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La musicoterapia tra le cure palliative per i malati terminali

Nel mondo intero, da diversi anni, all’interno di programmi di cure palliative vengono applicate alcune forme di terapia complementari, tra cui la Musicoterapia. Partendo dal presupposto che la musica è un mezzo di comunicazione che produce emozioni ed assume un significato ancora più profondo nei periodi di dolore e di lutto, il suo utilizzo a scopo terapeutico è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale.

 

Le cure palliative per i malati terminali

La malattia, il dolore, la sofferenza e la morte sono i momenti più critici dell’esistenza di ogni individuo.
Una malattia in stadio avanzato che non risponde più alle terapie provoca reazioni molto varie, complicate dal fatto che la situazione è in continua evoluzione, mentre la vita diventa sempre più incerta e precaria. La persona si trova destabilizzata; emozioni come rabbia, paura, senso di colpa, ansia, depressione, sono reazioni naturali di fronte a tale condizione, davanti all’evoluzione della malattia e ai trattamenti. Tali preoccupazioni coinvolgono non solo il paziente ma anche i familiari.

Le cure palliative intervengono proprio a favore di queste persone per affrontare la sofferenza in tutti i suoi aspetti e guardando alla persona nella sua totalità. E’ importante pensare che c’è sempre molto da fare per sostenere un malato terminale; la persona è importante fino alla fine e deve essere accompagnata verso la morte nel migliore dei modi, provando a lenire al massimo la sua sofferenza e continuare a dare senso e dignità alla sua vita.

Lo Stato italiano ha sancito il diritto di accesso alle Cure palliative attraverso la Legge del 2010 n. 38 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. La legge definisce le Cure Palliative come [blockquote style=”1″]l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici.[/blockquote]

Secondo L’European Association for Palliative Care (EAPC) le cure palliative [blockquote style=”1″]rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o posticipare la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine.[/blockquote]

 

La musicoterapia come terapia complementare

Nel mondo intero, da diversi anni, all’interno di programmi di cure palliative vengono applicate alcune forme di terapia complementari, tra cui la Musicoterapia.

Partendo dal presupposto che la musica è un mezzo di comunicazione che produce emozioni ed assume un significato ancora più profondo nei periodi di dolore e di lutto, il suo utilizzo a scopo terapeutico è stato ampiamente riconosciuto a livello internazionale. Il neurologo Oliver Sacks in un suo libro scrive infatti che [blockquote style=”1″]il potere della musica di integrare e curare… è un elemento essenziale. (è) il più completo farmaco non chimico[/blockquote] (Sacks O., 2014).

La musicoterapia quindi è riconosciuta come uno strumento valido per affrontare i molteplici sintomi e risultati della malattia e migliorare il benessere del paziente. Nelle cure palliative questa terapia aiuta ad attenuare la sofferenza e ad affrontare le problematiche ed i bisogni del malato e dei caregivers.

L’American Music Therapy Association definisce la musicoterapia come [blockquote style=”1″]l’uso clinico e la prova basata di interventi di musica per raggiungere gli obiettivi individualizzati all’interno di una relazione terapeutica da un professionista certificato che ha completato un programma di musicoterapia approvato[/blockquote] (American Music Therapy Association, 2011).

Il suono e la musica sono impiegati in tutti i loro aspetti (percettivi, motori, emotivi, mentali, sociali ed estetici) per rispondere al disagio e alla sofferenza collegati a patologie fisiche e/o psichiche, per facilitare l’ascolto, la comunicazione e per valorizzare le abilità e lo stile espressivo di ogni individuo.

 

La musicoterapia riduce l’ansia nei malati terminali

Diversi studi hanno messo in evidenza l’utilizzo della musicoterapia nell’ambito delle cure palliative con pazienti terminali e con i loro familiari.
L’ansia è un sintomo comune per i pazienti con diagnosi di malattia terminale, indipendentemente dal fatto che il paziente ha una predisposizione all’ansia o meno. L’ansia e la depressione sono risultate essere i più frequenti problemi psicologici nelle cure palliative (Radbruch L. et al., 2003).
Interessante è uno studio del 2009 che ha riportato una diminuzione dei livelli di cortisolo salivare di nove partecipanti dopo una sessione di musicoterapia. Anche se la fatica è rimasta invariata, l’ansia e la depressione sono diminuite mentre il punteggio per l’eccitazione tendeva ad aumentare. Così è stato indicato che la terapia musicale in un Hospice riduce il livello di stress dei pazienti e, quindi, svolge un ruolo positivo nel miglioramento della qualità di vita dei pazienti (Nakayama H. et al., 2009).

Ci sono diverse prove a sostegno del fatto che la musicoterapia gestisce l’ansia dei pazienti in terapia palliativa. Nell’articolo di Horne-Thompson e Grocke del 2008 vengono riportati tre studi che hanno dimostrato alcuni effetti positivi della musicoterapia sui pazienti terminali. Krout ha misurato l’efficacia della musicoterapia per migliorare il controllo del dolore, il benessere fisico e il rilassamento. Lo studio ha coinvolto un singolo intervento di musicoterapia su ottanta soggetti. I risultati sono stati significativi e lo studio ha rilevato che il controllo del dolore, il benessere fisico e il rilassamento sono effettivamente aumentati con una sessione di musicoterapia, sia auto-riferiti dal partecipante (p< 0.005) che riportati da un osservatore indipendente (p<0.001).

Un altro studio, condotto da Calovini con 11 malati terminali, ha esaminato i livelli di ansia di stato (definita da Lazarus come una sgradevole eccitazione emotiva di fronte alle richieste che minacciano o a pericoli) all’interno di una sessione di musicoterapia. E’ stato somministrato un questionario prima e dopo la misurazione della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca e della temperatura. Le misure fisiologiche sono state prese ogni 15 minuti durante l’intervento di musicoterapia. Lo studio ha trovato che l’ansia di stato non era influenzata significativamente da una sessione di musicoterapia. Tuttavia, la pressione arteriosa sistolica e la frequenza cardiaca sono diminuite, e la temperatura dei pazienti è aumentata, indicando quindi che c’è una tendenza verso la riduzione dell’ansia.

L’effetto della musicoterapia sulla riduzione del dolore, comfort fisico, relax e soddisfazione è stato esaminato anche da Curtis. Nove malati terminali hanno partecipato allo studio e sono state utilizzate tre condizioni sperimentali: (A) niente musica, (B) il suono di sottofondo, (C) la musica. Sebbene non siano stati raggiunti risultati significativi, le risposte individuali hanno dimostrato che la condizione di un suono di sottofondo sembrava avere un effetto negativo, mentre l’intervento musicale un effetto positivo. Partendo da questi studi Horne-Thompson e Grocke nel 2008 hanno condotto uno studio per valutare gli effetti della musicoterapia sull’ansia. I risultati hanno dimostrato una riduzione significativa dell’ansia nel gruppo sperimentale e analisi successive hanno trovato una significativa riduzione di altre misure in particolare il dolore, la stanchezza e la sonnolenza (Horne-Thompson A. & Grocke D., 2008).

Gutgsell nel 2013 ha condotto uno studio per determinare l’efficacia di una singola sessione di musicoterapia per ridurre il dolore nei pazienti in cure palliative. Ai due campioni dello studio, sperimentale e di controllo, sono state somministrate tre scale di valutazione: la NRS (Numeric Rating Scale), la FLACC (Face, Legs, Activity, Cry, Consolability Scale) e la FPS (Functional Pain Scale) sia prima che dopo l’intervento di musicoterapia. Il ricercatore, un musicoterapista professionale, ha sottoposto i pazienti ad un intervento musicale singolo di 20 minuti diretto ad abbassare il dolore. E’ stata osservata una riduzione significativamente maggiore nei punteggi del dolore nel gruppo di musicoterapia e, nella FPS, c’è stato un calo significativo nel punteggio del dolore funzionale nel gruppo di musicoterapia. Nonostante i diversi bias dello studio, i risultati di questa ricerca sembrano indicare che un intervento singolo di musicoterapia abbassa il dolore nei pazienti ospedalizzati in cure palliative (Gutgsell K.J. et al., 2013).

In uno studio del 2015 Warth e colleghi hanno assegnato casualmente 84 pazienti ricoverati in Hospice ad un trattamento di musicoterapia o ad un trattamento di controllo. L’intervento di musicoterapia consisteva in due sessioni di esercizi di musica dal vivo basati sul rilassamento; i pazienti del gruppo di controllo hanno ascoltato un esercizio di rilassamento verbale. Le analisi statistiche hanno rilevato che la terapia musicale è stata più efficace nel promuovere il rilassamento (F = 13,7; p <0.001) e il benessere (F = 6.41; p = 0.01) rispetto al trattamento di controllo. Questo effetto è stato sostenuto da un significativo aumento di oscillazioni ad alta frequenza del battito cardiaco (F = 8.13; p = 0,01). La musicoterapia non ha ridotto significativamente il dolore (F = 0.4; p = 0.53), ma ha portato ad una riduzione significativamente maggiore nel punteggio di fatica sulla scala della qualità di vita (F = 4,74; p = 0.03). Quindi gli autori hanno dimostrato che [blockquote style=”1″]la musicoterapia è un trattamento efficace, con un basso tasso di abbandono, per la promozione di relax e benessere in malati terminali sottoposti a cure palliative [/blockquote](Warth M. et al., 2015).

Inoltre nel 2015 Burns e colleghi hanno dimostrato che i pazienti che hanno ricevuto la musicoterapia sono stati più propensi a parlare di argomenti spirituali (P = 0.01) e avevano marginalmente meno problemi di respirazione (P = 0,06) (Burns D. S. et al., 2015).

 

Gli effetti benefici della musicoterapia anche nei familiari dei malati terminali

La musicoterapia promuove il benessere non solo al paziente ma anche ai familiari coinvolti nell’assistenza. Una revisione del 2009 sottolinea infatti la significatività e l’importante ruolo di questa terapia per i familiari e il personale (O’Callaghan C., 2009). La musica sembra giocare un ruolo vitale nell’aiutare il familiare in quanto permette di rilassarsi durante i periodi psicologicamente difficili e può servire ad affrontare il dolore ed elaborare con il tempo il lutto.

 

Conclusioni

La musicoterapia è quindi oggetto d’interesse da molti anni e usata con successo come parte dei programmi di cure palliative per i pazienti gravemente malati. Tuttavia, nonostante l’abbondante ricerca in merito, vi è carenza di letteratura di ricerca empirica, soprattutto per quanto riguarda l’efficacia della musicoterapia sul lungo termine.

Hilliard nel 2005 ha riferito che [blockquote style=”1″]anche se gli studi empirici in questo ambito stanno cominciando ad emergere, rimane una grave mancanza di studi controllati con campioni di grandi dimensioni che consentano una generalizzazione; vi è la necessità di studi con livelli elevati di controllo e con la randomizzazione dei soggetti[/blockquote] (Hillard R.E., 2005).

Più recentemente anche Korczak e Warth hanno sostenuto che gli studi sulla musicoterapia nelle cure palliative sono di bassa qualità e il rischio di bias è molto elevato; la maggior parte degli studi hanno infatti piccoli campioni e spesso la randomizzazione non è chiara. Pertanto gli autori suggeriscono la necessità di ulteriori studi di alta qualità (Korczak D. et al., 2013; Warth M. et al., 2014).

Sulla base di questi risultati sarebbe opportuno ampliare la ricerca in questo ambito, effettuando studi che siano il più possibile riproducibili e con meno errori; l’obiettivo è poter offrire una terapia efficace e fornire i migliori interventi clinici per soddisfare al meglio le esigenze dei pazienti e delle loro famiglie in questo difficile momento della vita.

Abuso senile intrafamiliare: conoscere per prevenire

L’ abuso senile è stato genericamente definito come qualsiasi azione di commissione o di omissione, intenzionale o non intenzionale, di natura fisica, psicologica o materiale, che decresce significativamente la qualità di vita dell’anziano.

Marco Pontalti, Chiara Di Nuzzo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

L’abuso senile intrafamiliare: introduzione

[blockquote style=”1″]Per due anni Hisayuki Kuribayashi ha picchiato sua madre, che ha 81 anni ed è malata di Alzheimer. […] Quando si sono manifestati i primi segni della malattia, lui ha perso la testa. Solo ed oppresso dal lavoro di responsabile di una ditta di sicurezza, Kuribayashi non si è reso conto del progressivo peggioramento delle condizioni della madre e si è trovato rapidamente di fronte ad una situazione che non era in grado di gestire “Non ce la facevo più. La scuotevo, la colpivo e le gridavo contro”, ammette imbarazzato mentre fissa la sua tazza di caffè […]. Quando la malattia di sua madre si è manifestata Kurybayashi, che aveva una stanza in più, l’ha accolta nel suo appartamento. All’inizio la donna era autosufficiente, “poi, rapidamente, tutto è diventato molto difficile” ammette l’uomo. “Di giorno rimaneva sola e dormiva molto. Quando la sera tornavo a casa dal lavoro non potevo riposarmi: lei mi svegliava ogni cinque minuti e di notte a volte gridava. È andata avanti così per due anni”. Alla fatica si è aggiunta la tristezza per come era degenerato il loro rapporto. “Aveva fatto tanto per me, faticavo a riconoscere quello che stava diventando. La aiutavo a mangiare, a lavarsi e ad andare in bagno. Era una situazione che non riuscivo ad accettare. Mi faceva rabbia, mi irritavo e la picchiavo. Non lo facevo apposta”. Aggiunge che era più forte di lui. “Ogni volta rimpiangevo di averlo fatto e ogni giorno mi sentivo in colpa”.[/blockquote] (Internazionale, 10 luglio 2015)

Queste parole racchiudono parti di un articolo pubblicato recentemente su Internazionale dal titolo “Non c’è più rispetto”. L’intento del giornalista era quello di analizzare il fenomeno della violenza senile intrafamiliare dagli occhi dell’abusante. La sincerità e la direttività rendono particolarmente vivida e cruda la difficoltà e la sofferenza psico-sociale che pesavano sia al caregiver-abusante, sia al familiare-abusato aggravato dalla compresenza di una malattia degenerativa.
L’articolo ricalca una situazione giapponese, tuttavia non bisogna andare così lontani, poiché anche nel nostro Paese si possono riscontrare episodi simili.

[blockquote style=”1″]“Nei giorni successivi la signora trascorreva l’intera giornata seduta in cortile poiché la figlia al mattino, subito dopo il risveglio, la costringeva ad uscire dall’appartamento chiudendo la porta a chiave e impedendole di rientrare anche solo per bere un sorso d’acqua. Non le permetteva di rientrare neanche all’ora di pranzo e verso le 15 le lanciava dalla finestra una confezione di crackers o una merendina. Io e altri condomini quando la vedevamo in cortile le offrivamo riparo e qualcosa da bere e da mangiare. In diverse occasioni vedevo sul volto della signora la presenza di ecchimosi, escoriazioni e graffi”. La donna, rimasta vedova qualche anno fa, da un paese dell’hinterland si è trasferita in casa di una delle quattro figlie (una donna con problemi di alcolismo); l’accordo era che per l’assistenza all’anziana madre avrebbe tenuto metà della sua pensione; la convivenza è degenerata quando i sintomi della malattia senile si sono fatti più evidenti; a quel punto le violenze e i maltrattamenti sono diventati un’abitudine quotidiana. [/blockquote](Corriere della Sera, 16 marzo 2016)

[blockquote style=”1″]Quando ancora abitavano assieme si udivano urla e insulti della figlia rivolti contro la madre […] I maltrattamenti sarebbero continuati anche quando l’anziana madre, all’epoca dei fatti settantenne malata di Parkinson e affetta da demenza senile, era ricoverata in un centro di lunga degenza. […] Un’infermiera aveva ricordato: “Ho assistito a tanti episodi. Una volta l’aveva spinta davanti allo specchio in bagno, ‘guarda in che stato sei, non ti vergogni’, le diceva. Un giorno ho visto la donna mentre faceva il gesto di metterle un dito nell’occhio. Si arrabbiava se non mangiava, ma a volte era lei stessa a non farla mangiare, la umiliava per i problemi di incontinenza. Era aggressiva anche con noi quando la volevamo accudire.”[/blockquote] (Targatocn, 9 giugno 2015).

 

I dati e le percentuali di abuso senile

Sono stralci di due fatti di cronaca distinti recuperati dalla stampa nazionale italiana che causano reazioni di stupore e disprezzo verso quelle persone, figli (53%), nipoti (19%) o coniugi (16%), che abusano e maltrattano il proprio famigliare anziano, spesso all’interno delle mura di casa (Davis e Medina, 2001) ma anche nelle case di riposo (Krug et al., 2002). Sono due dei tanti, perché la violenza agli anziani è molto più diffusa di quanto si possa immaginare, ed è presente in tutto il mondo, in paesi sia sviluppati che in via di sviluppo (Cooper, Selwood, & Livingston, 2008; Laumann, Leitsch, & Waite, 2008; Pillemer & Finkelhor, 1988). L’essere “anziano” è una condizione che si è radicalmente mutata nel tempo, passando da una visione come “vecchi saggi e rispettabili” a persone “neglette ed emarginate”. Oggi le persone anziane sono anacronistiche, non facilmente adattabili alla società odierna, confermato dalla letteratura geriatrica e criminologica che parla del maltrattamento in questa fascia di popolazione come un fenomeno in costante aumento (Bonnie e Wallace, 2002; Podnieks e Wilson, 2005).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2002) ha pubblicato ufficialmente il primo “Rapporto mondiale su violenza e salute”, individuando la prevalenza del 4-6% di violenza sulle persone in età senile. Più recentemente il rapporto dell’Ufficio Europeo dell’Organizzazione Mondiale della Salute (2011), si è stimato che ogni anno muoiono 2500 anziani per azione di commissione ed omissione da parte dei famigliari, che il 30% degli 8500 annuali omicidi di soggetti in età senile sarebbero dovuti a maltrattamenti subiti e che il 19,4% della popolazione anziana europea (circa 29 milioni di persone) sono vittime di abuso psicologico. In altri studi, l’ abuso fisico e psicologico in ambito domestico risulta una delle categorie più comuni e diffuse di maltrattamento subito dalla popolazione anziana (Barbagallo et al., 2005) per mano di un familiare che si prende cura di lui (Cyphers, 1999). Sono cifre che descrivono uno scenario piuttosto preoccupante le cui previsioni non sono rassicuranti a fronte di una costante crescita della popolazione in età avanzata e dell’allungamento della età media di vita.

In Italia è difficile discutere di questo fenomeno, nonostante i numerosi fatti di cronaca. I dati sono molto carenti e sottostimati poiché alto è il numero oscuro (l’insieme di reati commessi ma non denunciati), un aspetto problematico che rende molto sfocata la reale fotografia della violenza tra le mura domestiche. Alla base di questo distacco, in Italia ma anche nel mondo, sembra esserci una difficoltà intrinseca nell’ottenere informazioni precise, un’omertà delle stesse vittime nel denunciare gli abusi subiti se non di fronte ad azioni estremamente gravi (Krahé, 2005). In una revisione totalmente italiana, Molinelli et al. (2007) hanno stimato che i casi di maltrattamento nei confronti degli anziani dovrebbe aggirarsi attorno alle 500.000 unità all’anno, la maggior parte per mano dei figli delle vittime stesse (Correra, Martucci, 1994; Granata et al., 1996), per una prevalenza, stando ad ulteriori studi, attorno al 9% (Ogioni et al., 2007).

Questi dati fanno quindi riflettere sulla necessità di intervenire e nel prevenire situazioni di maltrattamento, in una società in cui gli anziani saranno sempre più numerosi e presenti (Proehl, 2012).

La testimonianza all’introduzione è un tipico esempio di situazione in cui un familiare è scelto (o si propone) come caregiver principale, ovvero come colui che assisterà in modo prevalente o totalizzante l’anziano, diventando quindi il suo responsabile della cura. Nello specifico, Kuribayashi è un caregiver “burden”, termine con il quale si identifica quella condizione di “carico” e “peso” psicologico, fisico ed economico che il caregiver assume nell’accudire il suo familiare, con un impatto negativo sulla sua salute e sulla stessa assistenza del malato, che spesso sfocia in un distacco emotivo determinando maggiore stress, sentimenti di rabbia e impotenza. Il Burden è un fattore di rischio che, come si potrà vedere più avanti, genera sì un contesto favorevole alla violenza ma non è da solo sufficiente: per certi studiosi prevale la qualità della relazione piuttosto che la condizione di Burden (Homer, Gilleard, 1990; Cooney & Mortimer, 1995; Reis & Nahamish, 1998). Inoltre, il caso del figlio giapponese rappresenta una delle tante forme di maltrattamento nei confronti degli anziani da parte dei caregivers. Facciamo un passo alla volta.

 

Che cos’è l’ abuso senile?

L’ abuso senile è stato per la prima volta oggetto di discussione negli Stati Uniti attorno agli anni Settanta e affrontato scientificamente nel 1975, grazie all’osservazione da parte di operatori sanitari di una manifestazione comportamentale dell’anziano, definita sotto il termine “granny-battering” o “elderly abuse syndrome”, non spiegata da un punto di vista medico (Baker, 1975; Burston, 1975).

Nel già citato rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Salute (2002), l’ abuso senile è stato genericamente definito come qualsiasi azione di commissione o di omissione, intenzionale o non intenzionale, di natura fisica, psicologica o materiale, che decresce significativamente la qualità di vita dell’anziano. Action on Elder Abuse, un’organizzazione inglese che affronta esaustivamente il tema della violenza sulle persone in età avanzata, ha proposto una definizione dove mette la relazione di aspettativa di fiducia tra l’abusante e l’anziano il cuore della sofferenza e l’elemento di discriminazione tra le altre forme di violenza nei confronti degli anziani (per esempio, truffa, rapina, furto, omicidi, etc.) (Action on Elder Abuse, 2016). Tale caratteristica è stata accolta anche dalla International Network of Prevention of Elder Abuse, l’organizzazione adibita alla prevenzione del fenomeno, la stessa che ha promosso ed organizzato la “Giornata mondiale contro la violenza sugli anziani” il 15 giugno 2006.

