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Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico – Report dal Convegno di Verona

Si è svolto a Verona nella giornata di martedì 31 maggio il workshop esperienziale “ Autoefficacia e accettazione nella relazione con il paziente oncologico”. L’iniziativa è stata promossa dal Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, coordinato dal dottor Giuseppe Deledda, in collaborazione con la dottoressa Samantha Serpentini, psicologa presso l’Istituto Oncologico Veneto. Ospiti del workshop sono stati il professor Thomas Merluzzi, psicologo, dell’Università di Notre Dame dell’Indiana (Stati Uniti) e il professor Giambattista Presti, professore associato di Psicologia generale dell’Università Kore di Enna.

 

Il concetto di autoefficacia

Il convegno ha accolto numerosi professionisti, tra medici e psicologi, con l’intento di estendere il prezioso contributo a tutti coloro che si occupano di oncologia, un campo che tuttora lascia aperte numerose riflessioni umane, cliniche e di ricerca.
Le aree principali trattate nel corso del workshop sono state l’autoefficacia e l’accettazione nella relazione con il paziente oncologico. Proprio su questa tematica si è incentrato l’intervento del professor Merluzzi che ha aperto la mattinata. Durante la prima parte del suo speech, il professor Merluzzi ha mostrato una panoramica di diverse teorie psicologiche, partendo dalla teoria dell’autoregolazione, passando alla teoria della resilienza e terminando con la teoria dell’autoefficacia, postulata da Albert Bandura. Stando alla definizione del grande psicologo canadese possiamo definire l’autoefficacia come [blockquote style=”1″]l’insieme delle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati [/blockquote](Bandura, 2000).

Per lo sviluppo e l’incremento dell’autoefficacia, sono di fondamentale importanza le esperienze comportamentali dirette di gestione efficace, le esperienze vicarie, la persuasione verbale ed infine il controllo degli stati fisiologici ed affettivi. In particolare, sottolinea il professor Merluzzi, le esperienze vicarie possono essere un aiuto importante per questi pazienti. L’osservare altre persone, simili a sé, che affrontano la malattia può portare a credere di avere le abilità necessarie per fare quanto osservato. Da qui l’importanza del supporto sociale per una buona gestione di queste patologie. Nell’ambito terapeutico invece, continua il professor Merluzzi, si lavora soprattutto sulla fonte della “persuasione”, vale a dire l’incoraggiamento, sul piano verbale e non, che infonde nel paziente la possibilità di possedere competenze. Per questo motivo, il professor Merluzzi, ha definito il lavoro dello psicologo come “costruttore di autoefficacia”.

L’autoefficacia è inoltre comportamento-specifica: provare un alto grado di autoefficacia nel mettere in atto un comportamento non implica che si perseguirà con la stessa autoefficacia una condotta in un altro ambito. Come ha sottolineato Merluzzi essa è strettamente collegata alle situazioni, posso avere ad esempio una scarsa autoefficacia nel tennis, e magari un’autoefficacia molto elevata nel calcio.

Gli aspetti centrali di tale teorizzazione sono quindi il processo di valutazione (assessment delle capacità), l’autoefficacia percepita (“Sono in grado di affrontare il cancro?”), le aspettative di risultato (analisi costi/ benefici) ed infine il comportamento (plan). Vedere adattare questo costrutto, già molto diffuso e conosciuto in diversi ambiti della psicologia scolastica e lavorativa, anche al campo clinico e in particolare a quello oncologico è stato molto arricchente per i partecipanti. Inoltre gli studi presenti in letteratura evidenziano che l’autoefficacia sia un elemento di fondamentale importanza nel mediare il rapporto tra sintomi e depressione nei survivors. Tale caratteristica ha, infatti, un ruolo essenziale nel ridurre la depressione, che non deve essere sottovalutato nella presa in carico della persona che si trova ad affrontare o ad aver affrontato una diagnosi di cancro.

 

La teoria dell’autoregolazione

La sessione è continuata con un approfondimento sulla teoria dell’autoregolazione (Carver e Scheirer,1998). Quando si parla di un evento traumatico, come può essere la neoplasia, si identificano diverse modalità di reazione. Tra quelle positive vi è il recupero (resilienza di I livello) e la resilienza di II livello, cioè “thriving”. Mentre la prima condizione fa riferimento al momento in cui è ripristinato il livello pre-traumatico, nel secondo tale livello viene addirittura superato, arrivando a un maggiore stato di benessere, e livello di funzionamento. Le persone in tale condizione hanno sfruttato il potenziale post-traumatico per sviluppare nuove capacità, arrivando alla migliore e più auspicabile condizione di “prosperità”.

Durante la parte finale del suo speech, il relatore ha esposto alcuni degli strumenti da lui elaborati e validati, come il “Cancer Behavior Inventory” (CBI-B), e che grazie all’importante contributo della dottoressa Serpentini ora è disponibile anche in lingua italiana.
Un fattore d’indagine di tale strumento è la capacità dell’individuo di ricercare il supporto sociale. Tale aspetto è direttamente collegato all’agentività personale.

 

La Mastery Enhancement Therapy

L’intervento del professor Merluzzi si è concluso parlando della Mastery Enhancement Therapy. Tale intervento punta a valutare cosa è importante per la persona in relazione al suo passato e alle sue esperienze, e si è mostrato efficace nel migliorare l’autoefficacia dei pazienti affetti da neoplasia. Attraverso un percorso di quattro sessioni, della durata di 30-40 minuti, si cerca di incoraggiare il paziente a mettere in atto dei piani per far accadere ciò che decide di ripromettersi di fare. Il motto è quindi “Keep it simple and feasible”. Tale intervento, caratterizzato da brevità e semplicità, può essere svolto in mancanza di risorse anche dal personale infermieristico. Questo permetterebbe allo psicologo di focalizzare il suo intervento su quei casi che richiedono un trattamento più strutturato.

 

Self-compassion, mindfulness e accettazione

Un workshop particolarmente avvincente ha chiuso la giornata di formazione. I principali temi trattati sono stati quelli della self-compassion e della consapevolezza, approfonditi tramite esercizi esperienziali svolti a coppie e tramite l’uso della mindfulness per affrontare più efficacemente le situazioni di stress, cui spesso sono esposti i professionisti che si occupano di malattia oncologica. Il workshop è stato abilmente condotto dal professor Presti, presidente eletto dell’associazione internazionale ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), e dal dottor Deledda, referente del SIG “ACT for Health”. Grazie al contributo di questi due importanti esponenti dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ancora una volta è emerso come sia essenziale, soprattutto in relazione alla malattia neoplastica, aumentare la flessibilità psicologica, accogliendo e accettando i propri pensieri. Il controllo del dolore e delle emozioni spiacevoli è una competenza essenziale in campo oncologico. Spesso gli specialisti del settore si trovano a porsi l’interrogativo di come “stare con” le emozioni dolorose della persona, di come comunicare la diagnosi o di come accogliere il dolore che il paziente porta in seduta. Stare con il dolore, toccare con mano la terminalità possono esporre l’equipe curante al fenomeno del burn-out.

Tale modello si propone di aiutare il curante (ma anche il paziente) a essere maggiormente in contatto con il momento presente e a sviluppare una consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proprio coltivando la nostra consapevolezza di fronte a tali temi riusciamo a ridurre tutti quei comportamenti di evitamento che frequentemente insorgono quando entriamo in contatto con qualcosa di “avversivo”. L’accettazione è la risposta speculare e alternativa all’evitamento esperenziale. L’ACT impiega i processi di mindfulness e accettazione, insieme a quelli di modificazione comportamentale e azione impegnata, per aumentare la flessibilità psicologica, fornendo al personale curante una serie di risorse importanti e necessarie per gestire la loro esperienza lavorativa. Quest’approccio ha fornito numerose evidenze cliniche anche in campo terapeutico.

 

Conclusioni: l’importanza di sviluppare l’autoefficacia nel paziente oncologico

L’esperienza della malattia oncologica comporta un elevato distress e un considerevole impegno da parte dell’individuo per raggiungere un valido adjustment alla nuova condizione. Gli studi presentati durante questo convegno, così come l’esperienza clinica, rafforzano la necessità di rendere sempre più fruibili per questi pazienti percorsi di supporto che mirino a rafforzare la loro autoefficacia. Un punto basilare resta che il supporto psicologico offerto ai pazienti e ai loro famigliari, nonché la formazione e supervisione del personale curante, sono servizi necessari ed essenziali, conclusione che si auspica diventerà realtà concreta in tutti i contesti clinici che si occupano di tali patologie.

Per chiunque volesse approfondire tali tematiche, il prossimo incontro internazionale del GIS “Act for Health” si svolgerà sempre a Negrar il giorno 29 giugno, e avrà come ospiti il professor Joseph W. Ciarrocchi e il dottor Daniel J. Moran, attuale presidente ACBS.

Il Selfie e la costruzione sociale dell’identità – Seminario OPL, 13 Giugno 2016

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Il Selfie e la costruzione sociale dell’identità

Milano, 13 giugno 2016

 

Il selfie non solo come fenomeno virale, ma anche come forma chiara e riconoscibile del processo di costruzione dell’identità individuale e sociale. Questo il tema che verrà affrontato nel terzo incontro promosso dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia presso Casa della Psicologia a Milano.

Parteciperanno Sara Beretta, antropologa (Università degli Studi di Milano Bicocca), Vanni Codeluppi, sociologo (IULM), Franco Natili, psicologo (Ariele, Università Cattolica, Milano) e Daniele Piparo, curatore d’arte. A coordinare l’incontro Dario Forti, psicologo (Comitato Scientifico della Casa della Psicologia). Parteciperà: Erika Samsa, graphic recording.

In occasione dell’appuntamento saranno esposte per la prima volta le opere di: Alessandro D’Aquila, Angela Florio, Francesco Messina, Carlo Alberto Rastelli, Stefania Ruggiero, Matteo Sclafani.

 

Data e Luogo:

  • Lunedì 13 giugno 2016, ore 21.00 – 23.00
  • Casa della Psicologia, Piazza Castello 2- Milano

 

Modalità di partecipazione:

Evento gratuito e aperto a tutti, previa iscrizione all’inidirizzo mail: [email protected]

 

Contatti Ufficio Stampa:

 

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Il trattamento della dipendenza da cocaina: psicoterapie a confronto

Nel trattamento della dipendenza da cocaina, vi sono prove di efficacia per le psicoterapie cognitivo-comportamentali, psicodinamiche, di gruppo, interpersonali, terapie familiari e persino per il Programma dei Dodici Passi, ma non c’è evidenza che definisca un trattamento come il più efficace.

Alessandro Raggi

 

 

Sul sito di State of Mind, in data 27 maggio 2016, Giada Costantini nel suo articolo ‘Assunzione Di Cocaina: Psicopatologia e Trattamento‘ dichiara che “il trattamento più efficace è quello cognitivo comportamentale“, ma questa affermazione è sbagliata.

Non vi sono, al momento, evidenze univoche circa la maggiore efficacia di uno specifico trattamento psicoterapico rispetto a tutte le altre psicoterapie. La dimensione dell’efficacia della sola psicoterapia nel trattamento della dipendenza da cocaina è per altro molto relativa (NTA, 2002), di qualunque psicoterapia si tratti. Ad ogni modo la CBT (terapie cognitivo-comportamentale) ha dato negli anni (US NDA, 1998) sicuramente prova di essere efficace nel trattamento della dipendenza da cocaina. Dire però che la terapia cognitivo-comportamentale è il trattamento più efficace nella dipendenza da cocaina è errato. L’errore di questa affermazione è rilevabile su più piani, proviamo a considerarne alcuni.

È necessario far notare che non vi sono sufficienti trial scientifici comparativi per affermare che una terapia (in questo caso la CBT) sia in assoluto più efficace di altre psicoterapie che non sono state testate affatto, oppure che non sono state comparate con la prima.

Inoltre, uno studio che rilevi l’efficacia di una terapia non dimostra automaticamente che questa terapia lo sia più di altre per un dato quadro psicopatologico, inclusa la dipendenza da cocaina.

Oltre a ciò vi è anche un errore logico, che può portare a conseguenti errori sul piano epistemologico: quando si compara un termine (è più efficace) lo si dovrebbe comparare con un altro termine (un’altra psicoterapia in questo caso), oppure si dovrebbero portare prove che quel termine è in assoluto più efficace di tutte le altre terapie, incluse quelle (psicoterapie) mai testate o mai confrontate con il primo termine e di questo non vi è traccia nell’attuale letteratura.

Nel trattamento della dipendenza da cocaina, vi sono prove di efficacia per numerosi altri tipi di intervento psicoterapico e in studi su larga scala effettuati dal National Institute on Drug Abuse negli Stati Uniti, anche la terapia psicodinamica (Crits-Christoph P. et al., 1999) è risultata efficace quanto la terapia cognitivo-comportamentale. Allo stesso modo, le terapie di gruppo monosintomatiche per assuntori di cocaina, si sono mostrate efficaci quanto le terapie cognitivo-comportamentali (Leichsenring et al., 2006) e sia le terapie cognitivo-comportamentali, che le terapie psicodinamiche, da sole, si sono mostrate meno efficaci di queste stesse terapie ma in combinazione con gruppi di sostegno monosintomatici (ibidem, 2006).

Uno dei pochi studi importanti (e randomizzati) sulla dipendenza da cocaina, che vedono comparate terapie cognitivo-comportamentali (CBT), terapia psicodinamica (PDT) e counseling individuale basato sulla filosofia dei 12 passi, ha mostrato una maggiore efficacia del counseling individuale. Né CBT né PDT si sono mostrate più efficaci del counseling e non si sono differenziate l’una dall’altra in termini di efficacia (Crits-Christoph P. et al., 1999).  Ad ogni modo, il counseling individuale non si mostra efficace laddove vi siano comorbidità psichiatriche importanti (Crits-Christoph P. et al., 2001). In studi più ampi (Crits-Christoph P. et al., 2008) anche altre forme di psicoterapia espressivo-supportiva, oltre PDT, hanno mostrato la loro efficacia nel trattamento della dipendenza da cocaina, mentre in altri casi ancora si è evidenziata una durevole tenuta nei follow-up (Barber, 2008), e dunque nell’evitamento delle ricadute, in soggetti che erano stati trattati con terapie espressivo-supportive.

È fondamentale però evidenziare che la dimensione dell’efficacia dei trattamenti psicoterapici nella maggior parte degli studi, non è comunque molto elevata in assoluto e non lo è neppure per i trattamenti cognitivo-comportamentali (McHugh, 2010). Occorre ricordare che un conto è l’efficacia statistica di una ricerca scientifica, altro conto è l’efficacia clinica di un trattamento psicoterapico. In molte ricerche sul trattamento psicoterapico della dipendenza da cocaina, infatti, non più del 38% dei casi trattati, con follow-up a tre mesi dal trattamento, risulta ancora in astinenza.

Ancora (NQF, 2005) le terapie psicosociali (CBT) sono state indicate come inefficaci, al pari dell’agopuntura o dei soli farmaci antidepressivi, quando somministrate a soggetti con dipendenza da sostanze patologica grave e presenza di altrettanto gravi comorbidità psichiatriche. Le terapie psicodinamiche individuali in determinati studi si mostrano, invece, poco efficaci (ibidem, 2005), mentre in altre ricerche più recenti l’efficacia delle terapie psicodinamiche nel trattamento della dipendenza da cocaina (Fonagy, 2015) risulta significativa. In ampie ricerche transnazionali (EMCDDA, 2014) le terapie psicosociali (CBT) sono presentate come efficaci e raccomandate, ma non si fa alcun cenno a una loro presunta efficacia assoluta. Persino programmi più tipicamente comportamentisti basati sul binomio rinforzo-punizione (CM, contingency management) si sono mostrati più efficaci di trattamenti as usual (di norma la gestione farmacologica, senza psicoterapia), addirittura tre volte di più (ibidem, 2014).

Vi è un ultimo ma non meno importante aspetto che riguarda più in generale la relazione tra ricerca scientifica in psicoterapia e pratica psicoterapeutica. Già Seligman (1995) metteva in guardia dall’utilizzare facili trasposizioni tra i due contesti di clinica e ricerca; l’autorevole istituto nazionale per la salute degli Stati Uniti d’America (National Institutes of Health, 2012) nel Rapporto sui Trattamenti nell’abuso di droghe (ibidem) mette in guardia dall’applicabilità pratica nel contesto clinico delle rilevazioni effettuate attraverso le ricerche scientifiche nel campo delle dipendenze da sostanze. Sempre il NIDA (National Institute for Drug Abuse), nel riconoscere la più ampia diffusione nel contesto clinico dei trattamenti cognitivo-comportamentali (‘most common used treatment‘), sostiene con chiarezza che ‘nessun trattamento è valido per tutti‘ (ibidem, p.2) e che occorrerà, nel tempo, ‘valutare l’efficacia reale dei trattamenti evidence-based e ciò sarà un passo fondamentale nel portare la ricerca scientifica alla pratica clinica‘ (p.74). In questo documento non si sostiene che una terapia è la più efficace.

La dipendenza da cocaina, più in generale, non è una condizione clinica avulsa dal soggetto, ma una complessa forma di dipendenza patologica che si lega inestricabilmente alle caratteristiche individuali del soggetto dipendente, alla sua storia clinica, alla sua anamnesi e alla sua biografia, alle eventuali comorbidità psichiatriche.

Aspetti quali la personalità del soggetto, l’organizzazione psicologica, la rete di supporto sociale e familiare, il tipo d’uso soggettivo che egli sperimenta con la sostanza – che non è unicamente prestazionale come spesso si tende a dare per scontato (Raggi, 2015) – sono variabili che incidono in modo significativo nella clinica pratica sull’esito di qualunque trattamento. Lavorare con soggetti esclusivamente definiti ‘dipendenti da cocaina’, senza tener conto delle variabili soggettive, è un artificio sperimentale, molto utile nel semplificare le ricerche e nel renderle più attendibili, ma il prezzo che si paga è una drastica riduzione della loro validità.

Ciò significa anche che quando si citano studi e ricerche, almeno in psicoterapia, occorre sempre molta prudenza nel riferirne l’applicazione in ambito clinico, al di là di qualunque orientamento possa più o meno rappresentarci.

 

*Dott. Alessandro Raggi: Psicoterapeuta, psicoanalista. Didatta Scuola di psicoterapia analitica AION. Responsabile nazionale Centri ABA

Scoperto il gene che ci fa sentire il dolore: il PRDM12

In questo articolo viene presentata la scoperta del gene essenziale per la produzione della sensazione del dolore, dell’Università di Cambridge, che apre la strada a nuovi metodi nel campo della terapia del dolore.

 

I ricercatori, guidati da Geoffrey Woods e Jan Senderek dell’Università di Cambridge, hanno scoperto il gene responsabile della percezione del dolore, denominato PRDM12.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics con il seguente titolo: ‘Transcriptional regulator PRDM12 is essential for human pain perception’ (G. Woods, J. Senderek, 2015)

La percezione del dolore ha un valore adattativo, in quanto ci allerta di fronte eventuali pericoli e ai relativi danni che possono arrecare ai nostri tessuti:

Pain perception has evolved as a warning mechanism to alert organisms to tissue damage and dangerous environments (G. Woods, J. Senderek, 2015).

Ci sono però alcuni individui, che a causa di una rara caratteristica, non percepiscono il dolore e questo ha conseguenze dannose.

Attraverso dettagliate mappature del genoma, alcuni ricercatori hanno collaborato al fine di analizzare le caratteristiche genetiche di 11 famiglie (non imparentate tra loro) portatrici di una insensibilità congenita al dolore (CIP), una condizione ereditaria che impedisce di percepire il dolore, ma anche il calore e il freddo (N. Vitali, 2016).

Lo studio ha individuato 10 diverse mutazioni in entrambe le copie del gene PRDM12 nei pazienti analizzati, affetti da CIP. Da ciò si è dedotto che la causa della condizione di insensibilità al dolore risiede proprio nelle varianti del gene PRDM12.

