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Un Partner Virtuale può elicitare reazioni emotive in un essere umano?

I ricercatori del Centro per i sistemi complessi e le scienze cognitive dell’Università della Florida hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: ‘Come ci si sente ad avere interazioni comportamentali con una macchina virtuale?

 

 

Le macchine possono pensare? Questo è ciò che il noto matematico Alan Turing ha cercato di capire nel 1950, quando ha creato un gioco di imitazione per scoprire se un interrogatore umano poteva parlare ed interagire con una macchina in una conversazione priva di stimoli fisici.

Il test di Turing è stato introdotto per valutare la capacità di una macchina di mostrare comportamenti intelligenti equivalenti o indistinguibili da quelli di un essere umano. Turing era principalmente interessato a verificare se le macchine potessero avere capacità intellettuali equiparabili a quelle degli esseri umani.

I ricercatori del Centro per i Sistemi Complessi e le Scienze Cognitive dell’Università della Florida hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: ‘Come ci si sente ad avere interazioni comportamentali  con una macchina virtuale?’

Hanno creato, a questo proposito, un test ‘emozionale’ equivalente al test di Turing, e sviluppato un partner virtuale che è in grado di suscitare risposte emotive nel soggetto umano, mentre questi sono impegnati tra loro in attività e comportamenti coordinati ed interattivi.

In particolare, lo studio ha indagato le variazioni nelle risposte emozionali durante un compito di coordinazione dei movimenti tra un essere umano e un Partner Virtuale (VP), un agente i cui movimenti delle dita sono stati guidati dalla equazione delle Dinamiche di Coordinazione di Haken-Kelso-Bunz (HKB). Ventuno individui sono così stati istruiti a coordinare i movimenti delle proprie dita con quelli del Partner Virtuale.

I ricercatori hanno inoltre manipolato le ‘intenzioni’ dei Partner Virtuali, rendendoli cooperativi o competitivi con gli esseri umani.

La risposta cutanea dei partecipanti è stata registrata durante il compito in modo da avere una misura dell’intensità della risposta emotiva del soggetto. Alla fine del compito di coordinazione, è stato chiesto ad ogni soggetto di valutare le intenzioni del Partner Virtuale e se, secondo loro, si fosse trattato di un partner umano o di una macchina.

Le risposte emozionali più alte si sono registrate nei casi in cui i soggetti hanno riportato che il loro partner fosse un essere umano e quando la coordinazione tra loro era stabile e cooperativa.

Emozione e movimento, anche se raramente sono studiate assieme, sono aspetti complementari dell’esperienza sociale. Questo studio rappresenta dunque un passo in avanti per la comprensione del complesso fenomeno del comportamento sociale. Si evidenzia infatti come i comportamenti interattivi (coordinati) e le emozioni si influenzano continuamente tra loro e come tale aspetto potrebbe fornire un utile contributo alla riabilitazione di diverse malattie. Infatti, disturbi di coordinazione del movimento si riscontrano spesso nei pazienti con schizofrenia e disturbi dello spettro autistico, che soffrono anche di disfunzioni sociali ed emozionali.

I ricercatori anticipano che il Partner Virtuale sarà presto sviluppato per il prototipo di una macchina cooperativa che potrà essere utilizzata per scopi terapeutici. Questo tipo di applicazione potrà fornire beneficio a molti pazienti affetti da disordini emozionali e sociali.

Eventi traumatici nell’infanzia: l’efficacia dell’EMDR

EMDR con bambini: L’EMDR è utilizzata con successo anche nel trattamento di bambini esposti a eventi traumatici. Solitamente il protocollo standard viene modificato per rendere più agevole il trattamento, inserendo giochi e arte-terapia.

 

La diagnosi di PTSD nell’infanzia

Il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) può svilupparsi in seguito all’esposizione a morte reale, minaccia e pericolo di morte, grave lesione o violenza sessuale (DSM-5). I sintomi possono includere ricordi e/o sogni spiacevoli dell’evento, sofferenza psicologica, reazioni dissociative e marcate reazioni fisiologiche in risposta a fattori concernenti l’evento traumatico. Inoltre, possono essere presenti evitamenti agli stimoli associati al trauma, alterazioni nelle emozioni, nei pensieri e nei comportamenti, alterazioni nel sistema di arousal (DSM-5).

La diagnosi di PTSD nell’infanzia è composta poi da altri aspetti. Nei bambini, oltre ai criteri sopra indicati, la ritualizzazione e i ricordi relativi al trauma possono essere espressi attraverso il gioco. Inoltre, in questi bambini (soprattutto se molto piccoli) i sogni spaventosi, potrebbero essere collegati alla condizione traumatica, mancanti però di contenuti specifici e riconducibili all’evento e quindi più complicati da esaminare. In alcuni casi, il bambino può avere delle reazioni in seguito a flashback spiacevoli e comportarsi come se stesse rivivendo nuovamente l’evento negativo. Inoltre, in seguito ad un trauma subito durante l’infanzia, possono presentarsi dei ritardi o delle alterazioni nello sviluppo e nel linguaggio (DSM-5). Infine, dopo l’esposizione a un evento traumatico, i bambini possono sviluppare altri disturbi quali depressione, ansia generalizzata, fobie specifiche, ansia da separazione ecc. (Stallard, 2006).

Salmon e Bryant (2002) riferiscono che l’incidenza di PTSD nei bambini, differisce da alcune componenti quali la natura e la gravità dell’evento sperimentato, la vicinanza al trauma, il tempo trascorso e la percezione individuale. Altre ricerche, mostrano che una esposizione di lunga durata all’avversità traumatica (come nei casi di rapimenti, morte o malattia di un genitore, prolungate violenze domestiche ecc.) aumenta notevolmente il rischio di sviluppare PTSD (Yule, 2001; Kilpatrick et al, 2003; De Bellis & Van Dillen, 2005).

 

L’EMDR

Negli ultimi anni, la letteratura internazionale ha enfatizzato l’efficacia dell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) nel trattamento del Disturbo post-traumatico da stress (Shapiro & Solomon, 1995; Seidler & Wagner, 2006; Pagani et al., 2012). L’EMDR è stata presentata per la prima volta nel 1989 e sviluppata nel 1990 da Francine Shapiro e a oggi può essere definito a tutti gli effetti, un approccio empiricamente supportato per il trattamento di esperienze traumatiche che hanno contribuito allo sviluppo della psicopatologia o del disagio psichico nel paziente. Un aspetto cruciale dell’EMDR, sembra essere il processo di transmutation: l’evento spiacevole, s’ipotizza, sia stato immagazzinato in modo disfunzionale, il processo di transmutation favorirebbe un’elaborazione e una risoluzione adattiva dell’esperienza traumatica. Gli obiettivi dell’EMDR sono, infatti, quelli di produrre una desensibilizzazione del ricordo spiacevole, rivivere il trauma senza sperimentare le sensazioni di minaccia imminente e infine, l’assimilazione e l’integrazione dell’evento traumatico.

 

L’EMDR con bambini

L’EMDR è utilizzata con successo anche nel trattamento di bambini esposti a eventi traumatici. Solitamente il protocollo standard viene modificato per rendere più agevole il trattamento, inserendo giochi e arte-terapia. In particolare, uno studio di meta-analisi dei ricercatori del Department of Educational Sciences di Amsterdam (Rodenberg et al., 2009), mostra l’efficacia dell’EMDR per i traumi infantili. La meta-analisi consiste nel riassumere, nel modo più dettagliato possibile, le ricerche riguardanti quello specifico aspetto (in questo caso l’approccio EMDR con bambini), tenendo conto di alcune variabili come ad esempio, l’attenzione del terapeuta, le aspettative del paziente e la standardizzazione del campione. In questo lavoro, peraltro, l’EMDR veniva messa a confronto con altri approcci psicoterapeutici.

I risultati della ricerca mostrano che, l’EMDR con bambini è più efficace di altre terapie classiche, nella risoluzione del disagio psicologico legato all’evento traumatico durante l’infanzia e in alcuni casi, il trattamento porta più velocemente a benefici rispetto allo stesso trattamento utilizzato nell’adulto. La ricerca mostra un altro dato interessante concernente le differenze di genere: emerge che il trattamento è più efficace per i bambini che per le bambine, esposte a un’esperienza traumatica. Questo risultato è complicato da spiegare, ma i ricercatori ipotizzano che, in accordo con alcune prove scientifiche, le bambine possono avere minori capacità di coping e un più alto rischio di sviluppare i sintomi del Disturbo post-traumatico da stress (Matud, 2004; De Bellis & Van Dillen, 2005; Nemeroff et al., 2006).

Nonostante quest’ultimo dato necessiti di maggiori approfondimenti scientifici, lo studio conferma l’efficacia dell’EMDR nella risoluzione del PTSD e ad oggi risulta essere il più grande lavoro di meta-analisi (7 ricerche a confronto) concernente il trattamento EMDR con bambini esposti a esperienze traumatiche.

Le competenze psicoterapiche del manager musicale

Viene riconosciuto da diverse testimonianze che la cosa più importante che il manager musicale può fare nei casi di problemi psicologici degli artisti è quella di saper ascoltare ed eventualmente indirizzare a servizi specialistici o professionisti competenti.

 

La figura del manager musicale

La leggenda narra che Amy Winehouse nello scrivere la canzone “Rehab”, in cui dichiara di non volersi curare, si rivolgesse al proprio manager, una figura che nel mondo della musica si dedica tradizionalmente non solo agli aspetti professionali e commerciali di un artista, ma anche ai bisogni più personali ed emotivi dell’artista.

In occasione della recente settimana di sensibilizzazione sulla salute mentale, è apparso sull’inglese The Guardian un interessante articolo di Fiona McGugan (Music Manager Forum) che sottolinea il ruolo sempre più importante della figura del manager musicale nella tutela della salute mentale degli artisti. Si parla della formazione di manager “emozionalmente responsabili” e di training specifici per affrontare esaurimento nervoso, alcolismo, ansia da palcoscenico, blocco creativo etc.

Negli ultimi anni si è assistito a una lunga serie di coming out di artisti che hanno raccontato le proprie importanti difficoltà psicologiche, con ripercussioni positive sulla lotta allo stigma della malattia mentale. Lo scorso settembre, ad esempio, il noto cantante del Libertines Pete Doherty ha cancellato un concerto all’ultimo minuto a Londra a causa di una importante crisi di panico e la dichiarazione del manager è stata quella di “voler mettere al primo posto la salute di Pete e le sue cure” a discapito dello show. Sicuramente un atteggiamento più prudente ed umano se confrontato con altri casi precedenti (vedi la stessa Amy Winehouse).

In realtà viene riconosciuto da diverse testimonianze che la cosa più importante che il manager musicale può fare nei casi di problemi psicologici degli artisti è quella di saper ascoltare ed eventualmente indirizzare a servizi specialistici o professionisti competenti.

 

Il Music Support

Considerate le dimensioni del problema è nato in Inghilterra il Music Support, un collettivo no profit di volontari e professionisti che garantisce aiuto e supporto psicologico a chiunque lavori nell’industria musicale (quindi non solo i musicisti, ma anche turnisti, roadies, manager, etc.) e che sia affetto da dipendenze e altri disturbi mentali. Il loro motto è “non devi soffrire in silenzio”. Tra i promotori dell’associazione figurano musicisti, operatori discografici con pregressi problemi di dipendenza e disturbi psichiatrici e tra i sostenitori dell’iniziativa compaiono addirittura i Coldplay, sempre molto sensibili alle questioni sociali.

Nel sito si accenna a come alcuni aspetti dello stile di vita di chi lavora nel mondo della musica possano rappresentare dei potenziali stressors per lo sviluppo di problemi psichiatrici e dipendenze. Tra i principali fattori stressanti vengono ad esempio inclusi il dover corrispondere alle aspettative del pubblico, i rapidi cambiamenti nello stile di vita legati al successo o all’insuccesso, i lunghi tour alternati a periodi di forzato riposo, l’insicurezza economica, etc. Il video di presentazione del servizio è particolarmente struggente.

 

La Help Musician in UK: un’altra charity dedicata agli artisti

Help musician UK è un’altra charity dedicata ai musicisti più in senso lato, nel senso che si occupa anche di aiuti sociali ed assistenziali (pensione, etc), ma che recentemente ha lanciato l’indagine MAD (Music and Depression), uno studio in collaborazione con l’Università di Westminster sulla salute mentale di chi fa musica (secondo precedenti analisi da parte della stessa associazione, il 60% dei musicisti avrebbe sofferto di depressione o altri disturbi in qualche fase della vita). L’obiettivo dello studio compilabile online è quello di capire in modo più preciso i bisogni di questa categoria per allestire servizi specializzati.

Gli inglesi, maestri di pragmatismo e organizzazione, sono bravissimi nella costituzione di questo tipo di charities (ne esistono praticamente per ogni tipo di problema e di sottocategoria di problema). Sarebbe interessante capire se anche dalle nostre parti potrebbero funzionare. Un buon testimonial per un’iniziativa del genere a mio avviso potrebbe essere il “webistrattato” Gianluca Grignani.

La comunicazione funambolica tra genitori e figli: strategie inefficaci nella gestione dei compiti

Gestione dei compiti: i compiti a casa sono una delle maggiori cause di attrito, in quanto, le ore spese sui libri che, dovrebbero essere vissute con armonia, a favore di una maggior unione, sfociano in scontri ed inequivocabili conflitti. Questa è una conseguenza diretta dell’incapacità di comunicare in modo adeguato l’importanza dello studio, attraverso una trasmissione di motivazione, che spinga il bambino a intraprendere l’universo scolastico.

Caterina Poli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

La comunicazione come processo bidirezionale

La comunicazione è un processo bidirezionale dove si trasmettono non solo contenuti, cioè informazioni, ma si definisce anche chi siamo e che relazione abbiamo con il nostro interlocutore. Per essere efficace e quindi sintonizzata sui bisogni di entrambi i comunicanti deve prevedere una comprensione dei contenuti informativi ma soprattutto una definizione di sé e dell’altro tale da portare a una relazione di fiducia e cooperazione. Non sono rare infatti le situazioni in cui si è “uditi” ma non “ascoltati”, dove ognuno esprime le proprie opinioni e pensieri rimanendo ancorato alla propria posizione, non ascoltando la prospettiva altrui. Come effetto diretto si ha una sensazione di mancato rispecchiamento: il soggetto che comunica non si sente riconosciuto come individuo con una propria mente pensante e si pone quindi in una posizione di chiusura o di attacco. Ascoltare ed accettare l’altro, senza rifiutarlo a priori, mette le basi per una maggiore comprensione di quello che sta accadendo all’interlocutore. Bateson e Watzlawick affermano infatti che comunicando, non si condividono solo informazioni, ma si definisce anche [blockquote style=”1″]come mi vedo, come ti vedo, che tipo di rapporto ci lega. [/blockquote]

A tal proposito, una tecnica di comprovata efficacia è l’“ascolto attivo”, messa a punto da Gordon (1962): per raggiungere un successo relazionale bisogna porsi in una posizione di ascolto empatico con l’obiettivo non solo di ottenere informazioni, ma di far sentire la persona compresa e accolta all’interno della relazione. Per raggiungere uno scopo che appare così idilliaco ci si avvale del contatto oculare, postura aperta, sintonizzazione verbale, domande interessate e ripetizioni con parole diverse restando però fedeli al contenuto, a ciò che l’altro ha detto per chiarirlo, sintetizzarlo, dargli eco. Partire dall’assunto che esistono posizioni diverse dalla propria e altrettanto legittime, consente di rimanere aperti all’ascolto e ad una negoziazione dei significati.

 

La comunicazione tra genitore e figlio nella gestione dei compiti scolastici

Un contesto dove una tecnica di tal portata è estremamente utile è all’interno della diade genitore-figlio nel tortuoso momento dedicato alla gestione dei compiti scolastici pomeridiani. Infatti, i compiti a casa sono una delle maggiori cause di attrito, in quanto, le ore spese sui libri che, dovrebbero essere vissute con armonia, a favore di una maggior unione, sfociano in scontri ed inequivocabili conflitti. Questa è una conseguenza diretta dell’incapacità di comunicare in modo adeguato l’importanza dello studio, attraverso una trasmissione di motivazione, che spinga il bambino a intraprendere l’universo scolastico.

