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Al di là della cella un’altra vita: dalla detenzione al valore del lavoro

Gli scopi dei progetti di reinserimento e rieducazione, una volta prettamente punitivi, oggi aspirano a cambiare attitudini ed interessi del soggetto svantaggiato cercando di riportarlo verso un plastico di vita legittimo e moralmente condiviso, grazie alla promozione di attività, laboratori, corsi di formazione e opportunità lavorative.

Ruggiero Lattanzio

 

Il lavoro come valore e le sue funzioni

Il lavoro riveste un ruolo importante all’interno della cultura occidentale. Comunemente visto come mezzo di sostentamento, reso possibile attraverso attività materiali e strumentali, il lavoro nasconde al suo interno numerose dimensioni latenti che offrono all’uomo una serie di benefici spesso sottovalutati.

E’ proprio mediante le diverse funzioni assunte dal lavoro, quali quella psicologica, sociale e formativa (Romagnoli e Sarchielli,1983) che l’uomo può realizzare la sua esperienza personale, apportando cambiamenti nella propria”struttura di vita”.
Essere coinvolti in un’attività lavorativa non solo modifica la rete di interazioni sociali dell’individuo offrendo ampliamento relazionale e possibilità di cambiamento, ma permette anche allo stesso di adempiere a scopi extra-individuali, di cooperare e di confrontare il proprio punto di vista con quello di altri, ridefinendo il proprio status e la propria identità.

Un altro vantaggio che l’impiego offre è la realizzazione personale, che coinvolge la valorizzazione del talento individuale, delle abilità congnitive e comportamentali.

Quanto sopra descritto è rintracciabile all’interno del Vitamin Model di Warr, nel quale sono affiancate a variabili ad effetto costante (disponibilità di denaro, sicurezza fisica e buono status sociale) variabili di decremento addizionale (controllo personale, opportunità di utilizzo delle capacità, opportunità di contatti sociali etc…).

Alla base della scelta occupazionale interagiscono due stimoli fondamentali: il coinvolgimento e la soddisfazione. Mentre il coinvolgimento rappresenta il grado in cui una persona si identifica con il suo lavoro e lo considera fondamentale per la propria realizzazione personale e per una valutazione di sè, la soddisfazione rende possibile l’appagamento dei propri interessi e bisogni.

 

Dalla detenzione al valore del lavoro: i percorsi e le opportunità per il reinserimento lavorativo degli ex detenuti

I nuovi programmi di reinserimento e rieducazione psicosociale dell’ordinamento penitenziario sono tenuti a considerare tutti i fattori sopra citati. Gli scopi di questi progetti, una volta prettamente punitivi, oggi aspirano a cambiare attitudini ed interessi del soggetto svantaggiato cercando di riportarlo verso un plastico di vita legittimo e moralmente condiviso, grazie alla promozione di attività, laboratori, corsi di formazione e opportunità lavorative. Il lavoro assume quindi un compito di responsabilizzazione e deinfantilizzazione del detenuto e non un mezzo di autosostentamento: infatti, gli introiti non rappresentano il salario effettivamente guadagnato ma una concessione accordata dallo stato (percentuale rispetto a quella stabilita).

 

Ma la legge aiuta e tutela il detenuto nel suo percorso formativo?

Possiamo affermare che pur essendo in vigore leggi tutelatrici, a causa della scarsità di risorse, l’Amministrazione penitenziaria a volte è costretta all’elusione parziale del criterio-base stabilito dall’art.20, co.5,o.p., secondo il quale il lavoro carcerario deve [blockquote style=”1″]fare acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento[/blockquote].

Per tutelare il diritto al lavoro dei detenuti è necessario che nel processo di reindirizzamento e reinserimento lavorativo cooperino diverse figure professionali: alla figura del detenuto, si affiancano operatori pubblici e del privato sociale che coordinano in maniera armonica gli interventi e cercano di limitare la possibilità che il detenuto lasci il suo percorso riformativo a metà. I percorsi sono tutti diversi l’uno dall’altro, non è possibile pensare a prassi standardizzate, ogni percorso deve essere creato ad hoc.

Prima della progettazione del percorso di reinserimento lavorativo ogni detenuto si deve iscrivere all’ufficio di collocamento (la legge 56/87 afferma che tutti i detenuti possono essere iscritti in carcere alle liste di collocamento) avendo ben chiaro l’obiettivo che si vuole raggiungere.
Ma la progettazione di un percorso formativo (come il completamento di un percorso scolastico o corsi di formazione all’interno del carcere) molte volte viene “minata” da necessità urgenti, come il bisogno immediato di denaro che limita la piena riuscita del percorso, facendogli assumere un carattere “provvisorio ed instabile”.

 

I detenuti saranno più stigmatizzati rispetto ad altre persone nella ricerca di lavoro?

Benchè la legge preveda sgravi fiscali per le imprese che assumono detenuti, per le aziende è poco competitivo portare un detenuto o ex-detenuto all’interno degli istituti; rimangono accessibili dunque le cooperative che sono alla continua ricerca di commesse ma faticano a sopravvivere.
Generalmente i lavori svolti per l’Amministrazione penitenziaria sono spesso lavori di basso profilo e di poche ore di cui i detenuti non conoscono neanche i criteri di assegnazione.

Esistono per legge delle commissioni che valutano le liste di disoccupazione e i criteri, ma spesso queste non sono rinnovate o non sono istituite.
A sostegno di un buono ed efficace reinserimento lavorativo troviamo alcune leggi, come la n. 1986 (art.79), la quale prevede alcune risorse per il reinserimento di soggetti svantaggiati (tra i quali troviamo ex detenuti, detenuti e stranieri).

A promuovere iniziative utili a realizzare progetti di integrazione lavorativa individualizzante troviamo le ASL; accanto a queste strutture ci sono altri strumenti, molte volte modulati da parte dei servizi territoriali, di cui il detenuto si può servire per iniziare o completare il suo percorso riformativo.
Questi servizi, variamente denominati (SIL = Servizi per l’Integrazione Lavorativa; NIL = Nuclei per l’Inserimento Lavorativo; UOIL = Unità Operativa Integrazione Lavorativa; ecc.) in raccordo con gli Uffici Educatori degli Istituti Penitenziari e con il CSSA “Centro Servizio Sociale Adulti ” del Ministero di Grazia e Giustizia, si occupano di stabilire dei contatti con le aziende esterne, progettando i singoli percorsi di inserimento e fornendo il necessario supporto alla persona e all’impresa.

 

In che modo il detenuto viene “seguito” sul posto di lavoro e quali sono i progetti e le agevolazioni di cui può usufruire?

Il tirocinio è uno dei mezzi spendibili attraverso il quale il soggetto può essere seguito e formato sul posto di lavoro; tra i tirocini troviamo il formativo non retribuito, stage di uno o due mesi, che consente di verificare sul campo (impresa privata o cooperative) le competenze lavorative e l’adattamento psicosociale alla vita “fuori dal carcere”.
Un’alternativa consiste nel tirocinio lavorativo: questo, della durata da un minimo di 1 mese a un massimo di dodici mesi, consente di apprendere competenze lavorative direttamente spendibili sul campo.

La Borsa Lavoro rappresenta un altro strumento utile per il detenuto; essa ha il compito di costituire il rapporto di lavoro al termine del percorso di reinserimento e di formare il detenuto all’interno di aziende private o cooperative sociali. La sua durata varia dai tre ai dodici mesi a seconda del soggetto preso in considerazione e della complessità del suo profilo. Il borsista riceve un contributo sempre a carico della regione, in molti casi anticipato dall’impresa.

L’ultimo strumento è rappresentato dall’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro che facilita i contatti e avvia collaborazioni con i Servizi Territoriali e gli operatori del Ministero della Giustizia.
Affinchè questi strumenti siano efficaci è necessaria l’informazione, è necessario informare i detenuti o ex detenuti sui modi, tempi e le leggi che scandiscono e aiutano il reinserimento psicosociale all’interno della comunità. Attraverso l’informazione è possibile riappropriarsi progressivamente della libertà, della conoscenza delle leggi e delle opportunità che consentono ai detenuti di accedere a benefici ed a misure alternative fondamentali per la loro progressiva reintegrazione.
Il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti è di perfezionare l’educazione (riv.cap. XLV Cesare Beccaria e Pietro Verri -Dei delitti e delle Pene-1764).

La Dislessia – Introduzione alla Psicologia

Frequentemente si parla di bambini o ragazzi con disturbi dell’apprendimento, disturbi che causano malessere soggettivo e nella relazione col gruppo dei pari, oltre al notevole effetto sul rendimento scolastico; essi possono essere di diverso tipo, oggi ci occuperemo esclusivamente della dislessia.

 

 

Dislessia: introduzione

Sempre più di frequente si parla di disturbi dell’apprendimento, a carico di bambini e adolescenti, che causano malessere soggettivo e nella relazione col gruppo dei pari, oltre a incidere duramente sul rendimento scolastico.

Studi recenti suggeriscono che oltre il 20% della popolazione scolastica presenta uno dei disturbi inerenti alla sfera dell’apprendimento richiedendo, in questo modo, sempre più di frequente, interventi individualizzati per la pronta risoluzione del problema (Handler and Fierson , 2011).

I disturbi dell’apprendimento possono essere di diverso tipo, oggi ci occuperemo esclusivamente della dislessia.

 

 

Dislessia: etimologia e storia

Il termine dislessia deriva dal greco ed è formato da dys, che significa mancante o inadeguato e lexis che significa parola o linguaggio, quindi sarà tradotto come linguaggio mancante o inadeguato.

Infatti, proprio di questo si tratta:  incapacità di riprodurre il linguaggio con la rapidità e le abilità normali che un soggetto dovrebbe possedere in relazione all’età e conformi al rendimento mostrato in altre attività. In altre parole, le persone dislessiche hanno difficoltà nell’elaborazione e riproduzione del linguaggio.

Si tratta di una patologia relativamente giovane perché solo nello scorso secolo compare per la prima volta in ambito medico ad opera di Hinshelwood che scrisse un intero trattato su un caso di un ragazzo affetto da questo deficit. Precedentemente, tutti consideravano questa incapacità come imputabile alla sfera del linguaggio intesa in termini di incapacità di produzione linguistica o legata a ritardo mentale.

Con gli anni, sono state effettuate sempre più ricerche, anche con tecniche di neuroimaging,  permettendo così di arricchire notevolmente le conoscenze già acquisite.

Ancora, in ogni caso, nell’immaginario collettivo questo deficit è associato a scarse capacità cognitive e intellettive. Niente di più falso, infatti i dislessici sono persone molto dotate; molte menti brillanti, che hanno segnato la nostra storia, erano e sono affette da tale patologia: Leonardo da Vinci, Albert Einstein, Alexander Graham Bell, Thomas Edison, Winston Churchill, Benjamin Franklin, John F. Kennedy, Mozart, John Lennon, Walt Disney, Tom Cruise, Cher, Pablo Picasso, Napoleone Bonaparte e tantissimi altri. Il dislessico, dunque, è una persona con una mente molto produttiva e creativa, altamente intelligente, che apprende diversamente dalle altre persone.

 

 

Dislessia: DSM 5

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM 5, 2015), per formulare la diagnosi di dislessia è necessario:

  • Avere un livello di lettura, misurato da test standardizzati, sulla performance, sulla velocità o sulla comprensione della lettura, al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione adeguata rispetto all’età.
  • Che il deficit riscontrato interferisca in modo significativo con l’apprendimento scolastico o con le attività quotidiane che richiedono capacità di lettura.
  • Se presente un deficit sensoriale, le difficoltà di lettura devono andare al di là di quelle solitamente associate al deficit in questione.
  • Differenziare le normali variazioni nelle abilità di lettura dalla dislessia.

Quindi, la diagnosi di dislessia avviene quando il soggetto mostra capacità di lettura e scrittura sostanzialmente inferiori per età anagrafica, quoziente intellettivo e adeguata scolarità.

Insomma, chi mostra tale patologia fatica a imparare e di conseguenza, rimane indietro nell’apprendimento scolastico, con conseguenze negative in diverse sfere della vita.

Spesso alla dislessia sono associate ulteriori difficoltà, quali la disortografia, la disgrafia e, a volte, lievi difficoltà nel linguaggio orale, fatica nel recuperare termini appropriati o nel memorizzare parole nuove, e nel calcolo, soprattutto mentale, e nella memorizzazione delle tabelline.

 

 

Dislessia: Quali sono le cause?

Le cause, a oggi, non sono ancora totalmente chiare, malgrado si sostenga possa essere dovuta a:

  • Genetica: si tratta di un problema tramandato di generazione in generazione perché genetico, e sarebbe dovuto a una mutazione del cromosoma 15 (Ramus, 2006).
  • Anatomia cerebrale: alcune ricerche dimostrano come il cervello dei dislessici mostri una struttura anatomica diversa dagli altri. Infatti, il planum temporale, zona del cervello che svolge un ruolo nella comprensione del linguaggio, nei dislessici è uguale in ambo gli emisferi cosa che non si rileva nei soggetti normali (Paulesu et al., 2001).
  • Attività cerebrale: per leggere il cervello deve trasformare i simboli, la scrittura, in suoni. Se il bambino ha la dislessia le aree imputate a svolgere questi compiti non lavorano insieme, ma sono utilizzate aree diverse per compensare a questa mancanza di integrazione (Sperling, 2005).

 

 

Dislessia: come riconoscerla

I primi segnali appaiono durante la seconda o terza elementare, ma segnali precoci compaiono durante la scuola materna attraverso la difficoltà a riprodurre i suoni nelle rime e nelle filastrocche.

Tale difficoltà è dovuta a una cattiva organizzazione di suoni linguistici, tipici per la riproduzione del linguaggio che permettono di passare da un testo scritto al riconoscimento e identificazione delle lettere di cui sono composte le parole e da cui si estrapola il significato che si vuole comunicare.

Per poter leggere correttamente bisogna acquisire diverse funzioni:

  • Collegare lettere a suoni: i bambini devono imparare che ad ogni lettera dell’alfabeto è associato un certo suono, fonetica. Una volta che il bambino può effettuare questi collegamenti, sarà in grado di riprodurre le parole.
  • Decodificare il testo: permette di dare un senso alle parole.
  • Riconoscimento visivo delle parole: capacità di leggere una parola familiare a colpo d’occhio senza sillabare.
  • Comprensione del testo: consente di ricordare quello che si è appena letto, invece i dislessici interrompono il flusso di informazioni rendendo difficile capire quanto letto per integrarlo alle conoscenze già apprese.