Nello specifico: le persone affette da CIP nel loro corredo genetico presentano una mutazione a carico di ciascuna delle due copie di PRDM12, se dal genitore viene ereditata una sola copia invece, la patologia non si manifesta. I ricercatori hanno inoltre osservato che alcuni neuroni sensibili al dolore risultano assenti nei pazienti CIP. È stato così compreso dai ricercatori che «doveva esserci qualcosa che bloccava la produzione di queste cellule nervose già durante lo sviluppo degli embrioni» (N. Vitali, 2016).

Il PRDM12 rappresenta il quinto gene identificato come connesso all’assenza della percezione del dolore. In passato sono stati, infatti, identificati due geni che hanno condotto allo sviluppo di antidolorifici (in fase di sperimentazione).

La speranza dei ricercatori risiede proprio nel fatto che questa scoperta porti alla creazione di nuovi farmaci, in quanto la proteina che il gene PRDM12 produce, è un fattore importante per la genesi dei nervi collegati alle sensazioni e può quindi essere presa come centro per terapie antidolore.

 

Transcriptional regulator PRDM12 is essential for human pain perception – Abstract –

Pain perception has evolved as a warning mechanism to alert organisms to tissue damage and dangerous environments. In humans, however, undesirable, excessive or chronic pain is a common and major societal burden for which available medical treatments are currently suboptimal. New therapeutic options have recently been derived from studies of individuals with congenital insensitivity to pain (CIP). Here we identified 10 different homozygous mutations in PRDM12 (encoding PRDI-BF1 and RIZ homology domain-containing protein 12) in subjects with CIP from 11 families. Prdm proteins are a family of epigenetic regulators that control neural specification and neurogenesis. We determined that Prdm12 is expressed in nociceptors and their progenitors and participates in the development of sensory neurons in Xenopus embryos. Moreover, CIP-associated mutants abrogate the histone-modifying potential associated with wild-type Prdm12. Prdm12 emerges as a key factor in the orchestration of sensory neurogenesis and may hold promise as a target for new pain therapeutics.

I sogni dei bambini. Seminario tenuto nel 1936-41 da C. G. Jung – Recensione

Carl Gustav Jung colto nella sua attività di docente universitario. Un’integrazione alla teoria junghiana del sogno e un documento importante per la storia della psicologia.

In Ricordi, sogni, riflessioni, Carl Gustav Jung (1961) racconta che il suo primo approccio alla lettura dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud sarebbe stato di incomprensione, salvo rivalutarne l’importanza dopo i propri studi sull’esperimento associativo. In realtà, da come cita il libro di Freud fin dalla tesi (Jung, 1902, pp. 68, 88, 111), si capisce che lo psicologo svizzero aveva capito subito il significato dell’opera freudiana, che costituì per lui (come per molti altri) il motivo della sua adesione iniziale alla teoria psicoanalitica. In ogni caso, fin dal periodo della collaborazione con Freud, Jung aveva già talmente metabolizzato la teoria del sogno da iniziare a introdurre delle proprie innovazioni (Jung, 1906; 1909). Tali innovazioni diventeranno sempre più originali nel corso di pochi anni, fino alla proposta di un modello ermeneutico radicalmente diverso rispetto a quello di Freud.

 

In estrema sintesi, e con qualche approssimazione, si può riassumere la versione definitiva della teoria junghiana del sogno come segue:

  1. Il sogno costituisce in alternativa:
    1. una compensazione rispetto alla vita diurna del sognatore;
    2. il riflesso della condizione presente del sognatore; per quelli che Kohut, senza citare Jung, chiamò in seguito sogni sullo stato del Sé (Kohut, 1972-76, p. 162);
    3. un’elaborazione inconscia volta a prevedere possibili sviluppi futuri della vita del sognatore (funzione prospettica). In ogni caso il sogno tendenzialmente guarda al presente e al futuro piuttosto che al passato e marca spesso una tappa in direzione dell’autorealizzazione del soggetto (ciò che Jung chiama ‘processo di individuazione‘).
  2. Il sogno deve essere interpretato in senso letterale e non come un rovesciamento pressoché totale del contenuto latente (idea ripresa dal gruppo di Lichtenberg con il motto ‘il messaggio contiene il messaggio‘; si veda Lichtenberg et al., 1996, pp. 173-90). Le difficoltà di comprensione sono legate alla diversità del linguaggio con il quale si esprime l’inconscio piuttosto che da una necessità di censura. Ciò non vuol dire, come Jung sottolinea anche ne I sogni dei bambini, che il sognatore non possa riscontrare una certa difficoltà a parlare dei propri sogni, ma ciò sarebbe dovuto alla resistenza operata ex post dai suoi complessi (Jung, 1936-41, p. 244).
  3. I simboli onirici non hanno un significato univoco (segnico, in termini di filosofia del linguaggio) e spesso mettono in contatto il sognatore con i contenuti dell’inconscio collettivo, ovvero quella parte dell’inconscio che è in qualche misura comune a tutta l’umanità.

Con L’interpretazione dei sogni, Freud propose un trattato completo sull’argomento, che peraltro avrebbe voluto riscrivere del tutto in capo a pochi anni dalla prima uscita, avendo posto le pulsioni e non più i desideri al centro della propria teoria della motivazione (McGuire, 1974, pp. 423 e ss.). Ad impedirlo fu il suo editore Franz Deuticke, il quale, non a torto, pensava che rivedere completamente un’opera così ponderosa a breve distanza dall’uscita avrebbe suscitato notevoli perplessità nel pubblico dei lettori (McGuire, 1974, p. 453). Jung, invece, scrisse solo brevi saggi al riguardo (oltre ai citati: Jung, 1914; 1931; 1945; 1948; 1961a), per quanto osservazioni sulla sua teoria dei sogni siano disseminate in tutte le opere e addirittura tutta la prima parte di Psicologia e alchimia (Jung, 1944) non sia altro che l’articolata interpretazione di una lunga sequenza di sogni del fisico Wolfgang Pauli (si veda la recensione dell’epistolario Jung-Pauli). Da questo punto di vista quindi, un particolare interesse rivestono i Seminari di Jung sui sogni. Quello sui sogni degli adulti è da tempo disponibile in italiano (Jung, 1928-30). Questo sui sogni dei bambini ha visto la luce nel nostro paese molto di recente.

I Seminari di Carl Gustav Jung sono cicli di lezioni tenuti dallo psicologo svizzero in varie sedi, il cui testo è stato fortunatamente raccolto dagli uditori (similmente con quanto è avvenuto nel caso di Jacques Lacan, del quale i seminari costituiscono di fatto la gran parte del lascito). La loro importanza è considerata tale da averne fatto ritenere opportuna la pubblicazione come volumi supplementari delle Opere sia nell’edizione in tedesco che in quella in inglese. In Italia l’editore Bollati Boringhieri ne aveva inizialmente sottovalutato il rilievo, onde Psicologia analitica (Jung, 1924) e Visioni (Jung, 1930-34) sono usciti per Magi, che ha pubblicato anche il dialogo Sui sentimenti e sull’ombra (Jung, 1957-59), le giovanili Conferenze di Zofingia (Jung, 1896-99) e le Lettere (Jung, 1906-61), recentemente ristampate. Bollati Boringhieri ha dapprima pubblicato La psicologia del Kundalini Yoga (Jung, 1932) e il già menzionato Analisi dei sogni (Jung, 1928-30); di recente, forse sulla scorta dell’interesse suscitato dal Libro rosso (Jung, 1913-30), si è profusa in uno specifico sforzo produttivo. Hanno così visto la luce i quattro volumi del commentario allo Zarathustra di Nietzsche (Jung, 1934-39; su di essi si tornerà a parlare su State of Mind) e i due dei Sogni dei bambini. Dell’edizione italiana del Libro rosso, in ogni caso, i due Seminari di più recente pubblicazione mantengono l’impostazione grafica e cromatica della copertina.

I Sogni dei bambini è il frutto dell’insegnamento di Jung presso l’università di Zurigo negli anni 1936-37 e 1940-41. Il testo è stato edito in tedesco per la prima volta nel 1987. Potrebbe sembrare strano e paradossale che importanti testimonianze dell’insegnamento di un personaggio così noto siano state rese disponibili tanti anni dopo la sua morte. La ragione è connessa a scelte dello stesso Jung, che teneva queste lezioni per una cerchia molto ristretta di partecipanti e inizialmente aveva autorizzato la circolazione delle relative trascrizioni solo fra i partecipanti stessi. In generale, ciò sembra dovuto sia a ragioni di discrezione, legata a contenuti clinici discussi in modo aperto e senza mascheramenti; sia a una modalità molto libera e informale di commentare da parte dello stesso Jung, che avrebbe forse voluto rivedere i testi in vista di eventuali pubblicazioni; sia al coinvolgimento nelle discussioni di terzi (pressoché tutti i partecipanti), i quali pure avrebbero dovuto essere consultati prima che i loro contributi circolassero. La famiglia di Jung ha col tempo autorizzato invece l’edizione dei Seminari, anche interpretando in senso possibilista il sempre minore rigore da parte dello psicologo svizzero verso una diffusione meno esclusiva di essi, nel corso degli anni.

Questo specifico seminario è caratterizzato da una partecipazione molto intensa da parte degli allievi di Jung, ognuno dei quali illustra a rotazione almeno un esempio clinico. Il testo complessivo, dunque, è costituito da brevi introduzioni generali ai corsi da parte di Jung; da una serie di sogni raccolti e commentati dai partecipanti e naturalmente da Jung stesso, che a sua volta propone alcuni dei sogni discussi; dall’esposizione del contenuto e dal commento di alcuni testi antichi sul significato dei sogni, da Artemidoro in poi. I sogni presentati non provengono psicoterapie infantili in corso ma da ricordi dei propri primi sogni, raccontati in analisi molti anni dopo dai rispettivi sognatori. Secondo Jung, i sogni così raccolti rivestirebbero un interesse specifico:

Perché provengono dai più intimi recessi della personalità, costituendo perciò non di rado un’anticipazione del destino del sognatore. I sogni successivi divengono via via meno importanti, a meno che il sognatore non abbia un destino particolare. Durante la pubertà e fino ai vent’anni i sogni tornano a divenire rilevanti, per poi perdere nuovamente d’importanza e riprenderla solo dopo il trentacinquesimo anno di età (Jung, 1936-41, p. 3).

Jung, inoltre, ritiene che i sogni che alludano a un problema esistenziale già superato vengano in seguito dimenticati, mentre i sogni che si ricordano alludono a qualcosa di non ancora risolto, oppure a qualche aspetto del proprio percorso esistenziale che ‘forse non si è ancora compreso, o non si comprenderà mai‘ (Jung, 1936-41, p. 383).

Una particolare caratteristica della tecnica interpretativa junghiana trova uno spazio particolarmente ampio nelle pagine del seminario, ovvero l’amplificazione. L’analista associa in prima persona ai simboli del sogno elementi che egli ritiene connessi all’inconscio collettivo: ciò avviene quando egli è in grado di accostare contenuti onirici che gli vengono proposti a simbologie archetipiche provenienti anche da culture distanti. ‘Spieghiamo dunque un sogno ampliando la portata dei singoli elementi e utilizzando tutte le nostre conoscenze‘ (Jung, 1936-41, p. 246). Si tratta di quell’aspetto delle idee junghiane che ha trovato il suo massimo sviluppo nella psicologia archetipica di James Hillman. Non si può, in ogni caso, dimenticarne l’indubbio valore storico.

Gli esiti degli interventi psicologici con adolescenti: la traduzione italiana del CORE-Young Person

Il CORE Young Person è uno strumento di valutazione pre e post intervento, cioè di valutazione di esito. La versione originale inglese nasce come adattamento del CORE-OM per persone dagli 11 ai 16 anni. È una checklist che cerca di definire il livello di problematicità ed il funzionamento della persona.

D. Rebecchi *; R. Di Biase*, N. Lusuardi*, F. Ronchetti*, G. Palmieri**, C. Evans***

* Servizio Psicologia, Dipartimento Salute Mentale, Ausl Modena
** Ospedale Villa Igea, Modena
***Universities of Nottingham and Roehampton, UK

Introduzione

L’interesse per la valutazione degli esiti dei percorsi psicologici ha compiuto negli ultimi decenni notevoli progressi generando un ricco corpus di letteratura scientifica. La misurazione dell’esito permette la valutazione del risultato del processo terapeutico, della sua efficacia teorica (efficacy), della sua efficacia nella pratica (effectiveness).

È importante quindi che siano creati ed utilizzati strumenti psicometrici che diano innanzitutto una valida formulazione concettuale del costrutto di esito e che ne sappiano fornire una soddisfacente misurazione specifica per popolazione clinica.

 

I disturbi più frequenti negli adolescenti e gli strumenti di valutazione

Osservando la popolazione adolescente italiana, i disturbi psichici interessano un’ampia parte di essa: lo studio PrISMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti; Frigerio et al, 2007) ha evidenziato che il 9,8% dei partecipanti sottoposti a screening sono risultati ‘probabili’ casi con problemi emotivo-comportamentali, mentre l’8,2% dei preadolescenti soffriva, al momento dell’indagine, di un disturbo mentale conclamato. I disturbi emotivi (disturbi d’ansia e depressivi) erano più rappresentati di quelli esternalizzanti, presenti in una percentuale inferiore a quella comunemente riscontrata in altri studi. Monitorare quindi nello specifico i percorsi riguardanti questa fascia d’utenza appare un obiettivo prioritario.

Gli strumenti utilizzabili a tale scopo sono pochi e solo parte di essi si presta come misura di esito validata, tra questi: lo Strenghts and Difficulties Questionnaire (SDQ; Goodman, 1997), il Children Depression Inventory (CDI; Kovacs, 1985), la Child Behaviour Checklist (CBCL, Achenbach, 1991), (la C-GAS, Shafer, 1983) o la Symptom Checklist-90 (SCL-90 Derogatis, 1994). Tuttavia la maggior parte di queste scale individuano i casi più gravi, configurandosi fondamentalmente come misure di screening, oppure evidenziano specifiche aree sintomatico-patologiche e sono poco adatte ad un uso routinario.

La scelta degli strumenti di valutazione di esito deve tenere conto di alcuni criteri generali segnalati dalla letteratura internazionale e dall’esperienza clinica:
– Facilità e semplicità dell’uso nella pratica clinica
– Validazione psicometrica in termini di attendibilità, validità e sensibilità nell’evidenziare i cambiamenti occorsi nel tempo rilevanti per i clinici e gli utenti
– Disponibilità di norme per la popolazione funzionale e disfunzionale

Tutto ciò suggerisce la necessità di uno strumento relativamente breve, adatto a somministrazioni ripetute e sufficientemente versatile, in modo da poter essere utilizzato con tipologie di pazienti, di setting e di servizi diversi. Dovrebbe inoltre essere snello, trovare una buona accoglienza da parte degli psicoterapeuti e configurarsi come utile non solo per la valutazione degli esiti di efficacia ma anche per fornire informazioni al clinico durante le varie fasi della terapia.

 

Il CORE Young Person

Tali esigenze sono alla base del progetto di validazione italiana del questionario CORE-Young Person (YP-CORE o CORE-YP).
Il CORE Young Person è uno strumento di valutazione pre e post intervento, cioè di valutazione di esito. La versione originale inglese nasce come adattamento del CORE-OM per persone dagli 11 ai 16 anni. È una checklist che cerca di definire il livello di problematicità ed il funzionamento della persona. Gli item consentono la valutazione del rischio (1 item), del benessere (1 item), dei sintomi/problemi e del funzionamento del soggetto (4 item); ogni item prevede una risposta a scelta multipla su scala Likert a cinque livelli, relativa alla presenza di uno specifico sintomo nell’ultima settimana: ha dato origine a uno score con cinque livelli. È uno strumento breve, di facile somministrazione essendo autosomministrato e ha mostrato buone proprietà psicometriche (Twigg, 2009; Twigg, 2016).

 

La validazione italiana del CORE Young Person

Il Servizio di Psicologia del Dipartimento Salute Mentale dell’Ausl di Modena si è fatto promotore della validazione italiana del CORE Young Person con la collaborazione del Prof. C. Evans, uno degli autori del CORE (Clinical Outcomes in Routine Evaluation) e del Dr. Palmieri che aveva precedentemente validato in italiano il CORE-OM .

La traduzione italiana dello strumento ha previsto l’adattamento linguistico della versione inglese del questionario quale fase preliminare. Attualmente si sta procedendo con la validazione, mediante uno studio osservazionale multicentrico con la collaborazione della SIPSOT, Società Scientifica Italiana Psicologi Ospedalieri e Territoriali. Partecipano diverse Ausl, quali Trento, Livorno, Matera, Cagliari, Piacenza, Modena, Bari. Il questionario viene somministrato in diversi setting clinici e non. A fine estate, terminata la raccolta dei dati, questi verranno sottoposti a valutazione formale della validità ed attendibilità attraverso le analisi statistiche effettuate sull’intero campione.

La valutazione dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: uno sguardo d’insieme

Disturbi della nutrizione e della alimentazione: L’inquadramento diagnostico si attua a livello ambulatoriale e prevede che il paziente venga valutato a livello clinico, nutrizionale e psicologico. Si tratta di condizioni cliniche che presentano elevata comorbilità clinica e psichiatrica che deve essere indagata. La valutazione internista comprende dunque la valutazione clinico – anamnestica, nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica.

[blockquote style=”1″]L’eccesso, l’orgia alimentare e il digiuno, non quello obbligato dalla carestia, ma quello imposto a se stessi con un atto di volontà, figurano da sempre nella mitologia, nella letteratura, nelle arti figurative, nei riti religiosi, nelle pratiche sociali[/blockquote] (Cuzzolaro, 2014, p.45).

L’anomalo rapporto con il cibo e il corpo seppur con nomi e criteri clinici differenti era stato già rilevato nell’antichità e con esso talvolta l’esigenza di classificazione dell’alterazione per giungere a una diagnosi.

 

I disturbi della nutrizione e della alimentazione secondo il DSM-5

I disturbi del comportamento alimentare oggi definiti nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali DSM 5 «Disturbi della nutrizione e della alimentazione» si presentano distinti in sei categorie diagnostiche principali:
– Pica.
– Mericismo.
– Disturbo alimentare evitante/restrittivo.
– Anoressia nervosa.
– Bulimia nervosa.
– Disturbo di alimentazione incontrollata.

Oltre alle precedenti si individuano due categorie residue:
disturbo della nutrizione o della alimentazione specificato: si tratta di casi sottosoglia dell’anoressia, della bulimia, del disturbo da alimentazione incontrollata oltre al disturbo con condotte di eliminazione e sindrome del mangiare di notte.
Disturbo della nutrizione o della alimentazione non specificato, ossia un disturbo dell’alimentazione in cui mancano delle informazioni per specificarne le caratteristiche.

 

L’eziopatogenesi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione

L’ultimo ventennio è stato caratterizzato da un innegabile interesse e un notevole ambito di ricerca in questo campo e ha condotto a risultati significativi nella gestione di queste complesse condizioni cliniche.
L’eziopatogenesi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione è di tipo multifattoriale. Essi sono il risultato dell’interazione di fattori predisponenti (genetici, psicologici, ambientali e socioculturali), fattori precipitanti (diete restrittive e difficoltà psicologiche personali) e fattori di mantenimento (sindrome da digiuno e il rinforzo positivo dall’ambiente).

Sul piano epidemiologico, uno studio recente americano condotto su un campione di popolazione generale molto vasto ha rilevato che la prevelenza lifetime dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa si aggirano rispettivamente intorno allo 0,9% all’1,5%, nel genere femminile, mentre in quello maschile le percentuali sono 0,3 per l’anoressia e 0,5 per la bulimia.