L’anziano può subire danni fisici e dolore, essere umiliato, abbandonato (Salmon, Stobo e Cohn, 2002), subire furti di denaro (Chen et al., 2014) o essere negato di cibo e cure, con profonde conseguenze fisiche e psicologiche. Per maggior chiarezza espositiva, è possibile individuare diverse categorie di abusi subiti dall’anziano (Barbagallo et al., 2005):
Abuso fisico: dolore, danni fisici, ingiuria.
Abuso psicologico: sopraffazione verbale, umiliazione, intimidazione, minacce.
Abuso economico: furto, estorsioni, eredità anticipate, firme forzate.
– Violenza medica: eccessiva somministrazione dei farmaci.
– Violenza per omissione: negazione della necessità, dimenticanza, omissione.
– Violenza civica: arbitraria mancanza di rispetto della figura dell’anziano.
Abuso sessuale: contatto sessuale di ogni tipo senza consenso.
– Autolesionismo: azioni e comportamenti dell’anziano che mettono in pericolo la propria salute e sicurezza.

 

Fattori di rischio e conseguenze del maltrattamento e dell’ abuso senile

Non ci sono singoli fattori ma una eterogeneità di fattori di rischio che può favorire la violenza sugli anziani per mano di familiari o persone vicine. Per indagare in maniera più strutturata ed esaustiva, ricercatori hanno adottato il modello ecologico come chiave di lettura, per cui è possibile individuare i fattori di rischio a più livelli: individuale, relazionale, sociale/comunitario (Schiamberg & Gans, 1999; Carp, 2000).

– Individuale. Relativamente agli abusanti, sono soggetti che tendenzialmente presentano disturbi di personalità e problemi legati all’alcol e alla droga (Wolf & Pillimer, 1989; Bristowe & Collins, 1989; O’Leary, 1993), difficili condizioni economiche (Krug et al., 2002), il sovraccarico di responsabilità assistenziale o alti livelli di stress nel caregiver (Podniekes et al., 2010). Relativamente agli anziani abusati, la maggior parte delle vittime appartiene al genere femminile, con un’età maggiore di 80 anni e spesso in una condizione sociale disagiata (Aitken & Griffin, 1996). Non c’è invece un consenso sulla correlazione tra indebolimento cognitivo, fisico o demenza e maltrattamento. Uno studio rileva che tende ad essere correlata a una situazione di maltrattamento per il 51% dei casi (Dyer et al., 2000), altri che non sussiste alcun legame (Pillemer, 1989; Paveza et al., 1992; Cooney & Mortimer, 1995).

– Relazionale. I fattori di rischio relazionali, ossia quelli relativi agli intercorsi tra l’anziano e i caregivers, sono il sovraccarico di responsabilità di coloro che si prendono cura dell’anziano e la differenza di potere nella relazione di accudimento della persona in età avanzata (Steinmetz, 1988; Eastman, 1994). Il sovraffollamento e la perdita di privacy dovuta alla presa in carico dell’anziano in casa dei parenti favorirebbero situazioni di conflitti e di violenza in ambiente familiare (Scali, 2013). La relazione di dipendenza, intesa come il vivere in funzione del bisogno dell’altro, tra l’anziano e il caregiver (i figli in particolare) sarebbe un fattore di rischio nell’instaurazione di una dinamica interpersonale perversa, deviante e pericolosa (Pillemer, 1989). La demenza comporta profondi cambiamenti nel comportamento e nella personalità del paziente e rappresenta un evento critico che coinvolge anche l’intero gruppo familiare che si trova a vivere in elevate condizioni di stress e di impegno. Tuttavia da sola, come discusso precedentemente, non sarebbe in grado di favorire l’ abuso senile, sottolineando come sia la qualità della relazione ad essere l’aspetto determinante (Homer, Gilleard, 1990; Cooney & Mortimer, 1995; Reis & Nahamish, 1998). Per esempio alcuni studi hanno visto come la relazione tra la sindrome dell’Alzheimer e l’ abuso senile sia mediata dalla natura della relazione tra l’anziano affetto da tale patologia e il caregiver (Cooney & Mortimer, 1995; Hamel et al., 1990; Nolan, Grant & Keady, 1996).

– Sociale/comunitario. Tra i fattori sociale/comunitari si riscontra l’isolamento sociale dovuto all’indebolimento delle condizioni psicofisiche e alla riduzione di opportunità di socializzazione, facendo aumentare il numero oscuro (Podnieks, 1992; Wolf & Pillemer, 1989; Phillips, 1989; Grafstrom, Nordberg & Winblad, 1994). Le norme culturali e i pregiudizi come l’ageismo, il sessimo e la cultura della violenza, sono aspetti che fino a poco tempo fa erano sottovalutati, ma che stanno contribuendo in maniera significativa al rischio di abuso alle persone anziane (Krug et al., 2002). Fattori che contribuiscono ad una maggiore presenza di abuso senile all’interno di una nazione sono da considerare i veloci mutamenti delle strutture sociali ed economiche legati alla globalizzazione, l’isolamento delle vittime, una inadeguata conoscenza della legge e dei servizi, il conflitto intergenerazionale, la povertà, la cultura, i livelli di scolarizzazione, la mancanza di mobilità e di fondi per il sostentamento della popolazione, la scarsa familiarità e accessibilità ad internet (Podniekes et al., 2010).

Per quanto riguarda le conseguenze, il maltrattamento è una situazione traumatica cronica che comporta gravi conseguenza psicologiche oltre che fisiche per la vittima (Wolf, 2000), portando, come abbiamo visto in precedenza dalla disamina statistica del fenomeno, alla morte.
Gli studi sulla popolazione anziana mostrano che le persone abusate manifestano significativi livelli di depressione e di stress psicologico, si presentano timorosi, agitati, irritabili e, nelle situazioni più gravi, mostrano sintomi dissociativi (Phillips, 1983; Bristowe et al., 1989; Comij et al., 1999). Presentano inoltre sensazioni di impotenza, di alienazione e di negazione dell’evento traumatico, nonché emozioni di colpa, vergogna, paura, ansia e sintomi da stress post-traumatico (Booth, Bruno & Marin, 1996; Goldstein, 1996).

Una conseguenza a dir poco problematica è la difficoltà a denunciare l’ abuso. Questo accade perché spesso l’anziano non è a conoscenza dei propri diritti ed ha una scarsa consapevolezza di subire un abuso, vede il maltrattamento come il pegno da pagare in cambio di gratitudine nei confronti del caregiver che si sta impegnando a prendersi cura di lui, attribuisce al proprio invecchiamento e alla propria persona la responsabilità e la colpa dell’accaduto, si vergogna profondamente di non essere stato in grado di tutelarsi e ammettere che persone vicine a lui possano commettere certi comportamenti, ha timore che a far presente l’abuso possa minacciare la propria sopravvivenza, in particolare nelle case di riposo (Scali, 2013).

 

Intervento e prevenzione dell’ abuso senile

L’Organizzazione Mondiale della Salute (2002, 2011) ha descritto come gli interventi volti a contrastare e prevenire l’ abuso senile derivino per la maggior parte dei casi come risposta da realtà nazionali e locali. L’obiettivo generale è quello di favorire, diffondere e sensibilizzare la conoscenza sul tema dell’ abuso senile nella popolazione e ancor di più nei servizi socio-saniatari ed assistenziali dove lavorano persone che con più probabilità e frequenza sono a contatto con gli anziani. Per far ciò, si necessiterebbe di una vera e propria rete capillare di servizi su tutto il territorio, sia a livello nazionale che locale, garantita e tutelata attraverso un sistema legislativo specifico in materia di maltrattamento ai danni dei soggetti in età avanzata.

A livello nazionale, alcuni Paesi hanno reso realtà questo tipo di sistema, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Norvegia dove hanno delle vere e proprie strutture governative e/o non governative nel proprio territorio specializzate al contrasto dell’ abuso senile e all’assistenza dell’anziano a livello sanitario, psico-sociale e giuridico. Altri Paesi, come la Francia, la Germania, l’Italia e la Polonia hanno attività di prevenzione limitatamente affidata a centri studi od organizzazioni locali. Altri ancora, come alcuni Stati del Sud America, riconoscendo il problema, hanno proposto piani di intervento formativo volti ad addestrare il personale professionale a contatto con gli anziani al fine di riconoscere i segni dell’ abuso. Paesi asiatici, come Cina, India, Giappone e Repubblica della Corea hanno sottolineato il problema dell’ abuso senile da un punto di vista scientifico, ma non sono state avviate politiche di intervento (Krug et al., 2002).

Legante e rappresentante della quasi totalità dei Paesi in tutti i 6 continenti è International Network for the Prevention of Elder Abuse (INPEA) che ha l’obiettivo di sensibilizzare il tema dell’ abuso nella popolazione, promuovere una corrispettiva educazione e formazione, promuovere la ricerca per evidenziare cause, conseguenze, trattamento e prevenzione dell’ abuso in età avanzata. INPEA si appoggia anche a organizzazioni particolarmente attive e attente al tema, come l’inglese Action on Elder Abuse e il sistema governativo statunitense National Center on Elder Abuse.

A livello locale rientrano invece tutti quei programmi che per sensibilità ed interesse sul tema dell’ abuso senile, autonomamente promuovono e gestiscono programmi di contrasto e di prevenzione. Sono misure per lo più avviate da Paesi sviluppati, di ampio respiro, ossia rivolte alla violenza familiare in genere, e non solo specificatamente a quella agli anziani. Alcuni servizi sociali, in collaborazione con figure professionali specializzate, personale giuridico e forze dell’ordine, hanno per esempio delineato linee guida e protocolli per affrontare i casi di maltrattamento agli anziani predisponendo un numero telefonico per poter denunciare i fatti (Action on Elder Abuse, 1997; Yamada, 1999) e uno spazio protetto dove accogliere gli anziani abusati e condividere in gruppo l’esperienza. Le strutture mediche che più frequentemente di ogni altra realtà locale sono a contatto con gli anziani, sarebbero i luoghi principe per rilevare indicatori e segni dell’ abuso: in tale direzione, medici ed infermieri dovrebbero essere addestrati a riconoscerli e a prendere le misure di intervento adeguate. Purtroppo spesso il personale non è formato perché non è previsto nel piano di studi e gli apparati medico-sanitari non hanno ideato protocolli specifici (Sanders, 1992; Lachs & Pillemer, 1995). A tal riguardo, l’Organizzazione Mondiale della Salute (2002), per aiutare gli addetti al settore e diffondere, ha fornito gli indicatori di sospetto di abuso senile, dividendoli tra quelli relativi all’abusante e quelli relativi all’abusato, questi ultimi ulteriormente categorizzati per tipo di maltrattamento (Tab. 1).

Indicatori relativi all’anziano

Indicatori relativi all’abusante

Fisici

Comportamentali ed emotivi

Sessuali

Economici

Lamentare di essere aggrediti fisicamente

Cadute inspiegabili e ingiurie

Bruciature e lividi o in parti del corpo inusuali o insolite per tipologia

Tagli

Eccessiva assunzione (o ridotta) di farmaci

Malnutrizione e disidratazione senza che ciò sia legato ad una specifica malattia

Condizioni generali di scarsa igiene o apparire poco curato

Cercare l’attenzione medica attraverso la consultazione di diversi medici o strutture sanitarie

Cambiamenti nelle abitudini alimentari

Alterazioni del ritmo del sonno/veglia

Disturbi del sonno

Paura, confusione o avere un’aria rassegnata

Passività, ritiri, tratti depressivi

Tratti d’ansia

Affermazioni contraddittorie o altre ambivalenze

Riluttanza a parlare apertamente

Evitare il contatto oculare, fisico o verbale con il caregiver

Isolamento sociale

Lamentare di essere vittima di abusi sessuali

Frequenti lamentele di dolori nella regione genitale

Comportamenti sessuali fuori dalle precedenti relazioni o personalità

Cambiamenti nei comportamenti come aggressioni, ritiro o automutilazioni

Frequenti lamentele circa dolori addominali, emorragie genitali

Lacerazioni, macchie, tracce di sangue nella biancheria

Prelievi di soldi non abituali

Prelievi di soldi che non in linea con le sue risorse

Cambiamenti nell’intestatario/ beneficiario di titoli, proprietà, beni di varia natura

Le proprietà/beni vengono occultati

L’anziano non trova più i gioielli o altri beni

Movimenti sospetti sulla carta di credito

Mancanza di attrattive quando l’anziano se la potrebbe permettere

Problemi medici o di salute mentale non trattati

Il livello di cura non è commisurato con il reddito o le risorse dell’anziano

Il caregiver appare stressato, cronicamente teso o eccessivamente disimpegnato

Il C. biasima l’anziano per alcuni comportamenti (esempio: essere incontinenti)

Il C. si comporta aggressivamente

Il C. tratta l’anziano come un bambino o in modo de-umanizzante

Il C. ha una storia di abuso di sostanze stupefacenti o alcol

Il C. non permette che l’anziano parli con nessuno

Il C. risponde in modo difensivo, evasivo o ostile quando gli vengono rivolte domande sull’anziano

Il C. si prende cura dell’anziano da molto tempo

[blockquote style=”1″]Nel caso di Kuribayashi sono stati i lividi sul corpo della madre ad allarmare il personale medico del centro di assistenza diurna che la donna frequentava due volte alla settimana. Si sono resi conto che gli ematomi non erano dovuti all’applicazione di cateteri e una mattina si sono presentati a casa di Kuribayashi con un messaggio esplicito: “Dovete separarvi”. Stremato, il figlio ha accettato senza esitare.[/blockquote]

Grazie all’occhio del personale medico della struttura che ospita la madre del protagonista giapponese è stato possibile fermare la situazione di violenza, questo a sottolineare nuovamente l’importanza di una formazione e di un addestramento specifici in grado di rilevare gli indicatori di sospetto di abuso. C’è anche da evidenziare che è stato possibile interrompere questo tipo di maltrattamento perché i segni erano evidenti e visibili. Molte altre forme di abuso, in particolare quello psicologico o la negligenza, richiedono un occhio più attento e a tal riguardo sembra che non ci siano strumenti e metodi standardizzati di screening per la rilevazione dei campanelli di allarme (Molinelli et al., 2007). La depressione, che è una reazione piuttosto diffusa in situazione di abuso e negligenza, può essere valutata tramite la Geriatric Depression Scale (GDS; Yesavage, Rose & Huang, 1983), la Hamilton Rating Scale for Depression (HRSD; Hamilton, 1960) e la Cornell scale for depression in dementia (Alexopoulos et al., 1988).

[blockquote style=”1″][…] la madre è stata messa in un ospedale e poi in una casa di cura specializzata, più costosa. Per pagare i 150 mila yen (1200 euro) della retta mensile della struttura, la pensione della donna non basta, e il figlio deve contribuire di tasca proprio. Ma lo fa volentieri: “Mia madre è contenta, sta molto bene in quel centro”, assicura Kuribayashi mostrando alcune foto della donna, minuta e sorridente.[/blockquote]

La soluzione del nostro protagonista giapponese, per evitare l’aggravarsi di una situazione di violenza già in corso, è stata quella di inserire la madre in una struttura specializzata, salvaguardando in questo modo la relazione tra la madre anziana e il figlio, pagando proficuamente i costi economici in termini di benessere psico-emotivo.

 

Agire sulla qualità delle relazioni intrafamiliari: un modello di prevenzione CBT

Ad oggi sono molti gli interventi di prevenzione dell’ abuso senile promossi dalle associazioni e dalle autorità locali. Oltre alla formazione mirata degli operatori sanitari e al supporto dei caregiver, sarebbe utile avviare programmi che agiscano attivamente sul nucleo familiare con lo scopo di migliorare la qualità relazionale tra l’anziano e le persone che gli stanno accanto.

A tal proposito, Khanlary e colleghi (2016) hanno pubblicato recentemente il primo intervento basato sull’approccio psicoterapico di tipo cognitivo-comportamentale (CBT) rivolto alle famiglie in cui sono avvenuti casi di abuso senile. L’intervento, sviluppato su 5 incontri che hanno coinvolto attivamente l’intero nucleo familiare, si è basato sulla promozione sia di una maggiore consapevolezza del fenomeno del maltrattamento, dei triggers ad esso implicati e dei principi di cura dell’anziano, sia di una comprensione dei comportamenti e dei pensieri funzionali da adottare in situazioni di conflitto. Ogni sessione comprendeva una parte teorica ed una di intervento, quest’ultima basata sull’utilizzo di tecniche CBT quali la ristrutturazione cognitiva, il modelling, il role-playing e gli homeworks. Questo intervento, sostenendo la partecipazione attiva della famiglia, ha ottenuto risultati efficaci nel ridurre lo stress intrafamiliare e i comportamenti di abuso senile, quali abbandono finanziario e maltrattamento fisico. Agendo direttamente sui fattori di rischio individuali e relazionali, è stato così possibile promuovere una maggiore comprensione del problema e l’instaurarsi di relazioni positive e appaganti, concretizzandosi in un reale ed effettivo supporto alla famiglia e, in particolare, all’anziano.

 

Conclusioni

L’ abuso senile è un fenomeno latente purtroppo molto diffuso nella nostra società, è un problema ancora sottostimato e trascurato perché difficilmente individuabile. I motivi sono diversi, ma la sottovalutazione del fenomeno è sicuramente legata alla poca informazione e alla scarsa volontà/capacità di riconoscere e accettare un evento così “disturbante” che tocca a livello umano ed etico la nostra collettività.

Oggi sono numerosi gli interventi di prevenzione basati sulla formazione degli operatori sanitari, sul supporto dei caregivers e sull’assistenza di strutture specializzate esterne alla famiglia, ma ancora non basta. Il maltrattamento domestico è causato da numerosi fattori le cui radici sono la maggior parte all’interno dello stesso nucleo familiare. Ed è proprio qui che la prevenzione dovrebbe cominciare: non solo nell’informare e nel sostenere i familiari, ma anche nell’educare e nel ristrutturare le relazioni con l’anziano in termini cognitivo-comportamentali, con l’obiettivo di promuovere un ambiente sereno, funzionale e capace di risolvere i conflitti che troppo spesso sfociano in maltrattamento.

Portieri di calcio e bias d’azione: uno studio sui calci di rigore

I bias d’azione e i bias cognitivi in generale sono delle distorsioni conoscitive sistematiche che possono minacciare la performance sportiva di un atleta, primi tra tutti i portieri di calcio. Un’adeguata preparazione psicologica rimane spesso il valore aggiunto per raggiungere il successo sportivo.

Andrea Consorti, Michela Cortini

 

Oggi, soprattutto in Italia, la figura professionale dello psicologo dello sport non è abbastanza valorizzata; le società sportive curano poco la gestione delle risorse umane, ignorando che, così facendo, rischiano di non ottenere il meglio dai propri atleti.

 

I bias cognitivi

I bias cognitivi sono degli errori di giudizio, delle distorsioni sistematiche; sono attribuibili al nostro utilizzo di euristiche, ovvero delle scorciatoie cognitive che, se da un lato ci permettono di elaborare più velocemente i giudizi, dall’altro possono a volte indurci a fare scelte figlie di una valutazione sbagliata. Ed è proprio quando siamo indotti a sbagliare sempre nella stessa maniera che parliamo di bias.

Per bias di omissione, nello specifico, si intende quella tendenza, appunto sistematica, a preferire scelte che comportano l’omissione anziché l’azione, anche quando questo significa esporsi a rischi oggettivamente elevati. Ritov e Baron (1990) arrivarono a questa conclusione dopo aver condotto dei soggetti di fronte ad una situazione decisionale in un contesto di una forte epidemia che metteva a rischio la vita dei bambini. I partecipanti dovevano immedesimarsi nei genitori che a questo punto avrebbero dovuto decidere se sottoporre i propri figli ad una vaccinazione (azione) o meno, sapendo che, in quest’ultimo caso, il rischio di morte sarebbe stato più alto. I risultati dimostrarono che molti soggetti si opposero alla vaccinazione optando così per una soluzione apparentemente tutt’altro che razionale. Una spiegazione plausibile fu data proprio dagli stessi autori dell’esperimento (Ritov, Baron,1995): la paura di rimpiangere la scelta fatta condurrebbe i soggetti ad assumere una posizione passiva che permetterebbe loro di sperimentare un rimpianto minore qualora l’esito fosse la morte del bambino.

I bias d’azione invece sono l’esatto contrario in quanto le persone tenderebbero ad agire anche quando l’azione è meno vantaggiosa dell’omissione. Fagerlin, Zikmund-Fisher e Ubel (2005) rilevarono in un esperimento che, nel caso di una diagnosi di cancro, i pazienti preferivano ricorrere a dei trattamenti (azione) piuttosto che a controlli periodici (inazione), anche quando i primi risultavano essere meno efficaci o addirittura più dannosi per la salute. I risultati riportati purtroppo dimostrano ad oggi una certa inconsistenza; risulta difficile fornire delle spiegazioni più approfondite che possano giustificare questo comportamento dei pazienti. È lecito pensare, tuttavia, che la gravità del cancro diagnosticato sia una variabile che può aver influenzato in qualche modo la scelta finale dei pazienti e, dunque, il bias d’azione.