Il genitore da potentissimo motivatore quale dovrebbe essere, si trasforma in un rallentatore emotivo nella gestione dei compiti. Ai genitori infatti spetta il difficile compito di “conferire senso all’apprendimento scolastico” per motivare gli studenti allo studio mostrando che le conoscenze scolastiche, come evidenzia Meirieu (2002)[blockquote style=”1″] non sono soltanto merci che permettono di acquistare la tranquillità e di sperare in un ipotetico ritorno sociale, bensì oggetti che collegano gli uomini tra di loro e permettono di ritrovarsi in un’universalità possibile al di là delle differenze.[/blockquote]

Tutto ciò non viene esplicitamente riferito dai genitori stessi, i quali tendono spesso a porsi in modo difensivo nei confronti di accuse sulle modalità comunicative da essi utilizzate affermando di utilizzare sempre parole adeguate al contesto. Se come unico obiettivo viene posto il successo globale di tutti gli ambiti vitali del bambino come mai si hanno dei risultati fallaci nella gestione dei compiti? Il fulcro del problema sta nella credenza erronea che la comunicazione si limiti al mondo verbale, fatto di parole espresse apertamente, senza la consapevolezza che la maggior parte delle relazioni sia regolata dal linguaggio non verbale. Per linguaggio non verbale si intendono per esempio gesti, espressioni, postura, spazio interpersonale. I bambini decodificando queste informazioni le connotano di un maggior significato rispetto ad altre all’apparenza più utili: le parole.

[blockquote style=”1″]Non si può non comunicare [/blockquote]è il primo postulato della Pragmatica Umana di Watzlawick (1967); anche quando i genitori credono di non trasmettere alcun tipo di informazione al bambino questo in verità è del tutto impossibile. Per esempio, se un genitore dice a un bambino sorridendo con espressione rilassata che è uno sciocco la sua reazione sarà completamente diversa se invece quelle parole vengono accompagnate da un tono offensivo e un’espressione facciale arrabbiata. Alcuni dati statistici mostrano infatti, che in una comunicazione il contenuto ha un “peso” soltanto del 10%, il tono della voce del 30% e la gestualità del 60%. Dati di questo tipo portano a sorprendenti osservazioni: approssimativamente il 90% dei rapporti umani si basa sulla comunicazione non verbale.

Il tipo di ascolto a cui spesso si assiste nella relazione genitore-bambino è di due tipi: 1)passivo: il bambino parla ma il genitore non lo ascolta, non capisce i significati e non riconosce la relazione; 2)selettivo: il genitore recepisce solo quello che vuole sentire filtrando le informazioni a suo piacere.
E’ inevitabile quindi la presenza di conflitti in queste situazioni; quando vi è una percezione differente di bisogni e desideri e quindi si prevede che tra due individui, in questo caso il bambino e il genitore, vi sia una discrepanza di obiettivi e scopi è ovvio che la dinamica relazionale tenda a sfociare in uno scontro. Il bambino e il genitore non si sentono reciprocamente “ascoltati” e comunicando queste sensazioni creano rotture da cui scaturiscono conflitti. Conflitti che nei bambini prevedono due dicotomiche reazioni: una passiva, dove l’insofferenza viene trattenuta all’interno, non esternalizzata e una attiva, dove è presente un alto tasso di aggressività sia verbale che comportamentale.

Nel primo caso prevale un eccesso di timidezza e di insicurezza che può portare a non difendere abbastanza i propri diritti e a comportarsi non come si vorrebbe ma come vorrebbero per noi gli altri. Nel secondo caso prevale la rabbia, che può portare ad essere inutilmente aggressivi e in questo modo a compromettere i rapporti con gli altri. Anche se spesso si preferisce nel breve termine la prima tipologia di reazione perché si percepisce una “maturità” nel proprio bambino, alla lunga questa modalità porta a una maggior distanza interpersonale. I rischi sono comunque deleteri in entrambi i casi perché creano un vuoto relazionale.

 

La famiglia come agente di socializzazione primario

Il ruolo dei genitori è quindi fondamentale, innanzitutto perché la famiglia è l’agente di socializzazione primario, quindi è il luogo dove si forma la personalità del bambino e dove avviene la sua crescita psicologica e fisica. Ma non solo, è anche il luogo dove si apprendono i modelli relazionali, valoriali e comportamentali. I bambini quindi imparano come interagire e costruire rapporti, quali sono le norme e regole da rispettare e quali sono i comportamenti adeguati al contesto. Perciò la qualità delle relazioni di attaccamento condiziona le modalità di regolazione emotiva, le capacità sociali e lo sviluppo della funzione metacognitiva.

L’attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende principalmente cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica o di dolore emotivo fin dalla nascita per tutto il corso della sua vita. Il mantenimento della prossimità a una figura adulta con funzione protettiva rappresenta un meccanismo primario della regolazione della sopravvivenza e della sicurezza del bambino. Diversi però sono gli esiti che scaturiscono da questa relazione e visibili anche nell’arco temporale della gestione dei compiti dove, per esempio, si riscontra spesso una totale dipendenza dalla figura genitoriale con una conseguente incapacità di concentrare la propria attenzione sui libri se non vi è la presenza ossessiva del genitore.

Come esito durante la gestione dei compiti si ha un impigrimento del bambino, ma non solo, automaticamente il genitore sarà incentivato a sostituirsi al figlio, dandogli soluzioni preconfezionate ai blocchi cognitivi a cui andrà incontro. Oppure, non di rado, una trascuratezza eccessiva del caregiver, può creare frustrazione e spaesamento nel bambino che senza punti di riferimento arriverà a un’autonomia forzata o a un’opposizione ferrea nei confronti di tutto ciò che il contesto scolastico propone. La sua credenza sarà : “se non vengo apprezzato, allora per cosa/chi studio?”, non troverà un senso ai suoi sforzi. Questi legami disfunzionali (controproducenti, ossia contrari al raggiungimento di determinati obiettivi) derivano da un mancato configurarsi di un attaccamento sicuro; infatti, la qualità della relazione di attaccamento dipende dalla responsività della figura di attaccamento, cioè dalla capacità di questa di percepire e d’interpretare con accuratezza i segnali e i messaggi comunicativi del bambino e, sulla base di tale comprensione, di rispondere ai suddetti segnali in modo adeguato e con prontezza.

Numerosi studi (Coleman e Collinge 1993; Nordahl 2000/2006; Epstein 2001; Birkemo 2002; Siles 2003) mostrano che il contributo dei genitori ha un effetto molto rilevante sul successo scolastico, l’autostima, il benessere psicologico, la motivazione, l’atteggiamento dei bambini/ragazzi nei confronti della scuola e degli impegni in generale. Il ruolo dei genitori è essenziale nella formazione della personalità del bambino e quindi contamina il suo carattere conducendolo verso una direzione più che un’altra. I figli sono il riflesso di ciò che il genitore, in qualità di figura di riferimento, gli trasmette sia verbalmente che non. Nella comunicazione con i genitori infatti è costantemente in gioco l’identità del bambino e spesso è il desiderio di sentire confermata la propria identità o il timore che questa possa essere minacciata che influenza pesantemente la nostra capacità di ascolto e di comprensione.

 

Il ruolo dei pensieri e delle emozioni del genitore e del figlio nelle situazioni di conflitto durante la gestione dei compiti

Mario Di Pietro afferma che [blockquote style=”1″]Per toccare il cuore di un giovane bisogna passare per la sua mente, aiutarlo a cambiare il suo modo di pensare di fronte alle situazioni e agli eventi della sua vita.[/blockquote]

Per l’autore, la chiave di svolta nelle difficoltà comunicative tra genitore e figlio sta nel pensiero e quindi in cosa pensano entrambi e di conseguenza cosa provano (in termini di emozioni). Di fondamentale importanza è il riconoscimento e la discussione dei pensieri che precedono, accompagnano e seguono le emozioni e come, modificando i pensieri, si possa anche raggiungere un maggior controllo sulle proprie emozioni, non certo per annullare quelle spiacevoli, ma per ridurne l’intensità e la durata. I pensieri sono anche gli ingredienti essenziali di ciò che viene definito dialogo interno, ossia quel processo mentale automatico che non solo i bambini, ma tutti gli individui, presentano e che influisce su emozioni, pensieri, azioni, comportamenti e che è importante riconoscere per sintonizzarsi su di esso e affrontare in modo più positivo le emozioni spiacevoli e le situazioni difficili.

Si può notare nel concreto durante un conflitto sulla gestione dei compiti che se vi è discrepanza tra i pensieri del bambino e quelli del genitore, non si riesce a trovare soluzioni efficaci. Se il bambino per esempio, si mette a studiare sul divano davanti ai cartoni animati e il suo dialogo interno è verbalizzato in tal modo :“io i compiti comunque li sto facendo e quindi mi applico affinchè il mio dovere pomeridiano sia compiuto” e il dialogo interno del genitore è “mio figlio fa sempre quello che gli pare, non mi ascolta mai. Non capisce.”, la rabbia di quest’ultimo probabilmente prenderà il sopravvento e il genitore in tal caso otterrà ciò che vuole: il bambino spegnerà la tv e a sua volta arrabbiato si metterà seduto alla sua scrivania con una disposizione negativa, ma in un secondo momento ripeterà sicuramente l’azione. Questo perché la gestione mediante la rabbia non avrà permesso al bambino di comprendere il motivo per cui la sua strategia non funziona, collegherà la rabbia del genitore a un tratto personologico (“la mamma è cattiva e rigida”) più che a un desiderio educazionale del genitore stesso (“la mamma ci tiene al mio successo”). Il genitore si sentirà nel giusto perché penserà di tutelare la crescita scolastica del figlio, ma il figlio dall’altra parte non avrà chiarezza sull’accaduto non capendo l’errore. Un esito positivo nella gestione dei compiti sarebbe emerso se il genitore, con serenità e chiarezza fosse andato dal bambino a spiegargli l’importanza dello studio in un contesto privo di distrazioni, ricordandogli che l’impegno viene premiato non solo dall’insegnante ma dal genitore stesso e questa valorizzazione rinforza l’immagine stessa del bambino.

Esempi di questo tipo fanno emergere quanto, ogni comunicazione, porti con sè configurazioni emotive diverse, una costellazione di emozioni positive qualora ci sia ascolto e comprensione, una costellazione di emozioni negative qualora ci sia un distacco e una mancata sintonia.

 

Strategie efficaci e inefficaci dei genitori nella gestione dei compiti dei figli

Daniel Goleman come strategia per prevenire il disagio suggerisce di “Aumentare il livello medio di competenze emotive e sociali”, e sulla stessa lunghezza d’onda si ritrovano gli studi, di Dryden e Gordon (1990), sull’importante distinzione tra giudizi sui comportamenti e giudizi sulla persona e le ripercussioni emotive correlate. I primi sono preferibili ai secondi perché non intaccano la sfera emotiva del bambino se non in una minima parte, i secondi, invece, rischiano di generare stati emotivi negativi che nel lungo termine portano alla chiusura e isolamento. Diverse saranno quindi le conseguenze se un genitore a un bambino dice: “sei incapace” perché non ha preso un bel voto nella verifica piuttosto che un “in questo compito hai fatto veramente errori insensati”. Nel primo caso sarà anche più generalizzato il giudizio, quasi come se l’incapacità fosse un tratto caratteriale del soggetto, mentre nel secondo caso sarà più situazionale e focalizzato e non minerà la persona. Inoltre i giudizi globali causano in chi li riceve depressione e umiliazione o rancore e rabbia, tutte emozioni che non aiutano a migliorarsi. Tant’è che spesso accade che, per paura del giudizio, i bambini evitino addirittura di impegnarsi con la consapevolezza di un inevitabile fallimento e, in tal modo, si preservano dall’eventuale critica.

La credenza di fondo è: “se non faccio, nessuno potrà criticarmi”. Il modo migliore per prevenire comportamenti indesiderati sarebbe usare con loro parole di incoraggiamento, che rinforzino il comportamento corretto quando si verifica, non all’opposto scoraggiamenti o punizioni. Gli apprezzamenti sinceri sono anche un metodo efficace, il più piacevole, per influire sul comportamento altrui: se una persona è stata lodata per un determinato comportamento, è più facile che si comporti allo stesso modo in futuro. E inoltre il fatto di sentirsi apprezzati migliora l’autostima e la fiducia in se stessi. Se il bambino percepisce che qualsiasi cosa accada nella sua vita, i suoi genitori ci sono sempre, lo accettano e lo amano, svilupperà verso la vita un atteggiamento positivo. Scoprire di essere comunque accettati ha di per sé un effetto fortemente educativo. Il bambino sarà in grado di rischiare, di provare nuove forme di relazione interpersonale, di prestare attenzione alle emozioni che ha dentro.

L’esistenza di problemi nella gestione dei compiti è spesso causa di stress nel bambino: le richieste dell’ambiente appaiono come gravose o eccessive rispetto alle risorse che ha a disposizione e da qui subentrano reazioni eccessive di ansia, depressione, rabbia e anche sintomi fisici (senso di affaticamento, mal di testa, mal di stomaco). Queste reazioni possono portare a compromettere le abilità di affrontare la situazione o l’evento stressante (Lazarus e Folkman, 1984), non permettendo un ripensamento in autonomia di quello che si è imparato a scuola e una responsabilizzazione svincolata dall’ausilio del genitore, e quindi l’autodisciplina.

Philippe Meirieu, analizzando le possibili cause del rifiuto di studiare è arrivato alla conclusione che siano in gran parte riconducibili a una richiesta implicita di aiuto del bambino, cioè il segno di una richiesta di carattere affettivo; il bambino può rifiutare di applicarsi per avere la gioia di vedere il padre o la madre sedersi accanto a lui. E’ importante quindi che i bambini si sentano supportati dai genitori nella gestione dei compiti, perché questo fornisce loro una rete di sicurezza e di aiuto nei momenti di disagio e di difficoltà e anche di gratificazione e rinforzo nei momenti di successo, ma non solo, influenza positivamente la salute fisica, la capacità di affrontare situazioni ed eventi stressanti, la soddisfazione nei confronti della propria vita. Molte ricerche indicano ad esempio che chi si sente sostenuto guarisce prima dalle malattie, va incontro meno facilmente a depressione e ad altri problemi emotivi e possiede un maggior equilibrio psicologico (Burleson, MacGeorge, 2002).

 

Conclusioni: la comunicazione assertiva tra genitori e figli nella gestione dei compiti

Concludendo, quindi il punto critico di ogni rapporto non è dato dalla quantità di conflitti che insorgono, ma da come il conflitto viene affrontato e appianato. Per fortuna la maggior parte dei conflitti si possono risolvere ricorrendo alla “negoziazione”: saper vedere il punto di vista dell’altro, ascoltare in modo attivo, di cui ho precedentemente trattato, controllare la propria timidezza e la propria rabbia e comunicare assertivamente. Dove, per assertività, s’intende la capacità di esprimere le proprie idee, le proprie convinzioni, le proprie esigenze e i propri stati d’animo in modo sincero, diretto e non aggressivo, difendendo i propri diritti senza offendere le altre persone o negare i loro diritti.

L’improvvisazione nel contesto terapeutico e la sua efficacia

La mia ossessione per gli schemi. La malattia della ripetizione: lo stesso gesto mille volte, finché non sono sicuro dell’esecuzione. La mia permanente battaglia per imbrigliare estro e improvvisazione.

Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera del 30 Maggio 2016 da Giancarlo Dimaggio

 

Con i miei pazienti, ogni giorno: Giancarlo, chiediti qual è il desiderio che lo muove. Essere amato, apprezzato, esplorare il mondo autonomamente? E poi: come si aspetta che reagirà l’altro? Lo rifiuterà, lo disprezzerà, lo controllerà? E ancora: come risponderà quando si vedrà respinto, umiliato, ostacolato? Si scioglierà in lacrime, si chiuderà offeso, aggredirà? Me lo chiedo a ogni seduta, compio la stessa operazione, identica a se stessa nella struttura, al volgere dell’ora, all’arrivo del prossimo paziente.