Si tratta di condizioni cliniche a elevata comorbilità con altri disturbi psichiatrici, che influiscono in maniera rilevante sulla qualità della vita e producono difficoltà interpersonali, scolastiche, lavorative e gravi complicazioni fisiche. Queste ultime possono essere di natura cardiocircolatoria, ematologica, immunitaria, endocrina, gastroenterica, respiratoria, osteoscheletrica, dermatologica, renale, epatica e neuromuscolare.

I disturbi della nutrizione e della alimentazione rappresentano una delle più frequenti cause di disabilità giovanile e a essi si associa un rischio elevato di mortalità. Spesso l’osservazione clinica è preceduta da una storia di malattia molto lunga e questo complica notevolmente il processo di guarigione.
[blockquote style=”1″]Abbiamo sempre meno familiarità con noi stessi e la grammatica visiva del nostro tempo ci spinge a vedere il corpo e la nostra immagine come un oggetto che non ci piace mai abbastanza, che si può e si deve perfezionare[/blockquote] (Dalla Ragione & Mencarelli, 2012, p.20).

 

La diagnosi dei disturbi della nutrizione e della alimentazione

L’appropriatezza della diagnosi e di conseguenza di un trattamento adeguato diventa oggetto imprescindibile d’interesse, d’informazione e di aggiornamento per quanti lavorano in ambito clinico.
A tal proposito molta attenzione merita oggi la necessità di integrare competenze e promuovere a tutti gli effetti e su un piano univoco professionalità differenti per il processo di valutazione diagnostica precoce e per il trattamento.

Come sostiene Paolo Santonastaso questo diventa tanto necessario, quanto più si riflette sulla complessità, la multifattorialità eziologica, la numerosità delle resistenze al cambiamento che conducono alla cronicità della malattia.
In questo modo si rende possibile un lavoro accurato di gestione del disturbo in cui è possibile fornire risposte ai bisogni del paziente, che si riferiscono a livelli diversi.

Il processo diagnostico è un momento particolarmente delicato in cui sono molteplici gli aspetti da prendere in esame. Se eseguita correttamente la diagnosi consente di escludere altre patologie che possono avere effetti secondari sulla relazione con il cibo, come disfagie, spasmi esofagei e pilorici, dispepsie, patologie tumorali, malattie infettive, da uso di sostanze e altre patologie psichiatriche caratterizzate da iperfagia o ipofagia.

L’inquadramento diagnostico si attua a livello ambulatoriale e prevede che il paziente venga valutato a livello clinico, nutrizionale e psicologico. Come detto in precedenza si tratta di condizioni cliniche che presentano elevata comorbilità clinica e psichiatrica che deve essere indagata.
La valutazione internista comprende dunque la valutazione clinica – anamnestica, nutrizionale, della condotta alimentare e della spesa energetica.

Nel corso della valutazione clinico-anamnestica ci si occupa di eseguire un’attenta raccolta anamnestica unitamente all’esame obiettivo e alla prescrizione di una serie di esami tra cui l’esame delle urine, l’emocromo completo, la glicemia, il test per la funzionalità epatica, l’assetto lipidico, la creatininemia, l’azotemia, il BMI.

Lo stato nutrizionale in cui il soggetto si trova include il calcolo del BMI, il bilancio energetico, ossia la differenza tra la quantità di nutrienti introdotta e consumata, la composizione corporea, distinta in massa grassa e magra, la funzionalità corporea, ossia la stima dei nutrienti introdotti in relazione alla loro funzione.

Nello specifico per la misurazione del bilancio energetico a riposo si ricorre alla calorimetria indiretta, un esame che misura l’ossigeno di un determinato volume di aria inspirata e l’anidride carbonica prodotta. La valutazione della composizione corporea può essere eseguita attraverso il ricorso all’antropometria, la bioimpedenzometria e la densiometria a doppio Raggio X. La prima fornisce una misura della massa corporea misurando lo spessore delle pliche cutanee e delle circonferenze, la seconda misura lo stato d’idratazione e di elettroliti nel corpo. La densiometria invece distingue massa grassa, magra e ossea secondo le loro proprietà di attenuazione dei raggi X.

Lo stato di funzionalità corporea può essere indagato attraverso un’analisi accurata dei parametri biologici in precedenza indicati. Altrettanto rilevante è l’analisi della funzionalità motoria in termini di resistenza e forza.
[blockquote style=”1″]Nei disturbi alimentari si radicalizza il passaggio del cibo da valore d’uso a valore di consumo, per cui l’alimento diventa strumento, il gusto perduto e la sensorialità alterata[/blockquote] (Senatore, 2013, p.28).

I Disturbi della nutrizione e della alimentazione possiedono tra le malattie psichiatriche un elevato rischio di mortalità con eziologia cardiovascolare, in particolar modo l’anoressia nervosa. La valutazione del rischio cardiovascolare deve essere eseguita attraverso gli esami strumentali elettrocardiografici ed ecocardiografici opportuni. Sachs e al. (2015) suggeriscono che cambiamenti strutturali negativi del miocardio potrebbero essere responsabili di un aumento della mortalità. Le anomalie più frequentemente riscontrate riguardano alterazioni a carico del pericardio, variazioni dei ventricoli, alterazioni della conduzione, bradicardia e aritmie maligne.

In presenza di persistenti alterazioni della condotta alimentare e soprattutto nel caso dell’anoressia nervosa ci troviamo di fronte anche a notevoli cambiamenti endocrini, che interessano differenti assi e la cui gravità è spesso correlata al grado di denutrizione. Come indicato da Madhusmita & Klibanski (2014) questi cambiamenti coinvolgono l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi causando l’amenorrea e iposecrezione degli ormoni gonadotropina, follicolo-stimolante (FSH) e luteinizzante, (LH), l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide. È stata rilevata, infatti, un’ipersecrezione dell’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) e del cortisolo oltre a un’iposecrezione dell’ormone di rilascio della tireotropina (TRH) e dell’ormone tireotropo (TSH). Ulteriori alterazioni riguardano aumentati livelli di grelina e del peptide YY responsabili della regolazione della fame e della sazietà e bassi livelli di leptina e adiponectina che contribuiscono all’ipogonadismo e alla bassa densità ossea.

Si comprende dunque la rilevanza del ricorso alla diagnostica per immagini (indagini ecografiche e altre tecniche di imaging biomedico) per la valutazione del profilo endocrinologico.
Alla luce di quanto detto l’assessment diagnostico si concentra oltre che sull’accertamento clinico – nutrizionale anche su quello dello stato psicologico. A tale scopo, il clinico impiega il colloquio e la valutazione psicodiagnostica per indagare in modo accurato le abitudini alimentari, la storia del peso, i sintomi psicologici, gli atteggiamenti riguardo al vissuto corporeo.
[blockquote style=”1″]Nel corpo c’è infatti una perfetta identità tra essere e apparire, e accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio. [/blockquote](Galimberti, U, 2002, p. 292).

Nello specifico sono impiegati strumenti psicometrici, come interviste semistrutturate e strutturate. Le più conosciute e utilizzate sono:
Eating Attitudes Test (EAT).
Eating Disorders Examination (EDE).
Structured Clinical Interview for DSM (SCID).

Per la valutazione di aspetti relativi alla frequenza e la gravità dei sintomi, le preoccupazioni, i comportamenti, le sensazioni e gli aspetti cognitivi associati all’alimentazione è possibile ricorrere a questionari autosomministrati, per menzionarne alcuni: l’EDE-Q, il Clinical Impairment Assessment (CIA), l’Eating Disorder Inventory (EDI), il Body Uneasiness Test (BUT), il Body Attitudes Test (BAT) e la Binge Eating Scale (BES).
Rivolgendo uno sguardo all’elevata comorbilità psichiatrica risulta appropriato impiegare inoltre inventari di personalità per l’indagine di altri sintomi psichiatrici.

 

Conclusioni

Per concludere, le valutazioni precedentemente descritte consentono di identificare la presenza di indicatori somatici e psichici di gravità, essi riferiscono il grado di compromissione del paziente e sono necessari per la successiva indicazione al trattamento.
L’intervento immediato e attraverso un approccio integrato risulta cruciale, nonostante vi siano non poche difficoltà associate alla diagnosi precoce, poiché rende possibile un’assistenza adeguata al paziente a alla sua famiglia producendo esiti favorevoli.

Fratelli coltelli: le storie di odio tra fratelli

Rapporto tra fratelli: Conoscersi non genera automaticamente compatibilità di abitudini e di caratteri. Conoscendosi meglio si possono avere brutte sorprese, il cosiddetto Altro con la maiuscola in cui scoprire la nostra stessa umanità può rivelarsi troppo umano, troppo simile a noi e quindi immensamente insopportabile. Finiamo sempre per incontrare noi stessi, e non sempre è una bella scoperta. 

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 28/05/2016

Fratelli coltelli: quando manca la compatibilità di abitudini e caratteri

Riflettere sull’odio tra fratelli, sui fratelli coltelli, offre il fianco al facile cinismo di chi la sa lunga, di chi “gnaffe, a me non la si fa!” e prosegue dicendo che la natura umana rimane quella là e sempre là si va a finire, ai coltelli nonostante si sia fratelli. Il machiavellismo degli stenterelli. Bene quindi predicare le virtù della vicinanza, del conoscersi reciproco che porta al reciproco rispetto o almeno a sopportarsi. Però è anche vero che gli uomini, se del male si affliggono, poi del bene si stuccano, e troppo zucchero rovina il palato. Non è solo questione di gusti, ma anche di capire quali sono le condizioni del convivere civile e del civile sopportarsi. Troppa conoscenza reciproca non sempre crea comprensione, e la storia di fratelli coltelli sta lì a dimostrarlo. L’eccesso d’intimità crea invischiamento – come dicono gli psicologi dei sistemi da Bateson in poi- e l’invischiamento crea schiavitù, perdita di autonomia.

Conoscersi non genera automaticamente compatibilità di abitudini e di caratteri. Conoscendosi meglio si possono avere brutte sorprese, il cosiddetto Altro con la maiuscola in cui scoprire la nostra stessa umanità può rivelarsi troppo umano, troppo simile a noi e quindi immensamente insopportabile. Finiamo sempre per incontrare noi stessi, e non sempre è una bella scoperta.
Non si tratta solo di sopportarsi tra fratelli, e in questo la psicologia delle interazioni familiari ci rende perfino troppo consapevoli dei rischi dell’eccesso di vicinanza e comprensione. E non si tratta solo di sopportarsi tra culture imparentate, più o meno sorelle o cugine, come accade tra musulmani, europei più o meno laici e/o più o meno cristiani ed infine ebrei.

Peggio. Si tratta di sopportare il nostro fratello peggiore, l’onnipresente colui da noi inseparabile che per sempre ci infastidisce: noi stessi e i nostri stessi pensieri. Con i quali è penoso convivere. E anche in questo caso, paradossalmente, dobbiamo imparare non solo a incrementare la conoscenza, ma anche a saperla economizzare, a diminuirla perfino. Conosci te stesso, diceva il dio delfico in Grecia, ma non trasformare questa conoscenza in un rimuginio auto-analitico sterile e opprimente, aggiungono i nuovi dei pragmatici della terra d’Albione.

 

Le storie dei fratelli Romolo e Remo e Caino e Abele

Toniamo ai fratelli. Una duplice storia di fratelli assassini è alla base di due tradizioni storiche che –così si dice- ci sono abbastanza imparentate, anche se non dobbiamo mai esagerare con le origini storiche. La storia può essere un incubo che ci schiavizza e dal quale occorre svegliarsi. Abbiamo fatto un’abbuffata di miti e storie una decina e più di anni fa, al tempo delle guerre del golfo, e ci è bastata. Oggi, però, concediamoci un diversivo. Chi è questa doppia coppia di fratelli assassini che giace alle nostre origini? Sono loro, Romolo e Remo e Caino e Abele. È strano come talvolta si trascuri l’ambigua somiglianza tra queste due coppie di fratelli. Forse è un bene non farci troppo caso, seguendo la logica del non conoscersi troppo e di svegliarsi dall’incubo della storia di cui scrivevamo poco fa. E, ancora una volta, somiglianza e conoscenza non significano amichevole convivenza, come tristemente dimostra la lunga storia degli ebrei tra noi.

Riflettiamo però, psicologicamente e mitologicamente e brevemente, su queste due coppie. Le somiglianze si confondono con le differenze, e viceversa. Romolo uccide Remo e poi fonda Roma, la città del Diritto e della Legge. Caino uccide Abele ed è bandito. Vi è una differenza? Certo, ma leggiamo meglio il racconto biblico. Caino è bandito, ma è anche protetto da Dio che lo dichiara inviolabile. Non basta. “Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio”. Costruttore di città? Come Romolo! Emerge una somiglianza insospettata col fondatore di Roma. E Romolo, a sua volta, non è un bandito a capo di una banda di dropouts, come erano i primi Romani? E ancora, Caino generò discendenti, i quali furono Iabal “padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame” (un pastore, come pastore era Romolo), Iubal “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, mentre il fratellastro Tubalkàin fu “fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro”. Insomma, Caino fu un eroe civilizzatore e iniziatore delle arti meccaniche e delle arti liberali, della cultura tecnologica e di quella umanistica, tipica delle città.

È un racconto triste e ambiguo quello biblico da leggersi all’imbrunire, in cui si suggerisce che il male è assassino ma crea le arti e la civiltà mentre il bene perisce sterile e dimenticato dagli uomini. Abele non ha discendenza. Meglio il racconto romano? Il mito romano è altrettanto disincantato, Romolo il fondatore uccide Remo che aveva osato varcare i confini che Romolo stava tracciando, i confini di Roma. Questi rudi Romani non imbellettavano le loro origini. Entrambi i racconti ci dicono una tremenda storia: all’origine di una convivenza civile e complessa vi è un fratricidio. E due storie che voglio essere all’inizio di due tradizioni apparentemente così estranee, giudaismo e romanesimo, raccontano la stessa storia. Sono due storie sorelle. Fermiamoci qui, sulla soglia dello spazio sacro. È bene intravedere il bagliore del coltello sacrificale, ma è meglio non sapere troppo.

Guarire d’amore. Storie di psicoterapia (2015) – Recensione

Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà).

 

Ho deciso di leggere questo libro a partire dal titolo e dal mio interesse per la dipendenza affettiva, convinta che trattasse di psicoterapie che avessero a che fare, appunto, con difficoltà relazionali. Che detta così, si potrebbe anche controbattere che tutte le psicoterapie hanno a che fare in qualche modo con difficoltà relazionali. E infatti. Comunque, per chi avesse interpretato il titolo nella mia stessa direzione, va premesso che: niente terapie di coppia, niente filo conduttore che avesse a che vedere con una diagnosi o un funzionamento comune.

Ma partiamo dall’inizio. Guarire d’amore è un libro scritto da Irvin Yalom, classe 1931, psichiatra e psicoterapeuta a orientamento esistenzialista. Yalom ha aprofondito diversi temi nel corso della sua professione, a partire dalla terapia di gruppo (su cui ha scritto un bellissimo volume teorico nel 1970), per arrivare alle problematiche che lui definisce esistenziali (morte, senso della vita, isolamento e libertà) e di cui ha scritto in un volume che ad oggi non è stato tradotto in italiano e nella sua versione originale del 1980 prende il nome di Existential Psychotherapy.

 

Guarire d’amore: uno dei romanzi di Yalom

Guarire d’amore si inserisce invece in un altro filone, quello dei romanzi o comunque delle testimonianze romanzate di psicoterapia, che Yalom ha coltivato a partire da Le lacrime di Nietzsche (1992), fino a Il problema Spinoza (2012), collocandosi in una posizione strana della linea temporale, visto che la prima versione è stata stesa nel 1989. Yalom ai tempi aveva 57 anni e affiancava l’attività clinica all’attività di ricerca, con un focus privilegiato sul tema del lutto complicato.

(Su State of Mind abbiamo anche recensito “Sul lettino di Freud“, 2015 di Irvin Yalom, Ndr)

Guarire d’amore si configura come una raccolta di 10 psicoterapie, raccontate dall’autore dal proprio personale punto di vista, cariche tuttavia di dettagli sull’inquadramento iniziale, sull’andamento delle sedute, sulla relazione terapeutica e sul dipanarsi delle problematiche specifiche.

 

La storia di Thelma

Apre le danze la storia di Thelma: settant’anni, un bel caratterino, arriva in terapia con sintomi depressivi cronicizzati che l’hanno portata a spasso per studi psichiatrici negli ultimi 20 anni e l’hanno fatta approdare allo studio di Yalom a seguito della rottura con il suo precedente terapeuta. Rottura non solo professionale, perché viene fuori che Thelma e Matthew (giovane e affascinante psicologo conosciuto 11 anni prima) avevano spinto troppo sulla confidenzialità, per arrivare ad avere una brevissima storia di 27 giorni fatta di innamoramento, passione, notti in bianco e stomaco chiuso. Il problema non è tanto quello (già di per sé spiazzante) della rottura del setting, quanto il fatto che Thelma si dica bloccata in uno stato di attesa e rêverie da 8 anni, con brevi intervalli fatti da tentativi disperati di recuperare l’attenzione di Matthew anche attraverso gesti suicidari o parasuicidari: sono 8 anni che aspetta una spiegazione a seguito della brusca rottura voluta da Matthew, sono 8 anni che si immagina le sue scuse e il suo tentativo di ricongiungimento.

Ora, va da sè che come prima cosa quello che viene più facile sentire è una profonda rabbia per Matthew, un collega che in modo iatrogeno ha rotto ogni tipo di regola relazionale relativa alla psicoterapia: viene molto facile identificare Thelma con il ruolo di vittima e Matthew con il ruolo di carnefice, alleandosi con la prima e cercando in tutti i modi di farla passare oltre questa sua sensazione, secondo cui “la mia vita è stata vissuta otto anni fa”.

A partire da questa dinamica quasi automatica, è interessante per Yalom scoprire come Thelma rimanga aggrappata a quella visione della sua esistenza attuale, un arto fantasma rimasto a penzoloni dopo che la grande epica è stata vissuta, in attesa solo di chiudere questa partita durata fin troppo. Dal senso di protezione per Thelma, si passa velocemente a un senso di disfatta, una specie di contagio emotivo che porta anche il terapeuta a pensare che in effetti il sintomo attuale non sia il peggiore dei mali, una sorta di rinuncia che suona come “se sei tanto affezionata a questa depressione, tienitela”.

In un modo molto affascinante (bisogna ammetterlo), Yalom rompe a sua volta i protocolli, senza mai uscire dai limiti della deontologia professionale, trovando modo di scuotere l’apatia della paziente e tirare fuori dall’armadio i fantasmi veri, che purtroppo o per fortuna con Matthew hanno ben poco a che fare e che ci aiutano finalmente a rispondere alla domanda che spesso ci troviamo di fronte quando abbiamo a che fare con pazienti così tanto cronicizzati, e che ha a che fare con i benefici secondari del sintomo: [blockquote style=”1″]stai malissimo, ma esattamente perché preferisci stare così piuttosto che provare a cambiare qualcosa? Cosa stai tenendo lontano, che senti come ancora peggiore di così?[/blockquote] Ovviamente, niente spoiling, andate a pagina 98.

 

La storia di Carlos

Lasciamo l’idealizzazione della cara Thelma per passare a Carlos, che da anni combatte contro un linfoma e gestisce la paura della morte con l’attivazione di una sorta di iper-sessualità compulsiva. Semina il panico durante una seduta di gruppo, dichiarando che vorrebbe che lo stupro fosse legale per sentirsi libero di procedere con diverse delle componenti del gruppo stesso. Con Carlos, Yalom ci mostra bene la difficoltà a integrare terapie con setting diversi (individuale e di gruppo) e a gestire pazienti in équipe (ovviamente, dopo questa affermazione, la giovane psicologa in training che conduceva il gruppo vorrebbe serenamente fare fuori Carlos e non lasciarne neanche un pezzettino). Anche in questo caso, è interessante seguire la terapia e vedere come i punti di aggancio per il cambiamento possano essere davvero singolari e al di là di ogni aspettativa.

