivo di scoprire terapie efficaci capaci di incrementare il processo di fagocitosi (pulizia cerebrale) nei pazienti con epilessia e crearne una nuova speranza di trattamento.

Le conclusioni di questa ricerca sono davvero importanti, non solo per la scoperta in sè, ma soprattutto per le notevoli implicazioni che tale ricerca potrebbe avere nello studio e nel trattamento, non solo dell’epilessia, ma anche di altre patologie cerebrali degenerative; apre quindi la strada a nuovi percorsi di ricerca, dando soprattutto una speranza ai pazienti.

Il futuro del cognitivismo: selezione del migliore o sterile frammentazione?

Non è un mistero che anche la psicoterapia cognitivo-comportamentale sta andando incontro a quei fenomeni di frammentazione che già hanno colpito gli altri orientamenti psicoterapeutici, principalmente quello dinamico o psicoanalitico, e che si sperava risparmiassero il paradigma cognitivo.

 

Ebbene si, ci siamo cascati anche noi. Per una ventina d’anni ci siamo goduti il nostro successo mite ed eccentrico, a cui si aggiungeva a tratti qualche ingenua arroganza scientista: siamo noi la psicoterapia scientificamente corretta! È questa la frase con cui noi terapeuti cognitivi volevamo liquidare la concorrenza. Ora però il gioco si sta complicando anche per noi.

Tutto è iniziato con la cosiddetta “terza ondata”, i nuovi sviluppi del cognitivismo clinico al volgere del millennio o poco prima, essendo stati il comportamentismo la prima e la terapia cognitivo-comportamentale la seconda. Inizialmente non sembrava che si andasse incontro a una frammentazione. Si assisteva semmai a nuovi sviluppi, per la verità un po’ disomogenei tra loro. Nuovi sviluppi che in realtà erano anche un ritorno al passato, a quella radice comportamentista troppo trascurata. Naturalmente questa riscoperta non si presentò come trito neo-comportamentismo. Il tutto fu riconcettualizzato, e il ritorno alle tecniche comportamentali implicava una concezione diversa dell’attività mentale. Non più solo manipolazione esplicita di pensieri come nella seconda ondata, quella cognitiva, ma anche gestione e regolazione complessa, al tempo stesso intuitiva, cognitiva e metacognitiva, del comportamento quotidiano.

Un altro sviluppo erano la cosiddetta mindfulness e l’addestramento attenzionale (attentive training) della terapia metacognitiva di Adrian Wells, una particolare modalità dello stato attentivo, in cui il soggetto pensante concentra il massimo dell’attenzione su ciò che accade nella sua mente, cercando però di non emettere mai giudizi e/o valutazioni (nemmeno positive), trarre conclusioni, elaborare inferenze, tentare previsioni (anche in questo caso, nemmeno positive). Insomma, Il lavorio logico e predittivo tipico della mente razionale andava minimizzato.

Poi si sentì parlare della self-compassion di Paul Gilbert traducibile inelegantemente con il termine di auto-compassione, o un po’ meglio con compassione rivolta a se stessi. Come molti i concetti di terza ondata, la self-compassion è un ibrido che comprende sia un contenuto che una disposizione mentale. Si tratta di una condizione di comprensione e accettazione verso se stessi che in qualche modo è il rovescio di quel pensiero negativo che è il nocciolo degli stati di sofferenza mentale.

Poi c’è la metacognizione. Secondo Semerari e i suoi collaboratori del Terzo Centro e in in seguito Dimaggio la metacognizione è l’insieme delle abilità che ci consentono di attribuire e riconoscere la presenza di stati mentali (es. emozioni, pensieri, desideri, bisogni, intenzioni) in noi stesso e negli altri. Questa complessa operazione avviene valutando le espressioni facciali, gli stati somatici, i comportamenti e le azioni ma anche i pensieri espressi verbalmente. È soltanto grazie a questo riconoscimento che diventa possibile riflettere e ragionare su questi stessi stati mentali, nostri e altrui, e diventa possibile utilizzare tali conoscenze per prendere delle decisioni, risolvere i problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare efficacemente i propri desideri e scopi con gli altri.

Infine c’è l’accettazione, teorizzata da Steven Hayes (ACT acceptance and commitment therapy). Anch’egli è un terapeuta neo-comportamentale, e anch’ egli raccomanda l’efficacia dell’intervento di accettazione delle emozioni. Anche in questo caso c’è un ribaltamento dell’assetto cognitivo razionalistico. Non si tratta più modificare un bel nulla, ma di accettare. Ciò che produce sofferenza non è il contenuto cognitivo in sé, ma il ritenerlo inopportuno, “strano”, diverso dal normale. Basta invece normalizzarlo per vedere calare l’ansia a livelli più ragionevoli. Insomma, accettare l’ansia la fa diminuire. L’intervento di accettazione alla Hayes parte dal presupposto che la sofferenza mentale non sia determinata dai contenuti disfunzionali, ma da una valutazione (ancora una volta metacognitiva) di rifiuto e non accettazione dei propri stati mentali. Anche in questo caso l’accettazione corrisponde ad una nuova attitudine avalutativa, e quindi siamo ancora una volta dalle parti della mindfulness, oltre che della metacognizione.

 

Questa breve disanima ci fa capire che, malgrado quanto abbiamo scritto a inizio articolo, il panorama appare frammentato ma non del tutto disomogeneo. Ci sono alcuni temi ricorrenti: la metacognizione, l’accettazione, l’attivazione comportamentale.  

Tutte queste nuove proposte, sebbene in parte disomogenee, promuovono un’attitudine mentale opposta a quella che si esercita in una seduta di psicoterapia cognitiva. L’obiettivo è un atteggiamento mentale che tenta di eliminare ogni valutazione logico-deduttiva dei contenuti cognitivi della sofferenza mentale. Al suo posto troviamo una posizione osservativa in cui la mente si lascia riempire di stati percettivi e riduce anche le operazioni mentali attive a una stato di passività percettiva. Quindi non vi è una completa disomogeneità scientifica. Eppure, dal punto di vita organizzativo e sociologico, questi nuovi sviluppi mostrano un quadro di frammentazione.