Indubbiamente, nel dislessico tutte queste abilità sono carenti o scarse al punto da avere enormi difficoltà nella riproduzione verbale di parole. Fenomenologicamente la dislessia si manifesta con un deficit di processamento percettivo dell’informazione visiva: inversioni di lettere, errori di specularità, percezione delle parole sovrapposte o in movimento, e ridotta abilità di focalizzazione su singoli elementi

La dislessia è una condizione permanente a cui seguono strategie efficaci di intervento che permettono al soggetto di riuscire a gestire questa condizione.

Chiaramente, questi problemi di lettura possono portare alla lunga a accumulare stress, frustrazione e di conseguenza bassa autostima e inadeguatezza. La dislessia provoca una mancanza di mordente nello studio e demotivazione, e in alcuni casi abbandono scolastico.

 

 

Dislessia: segnali precoci

Quali sono i segnali che potrebbero farci scattare un campanello d’allarme? Sicuramente ritardo del linguaggio, che con il proseguire dell’età diventa più evidente. Inoltre, si manifestano le seguenti problematiche:

  • Difficoltà a riconoscere le lettere dell’alfabeto;
  • Incapacità di unire suoni a lettere;
  • Incapacità di riprodurre parole
  • Difficoltà di apprendimento di nuove parole
  • Vocabolario ridotto rispetto ad altri bambini della stessa età

 

 

Dislessia: non solo problemi di lettura

La dislessia non riguarda soltanto la lettura, ma investe anche altri ambiti:

  • Le abilità sociali: la problematica potrebbe invadere anche la sfera sociale portando all’isolamento del bambino che, diventando oggetto di scherno e derisione, non cerca più relazioni col gruppo dei pari, con ripercussioni importanti sull’umore.
  • Comprensione orale : il bambino tende a iper sviluppare l’udito come adiuvante dell’apprendimento
  • Memoria: i bambini con dislessia spendono molto tempo a leggere e di conseguenza faticano a ricordare quanto hanno letto.
  • Navigazione: i bambini con dislessia hanno difficoltà con i concetti spaziali come la sinistra e la destra. Questo può portare a timore di perdersi.
  • Gestione del tempo: la dislessia può rendere difficile il concetto di tempo o di pianificazione.

 

 

Dislessia: la diagnosi

Una diagnosi precoce potrebbe aiutare a una facile risoluzione del problema. La diagnosi deve avvenire attraverso un team di professionisti, neuropsicologi, psichiatri, psicologi, neurologi, avvalendosi di incontri  one-to-one. Innanzitutto, è necessario effettuare un processo diagnostico-testistico atto a definire oggettivamente l’entità della patologia, sia a livello qualitativo sia quantitativo. Alla fine del percorso diagnostico si raggiunge una visione d’insieme che permette di individuare a tutto tondo l’entità dello spettro dislessico.

La prima funzione della diagnosi è quella di consentire di evitare gli errori più comuni come colpevolizzare il bambino di scarso impegno e di attribuire la causa a problemi psicologici. Questi errori madornali determinano sofferenza, frustrazioni e, spesse volte, un malessere permanente e difficile da gestire autonomamente con gravi ripercussioni relazionali.

Una volta eseguita la diagnosi si possono mettere in atto aiuti specifici, tecniche di riabilitazione e di compenso, nonché alcuni semplici provvedimenti come la concessione di tempi più lunghi per lo svolgimento di compiti, l’uso della calcolatrice o del computer come supporto all’apprendimento. I dislessici hanno un diverso modo di imparare ma imparano e anche molto bene.

 

 

Dislessia: interventi diagnostici

Ci sono molte persone che possono aiutare il bambino a migliorare le sue capacità di lettura e scrittura. Il primo aiuto avviene chiaramente a scuola, grazie ai diversi metodi di lettura che potrebbero facilitare i processi di apprendimento del bambino. Spesso si è soliti utilizzare anche dei programmi informatici atti a facilitare i processi di apprendimento della lettura.

Inoltre, strutture esterne, che si avvalgono di professionisti specifici, spesso sono consigliabili, perché le tecniche comportamentali e neuropsicologiche possono aiutare il bambino a sviluppare strategie di apprendimento alternative e di gestire il disagio che ne deriva. In alcuni casi anche i genitori possono essere aiutati attraverso percorsi di sostegno in cui uno specialista accompagna nel sostegno del proprio figlio.

 

 

Dislessia: cosa fare a casa

Aiutare il bambino con dislessia può essere un ottimo adiuvante alla cura e permette di aumentare competenze  rafforzando l’autostima. Potrebbe essere necessario provare diversi approcci per trovare ciò che funziona meglio con il bambino, ognuno ha richieste specifiche. Di seguito alcune cose che potrebbero aiutare:

  • Leggere ad alta voce tutti i giorni,  sia libri di animazione sia cose specifiche che possono catturare l’interesse del bambino.
  • Aumentare gli interessi del bambino. Fornire una varietà di materiali di lettura, come i fumetti, storie di mistero, ricette e articoli su sport o pop star.
  • Utilizzare audiolibri, l’ascolto aiuta il bambino a collegare i suoni con le parole che sta vedendo e ascoltando.
  • Aiuto tecnologico, dovuto a programmi di scrittura e ai loro controlli ortografici integrati che permettono immediatamente di modificare la parola on line.
  • Osservare e prendere appunti,  sui comportamenti manifestati per verificare come agire più nello specifico.
  • Rinforzo: lodare il bambino aiuta a mantenere alta la motivazione e anche l’autostima.
  • Supportare ed essere empatici con il bambino aiuta a non entrare nel loop delle emozioni negative.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Il coping power program: un programma di trattamento efficace per i disturbi del comportamento dirompente in età evolutiva

Il Coping Power Program è un programma multimodale per il controllo e la gestione della rabbia nei bambini di età scolare, sviluppato da Lochman e collaboratori ed è uno dei pochi programmi con caratteristiche di complessità e di provata efficacia nel trattamento dei disturbi del comportamento dirompente in età scolare.

Veronica Gatta, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

I disturbi del comportamento dirompente

I comportamenti aggressivi e i disturbi del comportamento sono tra i più frequenti motivi di accesso ai servizi per l’età evolutiva e, spesso, arrivano agli specialisti quando il funzionamento risulta già compromesso in diversi contesti di vita. I disturbi del comportamento sono associati a un peggioramento del bambino o dell’adolescente in diversi ambiti: scolastico (scarso rendimento, deficit attentivi, fallimento scolastico, espulsione), familiare (caratterizzata da conflittualità verbale e aggressività fisica) e sociale (abbandono scolastico, inserimento in gruppi dissociali, emarginazione). Per questo, sono considerati disturbi ad elevato costo sociale (Loeber et al. 2000). In letteratura viene riportata un’incidenza che varia tra il 6% e il 16% per i maschi e tra il 2% e il 9% per le femmine sotto i 18 anni (Loeber e Keenan, 1994).

Il DSM-5 suddivide i disturbi del comportamento dirompente in:
– Disturbi del neuro-sviluppo che includono il Disturbo dell’attenzione e iperattività;
– Disturbi dirompenti del controllo degli impulsi e della condotta, che includono il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo provocatorio. Nei disturbi del controllo degli impulsi sono presenti anche la cleptomania, la piromania, il disturbo antisociale di personalità e il disturbo esplosivo – intermittente.

Per quanto riguarda le ipotesi etiopatogenetiche dei disturbi del comportamento sono presenti in letteratura vari modelli e si ritiene necessaria un’integrazione tra di essi per permettere una visione più ampia e una comprensione migliore (Krol et al. 2004). La psicopatologia dello sviluppo sottolinea il concetto di multifattorialità nella determinazione delle problematiche comportamentali ed emotive: in quest’ottica sia lo sviluppo normale, sia lo sviluppo psicopatologico derivano dall’intreccio di fattori di rischio e fattori protettivi. Tali fattori includono le caratteristiche del bambino (temperamento, funzioni neurocognitive, vulnerabilità biologica), il legame di attaccamento, lo stile educativo familiare e variabili ecologiche (eventi critici, stress sociali, variabili economiche). Più fattori di rischio coesistono, più la probabilità di psicopatologia risulta alta. Una ricerca riporta che nei bambini con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio e disturbo della condotta la probabilità di avere una combinazione di fattori di rischio in tutti e 4 i domini è 34 volte più alta rispetto alla norma (Greenberg, 1999).

I possibili trattamenti dei disturbi dirompenti

Il programma di trattamento sviluppato da Lochman e collaboratori si basa sulle teorie del contextual social-cognitive model (Lochman e Wells-2002), un modello ecologico dell’aggressività in età infantile, che lega il comportamento del bambino a molteplici fattori: il contesto familiare e sociale (problemi del quartiere di residenza, depressione materna, scarso supporto sociale, conflitti genitoriali, basse condizioni socio-economiche) inciderebbe sui problemi esternalizzanti del bambino e li può aggravare influenzando le pratiche educative genitoriali, le abilità sociali e di regolazione emotiva (Lochman et al. 2008); esistono, inoltre, fattori di rischio biologici, tra i quali complicanze neonatali, fattori genetici e temperamentali. Tali fattori possono portare a disturbi della condotta, solo se, combinati con importanti fattori di rischio ambientali, come maltrattamento, stile educativo duro o scarsa guida educativa, rifiuto materno.

A partire perciò da una predisposizione biologica e temperamentale, dalle esperienze nel contesto sociale e all’interno delle relazioni primarie, i bambini con problemi di aggressività sviluppano una modalità distorta e deficitaria di decodifica delle informazioni sociali, con scarsa capacità di analisi degli eventi sociali e in particolare delle intenzioni nella mente dell’altro; tendono a percepire e a valutare i segnali sociali prevalentemente in modo ostile e a reagire in modo aggressivo (Lochman e Dodge, 1994). Mostrano difficoltà nel problem solving interpersonale: fanno fatica a trovare soluzioni adattive ai problemi e considerano l’aggressività una modalità per modulare le emozioni e la strategia maggiormente efficace per regolare le relazioni interpersonali (Lochman e Lenhart, 1993; Lochman e Wells, 2003).

La ricerca si è focalizzata su quali trattamenti risultino efficaci con questi ragazzi. Per i bambini in età scolare (8 – 12 anni) i trattamenti presenti in letteratura si strutturano in sessioni parallele per genitori e per i loro figli e si pongono come obiettivo ridurre i comportamenti aggressivi dei bambini intervenendo anche in modo indiretto sulle competenze socio-relazionali dei genitori (Kazdin, 2003, Eyberg, 2008, Lochman, 2003). In alcuni programmi (Lochman, 2003) lavorano con i genitori per aiutare a riconoscere anche i punti di forza e le qualità del bambino, spesso offuscate dai comportamenti problematici, aumentare il tempo trascorso insieme in attività piacevoli e migliorare la comunicazione familiare. I programmi di parent training rivolti ai genitori hanno diverse prove di efficacia nel ridurre il rischio di comparsa di nuovi comportamenti antisociali (Woolfenden e Peat, 2002).

Un aspetto poco chiaro in letteratura è se risulti più efficace un trattamento individuale o di gruppo. Van Manen (2004) riporta che il percorso di gruppo risulta efficace nel diminuire i comportamenti aggressivi rispetto a un percorso individuale. Le attività che vengono svolte in gruppo, che mettono in atto la provocazione con attività strutturate e l’attivazione di stati di rabbia, rendono possibile al terapeuta insegnare in vivo tecniche e strategie di modulazione della rabbia, spesso alla base dei problemi comportamentali (Lochman, 2003; Lambruschi, 2004). Dall’altra parte tali situazioni possono generare frustrazione e il rischio è l’apprendimento di strategie e comportamenti disfunzionali tra i membri del gruppo (Dishion, 2003). Le ultime ricerche sostengono l’importanza di stabilire un’alleanza terapeutica basata su un legame affettivo e sulla condivisione degli obiettivi terapeutici (Garland et al. 2008; Lambruschi, 2004).

Il Coping Power Program: un trattamento multimodale per il controllo della rabbia

Il Coping Power Program è un programma multimodale per il controllo e la gestione della rabbia nei bambini di età scolare, sviluppato da Lochman e collaboratori ed è uno dei pochi programmi con caratteristiche di complessità e di provata efficacia nel trattamento dei disturbi del comportamento dirompente in età scolare. Si basa su interventi cognitivo – comportamentali già esistenti e sul modello socio-cognitivo di Dodge (Dodge e Crick, 1994). A partire quindi da un modello ecologico dell’aggressività in età evolutiva e dalla molteplicità dei fattori di rischio implicati, Lochman e collaboratori hanno sviluppato un programma, che prevede un intervento sui bambini e, in parallelo, un intervento sui genitori. Numerosi studi confermano l’efficacia del programma nel ridurre i comportamenti aggressivi e l’abuso di sostanze a distanza di 3 anni (Lochman e Wells, 2004). Altre ricerche mostrano miglioramenti nel locus of control interno e nelle abilità sociali, associati a una diminuzione degli errori attributivi e delle aspettative ostili e a maggiore coerenza delle pratiche genitoriali (Lochman e Wells, 2002).

Il programma del Coping Power Program

Gli obiettivi del Coping Power Program vanno dalla diminuzione dei problemi esternalizzanti e dei comportamenti aggressivi, all’adattamento alle richieste scolastiche e alla creazione di una “rete” di supporto sul territorio.

Il programma si rivolge a ragazzi dai 6 ai 16 anni, con diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio o Disturbo della condotta e si svolge in gruppi di 4/6 partecipanti con caratteristiche generali di età, genere e livello di sviluppo simili; si pone attenzione ad inserire bambini che si atteggiano a “bulli” e che non esprimono nessuna motivazione al cambiamento e bambini che richiedono attenzioni speciali nel lavoro di gruppo.

La parte rivolta ai bambini si struttura in 32 sessioni e prevede l’uso di alcune tecniche cognitivo-comportamentali e attività volte al potenziamento di alcune capacità carenti, quali saper prendere obiettivi a breve e a lungo termine, organizzare lo studio in modo efficace, riconoscere e modulare i segnali fisiologici della rabbia, riconoscere il punto di vista altrui, risolvere in modo adeguato le situazioni conflittuali, resistere alle pressioni dei pari ed entrare in contatto con gruppi sociali positivi.
In programma va poi adattato in base all’età dei bambini selezionati: con i più piccoli si focalizza maggiormente sulla struttura del gruppo, sulla modulazione della rabbia e sul gioco; con i più grandi si focalizza maggiormente sulla comprensione del concetto di prospettiva altrui, sulle abilità di resistere alle pressione dei pari, sulle abilità di rifiuto e sul role-playing.