 

La storia di Penny

Nella terza ricostruzione, l’autore ci presenta Penny, 38 anni, divorziata, due figli in vita e una bambina mancata quattro anni prima a seguito di una grave malattia. Taxista, lavora 60 ore alla settimana per pagare il mutuo e mantenere i due ragazzi dopo che il terribile lutto ha distrutto la famiglia e ha portato i coniugi verso strade troppo distanti per poter restare sotto lo stesso tetto. Quella che segue è una bellissima terapia sulla colpa, sul lutto, sull’evitare di rimanere aggrappati a una cosa che non c’è più a discapito di quello che c’è ancora, sulla possibilità di lasciare andare. Lasciare andare una bambina, una figlia, e tutte le idee di sé come madre e i progetti che quella figlia porta via con sé. Qui Yalom affronta il tema del lutto prendendolo subito dalla sua angolazione più difficile, perché come lui stesso scrive [blockquote style=”1″]Perdere un genitore o un amico di lunga data spesso equivale a perdere il proprio passato […] Invece, perdere un figlio equivale a perdere il futuro: ciò che si è perduto è nientemeno che il proprio progetto di vita – la cosa per cui si viveva, la cosa che ci faceva proiettare nel futuro e sperare di trascendere la morte.[/blockquote]

 

La storia di Betty

Arriviamo alla storia che a mio avviso è insieme la più interessante e la più complicata da leggere. Perché ti viene da chiudere il libro a colpi di politicamente scorretto. La protagonista è Betty, grave obesa, anche se in realtà il protagonista è Yalom, con tutte le sue difficoltà a empatizzare con persone in sovrappeso. Il terapeuta ci racconta da dove arriva questa disaffezione, che può anche avere un senso, ma allo stesso modo sembra spietato nel raccontarci il controtransfert con tanta spietatezza. Tante volte mi è venuto da pensare “vabbé, ma non c’è bisogno che scrivi proprio tutto il disgusto che provi verso i chili in più della povera Betty”. Invece, ancora una volta, tutta questa self-disclosure verso il lettore è davvero un atto di grande coraggio, che porterà lo Yalom ottantenne a vergognarsi, ma che aiuta molto a parer mio i terapeuti meno esperti, con questa loro (nostra) convinzione che volere un po’ di bene, o almeno non essere disgustato dal paziente sia essenziale per la terapia. Yalom riesce infatti a trovare altri canali per sentire la vicinanza con Betty, canali che possono presentarsi solo se con estrema sincerità sa dire a se stesso che il canale “a pelle” questa volta non è percorribile. Spietato, ma onesto.

Ripensandoci, forse, il protagonista non solo non è il paziente, ma non è neanche il terapeuta. Il protagonista è il controtransfert. Yalom stesso apre il capitolo parlando di disciplina interiore in un modo davvero molto azzeccato: [blockquote style=”1″]I grandi tennisti si allenano cinque ore al giorno per superare i punti deboli del loro gioco, i maestri zen non si stancano mai di ricercare la quiete perfetta della mente, e la ballerina l’equilibrio perfetto del corpo, mentre il prete non cessa mai di esaminare la propria coscienza. In ogni professione, insomma, esiste un campo di sviluppo possibile, all’interno del quale ogni professionista può ricercare la perfezione. Nel gergo dello psicoterapeuta, questo campo – questo interminabile viaggio verso il proprio perfezionamento, mai raggiunto una volta per tutte – si chiama controtransfert.[/blockquote] Il punto di contatto che Yalom identifica e che risulta utile per l’aggancio di Betty (o forse, per l’aggancio di Yalom a Betty) è la sua paura dell’abbandono, che la porta a non legarsi a nulla per evitare di essere lasciata sola. Citando Otto Rank nelle parole di Yalom, è come “rifiutare il prestito della vita per non dover pagare il debito della morte”.

Altre storie

Lasciata Betty, passiamo al momento in cui Elva, anziana vedova, elabora la morte del marito avvenuta anni prima a partire dallo scippo della borsetta. E questo va letto per intero.

Segue Dave: sessantanove anni, tratti narcisistici (ma questo non è scritto), tendenza a intraprendere e coltivare relazioni extraconiugali, legato in modo morboso a una fitta corrispondenza che si era scambiato anni prima con una giovane amante. Anche in questo caso, Yalom non perde occasione per condividere buone prassi e riflessioni sulla pratica psicoterapeutica maturate nel corso degli anni, che sembrano valide in modo trasversale agli orientamenti teorici, come il fatto di “mai togliere qualcosa se non si ha niente di meglio da offrire al suo posto”.

Con Marie, facciamo un’esplorazione sull’attribuzione di significato e su come diversi substrati possano influenzare il senso che diamo allo stesso identico gesto. È il racconto di una terapia difficile e di un momento di co-terapia, in cui Yalom si avvale del supporto di un collega ipnotista. È un bellissimo viaggio in cui i tre protagonisti (i due colleghi e la paziente) raccontano la propria esperienza soggettiva del primo incontro, e in cui vediamo come l’idea che ci facciamo dell’altro sia spesso figlia dell’aspettativa che ci eravamo creati ancora prima dell’incontro vero e proprio. Citando Nietzsche, [blockquote style=”1″]si sa già tutto di una persona la prima volta che la si vede, e i successivi incontri non sono altro che un progressivo accecarsi rispetto a ciò che dentro di noi sappiamo.[/blockquote]

L’ottavo personaggio tocca ancora una volta il tema della depressione e dell’anzianità. Forse una delle cose più interessanti del libro è la scelta dei personaggi: sarebbe stato più facile coinvolgere il pubblico con stereotipi più ammiccanti rispetto agli anziani signori alle prese con il senso della vita che se ne va? Forse in potenza sì, ma va detto che questa scelta difficile rende ancora più giustizia alle capacità umane e narrative dell’autore, che davvero ti lascia a ogni capitolo con la sensazione di essere stato un’ora di fianco a lui in seduta.

Dicevamo che l’ottavo personaggio è Saul, neurobiologo in pensione che come un bambino resta paralizzato davanti alla possibilità che un suo collaboratore non lo apprezzi, ed è pronto a mettere in subbuglio la sua intera esistenza per evitarlo. Forse la parola chiave del capitolo è proprio “evitare”, partendo dal titolo: “Tre lettere non aperte”. Evitare perché prendere atto di una possibile delusione non è accettabile e non lascerebbe niente per cui sopravvivere: tanto vale procrastinare. Bellissima qui la caparbia con cui Yalom prosegue la terapia, anche quando Saul inventa una malattia che lo tiene immobilizzato a casa, e non lascia che il paziente eviti anche il progetto terapeutico stipulato insieme.

Arriva il momento di Marge, giovane e bella paziente con un disturbo borderline ed episodi dissociativi: anche in questo caso, più che l’inquadramento diagnostico quello che traspare è l’importanza della relazione e il legame che il terapeuta instaura con le diverse parti che dialogano con lui in seduta, finalizzato all’integrazione e alla restituzione della capacità di prendersi cura di sé alla paziente stessa. Anche qui, chapeau alla capacità di Yalom di tirare giù le carte con il lettore, mostrando tutta la sua fallacia di uomo prima ancora che di professionista. E anche qui, per i dettagli si rimanda al libro.

Chiudiamo le danze con Marvin, ometto a prima vista convenzionale e poco interessante, che Yalom percepisce da subito come non adatto alla terapia individuale e direziona verso una terapia comportamentale di coppia con la moglie, per affrontare unicamente la disfunzione sessuale. In questo caso è interessante il tema dell’anestesia emotiva, che Yalom anche a seguito della sua formazione esplora attraverso l’indagine sui sogni, ma che ad ogni modo emerge con prepotenza nell’importante scissione tra le parole del paziente e i suoi timori, tra i suoi comportamenti e le cause delle sue difficoltà.

 

Conclusioni

Complessivamente, cosa si può dire di questo libro? Che, sicuramente con tutte le modifiche del caso, peraltro dichiarate apertamente dall’autore anche al fine di celare l’identità dei pazienti reali, fornisce davvero una possibilità unica: vedere una intera terapia (anzi, dieci) di fianco a Yalom, sentire quello che lui sente, stare negli interventi con lui, sbagliare al suo fianco. L’estrema onestà (che a tratti può suonare brutale) con cui Yalom riferisce il proprio vissuto e la sua completa disponibilità a condividere emozioni e sensazioni, tanto benevole quanto negative, butta giù il muro della vergogna. Tante volte soprattutto chi è alle prime armi pensa che certe cose non si dovrebbero sentire nei confronti di un paziente, che essere infastiditi da qualcuno che ti sta chiedendo un aiuto anche solo a partire dal suo aspetto non sia una cosa conciliabile con la terapia. Ecco, Yalom ci mostra come, prima ancora della disciplina interiore, sia necessaria un’onestà con se stessi, l’accettazione che ci permette di sentire come ogni reazione sia legittima, e anzi utile da interpellare per comprendere meglio come utilizzarla al fine della buona riuscita della terapia.

È molto tenera la postfazione scritta da Yalom, venticinque anni dopo la stesura del libro, in cui dice che vorrebbe poter essere il supervisore di se stesso cinquantenne, per poter ridimensionare la propria sfrontatezza in terapia. Potersi mettere una mano sulla spalla e dirsi “ok, stai esagerando”. Altro aspetto senza dubbio interessante e ricco di spunti sono le premesse sulla relazione terapeutica, su cui si basano tutte le terapie: diverse volte l’autore sottolinea come la sua idea di terapia sia qualcosa che porta il paziente a diventare genitore di se stesso: [blockquote style=”1″]Come terapeuta, il mio compito è invece quello di lavorare al superamento del mio ruolo, ovvero di fare in modo che il paziente assuma la funzione di padre e di madre di se stesso.[/blockquote]

Del resto, citando sempre il Prologo, [blockquote style=”1″]Tale contatto, che è poi il vero e proprio nocciolo della terapia, è una forma di incontro profondamente umano e delicato tra due persone, una delle quali (in genere, ma non sempre, il paziente) ha più problemi dell’altra.[/blockquote]

Infine, partendo da un approccio fondamentalmente diverso da quello esistenzialista (sono una di quelle terapeute cognitivo-comportamentali a cui Yalom avrebbe voluto inviare Marvin, non pronto secondo lui a una terapia vera e propria), se andiamo oltre l’interpretazione dei sogni, ho trovato parecchi punti di contatto tra i principi regolatori presenti nelle terapie raccontate e quelli che mi porto dietro nella mia esperienza. Primo fra tutti, citando Thomas Hardy, la consapevolezza che [blockquote style=”1″]se una via verso il meglio esiste, è quella che esige una conoscenza profonda del peggio.[/blockquote]

La pentola d’oro interiore: la relazione con i genitori nello sviluppo della personalità del bambino

Vari sono i contribuiti allo studio del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino: tra i più rilevanti vi è la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la parafrasi di tale teoria, attraverso il concetto di pentola d’oro interiore, ad opera di Baron-Cohen. Non mancherà il riferimento al pioniere delle neuroscienze relazionali, Daniel J. Siegel.

 

Vari sono i contribuiti allo studio del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino: tra i più rilevanti vi è la teoria dell’attaccamento di Bowlby. Nell’articolo, oltre a Baron-Cohen, il quale ha offerto una parafrasi della teoria dell’attaccamento di Bowlby attraverso il concetto di pentola d’oro interiore, non mancherà il riferimento al pioniere delle neuroscienze relazionali, Daniel J. Siegel, il cui pensiero principale è che «il cervello del bambino utilizza gli stati della mente del genitore […] per cercare di organizzare le sue attività» (Siegel, 2001). I suoi studi rappresentano un ulteriore conferma dell’importanza delle relazioni (in questo caso genitori-figli), nello sviluppo della personalità ma soprattutto dell’identità personale di ogni individuo. Il fine è quello di comprendere quali esperienze interpersonali favoriscano il benessere emotivo e la resilienza psicologica di ognuno.

 

La mente relazionale e il suo ruolo nello sviluppo della personalità

Le relazioni sono ritenute importanti per la costruzione dell’identità individuale. La nostra mente è definita dal citato Siegel, come «il prodotto delle interazioni fra esperienze interpersonali e strutture e funzioni del cervello» (Siegel, 2001). Fornire una ‘visione scientifica’ delle basi interpersonali e neurobiologiche dello sviluppo della mente può:

aiutare i clinici a curare i loro pazienti, mentre per educatori e insegnanti può essere importante comprendere come emozioni e relazioni interpersonali costituiscano aspetti motivazionali fondamentali dell’apprendimento e della memoria […] questi processi interpersonali plasmano lo sviluppo della mente durante l’intero corso della nostra esistenza […]: le interazioni con l’ambiente, e in particolare i rapporti con gli altri, esercitano un’influenza diretta sullo sviluppo delle strutture e delle funzioni celebrali (Siegel, 2001).

I rapporti interpersonali sono dunque importanti per integrare le rappresentazioni delle varie esperienze; in particolar modo le relazioni durante il periodo critico «possono avere un ruolo fondamentale nel plasmare le strutture di base che ci permettono di avere una visione coerente del mondo […]», pertanto, il rapporto genitori-figli, ha ripercussioni sul modo di vedere il mondo e di porsi in relazione con esso (Siegel, 2001).

Considerando che la mente è una mente relazionale, si comprende come:

le nostre esperienze possono […] influenzare […] le connessioni neuronali e l’organizzazione delle attività del nostro cervello, e in questo senso svolgono un ruolo particolarmente importante quelle che si verificano durante i primi anni di vita […] (Siegel, 2001).

È sulla base di questa ‘neurobiologia interpersonale della mente’ che si può affermare che le esperienze che il bambino si trova a vivere durante i primi anni di vita, gli permettono di «sviluppare la capacità di regalare le emozioni, di mettersi in rapporto con gli altri […] e di affrontare il mondo in maniera positiva» (Siegel, 2001), con resilienza (in psicologia, resilienza è la capacità di un individuo di superare un evento traumatico), grazie alla pentola d’oro interiore che gli viene fornita nei primi anni di vita.

Questo avviene grazie alla capacità dell’essere umano di registrare, attraverso varie forme di memoria, tutte le esperienze interpersonali, che comunque esercitano un peso per tutto il corso della nostra vita (Siegel, 2001).

 

 

La teoria dell’attaccamento: caratteri generali

John Bowlby, psicoanalista inglese, negli anni ’80 elabora la teoria dell’attaccamento per spiegare il legame tra madre-figlio: sostiene che il bambino ha una tendenza naturale a sviluppare un legame con la madre a prescindere dal soddisfacimento della fame da parte della stessa (al contrario di Freud). Per Bowlby, infatti, affinché si formi un legame madre-bambino, sono necessari quei segnali sociali che inducono il bambino stesso a ricercare protezione.

Vari studi hanno inoltre dimostrato che «il legame con la madre è il prototipo di altri legami affettivi che l’individuo formerà nel corso della sua vita […] che derivano dal sistema di attaccamento» (Enciclopedia online, Treccani). Secondo Bowlby, nel corso della filogenesi, si sono costituiti vari sistemi motivazionali innati, che regolano le reazioni a varie situazioni (Meini, 2012). La selezione naturale avrebbe poi favorito lo sviluppo di due sistemi complementari tra loro: attaccamento, che ci induce a cercare protezione presso chi riteniamo più forte di noi e accudimento, l’azione corrispondente nell’adulto che vede il figlio ricercare protezione.

Per natura e in modo istintivo, il genitore è spinto a rispondere alle richieste del figlio vulnerabile (Meini, 2012). I genitori hanno così la capacità di ridurre l’impatto che delle sensazioni spiacevoli (paura, ansia) hanno sul bambino; in questo modo, le esperienze ripetitive sono registrate nella memoria implicita, generando dei ‘modelli mentali di attaccamento’ che sviluppano la base sicura per affrontare il mondo (Siegel, 2001).

Si comprende che le relazioni istaurate «hanno effetti specifici sull’organizzazione dei comportamenti e delle funzioni celebrali del bambino» (Siegel, 2001). Questi rapporti di attaccamento aiutano il bambino a organizzare le proprie esperienze e inoltre «hanno effetti diretti sulla maturazione delle attività celebrali che mediano processi mentali fondamentali: memoria, narrativa autobiografica, emozioni, rappresentazioni e stati della mente» (Siegel, 2001). In età adulta questi comportamenti di attaccamento vengono conservati per l’intera esistenza, in particolar modo quando ci si trova a vivere periodi difficili, e delineano lo sviluppo della personalità.

La figura di attaccamento, permette al bambino di creare dei modelli mentali attraverso cui il cervello «impara dal passato e influenza direttamente i comportamenti futuri» (Siegel, 2001) e tali modelli portano allo sviluppo della citata base sicura.

 

 

Strange situation e Adult Attachment Interview

Per studiare le relazioni di attaccamento, ci si basa sull’analisi dei modelli mentali riferiti proprio a queste relazioni, sia nei bambini sia negli adulti, infatti, i modelli mentali dei genitori influenzano l’atteggiamento adottato nei confronti dei loro figli (Siegel, 2001), definiti da Mary Main come ‘stato della mente rispetto all’attaccamento‘ (Main, 1995).

The Strange Situation. -SLIDER- Di Davide Osenda © State of Mind 2016 www.stateofmind.itPer determinare lo stile di attaccamento che caratterizza una specifica coppia adulto-bambino è stato creato un contesto di osservazione: la Strange Situation (Ainsworth et al., 1978), che viene proposta a bambini tra i dodici e i diciotto mesi. Tale contesto vede un genitore che accompagna un bambino in un locale confortevole in cui sono presenti vari giocattoli. Il genitore e il bambino sono poi raggiunti da una persona sconosciuta che invita il bambino a giocare con lui. Il genitore in un primo momento rimane lì a giocare con loro, poi abbandona la stanza lasciando il figlio a giocare con l’altra persona. Dopo circa tre minuti torna, mostrando un atteggiamento affettuoso nei confronti del figlio. «La sequenza abbandono-ricongiungimento si ripete in un contesto più radicale, con il bambino lasciato solo nella stanza» (Meini, 2012). Il tutto viene filmato così che poi si possano analizzare i comportamenti della coppia al momento della separazione (reazione del bimbo quando il genitore se ne va) e reazione al relativo ricongiungimento.

Mary Main, al fine di comprendere quali fattori influenzassero i comportamenti dei genitori nei confronti del proprio figlio, introdusse nel campo di ricerca sull’attaccamento, degli aspetti che non riguardassero esclusivamente lo studio dei comportamenti dei bambini, ma anche l’analisi delle rappresentazioni mentali degli adulti attraverso la Adult Attachment Interview (AAI). Il modus operandi di quest’ultima, consiste nel chiedere ai genitori esaminati di raccontare le proprie esperienze infantili, utilizzando «un tipo di intervista semistrutturata» (Siegel, 2001) per individuare le modalità con cui il genitore narra la sua storia dei primi anni di vita, correlando poi questa, alla classificazione dei comportamenti del figlio registrati durante la Strange Situation. Ciò che emerge da queste ricerche è che sussistono correlazioni con il tipo di rapporto che l’adulto a sua volta instaura con il figlio.

Tendenzialmente, ad esempio, bambini che manifestano un attaccamento sicuro «tendono ad avere genitori che presentano, in base all’Adult Attachment Interview, uno stato della mente rispetto all’attaccamento classificato come ‘sicuro/autonomo’», quindi durante l’intervista, il genitore è in grado di valutare in modo equilibrato sia aspetti positivi sia negativi della propria infanzia, e riflettere sui propri ricordi tranquillamente (Siegel, 2001).

La differenza tra questo e la Strange Situation, è che l’Adult Attachment Interview, «valuta lo stato della mente dell’individuo relativo all’attaccamento in generale, e non rispetto alla relazione specifica con ciascuno dei genitori» (Siegel, 2001).

Tutti questi dati confermano quanto sono importanti per lo sviluppo della personalità le relazioni interpersonali e in particolare quelle nei primi anni di vita, in quanto «pongono le basi fondamentali delle nostre successive interazioni con il mondo […]» (Siegel, 2001).