I vari studiosi si vanno separando, fondano nuove società, fanno i loro congressi, e lanciano nuovi giornali dedicati esclusivamente al loro pensiero. Insomma le nuove proposte vanno configurandosi non come novità all’interno del paradigma cognitivo ma ognuna di loro si pone come un nuovo paradigma. Si parlano sempre di meno tra loro. Fino alla fine degli anni zero era possibile incontrare e sentire Hayes o Wells ai congressi cognitivi internazionali, oggi li puoi ascoltare solo se vai ai congressi delle rispettive società che hanno fondato.

Lo scenario non è d’integrazione, ma di competizione tra differenti paradigmi. Forse è giusto, forse questo scenario darwiniano è quello più naturale e produttivo. Oppure no, forse stiamo sbagliando, ci stiamo chiudendo in una sterile contrapposizione tra chiese isolate che inaridisce il dibattitto e blocca lo scambio d’idee. Forse avremmo sentito il bisogno di un periodo di confronto più lungo, anche più duro ma meno chiuso e più fertile tra persone e tra modelli diversi, prima di assistere a questo isolarsi di ciascuno in piccoli ambiti autoconfermativi, in cui è più facile raccontarsi da soli che si è i più bravi, che tutto torna, che gli altri si stanno sbagliando e che il mondo dovrà capire che siamo i più forti.

Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero

Quali sono le capacità di ragionamento morale nella psicopatia?

Psicopatia: partendo dal presupposto che nei soggetti psicopatici risulti compromesso lo sviluppo di una normale socializzazione morale, un certo numero di studi si sono occupati di testare l’ipotesi per cui gli individui con psicopatia mancherebbero di adeguate capacità di ragionamento morale.

Roberta Cattani, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Il paradigma della moralità di Kohlberg

Uno dei paradigmi più usati per accertare le abilità di giudizio morale è quello di Kohlberg, il quale ha sviluppato la sua tecnica nell’ambito della psicologia evolutiva, trovando applicazione soprattutto nella valutazione del livello di sviluppo morale dei bambini (Colby and Kohlberg, 1987; Kohlberg, 1969).
Tale metodo prevede che ai partecipanti vengano descritte delle situazioni di dilemma morale, ossia condizioni in cui sembra impossibile soddisfare nello stesso tempo due o più doveri mutualmente escludentisi, e venga poi chiesto di dire in che modo, secondo il loro parere, il protagonista dovrebbe agire e per quale motivo.

L’esempio più celebre di questi dilemmi morali è la vicenda di Heinz, la cui moglie è moribonda per una forma di cancro ma potrebbe essere salvata da un farmaco particolare, inventato da un farmacista della sua città. Questi però, volendo far soldi con la sua scoperta, pretende una cifra molto elevata, che Heinz non riesce a raccogliere nemmeno chiedendo in prestito denaro ai suoi conoscenti: invano chiede al farmacista di ridurre la cifra o di pagare successivamente per poter salvare la moglie e così, disperato, penetra nella farmacia e ruba il farmaco.
Una volta raccontata questa storia, si chiede allora al soggetto se Heinz abbia agito correttamente o se avrebbe dovuto comportarsi in altro modo e per quali ragioni.

Così, nel caso ad esempio in cui il soggetto risponda che Heinz non avrebbe dovuto rubare il farmaco perché ciò è contro la legge, il ricercatore può esplorare con una serie di domande il modo in cui il soggetto considera la legge, per esempio se per lui si tratta di una norma alla quale bisogna obbedire perché in caso contrario si rischia una punizione o se invece fa parte di un sistema che va rispettato in quanto tale.

Il metodo di Kohlberg analizza quindi, con una procedura che comprende un ampio ventaglio di domande, sia la struttura delle risposte, cioè il modo in cui il soggetto ragiona sulle scelte fatte e le giustifica, sia il loro contenuto, cioè il giudizio su ciò che il protagonista della vicenda dovrebbe o avrebbe dovuto fare. Ciò che più conta però ai fini della valutazione del livello di ragionamento morale non è tanto il giudizio in se stesso a favore o meno del comportamento di Heinz, quanto la complessità delle argomentazioni addotte alla propria opinione: più complessa è la risposta fornita dal partecipante, più si può considerare il suo livello di ragionamento morale elevato.

Dall’applicazione di tale paradigma alla psicopatia è così emerso che il giudizio morale di questi individui si colloca ad un livello significativamente più basso rispetto a quello dei soggetti normali del gruppo di controllo (Blasi, 1980; Campagna and Harter, 1975; Fodor, 1972, 1973; Hudgins and Prentice, 1973; Jurkovic and Prentice, 1977).

In particolare, in queste ricerche è risultato che le risposte dei soggetti psicopatici a questo paradigma hanno caratteristiche paragonabili a quelle di bambini di un’età inferiore ai dieci anni circa e collocabili quindi ad un livello di ragionamento morale cosiddetto preconvenzionale.
Kohlberg (1969) ha infatti delineato in ambito evolutivo una concettualizzazione cognitiva dello sviluppo morale, tale per cui esso procederebbe secondo una sequenza invariante di tre livelli suddivisi in totale in sei stadi, ognuno dei quali rifletterebbe a sua volta un certo livello di sviluppo cognitivo qualitativamente differente da quello precedente.

Nel primo livello, quello preconvenzionale, la motivazione sulla quale si basa la valutazione dei comportamenti è legata al rischio di ricevere una punizione e quindi all’obbedienza all’autorità: la prospettiva socio-cognitiva usata è quindi quella egocentrica, non viene cioè tenuto conto di possibili differenze nei punti di vista dai quali può essere giudicato un dilemma morale, né si considerano adeguatamente le intenzioni che determinano un comportamento, che viene invece valutato soprattutto in rapporto alle sue conseguenze sul piano punitivo.

Il livello convenzionale del ragionamento morale, invece, prevalente nel periodo che va dalla preadolescenza alla tarda adolescenza, è caratterizzato dal rispetto di norme che sono state socialmente approvate e non più dal timore per le conseguenze dell’azione individuale. In questa fase, assume allora importanza rispondere alle aspettative positive della comunità della quale si condividono i valori e progressivamente l’impegno morale si svincola dal gruppo con il quale si hanno legami affettivi, divenendo invece connesso con il proprio ruolo all’interno della società, le cui leggi devono essere rispettate in quanto assicurano l’ordine sociale.