La parte di parent training si struttura in 16 incontri ed è volta al potenziamento delle abilità quotidiane di gestione dei figli, attraverso la promozione di modalità educative maggiormente funzionali, quali la gratificazione e l’attenzione positiva, a ridurre lo stress genitoriale e familiare e ad aumentare le capacità di problem solving in situazioni conflittuali.

Gli incontri durano circa 60 minuti. Le sessioni sono intervallate da colloqui individuali brevi ogni 4-5 incontri e da incontri di follow-up, fino a 3 anni.
Ogni sessione è strutturata nello stesso modo: si inizia con una verifica degli obiettivi assegnati, si introduce il tema specifico che verrà affrontato durante l’incontro con attività specifiche su quel tema. Terminata l’attività vengono assegnati i punti, eventuali compiti a casa e nuovi traguardi. Si conclude con dei feedback positivi su cosa hanno imparato e facendo i complimenti a se stessi e al gruppo. Gli ultimi 20 minuti sono destinati al gioco libero.

Le tecniche utilizzate nel Coping Power Program

Tra le tecniche utilizzate, il role playing e la possibilità di interazione tra pari sono elementi che favoriscono la generalizzazione delle competenze acquisite al di fuori del setting terapeutico. Il gruppo permette inoltre di fare esperienza in vivo delle competenze acquisite e il rinforzo dei pari e del gruppo si è mostrato molto più efficace di quello dell’adulto in una situazione diadica (Lochman e Lenhart, 1993).

Uno degli aspetti peculiari di questo trattamento è l’inclusione di attività che prevedono un certo grado di attivazione emotiva. Le difficoltà di problem solving di questi bambini sono infatti maggiori proprio quando sono in stato di attivazione emotiva. Il bambino può sperimentare e apprendere tecniche di controllo della rabbia “in vivo”, mentre è emotivamente attivato. Viene simulata una situazione di provocazione: un bambino viene intenzionalmente deriso dal gruppo e mentre lo prendono in giro il bambino si muove sul termometro della rabbia, disegnato su un grande cartellone a terra, allo scopo di graduare il livello dell’emozione. Con l’aiuto del terapeuta il bambino cerca di regolarsi e di utilizzare le autoistruzioni per far fronte alla situazione.

L’obiettivo finale è far lavorare i bambini sulla capacità di autoriflessione, cioè su come pensare in situazioni difficili e attivanti, diventando così un’attività di potenziamento della capacità di mentalizzazione dei bambini che si trovano a riflettere sul rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti e su cosa può risultare utile dirsi o fare per modularsi.
Un altro contesto che è importante coinvolgere nel trattamento per promuovere la generalizzazione delle abilità acquisite è la scuola, dove i problemi si manifestano con importanza e possono contribuire al mantenimento e all’aggravamento dei disturbi della condotta (Hengeller 2003; Lochman, 2003).

Il Coping Power Program in Italia

In Italia, il Coping Power Program è stato introdotto ed adattato dal Servizio per il trattamento dei disturbi del comportamento in età evolutiva ‘Al di là delle Nuvole’ dell’IRCCS Fondazione ‘Stella Maris’ di Pisa, che ha adattato il Coping Power Program al contesto scolastico come programma di prevenzione. I risultati di un primo studio dell’adattamento del programma nelle scuole riportano una diminuzione di comportamenti impulsivi e iperattivi nelle classi che hanno ricevuto il trattamento, minori problematiche di comportamento e un maggior numero di comportamenti pro-sociali (Muratori, Bertacchi, Giuli et al. 2015). Questi programmi favorirebbero lo sviluppo di nuove abilità, aumentando le competenze sociali e diminuendo i comportamenti aggressivi (Mytton et al. 2006).

L’ossitocina nel riconoscimento delle emozioni: il neuropetide “sociale” ha un ruolo nell’imitazione facciale

Alcuni studi hanno mostrato che l’ossitocina (che agisce come ormone ma anche sul cervello come neurotrasmettitore) ha un ruolo nel facilitare la percezione delle emozioni nelle espressioni del viso altrui. Uno studio Internazionale condotto da Sebastian Korb (ricercatore nell’area di neuroscienze della SISSA) ha messo alla prova l’idea che questo fenomeno sia collegato all’imitazione facciale.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Secondo le teorie dell’embodied cognition infatti il riconoscimento delle emozioni altrui è agevolato dalla loro imitazione, e cioè dalla loro riproduzione sul il nostro stesso viso. Lo studio conferma l’effetto di facilitazione, che si dimostra più marcata per le espressioni che veicolano emozioni negative (rabbia, tristezza), specie quando osservate sul viso di un bambino.

L’ossitocina, che funzioni come ormone o neurotrasmettitore, è coinvolta in una serie di importanti funzioni fisiologiche e psicologiche. Per esempio, promuove l’attaccamento materno, la lattazione, il legame fra partner, e la coesione del gruppo, anche se in realtà il quadro è ben più complesso, basti pensare che a volte può paradossalmente stimolare persino comportamenti aggressivi. I risultati sperimentali dimostrano anche che la somministrazione nasale (con uno spray) di ossitocina, rende le persone più disponibili a occuparsi degli altri e più brave a riconoscere le emozioni.

Proprio quest’ultimo effetto ha attirato l’attenzione di Sebastian Korb, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste ed esperto di Facial Mimicry (imitazione facciale): attraverso quale meccanismo avviene la facilitazione del riconoscimento delle emozioni dopo somministrazione di ossitocina? si è chiesto Korb.

Secondo le teorie dell’embodied cognition, la capacità di imitare (rispecchiare) le espressioni emotive del viso di chi ci sta davanti facilita il riconoscimento di quell’emozione. Potrebbe dunque l’ossitocina stimolare l’imitazione?

Per verificare il collegamento fra ossitocina e facial mimicry, Korb e colleghi hanno selezionato un campione di 60 maschi adulti, dove metà del campione riceveva una dose spray di ossitocina e metà una dose spray di placebo (né i partecipanti né l’esperimentatore erano a conoscenza di quale prodotto si trattasse). I soggetti, dopo un lasso di tempo sufficiente perché il farmaco facesse effetto, erano sottoposti ad alcuni test di valutazione e riconoscimento di espressioni emotive presentate in brevi video che ritraevano dei visi adulti o infantili. Mentre eseguivano i test, veniva inoltre registrata la risposta dei muscoli facciali, per misurare l’imitazione facciale.

I risultati hanno mostrato che l’imitazione delle espressioni era più marcata nei soggetti che avevano ricevuto l’ossitocina (rispetto al placebo), e che questo aumento dell’imitazione era soprattutto evidente quando i soggetti osservavano neonati piangere (la collera e il pianto sono difficilmente distinguibili nei neonati).

Il risultato è interessante non solo perché mostra che l’ossitocina ha un effetto modulatorio sull’imitazione facciale, ma anche perché esiste una risposta marcata verso i visi infantili anche nei maschi, mentre si pensava che questo tipo di effetti dell’ossitocina legati ai comportamenti di accudimento fossero tipicamente femminili.

Alla ricerca, pubblicata su Hormones and Behavior hanno partecipato (oltra alla SISSA) l’Università di Ginevra in Svizzera e l’Università del Wisconsin negli Stati Uniti

Interazioni online, relazioni sociali e rischio di phubbing

Le interazioni online e le interazioni tra uomo e tecnologia possono avere differenti dimensioni e finalità, osservabili da diverse prospettive; utilizzando un punto di vista psico-sociale formuleremo alcune considerazioni relative all’effetto delle nuove tecnologie sulle relazioni sociali.

Stefania Fantinelli

 

Human Computer Interaction (HCI) e Computer Mediated Communication (CMC)

Due macro aree di ricerca si interessano del rapporto uomo-tecnologia: la Human Computer Interaction (HCI) e la Computer Mediated Communication (CMC), grazie alle quali è possibile osservare effetti su socializzazione e comunicazione che per alcuni versi si possono ritenere opposti.

È opportuno innanzitutto definire adeguatamente le due aree di studio: Human Computer Interaction è lo studio delle interazioni tra uomo e computer; in modo più specifico, nel 1994 Preece e colleghi ne definirono l’interesse principale nella progettazione di sistemi informatici di supporto alle attività umane, affinché queste ultime possano essere condotte in modo produttivo e sicuro. Oltre alla progettazione e realizzazione di tecnologie cosiddette user-friendly, rientra nel campo di interesse della disciplina anche l’osservazione e la valutazione dell’interazione tra uomo e macchina da un punto di vista inizialmente meramente tecnico-informatico, successivamente anche psicologico, sociale, cognitivo e comportamentale.

Computer Mediated Communication si riferisce a tutte le forme di comunicazione mediate dalla tecnologia e dunque l’interesse di studio è rivolto al mezzo tecnologico utilizzato per la creazione di relazioni sociali ed agli aspetti psicologici e sociali derivanti dalla creazione di questo spazio di interazione (Jones, 1995). Adottando la semplificazione proposta dallo psicologo B. J. Fogg (2003), possiamo dire che l’interesse della HCI è l’interazione dell’uomo con la tecnologia, la CMC tratta invece le interazioni online, interazioni tra individui per mezzo della tecnologia.

 

Differenza tra reale e virtuale

Un’altra definizione da evidenziare è quella relativa alla differenza tra reale e virtuale, online ed offline. Molti autori in molte discipline si sono pronunciati sull’argomento e più di recente alcuni hanno sottolineato l’avvio di un processo di uniformazione e commistione tra i due concetti o le due realtà: i confini tra reale e virtuale diventano sempre più sfocati.

Il filosofo dell’informazione Luciano Floridi ha curato il progetto finanziato dalla Commissione Europea nel 2012, The Onlife Manifesto: Being Human in a Hyperconnected Era. Gli studi condotti all’interno di questo progetto, hanno indagato gli effetti delle tecnologie dell’informazione e comunicazione su diversi aspetti della vita umana: comunicazione, socializzazione, concezione e percezione di sé, concezione ed interazione con la realtà. I risultati evidenziano la presenza di un graduale processo di dissolvenza incrociata tra diversi concetti ritenuti ben distinti fino ad ora, ad esempio tra realtà e virtuale; tra esseri umani, macchine e natura, con riferimento in questo caso alle innovazioni nel campo della nanotecnologia utilizzata per la riabilitazione cognitiva e motoria, creando una profonda commistione e simbiosi tra corpo umano, percezione del sé e tecnologia.

Un’idea simile di fusione tra umano e tecnologico viene espressa anche dal sociologo Derrick De Kerckhove che, nel proseguire i lavori del suo maestro McLuhan, amplia la definizione di psicotecnologie: le tecnologie digitali andrebbero intese come estensione e potenziamento della nostra identità.

 

Le interazioni online nella vita quotidiana e il phubbing

L’interazione con la tecnologia sembra essere una costante nelle nostre vite: facilita la comunicazione, annulla le reali distanze, rende più efficaci e produttive molte delle nostre attività quotidiane, può creare ambienti virtuali immersivi oltre che potenziare o supportare alcune abilità motorie; è d’altro canto inevitabile osservare anche gli effetti negativi che le stesse tecnologie producono in alcuni specifici ambiti della nostra vita.

La nostra sfera sociale e le nostre interazioni online hanno sicuramente beneficiato dei progressi fatti nel campo della CMC, ma da un punto di vista della HCI la nostra continua interazione con un device tecnologico rischia di penalizzare e limitare le nostre abilità di socializzazione e comunicazione. Un esempio quanto mai attuale è il cosiddetto phubbing: termine composto inglese che descrive il fenomeno per cui durante una interazione sociale tendiamo a prestare maggiore attenzione al nostro smartphone piuttosto che al nostro interlocutore (Chotpitayasunondh & Douglas, 2016).

Dalle ricerche fatte dalla psicologa S. Turkle si evince come stiano progressivamente cambiando le nostre quotidiane relazioni vis-à-vis, che risultano impoverite e penalizzate dalla costante presenza di un dispositivo tecnologico spesso umanizzato e investito perfino di un ruolo sociale (Turkle, 2012): lo smartphone è descritto come un confidente, un migliore amico, un oggetto di difesa personale (Cumiskey & Brewster 2012). Turkle lancia un segnale di allarme puntando l’attenzione sul rischio di isolamento sociale – nel mondo reale – e di solitudine dovuto all’eccessivo utilizzo delle nuove tecnologie e alle eccessive interazioni online; ma in aggiunta a questa preoccupazione dovremmo domandarci se la nostra intelligenza emotiva e le nostre abilità di socializzazione ne siano negativamente influenzate.

Nonostante la distinzione tra mondo reale e virtuale sia sempre meno netta e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione esercitino su di noi una sorta di chiamata alle armi (Ferraris, 2015), è innegabile che comportamenti, atteggiamenti e modalità di interazione sociale siano differenti a seconda del tipo di interazione sociale, se diretta o mediata dalla tecnologia; paradossalmente l’interazione con la tecnologia ci rende parte di un network sociale virtuale ed inserisce ostacoli nello sviluppo e nella cura delle nostre relazioni analogiche. Se il cosiddetto phubbing sta progressivamente divenendo un’abitudine diffusa nella nostra società, dobbiamo forse rassegnarci all’idea di relazioni sociali governate da una costante attenzione divisa?

Il ruolo giocato dalla percezione di ricchezza nella psicologia evolutiva e delle relazioni romantiche

Nonostante l’amore sia spesso visto come qualcosa di puro e incondizionato, recenti ricerche hanno evidenziato come il denaro sia un importante fattore in questo ambito, in quanto influisce notevolmente sullo sviluppo delle relazioni romantiche.

 

Infatti un recente studio di Ming Li e colleghi pubblicato su Frontiers in Psychology sottolinea come le nostre scelte romantiche non siano basate solo su sentimenti ed emozioni, ma anche sulla nostra percezione di ricchezza rispetto agli altri.

Come dichiara Darius Chan, uno dei coautori dello studio, lo scopo era quello di ottenere maggiori informazioni relativamente all’importanza psicologica del denaro nel corso dello sviluppo di relazioni sentimentali. Più nello specifico, l’obiettivo era quello di esaminare come la percezione di ricchezza influenzi le strategie di accoppiamento in contesti a lungo termine e a breve termine nel quadro della psicologia evolutiva.

