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Sostiene Pereira: lutti irrisolti e l’incontro di anime, proprie e altrui – Recensione del libro

Antonio Tabucchi, scrittore italiano di adozione portoghese, ci ha lasciato un’opera profonda e toccante, Sostiene Pereira, che permette a ciascuno di noi di affrontare un viaggio interiore e risvegliare se stessi dal torpore, confrontandoci con il nostro Io egemone e la nostra identità.

 

Un uomo sovrappeso e cardiopatico d’età avanzata, con una sua routine ben cadenzata, sulle spalle il peso di una vedovanza mal accettata, all’interno di un contesto di dittatura salazarista nel Portogallo degli anni ’30: con queste premesse ci viene presentato il nostro, sin da subito caro, Pereira nel romanzo di Antonio Tabucchi del 1994.

Sostiene Pereira è la frase che ci accompagna per tutta la lettura del libro, quasi un intercalare, ma che potrebbe sin da subito raccontarci molto del protagonista. Nelle varie parti del libro questa affermazione sembra mutare e cambiare di significato.

Sostiene Pereira: si mantiene in vita, evita di cadere, tenta di sorreggersi nel suo presente privo della donna che ha amato.

Dai capitoli iniziali la tematica del lutto irrisolto è evidente: una moglie amata con la stessa intensità in vita e dopo la sua dipartita, tanto da distogliere l’attenzione del nostro protagonista da ciò che lo circonda, da ciò che gli è ancora intorno. Sin dalle prime pagine, infatti, il nostro Pereira appare come un uomo mesto, affaticato dalla monotona vita e anestetizzato da ciò che capita attorno a sé. Sfoga complessi e inspiegabili tormenti al suo parroco di riferimento, si irrita con il suo amico di sempre senza essere consapevole delle motivazioni, risulta un uomo che vive passivamente il suo presente. Potrebbe, altresì, rispecchiare il profilo dell’individuo malinconico di cui parla Freud nella sua opera del 1917 Lutto e Melanconia. L’autore afferma, infatti, che un lutto porta a una condizione di sofferenza causata dalla perdita dell’oggetto non di per sé patologica, che necessita una elaborazione da parte dell’Io. Alcuni individui, però, non riescono a elaborare il doloroso evento. Questo fa sì che, nel soggetto malinconico, la perdita dell’oggetto caro nel mondo, a livello inconscio, coincida con uno svuotamento dell’Io.

Il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando, ma non cosa è andato perduto in lui. (Freud,1917).

Pereira risulta un uomo smarrito e incompleto, scevro dalle emozioni che un tempo riempivano le sue giornate. Resta ancorato alla sua esistenza passata, quando la sua compagna di vita gli era ancora accanto.

Se risulta chiaro sin dall’inizio che Pereira non accetti la morte della propria amata, con cui continua a intrattenere vivide conversazioni attraverso una fotografia ben incorniciata, un altro lutto irrisolto è nascosto tra le righe del romanzo, questa volta in maniera molto meno consapevole: il lutto della democrazia nel proprio (ancora amato?) paese.

Sostiene Pereira: resiste, tollera, sopporta quel peso che porta su di sé, anche quando questo è immorale e ingiusto, come lo è la condizione violenta della dittatura.

In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l’oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d’amore (Freud, 1917).

L’inizio della presa di consapevolezza di disamore per il proprio paese in tali condizioni avviene prima con l’incontro di una giovane coppia di innamorati, che cercano di ribellarsi al crudele sistema dittatoriale. Pereira inizia a non sentirsi più comodo nella sua ripetitiva quotidianità, qualcosa inizia a fremere in lui e, gradualmente, sarà di aiuto ai due giovani rivoluzionari. Questo primo incontro permetterà un confuso risveglio emotivo del nostro protagonista, che torna ad avere un turbato interesse e ruolo attivo nella sua vita, presumibilmente ferma fino a questo momento alla quarta fase del lutto, quella della depressione. Vi è, invece, l’inizio della fase dell’accettazione, condizione necessaria per la reazione (Kübler-Ross, 1969) del lutto della libertà del proprio paese.