Da ultimo, quando le norme morali vanno al di là della società nella quale si vive e diventano legate ad un sistema di principi astratti e di valori universali, si ritiene allora che il soggetto abbia raggiunto l’ultimo e più evoluto livello di ragionamento morale, quello postconvenzionale: una volta raggiunta questa maturità, l’individuo segue principi etici universali che possono non essere sempre in accordo con le leggi, ma dei quali tuttavia ognuno risponde alla propria coscienza.

La moralità nella psicopatia

Kohlberg (1958) per primo trovò che ragazzi aventi storie di antisocialità usavano in modo consistente ragionamenti morali di tipo preconvenzionale, suggerendo quindi l’idea che fattori esperienziali e ambientali negativi potessero contribuire a determinare un arresto dello sviluppo morale a livelli più immaturi della norma.

L’ipotesi che l’arresto a forme di giudizio morale preconvenzionali sia correlato alla manifestazione di condotte devianti ha trovato evidenza clinica anche in relazione alla personalità psicopatica.

In uno studio di Campagna e Harter (1975) è stata testata tale relazione, esaminando le possibili differenze di ragionamento morale tra ragazzi psicopatici e non: ai partecipanti sono state condotte delle interviste basate sulla tecnica di Kohlberg, proponendo delle situazioni di conflitto morale e chiedendo di fornire la soluzione per loro più adeguata.

I risultati di queste interviste hanno così confermato una minore maturità di ragionamento morale nei soggetti con psicopatia rispetto a quelli di controllo, a parità di età mentale. Mentre infatti il gruppo psicopatico manifestava una significativa prevalenza di risposte riferibili al livello preconvenzionale di giudizio morale, il gruppo normale si collocava più stabilmente su forme di pensiero convenzionale adeguate per l’età dei soggetti. Ciò significa che mentre normalmente i ragazzi dell’età testata iniziano ad acquisire il senso morale di un impegno che va al di là della realtà individuale e che si colloca entro un contesto sociale richiedente l’adeguamento a norme comuni, invece i soggetti psicopatici tendono ad agire e a giudicare i comportamenti altrui secondo un orientamento individualistico, tenendo cioè conto prevalentemente delle proprie esigenze e dei benefici o dei rischi personali in cui incorrono: nel caso del dilemma di Heinz, la valutazione della bontà del suo comportamento è legata soprattutto al rischio di finire in prigione o di incorrere in guai o in disagi con la giustizia così come, quando viene giustificato il furto, una ragione addotta con frequenza è il biasimo che potrebbe derivare dagli altri per aver lasciato morire la moglie. Solamente individui con un livello di giudizio morale più maturo riconoscono che se da un lato Heinz può essere giustificato nel suo furto, anche il farmacista ha diritto di guadagnare con la sua scoperta, ritenendo quindi che Heinz, pur avendo il dovere di salvare la moglie, ha anche il dovere di sottostare ad un’eventuale condanna e di rispettare la legge indipendentemente dalle circostanze e dai sentimenti o altrimenti non vi sarebbe civiltà.

La relazione tra sviluppo cognitivo e morale nella psicopatia

Una spiegazione che è stata avanzata per giustificare le differenze di ragionamento morale riscontrate tra soggetti psicopatici e non è quella che i due gruppi funzionino secondo diversi livelli di sviluppo cognitivo ed in particolare secondo forme più immature nel primo caso rispetto al secondo.
L’approccio di Kohlberg allo studio dello sviluppo morale prevede infatti una considerazione centrale dei processi di tipo cognitivo, proponendo un parallelismo fondamentale fra gli stadi dello sviluppo intellettivo e quelli dello sviluppo del pensiero morale.
In questa prospettiva, la maturazione di strutture cognitive sempre più complesse viene considerata una condizione necessaria per l’emergere di livelli morali sempre più avanzati: così un individuo che ad esempio non abbia superato lo stadio delle operazioni concrete potrà raggiungere solo le prime fasi del giudizio morale.

A conferma dell’esistenza di una relazione tra le scarse capacità morali rilevate nei soggetti psicopatici ed una corrispettiva immaturità cognitiva, nello studio di Campagna e Harter (1975) sono stati testati i partecipanti con la Wechsler Intelligence Scale for Children, con il risultato che, all’interno di ciascuno dei due gruppi, i ragazzi con migliori punteggi di intelligenza cognitiva manifestavano anche più elevati livelli di ragionamento morale e viceversa. In particolare, i soggetti psicopatici risultavano avere punteggi significativamente più bassi dei controlli a tutti e sei i subtest verbali della scala, riflettendo una generale carenza nelle abilità di concetto, di astrazione e di simbolizzazione.

Il fatto quindi che i ragazzi risultati meno intelligenti ad una valutazione cognitiva fossero anche quelli con maggiori difficoltà di natura morale ha supportato l’idea di un fattore di tipo cognitivo alla base dello sviluppo morale e di una carenza in entrambe le funzioni negli individui con psicopatia.
Anche in una ricerca di Jurkovic e Prentice (1977) sono stati riscontrati limiti in compiti di pensiero operatorio formale, circoscritti in modo specifico ad individui psicopatici posti a confronto con un gruppo di delinquenti nevrotici e con soggetti normali di controllo.

Partendo dall’ipotesi che i processi cognitivi mediassero le differenze intergruppali rilevate nelle prove di ragionamento morale, nello studio sono stati quindi indagati tali meccanismi all’interno di tre gruppi omogenei di delinquenti e non, uno solo dei quali caratterizzato da tratti psicopatici.
Nello specifico, ai soggetti sono stati somministrati compiti che, per essere risolti correttamente, richiedevano un adeguato utilizzo di forme di pensiero operatorio formale: in tali prove, i soggetti psicopatici sono risultati significativamente meno abili nel portare a termine con successo gli obiettivi assegnati, confermando una loro difficoltà a servirsi di strumenti cognitivi appropriati per l’età, a differenza sia del gruppo di delinquenti nevrotici che di quello dei soggetti normali, i quali non hanno invece manifestato alcun problema.