Sono stati condotti due esperimenti su un campione di studenti universitari cinesi coinvolti in relazioni eterosessuali a lungo termine. A ciascuna coppia sono state ‘sperimentalmente innescate’ autopercezioni di ricchezza o povertà. I ricercatori hanno utilizzato il metodo money-priming usato da Nelson e Morrison per indurre la sensazione, nei partecipanti, di sentirsi ricchi o poveri. I partecipanti sono stati assegnati in modo casuale alla condizione ricco o povero e sono stati invitati a rispondere ad alcune domande circa lo stato finanziario. Le scale di risposta sono state rese appositamente diverse nelle due condizioni. Per esempio, nell’item riguante la quantità di denaro nei conti di risparmio, i partecipanti nella condizione ricchi hanno fornito valutazioni su una scala di 7 punti, divisi in valori molto bassi (ad esempio, da 1 ‘RMB0-RMB250‘ a 7 ‘oltre RMB500‘) rispetto a quelli nella condizione poveri (ad esempio, da 1 ‘RMB0-RMB2000‘ a 7 ‘oltre RMB12000‘). Tale metodo è stato utilizzato con lo scopo di esaminare successivamente i pensieri e comportamenti dei partecipanti legati all’accoppiamento.

I risultati del primo esperimento hanno dimostrato che gli uomini che possedevano una autopercezione di ricchezza presentavano una scarsa soddisfazione per quanto riguarda l’attrazione fisica nei confronti delle loro partner rispetto a coloro che possedevano una autopercezione di povertà, ed erano inoltre interessati maggiormente a relazioni a breve termine rispetto che a lungo termine. Ciò suggerisce che la sensazione soggettiva di avere più o meno soldi può influenzare le preferenze degli uomini per quanto riguarda l’aspetto fisico di una compagna in un rapporto a lungo termine. È interessante sottolineare che per quanto riguarda le donne questa differenza, invece, non era significativa.

I risultati del secondo esperimento hanno invece dimostrato come sia gli uomini che le donne che presentavano una autopercezione di ricchezza trovavano più facile interagire con un soggetto di bell’aspetto del sesso opposto, rispetto a coloro che avevano una autopercezione di povertà. Questi dati suggeriscono come le persone che sentono di avere soggettivamente più soldi provino maggiore interesse nei confronti di un partner alternativo a quello attuale, rispetto a coloro che pensano di possedere meno soldi.

Complessivamente, come illustra Chan, è stato osservato che gli uomini con elevata autopercezione di ricchezza attribuiscono una maggiore importanza alla bellezza fisica, preferendo impegnarsi in relazioni sentimentali a breve termine piuttosto che a lungo termine. Per le donne invece il denaro gioca un ruolo meno influente, in quanto porta a un numero inferiore di variazioni nelle strategie di scelta del partner e di  accoppiamento. Questo perché la perdita di un rapporto a lungo termine per una a breve termine comporta un elevato costo in termini di riproduttività.

Tali differenze legate all’autopercezione di possedimento di denaro tra i due sessi supportano l’ipotesi evolutiva secondo cui gli individui adottano strategie di accoppiamento in risposta alle condizioni ambientali, andando quindi a confermare gli effetti causali della percezione della propria ricchezza materiale sulle strategie di accoppiamento.

Anche se lo studio è stato applicato ad una specifica cultura, questi meccanismi psicologici giocano un ruolo importante nell’ambito dell’accoppiamento umano in termini generali. Infatti gli autori si aspettano che i risultati ottenuti possano essere replicati anche in altre culture.

Concludendo è possibile quindi affermare che si tratta di risultati importanti in quanto possiedono implicazioni sia concettuali che pratiche per quanto riguarda il campo della psicologia dell’evoluzione e delle relazioni romantiche.

Le vie dei canti interrotti: effetti transgenerazionali del trauma negli australiani aborigeni

Gli studi condotti da Judy Atkinson sugli esiti dalla violenza coloniale verso le popolazioni aborigene testimoniano che il trauma collettivo, se non curato, può divenire trauma storico. Gli effetti del trauma possono cioè propagarsi seguendo un processo di trasmissione transgenerazionale.

 

Il trauma collettivo: gli effetti transgenerazionali del trauma

[blockquote style=”1″]Gli aborigeni credono che una terra non cantata sia una terra morta: se i canti vengono dimenticati, infatti, la terra ne morirà.[/blockquote] (Bruce Chatwin, 1987. Le vie dei canti)

Ci sono voluti soltanto due secoli di colonialismo europeo per decimare il popolo che ha abitato il continente australiano per circa 40.000 anni. Due secoli di attività di frontiera, espropriazioni ambientali, proselitismo culturale e religioso, che hanno sottoposto le popolazioni aborigene all’esperienza del trauma collettivo, definito da Kai Erikson (1976) come [blockquote style=”1″]un colpo ai tessuti di base della vita sociale che ne danneggia intimamente i legami[/blockquote] (p. 233) interrompendo così il senso del “noi” che è prevalente in ogni comunità indigena.

Gli studi condotti da Judy Atkinson (Southern Cross University, Australia) sugli esiti dalla violenza coloniale verso le popolazioni aborigene testimoniano che il trauma collettivo, se non curato, può divenire trauma storico. Gli effetti del trauma possono cioè propagarsi seguendo un processo di trasmissione transgenerazionale (Atkinson 2002).

Lavori analoghi confermano che altri popoli indigeni come gli Yup’ik di Alaska, gli indiani Navajos e Athabaskan, i nativi hawaiiani e i Maori della Nuova Zelanda, condividono l’esperienza traumatica causata dall’imposizione di una “nuova visione” del mondo non congruente con quella d’origine. Queste popolazioni condividono tra loro tassi di suicidio, alcolismo, violenza e morti accidentali significativamente superiori rispetto alle relative popolazioni non-native (Salzman & Halloran 2004), esiti, questi, specifici del trauma storico, ossia del danno emotivo e psicologico che si tramanda lungo le generazioni di popoli colonizzati (Muid 2006, p. 36).

Come si trasmette il trauma di generazione in generazione

Per spiegare il fenomeno, Matte Blanco (in Levine 2007) ha sviluppato uno schema di trasmissione del trauma transgenerazionale in base ad osservazioni effettuate attraverso cinque generazioni del Sud America.

1° generazione. I maschi del popolo conquistato sono stati uccisi, imprigionati, ridotti in schiavitù o in qualche modo privati ​​della possibilità di provvedere alle proprie famiglie.

2° generazione. Per compensare la perdita d’identità culturale e un basso livello di autostima, molti uomini iniziano ad abusare di alcol e/o droghe. La risposta dei governi a questo fenomeno non sempre è efficace e passa attraverso risposte severe di proibizione dell’assunzione di sostanze, non supportate da un programma di riabilitazione e sostegno specifici per le dipendenza.

3° generazione. Gli effetti intergenerazionali della violenza si manifestano con una maggiore prevalenza di violenze intra-familiari. La risposta dei governi per prevenire la violenza sui minori passa attraverso l’allontanamento di questi dalle loro famiglie, spesso assegnando loro nuclei familiari surrogati non indigeni.

4° generazione. Il trauma si ripresenta sotto forma di violenza intra-familiare, esattamente nella forma con cui si è presentato nella 3° generazione.

5° generazione. In questa generazione il ciclo della violenza si ripete, aggravando il trauma originario con un sempre più crescente disagio sociale.

Lo schema è stato successivamente applicato da Atkinson per spiegare gli effetti transgenerazionali degli eventi traumatici sulle popolazioni aborigene australiane. Eventi originariamente causati dalla violenza coloniale, come epidemie “accidentali”, massacri, morti per inedia e reclusione forzata in riserve, hanno condotto, nell’arco di sei generazioni, a un incrementale aumento del tasso di violenza, abuso e di disgregazione della famiglia.

 

L’epigenetica per spiegare il trauma transgenerazionale

Le teorie del trauma transgenerazionale trovano sostegno nelle più recenti scoperte dell’epigenetica, secondo cui questo si trasmetterebbe alle future generazioni non soltanto attraverso l’esperienza, ma anche attraverso mutazioni a carico del DNA, con una maggiore probabilità di sviluppare disturbi stress-correlati a causa di ridotti livelli di cortisolo, l’ormone dello stress che permette al corpo di stabilizzarsi velocemente dopo un trauma (Yehuda et al 2015).

Nel suo lungo lavoro a contatto con le popolazioni indigene dell’Australia del nord, Atkinson ha formulato programmi di cura mirati a interrompere la catena epigenetica del trauma storico. Nel suo libro “Trauma Trails: Recreating Song Lines” (2002), Atkinson descrive programmi di cura fondati su un modello di cura graduale basato sulla pratica del “dadirri”.

In lingua aborigena, la parola “dadirri” significa “ascolto interno e consapevolezza contemplativa”. “Dadirri” è un’esperienza reiterativa di ascolto non giudicante. Nel “dadirri”: “conoscersi è respirare insieme. Respirare insieme è ascoltarsi profondamente. Ascoltarsi profondamente è connettersi l’un l’altro”. I programmi di Atkinson sono basati sulla pratica del “dadirri” con il fine di incoraggiare così il pensiero astratto, facilitare la regolazione emotiva e l’integrazione somato-sensoriale, verso una riattivazione della vitalità dell’individuo.

Il modello di cura proposto da Atkinson non ricalca la modalità coloniale d’imposizione della cultura occidentale, ma si costituisce a partire dalle stesse radici culturali della popolazione cui sono rivolte, partendo dall’assunto secondo cui la cura dei legami interrotti passa attraverso il linguaggio, le credenze, i rituali e le tradizioni del popolo che è stato intimamente ferito, fino a tessere di nuovo la trama di quel ciclo di significati condivisi interrotto che è caratteristico del trauma collettivo.

Germania: nuove strade per la sperimentazione di un vaccino contro i tumori

Nel seguente articolo verrà illustrata la recente ricerca, eseguita in Germania, sul primo vaccino universale contro il tumore che, effettuato su tre pazienti, ha prodotto una forte risposta immunitaria. Si sottolinea come queste ricerche promettono buoni risultati, ma sono ancora sperimentazioni.

 

Lo studio, riportato sulla rivista scientifica Nature (J. D. Vries, C. Figdor, 2016), è stato condotto dagli esperti dell’Università Johannes Gutenberg di Mainz (Magonza). La nuova tecnica sperimentata istruisce il sistema immunitario ad attaccare i tumori e sembra proprio aver dato esiti positivi sui tre pazienti ai quali è stata somministrata.

Il modus operandi è il seguente: somministrando un vaccino – prima nei topi e successivamente in tre malati di melanoma avanzato – costituito da una capsula rivestita di liposoma contenente RNA, si attivano le cellule del sistema immunitario del paziente al fine di generare una risposta immunitaria contro il tumore.

Sulla rivista Nature viene spiegato che il vaccino è iniettato endovena e raggiunge i distretti immunitari del corpo, quali milza, linfonodi e midollo osseo, dove si attiva una risposta immunitaria contro il tumore e che tale risposta è sostenuta nel tempo.

Nello specifico l’innovazione riguarda la capsula contenente gocce di grasso, il liposoma, che veicola il vaccino stesso raggiungendo spontaneamente i distretti immunitari del corpo del paziente. Una volta giunto a destinazione, questa capsula viene ingoiata dalle cellule dendritiche che leggono le istruzioni dell’RNA e le traducono in un antigene tumorale specifico che direziona le difese immunitarie direttamente contro il tumore.

Non bisogna dimenticare che questo dato clinico è preliminare e che potenzialmente è un metodo nuovo di vaccinazione che, cambiandone il contenuto all’interno della capsula, può essere applicato a diversi tipi di tumore.

Bisogna dunque essere cauti, come commenta l’esperto di melanoma Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Immunoterapia Oncologica dell’ Istituto Nazionale dei Tumori Pascale di Napoli:

Un approccio interessante e innovativo ma adesso è ancora troppo presto per parlare di un vaccino terapeutico per i tumori (Adriana Bazzi, 2016).

Mario Santimani, direttore della struttura Complessa di Chirurgia Melanoma e Sarcoma dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano, dopo aver ribadito come sia tutto ancora a livello sperimentale, ha commentato che questa sembra essere la strada giusta in quanto:

Il vaccino non agisce più per distruggere le cellule della malattia, ma educa il sistema immunitario a combattere il tumore. Però, prima di dire che il vaccino c’è, calma, aspettiamo la sperimentazione clinica. E per quella ci vorranno almeno due anni, anche perché bisogna avere il tempo di testare la capacità di sopravvivenza dei pazienti (M. Sorbi, 2016).

Anche il ricercatore che ha condotto lo studio, Ugur Sahin, è cauto circa gli esiti finali.

Spiega, infatti, all’Ansa che:

Per ora, abbiamo ancora una evidenza clinica limitata, poiché abbiamo testato il vaccino su soli tre pazienti. Comunque questi sono rimasti stabili, il che significa che i loro tumori hanno smesso di crescere dopo la vaccinazione e per tutto il periodo di osservazione. Nel 2017 testeremo il vaccino su altri pazienti con diversi tipi di tumore (Ansa, 2016).

Per cui, consci dell’essere sulla buona strada contro i tumori, il prossimo passo è quello di modificare il cuore del vaccino con nuovi RNA antigeni.

Emdr e disturbi dell’ alimentazione. Tra passato, presente e futuro (2015) di Marina Balbo – Recensione

Quello della Balbo rappresenta il tentativo, ben riuscito, di teorizzare come EMDR e disturbi dell’alimentazione si uniscano, proprio utilizzando l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (DCA). 

 

EMDR e disturbi dell’alimentazione: una cura possibile

Il merito di questo testo è quello di essere uno dei primissimi che, in contesto italiano, ha formalizzato come si utilizza il trattamento EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) con i pazienti che soffrono di un disturbo alimentare. Ed è praticamente immediato il passaggio all’azione: nei casi clinici presentati sin da subito è percepibile la sofferenza che questi pazienti vivono, così come i risvolti durante e dopo l’elaborazione messa in atto da una tecnica come l’EMDR.

L’affermarsi di questo approccio in Italia e nel mondo (ad oggi più di 120.000 clinici utilizzano questa terapia) dà una misura dei vasti campi di applicazione e quello della Balbo rappresenta il tentativo, ben riuscito, di teorizzare come EMDR e disturbi dell’alimentazione si uniscano, proprio utilizzando l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare (DCA).