 

 

I portieri nel calcio di rigore: il bias d’azione

Nel calcio, in maniera più specifica nei calci di rigore, i portieri sono messi di fronte ad un’importante scelta: l’azione (tuffarsi in una delle due direzioni) o l’inazione (rimanere al centro della porta) per bloccare o respingere il tiro avversario. In questa situazione di gioco, le pressioni che coinvolgono il giocatore possono essere molte; essendo il goal realizzato circa il 75-80% delle volte e conoscendo la media goal di ogni partita (circa 2 goal e mezzo), possiamo facilmente intuire che anche solo una rete subita, possa essere quella decisiva.

L’analisi di 286 calci di rigore nei migliori campionati del mondo (Bar-Eli, Azar, Ritov, Keidar-Levin, Schein, 2007) ha sottolineato che, vista la probabilità della direzione del tiro, la strategia ottimale per i portieri sarebbe quella di rimanere al centro della porta. Un tiro classificato come ‘centrale’ non vuol dire che si dirigerà esattamente al centro della porta ma più verosimilmente nella sua zona centrale.

Ora, partendo dal presupposto che il portiere dovrebbe fare la scelta più conveniente per la sua squadra, è strano perché nella maggior parte dei rigori studiati il portiere si tuffi, facendo a questo punto la scelta meno razionale.

Questo ci suggerisce che potrebbe essere implicato nel processo decisionale un bias d’azione. Bar-Eli e collaboratori spiegano questo comportamento attraverso la teoria della norma (Kahneman, Miller, 1986); la norma nel caso del giocatore è saltare e una scelta passiva provocherebbe in lui uno stato emotivo negativo qualora subisse il goal, stato emotivo comunque peggiore rispetto alla situazione in cui il goal venisse realizzato dopo una scelta attiva del portiere (saltando). In pratica, in caso di tuffo, quest’ultimo avrebbe l’attenuante di aver almeno provato a parare il tiro dell’avversario, per questo sperimenterebbe vissuti meno negativi, condizione che non si verificherebbe in caso di una scelta passiva.

 

 

La ricerca

Partendo da un’attenta analisi della letteratura, ed in dettaglio dalle provocazioni in noi suscitate dalla lettura dell’articolo di Bar-Eli e collaboratori (2007) intitolato ‘Action bias among elite soccer goalkeepers: the case of penalty kicks‘, abbiamo inteso pianificare una ricerca pilota sul bias d’azione nei portieri italiani.

A tale scopo è stato messo a punto un questionario ad hoc, comprendente una parte di domande sulle generalità socio-demografiche, unitamente alla versione italiana della scala sull’action bias dei portieri (Bar-Eli et al., 2007), ed una serie di scale sulle condotte in campo. Il questionario, predisposto per una compilazione carta e matita, è stato sopposto ad un campione di 21 portieri professionisti, attraverso un iniziale campione di sotto-convenienza, costituito da contatti presso alcune società si Serie B, Lega Pro, Promozione e Prima Categoria Abruzzese.

Tutte le scale sono state misurate attraverso la richiesta di accordo su singole affermazioni, usando una scala Likert da 1 a 5; in particolare, la dimensione dell’atteggiamento rispetto all’incapacità di aver parato un rigore a seconda del come ci si è comportati (tuffati a destra, a sinistra o non essersi tuffati rimanendo al centro) è stata indagata con una scala da 1 ‘non mi sento affatto male‘ a 5 ‘mi sento molto male‘. La somministrazione è avvenuta a ridosso di una sessione di allenamento.

Per quanto riguarda le proprietà psicometriche va sottolineato, in primis, un buon indice di affidabilità per tutte le scale, in modo particolare per quella relativa ai vissuti post-rigore che presenta un Alpha di Cronbach pari a .90.

Per quanto concerne le caratteristiche distributive, gli item presentano delle lievi violazioni della normalità che ci hanno comunque permesso di ricorrere alla statistica parametrica per la verifica delle nostre ipotesi.

In riferimento alla curiosità di ricerca, che riguarda quanto sia percepito come normale il tuffarsi (non importa in questo contesto se a destra o a sinistra) vs il rimanere fermi al centro, abbiamo verificato che solo 6 portieri su 21 considerano la norma il rimanere fermi. Partendo da questo dato, abbiamo diviso il campione in due per verificare i vissuti post-rigore chiedendo ai nostri portieri di immaginare di aver subito goal, tuffandosi rispettivamente a sinistra, a destra o senza muoversi dal centro. Abbiamo proceduto con un’analisi della varianza (ANOVA).

I risultati ci mostrano una differenza statisticamente significativa per quanto concerne i vissuti post-rigore a seconda che si creda normale il tuffarsi o meno. Colpisce una leggera differenza tra il tuffarsi a destra o a sinistra, che lascerebbe meno sensi di colpa, che varrebbe la pena di indagare ulteriormente, magari controllando la variabile mancinismo.

Rispetto al cuore della ricerca di Bar-Eli e collaboratori, il nostro studio pilota conferma i risultati originali.

Per quanto riguarda i limiti del nostro studio, non possiamo non menzionare il campione limitato, specie per quanto riguarda la variabile target ed il disegno di ricerca cross-sectional. Sarebbe quanto mai opportuno allargare il campione e seguire altri portieri con un approccio longitudinale che possa permettere una verifica più stringente delle ipotesi.

Colpisce, in tal senso, che i portieri più maturi, sia in senso stretto (diversi anni di esperienza agonistica) ma anche in senso di livello di gioco (in altre parole quelli del nostro campione che giocano in serie B), non presentino differenze statisticamente significative tra il tuffarsi o meno nella ricezione del calcio di rigore; per questi, anzi, non ci sono vissuti negativi né quando ci si tuffa, né quando si rimane fermi.

Rimane comunque doveroso anche sottolineare come nella nostra ricerca non sia stata approfondita la preparazione conferita dallo staff delle rispettive squadre ai propri tesserati; una diversa preparazione dei portieri di ciascuna società può aver influenzato il conseguente atteggiamento degli stessi di fronte ad un calcio di rigore.

Integralismo ed Autoritarismo religioso nella prospettiva Analitica

Religione: Il seguente articolo propone una rilettura di tipo psicoanalitico della relazione tra psicopatologia individuale e l’esperienza religiosa di tipo autoritario e integralista. Quanto possono essere labili i confini tra sofferenza, psicologia e la conversione religiosa in senso integralista? Questa eventuale relazione, e concomitante spiegazione, potrebbe aiutarci a capire nei tempi correnti i fenomeni di deriva integralista?

Direzionando una riflessione di tipo clinico, che ha come punto di partenza le dinamiche individuali in un contesto sociale e culturale, rileggeremo secondo la teoria e clinica analitica la natura e gli effetti di una trascendenza e religiosità di tipo coercitivo ed autoritario.

 

Religione: Contemporaneità e conversioni

Il diciannovesimo secolo è stato il secolo del crollo, frantumazione e dissipazione degli imperi nazionali e continentali. Il ventesimo secolo è stato caratterizzato dall’emersione e scontro tra ideologie e del loro parziale ridimensionamento. Questo ventunesimo secolo, pare, ha come fenomeno – e forse come inevitabile evolutivo – una ridefinizione relativistica e irreversibile di ciò che le religioni sono e del loro rapporto con l’individuo, nonché le società e gli stati nazionali (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).

La contemporaneità ci accade attorno, attraverso i mezzi di informazione e riverbera, ci accade dentro, mostrandoci un livello di orrore e violenza, di ostracismo e separazione tra gli uomini, ove il comune denominatore pare essere, quasi invariabilmente all’inizio o alla fine, il tema religioso.
La filosofia, la sociologia, la psicologia sociale e la psicopatologia moderna si sono ampiamente occupate di questo tema e di quanti a esso ne abbiano un nesso relativo.

Ne esce un quadro trasversale, ricco di considerazioni che, in questa sede, si attengono alla psicologia ed alla psicologia clinica con quanto è riferibile ed identificabile per una comprensione scevra da giudizi o condizionamenti.
Uno, fra tutti, centrale è proprio il concetto di Conversione, di coinvolgimento personale verso una religione e della trasformazione che comporta, che è il primo concetto e fenomeno psicologico che andiamo ad indagare.

Per conversione religiosa intendiamo un cambiamento, spesso radicale, nella percezione della propria persona e degli altri individui, nell’attribuzione di significato/i agli elementi e agli accadimenti del mondo nonché propriamente della visione del mondo in senso irrazionale riferito a una entità onnipotente e onniscente. In una definizione ulteriormente funzionale è: la trasformazione rapida e talvolta radicale di una persona avendo convinzioni, pensieri e sentimenti di tipo sovrannaturale, con un netto cambiamento d’interessi e di abitudini.

Nel corso e decorso di disturbi psichici, o fasi episodiche critiche a essi correlate, non è affatto raro rilevare temi religiosi e la casistica clinica abbonda, ad esempio circa i sensi di colpa di un soggetto depresso portato a confrontarsi in modo molto più intenso del solito con il problema della colpa e della pena in senso strettamente religioso. Ancora: nel corso di forme acute di schizofrenia la radicale trasformazione della percezione abituale della realtà circostante induce a sospettare, dietro alla realtà percepita, l’esistenza di una dimensione nascosta sovrannaturale, di un disegno o logica sovrumana, di una dimensione spesso definita “trascendente”. In queste casistiche il paziente cerca di spiegare la sua rinnovata e rivelata percezione (patologica) della realtà con teorie filosofiche o argomentazioni religiose, spesso confuse e mal espresse e, ovviamente, non chiaramente comprese da altri.
Questa “trasformazione”, ascesa, rivelazione al “trascendente” è quasi sempre espressa in un momento preciso di “illuminazione” ove il divino – a seconda del pattern culturale del soggetto – si svela e/o rivela in un messaggio che è duplice: riguarda il percipiente e riguarda anche tutti gli altri suoi simili, il mondo intero, spesso con una spinta fattuale ad agire in modo nuovo e diverso.

Hans J. Weitbrecht (1948) sottolinea come ogni persona sia certamente in un continuo processo di evoluzione come anche implicitamente in crisi, con un mutamento di volta in volta corrispondente alla personalità del soggetto, indi per cui anche la cosiddetta “trasformazione psichica” in seguito a una conversione non può essere considerata di per sé come totalmente patologica, ma – e questo più ci interessa – lo è solo ed esclusivamente se coesistono sintomi che corrispondono e avvalorano un determinato disturbo psichico.
Nodale è indagare il confine, sovente mobile e sfumato, tra fede, superstizione e idee deliranti; i criteri diagnostici validati, e in uso ai giorni nostri per le malattie mentali, sono estremamente specifici onde evitare errori clinici o abusi professionali.

La letteratura critica di ambito epistemologico e clinico alla religione (Eugen Drewermann, 1992/1995), sembra essere di aiuto nel leggere correttamente i fenomeni in essere: permette di osservare, valutare e definire l’esperienza religiosa in quei casi ove estremizzi i suoi principi e dettami e porti ad una deriva autoritaria e all’ integralismo. Il richiamo a categorie e a criteri diagnostici terapeutici e psichiatrici, riconosciuti internazionalmente, fornisce un valido aiuto medico-clinico e sociale per comprendere forme di estremismo e integralismo agite violentemente da parte di soggetti che, in questo caso e solamente in questo, possono essere considerati affetti da una patologia mentale che mima – nella forma e nei contenuti – il contatto con il “trascendente” (E. Fromm, 1987; Hans Jörg Weitbrecht, 1948; Mortimer Ostow, 1983).

Riportiamo di seguito, per dare una iniziale cornice clinica, i termini di differenziazione del DSM-IV che sono proprie di questa alterata esperienza di fede ed osservanza religiosa ovvero: il delirio e il contenuto/linguaggio schizofreniforme.

A) la condivisione contenutistica: nel glossario dei termini tecnici, dopo aver definito il delirio come falsa credenza, viene precisata un’importante condizione perché si possa parlare di delirio, ossia: [blockquote style=”1″]la convinzione non è di quelle ordinariamente accettate dagli altri membri della cultura o sub-cultura della persona (N.B. non è un articolo di fede religiosa)[/blockquote] (American Psychiatric Association, 2010).

B) L’alterità esperenziale: nel capitolo dedicato alla schizofrenia viene specificato quanto segue: [blockquote style=”1″]idee che possono sembrare deliranti in una cultura (N.d.A stregoneria e arti magiche) possono essere considerate comuni in un’altra. In certe culture, le allucinazioni visive o uditive con un contenuto religioso possono rappresentare una parte normale dell’esperienza religiosa (es.: vedere la Vergine Maria o udire la voce di Dio o percepire specifici profumi riferiti alla divinità) [/blockquote](American Psychiatric Association, 2010).

Questi due elementi – il delirio e il processo schizofreniforme – sono riferiti a fenomeni di alterazione del funzionamento psichico e di «allargamento della coscienza» individuale e ne specificano una modificazione evidente dell’equilibrio psichico (Eugen Drewermann, 1992/1995) da una funzione autonoma endogena ad una possibile confluenza e coincidenza di idee e sentimenti con altri fenomeni esogeni; fenomeni che interessano più la psicologia dei gruppi ma nel senso patologico del termine. Ovverosia tutte quelle forme di religiosità definibili come gruppi fideistici chiusi, sette, culti della personalità che necessitano/attribuiscono un grande valore a fenomeni conversione radicale, di catarsi ed identificazione in riti e rivelazione di tipo avventistico o apocalittico, quali:
– visioni;
– simboli;
– accadimenti interpretati come segni;
– fenomeni psicosomatici;
– glossolalia;
– percezione e/o riferimento di messaggi (alla persona direttamente o indirizzati al gruppo).

 

L’apporto della psicanalisi

La valenza della psicanalisi, nell’attuale interpretazione e critica alla religione, si è rivelata col tempo di fondamentale importanza nel dare elementi di comprensione e nello stabilire confini – etici, antropologici e clinici – a quanto concerne la religione e le sue manifestazioni. Questo non perché i suoi rappresentanti (gli psicanalisti e i terapeuti ad orientamento analitico) siano strutturalmente e ideologicamente aggressivi verso la chiesa, o i monoteismi, i politeismi o i culti, ma piuttosto perché l’esperienza della terapia psicoanalitica, tesa a rendere possibile una vita quanto più possibile consapevole e sana, conferma ogni giorno quelle tesi filosofiche – oggi integrate in un sistema clinico operante – che già furono di Spinoza, Feuerbach, Freud stesso e Nietzsche (E. Fromm, 1961/1987) ovvero: la religione può rappresentare una forma di distorsione e alienazione della coscienza, un allontanamento radicale dal Principio di Realtà, uno stato patologico culturalmente e socialmente accettato, incoraggiato, in alcune antropologie (A. Godin, 1993; M. Aletti, 1994).

In psicoanalisi la coscienza morale, il Super-Io, di ogni individuo si formerebbe nella prima infanzia, nelle condizioni di vulnerabilità, bisogno, soggezione, dipendenza e paura nei confronti della diade genitoriale, identificate in due figure riferibili a un principio paterno (legislativo, punitivo) e in uno materno (accudente, nutritivo).
Questa istanza morale interiorizzata (il Super-Io) impedirebbe al bambino, come poi all’adolescente e al soggetto successivamente adulto, di espletare i propri istinti, mantenendo inconsce le rappresentazioni mentali corrispondenti a pulsioni, istinti, bisogni collegati a specifiche emozioni e funzionalità corporee definite come “erogene”. Si ha, quindi, la prima seria scissione psichica fra conscio e inconscio, con la formazione di una coscienza già parziale, frammentata, non corrispondente a una psiche integra, totale ed armonica. In altre parole: la nascita del conflitto psichico fra istanze morali (divieti) ed esigenze istintuali (bisogni). Questa fenomenologia intrapsichica costituisce il nucleo originario, fondamentale e fondante, della religione e della nevrosi individuale che ha come meta o origine la tematica “trascendente” o divina (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).

Notiamo ancora come, per pura logica clinica psicoanalitica, nelle fasi successive dello sviluppo, tale scissione psichica sarebbe potenzialmente aggravata dall’ influenza di altre istanze congruamente orientate, come una scuola o un sistema d’ istruzione strettamente confessionale, uno stato teologicamente influenzato o teocratico e propriamente una istituzione religiosa di matrice integralista (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993).
Le teorie di origine psicanalitica attribuiscono, alla fase prima infantile e poi adolescenziale, una importanza nodale nella costruzione di un Io capace di mediare gli elementi di controllo del Super-io e le pulsioni dell’Es. Tale mediazione si esprime, fattualmente, nella distinzione tra gli elementi di realtà – detto Esame di Realtà – e il contenimento dell’angoscia e delle pulsioni auto ed etero distruttive. Più specificatamente in quella che è la fase adolescenziale il giovane evolutivamente ha una naturale spinta ad emanciparsi dai genitori e a porre progressivamente in discussione i valori e i modelli che gli sono stati proposti nel corso dell’ educazione.

Vi è da dire che una qualsiasi psicologia, anche di tipo non psicanalitico, sottolinea la necessità di una maturazione della persona pure nel campo della individualità, dell’ acquisizione di etica e morale personale e ciò a prescindere della fede o da una fede specifica, ma gli psicologi di orientamento psicanalitico sono giustamente focalizzati ed estremamente critici nei confronti di ogni forma di trascendenza.
Secondo le teorie, e le pratiche, di tipo psicanalitico la persona non dovrebbe solo emancipare la propria visione e critica del mondo, in termini di etica e morale, dai genitori ma anche da tutti quei valori recepiti nel corso del proprio sviluppo (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).

Il termine appropriato di “capacità critica” , qui inteso precisamente come un processo di strutturazione interna ed esame di realtà (Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001 , dovrebbe poter porre in discussione l’acquisito morale presentato dal Super-Io, mediando e costruendo ex-novo nuovi concetti e capacità esperienziali capaci di evitare la scissione psichica prodotta dalla rimozione.
Nello specifico, per quanto riguarda la religione, secondo alcuni autori di approccio psicoanalitico (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001) il giovane dovrebbe riconoscere che i contenuti della religione sono solo proiezioni psichiche che non hanno un correlato reale.

Il rimanere legati ai dogmi concettuali e vincoli morali estremisti, rigidi, in assoluto valevoli per gli adepti ma impositivi anche verso altre forme di credenza o laicità, senza averne posto in discussione realmente le origini, i vantaggi/svantaggi, gli effetti su piccola e vasta scala, secondo alcuni psicoanalisti (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994) viene interpretato in senso eminentemente patologico, come una mancata emancipazione, come un blocco evolutivo, un arresto dello sviluppo psichico dovuto a connaturati e non elaborati fattori individuali quali insicurezza; senso di inadeguatezza, timore del confronto sociale, solitudine.

Secondo molti autori (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin, 1993) sono proprio queste caratteristiche che porterebbero alcuni giovani, uomini e donne anche in età matura ad aderire a chiese, culti, sette e nuovi movimenti pseudo-religiosi. Incapaci di assumersi responsabilità adulte da adulti, concrete in termini di scelta e quindi di guadagno/perdita, evitano un’ autonomia di pensiero e di vissuto emotivo-esperienziale, cercando rifugio in una sorta di indiscriminatamente accogliente, immenso, utero protettivo, rassicurante, nutriente capace inizialmente di non giudicarli, di “lenirli” nelle non elaborate frustrazioni e giustificante ogni evento ritenuto doloroso o frustrante come “volontà divina” o secondo un “misterioso ed amorevole disegno celeste”. A riguardo è interessante, e specifico, Mortimer Ostow che ha teorizzato l’ esistenza di una cultic personality, ovverosia: [blockquote style=”1″]Il giovane teme la società aperta con i suoi obblighi senza fine e pericoli indefiniti e si sente protetto in un gruppo piccolo e chiuso con la sua disciplina rigida, la spiegazione parziale e totale di un tutto e con ruoli e compiti ben definiti [/blockquote](Mortimer Ostow, 1983).

Il tema, cui si arriva per logica clinica e di esposizione, è nodale e non da poco anzi, si potrebbe dire, sia il tema e fenomeno centrale di ogni storia clinica, di ogni richiesta di aiuto in ambito terapeutico nonché di ogni vita al mondo: l’autosviluppo e l’autonomia.
È necessaria una buona dose di motivazione personale e coraggio per entrare in conflitto con la propria famiglia, con l’implicita mitologia interna familiare e i suoi schemi; per anche solo porre in dubbio i valori fondamentali della società in cui si vive, le sue idiosincrasie e illogicità e per accettare il fatto che – compresi o meno che si sia – è necessario proseguire per il proprio percorso di vita in quanto singoli, unici e irripetibili; col proprio bagaglio di bisogni, idee, sentimenti e timori e che con gli altri, assieme agli altri, sperimentiamo un tratto di percorso esistenziale che parte da noi e comunque torna a noi in quanto esseri senzianti e sentibili.

La dicotomia autonomia/dipendenza è il fattore e correlato diretto di ogni step evolutivo che interessa l’ autosviluppo. Attenzione, perché è da considerare e ponderare come necessaria, e non sarebbe altrimenti, una o più fasi nello sviluppo psichico ove si è, ad un momento, autonomi e in un altro dipendenti ma ciò è accettabile e comprensibile in quella che è una più vasta e lucida considerazione di progressione biologica, fisiologica e psicologica; eventi esperienziali individuali ove la persona, giovane o matura che sia, sperimenta ed esperisce la propria capacità di interazione, comprensione e resistenza al mondo e col mondo, avendo fasi e momenti, peaks mutuando il termine da Maslow.