Il fatto quindi che questi ultimi abbiano invece mostrato livelli tra loro analoghi di capacità sia cognitive che morali conferma le difficoltà in questione come caratteristiche specifiche del disturbo di personalità psicopatico e non dell’antisocialità in generale: alla luce di tali dati, sembrerebbe dunque plausibile ritenere che il comportamento deviante grave sia più strettamente associato a modalità primitive di ragionamento morale ed intellettivo, a differenza di forme di devianza più lievi che dipenderebbero invece da un insieme eterogeneo di variabili sia temperamentali che ambientali.

La conferma di una correlazione positiva tra sviluppo cognitivo e sviluppo morale e la loro simultanea compromissione negli individui psicopatici sembrerebbe allora fornire una spiegazione del motivo per cui essi mancano di rimorso e senso di colpa, nei termini di un’incapacità primariamente intellettiva a tenere adeguatamente in considerazione la prospettiva altrui, nonché a maturare un sistema di principi astratti e di valori universali, muovendosi invece prevalentemente sulla base di valutazioni egocentriche, autocentrate e concrete dei comportamenti.

La prospettiva cognitivo-evoluzionista della psicopatia

Esistono quindi un certo numero di studi che supportano una concettualizzazione della psicopatia nei termini di un approccio cognitivista, attribuendo a questo tipo di processi un ruolo primario e soprattutto necessario nel consentire una normale socializzazione morale e ritenendoli invece disfunzionali negli individui psicopatici.

Entro tale prospettiva cognitivo-evolutiva si colloca anche il pensiero di Turiel, il quale ha sviluppato una delle più produttive linee di ricerca relativamente allo sviluppo morale: la teoria del dominio.
Secondo tale teoria, a partire dal terzo anno di vita si differenziano nei bambini due rispettivi ambiti concettuali: le convenzioni sociali e gli imperativi morali.

Essi sono considerati distinti per il fatto che le azioni nel dominio della moralità hanno effetti intrinseci sul benessere delle altre persone, mentre quelle che riguardano la sfera normativa non influiscono direttamente sugli altri bensì sul sistema sociale ed è per questo che trasgredire le convenzioni viene ritenuto in genere meno grave che disobbedire alle norme morali universalmente riconosciute.

Secondo Turiel quindi, nel corso della crescita e della conseguente maturazione cognitiva il bambino affina progressivamente le proprie capacità valutative, divenendo sempre più in grado di basare i propri giudizi sui due differenti domini in modo appropriato al contesto.
Il paradigma da lui ideato per indagare queste funzioni si serve dunque di un compito di distinzione tra norme morali e convenzionali (Turiel, 1983; Nucci and Nucci, 1982; Smetana, 1993).
In tale compito, vengono presentate al partecipante delle storie che descrivono episodi di trasgressione delle regole morali oppure di quelle convenzionali: le prime sono azioni definite in base alle loro conseguenze sui diritti e sul benessere delle altre persone, come ad esempio adoperare violenza fisica su qualcuno o danneggiarne i beni di proprietà, mentre le seconde sono definite sulla base delle loro ripercussioni sull’ordine sociale, come ad esempio disturbare in classe durante una lezione. Al soggetto viene quindi chiesto di dare una serie di giudizi relativamente a queste violazioni, attraverso domande del tipo: “Ritieni negativo compiere tale trasgressione oppure no?”, “Quanto negativa è questa trasgressione?”, “Perché questa trasgressione è negativa e non sarebbe da compiere?”, “Se non fossero stabilite regole al riguardo, allora sarebbe meno grave compiere questa trasgressione?”.

In questo modo, tramite un’analisi delle risposte fornite, viene testato il valore che il soggetto in questione attribuisce al rispetto della norma, che può dipendere dalla semplice paura di subire delle sanzioni, nel caso delle norme convenzionali, oppure dalla motivazione autentica e profonda a rispettare dei canoni etici interiori, nel caso delle norme morali.
Normalmente, le persone adulte distinguono correttamente i due tipi di trasgressione (Smetana, 1993; Turiel, 1983) e tale abilità è stata riscontrata anche in modo crossculturale (Nucci et al., 1983; Song et al., 1987).
Mentre quindi gli adulti normali ed i bambini a partire dal terzo anno d’età dimostrano di saper concettualizzare in modo differente le norme morali da quelle convenzionali, i risultati nel compito di Turiel ottenuti con bambini e con adulti con tendenze psicopatiche suggeriscono invece considerabili difficoltà di questi nel distinguere tra i due tipi di trasgressione e conseguentemente tra il dominio morale e quello convenzionale (Blair, 1995, 1997; Blair et al., 1995, 2001).

Essi del resto, quand’anche considerino le trasgressioni morali come più gravi rispetto a quelle convenzionali, mostrano però maggiore difficoltà a giustificare correttamente tale giudizio, non riferendosi quasi mai ai disagi causati alla vittima dalla violazione dei principi morali di rispetto dell’altra persona (Arsenio and Fleiss, 1996; Blair, 1995; Blair et al., 2001; Dunn and Hughes, 2001; Hughes and Dunn, 2000).
Tale dato suggerisce allora l’idea che i soggetti psicopatici possano conoscere intellettivamente la valenza negativa delle trasgressioni morali ma che tuttavia non la sappiano esperire come propria, non essendo infatti in grado di identificare nelle ripercussioni sulla vittima la motivazione per cui i precetti morali assumono una salienza normativa particolare.

Uno studio di Blair (2001) ha in particolare esplorato la relazione tra la prestazione di giovani individui con psicopatia in compiti di distinzione morale/convenzionale ed il loro livello di devianza comportamentale rilevato attraverso la Psychopathy Screening Device (PSD), individuando nella prima un valido predittore per la seconda.

I risultati ottenuti hanno rilevato infatti che i bambini maggiormente disturbati dal punto di vista comportamentale ed aventi quindi punteggi elevati di PSD sono anche quelli con una più scarsa capacità di distinzione tra morale e convenzione, confermando dunque una correlazione inversamente proporzionale tra le due misure.