 

 

Quattro stili di attaccamento

La classificazione dei vari stili di attaccamento dipende, sia dalle istanze che il genitore ha fornito al proprio figlio, nelle prime settimane di vita, sia alle caratteristiche individuali del bambino stesso, questo per ribadire l’importanza di non cadere in determinismi quando si parla di sviluppo della personalità, secondo cui ad un attaccamento insicuro derivi necessariamente lo sviluppo di disturbi mentali, piuttosto esso aumenta il rischio di disfunzioni psicologiche e sociali (Siegel, 2001).

Per dare un quadro generico, ma esaustivo si specifica che il bambino può avere diversi stili di attaccamento a seconda dell’adulto con cui si trova (Meini, 2012).

  1. Attaccamento evitante, di tipo A: in questo tipo di attaccamento il bambino non si oppone alla partenza del genitore, difatti continua a giocare con l’adulto con cui è stato lasciato. Al ritorno del genitore, il figlio lo accoglie con un certo distacco, evitandone ogni contatto fisico. Ainsworth e i suoi collaboratori hanno osservato che nel corso del primo anno di vita di questi bambini, i genitori (definiti dall’Adult Attachment Interview come ‘distanzianti’) adottarono nei loro confronti dei comportamenti di trascuratezza, non rispondendo in maniera adeguata ai loro bisogni (Siegel, 2001). Il bambino si difende dalla scarsa protezione elaborando varie strategie di difesa, che in futuro creeranno delle narrazioni idealizzanti della propria relazione con la figura di attaccamento, valorizzandone la capacità di insegnargli l’autonomia e mettendo da parte l’aspetto anaffettivo (Meini, 2012).
  2. Attaccamento sicuro, di tipo B: qui il bambino quando è separato dal genitore protesta o è triste, ma si calma non appena vede il genitore tornare, ricambiandone le dimostrazioni di affetto. Questa è una modalità ideale di attaccamento (Meini, 2012). In questo caso il genitore è attento ai bisogni del bambino, ha piacere di averlo con sé, ma al contempo gli concede la giusta autonomia per esplorare il mondo sentendosi protetto, motivo che spinge il bambino alla tristezza, se separato dal genitore, ma a trovare conforto al suo ritorno.
  3. Attaccamento resistente-ambivalente, di tipo C: qui nella Strange Situation è emerso che il bambino, quando il genitore si allontana, protesta, ma al suo ritorno comunque non trova consolazione, manifestando spesso resistenza al ricongiungimento. È un attaccamento resistente poiché il bambino resiste alle manifestazioni di affetto del genitore, ed è un attaccamento ambivalente perché in realtà ricerca il contatto. Ainsworth e i suoi collaboratori anche in questo caso, osservando il primo anno di vita del bambino, hanno riscontrato che i genitori erano sì disponibili, ma in maniera discontinua e incoerente; la conseguenza è che il bambino rimane confuso e non riesce a prevedere se le sue esigenze vengano capite dal genitore (Siegel, 2001). Dall’Adult Attachment Interview questi adulti sono classificati come ‘preoccupati’ e sono caratterizzati da un’intrusione del passato che interferisce significantemente nel modo di rapportarsi al presente.
  4. Attaccamento disorganizzato, di tipo D: è la forma più pericolosa poiché la caratteristica principale di questo attaccamento è la totale assenza di qualsiasi organizzazione coerente (Meini, 2012). In questo caso, alla separazione con l’adulto, il bambino è triste, al suo ritorno non lo guarda nemmeno negli occhi, come se fosse in trance. I bambini caratterizzati da questo attaccamento mancano di una strategia che sia coerente in relazione con il genitore, e questa incoerenza può manifestarsi attraverso momenti di disorganizzazione del comportamento. In questo caso l’adulto a volte riesce a essere accudente, ma spesso rimane intrappolato nei suoi problemi tanto da apparire sofferente, arrivando addirittura a richiedere al figlio di essere accudito (Meini, 2012). In questa categoria rientrano quegli adulti che nell’Adult Attachment Interview manifestano segni di disorganizzazione quando sono spinti a parlare di esperienze traumatiche (Siegel, 2001); «cercare di aiutare questi genitori a riconoscere e ad affrontare la presenza di esperienze traumatiche non risolte diventa quindi cruciale non solo per loro, ma anche per le generazioni future» (Siegel, 2001).

Concludendo la descrizioni degli stili di attaccamento, si ricorda come lo sviluppo, e con esso lo sviluppo della personalità, sia un processo che dura tutta la vita, per questa ragione si può sempre cambiare, nonostante esperienze precoci non ottimali; in tal senso è importante stabilire delle relazioni che promuovano il superamento, ad esempio, di uno stato insicuro rispetto all’attaccamento.

 

 

Marcatura espressiva e sviluppo della personalità

Attraverso l’analisi dei vari stili di attaccamento è stata delineata l’importanza del ruolo dei genitori nello sviluppo della personalità del bambino, affinché cresca protetto da disfunzioni dell’identità. La relazione genitori-figli è la prima che il bambino ha nella sua vita e il loro ruolo è utile, per la costruzione di un’impalcatura affettiva. A tal proposito si descrive ora in cosa consista la cosiddetta marcatura espressiva da parte dei genitori nei primi anni di vita del bambino. La marcatura è «una modalità di interazione tipica della coppia adulto-bambino, onnipresente in diverse modalità espressive e ludiche» (Meini, 2012), e può essere di vari tipi: pertinente, incongrua, assente.

In altri termini: la marcatura è l’espressione che il genitore offre come risposta a una specifica emozione rappresentata dal figlio. Se ad esempio il figlio è triste, il genitore sarà spinto a imitare il bambino in quell’emozione di tristezza, ma attraverso delle espressioni che saranno ‘marcate’. Il bambino, che per natura sa cogliere gli indici di finzione, comprenderà che il genitore non è, nel caso scelto come esempio, realmente triste, ma che semplicemente lo sta imitando. Attraverso il riconoscimento della marcatura espressiva, il bambino può arrivare allo sdoppiamento referenziale: capisce cioè, che l’espressione marcata non si riferisce all’emozione della madre e che il sentimento di tristezza appartiene a lui stesso.

 

 

L’importanza della pentola d’oro interiore nello sviluppo della personalità

Lo psicologo britannico Baron-Cohen nel suo saggio ‘La Scienza del Male. L’empatia e le origini della crudeltà’ (2012) riprende la teoria dell’attaccamento di Bowlby per evidenziare come il bambino faccia utilizzo del suo tutore come una base sicura (Baron-Cohen, 2012) da cui partire alla scoperta del mondo con la consapevolezza di poter tornare per un rifornimento affettivo. Dunque: «[…] l’affetto di chi se ne prende cura aiuta il bambino a gestire la propria ansia e a sviluppare la fiducia in se stesso e nella sicurezza del rapporto» (Baron-Cohen, 2012).

Questo studioso offre una parafrasi della teoria sopracitata. Leggendo direttamente le sue parole:

La mia parafrasi della teoria di Bowlby è questa: ciò che dà al bambino chi se ne prende cura in quei primi anni critici è come ‘una pentola d’oro interiore’. L’idea […] è che ciò che un genitore può dare al figlio colmandolo di emozioni positive è un dono più prezioso di qualsiasi cosa materiale […] è qualcosa che il bambino può portare con sé tutta la vita […] è ciò che conferisce all’individuo la forza di affrontare quelle sfide, la capacità di riprendersi dalle avversità, la capacità di mostrare di soffrire e gioire nell’intimo con gli altri e nelle relazioni con gli altri.

Si comprende facilmente come il discorso precedente circa la teoria dell’attaccamento si colleghi alla pentola d’oro interiore: più un genitore promuoverà un attaccamento sicuro e più colma sarà questa pentola d’oro interiore, che in seguito rafforzerà lo sviluppo della personalità e la resilienza del proprio figlio.

L’importanza delle parole e il loro utilizzo in relazione ad eventi storici e a processi sociali

Sono veramente importanti le parole, come pretendeva il protagonista di Palombella Rossa? Per la psicologia l’essere umano è un soggetto culturale prima ancora che un animale sociale. Si può oggi scoprire usando Google che la presenza nel corpus della lingua di parole che esprimono dicotomie nella percezione (armonia/disarmonia) e motivazioni all’azione (dissenso) è in sorprendente relazione con eventi storici e grandi processi economici e sociali.

Marco Spampinato

Introduzione

In una scena del film Palombella Rossa (1989), un funzionario comunista, che recupera a tratti la memoria perduta in un incidente stradale, inveisce contro una giornalista colpevole di avergli attribuito l’espressione “trend negativo”. La sua rabbia sottolinea il legame tra pensiero, linguaggio e soggettività (“Le parole sono importanti. Io non parlo così!”). Veramente è tanto importante ciò che pensiamo, ed è in buona parte riflesso dal come parliamo?

Palombella Rossa (1989) di Nanni Moretti, una scena del film:

 

Negli ultimi anni, i leader politici hanno spesso sostenuto l’importanza dell’ottimismo e l’inglese ha sempre più sostituito l’italiano perfino per riferirsi ad atti legislativi (es: Jobs Act). L’antinomia ottimismo/pessimismo è connessa con altre dualità, incastonate nelle discipline scientifiche, nella cultura popolare e nel discorso pubblico. Gli economisti amano il termine equilibrio: molto di ciò che è negativo è squilibrato, ma è anche predestinato a tornare da solo in equilibrio. Questi termini valgono ad evitarne altri moralmente connotati come “diseguale” o “iniquo”, che generano dissenso suggerendo di agire.

Ancora più sottile è l’uso della parola armonia. Si può rappresentare una società come insieme di relazioni armoniose, evocare l’armonia o la sua antitesi, la disarmonia, nel giudicare una situazione o la condizione umana. Dal senso assunto da queste parole nel linguaggio musicale, deriva il connotato positivo dell’armonia, che si estende ad altri ambiti di significato, così come la negatività della disarmonia. L’affermazione della musica Jazz negli strati popolari, a partire dall’inizio del ‘900, negli Stati Uniti e nell’ex Unione Sovietica (es.: Dmitri Shostakovich), coincise con la volontà degli esclusi di far comparire disarmonie musicali come strumento di manifestazione del dissenso, dando sonorità ad una realtà nascosta dalle armonie ufficiali.

L’utilizzo delle parole armonia, disarmonia e dissenso

E’ possibile che l’analisi scientifica dell’uso delle parole contribuisca a rivelare tendenze della vita collettiva? La risposta è Si, perché le parole sono risorse il cui uso (e non uso) contribuisce alla manifestazione o all’inibizione di motivazioni e di potenziali bisogni. Dagli anni ’20 del secolo scorso, Vygotskij e Luria sostennero attraverso la ricerca sperimentale che tutte le funzioni mentali superiori sono processi mediati dalla cultura, e che il segno (veicolo per lo sviluppo del concetto) è strumento di regolazione e direzione dei processi psichici (Vigotskij, 1978, 2011; Luria, 1930, 1956; Kinsbourne, 2000).

L’evoluzione del cognitivismo e la psicologia culturale hanno centrato l’attenzione sulla modalità narrativa attraverso cui la mente struttura e guida all’esperienza (Bruner, 1886, 1991, 1997, 2004) e sugli schemi concettuali che fanno sì che un testo o un simbolo possano assumere significati e implicazioni diverse all’interno di comunità culturali (Shweder & Sullivan, 1990). Nella trasmissione della cultura, le narrative giocano un ruolo per le loro intrinseche proprietà di trasmettere idee o costrutti culturali (Norenzayan & Atran, 2004) e di motivare verso obiettivi (Laham & Kashima, 2013), anche tra gruppi non necessariamente omogenei linguisticamente.

Un esempio dell’intreccio tra parole che esprimono aspettative, opinioni o sentimenti ed eventi catalogati ex post come fatti storici, può essere offerto dall’analisi della ricorrenza di alcune parole nel corpus della lingua (McKenry & Hardie, 2012), esercizio reso ora possibile gratuitamente da Google. Ad esempio, la parola armonia mostra una ricorrenza crescente nel corpus della lingua inglese fino al 1848 (Fig. 1), anno di rivoluzioni e sommovimenti sociali, per poi ridurre la sua presenza e ricrescere fino alla fine dell’’800, nel periodo caratterizzato dalla guerra civile americana e dal processo di formazione di nuovi stati europei.

Nel ‘900 armonia è parola meno usata. Qualche breve cenno di inversione di tendenza si ha intorno agli anni ‘30 e all’inizio degli anni ‘50. Si potrebbe sostenere che questo andamento derivi dalla maggiore complessità del linguaggio nel ‘900, che riduce l’uso di termini generici, a favore di espressioni più specifiche nei linguaggi tecnici e scientifici. Questa spiegazione non sembra molto credibile: la ricorrenza di disarmonia, sua antitesi concettuale, ha infatti andamento opposto (Fig. 1). Poco utilizzata nell’’800, la parola disarmonia è via via più presente nel corpus nella prima metà del ‘900; il suo uso cresce ancora, meno rapidamente, fino alla metà degli anni ‘70. Dall’inizio degli anni ’80, la disarmonia è meno evocata. Percepire una disarmonia ha connotato negativo. Più interessante è comprendere allora la ricorrenza della parola dissenso, premessa ad un’ azione che può interferire con una situazione di apparente armonia o reagire ad una situazione di disarmonia.

L’uso del termine dissenso cresce fino al 1848 (Fig. 1), quasi a preparare un’intera epoca di forti rivolgimenti politici e sociali; si riduce poi fino agli anni ‘20 del ‘900 quando inizia una contraddittoria altalena, durata venti o trent’anni, che include la seconda guerra mondiale e la ricostruzione. La ricorrenza di dissenso torna a crescere rapidamente negli anni ‘50 e sempre più rapidamente fino all’inizio degli anni ‘70. Dopo una caduta, cresce nuovamente nel decennio 1982-1992. Dal 1992, l’uso del termine torna a ridursi, ma resta sempre più elevato di quanto non fosse negli ottanta anni tra il 1880 e il 1960. In una prospettiva secolare, dissenso entra nel linguaggio con sempre maggiore frequenza, nel mentre armonia segue il destino opposto. Dissenso e disarmonia mostrano una interessante correlazione nel ‘900, solo a tratti diretta e stretta. Dall’inizio degli anni ‘80 del ‘900 dissenso ricorre nel lessico collettivo allo stesso modo che alla metà del secolo precedente. E’ nell’’800 che il dissenso corrisponde ad una domanda di armonia, evocata direttamente e non come mera denuncia della sua antitesi (la disarmonia). La lotta di Faust è per vedere, per percepire la totalità (Childs, 2015). Della percezione Goethe afferma: <<prima la forma come un tutto ci colpisce, poi le sue parti e le loro forme e combinazioni>>; ma la forma stessa è per Goethe transitoria e in sviluppo: tutto il reale è un processo di sviluppo. Conoscere qualcosa significa quindi conoscerne l’intero processo di sviluppo (Blunden, 2010).

Il dibattito internazionale sulle potenzialità e sui limiti del corpus linguistico costruito dal team di Google è già avviato (Michel et al., 2011; Pechenick, Danforth & Dodds, 2016). L’analisi del corpus linguistico può investigare legami non casuali tra cultura, uso del linguaggio e traiettorie dello sviluppo umano. Nell’intorno temporale di eventi come la formazione o la crisi degli Stati e delle democrazie (rivoluzioni, dittature, riforme sociali e dei suffragi elettorali, cambiamenti nei paradigmi scientifici e trasformazioni culturali), le parole, in quanto veicoli di significati che si diffondono con rapidità, possono anticipare e non solo accompagnare o seguire gli accadimenti. Così facendo, una prospettiva diacronica mette in rilievo andamenti contraddittori di concetti e schemi culturali che esprimono percezioni dell’intersoggettività e delle relazioni umane: il quadro dell’evoluzione della cultura si complica, o relativizza, in relazione alla psicologia di gruppi e individui, differentemente da quanto letture più unidirezionali, centrate sulla contrapposizione individualismo/collettivismo, possano lasciare intendere (Miller, 1999, 2002; Greenfield, 2013).

Un esempio è l’anticipazione dell’uso della parola rivoluzione, in lingua inglese e russa, rispetto ad eventi così catalogati dagli storici. Revolution è termine sempre più usato in lingua inglese tra il 1820 e il 1848, nel periodo della rivoluzione russa, durante gli anni ‘30 del ‘900 — quando anche le propagande del fascismo italiano e tedesco finiscono per farne uso —, e durante tutti gli anni ’60 fino a qualche anno dopo il 1968 (Fig. 2). Il nesso costruttivista tra linguaggio ed eventi storici è altrettanto se non più manifesto in lingua russa: революция, che traduce l’inglese revolution, incrementa dal 1914 al 1918 la sua frequenza da una occorrenza ogni 100.000 parole a 4 occorrenze ogni 100.000, per giungere a oltre 9 occorrenze ogni 100.000 termini dal ‘23 al ‘25.

Dallo studio di Vygotskij (1934) sull’evoluzione dei concetti scientifici nell’età scolare, apprendiamo che il concetto stesso assume nella cultura popolare anche significato equivalente a guerra civile. Ad ogni modo, in dieci anni non solo l’uso politico del termine cresce di dieci volte, ma questa crescita è correlata con rappresentazioni analoghe riferite a contesti tecnico-scientifici o culturali (оборот, переворот), traduzioni alternative dell’inglese revolution. Tenuto conto che la costruzione del lessico favorisce la lingua scritta e l’inserimento di molti termini rari (Michel et al., 2011), si può inferire che più della metà del successo della parola preceda gli eventi che la storia identifica come Rivoluzione Russa (Fig. 2).

Fig 1. Frequenza nel corpus della lingua inglese delle parole armonia (harmony), disarmonia (disharmony) e dissenso (dissent). Medie mobili a 3 anni.

immagine 1: l'importanza delle parole

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

Fig 2. Frequenza della parola rivoluzione nel corpus della lingua inglese (revolution) e russa (революция). Medie mobili a 3 anni.

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

 

L’utilizzo delle parole ottimismo e pessimismo

Lo stesso esercizio svolto con le parole pessimismo e ottimismo mostra che il pessimismo è verbalizzato di più durante gli anni ‘50 e ‘60 del ‘900, caratterizzati dalla ricostruzione postbellica, dal forte sostegno pubblico alla crescita economica e dall’affermazione del welfare state: viceversa la parola è meno usata a partire dalla fine degli anni ’60 (Fig. 3).

E’ un paradosso solo apparente che gli anni della affermazione dello stato sociale siano anche quelli del pessimismo costruttivo — nella teoria della scelta pubblica — secondo una locuzione usata da Amartya Sen (1998)? Ad oggi pessimismo è usato né più né meno che all’inizio del ‘900. Il termine ottimismo è invece molto più usato che all’inizio del secolo scorso, durante il quale ricorre sempre più spesso nel corpus della lingua, con scarsa relazione con gli eventi. Questo potrebbe rivelare l’importanza che la parola ottimismo svolge nel discorso pubblico per accompagnare la crescita economica e la propaganda politica.

Nel primo ventennio del secolo, gli Stati Uniti, appena risollevatisi dalla guerra civile, si affermano come forza economica in espansione nel capitalismo mondiale e costruiscono una complessa propaganda per intervenire nella prima guerra mondiale. Ottimismo ha un andamento più incerto negli anni venti, soprattutto nell’American English. Ad ogni modo, l’uso della parola cresce ancora rapidamente fino all’inizio della seconda guerra mondiale grazie al contributo del British English — Google permette l’interrogazione separata dei due corpora.