Questa patologia, oggi in continuo sviluppo, colpisce fasce di popolazione sempre più giovane e diventa fondamentale contestualizzare questo disturbo ai giorni nostri, tenendo in considerazione gli stereotipi di magrezza che la società ci presenta, l’importanza sempre maggiore attribuita all’immagine corporea fino al valore che diamo al cibo. Sono parole prese a prestito dall’autrice quelle che affermano che l’essenza della vita sociale ruota attorno a piatti, tazze e bicchieri: dalla colazione in famiglia, al caffè con i colleghi, da un pranzo d’affari a una cena romantica o altre mille occasioni dove a tavola, si costruiscono e si consolidano le relazioni.

Il bisogno esistenziale di nutrirsi per l’uomo è indiscutibilmente diventata un’occasione di relazione e di scambio ma non per tutti vale questa convivialità: il cibo può diventare un nemico, condizionare l’esistenza di chi lo vive sulla propria pelle e di chi, genitori, familiari e non, si trova a fianco di chi soffre di un DCA.

Il paradigma EMDR, che Francine Shapiro ha ideato, parte dall’idea che le manifestazioni sintomatiche, inclusi quindi i disturbi alimentari, dipendono da passate esperienze traumatiche che innescano un modello di comportamenti, cognizioni ed emozioni, che causano una spirale di sofferenza acuta. Fondamentale diventa così andare a recuperare nell’ambito di una relazione di cura, quella terapeutica, quali traumi nella forma di esperienze, emozioni, odori e rumori e cognizioni, il soggetto ha vissuto.

Rispetto ai disturbi alimentari la Balbo ci offre una panoramica di quelli che sono una serie di variabili che hanno contribuito all’eziopatogenesi del disturbo e che concorrono al mantenimento. Distingue dunque 3 tipi di fattori legati alla presenza di un disturbo alimentare: fattori predisponenti (rischi genetici, meccanismi regolatori della fame e della sazietà, cultura e società, variabili individuali, storia di attaccamento), fattori precipitanti (pubertà, cambiamenti di vita e scelte come scuola superiore, università, critiche negative sul proprio aspetto fisico, lutti, dieta rigida, trauma, abuso sessuale) e fattori perpetuanti (egosintonia del disturbo e altre differenti variabili che contribuiscono a far sì che il paziente voglia mantenere una atteggiamento di controllo verso il cibo).

 

EMDR e disturbi dell’alimentazione: correlazione tra esperienze traumatiche e DCA

Prima di entrare nel dettaglio di quelle che sono le varie fasi, esattamente 8, del trattamento EMDR per cui è necessario fare un training specifico che rilascia un attestato che certifica la competenza in tale ambito, la Balbo parte da quelle evidenze scientifiche che hanno presentato la possibile correlazione tra le storie caratterizzate da esperienze traumatiche, legate in particolare a maltrattamenti fisici e violenza sessuale, e lo svilupparsi dei disturbi dell’alimentazione (Putnam, 2001; Van Gerko et al., 2005).

Sembra che quella serie di comportamenti disfunzionali messi in atto dai pazienti giochino un ruolo di protezione dai ricordi traumatici intrusivi e fungano da modulatori dell’ansia e di altre emozioni invalidanti. Rabbia, vergogna, impotenza, creerebbero un pericoloso circolo vizioso (Molinari, 1999).

Altri autori (Schwartz e Gay, 1986) hanno descritto le funzioni adattative dei sintomi da DCA come ristoro, nutrimento, intorpidimento, distrazione, bisogno di aiuto, ribellione, liberazione dalla rabbia, contenimento della frammentazione sensoriale, dissociazione da pensieri intrusivi. La Balbo cita gli studi di McManus (1996) e Meyer (2000) rispetto alla relazione tra dissociazione e disturbi dell’alimentazione: quello che avviene nell’abbuffata identificherebbe uno stato di fuga dalla coscienza, uno stato dissociativo appunto.

Recenti studi (van der Kolk et al., 2005; Chu, 2010; Lanius et al., 2010; Liotti e Farina, 2011) confermano invece che  la perdita di integrazione che porta ad uno stato dissociativo non investe esclusivamente lo stato di coscienza e la coscienza di sé ma si estende al controllo degli impulsi e delle emozioni, allo schema e all’immagine corporea, alla capacità di riflettere sugli stati mentali propri e altrui, alla coerenza nelle visioni di sé e nelle narrazioni autobiografiche e all’appiattimento emotivo post-traumatico.

Nella prima fase, quella di anamnesi e raccolta della storia del paziente, il terapeuta fa una raccolta di tutte le informazioni necessarie per avere un quadro clinico che sia dei più completi per identificare i target adeguati al trattamento (Fernandez, 2006). In questo senso la Balbo si concentra sui ricordi che hanno contribuito all’organizzazione della vergogna che, come emozione sociale a valenza significativa, riveste e gioca un ruolo significativo sul benessere e sull’equilibrio della persona.

Citando Doran e Lewis (2011) che l’hanno definita come un’emozione che si attiva nel momento in cui gli individui giudicano se stessi come imperfetti, brutti o inferiori, la vergogna favorirebbe una bassa autostima e un senso di inferiorità e impotenza.

Altri autori (Hayaki et al., 2002) si sono focalizzati invece su come le emozioni negative, inclusa la vergogna, giochino un ruolo fondamentale nello scatenare la sintomatologia e collegano la vergogna ai sintomi caratteristici della bulimia dove le abbuffate rappresenterebbero delle strategie di coping per fronteggiare gli stati d’animo negativi. La vergogna dunque fungerebbe sia da trigger (causa scatenante) che da predittore dell’abbuffata.

La ricerca della perfezione e del controllo che sta alla base della sintomatologia dei disturbi del comportamento alimentare potrebbe avere origine proprio dalle prime esperienze di vergogna. I comportamenti disfunzionali correlati ai disturbi dell’alimentazione avrebbero pertanto un ruolo nell’interruzione di questi ricordi traumatici intrusivi e nella modulazione di emozioni negative di vergogna, rabbia e impotenza.

Il tema della vergogna avrebbe un risvolto cruciale: affacciarsi su questa emozione rappresenterebbe la possibilità di scovare uno dei trigger che hanno scatenato il circolo vizioso di condotte alimentari disfunzionali e dolorose. Quello della Balbo è un testo concreto che dà una panoramica assortita e variegata delle dinamiche emotive che si celano nei disturbi dell’alimetazione e quali risvolti ne conseguono, quali rielaborazioni attraverso il trattamento con EMDR.

L’autrice offre il suo contributo personale, frutto di esperienza e competenza nel campo dei disturbi dell’alimetazione, che è anche misura delle difficoltà e del dolore che questi pazienti vivono ma contemporaneamente possibilità concreta di trattamento che persegue la strada della cura.

Il quadro è ampio dentro l’ampio spettro di un disturbo del comportamento alimentare e, al di là di diagnosi categoriali, l’idea è quella che si possa riuscire a maneggiare la sofferenza di queste pazienti, il dolore viene trattato e rielaborato.

Le tecniche EMDR permettono di attivare quell’innato sistema di elaborazione delle informazioni traumatiche da parte del cervello (Fernandez, 2006) e il taglio concreto che l’autrice ha dato al testo ci dà la possibilità di cogliere quale difficoltà può sperimentare un terapeuta che si occupa di questo tipo di sofferenza. L’EMDR offre delle possibilità, una, quella di trattamento per lo psicoterapeuta e l’altra, quella della cura per i pazienti, perché un disturbo del comportamento alimentare è trauma, è condotta distorta e disfunzionale, è sofferenza che limita e condiziona.

Il potere dei social media nell’indurre l’uso di alcool

Uno dei poteri innegabili dei social media è la loro capacità di influenzare le persone e i loro comportamenti. Questo è particolarmente vero quando si tratta dell’uso di alcol.

Lo studio

I ricercatori dell’Università del Michigan hanno scoperto che quando gli individui venivano esposti ad annunci pubblicitari sulla birra, in opposizione ad annunci che pubblicizzavano acqua in bottiglia, erano più inclini a pensare di bere alcolici.

L’obiettivo di questo studio era valutare se la sola esposizione a messaggi pubblicitari sull’alcol attraverso i social creasse una differenza nell’esprimere l’intenzione di consumare alcolici da parte dei partecipanti o nella volontà di impegnarsi in comportamenti connessi al consumo di alcol.

Nello studio, 121 partecipanti sono stati esposti agli annunci pubblicitari su Facebook, un gruppo ha visualizzato annunci su una determinata marca di birra, mentre l’altro gruppo è stato esposto ad una pubblicità di acqua in bottiglia. Alla fine dello studio, come incentivo per la partecipazione alla ricerca, i partecipanti potevano scegliere una tra le due carte regalo offerte, una per un bar e l’altra per un negozio di caffè.
Dei partecipanti che hanno visto l’annuncio della birra, il 73 per cento ha scelto la carta regalo per il bar. Di quelli che hanno visto l’annuncio sull’acqua, circa il 55 per cento ha scelto la tessera regalo bar.
Questo suggerisce che c’è un effetto, un’influenza e che può essere attribuito alla pura e semplice esposizione a messaggi pubblicitari che innescano nei partecipanti il pensiero dell’alcol.

Discussione e conclusione

Tale studio solleva ulteriori future domande ed approfondimenti sui social media e la loro capacità di influenzare le persone, in particolar modo rispetto al consumo di alcol nei minorenni.

Inoltre, i messaggi inerenti l’ alcol sono spesso mascherati ed inviati tramite i messaggi personali su Facebook. Una persona può inviare o pubblicare una foto di se stesso mentre sta bevendo un drink in un bar, senza pensare che, ad esempio suo nipote di tredici anni potrebbe visionare tale foto!

Queste attività e comportamenti che noi tutti effettuiamo sui social media sono ormai automatici ed abituali. Purtroppo, molto spesso non si prendono in considerazione le conseguenze di tali azioni, come la sottile promozione e persuasione al consumo di alcolici nei minorenni o al mettersi alla guida sotto l’influenza dell’alcol.

Tutto ciò è parte di un problema più ampio, in quanto vi è poca o nessuna regolamentazione in merito alla pubblicità e al marketing dell’alcol sui media. Su Facebook, una persona è obbligata ad indicare la sua età, ma questo non implica che tali dati siano veritieri.
I propositi futuri potrebbero essere quelli di limitare tale contenuto ai giovani minorenni verificando più accuratamente la veridicità dei dati e creando regole più specifiche in merito a questo delicato tema che potrebbe prendere in causa ciascuno di noi.

Crescere in ambienti domestici violenti aumenta il rischio di suicidio nell’età adulta

Una persona su sei che nell’infanzia ha sperimentato un ambiente domestico violento ha poi tentato il suicidio in età adulta. È ciò che ha rivelato un nuovo studio dell’Università di Toronto.

 

La ricerca

La ricerca ha mostrato che la prevalenza di tentativi di suicidio nell’arco di vita tra soggetti adulti è del 17,3% per le vittime di violenza domestica cronica genitoriale rispetto al 2,3% di coloro che non hanno vissuto tale avversità. Questa forma di violenza è intesa come “l’aver visto o sentito i genitori, il patrigno o la matrigna, o gli eventuali tutori colpirsi, picchiarsi o aggredirsi gli uni con gli altri o con altri adulti”; la violenza è stata definita “cronica” qualora fosse occorsa più di 10 volte prima che l’intervistato compisse 16 anni.

Anche chi ha subito in prima persona maltrattamenti durante l’infanzia ha più facilmente tentato il suicidio: il 16,9% di coloro che hanno subito abusi sessuali e il 12,4% di coloro che sono stati abusati fisicamente hanno concretamente tentato il suicidio almeno una volta nella loro vita.

 

Il campione

I dati provengono dall’analisi di un campione rappresentativo della popolazione canadese composto da 22.559 soggetti, le cui informazioni sono state ricavate dal Canadian Comunity Health Survey-Mental Health (CCHS-MH) relativo all’anno 2012. Si tratta di un’indagine trasversale i cui partecipanti, dai 18 anni in su, hanno fornito informazioni personali relative all’aver tentato il suicidio e all’aver sperimentato condizioni in infanzia di abuso sessuale, abuso fisico o violenza domestica genitoriale.

 

Le interpretazioni

I ricercatori hanno ipotizzato che la correlazione tra violenza domestica cronica e successivi tentativi di suicidio in età adulta potesse essere spiegata da altre variabili come l’aver subito abusi sessuali o fisici in infanzia o dall’emergere di condizioni di salute particolari come malattie mentali o abuso di sostanze.

Una storia di Disturbo Depressivo Maggiore, infatti, sembra quadruplicare le probabilità di tentare il suicidio. Una storia di disturbi d’ansia, abuso di sostanze e/o sofferenza cronica invece sembra raddoppiarle. Questi quattro fattori contribuiscono solo per il 10% all’associazione tra tentativo di suicidio e violenza domestica genitoriale, ma per ben il 50% all’associazione tra tentativo di suicidio e abusi sessuali o fisici subiti durante l’infanzia.
La professoressa Esme Fuller-Thomson, autrice principale della ricerca, suggerisce un’importante riflessione: [blockquote style=”1″]Quando la violenza domestica si cronicizza in un nucleo familiare, c’è un rischio di effetti negativi a lungo termine per i bambini, anche quando non sono i bambini stessi ad essere abusati (come nel caso della violenza domestica tra genitori). Gli ambienti domestici caotici gettano una lunga ombra sullo sviluppo del bambino. I lavoratori del sociale e i professionisti della salute devono continuare a lavorare in modo vigile per prevenire le violenze domestiche e dare supporto ai sopravvissuti di questi abusi e ai loro figli.[/blockquote]

Elizabethtown (2005) di Cameron Crowe – Recensione del film

Elizabethtown è una piccola città del Kentucky e anche il titolo del film/commedia di Cameron Crowe uscito nel 2005.

 

Tra i protagonisti, nella loro meravigliosa diversità, troviamo Drew, interpretato da Orlando Bloom, fautore della rovina dell’azienda di note scarpe per cui lavora, e Claire, la bellissima e bravissima Kirsten Dunst, giovane e ottimista hostess che, dopo alcuni incontri e interminabili telefonate, gli farà vedere il mondo sotto un’altra prospettiva.

Una trama che gioca sul tempo, il tempo giusto, il tempo perso; gli incontri, il rincontrare, il trovarsi. Lo stesso giorno che Drew perde il lavoro riceve anche la notizia della morte del padre. Torna a casa e scopre che dovrà andare ad Elizabethtown per contrattare le disposizioni per la sepoltura e la cerimonia funebre con i parenti del ramo familiare del defunto, nel Kentucky, dove questo si trovava il giorno della dipartita.