Conclusioni: le capacità di ragionamento morale nella psicopatia

In conclusione, le analisi delle capacità di ragionamento morale in individui con psicopatia, condotte nelle ricerche proposte sia attraverso il paradigma di Kohlberg sia quello di Turiel, delineano un’immagine dell’ individuo con psicopatia come essenzialmente mancante di un’adeguata moralità e perciò insensibile ed inosservante i principi dell’etica comune. In particolare in una prospettiva cognitivo-evolutiva, si ritiene il soggetto psicopatico carente nelle funzioni meramente intellettive che dovrebbero consentirne lo sviluppo sul piano della socializzazione morale, suggerendone un arresto ad un’organizzazione cognitiva al secondo livello epistemologico di Kohlberg, ossia basata su un orientamento individualistico di tipo premio-punizione: si può dunque considerare che lo psicopatico sia guidato da valutazioni meramente egoistiche rispetto alle conseguenze dei propri comportamenti, senza saper invece tenere in debito conto quei principi interiori che normalmente impediscono l’attuazione di gravi condotte etero-lesive.

La soddisfazione sessuale in una coppia quando si diventa genitori

 

Introduzione: la soddisfazione sessuale in una coppia

È ormai più che dimostrato che la sessualità e la soddisfazione sessuale sono componenti molto importanti per una relazione romantica. Come dimostrano numerose ricerche la frequenza e la soddisfazione sessuale di una coppia sono in genere associate con la stabilità civile, la salute mentale, la regolazione dello stress e la manutenzione del benessere psicologico. Nonostante quindi la soddisfazione sessuale sia un fattore che gioca un ruolo unico nella felicità delle relazioni romantiche, negli studi che indagano la transazione genitoriale spesso non viene indagato.

Si tratta di un errore piuttosto grave, in quanto il passaggio da persona senza figli a genitore è una transazione molto stressante, e come altre ricerche confermano, spesso lo stress può andare a compromettere la soddisfazione sessuale di una coppia. Infatti con l’acquisizione della genitorialità, la maggior parte delle coppie sperimenta un declino della qualità della propria relazione, e l’attività sessuale può variare in termini di frequenza e significato.

Lo studio sulla sessualità nella coppia quando si diventa genitori

Relativamente a questo panorama, Leavitt e colleghi hanno effettuato uno studio con lo scopo di indagare come lo stress influisce sulla soddisfazione sessuale quando si diventa genitori per la prima volta.

Per fare ciò è stato esaminato un campione di 169 coppie eterosessuali in attesa del primo figlio. Una volta diventati genitori nei partecipanti è stato indagato il livello di stress nei 6 mesi successivi alla nascita, e nei 12 mesi successivi la soddisfazione sessuale.

I risultati ottenuti hanno evidenziato come lo stress di diventare genitori sia un predittore significativo di un abbassamento della soddisfazione sessuale delle madri, ma non dei padri. Inoltre è stato osservato come un forte stress percepito nelle madri sia un predittore significativo dell’insoddisfazione sessuale dei padri, mentre lo stress percepito da parte dei padri non lo è nei confronti della soddisfazione sessuale delle madri. Nello specifico lo stress percepito dalle donne non influenza solo l’insoddisfazione del padre, ma quella dell’intera coppia.

Questi risultati possono essere spiegati dal fatto che spesso le donne sono cariche di una responsabilità maggiore nella cura del nuovo figlio, e che le forti pressioni sociali possono portare allo sforzo e all’ambizione di diventare la “madre perfetta”, andando così ad innalzare notevolmente i livelli di stress percepiti. Inoltre il rapporto sessuale non è qualcosa di individuale, bensì di interdipendente, motivo per cui la bassa soddisfazione sessuale della madre va di conseguenza a condizionare ed alterare quella del padre.

Conclusioni

Tale ricerca ricopre un ruolo molto importante, in quanto con i dati ottenuti è possibile aiutare i genitori, ma anche i terapisti ed altre figure professionali ad aiutare i neogenitori a comprendere meglio le fasi e gli eventi che caratterizzano la transizione alla genitorialità. Tuttavia si tratta di uno studio che presenta dei limiti, infatti sarà necessario replicarlo in ulteriori popolazioni di etnia, età, orientamento sessuale e status socio-economico differenti così da poterlo validare a livello dell’intera popolazione.

Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità nei disturbi alimentari NAS, nel BED e nell’obesità

Recenti indagini hanno mostrato che i pazienti affetti da BED e obesità presentano tratti di personalità riferibili al disturbo borderline di personalità, ma l’incidenza su questi soggetti è minore rispetto ai pazienti bulimici.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità nei disturbi alimentari NAS, nel BED e nell’obesità (Nr. 19)

 

La personalità nel disturbo alimentare non altrimenti specificato

Qualche osservazione anche per gli altri disturbi alimentari, meno noti ed emblematici per l’immaginario popolare rispetto all’anoressia e alla bulimia ma comunque presenti come problema sociale.

Il disturbo alimentare non altrimenti specificato (NAS), come abbiamo visto, è una forma diagnostica in cui sono presenti solo alcuni sintomi dell’anoressia o la bulimia. È comunque un segno di alimentazione sregolata, ed è molto frequente nei pazienti affetti da disturbo borderline di personalità, per la disorganizzazione che questi pazienti mostrano nel modo di alimentarsi (Zanarini et al. , 1998).

L’esperienza clinica con i pazienti borderline tende a confermare che essi soffrono più frequentemente di disturbo alimentare non altrimenti specificato piuttosto che di anoressia o bulimia. In uno studio è stato osservato che il 37% di 233 donne con diagnosi di disturbo alimentare NAS elimina impulsivamente tutto il cibo ingerito. Questo comportamento potrebbe essere un modo particolarmente efficace per controllare il proprio peso, in alternativa potrebbe rappresentare una forma di autolesionismo o di autopunizione. Inoltre, nel 75% delle donne con NAS e disturbo borderline non si riscontrano i criteri per l’anoressia nervosa o la bulimia nervosa; tale patologia potrebbe pertanto costituire una categoria diagnostica a sé stante (Cassin, von Ranson, 2005). Un altro tratto di personalità riscontrabile nei pazienti affetti da NAS è la sensation seeking, ovvero la ricerca di sensazioni forti e intense e la disponibilità ad assumere rischi fisici e sociali per ottenerle, tra i quali l’assunzione eccessiva di cibo (Zuckerman, 1979; Rossier, et al. , 2000; Steiger et al. , 1997).