Dopo uno stallo, coincidente con il più grande conflitto mondiale, che coinvolge tutti i paesi di lingua inglese, l’uso del termine ottimismo riprende a crescere nel decennio ‘55-‘65; ma conclusi gli anni ‘60 sembra che si scriva e parli di ottimismo con la stessa frequenza degli anni ’50. La parola ottimismo mantiene un ruolo importante nel linguaggio e nella cultura del capitalismo anglosassone e in culture nazionali quando vi siano peculiari dinamiche economiche e politiche. La ricorrenza di ottimismo in italiano (Fig. 3) mostra una ultima piccola crescita, dal 1999 al 2007. Le cause? Probabilmente sia la propaganda politica sia alcuni fenomeni speculativi — la bolla immobiliare — hanno enfatizzato l’ottimismo come vantaggioso atteggiamento individuale o persino come “imperativo morale”.

 

Parole che influenzano gli eventi

Ciò che si può aggiungere alla rabbia del protagonista di Palombella Rossa è l’assunzione che l’importanza delle parole risieda non tanto nella espressione corretta di uno stato d’animo, quanto nella loro funzione proiettiva. Il linguaggio che il soggetto usa contribuisce alla costruzione della (sua) realtà (Bruner, 1997, 2004). Nonostante il futuro resti incerto e imprevedibile, le parole, riflettendo su percezioni e stati d’animo, ma anche immaginando situazioni e risposte, possono condurre la storia di una moltitudine di soggetti in una direzione o in un’altra.

Come domanda provocatoria ci si può chiedere se sia preferibile vivere un’epoca simile all’Ottocento, o alla seconda metà del Novecento, quando la ricerca di armonia (‘800) o il contrasto della disarmonia (‘900), motivano l’espressione del dissenso. Oppure se ci si possa augurare di vivere come nella prima parte del Novecento, quando la percezione di disarmonia si accompagna, con l’autoritarismo e il totalitarismo, ad ostacoli crescenti all’espressione verbale, pubblica, del dissenso.

Se la storia stessa è, psicologicamente, una costruzione intersoggettiva, è possibile che possa ripetersi, ma non ha senso che possa “finire”. Anche oggi il futuro può essere diverso dal passato, ma non può essere indipendente dal linguaggio e dalla libertà di espressione. In questo linguaggio, armonia e disarmonia sono standard di valutazione, e influenzano anche implicitamente i comportamenti umani. Il dissenso è invece una disposizione soggettiva che motiva l’azione: la sua espressione è già attiva. Da tempo il lessico collettivo della lingua inglese non manifesta domande esplicite di armonia come nell’800; ma mantiene elevata la ricorrenza di dissenso. Che dissenso e disarmonia siano enunciate senza un ruolo esplicito dell’armonia, può indicare una compatibilità tra un tipo di società democratica, intesa come luogo dove il dissenso può essere espresso, e i pressanti conflitti presentati dal progresso tecnico e dall’economia. In ogni caso, questa rappresentazione delle democrazie non toglie che una concezione dell’armonia possa restare sotterranea, inespressa o inconscia in molte società, mentre il suo ruolo possa essere più manifesto in altre società e linguaggi.

Fig. 3. Frequenza nel corpus della lingua inglese delle parole pessimismo (pessimism), ottimismo (optimism) e ottimismo in Italiano. Medie mobili a tre anni.

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Fonte: Google Books Ngram Viewer. La percentuale approssima la frequenza con cui ricorre la parola indicata (1-gram) sul totale delle parole presenti nel corpus.

Marco Spampinato.
Ricercatore freelance. Laurea in Scienze Politiche (Perugia, 1993), Master in Economia (Coripe Piemonte, Torino, 1995), Master of Arts in Psicologia (The New School for Social Research, New York, 2016). Dal 1996 al 2011 si è occupato di sviluppo economico, mobilità e politiche pubbliche. Dal 2003 al 2011 è stato componente, per due successivi periodi di quattro anni, dell’unità di valutazione dei programmi e degli investimenti pubblici co-finanziati con i fondi strutturali europei (UVAL, Dipartimento di Sviluppo e Coesione). Dopo avere spostato i suoi interessi su istruzione e sviluppo umano, dal 2013 studia psicologia cognitiva, sociale e dello sviluppo. I suoi interessi sono centrati sull’interazione tra cultura, cognizione e comportamenti sociali.

Guida Michelin per psicoterapeuti – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Sono le 20 e 58 quando entriamo nella hall di un art hotel nel centro di Roma: Dimaggio, ho prenotato per due. Ristorante stellato. La mia ribellione personale alla dipendenza da Masterchef e Gambero Rosso Channel. Eccesso di cucina gourmet osservata, iniziava a generare stati crescenti di frustrazione.

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul mensile “La freccia” di Maggio 2016

 

Alle 14 e 22 Ilaria mi racconta che il padre la picchiava. Calci. Cinque minuti dopo decido di andare con lei lì, nell’angolo della cucina dove si rannicchiava. Si chiama immaginazione guidata. Chiuda gli occhi. Quanti anni ha? Nove. Respiri profondamente, vede la scena? Sì. Com’è lui? Alto, enorme, sembra che gli escano le fiamme dagli occhi. Come si sente? Avevo paura. Ora la sente? No, ora no. Cosa fa suo padre in questo momento? Non lo so, non lo vedo più, sta diventando una macchia azzurra. Alle 14 e 40 apre gli occhi. È più sollevata.

Dieci minuti ed esco dalla stanza, ho assaporato la prima dose di vero distillato di dolore umano della giornata. Ne assumo almeno una al giorno, tre volte a settimana. Si chiama: fare lo psicoterapeuta. Leggo l’email. Un’ottima notizia. Mi viene fame. Ho un’idea, faccio una telefonata. Non ci speravo, ma ottengo lo scopo.

Alle 17 e 09 Davide mi dice che la madre è stata diagnosticata tardivamente di schizofrenia paranoide. Tipo che vedeva minacce dappertutto, ladri, la mafia, il Vaticano oscuro. Avevo 10 anni – periodo difficile della vita viene da pensare -. Com’era per lei a quell’età? Tremendo. La notte mamma restava sveglia a controllare se c’erano pericoli. E lei che faceva? Restavo immobile completamente sotto le coperte, attento a non fare un bai. Perché? Dovevo stare in guardia, qualcuno grosso e armato sarebbe potuto entrare. Alle 17 e 16 gli chiedo di tornare in quella stanza. Cosa prova? Teso, ho paura. Bene, gli dico. Facciamo una prova: porti il Davide adulto in quella stanza. Ok. Vede il bambino? Sì. Gli vada vicino. Si sieda sul letto, lo conforti. Alle 17 e 19 lo prende per mano e lo porta a esplorare la stanza, a guardare fuori dalle finestre. Con una certa riluttanza il bambino ammette che non ci sono mostri e accetta di tornare a letto, non senza averne tratto un certo conforto. Respiro uno, respiro due, respiro tre. Apra gli occhi. Come sta? Molto sollevato.

Alle 17 e 50 ho finito di assumere la seconda dose di vero distillato di dolore umano della giornata. Sono sopra la media. Decido di agire. Telefono a Eleonora. Amore? Sì? Una bella notizia. Dimmi. Routledge ha accettato di pubblicare il mio ultimo manuale di psicoterapia in inglese. Wow. Sì, wow. Stasera vestiti in lungo.

Sono le 20 e 58 quando entriamo nella hall di un art hotel nel centro di Roma: Dimaggio, ho prenotato per due. Ristorante stellato. La mia ribellione personale alla dipendenza da Masterchef e Gambero Rosso Channel. Eccesso di cucina gourmet osservata, iniziava a generare stati crescenti di frustrazione.

Dovrebbero pubblicarti libri in inglese ogni settimana, fa Eleonora. Ci servono l’aperitivo. Un prosecco delle langhe accompagna tre piatti di bocconcini. Un piccolo maritozzo con crema di melone e prosciutto crudo. Un cubetto rossoverde nel quale lo chef è riuscito a impilare quattro strati, inclusa una sfoglia microscopica di gambero. Si sente il seme di sesamo. Restiamo increduli. Poi dolce e salato in un’unica rotella, l’alice, il cui sapore di solito odio, si mischia con una crema e il risultato è superbo. E ancora una caprese minuscola e piccole losanghe dalle tinte accostate con sapienza. Alle 21 e 24 le svelo la verità. Il libro è un pretesto. Che vuoi dire? Un pretesto per la cena. Perché, avevi voglia di celebrare la mia bellezza in modo adeguato? Ovvio, rispondo (era l’unica risposta possibile e non è falsa). Però?

Si tratta delle quantità quotidiane di dolore. Ah, vuoi direi il vero distillato di dolore umano? Esatto. Accompagnato da un bianco siciliano, profuma di uva spina, arriva l’antipasto. Il cameriere, siciliano anche lui, ce lo porta sorridendo. Sembra un tiramisù nel bicchiere, non lo è. In effetti scopriremo che la polvere nera sopra è davvero cacao al 100%. La spuma bianca è fatta di patate e del latte nel quale è stato cotto il baccalà. Lardo di cinta senese, il tocco di croccante. Spalle alla sala, faccio la scarpetta sotto il divertito rimprovero di Eleonora. L’olio di produzione propria, provenienza sabina, fa esplodere i sapori.

Una riflessione profonda di Eleonora: assumi dosi settimanali di vero dolore umano per poterti permettere una cena gourmet, o per discolparti dalla cena in un ristorante stellato assumi sofferenza su base regolare? Non c’è risposta. Faccio quello che faccio perché lo so fare e per motivi troppo lunghi da spiegare. Ho imparato il mestiere, ho studiato molto, rovistato nelle parti del mio animo non esposte al sole del sud. Ci ho costruito una reputazione scientifica sopra. Ma ha un prezzo. E guardare Carlo Cracco in TV non ripaga a sufficienza.

Il sommelier, un ragazzo con la barbetta con il quale tranquillamente berresti una birra artigianale tra i vicoli di Trastevere, ci presenta un sangiovese dell’Emilia, un fruttato che accompagnerà i ravioli ripieni di mascarpone al ragout di anatra. Il cameriere siciliano ci invita a masticarli senza averli aperti prima. Seguiamo il consiglio. Aveva ragione. Non ne sopravvive nessuno. Notiamo di non avere preso il ‘Rocher’ di coda alla vaccinara con gelée di sedano. Ci saranno altre occasioni finché non intraprendo programmi di disintossicazione dal vero dolore umano.

Alle 22 e 31 le racconto di una seduta di gruppo in cui siamo finiti tutti scalzi, Paolo, il mio collega, i pazienti e io. Mi punta gli occhi azzurri in faccia: sei serio? Un rosso dal profumo di erborinato, provenienza Côtes du Rhône, previene la risposta, introduce un dittico di capriolo. I sapori variano da lampone essiccato a curry e anice stellato. Ardito, ma funziona. Si chiude con il tiramisù, rivisitato. Naturalmente al baccalà, diciamo al cameriere siciliano. Ovvio, risponde. La strada per il superamento del dolore è indicata sulla guida Michelin, prosit.

Essere sani nei luoghi dei matti: la delicatezza del processo diagnostico – I grandi esperimenti di psicologia

#11: Essere sani nei luoghi dei matti: la delicatezza del processo diagnostico di D. Rosenhan (1973). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

David Rosenhan, nato nel 1929, è stato docente di Psicologia alla Stanford University. Da sempre convinto che sia impossibile effettuare una diagnosi basandosi solo su dati obiettivi, le sue più famose ricerche sono volte proprio a confermare questa tesi. E se non ci convince, per lo meno dei dubbi li lascia.

Come potremmo distinguere, se esistono, normalità e anormalità? Negli anni ’70, Rosenhan afferma che vi sono dati conflittuali sull’utilità e sul significato di termini come ‘malattia mentale‘, ‘insanità’ o ‘schizofrenia‘. Anche oggi, ciò che viene considerato normale in una cultura può essere totalmente aberrante per un’altra. I concetti di normalità e anormalità non sono così chiari come le persone se li immaginano. Solitamente, a questo dilemma si risponde considerando se un determinato evento è o meno deviante. L’omicidio è deviante. Così come lo sono le allucinazioni. Quindi capiamo subito che questo non è un buon indice per identificare la malattia mentale.

Cambiamo quindi prospettiva e proviamo a chiederci: le caratteristiche che determinano la diagnosi sono proprie del paziente o appartengono all’ambiente in cui la persona si trova e viene valutata? Per rispondere a questa domanda, Rosenhan sceglie di verificare se un campione di persone sane (senza diagnosi attuale né in anamnesi di disturbi psichiatrici) sarebbe stato ricoverato presso ospedali psichiatrici, se si fosse scoperto il loro reale stato di salute e come. Ai finti pazienti volontari non è stato chiesto di comportarsi in modo strano, né sono stati influenzati in qualche modo dal ricercatore riguardo alla clinica in cui sarebbero stati ricoverati.

Otto persone sane chiedono di essere ricoverate in 12 differenti strutture psichiatriche. Il gruppo di volontari conta uno studente di psicologia di 20 anni, una casalinga, un pittore, tre psicologi, un pediatra, uno psichiatra. Sono tre donne e cinque uomini, usano uno pseudonimo e inventano una professione, lo staff degli ospedali ovviamente non è a conoscenza dell’esperimento. Le strutture a cui vengono inviate le domande di ricovero sono molto differenti tra loro: alcune sono statali, altre finanziate dalle università, alcune sono antiche e decadenti, altre nuove, alcune sono più orientate alla ricerca, altre no.

Dopo aver chiamato l’ospedale per fissare un appuntamento, lo pseudo-paziente si reca al colloquio preliminare al ricovero lamentando di sentire delle voci. Quando gli viene chiesto che tipo di voci siano, risponde che si tratta spesso di voci poco chiare, ma sembrano dire ‘vuoto’, ‘tonfo‘, ‘cava‘. Tali voci non sono conosciute e hanno un timbro maschile o femminile a seconda del sesso del paziente.

Tale sintomatologia viene accompagnata da un senso di insoddisfazione per la vita in generale, riferita dagli pseudopazienti: la scelta non è casuale, Rosenhan è ben consapevole che non esiste in letteratura nessuna forma di ‘psicosi esistenziale’ o patologia simile a quella descritta dai suoi collaboratori. Ai volontari è stato chiesto di rispondere alle altre domande poste in sede di colloquio secondo la loro reale esperienza, senza inventare, ingigantire o modificare nulla della loro vita. La descrizione della loro famiglia, le relazioni amicali, il percorso scolastico e lavorativo corrispondevano alla realtà.

Immediatamente dopo la loro ammissione presso le strutture coinvolte, i collaboratori di Rosenhan cessavano di riferire i sintomi descritti in sede di colloquio. In alcuni casi si sentivano moderatamente ansiosi e tesi nel primo periodo: nessuno di loro credeva che sarebbe stato ricoverato così facilmente. Tutti riferiscono dopo i primi giorni uno stato di benessere ai dipendenti della clinica, il loro comportamento è nella norma, partecipano alle attività proposte e non lamentano difficoltà. Questo è anche quello che viene annotato nei loro diari clinici. Così come accade spesso in quegli anni ai pazienti psichiatrici, a nessuno dei partecipanti vengono comunicate delle tempistiche relative al ricovero. Ad eccezione di un volontario, tutti gli altri desiderano essere dimessi nel più breve tempo possibile, ma gli viene solamente detto che verranno dimessi quando dimostreranno di essere sani.

Nessuno svelò mai la simulazione degli pseudo-pazienti. A parte uno, tutti vengono dimessi con la diagnosi di ‘schizofrenia in remissione‘. Nessun documento delle strutture coinvolte cita l’ipotesi di una simulazione da parte degli pseudo-pazienti.

Rosenhan afferma che l’etichetta ‘in remissione‘ viene probabilmente assegnata indistintamente, è una formalità, perché nell’ottica delle strutture tali pazienti non possono essere definiti ‘sani‘, né, nell’ottica delle istituzioni, lo sono mai stati. Il fallimento delle strutture nel riconoscere tale simulazione non può essere considerato dipendente né dalla qualità delle cliniche né dalla scarsità di tempo disponibile per un’adeguata valutazione: i ricoveri sono durati tra i 7 e i 52 giorni, con una media di 19.

Nemmeno il comportamento normale dei collaboratori di Rosenhan ha fatto sorgere dubbi interpretativi alle diverse equipe: tuttavia, i pazienti ospiti presso le stesse cliniche spesso riconoscevano gli attori, anche quando questi continuavano ad affermare di aver sentito voci prima del ricovero.

I dati raccolti inducono l’autore a riflettere sulla facilità da parte dei professionisti in ambito psichiatrico di incorrere nell’errore statisticamente definito ‘falso positivo‘, ovvero la tendenza a giudicare malati soggetti sani. Nello spiegare tali conclusioni allo staff di un nuovo ospedale, i dipendenti si mostrano restii a credere di incorrere veramente in tali banali errori.

Pertanto il ricercatore decide di tentare un nuovo esperimento: avvisa l’equipe che nei successivi 3 mesi avrebbero fatto richiesta di ricovero uno o più pseudo-pazienti, chiedendo di segnalargli quando avessero avuto il dubbio di trovarsi di fronte a una messinscena. Dei 193 nuovi ingressi della struttura, i membri dello staff identificano con una certa sicurezza 41 pseudo-pazienti, gli psichiatri ne individuano 23 e 19 persone vengono sospettate di essere attori sia da uno psichiatra sia da un membro diverso dello staff. Non esattamente delle ottime intuizioni, visto che Rosenhan non ha inviato presso la clinica nessun finto paziente. La conclusione non può che dare ragione al ricercatore: ogni processo diagnostico è ampiamente soggetto a errori e non può essere replicato con sicurezza da diversi valutatori.

Una diagnosi di tipo psichiatrico, afferma l’autore, porta con sé conseguenze che influenzano la vita intera. Una volta che una persona viene diagnosticata come schizofrenica, ci si aspetta che lo sia per il resto della sua vita. Quando i sintomi rimangono assenti per un periodo di tempo sufficiente, la patologia viene definita ‘in remissione‘. Ma l’etichetta rimane, così come rimangono le aspettative che, prima o poi, la persona manifesti qualche comportamento bizzarro. E queste conseguenze non si riversano solamente sul paziente, ma anche sui famigliari e sulle persone a lui vicine: non c’è da meravigliarsi se si trasformano in profezie che si auto-avverano.

A maggior ragione se si considera la tendenza all’evitamento e alla depersonalizzazione che caratterizzano, in quegli anni, le strutture che ospitano pazienti psichiatrici: i membri dello staff entrano in contatto con i pazienti solo per poco tempo durante il giorno, spesso ignorano le loro domande o evitano il contatto visivo. I livelli di privacy sono ridotti al minimo e, durante il ricovero, spesso viene applicata una sospensione dei diritti individuali. Questi elementi complicano ancora di più la possibilità di individuare, in ambienti di questo tipo, chi sta bene da chi soffre davvero. Tutti soffrono, in un modo o nell’altro.

Nelle conclusioni del suo lavoro, Rosenhan individua alcune vie d’uscita dalla situazione contemporanea. Cita l’incremento di strutture di altro tipo, comunità, centri specifici per il superamento di momenti di crisi, lo sviluppo di terapie comportamentali mirate, la tendenza a curare la persona all’interno di un ambiente che non sia di per sé fattore di peggioramento dello stato di salute. Ma non solo: l’autore nota una maggiore sensibilità da parte dei professionisti della salute mentale nei confronti delle condizioni paradossali dei pazienti psichiatrici. E forse l’ha notato proprio nel 1973, mentre con altre sette persone ha deciso di fingersi un paziente psichiatrico e ha richiesto di essere ricoverato presso un ospedale psichiatrico.

 

Essere o non essere: il ruolo del dilemma implicativo nella resistenza al cambiamento

Un dilemma implicativo é una struttura cognitiva propria di sé (uno schema nucleare), nel quale il problema o il sintomo (il polo non desiderabile di un costrutto), é associato a caratteristiche positive e congruenti con la propria identità e l´abbandono del problema o del sintomo supporrebbe, d’accordo all’associazione di significati del dilemma, di lasciare la costruzione di sé con questi aspetti positivi e congruenti e ciò rappresenterebbe una minaccia per la propria identità.

