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Comorbilità vera e comorbilità spuria nei disturbi dell’alimentazione

Gli studi che hanno valutato la comorbidità nei disturbi dell’alimentazione hanno spesso riscontrato notevoli limiti metodologici

Di Arianna Belloli

Pubblicato il 24 Giu. 2021

La comorbidità, in ambito clinico, fa riferimento alla coesistenza di due o più entità cliniche distinte. Questo concetto viene oggigiorno frequentemente utilizzato in maniera acritica da clinici e ricercatori, specialmente nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione.

 

 Il termine ‘comorbidità’ (o comorbilità), coniato nel 1970 per indicare l’esistenza o l’insorgenza secondaria di una diagnosi aggiuntiva rispetto a quella principale (Feinstein, 1970), viene oggigiorno frequentemente utilizzato in maniera acritica da clinici e ricercatori; specialmente nell’ambito dei disturbi dell’alimentazione (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019). Si tratta di un concetto estremamente complesso, che in ambito clinico fa riferimento alla coesistenza di due o più entità cliniche distinte; a tal proposito, però, emerge la prima obiezione: nell’ambito della salute mentale, non essendo ancora stati definiti dei bio-marcatori specifici per ciascun disturbo, risulta imprecisa la concettualizzazione di due entità differenti (Maj, 2005). L’uso improprio del concetto di comorbidità potrebbe anche essere un effetto generato dalla classificazione, a tratti ancora molto categoriale, dell’attuale Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013), che induce ad applicare molteplici diagnosi psichiatriche nel medesimo quadro clinico; postulando una concettualizzazione del disturbo più complessa del dovuto, in opposizione al principio metodologico del rasoio di Occam  (Murray, Loeb, & Le Grange, 2018). Non si tratta, però, di una mera scelta metodologica fine a se stessa, bensì di un elemento cruciale ai fini del trattamento e della prognosi del disturbo; che potrebbe comportare delle significative conseguenze cliniche.

I sintomi depressivi, ad esempio, sono ricorsivi nella popolazione clinica con disturbi dell’alimentazione (DA), ma possono configurarsi sia come esito di una depressione clinica coesistente (comorbidità vera), oppure come la diretta conseguenza del DA (comorbidità spuria). Nel primo caso la depressione clinica va trattata direttamente e separatamente, mentre nel secondo caso un adeguato trattamento psicoterapico sul disturbo alimentare dovrebbe determinare la remissione spontanea dei sintomi depressivi (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019). Dalla letteratura è emerso che le comorbidità più frequentemente associate al disturbo alimentare sono: disturbi d’ansia (>50%), disturbi dell’umore (>40%), autolesionismo (>20%) e disturbo da addiction e uso di sostanze (>10%) (Keski-Rahko- nen & Mustelin, 2016); oltre alla presenza lifetime di ossessioni e compulsioni nella sotto-categoria diagnostica dell’anoressia nervosa (Halmi et al., 2003). In merito al profilo personologico, l’anoressia nervosa è più frequentemente associata al disturbo evitante di personalità (Cluster C), mentre la bulimia nervosa è maggiormente associata ai disturbi di personalità del Cluster B (drammatico) (Martinussen et al., 2017). Gli studi che hanno valutato la comorbilità nei disturbi dell’alimentazione hanno spesso riscontrato notevoli limiti metodologici, tra cui: insorgenza cronologica (non viene specificato se l’esordio del disturbo in comorbidità sia antecedente o posteriore a quello del DA), numerosità campionaria troppo ridotta, criteri di inclusione/esclusione poco precisi, utilizzo di reattivi psicometrici non appropriati, limitato uso dei gruppi di controllo e mancata valutazione dei sintomi da malnutrizione indotti dal sottopeso (deflessione timica, spossatezza, faticabilità ecc.) (Garner & Dalle Grave, 1999; Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019).

 Oltre alle implicazioni metodologiche e alle potenziali conseguenze iatrogene sull’esito del trattamento, risulta opportuno delineare anche una riflessione su quanto l’uso acritico del concetto di comorbidità possa limitare un approccio più olistico verso il paziente, di cui spesso si perde la visione d’insieme della sua persona. Motivo per cui risulterebbe più opportuno esprimersi in termini di ‘casi complessi’, piuttosto che di comorbilità (Maj, 2005). Nel caso specifico dei disturbi dell’alimentazione, nella maggior parte dei quadri clinici coesistono altre problematiche di natura medico-psichiatrica (Keski-Rahkonen & Mustelin, 2016). Per far fronte a tali casistiche, la Terapia Cognitivo-Comportamentale Migliorata (Cognitive-Behavioral Therapy-Enhanced; CBT-E) ha implementato un protocollo evidence-based che prevede la somministrazione di un trattamento erogato da un’équipe multidisciplinare, non eclettica, che segue pragmatiche linee guida che indicano quando e come trattare le comorbidità. In modo tale da evitare potenziali conseguenze iatrogene dettate dal trattamento e favorendo la remissione spontanea della sintomatologia secondaria al DA, nel momento in cui quest’ultimo viene affrontato in un’ottica nucleare e prioritaria (Dalle Grave, Sartirana, Calugi, 2019).

 

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