Durante il volo verso Louisville, Drew incontra Claire, il volo è deserto e i due fanno conoscenza. Lei gli darà le indicazioni per arrivare nella vicina Elizabethtown, ai saluti farà il primo, dei diversi finti scatti fotografici. Fissa cosi, Claire, i momenti importanti, istantanee che tutti noi in qualche modo fissiamo nella mente nei momenti significativi della nostra vita. Il gesto del click c’è, lo esplicita e nel vederlo ci fa sorridere, in qualche modo tira fuori qualcosa di cui siamo a conoscenza, che capiamo o a cui forse dovremmo dare più peso.

Arrivato ad Elizabethtown, il Drew strutturato, quello che ha costruito un immagine e una personalità fatta di aspettative create dagli altri, quello che per via del lavoro ha perso momenti, persone e tempo, scomparirà lasciando il posto ad una persona tutta nuova, gettando uno sguardo finalmente reale e sincero sulla vita, aiutato dalla spensierata Claire, che lo supporterà anche nell’elaborazione del lutto e soprattutto nel superare il rimpianto di non aver più la possibilità di passare del tempo, dato troppo per scontato, con il padre.

Perdere una persona cara ci mette di fronte uno specchio. Oltre al dolore che si prova per l’assenza, prematura o attesa che sia, le emozioni che ci invadono sono tantissime e diversissime e alla fine facciamo i conti con noi stessi. Quanto abbiamo dato? Siamo o siamo stati sinceri con il nostro io più profondo? Quanto tempo perdiamo dietro sciocche dinamiche abitudinarie o litigi superflui? Quanto diamo per scontate certe cose o quanto le rimandiamo?

Il processo di elaborazione del lutto viene è suddiviso in quattro fasi:

  1. Negazione
  2. Rabbia
  3. Depressione
  4. Accettazione

Nella prima fase il soggetto manifesta uno stato di calma apparente determinata dalla negazione della realtà, reprime le emozioni; quando la persona che ha subito la perdita raggiungerà una sorta di sicurezza consapevole si lascerà andare anche emotivamente (Parkes, 1980). Invaderà il bisogno fisico e psicologico dell’oggetto perduto, si comincerà a pensare in modo ossessivo agli eventi che hanno condotto al distacco.

Si arriverà cosi in qualche modo alla negazione della realtà, troppo dolorosa da accettare. Durante questa fase potrebbe comparire anche un’ideazione suicidaria determinata dalla voglia di un ricongiungimento con la persona morta (Kast, 1996).

In un secondo momento, quando comincia a farsi strada la consapevolezza dell’inevitabilità del distacco, subentra la collera per l’abbandono subito; la rabbia, la seconda fase ed è fondamentale per la ristrutturazione interna della persona che ha subito la perdita.

La terza fase, lo stato di depressione è la fase in cui il soggetto si sente svuotato, senza più confini sicuri (Parkes, 1980).

L’ultima fase è l’accettazione si prende atto di qualcosa che non si può modificare, che non si può far altro che accettare.

Le fasi del lutto sono intensamente riassunte tutte nelle scene finali del film, nel viaggio di ritorno in parallelo con il sorgere di un nuovo Drew, destrutturato e pronto ad una nuova vita con un efficace colonna sonora e un buon montaggio che sottolinea quest’intenzione.

Elizabethtown (2005) TRAILER:

 

Diagnosi di Infertilità: come affrontare un percorso di Procreazione Medicalmente Assistita

La diagnosi di infertilità interessa un numero sempre maggiore di coppie negli ultimi anni e va vista in un’ottica bio-psico-relazionale. La coppia affronta un periodo di forte stress al quale si chiede di adattarsi. È una ferita dolorosa, che colpisce sia il singolo individuo che la coppia.

Camilla De Nadai – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi di Milano

 

Le emozioni prevalenti possono essere senso di colpa e vergogna. La colpa può essere associata a pensieri quali ‘disubbidisco alla legge divina del crescete e moltiplicatevi, perdita di potere virile nell’uomo e potere di maternità nella donna‘. La vergogna invece può essere collegata a ‘non sono normale, non sono come gli altri, non posso generare quel figlio desiderato dal mio partner o il nipotino desiderato dai  genitori’.

 

Diagnosi di infertilità e Procreazione Medicalmente Assistita

Dopo la comunicazione di diagnosi di infertilità, spesso viene proposto alla coppia un percorso di procreazione medica assistita (PMA), ma nella comunicazione non viene considerato, nella maggior parte delle cliniche, l’aspetto emotivo di tale peso.

Da qui inizia un ulteriore stress per la coppia e per i singoli individui: l’incertezza. Iniziano un percorso, carico emotivamente, senza sapere come andrà a finire. Non si può sapere se otterranno una gravidanza dopo un primo trattamento, dopo sei o mai.

È importante quindi che la coppia sia supportata psicologicamente in questo lungo e difficile periodo in cui elevati stati d’ansia e depressione sono presenti. Uno studio recentissimo ha mostrato come siano poche le coppie che si rivolgono ad un centro di salute mentale per affrontare tale difficoltà, sottolineando l’importanza che bisognerebbe dare agli aspetti psicologici (Pasch, Holley, Bleil, Shehab, Katz, Adler,  2016).

Ecco perché potrebbe essere utile introdurre all’interno dei protocolli medici di procreazione medica assistita interventi di questo tipo.

Uno studio ha mostrato come tra tutte le coppie che si sono sottoposte a tecniche di procreazione medica assistita, si sviluppano sintomi depressivi solo in quelle che vivono i fallimenti come non risolvibili e inevitabili. Ciò dimostra come interventi psicologici mirati a ristrutturare i pensieri disfunzionali legati alla diagnosi di infertilità, potrebbero aiutare la coppia a raggiungere un livello maggiore di benessere, anche nel caso in cui l’esito del trattamento fosse negativo (Galhardo, Moura-Ramos, Cunha, Pinto-Gouveia, 2015).

 

L’importanza degli interventi psicologici nel percorso di Procreazione Medica Assistita

Per verificare tale ipotesi, si possono osservare i risultati di una ricerca effettuata in Texas, dove coppie che sono state sottoposte a fecondazione in vitro (FIV), hanno svolto un breve percorso di sostegno psicologico di gruppo con cadenza bisettimanale. A tutti i soggetti sono stati somministrati sia prima che dopo la partecipazione al gruppo, questionari che indagano la depressione (Beck Depression Inventory), l’ansia (Beck Anxiety Inventory), l’ottimismo e pessimismo (Life Orientation Test) e le credenze irrazionali.

Rispetto ai soggetti del gruppo di controllo, che non hanno partecipato ai gruppi, si nota che chi ha partecipato al gruppo, dopo il trattamento psicologico, era meno ansioso in seguito al trattamento di fecondazione in vitro, rispetto a prima. In particolar modo, gli uomini erano più ottimisti e le donne avevano minori idee irrazionali disfunzionali. Questo studio ci dimostra quanto sia possibile, in caso di infertilità, trarre beneficio da un aiuto psicologico durante questo percorso molto difficile (McNaughton-Cassill, Bostwick, Arthur, Robinson , Neal, 2002).

 

Infertilità, fecondazione in vitro e mindfulness

Un ulteriore studio (Li, Long, Liu, He, Li, 2015) effettuato in Cina su donne che si sottoponevano per a prima volta alla fecondazione in vitro, mostra come sia utile l’utilizzo di un intervento basato sulla tecnica della mindfulness.

Sono state valutate la consapevolezza, l’auto-compassione, la difficoltà di regolazione delle emozioni, le strategie di coping e la qualità di vita sia prima che dopo l’intervento di mindfulness. È stato considerato anche un gruppo di controllo al quale non è stato somministrato il trattamento mindfulness (entrambi i gruppi avevano dei punteggi iniziali simili).

Alla fine dell’intervento, le donne con diagnosi di infertilità che avevano partecipato alla mindfulness hanno riportato un aumento significativo della consapevolezza mentale, maggiori strategie di coping e maggiore auto-compassione, inoltre è diminuita la difficoltà di regolazione delle emozioni e minori risultano le strategie di coping basate sull’evitamento. Invece le donne che non hanno partecipato al training di mindfulness, non hanno presentato variazioni significative in nessuna delle variabili misurate. Inoltre, ci sono state differenze statisticamente significative rispetto alle percentuali di gravidanza, infatti sono state maggiori le gravidanze ottenute nel gruppo delle partecipanti alla mindfulness rispetto a quelle che non vi avevano partecipato. Secondo questo studio e sulla base di queste prime evidenze dunque è possibile che il training di mindfulness possa aiutare l’esito di tecniche di Procreazione Medica Assistita in caso di infertilità.  Inoltre, poiché la mindfulness non prevede l’uso di farmaci e quindi è poco invasiva, risulta ancor più utile l’integrazione di questa tecnica alla Procreazione Medica Assistita.

Possiamo concludere dicendo che un gran numero di ricercatori negli ultimi anni sta dimostrando come l’integrazione di una terapia cognitivo-comportamentale (CBT) in particolar modo la terapia di gruppo cognitivo-comportamentale, associata a tecniche di mindfulness, possono aiutare le coppie affette da una diagnosi di infertilità, ad affrontare più serenamente e con maggior benessere percorsi di procreazione medicalmente assistita.

Tuttavia, sono ancora troppo poche le ricerche in questo ambito, e ci si augura, che il gran numero di coppie con diagnosi di infertilità, che negli ultimi anni si rivolge alle cliniche specializzate, possa stimolare interesse nei ricercatori affinché si abbiano sempre maggiori informazioni rispetto a questa problematica.

L’ effetto Forer, ovvero come mai gli oroscopi ci azzeccano sempre (1948) di Bertram R. Forer

#14: L’effetto Forer di Bertram R. Forer (1948). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi.

 

 

Tra gli anni ‘40 e ‘50, la psicologia si allontana dalla matrice filosofica europea per abbracciare procedure e tecniche di indagine maggiormente scientifiche. Di qui la necessità di creare strumenti ad hoc (nasce nel 1942 la prima versione dell’MMPI), sebbene si usassero già metodi di indagine che permettevano di ricostruire il funzionamento soggettivo in breve tempo, come il Test di Rorschach, la cui prima forma nasce intorno agli anni ’20, o altri test proiettivi.

Nel 1948 il professor Forer, psicologo, decide di testare la validità delle procedure diagnostiche tanto in voga presso i suoi colleghi. Egli non giudica uno o l’altro strumento, nient’affatto: Forer è convinto che offrire a una persona una descrizione di com’è implica che la persona vi si riconosca sempre, per il solo fatto che gli è stata fornita una descrizione, e che la confermi, conducendo sé e il proprio terapeuta a fatidici bias interpretativi.

L’individuo non avrebbe le competenze critiche per confrontare la descrizione scritta con la propria autovalutazione: questo è chiaro, tutti gli studenti che preparano l’esame di psicopatologia sono convinti di avere tutti i disturbi psichici contemplati nel manuale. Per far sì che una persona si riconosca in una descrizione basterà fornirle un breve scritto, molto vago e generico, con frasi non del tutto assurde.

Allo scopo di testare questa ipotesi, Forer chiede ai suoi studenti di compilare il Diagnostic Interest Blank, strumento consistente in una serie di hobby, aspirazioni personali o caratteristiche a cui segue un’interpretazione qualitativa.

Dopo una settimana, restituisce ai partecipanti un quadro della loro personalità. Chiede cortesemente di non confrontarsi con gli altri, ma di mantenere la riservatezza sulla propria valutazione e gli studenti rispettano la richiesta. Per fortuna, perché tutte le valutazioni erano identiche e consistevano delle seguenti frasi.

  • Hai un grande bisogno di piacere e di essere ammirato dagli altri
  • Mostri la tendenza a criticare te stesso
  • Hai una grande quantità di doti non utilizzate, che non hai saputo sfruttare a tuo vantaggio
  • Quando avverti qualche debolezza sei facilmente in grado di compensarla
  • La tua maturazione sessuale ha presentato criticità
  • Disciplinato e controllato al di fuori, tendi a essere internamente insicuro e preoccupato
  • A volte hai seri dubbi e ti chiedi se tu stia prendendo la decisione corretta o stia facendo la cosa giusta
  • Quando sei accerchiato da restrizioni e limiti ti senti insoddisfatto, preferisci il cambiamento e la complessità.
  • Ti vanti di avere delle idee tue e non accetti affermazioni altrui se non sorrette da prove soddisfacenti
  • Ti sei trovato a essere imprudente, parlando di te in modo troppo aperto con gli altri
  • A volte sei estroverso, affabile, socievole, mentre altre volte sei introverso, diffidente e riservato
  • Alcune delle tue ispirazioni tendono a essere irrealistiche
  • La sicurezza è uno dei tuoi obiettivi nella vita

Dopo aver letto ogni personale descrizione, gli studenti dovevano indicare con un punteggio da 0 a 5 quanto si riconoscessero nelle frasi riportate. La media dei punteggi ottenuti dalle descrizioni di Forer è di 4.26.

Forer conclude quindi il suo lavoro affermando che la grande validità degli strumenti psicologici tanto vantata dai diagnosti può essere facilmente superata da una validità soggettiva, dichiarata dal paziente, di fronte a frasi di carattere generico e approssimativo.

Credere di aver individuato un profilo corretto sulla base di quanto il paziente si riconosce nella descrizione effettuata è ugualmente fallace, perché presuppone la capacità di un’autovalutazione oggettiva.

Analizzando il grado di accordo degli studenti con le varie frasi presentate, Forer afferma che nel valutare le singole proposizioni aumenta la capacità critica dei soggetti, mentre la lettura di un report generale sulla propria personalità induce le persone a riconoscersi in misura maggiore.

È esattamente questo il meccanismo per cui spesso ci riconosciamo in descrizioni estremamente generiche sviluppate da professionisti o meno di ambiti disparati.

Lo studio ha sicuramente numerosi limiti ascrivibili anche alla poca familiarità con le tecniche statistiche a cui siamo abituati oggi. Uno su tutti, se un professore di psicologia chiedesse di compilare un test e restituisse il risultato della sua valutazione (quando ancora si deve sostenere l’esame!) anche oggi forse pochi studenti manifesterebbero un ampio grado di disaccordo, indipendentemente dal risultato presentato.