Con la racchetta: gioca il rovescio allo stesso modo, cinque, dieci, cento colpi. Cerca l’impugnatura eastern, piede destro parallelo al campo, ruota le spalle. E lo stesso per la chitarra, le scale, leeeeente, sapendo che quando le farai veloci ti accompagnerà un metronomo privo dei circuiti della pietà.
Non c’è scampo, l’esecuzione sapiente del gesto richiede di sfinirsi nel ripetere procedure finché, dopo averle odiate, saranno diventate una seconda natura. Quello è il momento scintillante: la padronanza, la meravigliosa sensazione di transitoria onnipotenza in cui parole, braccio, dita scorrono armoniose.

Da quel giorno è concesso improvvisare, solo allora. Iniziare prima è per me segno di incompetenza, indisciplina, cialtroneria. Il meglio che posso dire è che me ne disinteresso, mi annoia. Oppure mi allerto, vedo incapaci all’opera che agendo all’impronta metteranno a rischio ciò che entra nella loro aia, siano pazienti, musica, compagni di squadra.

 

L’improvvisazione in psicoterapia

Io mi consento l’improvvisazione se ho la coscienza a posto. Prima devo essere riuscito a dire al paziente qualcosa che suona come:

“Mi sembra di avere capito che lei desidera sentirsi apprezzato, ma quando qualcuno, suo padre, il suo capo, osserva ciò che ha compiuto lo commenta con sdegno, la svaluta. A quel punto lei oscilla tra il sentirsi un idiota, vergognandosi perché la critica è meritata, e pensare che quel disprezzo è ingiusto, e questo le fa dannatamente rabbia. Si rivede in quello che ho detto?”.

Se ho usato il giusto rigore, sfrondato ogni mia idea arbitraria ed eseguito il lavoro come da canone, il risultato è stupefacente. Il paziente, sorpreso, mi guarda fisso negli occhi, distende le gambe, mette via la giacca che stringeva al petto e mi dice: “Sì, è così”. Allora iniziamo a ragionare su come cambiare il corso della sua vita per il meglio. C’è poco jazz in un intervento del genere. E funziona.

Poi si tratta di promuovere il cambiamento. Altre procedure. La mia ossessione per gli schemi, la compulsione a ripetere gesti consolidati che mi permette di capire in modo unico una persona diversa da chiunque abbia mai incontrato prima e accompagnarla verso una vita con un paesaggio più verde.
Una pratica dove l’applicazione di procedure mandate a memoria come una sonata di Scarlatti non è mai sufficiente. A volte bisogna agire all’impronta. Per farlo, dicono i ricercatori (che della psicologia dell’improvvisazione, sia detto, non sanno ancora granché) ci vuole una grande memoria di lavoro – lo spazio dove l’informazione viene manipolata, selezionata, integrata, rimescolata e da cui escono decisioni veloci -.

Lunedì sera, terapia di gruppo, il mio collega Paolo e io siamo sul punto di sbattere la testa al muro. Due pazienti colte, intelligenti, non capiscono che il loro timore del giudizio è solo un’idea presa per vera senza esserlo. La vergogna le domina, riescono a parlare in pubblico solo tra tormenti atroci. Chiediamo loro di venire al centro del gruppo. Si chiama esposizione. Puntano i talloni al suolo, una convincente imitazione del mulo. Paolo mi guarda, ricambio il cenno di intesa, tre-e, quattro. Attacchiamo. Lui sale in piedi sulla sedia, la posa di una gallina. Io mi metto a testa in giù sulla poltroncina. Ora potete venire al centro, vero? Sorridono, si alzano, conquistano la scena.

Il Giudizio degli altri - State of Mind - Immagine: © 2013 State of Mind

Eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e adozione di comportamenti di controllo del peso nei disturbi alimentari

Un recente studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Psychological Medicine da Tabri e colleghi, ha testato alcuni meccanismi di mantenimento postulati della teoria transdiagnostica, esaminando la relazione temporale tra l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e il coinvolgimento attivo in comportamenti di controllo del peso non di compenso, cioè restrizione dietetica ed esercizio fisico compulsivo, in donne con diagnosi di anoressia nervosa (AN) e bulimia nervosa (BN).

Massimiliano Sartirana, Riccardo Dalle Grave

I disturbi alimentari secondo la teoria cognitivo comportamentale transdiagnostica

L’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, cioè la valutazione di sé basata in modo predominante sul peso, sulla forma del corpo e sul loro controllo, è considerata dalla teoria cognitivo comportamentale transdiagnostica la psicopatologia specifica e centrale dei disturbi dell’alimentazione. Specifica, perché è una forma di psicopatologia presente solo nei disturbi dell’alimentazione, centrale, perché la maggior parte delle caratteristiche cliniche osservate nei pazienti con disturbi dell’alimentazione deriva direttamente o indirettamente da essa. La teoria sostiene anche che le espressioni derivate dalla psicopatologia specifica e centrale (per es. la dieta ferrea, l’esercizio fisico compulsivo, gli episodi di abbuffata, i comportamenti di compenso, il check del corpo, ecc.) a loro volta, attraverso numerosi meccanismi, mantengono e accentuano l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, contribuendo a mantenere in uno stato di continua attivazione il mind-set del disturbo dell’alimentazione.

 

Lo studio sui meccanismi di mantenimento dei disturbi alimentari

Un recente studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Psychological Medicine da Tabri e colleghi, ha testato alcuni meccanismi di mantenimento postulati della teoria transdiagnostica, esaminando la relazione temporale tra l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e il coinvolgimento attivo in comportamenti di controllo del peso non di compenso, cioè restrizione dietetica ed esercizio fisico compulsivo, in donne con diagnosi di anoressia nervosa (AN) e bulimia nervosa (BN).

Lo studio ha incluso 246 donne che hanno richiesto un trattamento nel servizio ambulatoriale per i disturbi dell’alimentazione dell’area di Boston e hanno dato il loro consenso a partecipare a uno studio longitudinale sull’Anoressia e sulla Bulimia, iniziato nel 1987 e terminato nel 2013. La suddivisione delle diagnosi, riviste secondo i criteri del DSM-IV, sono state le seguenti: Anoressia sottotipo con restrizioni (N=51), Anoressia sottotipo con episodi di abbuffata e comportamenti di compenso (N=85), BN (N=110).

Per monitorare i sintomi e i comportamenti nel tempo è stata utilizzata la “Longitudinal Interval Follow-Up Evaluation” (LIFE-EAT II), un’intervista semistrutturata condotta da un valutatore esperto, somministrata a intervalli regolari (6-12 mesi) per oltre 12 anni. Al fine di chiarire meglio la relazione tra eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e comportamenti non di compenso, gli autori hanno distinto l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo da una misurazione composita di due tipi di preoccupazioni per il peso e la forma del corpo: la sensazione di essere grasso e la paura per il grasso corporeo.

 

I risultati dello studio

Le analisi statistiche hanno evidenziato che i soggetti con un’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo in una data settimana erano più propensi a impegnarsi in comportamenti di restrizione dietetica ed esercizio fisico compulsivo nella settimana successiva, indipendentemente dalle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, dalla restrizione dietetica e dall’esercizio fisico compulsivo della settimana precedente e dalla diagnosi iniziale. Altrettanto si è evidenziato per la relazione inversa ovvero tra la restrizione dietetica e l’esercizio fisico compulsivo in una data settimana e l’eccessiva valutazione per il peso e le forma del corpo nella settimana seguente, sempre in modo indipendente rispetto alle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e al tipo di diagnosi.

L’analisi statistica ha inoltre evidenziato una relazione reciproca tra preoccupazioni per il peso e la forma del corpo in una data settimana e la restrizione dietetica in quella successiva e non, invece, con l’esercizio fisico compulsivo. Tale relazione reciproca era indipendente dall’eccessiva valutazione, dalle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, dai comportamenti di restrizione alimentare ed esercizio fisico compulsivo della settimana precedente e anche dalla diagnosi iniziale.

 

I comportamenti di controllo del peso rinforzano i disturbi alimentari

Questo studio è importante perché conferma il modello teorico cognitivo comportamentale transdiagnostico postulato da Fairburn e colleghi dimostrando che i comportamenti di controllo del peso non di compenso rinforzano l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Questo studio è tanto più importante perchè è il primo in letteratura che abbia dimostrato questa relazione, sebbene in precedenza uno studio di Dalle Grave e colleghi abbia dimostrato che il maggior tempo trascorso in un comportamento di esercizio fisico compulsivo prima del trattamento fosse associato a punteggi più elevati in una misurazione composita dell’eccessiva valutazione e delle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo.

Lo studio offre anche un contributo alla letteratura per quanto riguarda la relazione tra eccessiva valutazione e preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, una distinzione che è spesso concettualmente equivoca. Infatti, la relazione reciproca tra preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e restrizione dietetica, indipendente dalle altre dimensioni, dimostra un ruolo indipendente delle preoccupazioni per il peso e la forma del corpo nel mantenere la restrizione dietetica oltre e al di là dell’eccessiva valutazione per il peso e la forma del corpo. In realtà questo risultato conferma sia lo studio di Keys sugli effetti della malnutrizione, dove si è evidenziato che la restrizione dietetica in soggetti sani senza disturbo dell’alimentazione aumenta le preoccupazioni per il cibo e l’alimentazione, sia quello di Shafran e colleghi e successivamente di Dalle Grave e colleghi sull’interpretazione dei sintomi della malnutrizione in soggetti con disturbo dell’alimentazione, i quali hanno evidenziato come i sintomi della malnutrizione siano interpretati come la necessità di aumentare il controllo sull’alimentazione, sul peso e sulla forma del corpo.

I risultati dello studio di Tabri e colleghi hanno evidenti implicazioni cliniche perché confermano la necessità di affrontare i comportamenti di controllo del peso non di compenso per ridurre l’eccessiva valutazione e le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo, come in effetti è previsto dalla CBT-E e dai risultati sulla sua efficacia.

Lo studio, oltre ai meriti descritti sopra, presenta alcuni limiti. Il primo è che i risultati sono stati ottenuti su un campione di donne con disturbo dell’alimentazione che hanno richiesto un trattamento e quindi non sono generalizzabili a donne con disturbo dell’alimentazione che non richiedono un trattamento. Un potenziale limite è che l’identificazione dei sintomi e dei comportamenti del disturbo dell’alimentazione è stata eseguita retrospettivamente e che non è stato studiato il ruolo dei comportamenti eliminativi di compenso (per esempio il vomito autoindotto e l’uso improprio di lassativi e diuretici). Per avere una completa conferma del modello cognitivo comportamentale transdiagnostico, la ricerca futura dovrebbe indagare anche la relazione che questi comportamenti hanno con l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo. Infine, gli autori hanno utilizzato per valutare ogni costrutto misure ad item singolo dalla LIFE-EAT II e per questo non sono stati in grado di usare variabili latenti per esaminare la validità di costrutto delle loro misurazioni.

In conclusione, i risultati dello studio suggeriscono che affrontare i comportamenti di controllo del peso non di compenso durante il trattamento può essere determinante per aiutare ad alleviare sia l’eccessiva valutazione sia le preoccupazioni per il peso e la forma del corpo.

Pavlov, oltre il condizionamento (1973) di William Horsley Gantt – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 12

#10: Pavlov, oltre il condizionamento di William Horsley Gantt (1973). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

Quando ho conosciuto Pavlov, il 29 ottobre del 1922, e ho visto i suoi esperimenti sul riflesso condizionato, ho scritto nei miei appunti: “Il giorno più bello trascorso in Europa”. Avevo ottenuto un permesso dall’Ospedale dell’Università del Maryland, presso cui svolgevo il mio internato, per recarmi in Russia per 4 mesi; i miei progetti e la mia vita furono totalmente sconvolti da quel “giorno più bello”. Dopo il mio incontro con Pavlov, rimasi in Russia per 7 anni. Prima di tornare in America avevo imparato la lingua di Pavlov, avevo imparato a vivere come un russo. […] Fu Pavlov il primo a farmi comprendere come la psichiatria potesse essere studiata con metodi oggettivi.

Il dr. Horsley Gantt, nel suo lavoro del 1973, si riferisce agli esperimenti sui cani, in cui Pavlov analizzava risposte fisiologiche in corrispondenza a stimoli ambientali. Queste ricerche lo portarono a teorizzare uno dei principi fondamentali del comportamentismo, il condizionamento classico.

Secondo gli studi di Pavlov, infatti, quando uno stimolo neutro (ad esempio, il suono di una campanella) viene associato a uno stimolo significativo (la presentazione di cibo), il soggetto (nel suo caso un cane) tenderà ad associare i due stimoli. Pertanto, dopo aver appreso tale associazione, il soggetto a cui viene presentato lo stimolo neutro produrrà risposte fisiologiche in linea con lo stimolo significativo. Il cane di Pavlov comincia a salivare non alla presentazione del cibo, bensì al suono della campanella. Sono innumerevoli le applicazioni che tale studio ha dimostrato nel tempo e fin qui niente di nuovo; ma ci sono diversi aspetti della ricerca di Pavlov che non sono così noti.

Innanzitutto, prima di Pavlov i processi fisiologici venivano studiati quasi esclusivamente attraverso autopsie, perché non c’era la possibilità di verificare cosa accadeva ad esempio nell’apparato digerente senza provocare lesioni decisamente fatali. Pavlov creò e utilizzò la cosiddetta ‘fistola cronica’, un macchinario non molto comodo, ma che risparmiava agli animali testati un destino molto più crudele. La fistola cronica era una sorta di piccolo contenitore esterno, posto sul fianco del muso del cane, in cui veniva deviato un dotto salivare. In questo modo lo studioso poteva analizzare le risposte fisiologiche dei suoi animali in vivo, creando procedure sperimentali più complesse e raccogliendo dati innovativi.

Approfondendo gli studi sul condizionamento classico, Pavlov notò come in alcuni casi il comportamento degli animali arrivava a mostrare segni patologici. In particolare, questo avveniva quando i cani venivano sottoposti all’esperimento cerchio-ellisse. In questa procedura, Pavlov addestrava gli animali a riconoscere tra le due figure, premendo un tasto A se veniva presentato un cerchio o un tasto B di fronte a un’ellisse. A risposta giusta seguiva una ricompensa, mentre per ogni errore veniva inferta una scossa elettrica. Quando le ellissi presentate mostravano fuochi ravvicinati tra loro, la loro forma risultava molto simile a una circonferenza e questo creava confusione negli animali. I cani, terrorizzati e impauriti di fronte alla possibilità di sbagliare, mostravano comportamenti differenti, che Pavlov imputò a tratti temperamentali specifici.

Da queste osservazioni, il ricercatore dedusse che l’origine della psicopatologia umana potesse ritrovarsi nella difficoltà a rispondere adeguatamente a stati interni di incertezza e confusione. A seconda poi delle caratteristiche peculiari del sistema nervoso dei soggetti, la risposta a tali stati di incertezza poteva manifestarsi con modalità afferenti a un meccanismo eccitatorio piuttosto che inibitorio, ma il nucleo patologico era comunque da identificarsi in un eccessivo stress a cui il cervello veniva sottoposto.

Tale teoria aveva anche qualcosa in comune con l’ideologia del contemporaneo Kraepelin, che riconosceva differenti sottogruppi della schizofrenia. Per questo motivo Pavlov ipotizzò che la cura per la schizofrenia potesse essere una terapia fatta di quiete e riposo, che venne per un periodo applicata negli stati dell’URSS, ma con scarsi risultati.

Nel suo articolo sulla sua esperienza con Ivan Pavlov, Gantt dedica un ultimo paragrafo alla personalità dello scienziato, vincitore del premio Nobel per la Medicina nel 1904. Descrive un uomo appassionato sul lavoro, ma non meno attento alla realtà politica che lo circondava. Nel 1923 richiese ufficialmente a Lenin di poter trasferire i suoi laboratori all’estero, indignato dalla crudeltà e dalla distruzione portate dalla Rivoluzione. Scrisse a Stalin indignato per l’ammissione di alcuni professori di ideologia comunista all’interno dell’Accademia Russa delle Scienze. Ma non lasciò mai il suo paese, dove morì a 86 anni. E nel suo testamento, rivolgendosi ai giovani scienziati, scrisse: ‘…ma non fatevi mai accecare dalla vanità … la vanità vi spingerà a rifiutare preziosi consigli‘.