L’evento che gli permetterà la piena presa di consapevolezza e gli concederà di avere risposte esaustive a domande esistenziali, che non riusciva a maneggiare né con se stesso, né con nessun altro, sarà la conoscenza del dottor Cardoso. Proprio in questa amicizia, che parrebbe più un predestinato incontro di anime affini, vien fuori l’Io più consapevole e lucido che Pereira pensava fosse oramai deceduto da tempo. Questo intenso personaggio condivide un’illuminante teoria con il nostro protagonista: la teoria della confederazione delle anime. Riprendendo gli studi dei medici-filosofi francesi (all’epoca patria e simbolo della libertà di espressione e di pensiero) Théodule Ribot e Pierre Janet, il dottor Cardoso espone al nostro protagonista tale teoria, che gli permette di comprendere come funziona il conscio e l’inconscio della mente umana. Esiste un Io egemone, guidato e alimentato dalla nostra memoria, che momentaneamente prevale su altri nostri stati di coscienza secondari, finché non viene anch’esso sostituito da un ulteriore nostro Io. Questa nostra coalizione di anime è fragile e influenzata dalle emozioni e dall’ambiente ed è tale delicato equilibrio a caratterizzare la nostra identità personale (Paris, 1881).

Sarà in seguito a questa teoria rivelatoria, affiancata dall’accettazione dei propri lutti, che il nostro Pereira permetterà di far prevalere il suo Io egemone, ormai da troppo tempo sopito, che lo aveva fino a quel momento fatto vivere in uno stato di torpore e di neutrale sopravvivenza. Questo risveglio gli permetterà di attuare la sua rivoluzione dell’anima e dello spirito, consentendogli di tornare a vivere agendo secondo il proprio sentire in modo consapevole e tornare ad avere, così, un posto nel mondo.

Sostiene Pereira: dà il proprio sostegno a ciò che ritiene giusto, si adopera attivamente per i propri ideali e per  la libertà del proprio paese.

 

Libertà di Scelta – Tra errori di prospettiva e questioni di metodo?

Quando si parla di libertà di scelta generalmente ci si riferisce alla possibilità di decidere in autonomia, liberi dai tentativi di forzatura e pressione provenienti dall’esterno (potere politico, economico, sanitario, ecc). Ma cosa accadrebbe se spostassimo la nostra attenzione dall’esterno all’interno, osservando i meccanismi che governano il processo decisionale?

 

Prendere una decisione significa attivare una serie di strategie e di operazioni mentali al fine di elaborare le informazioni in nostro possesso e maturare una convinzione finale a cui spesso segue un’azione o un comportamento.

Il tema della libertà di scelta è ovviamente percepito con maggiore intensità dai cittadini quando ci si trova in situazioni tensionali (come nell’attuale periodo pandemico) o in relazione a tematiche che smuovono sensibilità individuali o di categoria.

Quando si parla di libertà di scelta generalmente ci si riferisce alla possibilità di decidere in autonomia, liberi dai tentativi di forzatura e pressione provenienti dall’esterno (potere politico, economico, sanitario, ecc…) attivati al fine di condizionare le scelte individuali.

Il processo decisionale e la libertà di scelta

Ma cosa accadrebbe se spostassimo la nostra attenzione dall’esterno, capovolgendo la prospettiva, concentrandoci nell’osservazione dei meccanismi interni che governano il processo decisionale?

L’ampia letteratura scientifica disponibile sull’argomento ha illustrato come il processo decisionale umano è fortemente condizionato da meccanismi mentali automatici e molto spesso inconsci, quindi indipendenti dalla volontà del decisore. Ciò fa sì che le scelte siano prese in base a dinamiche conflittuali tra ragione ed emozione, tra logica ed istinto.

Le prime teorie relative al processo decisionale, conosciute come normative, ipotizzavano la completa razionalità del processo decisionale, tentando di individuare i principi logici a cui l’individuo avrebbe dovuto attenersi al fine di compiere una scelta libera da condizionamenti irrazionali (von Neumann e  Morgenstern, 1947).

Tale approccio si dimostrò presto inadeguato, infatti nella seconda metà degli anni cinquanta del novecento, Herbert Simon evidenzia i limiti di tale modello, nel descrivere e soprattutto nel predire il comportamento decisionale, e formula il concetto di razionalità limitata in cui sostiene che la razionalità di un individuo è soggetta a condizionamenti di diversa natura. (Herbert Simon,1955).

I seguenti studi compiuti da autori come Tversky, Slovic, Lichtenstein e Kahneman hanno strutturato un nuovo approccio chiamato descrittivo. Questo modello si pone l’obiettivo di descrivere e prevedere il processo decisionale umano individuando i fattori che lo condizionano. (Kahneman, Tversky, 1982).

Tale modello ha posto le basi per lo studio sistematico delle principali ‘scorciatoie di pensiero’ o euristiche che guidano, e spesso determinano, le decisioni degli individui.