 

Effetto Forer (VIDEO):

 

Autostima nei bambini: “Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso” (2015) – Recensione

A fronte dei tanti consigli pratici per accrescere l’autostima nei bambini, abbiamo anche sufficienti vademecum su come affrontare quelle situazioni in cui l’autostima viene scalfita da esperienze negative? Come aiutare i piccoli a mandare giù un boccone così amaro per la loro età e digerirlo? Un aiuto prezioso è raccolto del libro ‘Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso‘.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

Navigando nel web è facile trovare siti internet in cui si dispensano consigli su come aumentare l’autostima nei bambini. Inutile negarlo, viviamo nell’epoca dell’autoaffermazione, raggiungere un certo successo personale, quasi senza lasciare spazio a sconfitte e fallimenti, è diventato uno scopo primo in molti di noi e dunque sarebbe bene preparare il terreno anche ai più piccoli, in modo che siano pronti a sentirsi sicuri di sé e in grado di affrontare meglio il mondo.

Cosa sia l’autostima, è difficile spiegarlo in poche parole, ma la definizione più accreditata in letteratura è quella di Battistelli che la definisce come un ‘Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso‘. Cooley e Mead invece, danno una definizione di autostima meno concentrata sul singolo individuo e più relazionale, essi la definiscono come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

Tra le interazioni più importanti nel corso della crescita troviamo naturalmente quella con i genitori, a queste si aggiungono quelle con gli insegnanti e con i pari. Ecco così che si creano, in un continuo influenzarsi a vicenda, aspettative su ciò che l’individuo vorrebbe essere e ciò che gli altri gli suggeriscono di dover essere: queste aspettative si uniscono, quasi fossero tasselli di un puzzle, arrivando a definire il Sé ideale di ognuno di noi.

L’autostima è tanto maggiore quanto più il Sé reale (ciò che realmente siamo) si avvicina al Sé Ideale (ciò che vorremmo essere).

Un’autostima positiva è considerata il fattore centrale di un buon adattamento socio-emozionale, essa è connessa a un funzionamento personale più efficace: per esempio la depressione è stata collegata a uno stile cognitivo che comporta una valutazione eccessivamente critica e negativa del Sé (Beck, 1976).

Un’autostima sana è stata sempre considerata importante nei bambini perché è in età infantile che si gettano le basi delle percezioni di Sé che si avranno nel corso della vita. La competenza socio emozionale che deriva da un autovalutazione positiva può essere una forza che aiuterà a evitare al bambino gravi problemi futuri (Pope et al, 1993).

Capita a volte, però che il divario tra Sé Ideale e Sé Reale si amplifichi, generando un abbassamento del livello di autostima.

Una persona con bassa autostima essenzialmente sarà una persona convinta che ci sia poco in lei di cui andare fieri, una bassa autostima può essere limitatamente dannosa se influisce negativamente solo su poche parti del concetto di sé correlate agli aspetti importanti della propria vita (Pope et al, 1993).

Eppure noi tutti, prima o poi, facciamo i conti con un punto d’arresto, un momentaneo stop alla nostra autoaffermazione, e spesso le prime esperienze le si fanno da bambini: un brutto voto a scuola, un battibecco con un amico e così la distanza tra il Sé reale e il Sé ideale viene improvvisamente ad estendersi, non senza conseguenze negative sulla vita emotiva e relazionale dei più piccoli.

 

Autostima nei bambini: ‘Quando manca l’applauso’

Ritornando al punto di partenza dell’articolo, la domanda sorge abbastanza spontanea: a fronte dei tanti consigli pratici per accrescere l’autostima nei bambini, abbiamo anche sufficienti vademecum su come affrontare quelle situazioni in cui l’autostima viene scalfita da esperienze negative? Come aiutare i piccoli a mandare giù un boccone così amaro per la loro età e digerirlo?

Un aiuto a mio avviso estremamente prezioso è raccolto del libro ‘Quando manca l’applauso. Come aiutare i nostri figli ad affrontare l’insuccesso‘.

Il libro, scritto da Roberto Gilardi ed edito da Franco Angeli, espone in poche e scorrevoli pagine cosa si intende per autostima, come si costruisce e come si “coltiva” l’autostima nei bambini e nei ragazzi e dunque come valorizzarli. E le battute d’arresto alla costruzione della stima di sé? L’autore mostra anche cosa significa insuccesso e soprattutto come rendere l’insuccesso costruttivo per la crescita di adulti e ragazzi.

Frase emblema del libro è: Se vuoi costruire autostima in tuo figlio insegnagli a fare una torta.

Il libro si divide in cinque capitoli: partendo dalle basi, l’autore non lascia i lettori soli a navigare nel mare delle idee confuse sul concetto di autostima e sul processo in cui l’autostima nei bambini prende forma. Gilardi fa chiarezza sul tema, concentrandosi soprattutto sugli oggetti di stima, criteri sui quali misuriamo la valutazione di noi stessi. Già da queste prime righe, si evince un pratico suggerimento ai lettori: mettersi in guardia dalle generalizzazioni valutative di noi stessi e degli altri. Sentirsi di ‘Non valere nulla‘ oppure sentirsi ‘un figo’ non sono altro che fraintendimenti, essi non corrispondono alla realtà, sono astrazioni generali effettuate su aspetti particolari (prendere 6 in matematica non significa essere un buono a nulla).  L’autore pone così l’attenzione ai diversi oggetti di stima con cui misuriamo noi stessi: dall’aspetto fisico alle competenze, dai valori all’amore per se stessi.

Ecco che il secondo capitolo offre una mappa orientativa (con tanto di illustrazione e di Voi siete qui) per aiutare i lettori a destreggiarsi nel duro tentativo di aiutare i più giovani a recuperare una buona stima di sé nonostante esperienze ed ambienti avversi. Il capitolo si apre con una lunga lista di domande avanzate da alcuni genitori all’autore del libro, nel corso di alcuni incontri in un Liceo Artistico. Le voci e le domande sono dunque quelle di veri genitori e insegnanti alle prese con i problemi dei propri figli e dei propri alunni, l’autore prende spunto da queste, cercando di fornire delle risposte: è così che viene presentato anche il modo in cui stendere un buon piano d’azione e tutte le diverse modalità di sostegno all’autostima dei bambini e dei ragazzi che si possono offrire quando non “si riceve l’applauso”.

Il terzo capitolo sposta l’accento su come siano le influenze altrui a decretare il successo di una persona e, per rendere la lettura più scorrevole, l’autore propone qui (come in molte altre parti del libro) un racconto molto divertente di come siano le aspettative genitoriali, e dell’ambiente esterno in generale, a fare di un povero bambino una macchina da guerra spronata a bruciare in fretta tutte le tappe. Ridendo si riflette, ci si riconosce negli aneddoti e, forse, si riesce a fare qualche mea culpa.

Il quarto capitolo affronta più da vicino il tema dell’insuccesso e del fallimento, anche qui corredato da numerose storie e aneddoti. L’autore va oltre i racconti, però, e dedica diverse pagine delineando i principali modi con cui gli adulti possono aiutare i più giovani ad affrontare un insuccesso: accoglienza, comprensione, correzione, revisione.

Il libro si chiude con un ultimo capitolo, a mio avviso sublime, che mette a confronto successo ed esistenza e, per far ciò, l’autore racconta e si fa narratore di ciò che penserebbe un lettore anziano, molto in là con gli anni, mentre legge le prime pagine del libro ‘Quando manca l’applauso’. Per chi ha una visione diversa della vita, meno legata all’affanno dell’affermarsi e forse più attraccata a ricordi e rimpianti, come cambia il concetto di successo? Che peso ha l’esistenza e la consapevolezza di essere solo una parte infinitesimale dell’universo sulla valutazione di noi stessi dopo un fallimento?

Lungo tutto il libro si assiste a un dialogo tra l’autore e la propria coscienza che, quasi a rappresentare un lettore impaziente, da libero sfogo a domande e frecciatine rivolte allo scrittore, aiutandolo però a seguire un filo del discorso lineare e una presentazione degli argomenti assolutamente non dispersiva. Che sia una metafora di come dalle pressanti aspettative degli altri si può ricavare anche qualcosa di positivo per il proprio cammino?

Consiglio la lettura del libro a tutti i professionisti che lavorano con bambini e adolescenti e soprattutto ai genitori: l’autore riesce a far riflettere senza colpevolizzare nessuno, offre una visione più ampia delle risorse personali che ognuno può attivare per non lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi. Un esempio di risorsa per sostenere il processo di fortificazione dell’ autostima nei bambini e nei ragazzi? Come dice la frase emblema del libro: fare una torta! Preparare un dolce insieme significa:

…dedicare tempo, e dedicare tempo significa trasferire valore, quel valore e quell’amore per sé che magicamente prende corpo e si cementa nell’animo di una persona che sente di essere importante, di avere valore ed essere degno di amore, attenzione e tempo dedicato.

Pedofilia: caratteristiche, decorso e prospettive terapeutiche

Secondo la definizione fornita dal DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), la pedofilia comporta un’attività sessuale con bambini prepuberi (di età uguale o inferiore a tredici anni), perdurante da almeno sei mesi e che determina una compromissione generale del funzionamento personale, sociale e lavorativo e/o disagio soggettivo.

Per potersi definire tale il pedofilo deve avere almeno sedici anni e intrattenere relazioni sessuali con vittime di almeno cinque anni più giovani d’età. Le modalità del contatto possono variare dalle carezze alla vera e propria penetrazione (bocca, ano e vagina), utilizzando vari gradi di violenza, anche con l’inserimento di corpi estranei. Per evitare che il bambino riveli l’abuso gli si possono rivolgere minacce ovvero si può mostrare un’attenzione particolare ai suoi bisogni per conquistarsi affetto, fiducia e silenzio.

Riguardo alla tipologia delle vittime esse possono essere interne alla famiglia (figli, parenti) o esterne; solitamente presentano tratti di attrattività fisica, una vanità che porta facilmente a sottovalutare i rischi di esporsi al pedofilo, e che viene sovente usata come pretesto dal pedofilo stesso, con attribuzione di responsabilità alla vittima (“il minore mi ha provocato o sedotto”). La prevalenza del disturbo (ovvero la proporzione di pedofili sulla popolazione generale, in un preciso momento) si attesta tra il 3% e il 5% nei maschi, mentre tra le femmine la percentuale è inferiore (American Psychiatric Association, 2013).

 

Pedofilia: fattori di rischio e decorso

I fattori di rischio chiamati in causa nello sviluppo del disturbo sono di natura sia genetica che ambientale. Riguardo al primo aspetto si è visto che disturbi del neurosviluppo già nella fase della gestazione aumentano la probabilità di insorgenza della patologia, ma gioca un ruolo anche l’abuso infantile subìto, anche se non è possibile stabilire un nesso causale diretto tra abuso infantile e pedofilia adulta (American Psychiatric Association, 2013).

 Un sostegno al ruolo dell’abuso infantile nella genesi della pedofilia è fornito da Finkelhor (1984) con la teoria dell’abusatore abusato, per cui, attraverso l’atto pedofilico, il soggetto ricerca una sensazione di dominio dopo essere stato vittimizzato a sua volta, configurandosi un atto di vendetta mediante cui il dolore del passato viene trasformato in piacere. Inoltre, la mancanza di adeguate abilità sociali sarebbe alla base della scarsa disponibilità della gratificazione sessuale con adulti e la scelta di bambini prepuberi (citato in Dèttore, 2001).

La pedofilia può avere inizio nella fanciullezza o nella prima adolescenza e la frequenza delle fantasie e dei comportamenti può variare in risposta a episodi di vita stressanti, diminuendo in genere con l’età. Le recidive risultano quasi doppie per i soggetti pedofili con preferenza per i maschi.

La diagnosi pone non pochi problemi per la tendenza del pedofilo a negare l’impulso sessuale (e il relativo disagio emotivo) o a minimizzarne l’impatto sulla vittima (un atto innocuo, per cui non provare colpa, ansia e vergogna): ecco perché un indicatore utile può risultare la misurazione psicofisiologica dell’interesse sessuale.

Attraverso il test fallometrico, che usa la registrazione continua dei cambiamenti del volume del pene quando un soggetto è esposto alla visione di figure potenzialmente eccitanti su uno schermo o mediante l’immaginazione, si può infatti registrare l’attivazione fisiologica sessuale del soggetto di fronte a stimoli rappresentanti bambini nudi, benchè i risultati possano essere fuorviati da quei pedofili che non dispongano di un’adeguata risposta peniena (Murphy e Flanagan, 1981, citato in Strano e coll., 2001).

Posta la diagnosi, un decorso sfavorevole della patologia appare associato a fattori quali la precocità di insorgenza, l’alta frequenza degli atti e l’assenza di disagio soggettivo con sentimenti di colpa o vergogna, l’abuso di alcool o di droga. Viceversa, se l’intervento è richiesto spontaneamente, rilevando una motivazione elevata al trattamento, la prognosi è di solito più favorevole (Kaplan e Sadock,1993).

Quest’ultimo caso è piuttosto raro, nella misura in cui la scarsa consapevolezza della malattia e l’assenza di disagio per l’atto, collegati alla piacevolezza della stimolazione sessuale, determinano tipicamente una scarsa adesione al trattamento, per lo più richiesto per evitare spiacevoli conseguenze sociali (crisi coniugali, detenzioni, isolamento), e non per una rinuncia decisa ai propri istinti. A questo indubbio limite si affiancano altre problematiche, come la reazione del terapeuta, contraddistinta sovente da disgusto, condanna e punizione (Gabbard, 1995, citato in Strano e coll., 2001), poiché gratificare l’istinto pedofilico equivale a compromettere l’evoluzione di un bambino innocente.

 

Pedofilia: approccio psicoterapeutico

Alla luce di tali difficoltà, al terapeuta è richiesto di mantenere uno stile terapeutico basato sulla “responsabilizzazione compassionevole”: si ritiene comunque il paziente responsabile del comportamento di abuso, riconoscendo empaticamente le origini del disturbo.