Guillem Feixas, Danilo Moggia

La teoria dei costrutti personali di Kelly e il ruolo del dilemma implicativo nella salute mentale

Marco é un uomo di 42 anni nella fase intermedia di una terapia cognitiva comportamentale per il suo disturbo depressivo. Lui e il suo terapeuta hanno notato che ha avanzato nelle prime sedute, ma adesso non piú, persino il suo stato d’animo é ricaduto. Marco dice: “Non é un suo problema dottore, né del suo metodo, sono io il problema… non posso cambiare, é come se non volessi cambiare”. Quanti terapeuti hanno avuto questa esperienza? Perché Marco non avanza di piú? Perché Marco migliora nelle prime sedute e poi no?

Noi pensiamo che a tutte queste domande si possa rispondere studiando il ruolo del Dilemma Implicativo nella salute mentale e nella psicoterapia. Questa nozione viene dalla Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly, la quale fornisce un adeguato quadro concettuale e metodologico per lo studio empirico dei conflitti interni relativi alla costruzione del sé. Sinteticamente, la teoria di Kelly esplora il modo soggettivo in cui le persone costruiscono la loro esperienza, analizzando i loro costrutti personali, che sono dimensioni bipolari di significati personali (ad esempio, essere depressi rispetto ad essere felici). Questa teoria sostiene una proattiva visione degli esseri umani e così afferma che la motivazione, i processi emotivi, e le azioni vengono regolati sulla base della congruenza o discrepanza tra la costruzione del ‘sé’ e del ‘sé ideale’. La discrepanza tra sé e l´ideale non è necessariamente un conflitto.

Per concettualizzare i conflitti, la Teoria dei Costrutti Personali riconosce che gli esseri umani possono assumere una varietà di costruzioni che sono inferenzialmente incompatibili tra loro (il corollario di frammentazione di Kelly). Da questa prospettiva, è probabile che i dilemmi si possano generare quando una persona deve conciliare il sé con i valori personali sostenuti. Ad esempio, il caso di un paziente depresso cronico che ha affrontato il dilemma tra essere depresso (associato nel suo sistema di costrutti con ‘essere umano’) o il cambiamento, e diventare una persona ‘distruttiva’ o una persona ‘sgradevole’ (secondo la sua visione). Questo é un conflitto derivato dalla particolare configurazione delle implicazioni del suo sistema di costrutti.

 

Il conflitto tra il sè attuale e il sè ideale

Da questa visione, un dilemma implicativo é una struttura cognitiva propria di sé (uno schema nucleare), nel quale il problema o il sintomo (il polo non desiderabile di un costrutto), é associato a caratteristiche positive e congruenti con la propria identità e l´abbandono del problema o del sintomo supporrebbe, d’accordo all’associazione di significati del dilemma, di lasciare la costruzione di sé con questi aspetti positivi e congruenti, e ciò rappresenterebbe una minaccia per la propria identità.

In altre parole, la nozione di dilemma implicativo fa riferimento a quei conflitti in cui un cambio desiderato (ad esempio, non essere depresso) implica un cambio indesiderato (ad esempio, diventando sgradevole). In questo esempio un cambio specifico a livello di sintomi implica un cambio a livello di identità (cioè, diventando un tipo di persona diversa). Operativamente, due tipologie di costrutti personali sono coinvolti in un dilemma implicativo.

Da un lato, ci sono i costrutti discrepanti, in cui la persona percepisce una discrepanza significativa tra il ‘sé attuale’ e il ‘sé ideale’ di modo che un polo del costrutto descrive il presente e l’altro il polo del sé ideale. Dall´altra parte, i costrutti congruenti rappresentano aree di auto-soddisfazione (come indicato dalla somiglianza tra il sé presente e il sé ideale) che puó essere legata a valori personali o credenze.

Nell’esempio, il paziente si considera una persona che ‘non ama se stessa’ (polo di sinistra), e vorrebbe iniziare ad ‘amare se stessa’ (polo destro del costrutto discrepante).

Contemporaneamente, in congruenza con il suo sé ideale, si considera come ‘protettiva’ (polo di sinistra) e non vuole diventare ‘impassibile’ (polo destro del costrutto congruente, si puó notare che tutti questi costrutti sono personali, nelle parole del paziente).

Essere o non essere, questo è il problemail ruolo del dilemma implicativo nella resistenza al cambiamento-diagramma

Conclusioni

In questo senso, si considera che i dilemmi implicativi agiscono come fattori di mantenimento della sintomatologia psicopatologica attraverso il tempo e spiegherebbero i fenomeni che tradizionalmente sono stati concettualizzati come resistenza o stagnazione nella psicoterapia.

I dilemmi implicativi possono essere misurati attraverso la Tecnica della Griglia nelle fasi pre e post della terapia. Diverse ricerche hanno dimostrato la relazione tra la presenza di Dilemma implicativo e la presenza di alcuni disturbi e sintomatologia psicopatologica nella popolazione clinica, come nei disturbi alimentari (Feixas et al, 2010), nel disturbo depressivo maggiore (Feixas et al, 2014), distimia (Montesano et al, 2014), disturbi ansiosi (Melis et al, 2011) e disturbi misti (Feixas, Saúl & Avila Espada, 2009).

Lo psicologo forense in ambito minorile: il ruolo, i test e i limiti

Psicologo forense: I lavori forensi nell’ambito della giustizia minorile sono i più delicati in quanto lo psicologo dovrà considerare anche lo sviluppo cognitivo del minore, valutando con attenzione le sue capacità mnestiche, l’intelligenza emotiva, l’esame di realtà e via dicendo, considerando l’età del bambino e le diverse tappe dello sviluppo.

 

Chi è lo psicologo Forense e cosa fa?

L’Ordine Nazionale degli Psicologi, facendo riferimento alla classificazione EUROPSY, definisce lo psicologo forense e giuridico come colui che si occupa [blockquote style=”1″]dei processi cognitivi, emotivi e comportamentali aventi rilevanza per l’amministrazione della giustizia, con riferimento alle persone intese sia come autrici di reato sia partecipanti al processo giudiziario in qualità di imputati, testimoni, parti lese, avvocati e giudici. […] Le applicazioni delle conoscenze e dei metodi di psicologia clinica al contesto giudiziario costituiscono un ausilio sia per l’emissione di sentenze sia per tutelare interessi di parte. Ci si riferisce, ad esempio, all’assessment e alla diagnosi psicologica, alla valutazione della pericolosità, dell’imputabilità e responsabilità penale di adulti e minori, alla valutazione e quantificazione del danno psichico ed esistenziale, al criminal profiling, alla valutazione di minori e del contesto familiare in casi di pregiudizio, all’assessment di minori autori di reato, alla valutazione dei minori e delle capacità genitoriali in casi di affidamento per separazione o divorzio, alla mediazione e risoluzione dei conflitti, alla valutazione per lo sviluppo di percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo di autori di reato, ecc.[/blockquote]

In generale, lo psicologo forense svolge in qualità di Perito, in ambito penale, perizie su nomina del giudice o, in ambito civile, consulenze tecnico-giudiziarie in qualità di CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio), Consulente Tecnico del Pubblico Ministero (CTPM) o, di Consulente Tecnico di Parte (CTP) su nomina degli avvocati di parte. Nella sua opera professionale, lo psicologo forense deve rispettare non solo il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani ma anche alcuni documenti che sanciscono le linee guida nell’ambito della psicologia giuridica, tra cui la Carta di Noto del 1996 e i relativi aggiornamenti 2002 e 2011 e Linee guida deontologiche per Psicologo Forense dell’Associazione Italiana Psicologia Giuridica (Torino, 1999)2.

Nella sua attività forense, lo psicologo dovrà sempre tenere a mente il quesito posto dal sistema giudiziario, la sua attività sarà quella di valutazione, in alcun modo potrà svolgere terapia nell’ambito di una perizia o di una consulenza. L’atteggiamento guida da adottare dovrà essere quello “falsificazionista” riassumibile con Popper in questa affermazione: [blockquote style=”1″]L’inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse per così dire, corrono rischi maggiori.[/blockquote] (Popper, 1986).

Questo approccio garantisce infatti allo psicologo di non fossilizzarsi su eventuali informazioni pregiudiziali o di non fare assoluto riferimento al proprio paradigma, ma di confutare e vagliare razionalmente ogni possibilità con lo scopo di avvicinarsi il più possibile a una valutazione oggettiva. Lo psicologo, dovrà comunque tenere a mente che non dovrà sovrapporsi al ruolo del Giudice, ovvero, potrà esprimere un parere in termini di probabilità o compatibilità, non certo di assoluta verità, fornendo agli interlocutori (giudici, avvocati, colleghi psicologi, psichiatri ecc..) elementi oggettivi per valutare e comprendere l’operato dello psicologo forense e di conseguenza le sue conclusioni. Il suo ruolo è quindi di concorrere, assieme alle altre figure, ad aiutare il Giudice ad esprimersi nel modo più corretto possibile.

 

Quali metodologie e quali test nella psicologia giuridica e peritale?

Nell’ambito forense, occorre essere molto cauti e attenti rispetto ai paradigmi di riferimento e ai diversi approcci che ogni psicologo può seguire. Nello specifico, alcuni approcci che nella pratica terapeutica possono risultare efficaci, in ambito giuridico – considerato il tempo limitato, l’obiettivo (che non è appunto fare terapia, ma valutare) e la necessità di dover dare a tutte le parti elementi per comprendere e valutare il lavoro condotto – potrebbero essere poco adatti.

In generale, il principio da adottare è quello di utilizzare metodologie e strumenti il più possibile recenti, oggettivi e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Relativamente ai test proiettivi o tematici, l’Ordine degli Psicologi del Lazio ad esempio raccomanda di utilizzarli, se necessario, solo in accompagnamento ad altri e in particolare scrive: [blockquote style=”1″]L’utilizzazione distorta, più o meno volontariamente, di strumenti tecnici (test proiettivi) che mirano ad ampliare ed approfondire la conoscenza e la comprensione di dinamiche e processi intrapsichici individuali, significa la compromissione e mistificazione di tali strumenti e la sottolineatura del libero arbitrio rispetto a posizioni scientifiche acquisite. In ambito forense e ancor più nel campo di esame di personalità di minori, dove tutto sembra amplificarsi ed acquisire maggior valore, lo psicologo che utilizza i test deve evitare un’analisi contenutistica priva del “tessuto connettivo di sostegno” offerto dai dati statistici quantitativi nell’interpretazione di un test proiettivo come ad esempio il Rorschach e, soprattutto, deve evitare di assumersi il compito-dovere di accertare un’eventuale colpevolezza, di accertare la verità su di un fatto, o ancora nel valutare il grado del dolo, interpretando così in modo soggettivo e privo di fondamenta scientifiche un test proiettivo.[/blockquote]

Nell’ambito minorile i test proiettivi vengono però talvolta utilizzati, e non come ausilio per inquadrare lo stato psicologico del minore, ma come strumenti di misura. Tra i più diffusi, CAT (1957), TAT (1960), Blacky Pictures (1971), Favole della Duss (1957), Rorschach (1981), disegno della figura umana (1949), ecc. La letteratura scientifica dimostra però che questi test lasciano ampio spazio di interpretazione personale e si è dimostrato che diversi periti possono, con i suddetti test, arrivare a conclusioni diverse. Si è inoltre dimostrato che non vi sono significative differenze ad esempio tra i risultati a questi test condotti su minori sessualmente abusati rispetto a minori non abusati, indice della poca attendibilità oggettiva dei test )per una rassegna si veda Veltman e Browne, 2003 e Waterman, 1993 e de Cataldo, 2010).
In generale, test più recenti e utilizzabili nell’ambito minorile, per avere indicazioni più oggettive possono ad esempio essere:

BVN (2009), batteria di valutazione neuropsicologica per l’adolescenza.
CBA-Y (Cognitive Behavioural Assessment, 2013), per la valutazione del benessere psicologico in adolescenti e giovani adulti.
CLES (Coddington Life Events Scales, 2009), per la misurazione degli eventi stressanti nei bambini e negli adolescenti.
CUIDA (2010), per la valutazione dei richiedenti l’adozione, gli assistenti, i tutori e i mediatori.
FRT (Family Relations Test, 1991), per lo studio delle rappresentazioni familiari.
GSS (Gudjonsson Suggestibility Scale, 2014), per valutare le modalità di reazione durante un interrogatorio.
K-SADS-PL (2004), intervista diagnostica per la valutazione dei disturbi psicopatologici in bambini e adolescenti.
MMPI-A (Minnesota Multiphasic Personality Inventory – Adolescent, 2001), utilizzato per l’assessment della personalità negli adolescenti.
PARENTS (Portfolio per la validazione dell’accettazione e del rifiuto genitoriale, 2012), per misurare l’accettazione e il rifiuto genitoriale.
PCL:YV (Hare Psychopathy Checklist: Youth Version, 2013), per la valutazione della psicopatia.
PSI (Parenting Stress Index, 2008), per misurare lo stress presente nella relazione genitore/figlio.
SIPA (Stress Index for Parents of Adolescents, 2013): per identificare lo stress genitoriale con figli adolescenti.
TCS-A (Test sul superamento dei compiti di sviluppo in adolescenza, 2015), sessualità, abilità cognitive e socio-relazionali e identità.
Test Q-PAD (2011), per la valutazione della psicopatologia in adolescenza.
WISC IV (Wechsler Intelligence Scale for Children-IV, 2012), per valutare le capacità cognitive.

È sempre da tenere in considerazione che le interpretazioni dei test andranno sempre accompagnate da accorte valutazioni e osservazioni cliniche.
Infine, è fondamentale che i Consulenti di Parte si astengano dal somministrare test nel corso della consulenza, per non invalidare l’operato del CTU. Il CTP, ove possibile, è opportuno non sia presente durante la somministrazione di test nell’ambito dei lavori peritali per salvaguardare il corretto setting psicodiagnostico: buona abitudine, per questa ragione, è che il CTU videoregistri tutte le operazioni svolte, previo opportuno consenso del Giudice.

 

Chi può fare lo psicologo forense?

In generale possono occuparsi di scienze forensi psicologi che abbiano adeguata e comprovata esperienza e formazione nell’ambito. Presso ogni Tribunale è istituito un Albo dei Consulenti Tecnici: [blockquote style=”1″]I giudici che hanno sede nella circoscrizione di un determinato tribunale devono normalmente affidare gli incarichi ai CTU iscritti nell’albo dello stesso tribunale.[/blockquote] Essere iscritti in suddetto Albo infatti, garantisce una certa professionalità del consulente, in quanto l’ammissione è stabilita da un’apposita commissione, presieduta dal Presidente del Tribunale, composta anche dagli ordini territoriali competenti rispetto alla professione dell’esperto.

 

L’ambito dell’abuso su minori

In generale, i lavori forensi nell’ambito della giustizia minorile sono i più delicati in quanto lo psicologo dovrà considerare anche lo sviluppo cognitivo del minore, valutando con attenzione le sue capacità mnestiche, l’intelligenza emotiva, l’esame di realtà e via dicendo, considerando l’età del bambino e le diverse tappe dello sviluppo. Nel caso dell’abuso, sessuale o meno, il contesto si fa ancora più delicato: il sovrintendente Mauro Berti, responsabile dell’Ufficio Indagini per la Pedofilia della Polizia delle Comunicazioni del Trentino Alto Adige, nell’ambito di una manifestazione della giornata nazionale contro la pedofilia del 5 maggio 2016, ha espresso con limpida chiarezza quanta delicatezza e professionalità occorra nell’occuparsi di minori, in particolare vittima di presunti abusi sessuali, non si è però soffermato solo sugli aspetti formali e tecnici, ma ha aggiunto: [blockquote style=”1″]Per occuparsi di minore occorre che gli esperti, nelle loro diverse specificità e competenze, tengano sempre presente che essere bambini è un diritto, e che chi abbiamo davanti non è un oggetto su cui fare valutazioni o prendere decisioni, ma è una persona, con una sensibilità, con un vissuto, con delle emozioni imprescindibili. Occorre quindi ricordarsi sempre l’aspetto umano-relazionale, ed è anche per questo che la Polizia di Stato non si limita alle attività di indagine o repressione del reato, ma svolge numerose iniziative di sensibilizzazione.[/blockquote]

 

La stesura della relazione

La relazione al fine dei lavori, che lo psicologo forense dovrà elaborare per il sistema giudiziario, dovrà essere scritta con estrema precisione, non lasciando spazio ad interpretazioni soggettive o a espressioni ambigue, dovrà in primo luogo riassumere le modalità, gli incontri, i test e le persone coinvolte durante le operazioni peritali, per poi dettagliare gli esiti in modo oggettivo, dando agli interlocutori la possibilità di comprendere e verificare oggettivamente il lavoro svolto.

Conclusioni

Il lavoro dello psicologo forense è particolarmente delicato e richiede quindi, oltre alle competenze e alle conoscenze, una certa attitudine al metodo scientifico-giuridico.

Cosa succede al mio account Facebook se muoio? Utenti fantasma ed eredi virtuali

L’esistenza post mortem del profilo Facebook è un cruccio per la comunità web. Mark Zuckerberg coglie prontamente le preoccupazioni dei cittadini della sua comunità, e si preoccupa della loro salute virtuale. Riformulando la questione in modo più chiaro: nel caso in cui “ti succede qualcosa” nel mondo terreno, cosa accade nel tuo spazio virtuale? Ecco la soluzione proposta dal social network: se nella realtà quotidiana ci si tutela redigendo un testamento, nella realtà online si protegge il proprio patrimonio virtuale nominando un erede.

 

Cosa succede al mio account di facebook se muoio?

Oggi ci sono più di un miliardo di utenti Facebook. Per ognuno di questi, è possibile rintracciare tale FAQ (frequently asked question), cliccando nell’area gestione dell’account: “cosa succede al mio account se muoio?”.

L’esistenza post mortem del profilo Facebook è un cruccio per comunità web. Mark Zuckerberg coglie prontamente le preoccupazioni dei cittadini della sua comunità, e si preoccupa della loro salute virtuale. Riformulando la questione in modo più chiaro: nel caso in cui “ti succede qualcosa” nel mondo terreno, cosa accade nel tuo spazio virtuale? Ecco la soluzione proposta dal social network: se nella realtà quotidiana ci si tutela redigendo un testamento, nella realtà online si protegge il proprio patrimonio virtuale nominando un erede. In che modo? Basta cliccare sulle impostazioni di gestione del proprio account ed ecco apparire l’opzione “nomina un erede”.  Chi è l’erede? FB lo definisce così: “un contatto erede è una persona a cui affidi la gestione del tuo account nel caso in cui tu venga a mancare. Questa persona sarà in grado di compiere alcune azioni, tra cui fissare un post in alto nel tuo diario, rispondere a nuove richieste di amicizia e aggiornare l’immagine del profilo. Non sarà in grado di creare nuovi post a nome tuo o di vedere tuoi messaggi”.

 

Facebook come strumento di socializzazione

Ma procediamo un attimo a ritroso per comprendere meglio la rilevanza di questa “conquista”. Ci troviamo nell’anno 12 p.F. (post- Facebook) e, dalla sua fondazione, ci sono stati dei significativi cambiamenti: oltre al fatto che ormai più di 1/7 della popolazione mondiale possiede un account (un numero notevole rispetto a quella manciata di studenti di Harvard del 2004), è cambiata l’interpretazione delle possibilità offerte dal mondo Facebook. Da strumento di socializzazione ristretto alle cerchie universitarie statunitensi si è tramutato in uno strumento di socializzazione globale.

Oggi un’inquietante nuova affordance si rende trasparente e necessaria all’innumerevole quantità di utenti: Facebook crea vita, una vita virtuale, ma pur sempre vita. Il profilo diventa un prolungamento del sé: della propria res cogitans, che si manifesta attraverso ciò che si condivide, che si commenta, che si pubblica, attraverso i like che si mettono; della propria res extensa, che prende vita nelle proprie foto, nei propri video, nelle proprie “GIF”. Oggi il profilo è la miglior forma di personal branding, per tutti gli utenti, dall’adolescente all’over sessanta, e il grande social network si propone come un enorme “spaccio di identità”. In questo contesto appare chiara la necessità di nominare un erede: è fondamentale salvaguardare la propria vita online, una parte sostanziosa dell’identità dell’utente stesso.