La personalità nel Binge Eating Disorder (BED) e nell’obesità

Passiamo al BED (Binge Eating Disorder), un particolare tipo di disturbo alimentare NAS caratterizzato da assunzione eccessiva di cibo non seguita da condotte di eliminazione (vomito, lassativi, e così via). Un tratto del BED è la sociotropia, ossia uno stile di personalità caratterizzato dalla preoccupazione per l’accettazione e l’approvazione da parte di altri, mentre l’autonomia è uno stile di personalità orientato verso l’indipendenza, il controllo e la realizzazione.

Studi trasversali suggeriscono che il BED è associato non solo alla sociotropia, ma anche al suo contrario: l’autonomia (Narduzzi, Jackson, 2000; Friedman, Whisman, 1998; Rogers, Petrie, 2001). Di conseguenza l’elevata vulnerabilità mostrata da soggetti con BED potrebbe essere associata a un conflitto tra sociotropia e autonomia. Essi si sforzano di mantenere l’indipendenza ma anche di contare su rapporti interpersonali per mantenere alta l’autostima (Narduzzi, Jackson, 2000). Le donne caratterizzate da sociotropia elevata possono essere riluttanti a esprimere le emozioni (ad esempio, la rabbia), poiché temono di danneggiare le loro relazioni interpersonali, ma la soppressione di queste emozioni può renderle vulnerabili alle abbuffate (Federico, Grow, 1996; Krause et al. , 2000).

Questi risultati vanno però considerati con cautela perché gli studi da cui derivano sono stati realizzati su campioni poco numerosi. Recenti indagini hanno mostrato che i pazienti affetti da BED e obesità presentano tratti di personalità riferibili al disturbo borderline di personalità, ma l’incidenza su questi soggetti è minore rispetto ai pazienti bulimici.

Infine, tra i binger e gli obesi si riscontra la presenza di altri tratti di personalità appartenenti alla sfera antisociale, paranoica e schizoide (Van Hanswijck et al., 2003). In conclusione è possibile affermare che esiste una severità crescente in termini di disturbo di personalità che parte dalla bulimia, passa per il BED e finisce con l’obesità (Wonderlich et al., 1994; Steiger, Stotland, 1996; Davis et al. , 1997). Inoltre, i pazienti obesi non affetti da disturbo alimentare mostrano minori tratti patologici di personalità.

Conclusioni

In generale i tassi di prevalenza presentati derivano da strumenti self-report, verificati però con interviste strutturate che rappresentano, per lo studio della personalità, il golden standard in ambito diagnostico. Poiché questo tipo di strumenti tende a sovrastimare la prevalenza della presenza di un disturbo, si ottiene in pratica una stima gonfiata della prevalenza del disturbo di personalità tra i pazienti che mostrano un disturbo alimentare (Modestin et al. , 1998; Ottosson et al. , 1998; Rosenvinge et al. , 2000). Questi risultati delle meta-analisi indicano che gli strumenti self-report sopravvalutano molto il tasso di prevalenza di ogni disturbo di personalità (Cassin, von Ranson, 2005). Occorre pertanto adottare strumenti più accurati nella fase di accertamento per arrivare a un inquadramento diagnostico più preciso che possa portare a un trattamento migliore. Pochi studi hanno reclutato i soggetti maschi affetti da disturbo alimentare, data la maggiore incidenza della patologia nel sesso femminile.

È quindi lecito chiedersi se i risultati finora esposti potrebbero essere estesi al sesso maschile. Gli studi che hanno confrontato maschi e femmine indicano che possono esserci differenze di personalità. Per esempio si è visto che i maschi con sintomi bulimici sono più perfezionisti rispetto alle femmine con gli stessi sintomi (Falegname et al. , 2000). Un altro studio ha riportato che i maschi ottengono un punteggio superiore nella ricerca della novità, evitamento del danno, dipendenza dalla ricompensa e cooperatività rispetto alle femmine (Fassino et al. , 2001).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Dal mitomane ottocentesco al moderno narcisista: la fantasia lascia spazio alla manipolazione

Il mitomane è un paziente che fa parte più della bizzarra psichiatria ottocentesca che dei giorni nostri. Oggi siamo tutti più disincantati e perfino coloro che non hanno tutte le rotelle a posto sono più prosastici e meno sbalorditivi nelle loro manifestazioni.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 25/06/2016

 

Siamo tutti un po’ mitomani, e forse un po’ tanto, a partire da quel gruppo di scimmie pazze che decisero di scendere dagli alberi per inventarsi un futuro non dettato dell’istinto.

Immaginare vite fantastiche, convincersi di essere in amicizia con il principe di Galles trascorrendo con lui il pomeriggio al Jockey prima di passare a trovare le vecchie zie alla sera, pensare di essere Anastasia la discendente dello zar di Russia sopravvissuta all’eccidio, inventarsi continuamente storie di cui il raccontatore stesso s’innamora in buona fede e ci crede, dando un colore al grigiore dei giorni di questa nostra vita, illudersi e illudere. Tutto questo è patologia dell’anima, ma è anche un bisogno umano, quello di raccontarsi storie con cui non solo intrattenersi. Vogliamo crederci.

La mitomania, o pseudologia fantastica, è un fenomeno estremo che fa parte più della bizzarra psichiatria ottocentesca -col suo sapore da gabinetto del prof. Caligari- che dei giorni nostri. Oggi siamo tutti più disincantati e perfino coloro che non hanno tutte le rotelle a posto sono più prosastici e meno sbalorditivi nelle loro manifestazioni.