Piuttosto, e qui si riprende il canapo freudiano, è quando la progressione evolutiva dell’ individuo è totalmente spostata verso una dipendenza, una mimesi intellettiva ed emotiva totalmente aderente un monotema, un sol concetto, un elemento pervasivo e ridondante cui riferire totalmente e inequivocabilmente tutto il proprio tratto esistenziale del momento o passato oppure, proiettivamente, futuro. È il principio del blocco evolutivo, della sosta che diviene radicamento angoscioso e patologico a una unica e univoca lettura della propria realtà personale e del mondo, che ci preme sottolineare.

La fissazione in termini di angoscia, in parole più freudiane se così possiamo dire, o ulteriormente il timore primigenio e primitivo di castrazione o minaccia da parte di Thanatos.
La persona non consapevole, evolutivamente bloccata o inibita, non è autonoma e quindi è per necessità dipendente e questa dipendenza è manifesta – come richiesta di aiuto e compensazione di un gap interno – nei confronti di persone fisiche, di idee, di organizzazioni, di rituali tesi a contenere e spostare l’angoscia.

Questo ci porta a un parallelismo, assai chiaro ai clinici ma non del tutto ovvio se considerato su vasti numeri di individui, che mutua e permette di applicare i meccanismi e categorie della tossicodipendenza a ogni tipo di rapporto di dipendenza a seguito di un blocco evolutivo. Fra il fenomeno della tossicodipendenza e l’adesione incondizionata al pensiero trascendente-religioso esistono somiglianze palesi quanto impressionanti (Jean-Marie Abgrall, 1996). Chi è assoggettato a un credo fideistico, integralista, non può – perché non vuole in quanto non può – più agire liberamente, viene ascritto in una progressiva fagocitazione delle sue caratteristiche e risorse in funzione dell’organizzazione in cui ha confluito, degli altri membri e di chi è a capo di questo (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).

 

La relazione tra autoritarismo sociale e religioso

Una visione clinicamente e culturalmente critica delle religioni, e dei differenti tipi di culti, può essere ulteriormente approfondita con alcune considerazioni, appunto cliniche e culturali, espresse da E. Fromm (1987), in particolare la sua capitale distinzione fra religioni di tipo autoritario e umanistiche.

Tale distinguo non è specifico di un solo volume o argomento trattato da Fromm, piuttosto parliamo di una sintesi concettuale e di definizioni che lo stesso ha operato in un’ arco quasi trentennale di osservazioni e conclusioni circa il rapporto tra individuo e religioni. Tale distinguo ha indubbiamente elementi chiari per lo specialista della salute mentale e il civilista come anche per l’antropologo laico, ma si perviene ad una zona indefinitamente grigia di assenza chiara di confini.

Le religioni autoritarie, così come è ripreso e definito nell’Oxford Dictionary proprio dagli studi di Fromm (Oxford Dictionary Press and Editions, 2015) sono un costrutto di idee, permessi e divieti che una volta riconosciuti e accettati da parte dell’uomo lo dispongono a essere strumento di un potere superiore, invisibile o non chiaramente manifesto, da cui dipende il suo destino, quello delle persone a lui care come di tutta l’umanità e che ha diritto a essere obbedito, riverito e adorato e ciò direttamente o tramite coloro che ne amministrano il culto e l’ interpretazione.

L’elemento che più ci interessa in quanto clinici, ovvero la delega di responsabilità e capacità personali a questo potere superiore: l’elemento essenziale, assoluto, nelle religioni autoritarie è il volontario – o indotto – abbandono della propria persona a un potere ritenuto trascendente.
In questo tipo di religioni e culti la virtù somma, capitale, cardinale è l’obbedienza ai ritenuti testi sacri, ai ministri di questo eventuale culto e l’aderenza pressoché indubbia al corpus intero delle sue determinanti culturali e trascendenti.

Di contro, ma non potrebbe essere certamente differentemente, il peccato – e quindi crimine socialmente riconosciuto dal gruppo in tutti i suoi gradi – o anche vizio morale capitale è la disubbidienza (E. Fromm, 1987; Hans Jörg Weitbrecht, 1948; Mortimer Ostow, 1983). La specifica che ne deriva logicamente è quanto segue: ciò che è peccato è crimine sociale e ciò che è crimine sociale è anche peccato. La sfumatura, pericolosa e tremenda, è che quanto è civile coincide con il teologico e il teologico determina le categorie dell’infrazione alle norme civili, da cui autoritarismo e totalitarismo.

Consideriamo ora invece l’aspetto delle religioni da Fromm definite come umanistiche.
Le religioni così definite da Fromm come umanistiche sono fedi, credenze e culti che fanno perno sull’uomo e sulle sue intrinseche possibilità. Nodale e profondo in questo tipo di religione è l’esperienza personale, intima, non comunicabile in termini chiari e definiti di una individuale quanto collettiva unità con un Tutto che è origine, motore e termine di qualsiasi cosa, passata presente e futura, non importa cosa o chi sia.
La ricerca, di queste altre forme di religiosità è eminentemente individuale ed evolutiva, è acquisire una forma di forza e consapevolezza; l’obiettivo, manifesto, che non è inteso come punto di arrivo ma stato, condizione interiore più o meno permanente, è la capacità di autorealizzarsi in consapevolezza e libertà, non quella di annullarsi e obbedire.

Un distinguo importante circa l’elemento della fede.
Per fede, in una definizione agevole, in questo caso si intende la convinzione sicura e certa basata sulla comprensione chiara ed autentica delle proprie esperienze di creatura che pensa, opera e sente. Di contro (ed è bene sottolinearlo onde avere una visione completa ed imparziale del termine) l’elemento di fede così come proposto dalle religioni e dai culti autoritari è invece un assoluto e cieco assenso a certe proposizioni – etiche, morali, pratiche e trascendenti – da una fonte ritenuta infinitamente autorevole, implicitamente saggia e benevola, assoluta.
Il clima dominante, circa l’uomo e il divino, nella religione umanistica e quella autoritaria, è assai differente quindi e ciò come concreto portato di vita quotidiana ed esperienziale, è così riassumibile:

Religione autoritaria
– esperienza più collettiva che personale
– presenza di settarismo e parzialità sociale quanto culturale
– la ricerca e il dubbio sono ammessi entro i termini e confini di quella specifica teologia e dialettica
– ortodossia e diffidenza verso ciò che è nuovo e/o diverso
– bene e male sono categorie assolute, con assenza di margini relativi individuali senza sfumature personali
– persistenza di dolore e colpa: della sofferenza ed espiazione di colpe.

Religione umanistica
– esperienza individuale
– incomunicabilità completa di tale esperienza
– assenza di parzialità settaria
– ricerca e dubbio sono non solo ammessi ma ampiamente incoraggiati
– apertura e disposizione al nuovo e/o diverso
– bene e male sono categorie gruppali e sociali relative, con margini relativamente ampi di sfumature personali
– gioia e piacere: edonismo, attitudini positive che riparano il dolore e spiegano sensi di colpa.

A questo punto vediamo come e quanto il carattere eminentemente autoritario di una religione sia in relazione con il livello evolutivo di una cultura e società; ciò come a dire che una religione o culto autoritario diviene, o promuove/giustifica una società anch’essa autoritaria o quanto meno fondata su principi autoritari, assolutisti e verticistici (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).

Per estensione, e completamento, possiamo dagli elementi esposti precedentemente estrapolare e porre in chiaro quei fattori che invece identificano, specificano ed orientano circa una religione e contesti sociali di tipo spirituale/trascendente non autoritari, di accoglienza e promozione della persona umana a tutti i livelli (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001):
– benessere sociale e redistribuzione ampia delle ricchezze;
– rapporto diritti/doveri individuali e gruppali eguali per ogni componente della società e di assoluta reciprocità;
– separazione amministrativa, legislativa, culturale tra stato e religioni da cui il laicismo;
– uguaglianza uomo-donna;
– uguaglianza innanzi il patto sociale e legislativo di tutti gli individui a prescindere dal ceto e dalla cultura;
– libertà di associazione e di dibattito sui temi sociali, culturali e religiosi;
– egualitarismo;
– istruzione laica e libera, proposta e promossa per entrambi i sessi senza distinzione ed incoraggiata sino al massimo grado d’istruzione;
– promozione e sostegno del lavoro nonché promozione e sostegno delle arti liberali nonché dell’otium inteso come tempo personale e privato.

Cui seguono, a livello di vita e partecipazione sociale, questi ulteriori punti:
– critica di forme ortodosse e verticistiche di educazione: vengono screditate come autoritarie e come focolaio di separatività, potenziale violenza, svantaggio sociale;
– obiezione circa l’aspetto politico-sociale delle religioni intese, invece, come fatto privato di opinione personale e necessità individuale.

Una società e una cultura che non corrispondano a questi elementi nodali sono una società e cultura sintoniche a una religione autoritaria o, il suo invariante inverso, che una religione autoritaria è il prodotto esatto e netto di una particolare struttura sociale di tipo autoritario, e ciò a tutti i livelli dell’esperienza umana ovvero nella propria individualità di persona, nella famiglia, nelle associazioni tra individui, nella società.
Vi è quindi un determinismo gruppale, culturale e sociale ove società e cultura autoritaria ammettono e abbisognano, di una religione anch’essa autoritaria e dai caratteri eminentemente verticistici e di settarismo, di separatività, di implicita potenziale ed ammessa violenza e non importa se di tipo concettuale, verbale o reale.

La proiezione individuale di una carenza primaria circa la propria persona, il gap evolutivo del singolo rispetto la massa, si dirigono inarrestabili verso quegli ambiti che compensano, rassicurano ma vincolano. Nella società, nella cultura, nella organizzazione sociale autoritaria e totalitaria ritroviamo quegli elementi tipici delle stesse religioni autoritarie, una replica in forma apparentemente aconfessionale e laica, ove è almeno formalmente utilizzato il termine laico, di una matrice verticistica, dogmatica e vincolante.

I termini che caratterizzano queste organizzazioni sociali-culturali autoritarie sono:
– Monismo. Assenza di pluralismo, in altri termini, o dogmatismo, cioè governo totale ed unico, con conseguente occupazione pervasiva delle strutture dello Stato da parte di una ristretta cerchia di individui e ingerenza continua nel privato di ogni individuo.
– Ideologizzazione. Presenza di un’ideologia/cultura articolata e precisamente definita, finalizzata alla legittimazione dell’autoritarismo ed alla sua preservazione, ciò in quanto stabilito unico prospetto per il singolo, il suo nucleo privato, le organizzazioni, la società, oltre che alla mobilitazione ritualistica delle masse in sostegno di tale ideologia o cultura.
– Mobilitazione. Attivazione continua e pervasiva in attività dirette alla manifesta quiescenza verso l’autoritarismo e creazione di strutture congrue l’ideologia e la cultura ed organizzazione di tutte le possibili che vi sono destinate e subordinate.
– Verticismo. Presenza di un leader o guida cui viene fatto riferimento continuativamente, da cui divengono specifiche norme, divieti, suggerimenti o – in senso quanto più ampio possibile – un modello sia esso materiale che ideale. Da tale leader o guida ne divengono, a discendere, altre figure di leader e responsabili sino al più piccolo gruppo che coordina le attività, le iniziative.
– Autoreferenzialità culturale ed operativa. I limiti, del tutto imprevedibili, all’esercizio del potere da parte del leader o della guida – e dei relativi responsabili allocati a diverso grado nelle gerarchie di sistema – sono a discrezione assoluta e totale di tale leader o guida. I termini di bene o male, in senso etico e morale, di giusto o sbagliato in ambito civile sono determinati, stabiliti, enunciati ed applicati senza nessun altro elemento di dibattito o legittimazione che sia l’autoreferenzialità del sistema stesso.

Tutti i termini sopra esposti sono, in modo impressionante, intercambiabili e sovrapponibili nei due sensi prendendo come attori di tali dinamiche ora la religione autoritaria e ora uno stato o governo anch’esso autoritario.
Il punto di contatto più forte, va però evidenziato ancora e meglio, è il caso in cui queste due realtà coesistano e operino in accordo e mutuo vantaggio, tanto da sovrapporre il principio di peccato (in senso religioso: errore verso la dottrina) con quello di colpa (in senso penale: danno verso la persona e/o la collettività).

Questo punto di contatto è decisivo per chiarire il rapporto di sovrapposizione reciproca tra peccato e delitto, tra teologia autoritaria e governo totalitario; un regime invasivo e autoritario, come una religione integralista e autoritaria limitano allo stesso modo la sfera di autonomia, di scelta, di azione, organizzazione e decisione dei soggetti. Il rapporto tra ordine, teologia/ideologia e libertà è paurosamente sbilanciato verso il primo termine della frase e l’individuo aderente alla religione autoritaria, la persona in termini freudiani assoggettata all’angoscia agìta dal Super-Io ne è preda, vittima come anche inevitabile connivente.
Nelle religioni autoritarie il peccato rappresenta non solo una colpa individuale verso la divinità ma, ulteriormente, è inteso come un male da estirpare perché un autentico atto di arbitrio e quindi attentato al bene comune in senso teologico.

Il parallelismo netto e più evidente è con il paziente che, al solo “poter” pensare un elemento avvertito come dissonante i permessi e percorsi del Super-Io, avverte il panico o l’angoscia (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994); sperimenta la dissonanza interna come frattura del quotidiano, come fosse follia, come depravazione, come abbruttimento del suo essere in un senso di “deviazione” da uno status quo internamente definito.

Così come nelle religioni autoritarie il peccatore è inteso come elemento canceroso nell’insieme della collettività dei fedeli, all’interno della economia psichica individuale l’idea, l’impulso, la pulsione freudianamente parlando, dissonante rispetto a un’altra, scatena l’effetto punitivo e coercizzante dell’istanza psichica deputata e determinata a regolarlo. La figura, in questo senso, è completa e chiusa, e al funzionamento psichico individuale, sugli assi angosciosi del Super-Io, corrisponde per un verso la religione autoritaria e per l’altro lo stato autoritario, riproducendo su una scala immensamente più grande quella monade però dualistica che è una versione onnipotente e totale del primitivo sistema di figure genitoriali.
Si costruisce, o ricostruisce, dunque un sistema assai primitivo ma inusitatamente potente ove all’inizio e fine di tutto vi è il contenimento dell’angoscia, del senso di morire e del Tanathos.

I termini sopra descritti per il parallelismo tra religione autoritaria/assolutista e stato autoritario/totalitario hanno qui ulteriore spiegazione, se visti come la spettacolare e potente proiezione di un sistema di accudimento e protezione, ora esterno (religione e stato) ma permanentemente riferito ora interno (individuo ed istanze psichiche).

I rituali di passaggio, di accettazione sociale, le cadenze giornaliere e temporali ossessive, di fatto, riconducono a una logica di onnipotente irrealtà, superstiziosa e magica, simile a quella che sottende le pratiche magiche primitive o i processi regressivi di difesa in pazienti affetti da schizofrenia in fase fertile (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994). Le fobie, gli incubi, le zoofobie frequenti nei bambini, divengono nell’adulto la fobia dell’altro, del diverso, il nemico interno angoscioso proiettato in forma tangibile e da cui ci si deve difendere o farsi difendere e l’elemento di difesa – ciò che può proteggere – è sempre riferito simbolicamente al padre. Religione autoritaria e stato autoritario divengono una rappresentazione totemica, un macchinario pervasivo ed efficiente nel controllo dell’angoscia e dei pericoli del mondo. Tornano, quindi, i temi e bisogni dell’infanzia con la sua vulnerabilità, dell’adolescenza con l’indefinizione fattuale dell’identità, che divengono in età adulta adesione e volontaria offerta di fagocitazione a un “tutto” che ora è divino e ora è umano.

In questo senso è la psicoanalisi che fornisce il proprio contributo nella comprensione culturale, prima, e clinica poi di queste derive autoritarie ed inevitabilmente integraliste; propone un modello epistemologico e filosofico dell’origine della religione – in senso lato -, proseguendo e comprendendo – ove necessario – quel tipo di culto e religione autoritaria nello stato del bambino privo di ogni difesa e che ha fatto derivare i suoi contenuti dai desideri, e dai bisogni dell’infanzia protrattisi intonsi sino alla fase adulta (D. Lukoff, 1992; E. Drewermann, 1995;Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger, B., Gorsuch R. 2001)

La religione autoritaria, integralista, monade senza confini sarebbe, in fin dei conti, la nevrosi ossessiva universale dell’umanità nel suo incedere giorno per giorno verso il progresso. Esattamente come quella nel bambino, essa trae origine dalla percezione interna dell’angoscia individuale ed esistenziale quindi dal complesso edipico, dalla relazione con la figura paterna. Ponendo questo come ragionevole e necessario, è da considerare che l’abbandono della religione di tipo autoritario e integralista – e in altri modi e tempi della religione nel suo senso più ampio – sia un accadimento naturale quanto logico, un luogo forse non evidente della storia umana ma certamente con un prima e un dopo rispetto a questo; un inesorabile e fatale processo di comprensione e crescita delle dinamiche individuali e gruppali, poste e attivate all’ennesima potenza in sistemi più complessi e potenti quali un culto (o religione ed uno stato o nazione) che ora, in questa contemporaneità, ci troviamo a sperimentare e vedere come nodo per ciascuno e processo di sviluppo dell’umanità nel suo insieme.

Tutto questo sopra descritto ed elencato è un portato di tipo culturale, e di riflessione psicologica e sociale, direttamente dal lavoro di E. Fromm, di Freud e di altri psicoanalisti (D. Lukoff, 1992; E. Drewermann, 1995) sulle caratteristiche nodali e funzionali di una conversione patologica a una religione o culto autoritari, integralisti.

Si evince come sia necessario, in termini di comprensione culturale analizzare questo, poiché se tale fenomenologia fosse lasciata in quanto spiegazione alla religione sola, ne avrebbe certamente una qualche distorsione o mitigazione delle cause ed effetti.
L’esigenza, forte, culturale e umana è che nulla si definisca da sé e da sé solamente ma invece, per un principio necessariamente epistemologico sia confrontato e veduto in tutte le sue parti funzionali. Il fenomeno della interdipendenza fra individuo, gruppo, fra famiglia, struttura sociale e il bisogno umano di credere in un “qualcosa”, di potersi confortare e poggiare in un contesto religioso merita la più assoluta attenzione nella contemporaneità.

Le derive integraliste, autoritarie, assolutiste forse non appartengono esclusivamente a una sola religione in quanto tale, con le sue peculiari caratteristiche ora difformi e ora simili ad altre; è forse una possibilità presente oltre un determinato punto ove esame di realtà e dinamica psichica sono scollegate, una tendenza irrazionale e violenta, verso lo stabilire un unico assioma e lettura del mondo e delle sue possibilità, un Assoluto incontenibile nella logica e nei processi psichici che determina, attiva e procede i fatali esiti della contemporaneità. La scissione interna dell’individuo è coagulata con altre altrui scissioni, e crepe strutturali del funzionamento psichico, creando così una monade funzionale i singoli bisogni individuali proiettati – identificati – nell’appartenenza e nella identità estremizzata; e altro non potrebbe poi essere poiché la psicologia dinamica, analitica e le scienze del comportamento ben hanno descritto e specificato i fenomeni di regressione – individuale e gruppalie –.
A conclusione di questo lavoro è allora opportuno chiosare con una semplice, quanto definitiva e forte, espressione di Bettelheim circa “un cuore vigile” cui, è necessario e sufficiente, una mente che lo sia altrettanto al fine di non cadere in un sonno, ove ragionevolezza sopita sarebbe preda di mostri.

I neuroni specchio (1992) di Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese e Rizzolatti

#13 I neuroni specchio – come si legge nel pensiero e si prevede il futuro di Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese e Rizzolatti (1992) Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi.

 

 

All’Istituto di Fisiologia di Parma, dipartimento dell’Università, negli anni ’90 un gruppo di studiosi analizza l’attività neuronale di specifiche aree del cervello. Hanno già scoperto che nella corteccia premotoria inferiore delle scimmie si ritrova una rappresentazione dei movimenti della mano: in particolare, essi si trovano sull’area F5 e hanno caratteristiche molto interessanti. Questi neuroni si attivano quando il movimento ha una finalità specifica, come afferrare, stringere, strappare.

Nel 1992, il team di ricerca di Rizzolatti si accinge a studiare l’attivazione dei neuroni dell’area F5 in situazioni in cui possono isolare le risposte comportamentali associate a uno stimolo dall’effettivo movimento. Vogliono capire come i neuroni si attivano quando l’animale sta per svolgere un movimento che è quasi automatico, ma si deve trattenere. Per svolgere tale studio i ricercatori addestrano una scimmia macaco a recuperare oggetti differenti da una scatola, con un ritardo dalla presentazione dello stimolo all’effettiva azione della scimmia, inibendo quindi una risposta comportamentale spontanea per un breve lasso di tempo.

La procedura dell’esperimento comportava una prima fase in cui i ricercatori hanno individuato quali neuroni si attivassero nella scimmia al movimento della sua mano. In seguito, studiano l’attivazione di tali neuroni in condizioni in cui il comportamento è controllato, mostrando alla scimmia alcuni oggetti in una scatola. Con un movimento, la scimmia accendeva una luce nella scatola e dopo un breve intervallo la scatola si apriva, così da permettere all’animale di afferrare l’oggetto.  Durante la registrazione dell’attivazione neuronale gli studiosi si accorgono che, mentre uno di loro afferra un oggetto, i neuroni monitorati si attivano.

Ripetono quindi questa prova con diversi movimenti, a distanza più o meno ravvicinata dalla scimmia e riscontrano con regolarità l’attivazione, sebbene l’animale fosse fermo e non in procinto di compiere dei movimenti. L’attività dei neuroni risponde a azioni ben specifiche degli sperimentatori, mentre non vengono registrate attivazioni per altri movimenti. Per verificare che l’attivazione non sia correlata a qualche minimo movimento della scimmia, viene controllata l’attivazione muscolare, ma l’animale risulta essere effettivamente fermo.