Pavlov, oltre il condizionamento (1973) di William Horsley Gantt - I grandi esperimenti di psicologia Nr. 12_IMMAGINE
Foto inserita nell’articolo originale. Pavlov (seduto al centro, con la barba bianca) e collaboratori, inverno 1922. Il secondo uomo seduto a partire da sinistra è il dr. Horsley Gantt.

 

L’oggettivazione sessuale nelle donne: che cos’è, i fattori di rischio e le conseguenze

L’oggettivazione sessuale è una forma di deumanizzazione, che riduce la persona ad un corpo teso a soddisfare i desideri sessuali, e quindi ad un oggetto da sfruttare e manipolare (Volpato, 2011). Gli atteggiamenti “oggettivanti” si orientano sulle funzionalità sessuali che vengono scisse dalle altri componenti identitarie ed esaminate isolatamente, come se rappresentassero l’intera persona.

Si tratta, in altre parole, di un fenomeno che spersonalizza l’essere umano e lo valuta in base ad una parte di sé, nella fattispecie il corpo, tralasciando gli aspetti della personalità, della dignità, dell’empatia e dell’unicità che rendono il soggetto unico e diverso dagli altri (Pacilli, 2012).

 

Il ruolo dei mass-media nell’oggettivazione sessuale

Per comprendere la complessità dei fattori di rischio, occorre riflettere, in primo luogo, sull’effetto suscitato dalle immagini e dai video divulgati attraverso la TV, Internet e i giornali che propongono modelli estetici irrealistici e irraggiungibili per la gran parte della popolazione, non tanto perché evidenziano una bellezza rara e “acqua e sapone”, in cui lo sforzo e l’attenzione verso il corpo sono minimi, ma perché, al contrario, esaltano una bellezza curata, attenta a ridurre le disarmonie, e quindi artificiale, e per essere tale deve sottoporsi ad un ventaglio di tecniche finalizzate ad annullare o attenuare i difetti; dalla chirurgia estetica, al ritocco fotografico e ai pesanti make-up come il contouring, ognuna ha il compito di trasformare il corpo (Pacilli, 2012).

Se a questo si aggiungono le pose ammiccanti e sessualizzanti l’effetto oggettivante è amplificato e nell’osservatore si innesca un inevitabile “confronto dall’alto”. Detto altrimenti, sulla base della teoria del confronto sociale di Festinger (1954), le donne che osservano un modello estetico promosso dai mass-media si percepiscono in “difetto” e iniziano a maturare un’insoddisfazione corporea (De Piccoli & Rollero, 2013). Questo avviene perché si innesca una percezione del canone estetico come normativo e reale, e quindi si confonde molto spesso la bellezza mass-mediatica, ricercata e trasformata, con la bellezza realistica, naturale e spontanea.

La discrepanza tra il proprio aspetto e quello esterno produce una sensazione di deviazione dalla “normalità” che viene vissuta sempre più dolorosamente al crescere del divario e degli standard che mirano a simulare una perfezione inesistente (Dakanalis et al., 2012). Più il canone è alto, irraggiungibile, modificato, e anche “normalizzato”, più la discrepanza sarà avvertita come insormontabile e l’insoddisfazione crescerà con pericolose conseguenze sull’autostima, sulla sicurezza e sulla predisposizione alle psicopatologie che coinvolgono il corpo: disturbi dell’immagine corporea, disturbi alimentari nella maggioranza dei casi.

 

Oggettivazione sessuale e auto-oggettivazione

La teoria dell’ oggettivazione sessuale è stata sviluppata da Frederickson e Roberts (1998) che considerano l’importantissimo passaggio tra oggettivazione e auto-oggettivazione. Mentre l’ oggettivazione è un’osservazione proveniente dall’esterno, che può essere relativa al singolo o alla collettività, l’ auto-oggettivazione è la progressiva interiorizzazione di quella osservazione: lo sguardo da esterno diventa interno, e questo comporta un’assidua sorveglianza sul corpo.

La costante focalizzazione sull’aspetto fisico può contribuire a scatenare, così, l’insorgenza degli stati ansioso-depressivi, disturbi della sfera corporea e alimentare, l’aumento delle emozioni negative, e la riduzione della consapevolezza degli stati interni. L’ auto-oggettivazione può essere una tendenza di “stato” o di “tratto”; nel primo caso si tratta di un atteggiamento dipendente dalle variabili ambientali, come l’esposizione a modelli oggettivati o a commenti negativi sul proprio aspetto fisico nel “qui ed ora”, nel secondo, al contrario, di una caratteristica stabile e indipendente dal contesto che correla con l’insoddisfazione verso il corpo, i disturbi dell’immagine corporea e dell’alimentazione, le disfunzioni sessuali e le psicopatologie depressive (Dakanalis et al., 2012).

 

Oggettivazione sessuale: fattori di rischio

I canali di comunicazione mass-mediatica sono indubbiamente potenti e spesso sottovalutati, ma non restano gli unici nella lista dei fattori di rischio.
Secondo una ricerca italiana (Pacilli, 2012) il tempo trascorso davanti alla TV rafforzerebbe la tendenza ad auto-osservarsi e auto-oggettivarsi in modo stabile e prendere in seria considerazione l’ipotesi di ricorrere alla chirurgia estetica per ridurre il divario tra il proprio corpo e quello promosso dai modelli televisivi. Oltre alla televisione, anche Internet amplifica la tendenza ad auto-oggettivarsi perché l’esposizione alle immagini di corpi modificati delle modelle o celebrità varie è inevitabile. Proprio per questa “inevitabilità” ogni donna, per quanto possa vagamente assomigliare al modello proposto, si sottopone al confronto, e alcune di loro, nonostante siano già magre tendono a percepirsi in sovrappeso sperimentando sentimenti di vergogna e inadeguatezza (Dakanalis et al., 2012).

L’età più a rischio è l’adolescenza quando il corpo comincia a cambiare e vi è una maggior sensibilità al giudizio esterno e al confronto con i coetanei. Tuttavia, il fenomeno è inversamente proporzionale all’età, e quindi decresce man mano che gli anni avanzano.
Dal punto di vista culturale, in Italia il fenomeno dell’ oggettivazione sessuale risulta più accentuato nel sistema mass-mediatico e colpisce le donne quantitativamente e qualitativamente in misura maggiore rispetto agli uomini. La controparte maschile non è esclusa dal fenomeno, ma le donne restano il principale bersaglio del fenomeno.
Una buona parte giocano gli ambienti sportivi e artistico-lavorativi, come la danza, la moda e in generale lo star system, che esercitano particolari pressioni sul raggiungimento della forma fisica perfetta per essere sempre “sulla cresta dell’onda” o per migliorare le prestazioni.

Nel panorama dei fattori di rischio non bisogna dimenticare il ruolo delle strategie educative e la qualità dei legami primari di attaccamento che in certi casi accentua l’attenzione al corpo e all’estetica, a discapito di altre competenze e risorse. Lo sguardo oggettivante può nascere quindi dalla stessa famiglia d’origine e agevolare un’interiorizzazione precoce che stimola a curare il corpo già in tenerà età. Alcuni studi hanno rilevato come le domande relative alle opinioni esterne sul proprio corpo (“Come appaio agli altri?”) possano insorgere già a partire dai 6 anni di vita scatenando la prima scintilla di malessere psicologico (Pacilli, 2012).

Per quanto riguarda la personalità, i temi prevalenti concernono in primis la ricerca di approvazione e di perfezione e la spiccata sensibilità alle opinioni che suggerirebbero una probabile organizzazione di significato personale di tipo dappico (Guidano, 1992). Le donne oggettivate avvertono un forte bisogno di definirsi attraverso l’esterno, e in particolare il parere degli altri, temuto e al tempo stesso ricercato che nasconde una forte insicurezza interiore (Pacilli, 2012). Nei pazienti con tale organizzazione non è infrequente riscontrare emozioni e considerazioni negative verso il proprio corpo che possono sfociare, talvolta, in disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia, che esprimono spesso la strenua necessità di essere ammirate e accettate anche a costi alti per il benessere (Bara, 2005).

 

Le conseguenze dell’oggettivazione sessuale: immagine sociale, rivalità e invidia femminile, ridotta empatia

L’ossessione per la forma estetica comporta notevoli costi sul piano del benessere relazionale, sulla rappresentazione sociale e sulla qualità degli interessi. Oltre alla predisposizione alle varie forme di psicopatologia e al malessere psicologico, le donne oggettivate vengono ritenute meno competenti e intelligenti, sperimentano più competitività nei confronti del genere femminile, trovano meno interessi costruttivi da coltivare, infine, vengono considerate meno “umane” (Dakanalis et al., 2012; De Piccoli & Rollero, 2013; Pacilli, 2012).

L’assidua dedizione all’aspetto estetico induce, così, a ridurre l’esplorazione degli interessi e dei doveri e a focalizzare l’attenzione sul corpo, proprio ed altrui. Da qui si deduce non solo la diminuzione della quantità, del rendimento e dell’interesse nelle passioni e nei compiti lavorativi/scolastici, ma anche un sovrainvestimento sull’esasperato confronto con le altre donne per paragonarsi e risultare “vincenti”. Atteggiamenti competitivi, critiche, invidie e rivalità si sostituiscono all’accettazione delle differenze e alla focalizzazione su altre risorse interne ed esterne, trascurate e tralasciate. In sostanza, la sorveglianza maniacale sul corpo porta a sperimentare in misura maggiore elevati livelli di ostilità, sentimenti di inferiorità e di invidia, rispetto alle donne non oggettivate che avvertirebbero tali emozioni con un’intensità, estensione e frequenza minore (De Piccoli & Rollero, 2013).

A tal proposito, non è difficile immaginare quanto sia difficile per una donna che si auto-oggettiva in maniera pervasiva coltivare rapporti intimi e soddisfacenti con le amiche e il partner e percepirsi come una persona nella sua interezza e non come un corpo. L’esplorazione delle passioni costruttive è così inibita dalla dedizione e dall’impegno verso l’interesse estetico che alimenta il vuoto e l’insoddisfazione, mentre agli occhi dell’esterno la morbosa ossessione per la bellezza risulta una dimostrazione evidente della superficialità, dell’incompetenza e della stupidità che potrebbe trasformarsi in una pericolosa profezia auto-avverante (Merton, 1948).

Sul piano collettivo, più la società promuove l’ oggettivazione sessuale, più gli stereotipi e la discriminazione in base ai ruoli e alle competenze di genere si rafforzano e si radicano nella cultura, rendendo sempre più ardua la parità tra i sessi (Pacilli, 2012).
Oltre a questo dato, occorre riflettere sull’effetto deumanizzante che si nasconde nell’ oggettivazione sessuale e toglie le qualità di calore e dignità umana non solo alle donne che si auto-oggettivano, ma anche alle donne che vengono oggettivate (Pacilli, 2012; Volpato, 2011).

 

Conclusioni

L’ oggettivazione sessuale femminile è un fenomeno complesso che richiama diversi fattori di rischio a livello individuale, relazionale e sociale.
È necessario, pertanto, esaminare non solo l’insieme di elementi che ne predispongono l’insorgenza e l’esacerbazione, ma anche i fattori protettivi che entrano in gioco, come la buona qualità delle figure di attaccamento, la coltivazione degli interessi costruttivi, l’impegno scolastico e lavorativo, senza tralasciare l’importanza della comunicazione mass-mediatica.

Alcuni preziosi contributi, come il documentario di Lorella Zanardo, Il corpo delle donne (2010) sulla mercificazione del corpo nella televisione italiana, e la ricerca di Esther Honig e le battaglie di alcune star come Keira Knightley contro l’abuso del foto-ritocco dimostrano una crescente attenzione al fenomeno e alle sue conseguenze, non solo in Italia, ma anche in tutto il mondo e l’abbandono delle passerelle di moda da parte di alcune modelle, come Cara Delevingne e Lily Cole per dedicarsi alle passioni più costruttive, come il cinema, il canto e lo studio universitario.

Tuttavia la strada è ancora ardua e complessa e lo dimostra, dall’altra parte, la perseveranza di immagini oggettivate, di strategie sempre più raffinate e alla portata di tutti per modificare drasticamente l’aspetto. Tra queste il contouring facciale, una chirurgia “istantanea e temporanea”, eseguita a colpi di fondotinta, correttori e altri make up, che trasforma il viso delle donne incrementando l’insicurezza interna (Robertson et al. 2008).
In particolar modo nell’età più a rischio, in adolescenza e nella prima età adulta, è necessario prestare una maggiore attenzione alla sensibilità ai cambiamenti corporei e promuovere un progressivo percorso di accettazione della propria bellezza, nonché l’importanza del valore di sé a prescindere dall’aspetto fisico, senza omettere l’esplorazione di altre passioni tese a stimolare l’intelligenza, la creatività, la cooperazione e l’impegno.

Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39 di C. G. Jung – Recensione

Le lezioni di Jung sul capolavoro di Nietzsche: un documento fondamentale per la conoscenza della psicologia analitica, ma anche il più ampio commento mai proposto al Così parlò Zarathustra.

 

L’influenza di Nietzsche sulla psicologia del profondo fu certamente di incalcolabile importanza, anche se non sempre i primi protagonisti lo hanno totalmente ammesso. Alfred Adler considerava la volontà di potenza come la più importante motivazione della condotta umana e fu certo esplicito nell’indicare Nietzsche come fonte di ispirazione (Ellenberger, 1970).

Più complessa fu la posizione di Sigmund Freud. Il patriarca viennese accolse come allieva la musa di Nietzsche, Lou Andreas-Salome, e decise persino di evocare il titolo nietzschiano Al di là del bene e del male nel proprio Al di là del principio del piacere. Ciò nonostante, Freud sostenne di essersi negato il piacere di leggere Nietzsche, prima di aver pubblicato le proprie principali opere, pur di non venirne influenzato (Freud, 1924, p. 125). Questo asserto, a lungo ritenuto attendibile dai biografi di Freud, è stato recentemente almeno in parte smentito dalla pubblicazione delle giovanili lettere all’amico Silberstein (Freud, 1871-81, p. 86).

Per quanto riguarda Jung, invece, si può senz’altro affermare che l’influenza nietzschiana fu profonda, esplicita e costante lungo l’arco di tutta la sua vita. Quando Jung si iscrisse all’Università di Basilea, l’unica che avesse visto Nietzsche in veste di docente, questa era ancora ‘vibrante del suo impeto‘ (Jung, 1906-61, vol. 3, p. 322). La lettura del Così parlò Zarathustra, dunque, compiuta verso i ventritré anni (Jung, 1961, pp. 138-41) dovette essere affrontata fin dalle prime pagine con un interesse fortemente acuito dall’influenza dell’ambiente. Un tale interesse è testimoniato già dalle giovanili Conferenze di Zofingia (Jung, 1896-99), e dalla tesi sui ‘cosiddetti fenomeni occulti’ (Jung, 1902). Citazioni, allusioni, riferimenti allo Zarathustra costellano le Opere di Jung, il quale riconobbe in Nietzsche l’unico autore in grado di offrirgli delle risposte nei momenti più incerti della propria giovinezza (Wehr, 1969, p. 54-5).

Ricordi, sogni, riflessioni reca un’ulteriore testimonianza del rapporto spirituale con Nietzsche: allorché Jung parla dei suoi primi anni, ed accenna a un contrasto tra una personalità ‘numero uno’ e una personalità ‘numero due’, chiama quest’ultima Zarathustra. Jung peraltro ritiene che, attraverso il personaggio di Zarathustra, Nietzsche dia voce alla propria personalità numero due (Jung, 1961, pp. 139-40; Jung, 1934-39; cfr. Ellenberger, 1970, pp. 199, 326, 776, 837).

Il quadro viene ulteriormente arricchito da elementi offerti dall’epistolario Freud-Jung.  Due lettere junghiane sembrano in particolare significative. La prima viene scritta in risposta a una precedente lettera di Freud, in cui questi auspicava la collaborazione di mitologi, linguisti e storici della religione con gli psicoanalisti: ‘altrimenti‘ concludeva ‘dovremo fare ancora una volta tutto da soli‘ (McGuire, 1974, p. 297). Jung interpretò l’auspicio di Freud come una non troppo velata convinzione che da parte dello stesso Jung un contributo importante in ambito di storia della cultura non sarebbe mai giunto. Rispose dunque piuttosto piccato, sottolineando come i propri interessi al riguardo fossero tutt’altro che superficiali e citando Nietzsche e Erwin Rohde (personaggio a Niezsche vicino) come prove dei propri approfondimenti (McGuire, 1974, p. 300).