All’interno degli approcci psicoterapeutici attualmente disponibili per la cura della pedofilia, la terapia cognitivo-comportamentale fornisce un valido supporto, ponendosi l’obiettivo di controllare i propri impulsi sessuali verso i prepuberi, riducendo i comportamenti devianti attraverso l’utilizzo di programmi di condizionamento. La tecnica elaborata da Cautela nel 1967 per esempio prevede di immaginare una scena a carattere pedofilico, a cui affiancare un’altra fantasia con conseguenze spiacevoli, come l’essere arrestati (citato in Strano e coll., 2001). L’efficacia delle tecniche comportamentali sembra inoltre aumentare se si associa alla scena sessuale una sostanza corrosiva e di cattivo odore, come l’acido valerianico, che riduce il desiderio sessuale. Per considerarsi efficace un trattamento deve prevedere anche un miglioramento del comportamento sociale, poiché le difficoltà di relazione con gli adulti potrebbero spingere i pedofili verso la scelta deviante: a tal proposito, Lanning indica la tipologia del pedofilo inadeguato, naturalmente non attratto dai bambini, ma che arriva a sostituirli agli adulti nei confronti dei quali prova profonde insicurezze (citato in Strano e coll., 2011).

 Accanto a training di abilità sociali connesse alla sfera sessuale, la terapia cognitiva si propone di modificare in senso più adattivo tipici errori di pensiero quali la negazione (“non sono stato io”) oppure la minimizzazione (“non ho fatto niente di male”), attraverso specifiche tecniche di ristrutturazione cognitiva (Dèttore, 2001).

Completerà il quadro l’analisi degli eventi che hanno condotto nel tempo al disturbo (come un rifiuto) in modo da innalzare l’autostima e indirizzare gli impulsi in direzione di mete sessuali adulte (Strano e coll., 2011).

Una fase cruciale del trattamento è costituita dalla prevenzione delle ricadute (Marlatt, 1982, citato in Dèttore, 2001) in cui vengono analizzate le circostanze in grado di scatenare un nuovo abuso, così come le conseguenze negative a lungo termine dell’indulgere negli impulsi sessuali. A tal fine vengono individuate situazioni ad “alto rischio”, come il passare davanti a una scuola elementare, che potrebbero esitare nel comportamento pedofilico, soprattutto nel periodo immediatamente successivo al termine della terapia, quando il controllo degli impulsi può non essere ottimale.

Riguardo all’associazione con la terapia farmacologica, è stato evidenziato da tempo l’utilizzo del medrossiprogesterone (MPA) acetato che sembra avere effetti positivi sul controllo degli impulsi sessuali, soprattutto a carattere violento, benchè il suo uso sia limitato, per via degli effetti collaterali potenzialmente dannosi a lungo termine. Inoltre, la riduzione degli impulsi attraverso i farmaci, pare rafforzare i benefici della psicoterapia (Kaplan e Sadock,1993).

La personalità delle persone bulimiche – Disturbi dell’alimentazione e personalità

L’instabilità dell’umore, delle relazioni e l’impulsività sono gli aspetti più tipici della personalità bulimica. È il cosiddetto disturbo di personalità borderline, che si presenta nel 28% delle bulimiche. Cifra alta, che diventa ancora più alta se si pensa che lo stesso disturbo di personalità nella popolazione generale si manifesta solo nel 6% dei soggetti. 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Disturbi dell’alimentazione e personalità: la personalità bulimica (Nr. 18)

 

La personalità bulimica: i tratti borderline

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato, oltre che  da impulsività e instabilità nelle relazioni, anche da gesti autolesivi, sentimenti cronici di vuoto, rabbia inappropriata, paure intense di abbandono. I tratti tipici di questo disturbo di personalità riflettono alcune caratteristiche di coloro che mangiano in maniera compulsiva. In particolare, l’impulsività è una caratteristica fondamentale della bulimia e di tutti coloro che utilizzano alcuni comportamenti compensatori per regolare l’ingestione eccessiva  di cibo, ad esempio il vomito autoindotto, l’abuso di lassativi o di diuretici.

Per quanto riguarda l’instabilità affettiva, i sentimenti di vuoto cronico e la rabbia inappropriata, sono compensati dall’assunzione di grosse quantità cibo che successivamente potrebbero  essere espulse attraverso comportamenti compensatori (Westen et al. , 2006).  L’impulsività è caratterizzata dalla mancanza di premeditazione e dall’incapacità di valutare i rischi e le conseguenze della messa in atto di un gesto, per esempio l’improvvisa decisione di  espellere quello che si è ingerito senza considerare i rischi fisici che ne conseguono (Fahy, Eisler, 1993).

 

La personalità bulimica: i tratti più frequenti

Alcuni studi sull’impulsività suggeriscono che i pazienti affetti da anoressia sono meno  impulsivi rispetto ai soggetti di controllo non psichiatrici (Claes et al. , 2002; Fahy, Eisler, 1993). Viceversa, i pazienti con bulimia (Claes et al. , 2002) sono più impulsivi rispetto a quelli con anoressia e ai soggetti di controllo non psichiatrici.  Le pazienti con bulimia mostrano per lo più personalità borderline (31%) e dipendente (31%), mentre la personalità ossessivo-compulsiva è scarsamente presente in questa patologia alimentare (Sansone et al. , 2005). Ma è possibile incontrare anche altri tratti personologici, in particolare il narcisismo patologico, che riflette la preoccupazione per l’aspetto fisico, il bisogno di validazione esterna, e la tendenza a investire troppo sull’autostima (Steiger et al. , 1997). In aggiunta, il narcisismo può persistere dopo il miglioramento del disturbo alimentare, suggerendo che  potrebbe essere un tratto caratteristico delle bulimiche (Lehoux   et al. , 2000).

Insomma, mentre l’anoressia nervosa potrebbe essere collegata a una personalità ansiosa, insicura, che costruisce la propria traballante fiducia in se stessa controllando il peso e l’alimentazione, la bulimica potrebbe corrispondere a una personalità impulsiva e istintiva, che vorrebbe recuperare il controllo di sé  mediante le condotte purgative del vomito e dell’assunzione di  lassativi (Vitousek, Manke, 1994). Una visione convincente e suggestiva, sebbene alcuni sostengano che si tratti di una semplificazione (Srinivasagam et al., 1995; von Ranson et al, 1999).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La perfetta simmetria delle cose: il racconto della bambina – Ritratti

La bambina si lega sempre i capelli subito prima di apparecchiare la tavola. Tiene l’elastico tra le labbra, mentre le mani formano la coda di cavallo. La stessa sequenza di gesti rapida e decisa di quando avrà trent’anni. Di solito dispone prima i bicchieri. I bicchieri sono la misura del resto.

Se li metti nella posizione giusta, il resto viene da sè. Il piatto piano – posto sotto, concentricamente, a quello fondo – deve sfiorare con la sua linea la circonferenza di vetro del bicchiere. Chi guarda dall’alto, deve avere la propria attenzione catturata per un attimo dal perfetto equilibrio dei cerchi. Un po’ come i cerchi delle Olimpiadi, ma senza compenetrazione reciproca. Poi le posate, la loro distanza dai piatti calcolata con precisione grazie ai quadrati disegnati sulla tovaglia (le tovaglie, se è necessario, hanno sempre quadrati disegnati). Il tovagliolo, le piace metterlo nel bicchiere, avvoltolato come ha visto fare al ristorante. Quando la bambina ha riprodotto l’identico effetto del ristorante per la prima volta, ha spiato con la coda dell’occhio la reazione del papà. A lui è piaciuto molto. Lei si è sentita felice. Lui le ha chiesto di farlo sempre. Lei si è sentita ancora più felice.

Il papà lavora fino a ora di cena nello studio dotato di un’entrata indipendente. La bambina sa che può chiamarlo con l’interfono solo in casi di vera emergenza. Deve muoversi piano, non fare rumore mentre gioca. O, come adesso, mentre apparecchia la tavola. Le pareti dello studio sono insonorizzate, ma la regola vale lo stesso. Il papà le ha detto una volta che spesso le regole che la vita le presenterà non saranno logiche, per cui meglio abituarsi da subito. A lei è piaciuto molto quel discorso. Non tanto il contenuto, che non ha capito bene, quanto l’impressione che il papà le parlasse per la prima volta come una persona più grande.

La mamma, quando non è nella sua camera alla scrivania, a correggere i compiti dei suoi alunni o su Facebook, è fuori. In palestra, a fare spinning o zumba, di solito uno dopo l’altro. La bambina ha imparato che quando torna dalla ginnastica, almeno tre volte alla settimana, capita più spesso che la baci e le faccia i complimenti per come tiene in ordine la sua stanza e apparecchia la tavola. Stasera non è andata in palestra. Mentre dispone i bicchieri, alla bambina arriva, un po’ ovattata ma non abbastanza da coprirne la concitazione, l’irritazione, una frase che la mamma dice, incalzante, al telefono:

«Come lo sei venuta a sapere? Ne parli come di una cosa certa. Ne sei sicura?»

La bambina capisce che la mamma sta parlando con la sua amica preferita, che insegna nella stessa scuola e che è venuta parecchie volte a trovarla a casa. Sa che mentre la mamma insegna matematica, anche se una matematica un po’  più difficile di quella che sta studiando lei, quest’altra signora insegna storia, anche se una storia un po’ più difficile di quella che sta studiando lei. Poi il volume della voce si abbassa, come se la mamma stesse facendo uno sforzo per contenerla.

Sente sbattere la porta della stanza. La mamma entra nel soggiorno cucina. Ha quel suo modo di spostare le cose con movimenti bruschi dei giorni in cui per la bambina è meglio muoversi silenziosamente. La bambina non vede l’ora che il padre arrivi.

«Quante volte ti ho detto di non preparare la tavola come un robot? Con tutta questa precisione. Ho una figlia, non un robot».

«Scusa mamma».

«E’ così difficile fare le cose che ti chiedo? Magari senza farmele ripetere migliaia di volte? Ho letto su internet che tutta questa  precisione nei bambini, quando poi si fanno grandi può trasformarsi in una malattia. Vuoi diventare una malata?»

«Che succede».

Quando sente la voce del papà, è sempre come se qualcuno smettesse di tenerla premuta contro un muro.

«Niente, non ti intromettere, è una cosa tra me e lei», dice la mamma, con una smorfia di rabbia.

«Non mi intrometto, stai calma. Vorrei solo sapere che sta succedendo».

«La solita questione della precisione, sta succedendo. Sto cercando di insegnarle che rischia di ammalarsi. Gliel’ho detto un sacco di volte, ma evidentemente è più forte di lei. Magari è già malata».

«Non dire sciocchezze. Così la spaventi».

La bambina si è seduta a tavola. In momenti come questo fa finta di essere altrove. Spesso ci riesce. Per andarsene aiuta molto immaginare di essere un drone che sorvola la tavola e controlla la simmetria delle cose. Non solo dei piatti e delle posate. La simmetria delle cose rispetto a se stesse. Le cose, se le osservi bene, dalla giusta prospettiva, rivelano la loro simmetria con se stesse. Il loro essere fatte di due metà perfettamente bilanciate. Anche quando a prima vista non sembra proprio. Lì dove sta ora, non le arrivano le parole, solo la sensazione fisica di una tensione crescente.

«Non ti permettere di dire davanti a lei che dico sciocchezze».

«Ne possiamo parlare dopo da soli?»

La bambina guarda la madre diventare rossa.

«Non mi trattare come una deficiente, hai capito, stronzo?», urla.

«Va bene. Non volevo. Calmati adesso, per favore».

«Io non ho intenzione di stare qua a farmi prendere per scema da voi due, che come al solito vi coalizzate contro di me». Ho gettato la mia vita per voi due, e questo è il ringraziamento. Avevo una carriera universitaria assicurata e invece sono tappata in una scuola media di merda».

«Ti prego, non tirare di nuovo fuori questa storia. Ne parliamo dopo».

«Da quando ti conosco con te ne parliamo dopo. Di tutto parliamo dopo, ma poi non parliamo mai. Invece parliamo adesso. Io non ce la faccio più. Sto per crollare. Quando sono a casa ho bisogno del vostro appoggio, non del colpo di grazia..».

Il papà della bambina rimane in silenzio. Sa che se le chiede di nuovo di calmarsi, getterà altra benzina sul fuoco.

«Mi sono stufata di prendere botte da tutti. A scuola e pure qui, a casa mia».

Il papà della bambina sa che cosa fare quando lei dà un segnale del genere. La interrompe, con il tono più calmo che possiede:

«Perché scusa, è successo qualcosa a scuola?»

La mamma della bambina si blocca per un attimo, interdetta. La bambina ora fissa la tovaglia rossa, immaginando se stessa, rimpicciolita, dentro uno dei quadrati. Ha portato con sè una provvista di briciole di pane, sufficiente per sopravvivere a lungo.

«Sì, è successo qualcosa. Perchè, ti interessa?»

«Certo che mi interessa. Interessa anche a tua figlia. Dai, che è successo?»

La mamma esita, poi dice:

«Poco fa mi ha chiamato Franca. Mi ha detto che ci sono dei genitori che si sono lamentati di me. Pare che qualcuno abbia detto che vado troppo lentamente, e che così non terminerò mai il programma».

«Adesso capisco meglio. Secondo me però non ti devi preoccupare. I genitori trovano sempre qualcosa di cui lamentarsi. Di solito danno agli insegnanti la colpa dell’idiozia dei figli. Molto probilmente uno o due si saranno lamentati e la cosa si è ingigantita».

«Ma che cazzo dici!?», sbotta la mamma della bambina, «ma che ingigantita?! I miei problemi per te dipendono sempre dal fatto che io ingigantisco..».

«Non tu, non fraintendermi».

La bambina nota che il padre è diventato rosso.

«Non fraintendo un cazzo. Con te è sempre la stessa storia».

«Adesso basta. Io stavo cercando di aiutarti».

La mamma della bambina si alza e pianta le mani sul tavolo, facendo spostare la tovaglia. La bambina nota che in un attimo la simmetria della disposizione delle cose è perduta.

«Non ho bisogno del tuo aiuto»., dice la mamma della bambina con la voce strozzata, e se ne va.

La bambina e il papà rimangono in silenzio. La bambina ricalca con l’indice il perimetro di un quadrato.

«Tutto bene?»

«Sì, papà»..

Si siede vicino a lei. Imita con l’indice il gesto della bambina, come un’altra creatura che cerchi la via d’uscita in quel labirinto infinito di quadrati. L’indice del papà fa finta di rincorrere quello della bambina, che fa finta che le scappi una risata.

«Non devi preoccuparti per mamma. In questo periodo è molto stanca per il lavoro, e questo la fa essere nervosa. Ma non devi mai dubitare del bene che ti vuole».

Alla bambina, non sa perchè, viene da piangere, ma si trattiene. Non vuole che il papà si preoccupi per lei.

 

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia – 01

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