 

I neuroni specchio (1992) di Di Pellegrino, Fadiga, Fogassi, Gallese e Rizzolatti - I grandi esperimenti di psicologia Nr. 13 -IMMAGINE
Rizzolati Giacomo

 

Uno dei compiti fondamentali della corteccia premotoria è quello di richiamare movimenti adeguati in risposta a stimoli motori. Gli importantissimi risultati del gruppo di Rizzolatti mostrano che tale compito viene eseguito anche in risposta al significato dei gesti di un altro individuo. Se si pensa alla dimensione collettiva in cui la scimmia (e non solo lei) vive, tale funzione assume un’importanza fondamentale. In particolare, alcuni neuroni vengono attivati esclusivamente da specifici movimenti dello sperimentatore e si attivano sia quando viene osservato il gesto, sia quando lo stesso movimento viene agito in prima persona dall’animale.

Questo permette ai ricercatori di teorizzare una nuova classe di neuroni e ricollegarsi a un dato già individuato in letteratura, ovvero la difficoltà di soggetti con aprassia nell’identificare il significato di gesti messi in atto da altri individui (Heilman et al., 1982). Questi straordinari neuroni vengono successivamente definiti neuroni specchio, per sottolineare la loro duplice valenza, osservativa e esecutiva. Quando guardiamo attentamente e comprendiamo un’azione, nel nostro cervello è come se la replicassimo, anche se rimaniamo immobili.

Probabilmente, ai tempi di questo primo studio, gli autori non si immaginavano le enormi implicazioni di tale scoperta, che ha portato al gruppo di Rizzolatti riconoscimenti nazionali e internazionali. Ad oggi, nella pratica clinica, i neuroni specchio sono ritenuti alla base di numerosi aspetti comportamentali e cognitivi dell’uomo e rimangono oggetto di numerosi studi. Ad esempio, Umiltà e colleghi hanno scoperto che determinati sottoinsiemi di neuroni specchio si attivano anche quando l’azione dell’altro viene vista solo nelle sue fasi iniziali, ricostruendo quindi in modo proiettivo la fine del gesto, sulla base della sua finalità (Umiltà et al., 2001). Questi neuroni praticamente predicono il futuro.

Numerosi studi hanno verificato l’implicazione del sistema mirror in costrutti relativi alla dimensione interpersonale, come l’empatia (Gallese, 2003) e di qui il passo ad analizzarne i risvolti nei disturbi di personalità è breve. Sperando che, tra le numerose potenzialità di queste straordinarie cellule, ci sia anche una notevole plasticità.

 

Vergogna e auto-biasimo: come ostacolano l’elaborazione del trauma?

Nella seconda giornata del Corso Nuove frontiere nella cura del trauma, Janina Fisher affronta un’emozione cruciale nel vissuto dei pazienti vittime di abusi e traumi nell’infanzia: la vergogna.

La vergogna e l’odio verso se stessi sono costantemente esacerbate dalle credenze e dai significati che le vittime di violenza hanno attribuito e continuano ad attribuire alle esperienze di paura e umiliazione. Questa emozione fin da subito mostra il suo paradosso: parlare di vergogna tende ad accrescerla, non parlarne lascia sole le parti infantili che vivono cronicamente imbarazzate. Esprimere empatia può attivare imbarazzo e suscitare senso di inferiorità, ma ristrutturare i successi e gli obiettivi raggiunti può innescare la vergogna di non sentirsi all’altezza o di non meritarli. Nel trauma complesso la vergogna assume un ruolo così centrale da determinare un bloccante e pervasivo senso di inadeguatezza a vivere il presente, difficile da afferrare e, dunque, trattare.

 

L’emozione della vergogna

Innanzitutto la vergogna per sua natura è un’emozione che facilmente suscita pensieri negativi su di sé, proprio per via delle sue stesse caratteristiche sensoriali: occhi bassi, rossore in volto, senso di debolezza, sentirsi piccoli, vulnerabili, esposti, sopraffatti, desiderio di raggomitolarsi, di sparire. Ogni volta che sentiamo questa emozione salire, si apre in tutti noi una finestra di vulnerabilità, un senso di inadeguatezza e un istinto a nasconderci che è sano e tipico della nostra specie: aiuta noi stessi a proteggerci da un giudizio negativo e segnala agli altri una fragilità che non necessita di un ulteriore attacco. Sul piano fisiologico inoltre la vergogna produce un’immediata riduzione dell’arousal , che blocca l’azione e ha il ruolo fondamentale di ridurre il danno potenziale che potrebbe venire dall’eccessiva reattività ad emozioni intense. Ma cosa succede quando questa emozione viene espressa in contesti violenti, imprevedibili o abusanti? Cosa succede quando si apre questa finestra di vulnerabilità?

 

Il circolo vizioso della vergogna

Nel vissuto e nelle storie della maggior parte dei pazienti sopravvissuti a traumi e trascuratezze nell’infanzia, questa emozione non ha spesso prodotto l’effetto sociale desiderato: al contrario i significati offerti da caregiver abusanti o maltrattanti sono spesso stati critici “Sei uno stupido! Non vali niente! Non meriti niente! Sei un debole! Sei incapace! Sei disgustoso!” e seguiti da violenze fisiche. Tutti questi significati e reazioni alla vergogna producono per di più un effetto di rinforzo dell’emozione stessa, suscitando più vergogna, più inadeguatezza e più sottomissione, necessaria a fermare l’attacco. Questo circolo vizioso trasforma così nel tempo un’emozione sana della vittima in un’arma che l’aggressore riesce ad usare per mantenere il suo status e confermare il suo potere. Quello che invece succede tristemente nei bambini è che i significati negativi cui sono stati continuamente esposti, diventano credenze e idee di sé che non metteranno più in discussione, che saranno per loro semplicemente la verità.

Le credenze che troviamo negli adulti possono restare così le stesse anche a distanza di anni e anche a seguito di una buona elaborazione delle memorie traumatiche, proprio perché i belief legati alla vergogna continuano a vivere slegati dagli eventi che li hanno provocati. La persistenza delle risposte di vergogna e dei pensieri di auto-biasimo creano dunque una barriera importante alla remissione completa dei sintomi o alla possibilità di condurre una vita soddisfacente.

La vergogna si può manifestare nel presente attraverso tre strade principali: come una riattivazione diretta dell’emozione di vergogna come reazione al ricordo del trauma (ad esempio, evitamento del lavoro di elaborazione dei ricordi traumatici); come una reazione a situazioni sociali negative nel presente che attivano una memoria implicita di paura del rifiuto e umiliazione (ad esempio, può manifestarsi come difficoltà ad affermare le proprie opinioni, ad essere assertivi o a dire ‘no’); oppure come una reazione ad uno schema cognitivo interno che può essere suscitato sia da fallimenti che confermano le credenze disfunzionali su di sé, sia da situazioni di successo che contrastano con le credenze nucleari di inadeguatezza e indegnità.

Spesso questa barriera nell’adulto emerge come un loop ruminativo di pensieri legati alla presunta assenza di valore o di capacità, o come feroce autocritica, o con sentimenti di colpa e responsabilità legati a grave inadeguatezza e insufficienza personale: quello che in tutti i casi si determina è un blocco della prospettiva personale e una difficoltà nel definire e raggiungere obiettivi di vita importanti.

 

Terapia sensomotoria e vergogna

Nell’ottica della terapia sensomotoria proposta dalla Fisher, un primo passo essenziale è distinguere il sentimento di vergogna da i pensieri (o schemi cognitivi) basati sulla vergogna. Il suggerimento è di trattare solo un piano per volta. Nel primo caso è importante osservare l’attivarsi della vergogna nel presente, imparare a sentirla e a riconoscerla nel corpo, a tollerarne le sensazioni, per poi rileggerla come risposta automatica procedurale ancora legata alla funzione protettiva che la vergogna ha avuto nel passato: limitare comportamenti potenzialmente negativi o rischiosi in presenza di un caregiver abusante o maltrattante è stata una risorsa essenziale per difendersi da punizioni eccessive o violente. Si impara a “non difendersi e a fare i bravi” e questo è stato molto eroico, a prescindere dalle conseguenza che ha ora sul presente.

Nel secondo caso può essere utile osservare invece l’attivarsi dei pensieri, con l’obiettivo di riconoscerli, osservarli, e promuovere un atteggiamento mindful, utile ad esplorare gli effetti di questi pensieri nel corpo e nelle azioni del presente. Questo permette di osservare in vivo l’effetto protettivo che la vergogna produce su alcune scelte e promuovere una migliore mentalizzazione sui propri stati emotivi. Cercare un’integrazione tra emozioni , pensieri e aspetti sensoriali attraverso l’esperienza presente della vergogna in terapia è la sfida che può aiutare a mettere in discussione, un frammento alla volta, quel pensiero che viene dal passato e che torna a creare confusione e destabilizzazione: c’è davvero qualcosa che non va in me?

Giallo, rosso, blu: lettura psicologica di un’opera di Kandinskij

Per Kandinskij i colori sono capaci di comunicare con noi uomini e possono suscitare in noi due diversi effetti: un effetto fisico, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro ed un effetto psichico prodotto dalla vibrazione dello spirito che il colore determina quando incontra l’anima.

 

La lettura psicologica dell’opera di Kandinskij

Giallo, rosso, blu” è il titolo di un’opera che Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866-1944) realizzò nel 1925, dove protagonisti assoluti sono i colori, in questo caso i tre colori primari.
Il colore era per Kandinskij come il tasto di un pianoforte. In gioventù l’artista russo si era dedicato allo studio del pianoforte e del violoncello e proprio lo studio della musica si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione artistica come pittore.

Kandinskij era convinto che la pittura dovesse essere simile alla musica e che i colori dovessero sempre più assimilarsi ai suoni. Nel suo scritto “Lo spirituale dell’arte” (1910) l’artista, facendo un confronto tra le varie arti, affermava: [blockquote style=”1″]il più ricco insegnamento viene dalla musica. Salvo poche eccezioni, la musica è già da alcuni secoli l’arte che non usa i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali, ma per esprimere la vita psichica dell’artista e creare la vita dei suoni. [/blockquote]

E poi faceva un accostamento dei colori con i suoni e faceva corrispondere il giallo, vulcanico e prorompente, al suono di una tromba; il rosso, caldo e vitale, al suono di una tuba; l’azzurro al suono di un flauto; il blu scuro, profondo ed intenso come il mare, al suono di un organo; il verde al violino; l’arancione ad una campana di suono medio. Il bianco, invece, che è dato dalla somma di tutti i colori dell’iride, veniva paragonato ad un non-suono simile alla pausa tra una battuta e l’altra di una sonata. Il nero, infine, è un non-colore e veniva paragonato alla pausa finale di un’esecuzione musicale.

 

Il significato dei colori per Kandinskij e la sinestesia

Per Kandinskij i colori sono capaci di comunicare con noi uomini e possono suscitare in noi due diversi effetti: un effetto fisico, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore piuttosto che di un altro ed un effetto psichico prodotto dalla vibrazione dello spirito che il colore determina quando incontra l’anima.
Kandinskij sperava che i suoi dipinti, oltre ad essere visti, potessero anche essere ascoltati ed aspirava ad una pittura che fosse anche una “composizione musicale”.

Nell’artista russo era dunque forte la combinazione tra suoni ed immagini, come in Mozart, che, insieme al loro suono, vedeva il colore delle note: si tratta di un fenomeno conosciuto con il nome di sinestesia (dal greco syn=con e aisthanomai=percepisco, comprendo), ovvero percepire insieme più sensazioni. E’ un fenomeno percettivo e non cognitivo: potenzialmente siamo tutti sinestetici, in quanto il nostro cervello possiede dei meccanismi che permettono una fusione tra i sensi. La sinestesia è stata spesso associata a spiccate abilità creative ed infatti è stata riscontrata frequentemente in artisti e poeti. Le persone sinestetiche sono quelle che possono annusare i colori, vedere la musica o ascoltare un dipinto, sono coloro che attivano in maniera incrociata aree del cervello adiacenti che elaborano diverse informazioni sensoriali. Solitamente la sinestesia ha origine nell’infanzia ed è involontaria, cioè la percezione avviene automaticamente e non può essere soppressa, anche se diversi artisti tra cui, pare, Charles Baudelaire, hanno tentato di indurre la sinestesia attraverso l’assunzione di sostanze stupefacenti con l’intento di aumentare il proprio livello di coscienza.

Vasilij Kandinskij era conscio della propria sinestesia; scriveva infatti: [blockquote style=”1″]sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano: era un’esperienza misteriosa; sorpresa nella misteriosa cucina di un alchimista[/blockquote] ovvero riusciva a mescolare diverse sensazioni in maniera cosciente: per lui ogni colore era un suono e le pennellate sulla tela suonavano davvero.

L’artista russo, oggi universalmente riconosciuto come il padre dell’astrattismo, era stato, prima di tutto un espressionista. La svolta avvenne a metà degli anni Venti, quando fu pubblicato il suo testo teorico “Punto, linea, superficie” e quando dipinse “Giallo, rosso, blu”. Di quest’opera lo stesso Kandinskij scrisse: [blockquote style=”1″]giallo e blu in rapporto al rosso. Il Sole e la Luna si evitano e si ritrovano come avviene tra il giorno e la notte, l’aurora e il tramonto. Nascita misteriosa del rosso dalla tendenza simultanea all’allontanamento e all’ascensione del giallo e del blu.[/blockquote]

In quegli anni Kandinskij insegnava al Bauhaus di Weimer, dove sviluppò alcuni interessanti esperimenti: domandò per esempio ai suoi studenti di associare il triangolo, il quadrato ed il cerchio ai tre colori primari: quasi tutti associarono il cerchio al blu, il quadrato al rosso ed il triangolo al giallo. In accordo con questo risultato sperimentale, nell’opera “Giallo, rosso, blu” vediamo a destra un cerchio perfetto color blu, nella parte mediana della tela troviamo un rosso indistinto, mentre nella parte sinistra domina il giallo. E’ una composizione pittorica dove il colore assume anche una forma, dove il colore viene associato alla sua forma privilegiata: il blu con il cerchio, il rosso con il quadrato e il giallo con il triangolo e quando un colore viene associato alla sua forma privilegiata, l’effetto psichico che ne deriva è straordinario. Kandinskij, “il Grande Principe dello Spirito” – come lo definì Joan Mirò (1893 – 1983) – era interessato proprio a questo: il colore libero dal disegno, associato alla sua forma privilegiata, come mezzo potentissimo per l’espressione dello spirito.

 

Kandinsky - Giallo Rosso Blu

Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità della paziente anoressica

Personalità della paziente anoressica: Secondo la letteratura scientifica circa un terzo dei pazienti anoressici mostra la presenza di un disturbo di personalità. I disturbi di personalità ossessivo-compulsiva e borderline sembrano essere quelli predominanti.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità della paziente anoressica (Nr. 17)

 

La relazione tra disturbi alimentari e tratti di personalità

Come abbiamo visto, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso i disturbi alimentari da curiosità psichiatrica sembrano diventare una piccola emergenza. Ci si comincia a chiedere se quel gruppo di sintomi, oltre ad essere un disturbo psicologico, corrisponda anche a un tipo di personalità, di temperamento. Se si può pensare che esista un carattere, un modo di essere tipicamente alimentare. O, più precisamente, tipicamente da disturbo alimentare.

Diversi modelli concettuali hanno tentato di spiegare la relazione tra cibo e disturbo di personalità. Un tratto della personalità può predisporre all’insorgenza di un disturbo alimentare ( modello predisponente), ma potrebbe anche trattarsi di una semplice complicazione o effetto del disturbo alimentare (modello cicatrizzante) (Wonderlich, Mitchell, 1997, 2001; Fessler, 2002). È vero che tratti della personalità rigidi e ossessivi possono essere conseguenti, o aggravati dal periodo di digiuno (Lilenfeld et al. , 2000), ma la persistenza di questi tratti anche dopo la guarigione dal disturbo alimentare sembra indicare che essi possono rappresentare fattori di vulnerabilità che precedono l’insorgenza del disturbo alimentare.

Viceversa, l’impulsività e l’instabilità affettiva sembrano migliorare dopo il recupero del disturbo alimentare, e dunque potrebbero dipendere più da una situazione temporanea che da un tratto di personalità persistente. Infine, i disturbi alimentari e di personalità possono essere dovuti a fattori terzi, che causano entrambi i disturbi ( modello di co-occorrenza). Ad esempio, le dinamiche familiari, le storie di abuso, i problemi neurobiologici e la genetica sono notoriamente fattori predisponenti ad una patologia (Steiger, Bruce, 2004). Purtroppo, gli studi trasversali rendono impossibile determinare il rapporto di causalità e l’eziologia tra i disturbi in oggetto di analisi. I disturbi di personalità sono molto meno diffusi nei pazienti che guariscono rispetto ai malati cronici e quindi lo stato clinico della malattia sembra influenzare la valutazione della personalità (Bornstein, 2001).

 

I tratti di personalità della paziente anoressica più frequenti

In effetti, le caratteristiche di personalità possono favorire lo sviluppo e il mantenimento dei disturbi alimentari (Wonderlich, Mitchell, 2001; Cassin, von Ranso, 2005). In particolare, anoressiche e bulimiche mostrano valori di perfezionismo e impulsività superiori rispetto ai soggetti normali (Tacket et al. , 2008; von Ranson, 2008).

Ma vediamo come stanno le cose più nel dettaglio. Secondo la letteratura scientifica circa un terzo dei pazienti anoressici mostra la presenza di un disturbo di personalità (Sansone, Sansone, 2011). I disturbi di personalità ossessivo-compulsiva e borderline sembrano essere quelli predominanti.

Che cosa significano questi due termini? La personalità ossessiva si costruisce tutta intorno all’ordine, alla preoccupazione per l’ordine e per le regole, al perfezionismo, alla rigidità su questioni di etica e di moralità, alla difficoltà a manifestare le proprie emozioni e al bisogno di controllo nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Il disturbo borderline di personalità è un disturbo caratterizzato da cambiamenti di umore, instabilità nelle relazioni con gli altri e impulsività.

 

I tratti ossessivi nell’anoressia

La prevalenza del disturbo di personalità ossessivo-compulsivo nell’anoressia è del 22%, mentre nella popolazione generale è dell’8%. La disparità tra i due gruppi suggerisce la possibilità di una parziale relazione causale. A sostegno di questa ipotesi il perfezionismo, tratto centrale del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, è stato da tempo descritto come un processo cognitivo fondamentale anche nell’anoressia (Sassaroli et al. , 2005). Il perfezionismo è caratterizzato dalla tendenza a stabilire e perseguire standard eccessivamente elevati, irrealistici, nonostante il verificarsi di conseguenze negative (ad esempio, il cibo e la preoccupazione del peso, la fame persistente) (Shafran et al. , 2002; Frost et al. , 1990; Hewitt, Flett, 1991; Terry-Short et al. , 1995).

Gli individui con disturbi alimentari mostrano un più elevato perfezionismo patologico (ad esempio, paura irrealistica ed esagerata dei propri errori) e livelli analoghi di perfezionismo normale (ad esempio, alti standard personali e necessità di ordine) rispetto ai soggetti normali (Ashby et al. , 1998). Le caratteristiche di personalità ossessivo-compulsiva rispecchiano chiaramente notevoli peculiarità dell’individuo a dieta, ad esempio la necessità di concentrarsi su alcuni dettagli alimentari, come le dimensioni e il colore del cibo per le anoressiche, stabilire rigide regole personali di condotta (in questo caso regole alimentari), ottenere ordine e organizzazione, rispettare orari. Tutto ciò coincide con alcuni sintomi del disturbo alimentare di estrema e accurata dieta: computo fedele di calorie pesate con accurata precisione, sviluppo rigido e incrollabile di piani alimentari, e monitoraggio rigoroso di grammi di grassi e fibre. Dunque, le anoressiche mostrano come scopo ultimo la necessità inderogabile di raggiungere un peso corporeo ideale e di mantenere un preciso e complesso regime alimentare tramite l’esercizio fisico, anche se rischiano di “morire di fame”. Inoltre, i tratti caratteriali di rigidità e di testardaggine riflettono probabilmente inflessibilità e determinazione nel voler raggiungere il peso ideale, malgrado il rischio di danni alla salute.

Risulta pertanto evidente che una preesistente struttura di tipo ossessivo-compulsivo potrebbe costituire terreno fertile per la genesi di una patologia alimentare di tipo anoressico (Peterson et al. , 2009). Secondo alcuni studi i tratti ossessivo-compulsivi, se presenti dall’infanzia, potrebbero essere considerati dei veri fattori di rischio. La presenza prematura di tali tratti aumenta la probabilità di sviluppare un disturbo alimentare di quasi sette volte. Tuttavia, questi risultati devono essere interpretati con la dovuta cautela stante l’esiguo numero di studi esistente in merito.

 

La relazione tra l’anoressia e il disturbo evitante di personalità

Bornstein (2001) ha inoltre osservato una relazione tra anoressia e disturbo evitante di personalità. Le persone con questo disturbo presentano un radicato senso di inadeguatezza e un elevato timore del giudizio negativo altrui e preferiscono non coltivare relazioni, ad eccezione di quelle abituali e rassicuranti, pur desiderando avere delle relazioni sociali. Queste persone, infatti, sentono come gli altri il bisogno di una vita di relazione soddisfacente, che però rimane inespresso; questo comporta un estremo malessere che può essere sperimentato come un doloroso senso di esclusione.