La seconda lettera è ancora più significativa perché è quella che segna la cosiddetta Declaration of Independence di Jung da Freud (McGuire, 1974, p. 539), marcata da un’ampia e significativa citazione da Nietzsche, e proprio dal Così parlò Zarathustra:

Si ripaga male un maestro se si rimane sempre scolari. E perché non volete sfrondare la mia corona? Voi mi venerate, ma che avverrà se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una statua non vi schiacci! Voi non avevate ancora cercato voi stessi: ed ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti […] E ora vi ordino di perdermi e di trovarvi; e solo quando mi avrete rinnegato io tornerò tra voi (Nietzsche, 1882-84, p. 93, citato in McGuire, 1974, p. 529).

Non si può neanche dimenticare che Trasformazioni e simboli della libido (Jung, 1912), l’opera che contiene le prime idee junghiane ufficialmente ‘eretiche’ rispetto alla psicoanalisi freudiana, sia l’opera di Jung che contiene il maggior numero di riferimenti a Nietzsche: venti richiami, tra i quali sei menzioni del Così parlò Zarathustra e altre quattro al personaggio Zarathustra.

In questo quadro generale non può del tutto stupire che, nell’ambito dei Seminari dedicati ai propri allievi analisti, Jung abbia dedicato alla lettura e al commento dello Zarathustra gli anni dal 1934 al 1939. Jung sospese il proprio impegno a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, allorché per gli allievi non svizzeri sarebbe stato troppo difficile raggiungere Zurigo. Era giunto, di fatto, all’incirca a metà del testo nietzschiano. Ciò nonostante, il seminario su Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche costituisce nell’insieme la più lunga opera di Jung e il più vasto commento esistente a una singola opera di Nietzsche (se non a una singola opera filosofica). Come per gli altri Seminari la trascrizione del testo è circolata a lungo solo in forma privata ed è stata pubblicata ufficialmente molto tempo dopo la scomparsa di Jung (si veda la recensione de I sogni dei bambini).

Il seminario costituisce un documento eccezionale per comprendere il pensiero junghiano, a partire, naturalmente, dalla possibilità di valutare quanto profonda sia stata l’influenza di Nietzsche sul suo pensiero. Lasciamo la parola, al riguardo, allo stesso Jung:

La maggior parte delle persone che leggono lo Zarathustra non si preoccupa mai di concentrarsi sui particolari per chiarire che cosa realmente vien detto, e così spalanca le porte del proprio inconscio a qualcosa di rivoluzionario senza neanche farci caso. Di conseguenza tutte le persone rispettabili finiscono necessariamente per sviluppare una reazione naturale contro questo libro, e se chiedi loro il motivo di questa avversione, rispondono invariabilmente con citazioni che si rivelano colme di errori […] Lo Zarathustra è difficile da ricordare, perché si associa immediatamente con l’inconscio. Capita anche a me, a volte ricordo che lo Zarathustra di Nietzsche ha detto qualcosa – ma di che si tratta? Dopodiché scopro di averlo citato in maniera sbagliata. È associato al mio inconscio perché viene da quei luoghi oscuri (Jung, 1934-39, vol. 1, p. 296)

Sembra abbastanza evidente che quel ‘la maggior parte della gente’ sia frutto di proiezione o intellettualizzazione, come indica anche la parziale ammissione successiva. Jung sta dicendo che lui stesso, nel leggere Così parlò Zarathustra, assorbe contenuti dei quali fatica a ricordare l’origine.

A dimostrazione di ciò si può notare che, in più di un luogo del seminario, Jung affermi che la dottrina dell’eterno ritorno non compaia in quest’opera nietzschiana, che la menziona invece più volte. Jung, anzi, attribuisce esplicitamente l’eterno ritorno all’opera postuma (in realtà pseudo-nietzschiana) La volontà di potenza (Jung, 1934-39, vol. 3, p. 1110). Ciò non significa certo che Jung non abbia letto con attenzione lo Zarathustra, visto che si permette anche delle disquisizioni filologiche sulla traduzione inglese, ma testimonia al contrario proprio della presenza di materiale oscuro associato con un luogo oscuro dell’inconscio di Jung.

A ulteriore prova che Jung continuò a riprendere in mano l’opera nietzschiana durante tutta la sua vita, si può notare invece che Mysterium coniunctionis ricordi al contrario, in una nota, l’importanza del concetto di eterno ritorno nel Così parlò Zarathustra (Jung, 1955-56, vol. 2, p. 351).

Una menzione particolare meritano l’accurata traduzione italiana e la curatela di Alessandro Croce, che compensa le omissioni del curatore inglese, dovute presumibilmente a una scarsa frequentazione, da parte di quest’ultimo, delle opere di Nietzsche.

Concludendo, la lettura di Lo ‘Zarathustra’ di Nietzsche può essere considerata fondamentale sia per i cultori del filosofo tedesco, sia per i lettori di Jung.

Un modello cognitivo dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo

Il nostro modello di trattamento dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo non è una terapia nuova. Si tratta di una variante del trattamento cognitivo standard per i disturbi alimentari secondo la quale l’accertamento e il trattamento delle credenze sul controllo aumenterebbe la comprensione della psicopatologia dei disturbi alimentari e l’efficacia della terapia cognitiva.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Un modello cognitivo dei disturbi alimentari focalizzato sul controllo (Nr. 16)

 

Il modello originario della terapia cognitiva dei disturbi alimentari considera la bassa autostima e il perfezionismo patologico  come le principali distorsioni cognitive sottostanti il disturbo alimentare e gli obiettivi più importanti del trattamento psicologico (Fairburn et al. , 2003).  Lo scopo del lavoro cognitivo-comportamentale che critica e mette in discussione il perfezionismo patologico e la bassa autostima consiste nel diminuire sia il timore pervasivo dell’insuccesso da parte della persona, sia il focus sulla performance, e nel ridurre l’auto-criticismo che deriva dalla percezione negativa della sua prestazione.

Il nostro trattamento sostiene che anche le credenze disfunzionali e i processi sui temi del controllo siano tra le distorsioni cognitive rilevanti nei disturbi alimentari e, pertanto, devono essere aggiunte al perfezionismo patologico e alla bassa autostima come obiettivi della terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi alimentari.

Il concetto clinico della percezione ansiosa di mancanza di  controllo è applicabile ai disturbi alimentari. Infatti, la necessità dei soggetti con disturbi alimentari di percepire il controllo sulla propria vita è spostato sul controllo del cibo, del peso, e sulla forma del corpo, pena una pervasiva percezione di controllo insufficiente.  I soggetti con anoressia nervosa cercano spesso il controllo (Bruch 1973; Button, 1985) e la sensazione di controllo è sovente ottenuta con continui monitoraggi dell’alimentazione, del  peso e delle forme corporee. (Fairburn, Harrison, 2003; Slade, 1982).  La ricerca, inoltre, suggerisce che soggetti con disturbi alimentari ritengono sia possibile e obbligatorio esercitare un controllo assoluto sia su se stessi sia sulla realtà esterna (Sassaroli e coll.). Non si tratta della percezione ansiosa della mancanza di  controllo ma potrebbe rappresentare un desiderio attivo e ossessivo di aumentare il controllo (Moulding, Kyrios, 2006; Sassaro- li, Ruggiero, 2010).

 

Trattamento sul controllo nei disturbi alimentari: i cinque passi fondamentali

Per quanto riguarda il trattamento sul bisogno di controllo, il  terapeuta dovrebbe sviluppare una strategia che metta in discussione sia la credenza secondo cui il grado di controllo esercitato dal paziente è insufficiente (valutazione di controllo come insufficiente), sia la credenza in base alla quale solo il controllo assoluto è accettabile (desiderio e compulsione al controllo).  Questi i passi previsti dal trattamento sul controllo nei disturbi alimentari:

  • Passo 1: Valutazione della credenza sul controllo.

Noi assumiamo che in individui con disturbi alimentari, l’alimentazione disregolata e i comportamenti eliminatori rappresentino dei tentativi per ottenere un senso di controllo. Per questo motivo il terapeuta esplora il senso di controllo personale del paziente, la sua percezione di controllo sufficiente/ insufficiente, il desiderio di aumentare il controllo e la compulsione per un controllo assoluto. Il trattamento cognitivo della credenza sul controllo inizia con la valutazione di questa credenza. Il terapeuta chiede alla paziente di spiegare i comportamenti alimentari disfunzionali e  le emozioni associate in termini di pensiero. Il terapeuta incoraggia un atteggiamento critico nel paziente e chiarifica che ogni dato comportamento e/o emozione è preceduto da/o  corrisponde a un pensiero, che è una valutazione della situazione in termini di credenze e scopi. In questo modo il paziente può considerare e concepire i suoi comportamenti e le sue emozioni come azioni consapevoli e non più come impulsi incontrollabili. Noi crediamo che nei disturbi dell’alimentazione i comportamenti alimentari disfunzionali rappresentino un tentativo per raggiungere una sensazione di controllo  sugli eventi esterni, sugli altri, sul mondo e su di sé. All’inizio dell’intervista il terapeuta chiederà quali timori del paziente si potrebbero verificare nel caso in cui abbandonasse le sue  abitudini alimentari disfunzionali.

  • Passo 2: Valutazione della relazione tra il controllo dell’alimentazione, del peso e del cibo e la percezione del controllo generale sulla propria vita.

Il terapeuta valuta se questo senso di controllo coinvolge non solo l’alimentazione e il corpo, ma anche l’intero corso della vita della persona e se è presente un’assunzione consapevole  che associa l’alimentazione, il peso e/o le forme corporee con un senso di controllo sugli eventi esterni, sugli altri, sul mondo e su di sé.

  • Passo 3: Ristrutturare la credenza di un controllo insufficiente.

Fondamentalmente, la credenza del controllo è una credenza  ansiosa. Il paziente teme che il grado di controllo su di sé, sulle sue emozioni e sul mondo sia insufficiente. Il motivo per cui si valuta e si discute questa assunzione riguarda fondamentalmente la paura di perdere la percezione del controllo su di sé  e sulla realtà (Lehay, Holland, 2000). Così, noi dobbiamo ristrutturare tale paura mettendo in discussione:

  • Quanto è possibile tale perdita di controllo: quali prove e/o indizi il paziente porta per supportare la paura di perdita di controllo?
  • Se possibile, quanto è probabile?
  • Se probabile, tale perdita quanto potrebbe essere grave e insopportabile?
  • In che modo il paziente potrebbe rimediare a questa perdita di controllo?
  • In che modo il paziente potrebbe tollerare questa perdita  di controllo?

È importante discutere il rapporto tra il timore di perdere il controllo su di sé e sulla realtà e la paura di perdere il controllo sull’alimentazione, sul grasso e sul peso. Inoltre, il terapeuta prova a rendere il paziente consapevole di passati episodi di riduzione del controllo. L’obiettivo dell’intervento consiste nella decatastrofizzazione della perdita di controllo e di come è possibile sopportare un ridotto livello di controllo.

Il terapeuta guida il paziente a riconoscere che è possibile tollerare una parziale diminuzione del controllo, che tutti noi possediamo una serie di esperienze passate nella quale non avevamo il controllo assoluto ecc.  Alla fine il terapeuta incoraggia il paziente ad accettare una riduzione del controllo, a pensare che il timore di un controllo insufficiente può essere gestito. Il terapeuta, inoltre, incoraggia il paziente a mettere in discussione la credenza secondo cui il controllo sulla sua vita è insufficiente e a riconoscere che un livello parziale di controllo consente frequentemente un ragionevole grado di protezione personale e di sicurezza emotiva. 

Il terapeuta discute poi l’associazione tra la sensazione di controllo generale sulla propria  vita e il controllo del grasso e del peso.  Da ultimo, incoraggia il paziente ad aumentare la sua percezione di controllo visualizzando precedenti episodi di controllo e di successo. 

  • Passo 4:  Ristrutturazione del desiderio e della compulsione al controllo assoluto.

Il terapeuta incoraggia il paziente a mettere in discussione la sua rigida e dicotomica concezione di controllo. Secondo  le distorsioni cognitive del paziente, l’unica vera e accettabile forma di controllo è il controllo assoluto. Questo controllo estremo comprenderebbe non solo l’alimentazione e il peso ma anche se stesso e il mondo esterno. Il terapeuta elenca le aree al di fuori dell’alimentazione alle quali il paziente applica la sua compulsione al controllo e propone un progetto per diminuire i comportamenti di controllo in ciascuna area. Il terapeuta analizza e discute i sentimenti e le difficoltà incontrate dal paziente nello svolgimento del programma. Gli scopi finali sono una piccola riduzione del controllo esercitato e la capacità di giudicare sufficiente anche in un parziale livello di controllo. In sintesi, il terapeuta guida il paziente a pensare che è in grado di ottenere e tollerare un minore grado di controllo. Un altro passo terapeutico consiste nell’incoraggiare il paziente a pensare che è in grado di rinunciare al controllo assoluto  di almeno una cosa piccola. 

Un importante concetto riguarda il fatto che l’opposto del controllo assoluto non è la perdita di controllo tout court, bensì l’attiva rinuncia al controllo.  Il terapeuta guida il paziente a riconoscere che è possibile attuare e affrontare una parziale rinuncia al controllo, che ciascuno di noi ha avuto molte esperienze passate nelle quali non aveva un controllo totale, e così via.

Un altro importante intervento consiste nell’esplorazione e  valutazione dell’emozione legata al desiderio e alla rinuncia  di controllo assoluto.  È importante che il paziente capisca che cosa prova effettivamente in relazione alle sue idee di controllo assoluto.

La parte finale del trattamento riguarda l’attiva esposizione comportamentale a una situazione con controllo non assoluto. Durante la sessione, il terapeuta e il paziente decidono insieme un piano di attiva rinuncia al controllo.

In conclusione, le fasi del trattamento del desiderio di controllo assoluto sono:

  1. definizione di controllo assoluto;
  2. l’emozione sperimentata in situazioni di rinuncia di controllo;
  3. relazione tra controllo e autostima, successo e tolleranza;
  4. l’apprendimento di metodi che riducano attivamente il  controllo;
  5. l’apprendimento di metodi di cui si apprezzano i risultati anche se il controllo non è assoluto.
  • Passo 5:  Intervento comportamentale.

Il terapeuta guida il paziente a mettere in atto comportamenti  di non controllo, in riferimento non solo all’alimentazione e al cibo, ma anche ad altre aree della sua vita che presentano un  crescente coinvolgimento emotivo.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Le emozioni al tempo del Botox: i trattamenti estetici a base di botulino alterano la percezione delle emozioni

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Le infiltrazioni di botulino nei muscoli del viso che, provocando una leggera paralisi, distendono le rughe di espressione e donano un aspetto più giovane alla pelle, hanno un effetto non facilmente prevedibile: minano la capacità di comprendere le espressioni nel viso degli altri.

 

Questa conseguenza dipende, spiegano gli scienziati della SISSA in una nuova ricerca, da un temporaneo blocco del feedback propriocettivo, il processo che ci aiuta a comprendere le emozioni degli altri riproducendole su noi stessi.

Siamo abituati ormai a vederne i risultati più o meno riusciti sulle celebrity nostrane e internazionali, ma in realtà il mercato dei ritocchini a base di Botox (un trattamento estetico che sfrutta gli effetti della tossina del botulino di tipo A) interessa un gran numero di persone.

Tanto per dare un’idea, basti sapere che nel 2014 in Italia ci sono stati circa 250mila interventi. È naturale perciò porsi domande sugli effetti collaterali di questa pratica.

Una conseguenza difficilmente prevedibile ha a che fare con la sfera delle emozioni, in particolare con la percezione delle informazioni emotive e delle espressioni facciali.