 

L’evoluzione del mitomane in narcisista

Ecco che quindi al posto del mitomane abbiamo il più banale narcisista. Anche il narcisista contemporaneo vive in un mondo fantastico. Ha un senso grandioso della propria importanza, è assorbito da fantasie di successo, potere, fascino e bellezza illimitati, o di amore ideale, crede di essere speciale e unico e di poter essere capito solo da altre persone altrettanto speciali. Però, rispetto al mitomane del passato, mantiene un contatto con la realtà e, soprattutto, usa le sue fantasie di grandezza in maniera più chiaramente interessata rispetto al mitomane.

L’obiettivo di rafforzare –raccontando balle- l’opinione che di lui hanno gli altri è perseguito dal narcisista con molta minore ingenuità rispetto al mitomane, mantenendo una credibilità sociale e procedendo più per allusioni e ammiccamenti che per racconti fantastici. Il racconto può esserci, intendiamoci, e in questo i narcisisti non hanno nulla da invidiare ai mitomani; ma il narcisista dei giorni nostri ha una pelle spessa che il mitomane dell’ottocento può solo sognare. Il racconto narcisista non è ingenuo e persegue l’obiettivo di convincere gli altri prima ancora che se stessi. Vi è un desiderio di sfruttamento degli altri e una sensazione che tutto sia dovuto nelle fantasie di grandezza del narcisista che nel mitomane scompare.

Il mitomane invece sembra davvero un individuo capace di vivere (troppo!) nelle sue storie, nelle sue fantasie con un’ingenuità e una semplicità nelle quali il fine di impressionare e –ancor meno- sfruttare gli altri svanisce, o almeno arretra nello sfondo. A volte il narcisista si nasconde, ma nemmeno questo rimpicciolirsi lo redime. Nemmeno in questa condizione riesce a liberarsi di questa sua pulsione a paragonarsi agli altri e a immaginarsi sovrano dell’universo e dittatore della vita sociale.

È ancora una volta qualcosa di più di quella che poteva essere l’innocente sindrome di Walter Mitty, il personaggio inventato da James Thurber nel 1939 sulle pagine del New Yorker. Mitty è un uomo qualunque, la cui irrefrenabile immaginazione lo porta attraverso scenari eroici a fare della sua vita qualcosa di eccezionale, degna di essere raccontata. Mitty sceglieva di sognare con l’obiettivo (per nulla segreto) di non uscire mai dalle proprie fantasticherie. Mitty aveva una sua ingenuità letteraria che però nella vita reale svanisce. Come scrive lo psicologo Lowen, nella realtà i sognatori coltivano un rabbioso senso di rivalsa che, trattenuta, rende loro un’ingannevole umanità. Scrive Lowen:

Qualcosa dei suoi modi m’indusse ad indagare sull’immagine che aveva di se stesso. Gli chiesi di descriversi e Richard disse: ‘Mi sento forte, energico, in gamba. Mi sento più intelligente e più preparato degli altri, e tutti lo dovrebbero riconoscere. Ma mi tiro indietro. Sono nato per essere in prima fila: sono nato re, superiore a tutti gli altri’.

Forse è ingenuo ritenere che il mitomane ottocentesco, il millantatore affetto da pseudologia fantastica o il Mitty di prima della guerra mondiale non nutrissero a loro volta questi stati d’animo di rivalsa rabbiosa, non fossero una persona innamorata soprattutto delle sue storie ma, più squallidamente, nutrissero soprattutto l’obiettivo di vincere nella lotta sociale che ci fa tanto feroci.

Forse ci piace troppo pensare che solo la nostra epoca sia affetta da una completa perdita della capacità di sognare gratuitamente, mentre in passato questo era ancora possibile. Forse questa è l’unica ingenuità che ci è concessa, la nostra moderna mitomania, la convinzione di essere l’unica età in cui sognare sia difficile.

 

5 costi psicologici della perdita o della mancanza del lavoro

La perdita del posto di lavoro, la minaccia di non riuscire a conservarlo e la paura, da parte dei più giovani, di non trovare il modo di accedere al mondo del lavoro sono situazioni che, negli ultimi decenni, esercitano un forte impatto sulla vita delle persone.
Gli effetti psicologi della disoccupazione e dell’inoccupazione sono tanti; di seguito vengono elencate cinque grandi categorie di disagi psicologici legati alla mancanza o perdita del lavoro, spiegati da uno dei maggiori esperti di psicologia del lavoro in Italia, Guido Sarchielli.

 

Le condizioni di disoccupazione e di inoccupazione

Secondo lo psicologo, disoccupazione e inoccupazione inducono un progressivo indebolimento delle risorse fisiche e psicologiche della persona. Il passaggio obbligato dalla condizione di lavoratore a quella di disoccupato, o dalla condizione di studente a quella di inoccupato, pone l’individuo di fronte a una transizione psicosociale (Sarchielli et al, 1991) che richiederà al soggetto un’ingente investimento di risorse ed energie personali per fronteggiarla.

Da un lato, infatti, la persona si trova costretta a gestire numerosi cambiamenti quotidiani derivanti dall’aver perso il lavoro e che fanno sperimentare un forte senso di perdita di controllo, quali i cambiamenti relativi agli orari, agli stili di vita, alla mancanza di una risorsa economica prima esistente. Dall’altro lato, la pressione sociale e l’urgenza della situazione pressano l’individuo alla subitanea riorganizzazione alla ricerca di una nuova situazione lavorativa. Queste due fasi stimolano l’individuo ad un’autovalutazione. Le domande di senso che maggiormente si pongono le persone in questo momento della loro esistenza sono diverse “ ho perso il lavoro per colpa mia?”, “ ho sbagliato qualcosa?”, “riuscirò a farcela?”, “a chi e come posso chiedere un supporto?” tutte domande, con conseguenze minacciose sul senso di autoefficacia, sull’autostima, sulla resilienza e la vulnerabilità allo stress in generale.

 

Gli esiti psicologici della disoccupazione

Da ciò deriva l’esigenza e l’importanza di comprendere maggiormente le caratteristiche e le conseguenze a livello personale e sociale del fenomeno della mancanza del lavoro, permettendo la progettazione di adeguati interventi professionali a sostegno.
L’ampia produzione scientifica a riguardo, spiega Sarchielli (2003), permette già di individuare cinque grandi categorie di esiti psicologici connessi alla disoccupazione.