 

Conclusioni: la personalità della paziente anoressica

Vittorio Guidano (1988) è stato tra i primi a proporre un’ipotesi sulla personalità della paziente anoressica. Per Guidano l’anoressica ha una percezione vaga e indistinta di sé, che oscilla tra il bisogno assoluto di approvazione da parte delle persone significative e la paura di essere criticati o disconfermati dalle stesse, tanto da reagire ad ogni perturbazione dell’equilibrio tra queste due polarità emotive con un’alterazione dell’immagine corporea e una variazione del comportamento alimentare. L’ipotesi di Guidano sulla personalità della paziente anoressica, sebbene non confortata in maniera robusta da prove di fatto, può risultare utile dal punto di vista terapeutico.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Fallire è morire: il rischio che porta in sé la scomparsa

Il fallimento, anche in psicologia, dovrebbe essere l’esito di un rischio e portare in sé la figura della scomparsa, l’indugio della fine. E invece no, non accade mai nulla di davvero definitivo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 11/06/2016

 

Fallire è un po’ morire, ma da un po’ non si fallisce e non si muore da queste parti. Si, d’accordo, l’Italia –che dico?- l’occidente intero è  (accidenti!) in perenne crisi. Crisi morale, crisi intellettuale, crisi economica. Eppure queste eterne crisi non portano mai ad alcun decesso, non dico di civiltà ma almeno di mentalità. Semmai si sopravvive, permanentemente malaticci e mai davvero malati e nemmeno sani.

Il fallimento, anche in psicologia, dovrebbe essere l’esito di un rischio e portare in sé la figura della scomparsa, l’indugio della fine. E invece no, non accade mai nulla di davvero definitivo. Si sa da anni: non c’è mai una vera ripresa, mai un vero boom, le culle vuote sono sempre più vuote e più frequenti, un giorno ci saranno più novantenni che bambini di dieci anni, non si investe più sul futuro e non si crede più nel passato (se mai c’è stato), i barbari sono alle porte e insieme a loro ci sono gli extracomunitari, i rifugiati, i richiedenti asilo, i mille vinti e disperati della terra pronti a sottrarre il pane agli immeritevoli viziati figli del corrotto occidente.

Eppure non accade nulla, la tavola è imbandita e tutto procede al suo immutevole meglio, banale come al solito. Siamo così noiosi da non essere nemmeno degni delle sferzate di una vera crisi?

 

Il fallimento e la crisi in psicologia

Il fallimento e la crisi come opportunità sono concetti economici ma anche psicologici, sono un pilastro di una certa visione del mondo, una visione che aveva in sé il senso della morte e della resurrezione, dell’immersione che è una rinascita; ma quel dio è morto e neppure noi, incapaci di andare davvero in crisi pur essendolo sempre e quindi incapaci di morire, stiamo troppo bene, immortali e indeboliti dal nostro eterno presente.

È come se alla nostra longeva immortalità non fosse stato unito il dono della giovinezza e quindi invecchiamo, indecisi a scomparire. Come Titone antico, consorte dell’Aurora che chiese a Zeus per il suo sposo il dono di non morire ma –per dimenticanza- non quello di non invecchiare, deperiamo in un esasperante infiacchirsi delle forze incapace di ucciderci. E, come accadde a Titone, ci ridurremo a diventare cicale, un piccolo insetto simbolo di imprevidenza? Il sistema previdenziale dell’intero occidente per la verità borbotta e muggisce, ma c’è sempre un ma, un’incollatura che ci salva, una legge Fornero che rimanda il destino. Finora è andata così.

 

Fallimento e autostima

Forse l’eterno sfuggirci del vero fallimento è frutto di un cambiamento di visione, per cui al posto della crisi che rigenera vi è una moderna preferenza per l’autostima che ci sostiene. L’autostima, sempre sostenuta per non dire pompata, ci rende ormai incapaci di fallire e quindi di morire e ripartire.

Tutti gli studi sull’autostima finiscono per rendere intollerabile l’idea del fallimento e quindi ci obbligano a non morire mai. Ma non c’è chirurgia plastica che tenga: non si muore ma s’invecchia e le rughe appiattite si vendicano condannandoci a una maschera inespressiva. Dagli studi di Bandura in poi abbiamo scavato a fondo nella nostra stima di sé, e lo scavo ci ha resi più forti e più resistenti al fallimento, ma anche storti, prezzo da pagare perché non siamo nemmeno ai morti.

Si potrebbe ripiegare in oriente, altrimenti. Pare che in Cina si possa vivere con un’autostima più bassa che nel gonfio occidente.  Il risultato più interessante di questi studi di esotismo psicologico è che pare che in Cina la bassa autostima non sia in relazione con la depressione. Difficile dire che se questo sia segno di una società in realtà contenta della sua immobilità oppure di una capacità di essere davvero in crisi che noi avremmo perduto.

Speculazioni nelle quali la mente vaga senza poter trovare risposte definitive. È un po’ il tratto di questa modernità, l’assenza di svolte definitive, che forse non ci sono mai davvero state nella storia. Ci sono state però nei racconti che ci siamo fatti, della storia. Chissà se oggi siamo capaci di raccontarla davvero, una crisi.

Forse il Trono di Spade è una nuova tragedia che la racconta o forse è un’opera barocca che mostra il teatro del mondo dove tutto è finzione, anche la crisi in cui ci dibattiamo a ogni estate della nostra vita, prima del lungo inverno che non è mai così grande come dicono. Per ora.

Terapia genica contro il cancro al cervello: risultati promettenti per trattamenti “mirati” contro il glioblastoma

Un team della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste ha ottenuto risultati molto promettenti nell’applicazione della terapia genica contro il glioblastoma. I test in vitro e in vivo sui topi hanno dato risultati molto netti e la modellizzazione dimostra che il trattamento colpisce il metabolismo tumorale in almeno sei punti diversi.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

La terapia genica contro i tumori

La terapia genica, una tecnica che attacca il tumore in maniera selettiva, potrebbe rappresentare una speranza per combattere questo tipo di tumori mortali, per i quali la chirurgia è praticamente impossibile e la chemio e la radio terapia non riescono a combattere le recidive molto aggressive. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Oncotarget.

Solo pochi giorni fa la stampa (specialmente quella anglosassone) ha annunciato con enorme entusiasmo la pubblicazione di uno studio che descrive in grande dettaglio la genetica del cancro al seno, una scoperta che secondo molti segna un punto di svolta nella lotta a questo tipo di tumore. Notizie come questa confermano l’impressione che la guerra contro il cancro nel prossimo futuro verrà combattuta sul campo di battaglia della genetica.

Anche in Italia si lavora su questo fronte. Alla SISSA per esempio, dove Antonello Mallamaci e il suo gruppo hanno appena pubblicato dei risultati molto promettenti nell’applicazione della terapia genica contro il glioblastoma, una famiglia di tumori al cervello fra i più comuni e aggressivi. Una diagnosi di questo tipo è letteralmente una condanna a morte, in tempi molto brevi: [blockquote style=”1″]la chirurgia con questo tipo di tumori è difficilmente risolutiva, perché si insinuano nei tessuti sani, e anche la chemio e radioterapia sono poco efficaci. In breve tempo si presentano recidive molto aggressive ed è la fine[/blockquote] spiega Antonello Mallamaci, professore della SISSA che collabora anche con Fondazione Telethon. I[blockquote style=”1″]l nostro approccio è radicalmente diverso: introduciamo nelle cellule tumorali una copia aggiuntiva di un particolare gene, in modo da comprometterne le capacità replicative e portarle al suicidio.[/blockquote]

L’idea per questo studio è venuta a Mallamaci – che non è un oncologo – dopo anni di approfondimenti su un particolare gene chiamato Emx2. Questo gene, spiega lo scienziato, fra le altre cose, in fase di crescita embrionale controlla la proliferazione dell’astroglia. Le cellule della glia, fra cui gli astrociti, fanno parte del sistema nervoso, dove nutrono e proteggono i neuroni e ne regolano finemente il funzionamento.

[blockquote style=”1″]Sappiamo che durante le prime fasi delle sviluppo del sistema nervoso crescono solo neuroni, mentre la glia inizia a proliferare solo quando la crescita neuronale è praticamente finita[/blockquote] spiega Carmen Falcone, ricercatrice SISSA e prima autrice dello studio.[blockquote style=”1″] Nei nostri studi precedenti abbiamo scoperto che Emx2 si esprime a livelli molto alti nella fase di generazione dei neuroni, mentre quando inizia la crescita della glia la sua azione si riduce drasticamente. In questo modo, il gene fino a un certo punto mantiene ferma la crescita degli astrociti.[/blockquote]

Se può bloccare gli astrociti, perché non provare a usarlo per tenere a bada i glioblastomi? [blockquote style=”1″]Questi tumori hanno molte caratteristiche in comune con l’astroglia[/blockquote] commenta Mallamaci, [blockquote style=”1″]da qui l’idea di usarli a nostro vantaggio. Con il contributo dell’IST di Genova, che ci ha fornito alcune colture di vari tipi di glioblastoma, abbiamo iniziato a fare dei test in vitro.[/blockquote] E questi test sono andati “oltre le più rosee aspettative”, spiegano Falcone e Mallamaci: [blockquote style=”1″]per quasi tutti i campioni, in meno di una settimana , il tessuto tumorale è letteralmente collassato.[/blockquote]

A questo punto lo studio è proseguito in due direzioni. Il team ha prima modellato in vitro i meccanismi molecolari che intercorrono fra l’“accensione” del gene terapeutico e l’effetto finale, determinando che il gene attacca il metabolismo del tumore in ben sei punti, un risultato definito “molto robusto” dai ricercatori.

 

Un cavallo di Troia dentro al tumore

Dopo gli studi in vitro, il gruppo ha iniziato i primi esperimenti in vivo, sui topi, adottando le dovute cautele per prevenire sofferenze inaccettabili a carico degli animali.. [blockquote style=”1″]Quindi, per prevenire danni alle cellule sane, neuroni e astrociti, abbiamo selezionato un ‘promotore’ specifico, un pezzetto di DNA che fa sì che il gene terapeutico si attivi soltanto nelle cellule tumorali, senza attaccare le altre, e abbiamo replicato con esso lo stesso risultato ottenuto nei primi test in vitro.[/blockquote]

La terapia genica si basa sull’inserimento di geni ad hoc nel genoma di una cellula ospite in modo che questi possano funzionare al suo interno, prendendo in prestito il suo macchinario genetico. Come si fa ad aggiungere un pezzetto di codice genetico in una cellula vivente? Gli scienziati sfruttano i meccanismi naturalmente messi in atto dai virus. I virus sono strane entità: pur avendo un proprio genoma non sono in grado di duplicarsi, e cioè riprodursi, da soli. Per questo motivo si insinuano all’interno di altre cellule, e inseriscono il proprio DNA in quello ospite, così che la cellula lavori per loro, duplicando anche loro geni e andando così a formare nuovi virus. [blockquote style=”1″]Rendendo innocuo il virus, svuotando cioè l’involucro del suo genoma e riempiendolo con i geni terapeutici, possiamo aggiungere alla cellula ospite nuovi geni, ovvero versioni potenziate di quelli endogeni[/blockquote] spiega Falcone.

Così hanno fatto Mallamaci e colleghi, introducendo una versione particolarmente attiva di Emx2 nelle cellule tumorali. I risultati finora sono stati netti e hanno dimostrato che Emx2 è in grado di uccidere le cellule di almeno quattro tipi diversi di glioblastoma, anche in vivo nei roditori, senza danneggiare le cellule sane del sistema nervoso. Avendo inoltre osservato che il trattamento colpisce il processo tumorale in molti punti, ci sono buone speranze di contrastare efficacemente la comparsa di recidive aggressive. [blockquote style=”1″]Perché queste si formino, si deve instaurare un processo di selezione delle cellule tumorali più forti. Colpendole in una varietà di punti differenti, alziamo di molto l’asticella per questo processo selettivo e – sperabilmente – preveniamo le recidive[/blockquote] conclude Mallamaci.

[blockquote style=”1″]Ora continueremo ampliando i test in vivo con altri glioblastomi. Lavorando molto sodo e con un pizzico di fortuna speriamo che in pochi anni ciò possa tradursi in un beneficio tangibile per gli sfortunati pazienti colpiti da questa patologia.[/blockquote]

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Se mi lasci ti cancello: trauma e relazioni sentimentali (2004) – Cinema & Psicologia

Il film è una metafora della difficoltà a tollerare non solo le emozioni negative nella rottura di una relazione, ma anche il passaggio dall’innamoramento all’amore, e quindi dalla visione idilliaca e perfetta, intrisa dell’idealizzazione di sé e dell’altro, alla presa di coscienza della complessità nella coppia, dove insieme ai due membri entrano in gioco le loro storie, gli apprendimenti, i legami di attaccamento pregressi, dai primari ai secondari, e infine la relazione nell’attualità.

 

Introduzione

“Eternal sunshine of the spotless mind”è il titolo originale del film “Se mi lasci ti cancello” (2004) diretto dall’eccentrico ed eccezionale regista Michel Gondry. I protagonisti sono Joel e Clementine, due giovani apparentemente diversi che si incontrano e si innamorano, ma ad un certo punto la situazione degenera, come accade, del resto, in numerose coppie e sono costretti a lasciarsi, e a dimenticarsi. Con una sottile e potente carica metaforica, il regista coinvolge lo spettatore in una vicenda stravagante che nasconde un significato essenziale: la memoria nella coppia è una fonte preziosa che porta felicità e dolore, ma anche apprendimento e crescita, ed eliminarla o tentare di soffocarla è un errore che comporta notevoli costi sul piano della creatività e della costruttività e sull’investimento relazionale futuro.

 

Trama

Clementine è lunatica ed eccentrica, indossa abiti fluorescenti e porta i capelli blu. Joel è timido, inibito, dolce e comprensivo.
La loro storia parte bene ma finisce inaspettatamente senza un motivo ben chiaro e quando Joel prova a riavvicinarsi a Clementine, la ragazza si rivolge a lui come ad un estraneo. In preda al panico e alla disperazione, Joel si rivolge ad un centro medico specializzato per eliminare i ricordi che lo legano a Clementine. Si scopre che anche Clementine si è sottoposta alla medesima procedura ed è per questo che non riesce a ricordare l’identità di Joel e ha cominciato da poco una relazione con un altro giovane, come se non fosse successo niente.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La spotless mind e la fretta di cancellare e ricominciare

L’elemento centrale del film è il trauma nella relazione di coppia che porta i protagonisti a desiderare di scotomizzare quella parte dell’esperienza relativa alla storia d’amore, dagli ultimi avvenimenti al primo incontro. A livello metaforico, le incomprensioni, il dolore, la rabbia, ma anche la felicità in quel rapporto devono essere eliminati per poter proseguire a “mente leggera” o spotless mind e per raggiungere “l’eterno splendore” della felicità o eternal sunshine. L’ossessione dei protagonisti si posa su una mente ripulita dei ricordi, resettata nel modo più rapido e indolore, pronta ad essere riempita con altri ricordi e altre relazioni, senza quei pesanti macigni che impediscono l’ingresso alle esperienze future.

Manca una sana elaborazione degli eventi, un apprendimento che implica un percorso dove il dolore, l’elaborazione del lutto, l’accettazione e il perdono di sé e dell’altro sono necessari per costruire un senso. Una condizione necessaria perché senza uno sforzo e un lavoro sull’esperienza in termini emotivi e cognitivi l’intero iter diventa faticoso e complesso e rischia di mettere sotto il tappeto quello sporco che è simbolicamente la parte di sé non compresa ed elaborata (Blandino, 2009).

È ormai una tendenza frequente, soprattutto nell’era della modernità liquida (Bauman, 2000), cercare la memoria limpida e pulita dal passato sentimentale, e per spazzare via il tutto si ricorre qualche volta a partner facilmente sostituibili come oggetti da usare e gettare, legami liquidi e insignificanti, per schiacciare il peso dei rapporti precedenti, accantonando la naturale maturazione del distacco, la presa di coscienza degli avvenimenti, l’assunzione di responsabilità e l’accettazione dei limiti propri e altrui (Recalcati, 2014). Nel film questo viene evidenziato dalla rapidità con cui Clementine incontra Patrick e avvia un’altra relazione che non sembra, però, essere particolarmente intima.

La procedura medicalmente assistita della cancellazione della memoria sembrerebbe corrispondere al desiderio profondo dell’essere umano, che soffre nel periodo della rottura, di utilizzare una tecnica efficace e permanente per distruggere eternamente le gioie e i dolori, la rabbia e la complicità, gli opposti che compongono l’esperienza di coppia e che risultano, pertanto, inevitabili. In altre parole, spazzare via tutto con un’operazione è l’unico modo per raggiungere l’eterno splendore della mente pulita perché apprendere dall’esperienza è, al contrario, un compito arduo che non garantisce risultati nell’immediato e implica un costo emotivo e cognitivo alto per potersi lasciare alle spalle quello che è stato.

Joel e Clementine non ascoltano le altre parti di sé, i difetti reciproci che notano l’uno nell’altra, quegli elementi inaccettabili e intollerabili che evidenziano la loro incapacità di instaurare una relazione sufficientemente buona che, al contrario, dovrebbe legare i difetti insieme ai pregi di entrambi. Se si fallisce in questo compito di integrazione e accettazione dei diversi aspetti di sé e dell’altro, continuare a riprovarci è un danno al benessere psicologico. In altri termini, la relazione va a gonfie vele prima che non emergano le incomprensioni e le carenze caratteriali che vengono messe da parte fino al momento in cui il rapporto finisce sull’orlo del precipizio.

A questo punto i protagonisti si affrettano ad annullare il passato e a ricominciare un altro giro insieme, nonostante siano consapevoli dei motivi per cui hanno deciso di interrompere il legame e di eliminarlo letteralmente dalla loro mente.  Non si piacevano fin dall’inizio? Quello che li attraeva adesso li respinge? Gli elementi che prima ritenevano neutri adesso sono fastidiosi? Ma soprattutto perché? Riflessioni del genere sono del tutto assenti, ma colpisce il tono emozionale con cui raccontano quello che non tollerano del partner.

Joel non sopporta la volgarità, l’ignoranza e l’eccentricità di Clementine, e Clementine detesta lo sguardo da cucciolo e l’aria timida e indifesa di Joel, due classi di elementi che rientrano nella personalità dei protagonisti. La rabbia, la stanchezza e l’insofferenza dei due giovani nel delineare le lacune di entrambi dimostra un’incapacità di accettarsi in modo adeguato e questo sarebbe un espediente validissimo per avviare una pausa di riflessione o persino un’interruzione della relazione. Tuttavia i due restano troppo poco nello spazio di ascolto sulle parole usate per descriversi a vicenda e continuano a frequentarsi senza pensiero e memoria, agendo d’istinto, correndo in una spiaggia allegri e spensierati, l’immagine emblematica con cui termina il film, lasciando allo spettatore l’idea di una felicità che, a fronte di ciò, appare effimera e labile.

Immaginando un prosieguo della storia, senza apprendimento dall’esperienza, senza riflessione e lavoro su di sé, e a maggior ragione senza chiedersi se sia il caso di ricominciare o di chiudere definitivamente la porta portando con sé una nuova lezione, non è difficile ipotizzare che la corsa idilliaca sulla spiaggia terminerà e la coppia si ritroverà di fronte al medesimo punto di partenza, ad un bivio che si divide tra la decisione di affrontare se stessi, l’altro, il presente e il passato, o procedere come se fosse la prima volta, senza soffermarsi a meditare sugli accaduti.

Molte giostre nei legami di coppia ripetono il medesimo schema costruito attorno alle interruzioni e alle riprese del legame con la facilità e la leggerezza di compiere un’azione quotidiana, un’abitudine che mal si sopporta, da cui è impensabile separarsi, ma soprattutto, è impensabile imparare. Alcuni legami tossici e altalenanti risultano tali appunto perché sono caratterizzati da una predominanza di aspetti negativi, non godono di una stabilità basata sull’affinità tra i due membri, in termini di condivisione di interessi o incastro di personalità, e sull’impegno ad osservare e migliorare le strategie relazionali, e infine non riescono a sciogliersi quando si rivelano più distruttivi che creativi. In altre parole, le relazioni “pericolose” incrementano malessere anziché benessere, apportano dolore, rabbia, insoddisfazione, emozioni intense, pervasive e non elaborate, e ostacolano, infine, la crescita e la creatività.

 

La resistenza ai ricordi e l’idealizzazione del partner

Joel compie una fatica estrema a portare a termine la cancellazione della partner dalla memoria.
Nella sua mente Clementine è una figura protettiva che si intrufola anche nei ricordi più reconditi dell’infanzia e dell’adolescenza. In quelle fasi evolutive non conosce ancora la ragazza, ma sembra talmente forte la resistenza ad eliminare i ricordi di lei, a tal punto da tentare disperatamente di nasconderla in qualche luogo nascosto e protetto della memoria. Probabilmente Clementine è una figura che Joel avrebbe voluto conoscere e che gli è mancata in quelle fasi, così dimenticarla diventa ancora più difficile, specialmente se viene strumentalizzata per ricoprire un’antichissima lacuna psichica.

L’ambivalenza simbolica tra sforzo nel dimenticare e sforzo nel ricordare in Joel è manifesta e parallela, mentre in Clementine è improvvisa e latente. La ragazza presenta scoppi di pianto ed ira apparentemente immotivati e nati dal nulla che appaiono collegati all’incapacità di elaborare l’esperienza disconnessa troppo in fretta. La mancanza di riconoscimento dell’ex partner sembra una metafora del congelamento emotivo causato dal trauma, e le crisi improvvise ricordano le manifestazioni sintomatiche di una perdita non elaborata e simbolizzata (Recalcati, 2014).