Spiega Jenny Baumeister, ricercatrice della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste prima autrice di uno studio pubblicato sulla rivista Toxicon (al quale ha collaborato anche l’Ospedale di Cattinara, di Trieste):

La paralisi dei muscoli facciali, temporanea per fortuna, che questa tossina provoca peggiora la nostra capacità di cogliere il significato delle espressioni sul viso degli altri

L’intuizione di Baumeister ha origine in una teoria scientifica molto nota, quella dell’embodiment.

L’idea è che il processamento a livello cognitivo delle informazioni a contenuto emotivo, per esempio le espressioni del viso, passi anche attraverso la riproduzione delle stesse emozioni sul nostro corpo. Come dire che quando osserviamo un sorriso la nostra faccia tende a sorridere a sua volta (spesso in maniera impercettibile e incosciente) mentre cerchiamo di capire la natura di quell’espressione.

Se però i nostri muscoli sono paralizzati dal Botox, ecco che il processo può diventare più difficile.

Jenny Baumeister ha sottoposto a una serie diversificata di test atti a valutare la comprensione delle espressioni emotive un campione di soggetti, immediatamente prima e dopo un paio di settimane da un trattamento estetico a base di Botox, e le ha confrontate con le stesse misure in un campione analogo di soggetti che però non hanno ricevuto alcun trattamento. Non importa quale fosse il tipo di misura (giudizi o tempi di reazione) l’effetto della paralisi era evidente.

L’effetto negativo è molto chiaro quando le espressioni osservate non sono molto marcate. Quando il sorriso è aperto ed evidente, i soggetti non hanno invece difficoltà a riconoscerlo anche se sono stati sottoposti al trattamento – spiega Francesco Foroni, ricercatore della SISSA che ha coordinato lo studio – Per gli stimoli molto intensi la differenza nella prestazione, pur osservando una chiara tendenza al peggioramento, non era significativa. Per gli stimoli ‘ambigui’ invece, più difficili da cogliere, l’effetto della paralisi era molto forte.

L’osservazione conferma l’assunzione che almeno in parte i processi embodied ci aiutano nella comprensione delle emozioni. Inoltre suggerisce che l’influenza negativa del Botox può manifestarsi proprio nelle situazioni in cui questo aiuto potrebbe rivelarsi più utile. Pensate per esempio una normale conversazione fra due individui, dove la comprensione reciproca è fondamentale per una corretta interazione sociale: fallire nel cogliere delle sfumature emotive o dei cambiamenti repentini nell’umore dell’altro può fare la differenza fra uno scambio di successo e uno fallimentare.

Il nostro studio è stato pensato per approfondire l’embodied cognition. Allo stesso tempo pensiamo che essere a conoscenza di questa conseguenza sia utile per chi si occupa di medicina estetica, anche al fine di informare correttamente chi si voglia sottoporre a questi trattamenti – ha commentato Foroni.

The needs and struggles of migrants, refugees and asylum seekers

There is little research and attention about the needs and struggles of migrants, refugees and asylum seekers, and in particular to their access to appropriate health care.

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Research about this topic comes mainly from Canada, Australia and New Zealand. Little is known about the health of refugees on arrival and their subsequent health care trajectories. Therefore, there is an urgent need for an improved understanding of refugee demographics and health status on arrival, changes in health status over time, utilization of health services, and characteristics associated with optimal health outcomes (Gabriel, Morgan-Jonker, Phung, Barrios, & Kaczorowski, 2011). Guidelines (Pottie et al., 2011) inform us that immigrants should be routinely provided with vaccination and medical screening. There is high need for continued provision of settlement services to assist refugees with job training, labour market access, and counseling for traumatized refugees (Maximova & Krahn, 2010). A meta-analysis highlighted that the multiple dimensions of refugees’ resettlement cannot be understood without consideration of a wide range of pre- and post-migration stressors beyond those that are acutely post-traumatic (Porter & Haslam, 2005; Ringold, Burke, & Glass, 2005).

Immigrant and refugee health needs may differ significantly from those of host country people due to differential prior exposure to certain diseases and lack of access to preventive health care (e.g., vaccinations) (Hobbs, Moor, Wansbrough, & Calder, 2002). In addition, causes of migration (forced versus voluntary), familiar and financial conditions and hot country language proficiency should be assessed. In 2001 Burnett and Peel have  described some of the barriers which asylum seekers face in accessing health services in the UK. First difficulty is just problems in registering with a general practitioner and being given access health services. Language is the most important barrier that hinders refugees to access to health services.

Unfortunately, much less is known in European and Mediterranean and European countries, which is currently the area of highest migration and discomfort. In Canada, refugees receive a federally funded package which includes some medical, paramedical and dental coverage plus laboratory, imaging, physician or nursing services locally funded. Australian and New Zealand studies explored the barriers faced by refugees in accessing health services, and the challenges faced by providers. The main problem are refugees’ severe physical health needs, depending on malnutrition, poverty, abuse, overcrowded refugee camps and inadequate health care provision. The second major challenge is refugees’ mental health problems and psychological distress, which reason is having experienced or witnessed torture, violence, rape and death. In addition, some refugees may resist utilising counselling services to alleviate trauma because, in their culture, silence and forgetting are more common as coping mechanisms (Burnett & Peel, 2001).

Another strand of literature addresses the challenges which practitioners face in tackling refugee health needs. Burnett & Peel (2001) suggest that health workers face a number of challenges when working with refugees, including language, time pressure and cultural differences. Providers needs specific training in order to take care and look after refugees and immigrants. They should know immigrants’ cultural background and migration history. Simple questions, such as “How would a pharmacist help you in your country?” may make difference when initiating a patient assessment with an immigrant (Pottie et al., 2011).

Literature says that pharmacists are often the first health care professionals to assist newcomers with their health care needs and in this case also guidelines exist to support pharmacy care for immigrants and refugees (Ingar, Farrell, & Pottie, 2013). Another primary care frontline is provided by charity, non-profit community owned and operated health clinic designed to deliver accessible affordable and appropriate primary health care services (Lawrence & Kearns, 2005).

Health care is a core institutional process in resettlement societies n order to allow refugee groups a full integration  in host countries (Mortensen, 2008). Coping with emotional and mental disorders is a primary skill for health care professionals who happen to have to assist newcomers. Emotional and mental health issues put pressure on local primary and secondary care services, given that social isolation and loneliness of refugees migrants has led to underlying emotional, social and mental health issues.

Many obstacles may hamper appropriate access to health services. Shame or fear of what family and friends might think, fear of being judged by the treatment providers, fear of hospitalisation, and logistical difficulties are significant impediments to accessing health care services for women (Day, 2016; Drummond, Mizan, Brocx, & Wright, 2011).

Managing the challenges of working in a relief program with refugees and immigrants imply many skills. The need of specialized courses designed to prepare people to work in the field of humanitarian assistance cannot be overlooked (Harrel-Bond, 2002; Walkup, 1997). In fact, general practitioners are reported as under-resourced, at both individual level and structural level, to provide effective care and manage health conditions unique to refugees (Johnson, Ziersch, & Burgess, 2008). Transcultural competence is needed in order to offer a comprehensive framework for assessing and addressing refugees’ healthcare and makes a difference in terms of asylum seekers’ satisfaction with medical encounters, confidence in the future value of the attending physician’s recommendations, and perceived healthcare effectiveness in their new surrounding (Koehn, 2005).

In order to measure the degree of integration of refugees and immigrant, the use of adapted measures of acculturation adapted from existing acculturation scales with evidence of good reliability and validity to assess language use and proficiency, ethnic–social relations and media use (Deyo, Diehl, Hazuda, & Stern, 1985; Marín, Saboga, VanOss Marín, Otero-Sabogal, & Pérez–Stable, 1987).

L’accoglienza ai rifugiati: cosa ci dice la ricerca empirica?

Cosa sappiamo davvero dei migranti e dell’accoglienza che riusciamo a fornire? C’è poca ricerca sui bisogni dei rifugiati e richiedenti asilo, in particolare sul loro accesso alle cure mediche appropriate.

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La ricerca arriva principalmente dal Canada, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. Poco si sa sulla salute dei rifugiati in arrivo e sui percorsi di assistenza sanitaria (Gabriel, Morgan-Jonker, Phung, Barrios, & Kaczorowski, 2011). Le linee guida (Pottie et al., 2011) ci informano che gli immigrati dovrebbero essere dotati di vaccinazione e screening medico di routine. C’è un grande bisogno di continuare a fornire servizi di assistenza ai rifugiati per la formazione professionale, l’accesso al mercato del lavoro e la consulenza per i traumatizzati (Maximova & Krahn, 2010). Una meta-analisi ha evidenziato che le molteplici dimensioni dell’integrazione dei rifugiati non possono essere comprese senza tener conto di una vasta gamma di fattori di stress pre e post-migrazione (Porter & Haslam, 2005; Ringold, Burke, e Glass, 2005).

I bisogni di salute dei rifugiati potrebbero differire significativamente da quelli delle persone del paese ospitante a causa della precedente esposizione a malattie esotiche e la mancanza di accesso alla prevenzione sanitaria, come ad esempio, le vaccinazioni (Hobbs, Moor, Wansbrough, & Calder, 2002). Inoltre vanno valutate le cause della migrazione -forzata contro volontaria- le condizioni familiari e finanziarie e la conoscenza della lingua. Nel 2001 Burnett e Peel hanno descritto alcuni degli ostacoli che i richiedenti asilo affrontano nell’accesso ai servizi sanitari nel Regno Unito. La prima difficoltà è comprendere la procedura di registrazione con un medico di medicina generale. La lingua è la barriera più importante che ostacola i rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari.

Purtroppo, mentre la ricerca descrive con una certa ricchezza la situazione in Canada, Australia e Nuova Zelanda, molto meno si sa su cosa accada nei paesi europei e mediterranei, che sono attualmente la zona di massima migrazione e disagio. In Canada, i rifugiati ricevono un pacchetto finanziato dal governo federale che comprende qualche copertura medica, paramedica e dentistica, più laboratori medici o infermieristici di radiografia e vari servizi finanziati a livello locale. Studi australiani e neozelandesi hanno esplorato gli ostacoli incontrati dai rifugiati nell’accesso ai servizi sanitari, e le sfide affrontate dai fornitori. Il problema principale sono gravi esigenze di salute fisica dei rifugiati a causa della malnutrizione, della povertà, degli abusi, del sovraffollamento dei campi profughi e dell’inadeguata fornitura di assistenza sanitaria.

La seconda sfida sono i problemi di salute mentale e il disagio psicologico dei rifugiati, che hanno sperimentato o testimoniato la tortura, la violenza, lo stupro e la morte. Inoltre, alcuni rifugiati possono non descrivere loro problemi nei servizi di consulenza specifica per alleviare il trauma, perché nella loro cultura il silenzio e l’oblio sono i meccanismi di gestione più comuni (Burnett & Peel, 2001).

 

 

Accogliere i rifugiati: le sfide degli operatori

Un altro filone della letteratura affronta le sfide che devono affrontare gli operatori. Gli operatori sanitari devono affrontare una serie di sfide quando lavorano con i rifugiati, tra cui la lingua, la pressione del tempo e le differenze culturali (Burnett & Peel, 2001). Gli operatori hanno bisogno di una formazione specifica per sapere prendersi cura dei rifugiati e degli immigrati. Dovrebbero conoscere la storia degli immigrati. Domande semplici, come ad esempio “Come vi aiuterebbe un farmacista nel vostro paese?” possono fare la differenza quando si inizia una valutazione di un paziente immigrato (Pottie et al., 2011).

La letteratura dice che i farmacisti sono spesso i primi operatori sanitari che aiutano i nuovi arrivati ​​con i loro bisogni di assistenza sanitaria e anche in questo caso le linee guida confermano l’importanza delle farmacie per la cura degli immigrati e rifugiati (Ingar, Farrell, e Pottie, 2013). Un’altra prima linea di assistenza primaria è fornita dagli Istituti caritatevoli, società senza scopo di lucro progettate per fornire servizi sanitari di base a prezzi accessibili e adeguati (Lawrence & Kearns, 2005). L’assistenza sanitaria è un processo fondamentale per consentire ai gruppi di rifugiati una piena integrazione nei paesi ospitanti (Mortensen, 2008).

Far fronte a disturbi emotivi e mentali è una competenza primaria per gli operatori sanitari per aiutare i nuovi arrivati. I problemi di salute emotiva e mentale mettono sotto pressione i servizi di cure primarie e secondarie locali, dato che l’isolamento sociale e la solitudine dei rifugiati ha portato a problemi emotivi, sociali e mentali. Molti ostacoli possono impedire un adeguato accesso ai servizi sanitari. Vergogna o paura di ciò che la famiglia e gli amici potrebbero pensare, paura di essere giudicati da parte dei fornitori di trattamento, paura dell’ospedalizzazione e difficoltà logistiche sono ostacoli significativi per l’accesso ai servizi di assistenza sanitaria (Day, 2016; Drummond, Mizan, Brocx e Wright , 2011).

Gestire la sfida di lavorare in un programma con i rifugiati e gli immigrati richiede molte abilità. Non può essere trascurato il bisogno di corsi specializzati, progettati per preparare le persone a lavorare nel campo dell’assistenza umanitaria (Harrel-Bond, 2002; Walkup, 1997). Al momento attuale i medici di base hanno poche risorse, sia a livello individuale che a livello strutturale, per fornire cure efficaci e gestire le condizioni di salute per i rifugiati (Johnson, Ziersch, e Burgess, 2008). La competenza transculturale è necessaria per offrire una valutazione e un trattamento completi e fa la differenza in termini di soddisfazione del paziente (Koehn, 2005). Per misurare il grado di integrazione dei rifugiati e degli immigrati l’uso di misure adeguate di acculturazione è fondamentale (Deyo, Diehl , Hazuda, e Stern, 1985; Marín, Saboga, Vanoss Marín, Otero-Sabogal, e Pérez-Stabile, 1987).

Concepire un figlio se si è depresse: uno studio rivela le condizioni che rendono difficile il concepimento

Un recente studio promosso dalla Boston University ha mostrato come la presenza di sintomi depressivi gravi riduca la probabilità di una donna di rimanere incinta, mentre l’uso di psicofarmaci non sembri danneggiare la fertilità.

 

 

La fecondabilità è definita come la probabilità di una data coppia di concepire un figlio, nell’arco di un certo tempo di rapporti non protetti. Dal momento che la maggior parte dei disturbi dell’umore o di ansia si manifestano durante gli anni di maggiore fertilità, una parte della letteratura ha indagato l’associazione esistente tra depressione, ansia e fecondabilità, portando tuttavia a risultati incoerenti.

Se gli studi trasversali, in generale, suggeriscono che ansia e/o depressione possono avere ripercussioni negative sulla fertilità di una donna, l’unico studio longitudinale condotto ha mostrato solo una piccola associazione.

Cercando di fare chiarezza, un recente studio promosso dalla Boston University ha mostrato come la presenza di sintomi depressivi gravi riduca la probabilità di una donna di rimanere incinta, mentre l’uso di psicofarmaci non sembri danneggiare la fertilità.

I dati provengono da uno studio on-line sulla gravidanza, noto come PRESTO (PREgnancy STudy Online), curato dalla Boston University, che sta indagando i fattori che influenzano la fertilità coinvolgendo coppie statunitensi e canadesi intenzionate ad aver un figlio. Le donne selezionate (n=2146) dal campione di studio (età 21-45 anni) hanno completato un questionario preliminare riguardante le informazioni demografiche, l’eventuale storia di depressione e/o ansia diagnosticata, i sintomi depressivi auto-riferiti e l’uso passato o corrente di psicofarmaci. Le partecipanti hanno poi completato questionari di follow-up ogni 8 settimane per un massimo di 12 mesi o fino al concepimento con lo scopo di valutare i cambiamenti intercorsi e lo stato di gravidanza.

Nel complesso, il 22% del campione ha segnalato una diagnosi clinica di depressione nella propria storia medica; il 17,2% ha utilizzato in passato psicofarmaci e il 10,3% ne fa uso corrente.

Lo studio, pubblicato sull’ American Journal of Obstetrics and Gynecology, ha riscontrato una diminuzione del 38% nella probabilità media di concepimento in un dato ciclo mestruale nelle donne che riferivano sintomi depressivi da moderati a gravi, rispetto a quelle con sintomatologia lieve o assente.