 

1. Aumento della sintomatologia psicopatologica

Quadri sintomatologici quali gli stati ansiosi, stati depressivi, senso di solitudine e abbandono, etero e auto aggressività e, in generale, un aumento di insoddisfazione per la vita, sembrano essere direttamente connessi alla perdita del lavoro e al conseguente momento di crisi.

 

2. Crisi di identità

Le ricerche mostrano che tra i disoccupati vi è un notevole abbassamento della stima di sé, un aumento del fatalismo e del senso di non avere un proprio posto legittimo nella società.

 

3. Rappresentazione negativa, ipersemplificata e illusoria della realtà lavorativa

Più il tempo della disoccupazione/inoccupazione aumenta più cambia la rappresentazione mentale del lavoro, ovvero il lavoro viene percepito meno importante, meno interessante. In generale si amplifica il disinteresse per le questioni di vita pubblica e politica. Tra i disoccupati aumenta lo scoraggiamento e diminuisce la fiducia nella possibilità di trovare un nuovo impiego.

 

4. Scoraggiamento e disimpegno nella ricerca di un nuovo lavoro

Direttamente collegate allo scoraggiamento e alle rappresentazioni negative sono gli aspetti comportamentali, cosicché tra disoccupati e inoccupati si potrebbe osservare, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, un ridotto impegno a mantenersi in una condizione attiva di ricerca.

 

5. Aumento delle condotte a rischio

Infine, connesse ai fenomeni di disoccupazione, si osserva un aumento delle condotte a rischio per la salute, quali il maggiore consumo di bevande alcoliche, di tabacco, di droghe leggere e di farmaci fino al più raro comportamento suicidario.

Questa mini lista riassume risultati di numerose ricerche sul campo e l’idea di base è quella di considerare queste cinque conseguenze come dei rischi potenziali, come dei sintomi sociali, indicatori di una comunità connotata da un esteso e duraturo fenomeno di disoccupazione.
Sarchielli ricorda che queste ricerche non assumono che in ogni esperienza di perdita di occupazione, si avvii un ciclo ingravescente di effetti sopraelencati, ma diviene sempre più importante approfondire con studi e ricerche il tema, per individuare eventuali fattori capaci di modularne gli effetti nocivi.

 

Quali possono essere i fattori protettivi?

Fattori di protezione utili in questo senso sono:
– la rete di relazioni di cui il disoccupato/inoccupato può beneficiare per ottenere sostegno materiale e affettivo;
– la buona stabilità emotiva e la buona capacità di resilienza;
– il prevedere a livello politico-sociale programmi di reinserimento lavorativo;
– le leggi sul lavoro a favore di disoccupati e inoccupati.

Di grande valore, a tale proposito, il contributo della psicologia dell’orientamento, per quanto riguarda la progettazione di percorsi di orientamento professionale per gestire la crisi psicologica, per la rilevazione del disagio psicologico prima che si strutturino o acutizzino disagi psicologici più invalidanti, per lavorare sulla motivazione e sul senso di autostima e autoefficacia (Gysbers, 2002).

Utilizzo alcohol-related dei social network: connesso al futuro consumo problematico di alcol negli studenti universitari

Postare contenuti concernenti il consumo di alcol sui social network come Twitter, Facebook o Instagram, si configura come un forte predittore per lo sviluppo di problematiche connesse all’alcol, più dell’atto pratico di bere alcolici.

 

Infatti, secondo i risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori della North Carolina State University e della Ohio University, gli studenti del college che si erano costruiti un’identità da bevitori di alcolici che, di fatto, li caratterizzava anche agli occhi degli altri studenti come bevitori, erano esposti ad un rischio maggiore di sviluppare problematiche collegate al consumo di alcol, come ad esempio il coinvolgimento nelle risse o l’assenteismo sul posto di lavoro o a scuola.

Secondo il Dr. Charee Thompson, il predittore più importante per il consumo di alcolici e per la tendenza a pubblicare contenuti connessi all’alcol sui social network è la cosiddetta alcohol identity, ossia la tendenza dei soggetti a considerare il bere una parte di loro stessi. Includere nella nostra identità un comportamento deleterio come il consumo cronico di alcolici è molto pericoloso in quanto il soggetto farà più fatica ad estinguere un comportamento sbagliato quando esso è parte della sua identità, quando ormai si è insinuato nella narrativa riferita a se stesso.

Nel dettaglio lo studio ha coinvolto 364 studenti universitari che avevano bevuto alcolici almeno una volta nell’ultimo mese e che al momento dell’assessment possedevano un account Facebook, Twitter o Instagram attivo. In seguito gli studenti compilavano un test online riguardante l’uso dei social network, il consumo di alcol, i problemi connessi all’alcol, l’uso dei social network relato all’alcol e comprendente una serie di domande atte a misurare la loro motivazione a bere.

I risultati, come anticipato, sottolineavano il ruolo del postare informazioni riguardanti il consumo di alcol come predittore dei successivi problemi degli studenti connessi allo stesso e, curiosamente, questa associazione risultava ben più significativa rispetto a quella con l’effettivo consumo di alcol al momento della valutazione.

Secondo Thompson, infatti, postare contenuti relati all’alcol sui social network rafforzerebbe il legame dello studente con la cultura del bere, che lo incoraggerebbe in ultima analisi a bere maggiormente rispetto alle proprie abitudini e a sottostimare i rischi connessi a tale condotta.

Sembra che in questa relazione intervengano meccanismi ben noti alla psicologia sociale (ad es., desiderabilità sociale), che modificano sensibilmente l’abituale comportamento del soggetto. E’ bene ricordare che i social network pongono il soggetto su di una sorta di palcoscenico virtuale, di fronte ad amici, parenti e colleghi, che si configura come un vero e proprio gruppo sociale dove il singolo percepisce doveri e necessità che altrimenti non avrebbe.

L’altro lato della medaglia evidenziato da questo studio è che gli studenti a rischio di problematiche connesse all’alcol possono essere identificati e aiutati anche per mezzo dei social network. E’ quindi imperativo comprendere il ruolo dei social media nel sostenere alcune condotte rischiose, specie se il loro ruolo risulta ben più determinante di un vero comportamento.

 

 

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