 

Il caso di Louise Palmer

Una conseguenza diretta di questa estensione identitaria è il vuoto di diritto che si è creato su tale social, dopo la sua repentina ascesa. Il “caso Palmer” è stato uno dei tanti a mettere in luce questo aspetto: Louise Palmer è una madre britannica, la cui figlia Becky morì prematuramente nel 2012, a causa di un cancro. Becky aveva 19 anni e un account di facebook. Post mortem, i suoi amici continuavano a mantenere attiva la sua bacheca, pubblicando foto, post, ricordi. Il problema nacque quando la madre Louise cercò di entrare nel profilo della figlia, dichiarando di cercare conforto in quella parte della figlia che sopravviveva alla morte terrena e nel calore dei suoi amici. Nonostante le numerose richieste, lo staff di Facebook si dimostrò intransigente e le negò l’accesso più volte per motivi di privacy. Il caso destò scalpore e finì sotto gli occhi dell’intera Gran Bretagna. Questa vicenda, come altre prima, ha sottolineato un grosso punto cieco nella perfetta macchina virtuale: non era stato definito un protocollo d’azione da seguire in situazioni del genere, dunque non si è riusciti a dare altra risposta se non: “ci dispiace, non è autorizzata per motivi di privacy”. Una risposta crudele per le orecchie di una madre addolorata, ma che evidenziano soltanto una lacuna nel sistema. La soluzione prontamente offerta è stata la creazione di “account commemorativi” e in seguito si è arrivati all’ “opzione erede”.

Il percorso attraverso il quale si è giunti all’erede appare naturale e necessario. Una volta salpata la grande nave FB nell’oceano online, gli utenti iscritti hanno avuto due possibilità: continuare a rimanere sulla nave, accettando che il progresso continuasse a rivoluzionare la loro esistenza con possibilità sempre maggiori (tra cui l’erede); scendere dalla nave, con il rischio di rinunciare a numerosi benefici sociali che solo questa comunità virtuale sa dare. Sull’ultima piccola rivoluzione facebookiana, l’opzione erede, si pone l’attenzione su ciò che ne consegue per le due parti coinvolte: l’utente, che si trasforma in utente-fantasma; l’erede nominato.

 

L’utente fantasma

Secondo Hachem Sadikki (una ricercatrice dell’università del Massachusetts), all’interno di Facebook si sta verificando una crescita esponenziale di iscrizioni, destinata ad aumentare negli anni. Sorge spontaneo pensare che più saremo, più lapidi arricchiranno il gigantesco cimitero virtuale, che già oggi ne conta più di 3 milioni. Un sentimento di inquietudine mi assale al pensiero di 3 milioni di fantasmi digitali che aleggiano in rete, accettando nuovi amici, cambiando l’immagine del profilo e fissando un bel post in alto nel proprio diario. È inquietante per me in quanto persona cresciuta nella generation web 2.0, che ha vissuto il trapasso da “msn” (molto in voga fino a 12 anni fa e già caduto nel dimenticatoio) al social network vero e proprio.

Ma questo sentimento colpirà la “touch generation”? Non credo. Quando a tre anni si è già in grado di usare un iPad, di sicuro in futuro non ci si porrà il problema di un’esistenza virtuale separata da quella terrena, in grado di sopravvivere alla morte. La “touch” è una generazione cresciuta in un ambiente diversamente stimolato, ultrastimolato, dunque gli schemi mentali e le strutture cognitive di coloro che vi appartengono si svilupperanno in maniera sicuramente differente. Noi della web 2.0 abbiamo genitori della web generation e vediamo crescere al nostro fianco i bambini della touch generation: siamo a cavallo tra due mondi e se da un lato siamo attratti dalle nuove proposte della tecnologia, dall’altro ne siamo un po’ spaventati.

L’inquietudine nasce, secondo la mia opinione, dall’opacità con la quale la generazione web 2.0 (e le precedenti) guarda alle affordances offerte dal mondo social, perfettamente intellegibili e trasparenti agli occhi della touch generation. Gli schemi mentali sono le lenti attraverso le quali decifriamo la realtà: quelle della web generation (e della 2.0) sono state costruite in un ambiente differente, per questo leggono il nuovo ambiente in maniera un po’ opaca. Con questa chiave di lettura si può leggere il “problema”- erede.

 

L’erede

Se si decide di nominare un “social-erede”, nella rosa dei candidati si colloca un parente, un amico stretto, un fidanzato. Ciò accade se le stesse regole e usanze terrene vengono applicate al mondo digitale, applicando l’abitudine culturale per la quale si tramanda il proprio patrimonio (in questo caso virtuale) a chi ci sta a cuore. Eppure ciò che si lascia all’erede virtuale non è qualcosa come una casa, un semplice pezzo di terra, dei soldi, etc.

All’erede si concede l’onore di possedere una parte di identità, che egli comincia a gestire come propria. L’erede pubblica una foto dal suo profilo e, contemporaneamente, fissa un post in alto su quello della persona cara venuta a mancare. Ecco che l’onore si trasforma in un onere pesante e sorgono spontanei alcuni interrogativi. Ad esempio: in che modo si elabora il lutto di un utente-fantasma? Ci si muove su un terreno di ricerca ancora inesplorato, ma è chiaro che se già è complesso elaborare la morte di una persona cara, lo sarà ancora di più se ci si imbatte costantemente nella sua identità virtuale. Un’altra situazione che potrebbe verificarsi è la seguente: al momento Facebook dà la possibilità di nominare come erede uno dei propri amici. Ma l’amico Facebook non è necessariamente un amico o un parente nella vita reale. E se per qualche assurda ragione un utente decidesse di designare come erede uno sconosciuto appartenente agli amici?

Non è obbligatorio accettare la condizione di contatto erede, dunque si può anche cortesemente rifiutare l’offerta del nostro amico, parente, marito o sconosciuto amico di Facebook. Ma nel caso si decida di accettare è necessario tener conto di tutte le possibili conseguenze, fantasmi compresi.

Il disturbo dell’estinzione visiva e la negligenza spaziale unilaterale

Con il termine estinzione visiva ci si riferisce a un disturbo conseguente ad una lesione cerebrale unilaterale, tale per cui il soggetto sperimenta l’incapacità di identificare uno stimolo proposto nello spazio opposto a quello della lesione, quando contemporaneamente nello spazio ipsilesionale viene presentato ad un altro stimolo.

Diletta Maria Ghisleri, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Il paziente affetto da Negligenza Spaziale Unilaterale [blockquote style=”1″]si comporta come se non fosse più in grado di percepire e concepire l’esistenza di un lato dello spazio egocentrico, corporeo ed extracorporeo [/blockquote](Bisiach, 1996).

In ambito neuropsicologico si sente parlare spesso di Sindrome Spaziale Unilaterale – NSU o Neglect Spaziale, ma poco conosciuta è una sindrome spaziale simile alla NSU, ma che assume una propria autonomia diagnostica: il disturbo dell’ estinzione in condizioni di doppia stimolazione.
Entrambi i deficit sono classificabili all’interno della più ampia categoria dei disturbi dell’attenzione spaziale e dal punto di vista eziopatogenetico sono frequenti soprattutto dopo lesione cerebrale, ciascuno con specifiche aree neurali interessate.

 

Cos’è il disturbo dell’ Estinzione visiva?

Il concetto di estinzione è stato introdotto all’interno del panorama medico/neurologico da H. Oppenheim nel 1885, nonostante l’esposizione del primo caso clinico nel 1884 si debba a J. Loeb (Benton, 1956).

Con il termine estinzione visiva ci si riferisce a un disturbo conseguente ad una lesione cerebrale unilaterale, tale per cui il soggetto sperimenta l’incapacità di identificare uno stimolo proposto nello spazio opposto a quello della lesione, quando contemporaneamente nello spazio ipsilesionale viene presentato ad un altro stimolo. Con la presentazione simultanea di due target, il soggetto riporta la presenza del solo stimolo ipsilesionale, mentre lo stimolo controlesionale è apparentemente ignorato, o estinto (Bisiach, 1991). Questi stessi pazienti rispondono correttamente ai medesimi target visivi, uditivi o tattili controlesionali se proposti isolatamente (in assenza di altri deficit, es. riduzione campimetrica).

Nell’ estinzione il paziente non ha disturbi visivi primari: quando vengono presentati stimoli singoli nel campo visivo destro o nel campo visivo sinistro, è in grado di riportarne la presenza e le caratteristiche fisiche e semantiche (es. dimensione, colore, cosa è, etc).
Storicamente il disturbo dell’ estinzione al doppio stimolo è stato correlato alla sindrome da negligenza spaziale unilaterale, definito in particolare come difficoltà residua nell’esplorazione dello spazio controlesionale, in seguito ad un programma riabilitativo del neglect (Heilman e coll., 1993).

 

Correlati neurali dell’estinzione visiva

Nonostante le similarità delle manifestazioni sintomatologiche, sono molte le evidenze che suggeriscono che neglect e disturbo dell’ estinzione visiva vadano considerate come condizioni patologiche distinte. Alcuni studiosi hanno infatti testato pazienti che mostravano i sintomi di una sola delle due condizioni cliniche, in particolare il disturbo dell’ estinzione visiva senza sindrome spaziale unilaterale (Ogden, 1985), dimostrando che estinzione e neglect sono due deficit doppiamente dissociabili.

Si osserva inoltre che, mentre il neglect è spesso conseguente a lesioni a carico dell’emisfero destro ed interessa l’emispazio sinistro, il disturbo dell’ estinzione è riscontrabile in seguito a lesioni parietali sia destre che sinistre con egual frequenza e può interessare pertanto entrambi gli emispazi visivi. Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato che le manifestazioni cliniche di neglect ed estinzione hanno differenti basi neurali. Vallar e coll. (1994) hanno evidenziato che i correlati anatomici del disturbo dell’ estinzione non sono confinati a lesioni corticali che coinvolgono la corteccia parietale, ma possono coinvolgere le strutture sottocorticali profonde. In una ricerca proposta da questi autori, i pazienti con disturbo dell’ estinzione – senza neglect presentavano con maggior frequenza danni alla sostanza bianca paraventricolare e alla corteccia frontale dorso-laterale; nel caso di coesistenza tra neglect ed estinzione la lesione si sovrapporrebbe al lobulo parietale inferiore. Uno studio di neuroimmagine di Karnath e coll. (2009), ha indicato la giunzione temporo-parietale come substrato neurale interessato nell’ estinzione visiva.

 

Manifestazioni cliniche

E’ possibile considerare l’ estinzione come un fenomeno la cui espressione clinica è osservabile in differenti domini: alcuni studi presenti in letteratura dimostrano come siano possibili dissociazioni selettive e specifiche per ciascuna modalità sensoriale, dipendenti dai circuiti cerebrali specifici coinvolti.
Un paziente può mostrare contemporaneamente estinzione somatosensoriale (Critchley, 1949), visiva, uditiva e gustativa oppure riportare il manifestarsi dell’estinzione in un unico dominio (De Renzi e coll., 1984).
Il fenomeno dell’ estinzione non è osservabile esclusivamente all’interno dei domini sensoriali, ma può interessare anche il dominio motorio. Si parla infatti di estinzione motoria quando il paziente riesce ad utilizzare entrambe le braccia singolarmente, ma fallisce nell’usare l’arto controlesionale quando gli si chiede di muovere contemporaneamente entrambi gli arti superiori.

 

Interpretazioni del deficit

Le interpretazioni causali del disturbo dell’ estinzione visiva sono controverse, in generale vengono a contrapporsi due correnti di pensiero: la prima supporta una “teoria sensoriale”, mentre la seconda una “teoria attenzionale”.

Secondo la prospettiva sensoriale, il processo di estinzione visiva sarebbe ricollegabile ad un’elaborazione incompleta e inadeguata degli stimoli, a carico dell’emisfero danneggiato. Data la caratterizzazione crociata delle principali vie sensoriali, gli stimoli presentati controlateralmente all’emisfero danneggiato risulterebbero sottoposti ad un’elaborazione deficitaria già durante le prime fasi dell’analisi (Batterby e coll., 1956). La presenza di un deficit sensoriale potrebbe spiegare la diversa capacità dei pazienti nel rilevare stimoli presentati singolarmente, piuttosto che in condizione bilaterale (Farah e coll., 1991).

Le ipotesi attenzionali rimandano alle teorie di Kinsbourne (1987) e sostengono che il disturbo sarebbe evidenza di un meccanismo competitivo per l’utilizzo di risorse attenzionali limitate: il danno cerebrale causerebbe un’alterazione dell’equilibrio delle risorse e a causa di tale modificazione lo spazio ipsilesionale risulterebbe prominente. La presentazione di uno stimolo ipsilesionale catturerebbe l’attenzione, sopprimendo la percezione consapevole dello stimolo controlesionale considerato meno saliente. Per singoli target, la competizione non si attiverebbe e gli stimoli sarebbero normalmente elaborati.

Le teorie interpretative più recenti avvalorano l’ipotesi attenzionale: rimandando alle interpretazioni della negligenza spaziale unilaterale come disturbo dell’attenzione, questi modelli definiscono il disturbo dell’ estinzione come riflesso di un disordine di rappresentazione spaziale (Smania e coll., 1996). A sostegno di questa ipotesi, alcuni lavori recenti hanno evidenziato la possibilità di modulare il fenomeno dell’ estinzione attraverso alcuni fattori specifici, ad esempio mediante l’orientamento volontario dell’attenzione spaziale (Di Pellegrino e De Renzi, 1995).

 

Elaborazione senza consapevolezza nel disturbo dell’ estinzione

L’ estinzione è stata spesso ricondotta ad un disturbo a livello della consapevolezza percettiva. Uno dei quesiti più interessanti è: l’ estinzione in doppia stimolazione prevede una perdita totale dell’informazione presente nello spazio contro-lesionale oppure avviene un qualche tipo di elaborazione anche solo a livello elementare?

In uno dei primi studi effettuati, Volpe e collaboratori (1979) sottoposero 4 soggetti, che riportavano una lesione cerebrale destra, ad un test di giudizio di valore uguale/diverso relativamente a due stimoli complessi. La risposta di questi pazienti riportava l’assenza degli stimoli proiettati nell’emicampo visivo sinistro, quando uno stimolo concorrente era contemporaneamente presentato nell’emicampo destro. Nonostante ciò, gli stessi pazienti se spinti a rispondere, erano in grado di dare i giudizi di valore uguale/diverso relativi agli stimoli presentati, presentando un elevato grado di adeguatezza. Se ne ipotizzò che in assenza di elaborazione a livello percettivo e consapevole, le caratteristiche fisiche degli stimoli potevano superare la soglia dei sistemi sensoriali ed essere in qualche modo processate.

Uno studio confermativo di Berti e coll. del 1992 effettuato su di un singolo paziente, ha rilevato che gli stimoli presentati ed “estinti” dal soggetto potevano raggiungere un livello di elaborazione molto elevato, in assenza tuttavia di coscienza per il prodotto dell’elaborazione stessa.
Ciò ha permesso di inscrivere il fenomeno dell’ estinzione visiva tra i disordini dominio-specifici della consapevolezza.

Ricci e Chatterjee (2004) hanno sottolineato come un compito che richiede l’identificazione semantica di stimoli visivi, risulti più sensibile nel rilevare la presenza dell’ estinzione visiva rispetto ad un compito di semplice detezione dell’input (in cui si prevedono giudizi di presenza/assenza stimoli mono o bilaterali). Un soggetto che riesce positivamente in compiti di detezione, potrebbe manifestare l’ estinzione visiva in condizioni di doppia stimlazione, in un compito identico in cui è tuttavia richiesta l’identificazione semantica dei medesimi stimoli (quindi un livello di elaborazione superiore). Questo fenomeno letto all’inverso indica che un soggetto che nei test per l’ estinzione visiva fallisce il compito di identificazione del doppio stimolo durante stimolazione bilaterale, potrebbe rilevare correttamente entrambi gli input in un compito che richieda un grado di elaborazione inferiore (es. detezione).

Questo esperimento può essere visto come un’ulteriore prova di come il fenomeno dell’ estinzione visiva sia osservabile a diversi livelli di elaborazione dell’informazione in entrata e strettamente associato a diversi livelli di consapevolezza.

Il pianto del bambino e il funzionamento cognitivo dell’adulto

Pianto del bambino: Come Charles Darwin e molti altri studiosi hanno osservato, i bambini hanno la capacità di attirare la nostra attenzione, in particolare tramite il pianto. Ma come la valenza emotiva dei segnali vocali infantili colpisca la cognizione e l’attività corticale nell’adulto non è ancora stato sufficientemente indagato.

 

L’esperimento con il test di Stroop

Pertanto Dudek e colleghi, in collaborazione con l’Università di Toronto, hanno condotto uno studio proprio con lo scopo di comprendere quali sono gli effetti che il pianto del bambino può causare alla cognizione dell’adulto.

Nel corso dell’esperimento è stato chiesto ai partecipanti di ascoltare due vocalizzazioni infantili differenti, una di un bambino che ride e l’altra di un bambino che piange, e successivamente di svolgere un compito. Nello specifico il compito richiesto era il Test di Stroop, ai soggetti veniva richiesto di identificare il più rapidamente possibile il colore delle parole stampate ignorando il significato della parola stessa. Durante l’esecuzione del test è stata misurata l’attività cerebrale utilizzando l’elettroencefalogramma (EEG).

 

I risultati dello studio

I risultati hanno evidenziato un effetto interferenza maggiore sul compito da parte del pianto del bambino rispetto alla risata, innescando così un maggiore conflitto con l’elaborazione cognitiva da parte dell’adulto. Si tratta di un dato molto importante, in quanto l’elaborazione cognitiva è fondamentale per controllare l’attenzione, ovvero una delle funzioni esecutive di base più importanti per l’uomo, in quanto ci consente di completare un compito o di prendere una decisione.

Come sottolinea Joanna Dudek, i genitori sono tutti i giorni intenti a dover prendere decisioni e a dover prestare attenzione nei confronti dei loro bambini. Questo può capitare in qualsiasi momento nell’ arco della giornata, come ad esempio quando suona il campanello e il loro bambino inizia a piangere. Come fanno a mantenere la calma, a rimanere lucidi e a sapere quando è il momento di agire o di badare al loro bambino?

Lo studio ha dimostrato come il pianto del bambino possa causare avversione negli adulti, ma come dichiara Haley è possibile ipotizzare che esso attivi nei genitori “un’accensione” del controllo cognitivo con lo scopo di rispondere efficacemente ai bisogni emotivi del loro bambino, riuscendo contemporaneamente a rispondere anche alle altre richieste della vita quotidiana. Potrebbe essere proprio questa flessibilità cognitiva a permettere ai genitori di passare rapidamente dalle esigenze del proprio figlio alle richieste della vita di tutti i giorni, che paradossalmente può anche significare ignorare momentaneamente il bambino. Qualora l’ipotesi non sia corretta Haley aggiunge che comunque, in alternativa, potrebbe essere insegnato ai genitori come concentrare la loro attenzione in maniera maggiormente selettiva.

 

Pianto del bambino e funzioni cognitive: conclusioni

Il presente studio è il primo a esaminare gli effetti delle vocalizzazioni infantili sull’attività neurale nell’adulto durante un compito cognitivo, per cui si tratta di informazioni davvero preziose che si vanno a sommare ad un crescente corpo di ricerca che suggerisce come i neonati occupino uno status privilegiato nella nostra programmazione neurobiologica, e di come questo sia profondamente radicato nella nostro passato evolutivo. Il risultato finale, come dichiara Haley, è la rivelazione di un’importante funzione cognitiva adattiva del cervello umano.

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