Nonostante studi precedenti avessero riscontrato associazioni tra infertilità e uso di antidepressivi, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore nelle donne infertili, in questo studio, l’uso corrente di psicofarmaci non influenzava negativamente il concepimento.

Sebbene lo studio non approfondisca il perché le donne con sintomi depressivi gravi possano metterci più tempo per rimanere incinte, gli autori hanno riferito diversi meccanismi potenziali che forniscono interessanti spunti per approfondimenti futuri. Ad esempio, la depressione è stata più volte associata a disregolazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, che influenzerebbero il ciclo mestruale e conseguentemente il concepimento.

Il distress nei pazienti oncologici: cos’è, come si valuta e come si agisce

Distress nei pazienti oncologici: La diagnosi e il trattamento del cancro sono accompagnati da significative conseguenze psicologiche, che portano a sintomi da distress emotivo e a disturbi quali ansia e depressione, nel 30-40% dei pazienti (Grassi et al., 2005). Però, la depressione, pur essendo il disturbo psichiatrico più comune nei pazienti con il cancro e sia associato a significative menomazioni funzionali, viene sotto-diagnosticata e non trattata, portando ad un peggioramento della qualità di vita, ad un aumento dell’ansia e del dolore corporeo ed ad una diminuzione della vitalità e delle funzioni sociali (Hopko et al., 2008).

 

Il distress nei pazienti oncologici

Nel 1997, il National Comprehensive Cancer Network (NCCN), riunì una commissione multidisciplinare per esaminare le preoccupazioni psicosociali dei pazienti. La commissione scoprì che “distress” era la parola migliore per rappresentare la gamma delle preoccupazioni emotive dei pazienti con esperienza di cancro senza portare lo stigma delle altre parole qualche volta usate per i sintomi emotivi e raccomandò di utilizzare una semplice domanda: “Qual è il tuo distress in una scala da 0 a 10?” utilizzando i punteggi di 4 o maggiore di 4 come punto da cui partire per ulteriori domande e possibile invio ad un Servizio Psicosociale.

Nel 2003, la commissione del NCCN per la gestione del distress nei pazienti oncologici, pubblicò standards più precisi di cura psicosociale e gestione del distress, che stabiliva per la prima volta delle indicazioni:
– Il distress doveva essere riconosciuto, monitorato, documentato e trattato a tutti gli stadi di malattia.
– Tutti i pazienti dovevano essere valutati in relazione al distress durante la prima visita, ad intervalli di tempo, in base alle indicazioni cliniche e specialmente in caso di cambiamenti della malattia, quali remissioni, ricorrenze e progressioni.
– La valutazione doveva identificare il livello e la natura del distress.
– Il distress doveva essere valutato e gestito secondo le linee guida della pratica clinica.

Ad oggi, il National Comprehensive Cancer Network (NCCN) definisce il Distress nei pazienti oncologici come un’esperienza emozionale spiacevole, multifattoriale -psicologica, sociale e/o spirituale – che può interferire negativamente con la capacità di affrontare il cancro, i suoi sintomi fisici, il suo trattamento. Il Distress si estende lungo un continuum che va da normali sentimenti di vulnerabilità, tristezza e paura, a problemi che possono diventare disabilitanti, come depressione, ansia, panico, isolamento sociale, crisi esistenziale e spirituale.

Molti studi, infatti, hanno dimostrato che dai pazienti ammalati di cancro, vengono riportati sintomi di distress emotivo come conseguenza della malattia e dei trattamenti effettuati; molti di questi sintomi soddisfano i criteri di diagnosi psichiatriche quali disturbi dell’adattamento, ansia e depressione (Mitchell, Chan, et al., 2011)
Sebbene questo danneggi la qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari, portando ad un percorso riabilitativo più lungo, meno del 33% dei pazienti con il cancro che hanno una diagnosi di distress sono riconosciuti nell’ambiente oncologico e conseguentemente inviati ad un intervento clinico appropriato. (Mitchell, Vahabzadeh et al., 2011).

Per questi motivi, sono state sviluppate molte linee guida di screening psicosociale e il distress è stato indicato come il sesto parametro vitale, dopo la pressione arteriosa, il polso, la respirazione, la temperatura e il dolore che deve essere monitorato per identificare i pazienti che necessitano di intervento clinico (Bultz et al., 2006).

 

Come valutare il distress nei pazienti oncologici

Per misurare il Distress nei pazienti oncologici è stato sviluppato uno strumento semplice ed efficace, il Termometro del Distress, che misura il livello di sofferenza e le sue possibili cause (Holland et al., 2010). Attraverso questo strumento si chiede al paziente di descrivere la quantità di disagio emotivo che ha provato nell’ultima settimana indicando un numero che va da 0 (nessun disagio emotivo – nessuno stress) a 10 (massimo disagio emotivo – massimo stress) in un termometro disegnato. Si chiede, inoltre, di indicare con una crocetta sì/ no se i problemi elencati in una lista (Problem List) e raggruppati in 5 categorie, che sono emersi nell’ultima settimana. Le categorie individuate sono: problemi pratici (es. nella cura dei figli, di alloggio, economici, ecc.); problemi relazionali (es. nel rapporto con il partner, con i figli, ecc.); problemi emozionali (es. depressione, paure, ecc.); aspetti spirituali; problemi fisici (es. dolore, nausea, ecc.).

Questo strumento è molto semplice da usare, occupa poco tempo (da tre a quattro minuti) per completarlo e riesce attraverso la scrittura (piuttosto che verbalmente) a far esprimere meglio le preoccupazioni al paziente.
Un altro strumento che può essere utilizzato per la misurazione del distress nei pazienti oncologici è il PDI (Psychological Distress Inventory), questionario di autovalutazione costituito da 13 items; per ciascun item, i pazienti sono invitati a segnare tra le opzioni proposte quella più vicina al loro sentire nell’ultima settimana. (Morasso et al., 1996)

La valutazione del distress sembra quindi fondamentale per migliorare la qualità di vita e le possibilità di guarigione dei pazienti oncologici; a questa valutazione, però, va aggiunta la modalità di gestione del distress.
Quindi, non solo l’uso di appropriati strumenti di screening ma anche un sistema di amministrazione e rivalutazione dei risultati dello screening, la conduzione di valutazioni di follow up e l’attribuzione di ulteriori valutazioni, supporti e trattamenti quando necessari.
Inoltre, il successo di un qualsiasi programma di screening e gestione del distress dipende dalla presenza di uno staff qualificato e formato.
Molte organizzazioni, tra cui, l’ACoS (American College of Surgeons), la NCCN (1) , l’Istituto di Medicina (Adler, Page, 2008) e la Società Americana di Clinica Oncologica (12) hanno identificato la valutazione e il trattamento del distress psicosociale nella routine della cura del cancro come uno standard di qualità delle cure.

Nel 2015, la Commissione sugli standard del cancro dell’ACoS (American College of Surgeons), ha stabilito di implementare i programmi di screening del distress psicosociale indicando 6 aspetti dello standard al quale attenersi (Williams et al., 2014):
1) Comitato: Presenza di un Comitato (gruppo di lavoro) coordinato da un responsabile che supervisiona l’amministrazione del programma con competenze specifiche nella conoscenza dei dati epidemiologici e numerici del distress nei pazienti oncologici. Necessaria l’inclusione nel processo di assistenti sociali, psicologi clinici o altri professionisti della salute mentale. Lo standard richiede una documentazione delle riunioni del comitato che discute dei risultati dello screening; ogni discussione del comitato deve partire dall’analisi dei pazienti e della classificazione dei risultati per valutare le soglie cliniche oltre le quali deve essere identificato un piano di lavoro psicologico su quel paziente. Può essere utile il feedback dei pazienti e familiari sull’effettività del programma di screening.
2) Tempo: lo screening dei pazienti dovrebbe essere effettuato durante le visite cliniche di maggior impatto emotivo (alla prima diagnosi, ad appropriati intervalli, al cambio di stato della malattia e trattamento). La poca letteratura disponibile è a favore dello screening ad ogni visita; nella pratica viene fatto al momento della presa in carico in oncologia che corrisponde al momento della diagnosi; sarebbe, comunque, opportuno non somministrare lo screening una volta sola perché il distress può intervenire in vari momenti anche dopo la diagnosi.
3) Metodo: Lo screening può essere amministrato sia dai medici (che permette una valutazione immediata del questionario ed eventuali azioni in caso di rischio suicidiario) sia dai pazienti (la maggior privacy può facilitare l’apertura del paziente; tuttavia l’attendibilità può essere compromessa dal livello culturale e di comprensione dello strumento). Attualmente si stanno diffondendo strumenti elettronici del distress che possono integrare il materiale in possesso del medico.
4) Strumenti: Dato che il distress ha dimensioni multiple, strumenti che valutino solo un aspetto, come la depressione e l’ansia, non sono sufficienti. Vengono consigliati, quindi, strumenti multidimensionali, psicometricamente validati preferibilmente in pazienti oncologici. Esempi di strumenti sono il DT (Distress Thermometer) e il PHQ-4 (Patient Health Questionnaire – 4).
5) Valutazione: viene raccomandato un protocollo standardizzato per la valutazione dei punteggi e dei risultati dello screening per identificare i pazienti che necessitino di follow-up e di ulteriori valutazioni. Il protocollo dovrebbe prevedere i seguenti ruoli:
– Un membro responsabile dello staff che supervisioni l’utilizzo dello strumento di screening, raccolga i risultati e assicuri che la valutazione venga effettuata da personale clinico qualificato.
– Un team di clinici (infermieri, assistenti sociali, psicologi) responsabili per la valutazione dei dati dello screening e la scelta dei pazienti che richiedono follow-up.
– Un team di clinici responsabili del follow-up dei pazienti affetti da distress. Il follow up dovrebbe includere i risultati dello screening e ricostruire una breve storia e possibilmente somministrare strumenti aggiuntivi per chiarire il tipo e la severità e le fonti del distress. Viene raccomandata l’indagine sul rischio suicidario per via dell’aumento dei casi in oncologia.
6) Documentazione: i clinici dovrebbero documentare nella cartella medica lo strumento usato, i risultati e le interpretazioni cliniche dello screening; per i pazienti per i quali viene identificato un distress dovrebbero essere identificati i seguenti punti: i risultati dello screening, un piano di follow up, il tipo, la fonte e la severità del distress, la storia rilevante, ogni tipo di ideazione suicidaria, tipo di interventi raccomandati, inclusi un piano per eventuali ulteriori valutazioni.

Concludendo, questo tipo di programma potrebbe migliorare la qualità della cura e portare ad una diminuzione della sofferenza e ad un accrescimento del livello di soddisfazione dei pazienti, migliorando i risultati in termini di salute.

 

Alcuni studi sul distress nei pazienti oncologici

In uno studio effettuato nel 2013 (Grassi et al., ) è stato evidenziato come il termometro del distress, proposto dal NCCN, sia uno strumento semplice ed efficace anche per i pazienti ammalati di cancro italiani e come tale strumento sia paragonabile ad altri strumenti quali l’HADS (Hospital Anxiety and Depression Scale) e il BSI-18 (Brief Symptom Inventory -18) e che il suo utilizzo aumenta la rilevazione del distress nella pratica clinica.

In questo studio si è constatato come il distress non sia correlato all’età, all’educazione, allo stato civile, allo stadio della malattia cancerogena o al tipo di intervento; non è neanche correlato alla comorbidità medica. E’ invece, associato al genere (viene rilevato maggiore distress nelle donne) e a precedenti disturbi psicologici ed eventi di vita stressanti prima della diagnosi di cancro; inoltre la presenza di sintomi fisici possono aumentare il rischio di distress.

In un altro studio effettuato nel 2014 (Fabbri et al., 2014) si è indagato se ad alti livelli di distress siano correlati una maggiore disponibilità ad effettuare un colloquio psicologico e se esiste una correlazione tra età, sesso, livello di distress e accettazione del colloquio.
I risultati dello studio indicano che, per il primo quesito, il 75% dei pazienti con elevato distress ha espresso la disponibilità a parlare con uno psicologo. La restante percentuale, pur avendo un livello di distress elevato, non ha dato questa disponibilità.

Invece, il 70,7 % dei pazienti che hanno espresso la disponibilità al colloquio con lo psicologo al termine della batteria di test somministrata risulterà poi avere bassi livelli di distress. Questo risultato conferma la letteratura esistente che riporta come la disponibilità a ricevere supporto psicologico non sia sempre correlata con il disagio percepito dai pazienti. (Merckaert et al., 2010)
Per quanto riguarda il secondo quesito, lo studio evidenzia che la probabilità di accettare il colloquio diminuisce all’aumentare dell’età ed aumenta al crescere dei valori del distress.

Infine è interessante sottolineare come negli ultimi anni il programma di riduzione dello stress basato sulla consapevolezza (MBSR – Mindfulness based stress reduction) sia divenuto un intervento psicosociale promettente per i pazienti oncologici. La Mindfulness viene definita come la consapevolezza, che si coltiva esercitando l’attenzione in una modalità intensa e peculiare, ossia con intenzione, nel momento presente, e senza attitudine giudicante (Kabat-Zinn 2012). L’MBSR, attraverso pratiche di meditazione, aiuta i partecipanti a prestare attenzione al passato e alle esperienze correnti, imparando a disimpegnarsi dai pensieri disfunzionali e concentrandosi sulle sensazioni emotive e corporee del momento presente; permette di fornire ai partecipanti, la capacità di fare un passo indietro rispetto alla ruminazione circa il passato e il rimuginio per il futuro, semplicemente vivendo le esperienze. (Kabat-Zinn 1990; Segal et al., 2002). Una recente meta-analisi (Piet et al., 2012) ha concluso che c’è un’evidenza positiva che l’uso degli interventi basati sulla Mindfulness riducano il distress nei pazienti oncologici.

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget – Introduzione alla psicologia

Stadio pre operatorio: Il bambino durante questo stadio diventa in grado di usare i simboli, le immagini, le parole e le rappresentazioni mentali che si manifestano principalmente attraverso l’imitazione differita, grazie alla quale è capace di osservare e successivamente, a distanza di tempo che possono essere ore o giorni, di riprodurre quello che ha osservato dimostrando che ha conservato una rappresentazione interna del modello.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Lo stadio pre operatorio secondo Piaget

Continuiamo a parlare dello sviluppo cognitivo del bambino e questa volta ci soffermeremo sullo stadio pre operatorio. Il periodo in questione varia dai 2 ai 6 anni e comprende una serie di progressi cognitivi che portano fino all’acquisizione di funzioni complesse come il linguaggio.
In aggiunta a quanto ottenuto alla fine dei due anni, periodo in cui si conclude lo stadio sensomotorio, in questa fase compaiono la deambulazione, il riconoscimento del sé, in cui il bambino impara a identificare le persone familiari e la propria immagine riflessa allo specchio, e lo sviluppo della parola.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: da cosa è costituito

Il bambino durante lo stadio pre operatorio diventa in grado di usare i simboli, le immagini, le parole e le rappresentazioni mentali che si manifestano principalmente attraverso l’imitazione differita, grazie alla quale è capace di osservare e successivamente, a distanza di tempo che possono essere ore o giorni, di riprodurre quello che ha osservato dimostrando che ha conservato una rappresentazione interna del modello. Egli utilizza il gioco simbolico, usa un oggetto con una funzione diversa da quella cui assolve realmente, ad esempio la scopa come se fosse un cavallino e il linguaggio per riferirsi ad oggetti o persone non presenti nell’immediato, dimostrando di saper utilizzare schemi verbali appresi per indicare una realtà mentale, che è presente ma non nell’immediato o risulta solo immaginata.

Durante questo periodo è presente l’egocentrismo intellettuale che equivale a dire che il bambino è totalmente centrato e concentrato su se stesso, non è ancora in grado di percepire la presenza di punti di vista, emozioni, pensieri, diversi dai propri.
Inoltre, il pensiero è rigido e segue sempre dal particolare al generale, mentre i contenuti acquisiti sono legati tra loro attraverso concetti simili non sempre adeguati anzi il più delle volte non hanno nulla in comune.