Nei ricordi di Joel, Clementine è una compagna di giochi e di avventure, spesso esaltata anche se non mancano le rappresentazioni negative. Quando la maturazione dell’esperienza traumatica è carente, si riscontra talvolta la tendenza a fantasticare e ad aggrapparsi ai ricordi, ma soprattutto all’immagine di un partner fittizio, filtrato dai desideri e dalle aspettative. Non è una Clementine attuale che ignora la sua esistenza, bensì una Clementine del tempo passato e addirittura sovrastimata, salvifica, eccessivamente attenta e materna. Ostinarsi a rappresentare la partner con tratti diversi dalla realtà rafforza, in tal senso, la disposizione a crogiolarsi nei ricordi, anziché ad accettare la realtà, ad osservare l’altro nella sua globalità e lavorare sulla presa di coscienza, di responsabilità e di apprendimento dagli eventi. E questo diventa un meccanismo pericoloso, perché più si rafforza la fantasia, più sarà alto il divario con la realtà con la quale è inevitabile il confronto.

 

Le lezioni

In conclusione il film è una metafora della difficoltà a tollerare non solo le emozioni negative nella rottura di una relazione, ma anche il passaggio dall’innamoramento all’amore, e quindi dalla visione idilliaca e perfetta, intrisa dell’idealizzazione di sé e dell’altro, alla presa di coscienza della complessità nella coppia, dove insieme ai due membri entrano in gioco le loro storie, gli apprendimenti, i legami di attaccamento pregressi, dai primari ai secondari, e infine la relazione nell’attualità.

“Ripulire la mente” è una tentazione molto forte nei soggetti che portano una sofferenza lancinante da cui desiderano liberarsi in fretta e furia, così come il ritiro nella fantasia che diventa una strategia di coping inefficace e improduttiva, ma dalla quale è complicato separarsi, specialmente nelle fasi che seguono la fine della relazione.

A questo proposito è necessario trasmettere ai pazienti l’importanza del tempo come strumento per elaborare e pensare all’esperienza, predisponendosi gradualmente a ripercorrere le tappe della storia e a imparare dagli errori, accettando i tentativi e gli sbagli da entrambe le parti e avviando il processo di perdono di sé e dell’altro. In tal senso, la ricerca di nuovi compagni o la continuazione della relazione si rivelano strategie premature in un momento in cui non c’è stato un tempo adeguato di riflessione su di sé e sulla storia precedente. Dall’altra parte, l’attribuzione di significato non dev’essere frettolosa e forzata, ma acquisita con gradualità, pazienza, impegno e perseveranza nel lavoro terapeutico.

È essenziale, pertanto, comunicare l’importanza di utilizzare in modo sufficientemente sano il tempo, tollerando l’incertezza e la confusione che vengono naturalmente in seguito alla separazione e che, quindi, necessitano di tempo prima di assumere una forma e un significato.

Trattamento della dislessia: nuove tecniche per aiutare i dislessici nella lettura

Trattamento della dislessia: Nel presente articolo viene riportata una recente scoperta italiana – da parte dei ricercatori di neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù in collaborazione con il Laboratorio di stimolazione cerebrale della Fondazione Santa Lucia – riguardante una nuova tecnica per aiutare i dislessici nella lettura, attraverso la stimolazione cerebrale non invasiva.

 

Caratteri generali della dislessia

La dislessia «è un disturbo di natura multifattoriale (genetica, biologica, ambientale)» (A. Tittozzi, 2016) che impedisce, a chi ne soffre, di leggere e comprendere un intero scritto, nonostante possieda la capacità sia di leggere che comprendere le singole parole scritte.
Oltre la difficoltà di leggere fluentemente i dislessici trovano difficoltà anche a comprendere la fonetica, hanno problemi nella velocità e nell’ortografia.

Si divide in due grandi gruppi: dislessia evolutiva che si manifesta durante la fase di apprendimento della lingua scritta e la dislessia acquisita che colpisce le persone adulte, le quali avevano acquisito in maniera normale la capacità di leggere, ma che a seguito di una lesione celebrale – spesso nel giro angolare e sopramarginale dell’emisfero sinistro – ne hanno perso la capacità (definizione tratta dall’Enciclopedia Treccani online).

In Italia la dislessia colpisce circa il 3% dei bambini in età scolare e ciò ha forti ripercussioni sulla sfera dell’apprendimento, ma anche su quella sociale e psicologica.
I dislessici, incontrano dunque difficoltà nella decodificazione dei testi scritti, come se le lettere saltassero da una parte all’altra. A tal proposito, per comprendere quanto sia difficile per un dislessico leggere, lo sviluppatore Victor Widell ha creato uno script [blockquote style=”1″]animato in Java che simula l’esperienza di lettura dei dislessici[/blockquote] . L’ispirazione gli è venuta da un’amica che, soggetta a questo specifico disturbo dell’apprendimento (DSA), gli ha descritto la sua esperienza di lettura. [blockquote style=”1″]Può leggere, ma ci vuole molta concentrazione, ed è come se le lettere continuassero a saltare dappertutto[/blockquote] (ibidem).

Tale script ha avuto una tale diffusione virale sui media anglosassoni, che il magazine Quartz, utilizzando il medesimo codice di Widell, ha creato un plug-in per browser che [blockquote style=”1″]permette di navigare su ogni pagina web come se si fosse dislessici.[/blockquote]

L’attenzione alla dislessia nei paesi inglesi è molta alta, in quanto l’organizzazione Dyslexia International stima che almeno il 10% della popolazione sia colpita da questa patologia.

 

Lo studio: un nuovo trattamento della dislessia

La ricerca presentata in questo articolo, è stata pubblicata su Restorative Neurology and Neuroscience (F. Costanzo, C. Varuzza, S. Rossi, S. Sdoia, P. Varvara, M. Oliveri, K. Giacomo, S. Vicari, D. Menghini, 2016) e mostra che: [blockquote style=”1″]There is evidence that non-invasive brain stimulation transitorily modulates reading by facilitating the neural pathways underactive in individuals with dyslexia.[/blockquote]

Lo studio sul trattamento della dislessia è stato finanziato dal Ministero della Salute Italiano ed è stato portato avanti secondo le norme della World Medical Association’s Declaration of Helsinki e autorizzato dal Comitato Etico Indipendente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (D. Natali, 2016).
Le ricerche nello specifico sono state condotte dai ricercatori del Bambino Gesù sotto la supervisione della dottoressa Deny Menghini, con bambini e adolescenti dislessici e indagando se più sessioni di stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS) aumentino la capacità di lettura dei bambini e adolescenti dislessici e se l’effetto positivo sia di lunga durata.

Metodo

La tecnica utilizzata per il trattamento della dislessia è denominata stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS), non è invasiva e inoltre è già utilizzata nei trattamenti di disturbi quali la depressione e l’epilessia focale.
Nelle persone dislessiche vengono stimolati i circuiti celebrali alterati grazie al passaggio di corrente a basso voltaggio (intensità di un milliampere), che ne modifica l’attività neurale permettendo l’aumento di velocità e l’accuratezza della lettura.
In dettaglio: la stimolazione viene fornita da un dispositivo portatile che, alimentato da pile, è in grado di erogare una corrente continua e bassa.

Alla ricerca – della durata di 18 incontri – hanno partecipato 19 bambini e adolescenti dislessici di età tra i 10 e i 17 anni, i quali, casualmente, sono stati assegnati a due gruppi: uno a cui si sottoponeva il trattamento attivo e l’altro placebo (a dispositivo spento, senza che il gruppo in questione ne fosse a conoscenza).
Durante la terapia di stimolazione i partecipanti dei due gruppi hanno eseguito contemporaneamente delle attività che favoriscono la correttezza e la velocità della lettura (simili a quelle utilizzate per la logopedia).

Risultati

In sei settimane il gruppo sottoposto a procedura attiva ha migliorato la propria capacità del 60% passando da 0,5 a 0,8 sillabe lette al secondo: [blockquote style=”1″]The active group showed reduced low frequency word reading errors and non-word reading times. These positive effects were stable even one month after the end of treatment. None reported adverse effects[/blockquote] (F. Costanzo, C. Varuzza, S. Rossi, S. Sdoia, P. Varvara, M. Oliveri, K. Giacomo, S. Vicari, D. Menghini, 2016). Dunque, anche a distanza di tempo, i risultati sono rimasti invariati.
Per i ragazzi invece sottoposti al trattamento placebo i miglioramenti non sono degni di nota (0.04 sillabe al secondo).
Gli studi recenti hanno dimostrato che la tDCS [blockquote style=”1″]variando l’attività neurale di circuiti cerebrali alterati nelle persone dislessiche, consente un miglioramento delle attività di lettura[/blockquote] (Tittozzi, 2016).

Conclusioni

La tDCS non vuole sostituirsi alla logopedia tradizionale nel trattamento della dislessia, ma [blockquote style=”1″]integrare la terapia logopedica tradizionale, tanto che i nostri risultati dimostrano la sua particolare efficacia in combinazione con la terapia tradizionale[/blockquote] sostiene Vicari.

Il fondatore dell’Associazione Italiana Dislessia (AID), Giacomo Stella, ha commentato come questi risultati siano importanti anche per la conferma delle loro ricerche sul fatto che alcuni dislessici presentino una bassa connettività neuronale in alcune aree della corteccia [blockquote style=”1″]come se fosse un motore mal carburato che gira male al minimo e che non risponde quindi con la dovuta prontezza alle sollecitazioni quando c’è bisogno di accelerare. La tDCS interviene proprio su questo meccanismo inefficiente e può essere molto utile al recupero[/blockquote] e ci tiene a sottolineare che questa, [blockquote style=”1″]come ogni terapia, non va applicata a tutti e che vanno ancora studiati bene gli effetti a distanza [/blockquote]

[blockquote style=”1″]Si tratta di uno studio preliminare i cui dati attendono di essere supportati da indagini su casistiche più ampie, ma i risultati ottenuti sono di grande importanza dal punto di vista clinico[/blockquote] dice Vicari, saremo di fronte a nuove frontiere per il trattamento del DSA.

Lo Stadio Operatorio Concreto nella Teoria di Piaget – Introduzione alla Psicologia

Parliamo ancora della teoria di Jean Piaget sullo sviluppo cognitivo nel bambino e ci accingiamo a presentare gli ultimi stadi. Si tratta del terzo stadio, detto Stadio Operatorio Concreto, che riguarda un periodo che varia dai 6/7 anni fino agli 11/12 anni.

 

Stadio Operatorio Concreto: introduzione

Secondo la Teoria di Piaget, in questa fase si acquisiscono una serie di funzioni cognitive complesse, tra cui l’uso delle operazioni mentali reversibili, malgrado si possa trattare, ancora, di operazioni molto concrete applicabili nell’immediatezza e non ancora a livello immaginativo.

 

 

Stadio Operatorio Concreto: cosa si intende?

Per operazioni concrete Piaget intende tutti i processi mentali eseguiti su contenuti materiali e percettibili, non astratti, ovvero oggetti manipolabili che si oppongono alle operazioni riguardanti ipotesi o enunciati verbali.

In questa fase si sviluppa il pensiero operatorio, cioè un pensiero capace di compiere delle operazioni mentali di una certa complessità. Da ora in poi il bambino è in grado di eseguire una serie di operazioni logiche, ma concrete, quali sommare, sottrarre, dividere, classificare, seriare, uguagliare e mettere in corrispondenza,  basate su dati tangibili.

 

 

Stadio Operatorio Concreto: la conservazione

Il raggiungimento di questa maturazione cognitiva porta il bambino a comprendere che ad ogni operazione, mentale o fisica, corrisponde un’azione inversa.

Insomma, in questo caso è possibile che il bambino cominci a risolvere i compiti di conservazione di cui si è parlato la volta scorsa.  Il bambino, nella fase precedente, cioè quella pre operatoria, dirà che la quantità di liquido presente nei due contenitori di forma diversa è cambiata. Questo avviene perché il bambino concentra la sua attenzione solo sull’aspetto degli oggetti e non sul contenuto. Ora, con l’avvento dello stadio operatorio concreto riesce ad affermare, o meglio a conservare, che la quantità d’acqua è sempre la stessa anche se il contenitore cambia.

In questo modo è possibile sviluppare il pensiero logico, che permette di coordinare e relazionare le azioni mentali le une con le altre, diventando operazioni concrete.

 

 

Stadio Operatorio Concreto: l’egocentrismo e il pensiero integrato

Nello stadio operatorio concreto il pensiero del bambino è meno egocentrico e autocentrato, anche se è ancora difficile riuscire a mettersi nei panni dell’altro, percependone il diverso punto di vista. La capacità di compiere operazioni mentali concrete, però, permette al bambino di uscire dal proprio egocentrismo, per prendere in considerazione punti di vista diversi dal proprio. Così, scopre quali sono i vantaggi che possono derivare dal poter  integrare prospettive diverse dalla propria. In questo modo si generano sentimenti di cooperazione sociale, come l’amicizia, il rispetto reciproco, l’etica e il senso di giustizia.

Il bambino, inoltre, riesce a comprendere la modalità giusta per poter coordinare due azioni che sono sequenziali tra loro, garantendo l’apprendimento di nuovi compiti rivolti a uno scopo. Egli, altresì, prende coscienza che un’azione può anche rimanere invariata, uguale a se stessa, producendo comunque un risultato se ripetuta.

Il pensiero in questa fase subisce anch’esso un’evoluzione poiché varia da una modalità di tipo analogico a una di tipo induttivo, per questo si riescono a trarre conclusioni partendo da assunzioni generali e creare una sorta di credenze che poi influenzeranno il vissuto del bambino durante tutto l’arco della sua vita.

Piaget, grazie a un esperimento, riesce a dimostrare come si raggiungono questi progressi cognitivi. Il bambino è posto dietro a 20 palline di legno, di cui 15 rosse e 5 bianche. Gli si chieda se, volendo fare una collana la più lunga possibile, prenderebbe tutte le rosse o tutte quelle di legno. Il bambino, fino a 7 anni, risponderà, quasi sempre, che prenderebbe quelle rosse. A questo punto, si fa notare che sia le palline bianche sia le rosse sono di legno, ma solo dopo questa età, avendo concettualizzato il senso del tutto, vedere le cose nella propria totalità, e delle parti, parzialità delle cose che ci circondano, indicherà con sicurezza tutte le palline perché tutte sono di legno.

Fino a 11 anni il bambino può utilizzare solo capacità mentali che gli permettono di giungere a operazioni concrete, non potendo, perché cognitivamente non strutturato,  utilizzare informazioni esclusivamente verbali,  ad esempio non è in grado di rispondere al quesito che segue: “Un ragazzo dice alle sue tre sorelle: ‘In questo mazzo di fiori ce ne sono alcuni gialli’. La prima sorella risponde: ‘Allora tutti i tuoi fiori sono gialli’. La seconda dice: ‘Una parte dei tuoi fiori è gialla’. La terza dice: ‘Nessun fiore è giallo’. Chi delle tre ha ragione?” Si tratta chiaramente di un compito non dissimile da quello delle precedente delle palline di legno, ma la scarsa maturità cognitiva non permette di rispondere in maniera adeguata e quindi, il bambino produce una risposta solo ed esclusivamente parziale.

Ancora, nello stadio operatorio concreto riesce ad applicare il principio di conservazione dei materiali, a esempio una palla di creta si può scomporre in tante palline, e di conservazione della superficie, alcuni cartoncini occupano la stessa superficie sia sparsi sia uniti in una figura.

 

 

Stadio Operatorio Concreto: capacità mentali

Secondo Piaget, il bambino riesce a risolvere i compiti sopra descritti perché acquisisce le seguenti capacità mentali:

  1. Reversibilità: capacità di ripercorrere mentalmente l’azione tornando alla situazione iniziale;
  2. Compensazione: decentrare il proprio pensiero compensando le variazioni avvenute;
  3. Addizione-sottrazione: capacità di sommare e di sottrarre ;
  4. Capacità rappresentativa: ripercorrere mentalmente le azioni conservate confrontandole con lo stato finale di un evento;
  5. Operazioni matematiche di moltiplicare, divisione, maggiore di, minore di e sostituire una cosa equivale ad un’altra cosa, l’inclusione in classi di oggetti identici,  relazionare gli oggetti secondo un ordine.

 

 

Stadio Operatorio Concreto: conclusioni

In ogni caso, non è stata ancora raggiunta la maturità cognitiva tipica dello stadio adulto, perché il bambino è in grado di eseguire operazioni complesse ma sempre ancorate all’azione e al concreto, poiché conserva dei limiti cognitivi che saranno superati solo con il raggiungimento del periodo successivo. Per questo, egli non è ancora all’altezza di ragionare su ipotesi, ragionamento astratto che si riferisce solo all’enunciazione verbale del problema, ma solo su operazioni concrete.

Per ragionare in maniera ipotetica è necessario accedere alla fase successiva, quella delle operazioni formali.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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V Corso Internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma Venezia 10-12 giugno 2016

Si è conclusa domenica la V Edizione del corso Nuove frontiere nella Cura del Trauma, che come ogni anno si è rivelata una brillante formazione per i clinici specializzati nella cura del trauma complesso e dei disturbi dissociativi.

L’appuntamento veneziano è ormai fondamentale e unico nel suo genere per chi in Italia si occupa oggi di questi temi e negli anni é stato e continua ad essere un luogo di importantissimo confronto con relatori di fama internazionale, che riescono ad offrire insieme grande solidità teorica, serissima ricerca scientifica e grande esperienza clinica. In un panorama scientifico sempre più sensibile al tema del trauma, questo corso di alta formazione costituisce indubbiamente un’eccellenza imperdibile per chi lavora quotidianamente in questo ambito.

 

La vergogna e la memoria nel trauma

Il corso ha visto quest’anno il ritorno di Janina Fisher, già presente nel 2012, e della sua incedibile esperienza nel campo della cura dei disturbi dissociativi attraverso l’utilizzo della terapia sensomotoria e il lavoro sulle parti, già descritto nei precedenti contributi sul tema, e ispirato alla cornice teorica della Dissociazione Strutturale di van der Hart, Nijenhuis, Steele (2006). Quest’anno la Fisher ha concentrato l’attenzione sulla esplorazione della vergogna e degli ostacoli che questa emozione pone al lavoro con pazienti sopravvissuti a storie di abusi e violenze nel corso dell’infanzia.

La vergogna può essere infatti, in queste persone, una reazione emotiva orientata non solo alla protezione della propria immagine sociale, ma anche a garantire la stessa sopravvivenza, poiché attiva nelle vittime un’immediata regolazione dell’impulsività con successivo blocco dell’azione e ritiro (Schore, 2010), che mette al riparo dall’esacerbarsi di conflitti, da punizioni estreme, umiliazioni e ulteriori vittimizzazioni. Apprendere la reazione di vergogna in contesti violenti e imprevedibili, può essere vitale e dunque restare scritto nella memoria procedurale in forma di reazione automatica al pericolo.

A questo si lega l’altro tema fondamentale affrontato dalla Fisher: l’importanza per noi clinici e per i nostri pazienti di conoscere a fondo il funzionamento del cervello e di come esso reagisce in situazioni traumatiche, con particolare riguardo al funzionamento della memoria.

Questa conoscenza permette infatti di poter lavorare sempre e contemporaneamente su due fronti: da un lato c’è il presente e la narrazione delle memorie esplicite, cioè quello che le persone possono volontariamente recuperare e raccontare di loro stessi e della loro storia, dall’altro c’è il passato e le sue intrusioni in forma di memorie implicite, cioè quello che le persone non possono ricordare intenzionalmente, ma che continuamente rivivono attraverso sintomi, sensazioni fisiche, immagini, pensieri intrusivi, credenze automatiche, postura e modalità di relazione. Se è vero che “la persistenza di sensazioni intrusive correlate al trauma [anche] dopo la costruzione di una narrativa contraddice la nozione che trasformare l’esperienza traumatica in parole concorra in maniera affidabile ad eliminare l’occorrenza dei flashbacks”” (Van del Kolk, Fisler, 1995), allora sarà importante tenere conto dell’emergere di memorie implicite poiché esse possono generare grande destabilizzazione nel paziente ogni volta che il loro ricordo viene innescato da eventi esterni o interni alla persona (trigger). Insomma, tutto quello che ci ha salvato nella vita viene ben memorizzato in forma di memoria procedurale implicita e ogni volta che il nostro corpo e il nostro cervello si sentiranno minacciati o in pericolo, reagiranno con le strategie di protezioni apprese fino ad allora. Metterle in discussione e modificarle è la più grande sfida in terapia.

 

Le fobie dissociative

Insieme alla Fisher, anche quest’anno ha partecipato Dolores Mosquera, con la sua grande competenza sui disturbi dissociativi, trauma complesso e disturbo borderline di personalità. Come ogni anno la Mosquera ci ha proposto molta clinica e pochissima teoria, se non per alcuni temi centrali nel trattamento di queste situazioni difficili. In linea con il suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, e con l’utilizzo combinato di diverse tecniche terapeutiche evidence based, quali EMDR e terapia sensomotoria, la Mosquera ci ha portato a riflettere quest’anno sul tema delle fobie dissociative e su come procedere con microelaborazioni sin dalle prime sedute, lavorando in un’ottica di integrazione anche laddove non sia subito possibile accedere alle memorie traumatiche.

Gli ingredienti imprescindibili del suo approccio sono: promuovere buone capacità di self care nel paziente, attraverso una graduale alleanza tra la o le parti adulte nella protezione e cura adeguata delle parti infantili; mantenere una costante focalizzazione sull’intero sistema interno, sia nella scelta di obiettivi terapeutici che degli strumenti di lavoro; valorizzare le risorse già presenti nel paziente, in aree di competenza e di vita libere da trigger e riattivazioni traumatiche delle memorie implicite. La stabilizzazione del paziente nasce quindi dalla continua ricerca e attivazione delle sue risorse interne, al fine di promuovere lo sviluppo di un sé adulto sempre più capace di orientarle all’interno del sistema e di mantenere una migliore connessione e integrazione tra le parti diverse che al suo interno muovono e reagiscono.