Le azioni mentali sono irreversibili, poiché composte da rappresentazioni mentali isolate non legate le une con le altre. Questo processo è facilmente dimostrabile attraverso l’esecuzione di compiti di conservazione: si mostra al bambino un recipiente basso e largo contenente del liquido e gli si chiede di versare il liquido in un recipiente di forma identica. Il bambino, è in grado di riconoscere che la quantità di liquido nei due contenitori è identica. Poi, si chiede di versare il liquido da uno dei due recipienti in uno alto e stretto. Durante questo periodo, quello pre operatorio quindi, il bambino non riesce a riconoscere che i contenitori anche se di forma diversa contengono la stessa quantità di liquido.

Il periodo pre operatorio è anche caratterizzato da quello che è definito realismo nominale, ovvero la tendenza ad attribuire un nome all’oggetto facente parte del mondo esterno e dall’ intenzionalità, cioè dotare gli elementi del mondo naturale di una propria esistenza.
Il pensiero presentato dal bambino è ancora concreto perché non riesce ad andare oltre all’apparenza e al dato percettivo, per questo è definito pre-logico. In questo caso il bambino affronta i problemi focalizzandosi su un solo elemento per volta in maniera selettiva.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: evoluzione

Piaget considera lo sviluppo intellettuale intimamente legato alle operazioni, azioni interiorizzate di comportamenti acquisiti, che permettono di organizzare le informazioni, provenienti dall’ambiente esterno, secondo schemi o concetti consoni al bambino. Chiaramente tutta questa procedura è fortemente influenzata da tutte quelle capacità che caratterizzano e sostanziano questa fase:
1. Egocentrismo intellettuale, già citato sopra, che porta a non riuscire a differenziare il proprio punto di vista da quello altrui. È possibile superare l’egocentrismo grazie alla socializzazione con il gruppo dei pari e alla cooperazione con i coetanei volta all’individuazione e al raggiungimento di scopi comuni. La mancanza di decentramento, derivante dall’egocentrismo, induce alla presenza di confusione tra la sfera soggettiva composta da desideri, pensieri, intenzioni propri del bambino e la sfera oggettiva, che riguardano gli altri e l’ambiente esterno. La mancanza di decentramento si manifesta attraverso tre tendenze del pensiero del bambino:
a. Animismo, I bambini tendono ad estendere le caratteristiche degli esseri viventi agli oggetti inanimati. I bambini non distinguono con chiarezza le cose vive da quelle inanimate.
b. Finalismo, Tendenza ad attribuire un fine/scopo all’azione dei corpi.
c. Artificialismo, Tendenza a considerare tutte le cose come prodotto umano.

2. La rigidità di pensiero, Si manifesta in vari modi:

a. Irreversibilità: consiste nel ricordare gli oggetti e gli eventi nell’ordine in cui sono stati inizialmente conosciuti. Quindi, il bambino non è capace di spostare mentalmente le sequenze di azioni o schemi mentali, secondo un ordine diverso da quello appreso.
b. Difficoltà ad adattarsi al cambiamento nell’aspetto: il pensiero è totalmente ancorato alla percezione dell’oggetto che si verifica all’inizio.

3. Il ragionamento prelogico: i bambini usano un ragionamento trasduttivo grazie al quale percepiscono una relazione causale che non esiste tra due elementi concreti solo perché i due elementi si manifestano congiuntamente. I processi logici a questo stadio di sviluppo cognitivo non sono ancora presenti.

 

Lo stadio pre operatorio secondo la teoria di Piaget: vedersi allo specchio

Importantissime per questo stadio sono le reazioni che si ottengono ponendo il bambino di fronte a uno specchio o a un vetro: prova a toccare con un dito sia la propria immagine sia quella di un’altra persona se presente. Chiaramente, in questo periodo il bambino non riesce a distinguere la propria immagine dalla percezione dell’altro, di conseguenza non concettualizza lo spazio virtuale, ma avverte solo l’esistenza di qualcosa che non capisce si riferisca alla propria persona.

A 12 mesi il bambino, invece, nello specchiarsi riesce a percepire qualcosa che gli appartiene, una parte del suo corpo, principalmente è attratto dalle mani. In questo modo si verifica un primo riconoscimento di se stesso allo specchio, anche se parziale, perché riguarda solo una parte del proprio corpo e non il tutto.
Verso i due anni il bambino guardandosi allo specchio ha una reazione di evitamento, come se percepisse qualcosa di strano nel vedersi allo specchio, come se ci fosse un intruso. Si tratta di una reazione derivante da una evidente consapevolezza cenestesica, che porta a sottolineare come il bambino mostri una dettagliata percezione e concezione del proprio corpo, mentre non ha ancora acquisito quella dello spazio virtuale, tanto è vero che presenta il fenomeno dell’aggiramento. Questo fenomeno consiste nell’aggirare lo specchio dopo essersi guardato per verificare se vi sia qualcuno dietro di esso.

Sia l’evitamento sia l’aggiramento scompaiono nell’arco di uno, due mesi, intorno, all’incirca, all’età di 24 mesi quando il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio ed è felice di potersi riconoscere.
Questo comportamento è dimostrato da due prove:

– la prova della macchia: se il bambino ha una macchia sul viso, inizialmente prova a eliminarla dall’immagine riflessa allo specchio . Verso i 24 mesi, al contrario, la elimina direttamente sul suo viso. Questo comportamento manifesta la formazione di un concetto di spazio virtuale come diverso da quello reale. A circa 3 anni tenderà a girarsi per guardare alle sue spalle, poiché acquisisce la consapevolezza di sé e riesce a vedersi con gli occhi dell’altro.
– la prova con il video. Il bambino ripreso da una telecamera vede la sua immagine sul video. A 24 mesi il bambino si riconosce allo specchio come al video nella sua totalità di individuo. Successivamente, capisce che l’immagine osservata corrisponde a se stesso e rappresenta un riflesso della sua figura.

Per concludere, quanto detto finora conferma che lo sviluppo di capacità cognitive avviene per gradi e ogni volta che si immagazzina una nuova funzione si cede il passo a funzioni più complesse e strutturate.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Le capacità imitative dei neonati: le nuove scoperte sull’imitazione neonatale

Un nuovo studio pubblicato su Current Biology, ha fatto nuova luce sull’argomento dell’imitazione neonatale, proponendosi come la più grande e completa ricerca longitudinale sul tema mai realizzata fino ad oggi.

 

Per lungo tempo si è sostenuto che l’imitazione negli esseri umani, sia un fenomeno che si presenta fin dalla nascita. Molte delle principali teorie propongono che esista un modulo di imitazione innato, che starebbe alla base della cognizione sociale (potenzialmente sostenuta da un sistema di neuroni specchio).

Tuttavia, questo fenomeno di imitazione neonatale è rimasto sempre controverso. Ricordiamo ad esempio che autori illustri, come Jean Piaget (padre della psicologia dello sviluppo), sostenevano che tale capacità viene raggiunta dal bambino non prima degli 8-9 mesi di età.

Un nuovo studio pubblicato su Current Biology, ha fatto nuova luce sull’argomento, proponendosi come la più grande e completa ricerca longitudinale sull’imitazione neonatale mai realizzata fino ad oggi. I precedenti studi hanno avuto il grosso limite di essere stati condotti con metodologie limitate, su base trasversale con campioni molto ridotti e con scarsi gruppi di controllo.

Oggi può essere il momento di rivedere le convinzioni sulle radici della cognizione sociale umana.

 

L’imitazione neonatale: uno studio longitudinale

Janine Oostenbroek e i suoi colleghi hanno valutato 106 neonati per quattro volte a distanza di tempo, durante le primissime fasi di crescita. Le misurazioni sono state condotte dopo una settimana di vita, e in seguito a tre, sei e nove settimane. Durante ogni singolo test i ricercatori eseguivano una serie di movimenti facciali, oppure semplici azioni o suoni, per una durata di 60 secondi ciascuno. I comportamenti da imitare sarebbero stati ad esempio semplici operazioni come: mostrare la lingua, aprire la bocca, fare una faccia triste o felice, indicare un punto con il dito, oppure vocalizzare semplici suoni come ‘mmm‘ o ‘eee‘.

Durante i 60 secondi, il comportamento del neonato veniva filmato e veniva poi accuratamente rivalutato in seguito, per ricercare eventualmente presenti segni di imitazione.

I risultati ottenuti dai ricercatori, mettono in discussione le precedenti teorie, in quanto non è stata rilevata nessuna evidenza significativa a sostegno della tesi per cui i neonati siano in grado in maniera deliberata di imitare facce o suoni, o imitare semplici movimenti.

Ad esempio non era più probabile che i bambini aprissero la bocca o mostrassero una faccia triste nel momento in cui il ricercatore eseguiva il gesto, di quanto non fosse l’esecuzione di qualunque altro movimento. Grazie ai più strutturati e più ampi gruppi di controllo realizzati nella presente ricerca si sono potuto cancellare iniziali ambiguità.

Sulla base di questi risultati, i ricercatori sostengono che le idee esistenti sui moduli innati riguardo all’imitazione, dovrebbero essere modificate e riviste.

Essi sostengono che la verità potrebbe essere più vicina a quanto sosteneva Piaget e che tali abilità imitative emergerebbero nel bambino intorno ai sei mesi di vita.

Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico – Report dal Convegno di Verona

Si è svolto a Verona nella giornata di martedì 31 maggio il workshop esperienziale “ Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico”. L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, in collaborazione con la dottoressa Samantha Serpentini, psicologa presso l’Istituto Oncologico Veneto. Ospiti del workshop sono stati il professor Thomas Merluzzi, psicologo, dell’Università di Notre Dame dell’Indiana (Stati Uniti) e il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna.

 

Il concetto di autoefficacia

Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo a tutti coloro che si occupano di oncologia, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.
Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state l’autoefficacia e l’accettazione nella relazione con il paziente oncologico. Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Merluzzi che ha aperto la mattinata. Durante la prima parte del suo speech, il professor Merluzzi ha mostrato una panoramica di diverse teorie psicologiche, partendo dalla teoria dell’autoregolazione, passando alla teoria della resilienza e terminando con la teoria dell’autoefficacia, postulata da Albert Bandura. Stando alla definizione del grande psicologo canadese possiamo definire l’autoefficacia come [blockquote style=”1″]l’insieme delle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati [/blockquote](Bandura, 2000).

Per lo sviluppo e l’incremento dell’autoefficacia, sono di fondamentale importanza le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace, le esperienze vicarie, la persuasione verbale ed infine il controllo degli stati fisiologici ed affettivi. In particolare, sottolinea il professor Merluzzi, le esperienze vicarie possono essere un aiuto importante per questi pazienti. L’osservare altre persone, simili a sé, che affrontano la malattia può portare a credere di avere le abilità necessarie per fare quanto osservato. Da qui l’importanza del supporto sociale per una buona gestione di queste patologie. Nell’ambito terapeutico invece, continua il professor Merluzzi, si lavora soprattutto sulla fonte della “persuasione”, vale a dire l’incoraggiamento, sul piano verbale e non, che infonde nel paziente la possibilità di possedere competenze. Per questo motivo, il professor Merluzzi, ha definito il lavoro dello psicologo come “costruttore di autoefficacia”.

L’autoefficacia è inoltre comportamento-specifica: provare un alto grado di autoefficacia nel mettere in atto un comportamento non implica che si perseguirà con la stessa autoefficacia una condotta in un altro ambito. Come ha sottolineato Merluzzi essa è strettamente collegata alle situazioni, posso avere ad esempio una scarsa autoefficacia nel tennis, e magari un’autoefficacia molto elevata nel calcio.

Gli aspetti centrali di tale teorizzazione sono quindi il processo di valutazione (assessment delle capacità), l’autoefficacia percepita (“Sono in grado di affrontare il cancro?”), le aspettative di risultato (analisi costi/ benefici) ed infine il comportamento (plan). Vedere adattare questo costrutto, già molto diffuso e conosciuto in diversi ambiti della psicologia scolastica e lavorativa, anche al campo clinico e in particolare a quello oncologico è stato molto arricchente per i partecipanti. Inoltre gli studi presenti in letteratura evidenziano che l’autoefficacia sia un elemento di fondamentale importanza nel mediare il rapporto tra sintomi e depressione nei survivors. Tale caratteristica ha, infatti, un ruolo essenziale nel ridurre la depressione, che non deve essere sottovalutato nella presa in carico della persona che si trova ad affrontare o ad aver affrontato una diagnosi di cancro.

 

La teoria dell’autoregolazione

La sessione è continuata con un approfondimento sulla teoria dell’autoregolazione (Carver e Scheirer,1998). Quando si parla di un evento traumatico, come può essere la neoplasia, si identificano diverse modalità di reazione. Tra quelle positive vi è il recupero (resilienza di I livello) e la resilienza di II livello, cioè “thriving”. Mentre la prima condizione fa riferimento al momento in cui è ripristinato il livello pre-traumatico, nel secondo tale livello viene addirittura superato, arrivando a un maggiore stato di benessere, e livello di funzionamento. Le persone in tale condizione hanno sfruttato il potenziale post-traumatico per sviluppare nuove capacità, arrivando alla migliore e più auspicabile condizione di “prosperità”.

Durante la parte finale del suo speech, il relatore ha esposto alcuni degli strumenti da lui elaborati e validati, come il “Cancer Behavior Inventory” (CBI-B), e che grazie all’importante contributo della dottoressa Serpentini ora è disponibile anche in lingua italiana.
Un fattore d’indagine di tale strumento è la capacità dell’individuo di ricercare il supporto sociale. Tale aspetto è direttamente collegato all’agentività personale.

 

La Mastery Enhancement Therapy

L’intervento del professor Merluzzi si è concluso parlando della Mastery Enhancement Therapy. Tale intervento punta a valutare cosa è importante per la persona in relazione al suo passato e alle sue esperienze, e si è mostrato efficace nel migliorare l’autoefficacia dei pazienti affetti da neoplasia. Attraverso un percorso di quattro sessioni, della durata di 30-40 minuti, si cerca di incoraggiare il paziente a mettere in atto dei piani per far accadere ciò che decide di ripromettersi di fare. Il motto è quindi “Keep it simple and feasible”. Tale intervento, caratterizzato da brevità e semplicità, può essere svolto in mancanza di risorse anche dal personale infermieristico. Questo permetterebbe allo psicologo di focalizzare il suo intervento su quei casi che richiedono un trattamento più strutturato.

 

Self-compassion, mindfulness e accettazione

Un workshop particolarmente avvincente ha chiuso la giornata di formazione. I principali temi trattati sono stati quelli della self-compassion e della consapevolezza, approfonditi tramite esercizi esperienziali svolti a coppie e tramite l’uso della mindfulness per affrontare più efficacemente le situazioni di stress, cui spesso sono esposti i professionisti che si occupano di malattia oncologica. Il workshop è stato abilmente condotto dal professor Presti, presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), e dal dottor Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Grazie al contributo di questi due importanti esponenti dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ancora una volta è emerso come sia essenziale, soprattutto in relazione alla malattia neoplastica, aumentare la flessibilità psicologica, accogliendo e accettando i propri pensieri. Il controllo del dolore e delle emozioni spiacevoli è una competenza essenziale in campo oncologico. Spesso gli specialisti del settore si trovano a porsi l’interrogativo di come “stare con” le emozioni dolorose della persona, di come comunicare la diagnosi o di come accogliere il dolore che il paziente porta in seduta. Stare con il dolore, toccare con mano la terminalità possono esporre l’equipe curante al fenomeno del burn-out.

Tale modello si propone di aiutare il curante (ma anche il paziente) a essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con qualcosa di “avversivo”. L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo al personale curante una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza lavorativa. Quest’approccio ha fornito numerose evidenze cliniche anche in campo terapeutico.

 

Conclusioni: l’importanza di sviluppare l’autoefficacia nel paziente oncologico

L’esperienza della malattia oncologica comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi presentati durante questo convegno, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro autoefficacia. Un punto basilare resta che il supporto psicologico offerto ai pazienti e ai loro famigliari, nonché la formazione e supervisione del personale curante, sono servizi necessari ed essenziali, conclusione che si auspica diventerà realtà concreta in tutti i contesti clinici che si occupano di tali patologie.

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, il prossimo incontro internazionale del GIS “Act for Health” si svolgerà sempre a Negrar il giorno 29 giugno, e avrà come ospiti il professor Joseph W. Ciarrocchi e il dottor Daniel J. Moran, attuale presidente ACBS.

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