 

Self care del terapeuta ed emozioni positive

Ultima nota formativa, ma di grande risonanza nelle tre lunghissime giornate di lavori, il workshop in piccoli gruppi condotto da Giovanni Tagliavini sulla self-care del terapeuta e sull’importanza di saper cogliere, riconoscere e affrontare emozioni positive in terapia. Lavorando con pazienti che raccontano situazioni così drammatiche e storie di sofferenza incredibile, da clinici siamo molto concentrati (e talvolta allarmati!) su aspetti psicopatologici, sui conflitti interni, sul lungo lavoro da fare nella elaborazione di ricordi traumatici per favorire una risoluzione rapida dei sintomi e della sofferenza. Nel trattamento di pazienti sopravvissuti a traumi nell’infanzia, diventa invece essenziale ricordarsi di sperimentare, validare ed esplorare con altrettanta attenzione le emozioni positive che emergono in terapia, e non solo quelle che esitano da una lenta trasformazione nella consapevolezza o dal raggiungimento di un obiettivo terapeutico, ma anche quelle che semplicemente arrivano nel presente, senza un legame diretto con il percorso di cura: avere il coraggio di cogliere e stare in ascolto di un’emozione positiva, autentica e integrata, di osservarla, di accettarne le sensazioni fisiche e i pensieri che la accompagnano, può essere un’esperienza trasformativa forte nella direzione dell’integrazione, laddove l’emergere di sensazioni positive legate al piacere, alla gioia o alla soddisfazione può costituire talvolta un trigger molto potente che riattiva al contrario antiche punizioni o umiliazioni.

Nei prossimi contributi l’approfondimento sui temi trattati!

Ipnosi e autoipnosi per lo sport: come funziona?

Ipnosi nello sport: Uno dei motivi che ha spinto gli autori a creare una nuova realtà legata all’ipnosi è stato il diffondere una idea della disciplina che fosse il più possible rigorosa e rispettosa della persona. Pensiamo che la preparazione mentale degli atleti possa portare un contributo profondo ai livelli di performance degli atleti e in questo articolo vi presentiamo alcune testimonianze dal mondo scientifico che ne supportano l’utilizzo da parte di sportivi, squadre ed allenatori.

 

La psicologia dello sport attribuisce grande importanza alla preparazione mentale degli atleti ed esiste un certo consenso sul fatto che le capacità mentali siano almeno altrettanto importanti rispetto a quelle fisiche e tecniche (De Petrillo, Kaufman, Glass, & Arnkoff, 2009; Hardy & Nelson, 1988; Jones, 2003; Straub, 1989; Vealey, 1988, 2012; Weinberg & Gould, 2007). Numerosi approcci si sono concentrati su variabili considerate cruciali in questo campo: il livello di prestazione, l’auto-efficacia, lo stato di flow, le capacità di visualizzazione e di regolazione degli stati mentali ed emotivi. L’ipnosi sembra essere promettente nel potenziamento di questi aspetti come dimostrato da alcuni studi pubblicati nel corso degli anni.

 

Ma cos’è l’ipnosi?

Può essere definita come uno stato di coscienza diverso dallo stato di veglia comune (Weitzenhoffer, 2000). Quando si è nello stato ipnotico l’ipnotista può fornire suggestioni al soggetto (o il soggetto a se stesso nel caso in cui pratichi l’autoipnosi) per produrre dei cambiamenti nelle percezioni, nelle emozioni, nei pensieri in modo da facilitare il cambiamento a lungo termine di schemi di comportamento (Heap & Aravind, 2002). In altre parole si tratta di uno stato mentale in cui la persona ha accesso a risorse a cui normalmente accede inconsciamente. Attraverso l’allenamento all’ipnosi è possibile apprendere a governare questo fenomeno. Noi di Natural Gravity – Ipnosi clinica per la cura del benessere utilizziamo un’ ipnosi che definiamo post-moderna che trae origine dall’ipnosi Ericksoniana, attenta alle specificità di ciascuna persona, ed estremamente efficace anche con stati di trance leggera.

Concepiamo l’inconscio come un serbatoio, un archivio, un database che contiene tutte le nostre esperienze, capacità e risorse, e tutte le nostre aspettative di futuro che si sono sedimentate nel corso del tempo.
Promuovere una collaborazione tra mente conscia e inconscia consente di promuovere, ogni giorno, un maggior equilibrio interno.

 

L’ ipnosi nello sport

Sono molti i modi in cui l’ipnosi può migliorare la performance sportiva. Alcuni interventi puntano a migliorare l’efficacia di pratiche di allenamento mentale già consolidate ed efficaci come le tecniche di visualizzazione (o mental imagery; Liggett, 2000; Mizuguchi, Nakata, Uchida, & Kanosue, 2012; Taktek, 2004; Weinberg, 2008), in cui si chiede al soggetto di ripercorrere mentalmente la gara in modo da migliorarne le capacità tecniche, la consapevolezza del corpo e la regolazione emotiva. Tanto più la vividezza dell’esperienza interna è alta, tanto più l’atleta potrà beneficiare di miglioramenti nei suoi livelli di prestazione. Alcuni ricercatori che hanno testato l’interazione tra ipnosi nello sport e tecniche di visualizzazione per migliorare le performance golfistiche hanno osservato un aumento di vividezza delle immagini ed un miglioramento nella prestazione dell’atleta soggetto dello studio (Pates, Oliver and Maynard 2001).

L’ ipnosi nello sport permette anche di aumentare i livelli di autoefficacia, definita come la fiducia che l’atleta ha nelle proprie capacità. La letteratura legata alla psicologia dello sport ha dimostrato che tanto più è alta l’autoefficacia, tanto migliore sarà la performance dell’atleta sul terreno di gara. È talmente determinante da essere considerata una delle singole variabili più importanti tra quelle studiate dalla psicologia sportiva (Feltz, Short, & Sullivan, 2008; Moritz, Feltz, Fahrbach, & Mack, 2000). L’auto-efficacia può essere aumentata ricorrendo all’ipnosi. Ad esempio,in un esperimento che ha visto coinvolti due gruppi di calciatori impegnati a calciare delle punizioni, uno dei quali era stato preparato con l’ipnosi, i ricercatori hanno osservato un aumento dell’auto-efficacia degli atleti che ne avevano fatto ricorso insieme ad un miglioramento nella precisione dei loro tiri, e dello stato emotivo generale durante la prova (Barker, Jones & Greenless 2010).

Avete mai provato la sensazione di essere completamente assorbiti da quello che state facendo? Talmente assorbiti che anche azioni complesse riescono con grande naturalezza? Gli sportivi chiamano questo stato flow, e quando vi sono immersi, le loro capacità aumentano notevolmente (Csikszentmihalyi, 1975). Curiosamente, la descrizione che sia i ricercatori che gli atleti fanno di questo stato è notevolmente simile allo stato di trance ipnotica, tanto da portare alcuni addetti ai lavori a ipotizzare che si possa trattare dello stesso stato mentale (Pates, Oliver & Maynard, 2001). In uno studio volto ad indagare questa relazione che si è concentrato su un campione di giocatori di pallacanestro, i ricercatori hanno misurato la precisione dei tiri (ed i punti totalizzati) con e senza preparazione ipnotica e, attraverso dei questionari standardizzati, la profondità dello stato di flow. I risultati hanno mostrato un miglioramento in entrambe le aree ed un aumento dei livelli di autoefficacia. Gli atleti hanno inoltre riportato un senso maggiore di calma e rilassatezza (Pates & Palmi, 2002).

Riassumendo, possiamo dire che la ricerca sembra suggerire che l’ ipnosi nello sport può essere uno strumento utile nella preparazione mentale degli atleti sia dal punto di vista del livello di prestazione che per quanto riguarda certe variabili emotive. Sempre più sono gli atleti professionisti e dilettanti che si interessano e praticano questa disciplina a diversi livelli sotto forma di ipnosi o di autoipnosi. Questo ultimo approccio è particolarmente interessante in quanto consegna allo sportivo gli strumenti per procedere autonomamente nel proprio percorso di consolidamento delle capacità di affinamento del gesto tecnico, di regolazione emotiva, di rilassamento, di recupero dagli infortuni (Morton, 2003).

La capacità di discriminare i sapori è alterata nelle persone che soffrono di disturbi alimentari

Un recente studio promosso dalla Colorado University e pubblicato sull’International Journal of Eating Disorders ha mostrato come un gruppo di donne, alcune affette da obesità e alcune da anoressia nervosa, rispondessero in modo differente ai sapori: una scoperta dalle importanti implicazioni cliniche nel trattamento dei disturbi alimentari.

 

Come afferma il principale autore dello studio, Guido Frank, psichiatra e professore associato alla Scuola di Medicina della Colorado University, il gusto è un promotore importante dell’assunzione di cibo ed è associato a differenti pattern neuronali nell’insula e nella corteccia gustativa primaria.

L’insula è connessa a diverse strutture cerebrali responsabili della regolazione della quantità di cibo assunta, possiede una fondamentale funzione di trasmissione delle informazioni relative al gusto e potrebbe avere un ruolo centrale anche nella psicopatologia dei disturbi alimentari.

I ricercatori dello studio hanno voluto indagare se la presenza di disturbi alimentari fosse associata a cambiamenti nella capacità dell’insula di classificare gli stimoli gustativi.

La ricerca ha coinvolto 106 donne di simile età caratterizzate dalla presenza (anoressia nervosa, bulimia nervosa, obesità) o assenza (no problemi alimentari, passata anoressia nervosa) di disturbi alimentari. Tutte sono state sottoposte a risonanza magnetica funzionale cerebrale durante l’assaggio di acqua zuccherata o di acqua normale e quindi, priva di gusto, per valutare l’accuratezza dell’insula nel differenziare i sapori.

 

Le donne con anoressia o obesità hanno avuto maggiori difficoltà nel distinguere i gusti, mostrandosi meno accurate delle donne senza problemi alimentari (soggetti di controllo), con bulimia nervosa o che si sono ristabilite dopo aver sofferto di anoressia. Il risultato suggerisce come le alterazioni nell’accuratezza di discriminazione potrebbero essere dovute ad alterazioni di alimentazione e peso, come nel caso dell’anoressia e dell’obesità. La ricerca, infatti, indica come questi problemi diminuiscano quando una persona raggiunge un peso appropriato.

La ridotta codifica cerebrale nella differenziazione dei sapori potrebbe avere un impatto negativo su quanto si mangia. Infatti, congiunta all’alterata attività dei circuiti di ricompensa legati al cibo, osservata tipicamente in queste pazienti, tenderebbe a generare una spinta al mangiare non regolata da esigenze nutrizionali. Il deficit di abilità insulare nella classificazione dei sapori potrebbe essere dovuta sia a cambiamenti strutturali all’interno di questa regione sia ad alterazioni di elaborazione del segnale gustativo nei diversi percorsi afferenti all’insula.

I risultati di questo studio hanno importanti implicazioni cliniche. Le evidenze empiriche dimostrano come i circuiti di ricompensa che influenzano la scelta del cibo funzionino in modo alterato nei soggetti che attuano restrizioni o eccessi alimentari, offuscando il già ridotto segnale proveniente dall’insula in risposta ai differenti sapori.

Naturalmente, come suggerisce l’autore, sono necessarie ulteriori ricerche per confermare questi risultati e per implementare aspetti applicativi di tali evidenze all’interno dei trattamenti.

Parole, parole, parole… e statistica: per distinguere le parole il cervello potrebbe usare metodi statistici

Un gruppo di scienziati SISSA ha applicato un metodo di segmentazione delle parole basato sulla statistica e ne ha misurato l’efficacia sul linguaggio naturale, in ben 9 lingue diverse, scoprendo che il ritmo linguistico ha un ruolo importante.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Distinguere le singole parole nel flusso del parlato non è una cosa semplice e secondo i linguisti, per farlo, il cervello potrebbe usare dei metodi statistici. Un gruppo di scienziati SISSA ha applicato un metodo di segmentazione delle parole basato sulla statistica e ne ha misurato l’efficacia sul linguaggio naturale, in ben 9 lingue diverse, scoprendo che il ritmo linguistico ha un ruolo importante. La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Developmental Science.

Vi è mai capitato di rompervi il cervello cercando di cogliere anche una sola parola nel flusso ininterrotto di un discorso in una lingua che conoscete a malapena? È ingenuo pensare che quando parliamo esista una anche minima pausa fra una parola e l’altra (come lo spazio che mettiamo per convenzione quando scriviamo): in realtà il parlato è quasi sempre un flusso sonoro continuo. Quando però ascoltiamo la nostra lingua madre, questa segmentazione delle parole non ci costa quasi nessuno sforzo. Quali sono, si chiedono i linguisti, i meccanismi cognitivi automatici alla base di questa capacità?

Un contributo certamente lo dà la conoscenza del vocabolario: la memoria del suono delle singole parole ci aiuta a rilevarle, ma, sostengono molti linguisti, esistono meccanismi automatici e inconsci di ‘basso livello’ che ci aiutano anche quando non riconosciamo le parole, e anche, come nel caso di bambini molto piccoli, quando abbiamo una conoscenza ancora rudimentale della lingua. Questi meccanismi, credono gli scienziati, si basano sull’analisi statistica della frequenza (stimata in base all’esperienza pregressa) delle sillabe in ogni lingua.

Un indice che potrebbe contribuire ai processi di segmentazione è la ‘Probabilità Transizionale’ (PT), che dà una stima della probabilità che due sillabe stiano all’interno della stessa parola, basandosi sulla frequenza con cui le due sillabe si trovano associate in una data lingua. In pratica, se tutte le volte che sento la sillaba ‘TA’ viene immancabilmente seguita dalla sillaba ‘DA’, allora la probabilità transizionale per ‘DA’, data ‘TA’ è 1 (il massimo).

Se invece, ogni volta che sento la sillaba ‘BU’ per metà delle volte capita che la segua la sillaba ‘DI’ e per metà delle volte la sillaba ‘FI’, la probabilità transizionale di ‘DI’ (e di ‘FI’) data ‘BU’ è 0,5, e così via. Il sistema cognitivo potrebbe computare in maniera implicita questo valore sfruttando la memoria linguistica, dalla quale ricaverebbe le frequenze.

Lo studio condotto da Amanda Saksida, ricercatrice della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, con la collaborazione di Alan Langus, ricercatore SISSA, sotto la guida di Marina Nespor, professoressa della SISSA, ha usato l’indice PT per segmentare il linguaggio naturale, con due diversi approcci.

 

A seconda del ritmo

Saksida ha lavorato con i corpus, ossia collezioni di testi raccolte appositamente per l’analisi linguistiche. In questo caso specifico si tratta di trascrizioni da registrazioni dell’ambiente sonoro linguistico a cui sono esposti bambini molto piccoli.

Volevamo avere un esempio del tipo di stimolo nel quale si sviluppa il linguaggio dei bambini – ha spiegato Saksida – Ci chiedevamo se un meccanismo di basso livello come la probabilità transizionale funzionasse su stimoli linguistici realistici, molto diversi dagli stimoli costruiti a tavolino che si usano normalmente in laboratorio, che sono più schematici e non contengono fonti di ‘rumore

Saksida e colleghi hanno usato corpus di ben 9 lingue diverse, e vi hanno applicato due diversi modelli basati sulla PT.

Prima di tutto sono stati calcolati i valori di PT in ogni punto del flusso linguistico per tutti i corpus usati, successivamente è stata effettuata la segmentazione con due diversi metodi. Il primo si basava sulle soglie assolute: veniva stabilito un certo valore fisso di riferimento per la probabilità transizionale sotto al quale veniva identificato un bordo. Il secondo metodo invece si basava su soglie relative: i bordi corrispondevano ai minimi locali della funzione della PT.

In tutti i casi, hanno osservato Saksida e colleghi, la probabilità transizionale si è dimostrata uno strumento efficace per la segmentazione (si va dal 49% all’ 86% di parole identificate correttamente), indipendentemente dal metodo di segmentazione usato. Questo ne conferma l’efficacia. Da notare che entrambi i modelli si sono dimostrati mediamente efficienti, la cosa singolare però è che quando un modello andava particolarmente bene con una lingua, quello alternativo allora andava sempre significativamente peggio.

Questo ‘incrocio’ ci suggerisce che ciascun modello è più adatto per alcune lingue dell’altro e viceversa. Abbiamo quindi condotto delle analisi ulteriori per capire quali caratteristiche della lingua determinano il modello migliore – ha spiegato Saksida. La dimensione cruciale si è rivelata il ritmo linguistico – Possiamo dividere le lingue europee in due grandi gruppi per quel che riguarda il ritmo: le lingue basate sull’accento (stress-based) e quelle basate sulle sillabe (syllable-based).

Le lingue basate sull’accento hanno meno vocali e parole più corte, come l’inglese, lo sloveno, il tedesco. Quelle basate sulle sillabe sono invece più ricche di vocali e con le parole in media più lunghe, come italiano, spagnolo, finlandese. Il terzo gruppo ritmico delle lingue, che non esiste in Europa e che è basato su ‘morae‘ (un parte della sillaba), come giapponese, si chiama ‘mora-based’ ed e ancora più ricca di vocali delle lingue basate sulle sillabe.

Il metodo della soglia assoluta è risultato funzionare meglio sulle lingue stress-based, mentre la soglia relativa è migliore per le mora-based. “È possibile dunque che il sistema cognitivo impari a usare il metodo di segmentazione migliore per la lingua madre, che porterebbe difficoltà però con le lingue che non appartengono alla stessa categoria ritmica. Serviranno ovviamente studi sperimentali per verificare quest’ipotesi. Sappiamo dalla letteratura scientifica che i bambini subito dopo dalla nascita usano già l’informazione sul ritmo, e pensiamo che le strategie per scegliere la segmentazione più giusta potrebbero essere una delle aree dove l’informazione sul ritmo è più utile”.

Lo studio infatti non può dire se il sistema cognitivo (sia adulto che bambino) usi davvero questo tipo di strategie.

Il nostro studio conferma in maniera chiara che questa strategia funziona attraverso un ampio spettro di lingue – conclude Saksida – Servirà ora da guida per gli esperimenti in laboratorio.

Un Partner Virtuale può elicitare reazioni emotive in un essere umano?

I ricercatori del Centro per i sistemi complessi e le scienze cognitive dell’Università della Florida hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: ‘Come ci si sente ad avere interazioni comportamentali con una macchina virtuale?

 

 

Le macchine possono pensare? Questo è ciò che il noto matematico Alan Turing ha cercato di capire nel 1950, quando ha creato un gioco di imitazione per scoprire se un interrogatore umano poteva parlare ed interagire con una macchina in una conversazione priva di stimoli fisici.

Il test di Turing è stato introdotto per valutare la capacità di una macchina di mostrare comportamenti intelligenti equivalenti o indistinguibili da quelli di un essere umano. Turing era principalmente interessato a verificare se le macchine potessero avere capacità intellettuali equiparabili a quelle degli esseri umani.

I ricercatori del Centro per i Sistemi Complessi e le Scienze Cognitive dell’Università della Florida hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: ‘Come ci si sente ad avere interazioni comportamentali  con una macchina virtuale?’

Hanno creato, a questo proposito, un test ‘emozionale’ equivalente al test di Turing, e sviluppato un partner virtuale che è in grado di suscitare risposte emotive nel soggetto umano, mentre questi sono impegnati tra loro in attività e comportamenti coordinati ed interattivi.

In particolare, lo studio ha indagato le variazioni nelle risposte emozionali durante un compito di coordinazione dei movimenti tra un essere umano e un Partner Virtuale (VP), un agente i cui movimenti delle dita sono stati guidati dalla equazione delle Dinamiche di Coordinazione di Haken-Kelso-Bunz (HKB). Ventuno individui sono così stati istruiti a coordinare i movimenti delle proprie dita con quelli del Partner Virtuale.

I ricercatori hanno inoltre manipolato le ‘intenzioni’ dei Partner Virtuali, rendendoli cooperativi o competitivi con gli esseri umani.

La risposta cutanea dei partecipanti è stata registrata durante il compito in modo da avere una misura dell’intensità della risposta emotiva del soggetto. Alla fine del compito di coordinazione, è stato chiesto ad ogni soggetto di valutare le intenzioni del Partner Virtuale e se, secondo loro, si fosse trattato di un partner umano o di una macchina.

Le risposte emozionali più alte si sono registrate nei casi in cui i soggetti hanno riportato che il loro partner fosse un essere umano e quando la coordinazione tra loro era stabile e cooperativa.

Emozione e movimento, anche se raramente sono studiate assieme, sono aspetti complementari dell’esperienza sociale. Questo studio rappresenta dunque un passo in avanti per la comprensione del complesso fenomeno del comportamento sociale. Si evidenzia infatti come i comportamenti interattivi (coordinati) e le emozioni si influenzano continuamente tra loro e come tale aspetto potrebbe fornire un utile contributo alla riabilitazione di diverse malattie. Infatti, disturbi di coordinazione del movimento si riscontrano spesso nei pazienti con schizofrenia e disturbi dello spettro autistico, che soffrono anche di disfunzioni sociali ed emozionali.

I ricercatori anticipano che il Partner Virtuale sarà presto sviluppato per il prototipo di una macchina cooperativa che potrà essere utilizzata per scopi terapeutici. Questo tipo di applicazione potrà fornire beneficio a molti pazienti affetti da disordini emozionali e sociali.

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