Le euristiche sono scorciatoie mentali che utilizziamo per semplificare la soluzione di problemi cognitivi complessi. Sono regole inconsce per riformulare i problemi e trasformarli in operazioni più semplici e quasi automatiche. La valutazione euristica è difficilmente controllabile dal soggetto in quanto inconsapevole. Infatti è stato dimostrato che le euristiche possono portare a prendere decisioni sbagliate, incorrendo in bias o errori di giudizio.

Nello specifico il bias è una forma di distorsione della valutazione condizionata da concetti preesistenti non necessariamente connessi tra loro da legami logici e validi.

Tali distorsioni sono così potenti da condizionare perfino i risultati della scienza sperimentale e applicata. Nonostante l’adozione del metodo scientifico, i bias permangono e intervengono nella verifica delle ipotesi, influenzando ad esempio la registrazione dei risultati e tendono in particolare a confermare una certa previsione al di là di quella che può essere l’evidenza. Nelle pubblicazioni scientifiche si cerca di escludere queste distorsioni tramite la revisione specialistica.

Se tali condizionamenti agiscono con tale impatto perfino in ambiente scientifico, in presenza di un metodo sperimentale codificato, che effetti possono avere sulle scelte di comuni cittadini?

Per tentare di rispondere a questa domanda, elenco di seguito le condizioni più diffuse in cui la gran parte dei cittadini si trova quando prende decisioni personali o collettive (scelte di comunità).

Tali condizioni rappresentano elementi di disturbo e condizionamento attivi durante l’atto del decidere.

Quali fattori influenzano la libertà di scelta

Infodemia e sovraccarico informativo

Caratteristica del periodo contemporaneo, l’infodemia è la circolazione di una quantità enorme di informazioni che produce un disordine e una confusione tale da rendere impossibile la comprensione dei fatti.

Limiti legati all’istruzione

Il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese è la quota di popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni in possesso di almeno un titolo di studio secondario superiore. Nel 2020, il 62,9% degli italiani ha conseguito un diploma, percentuale inferiore rispetto alla media europea (79,0% nell’Ue27). La quota dei 25-64enni che hanno conseguito una Laurea in Italia è pari al 20,1% contro il 32,8% nella media Ue27 (ISTAT, 2020).

Inclinazione alla superstizione

Circa 13 milioni i cittadini italiani ogni anno si rivolgono a maghi, astrologi, cartomanti e veggenti per ricevere una consulenza per le decisioni personali in ambito sentimentale, lavorativo e di salute (CODACONS, 2017). Il 40% degli Italiani si ritiene superstizioso e crede nel malocchio o nella sfortuna, il 5% sempre, il 35% solo in alcune situazioni (SWG, 2021).

Analfabetismo funzionale

In Italia il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni manifesta livelli elevati di analfabetismo funzionale, ossia dimostra una incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Tale fenomeno impedisce o riduce la possibilità di comprendere, valutare e usare le informazioni (Piaac-Ocse, 2019).

Disturbi psicologici

Anche solo limitandosi a considerare esclusivamente le manifestazioni depressive e ansiose, in Italia, nel 2017, 2,8 milioni di persone soffrivano di depressione cronica. In quasi la metà dei casi la depressione si associa ad ansia, un disturbo che colpisce in Italia più di due milioni di persone. In totale, quasi 3,7 milioni soffrono di uno dei due fenomeni, che insieme riguardano il 7% della popolazione italiana di età superiore ai quindici anni (ISTAT, 2018).

Come accade per ogni problema complesso, anche in questo caso le conclusioni non sono quasi mai soluzioni, ma nuove domande:

  • se è vero che i condizionamenti attivi nell’atto della scelta sono così potenti e numerosi, considerando che molti dei quali fanno parte proprio dello stesso meccanismo mentale che governa il processo decisionale, cosa significa nel concreto disporre del diritto alla libertà di scelta?
  • si può parlare di diritto alla libertà di scelta se non si dispone degli strumenti e dei metodi necessari per esercitare con consapevolezza questo diritto?

 

Sento un buco nel pancino (2021) di Debora Pannozzo – Recensione del testo

In questo testo illustrato, Sento un buco nel pancinol’emozione subisce una esteriorizzazione, e da una dimensione puramente endogena viene associata a simboli di cui il bambino possiede già conoscenza.

 

L’espressione popolare ‘l’ho fatto di pancia’ viene spesso utilizzata per indicare un’azione che compiamo senza riflessione, in una modalità istintiva ed immediata. Allo stesso modo, dire lo sento di pancia sta ad indicare un vissuto emotivo che avvertiamo in maniera quasi inconsapevole, senza una spiegazione precisa o razionale.

In certi casi l’emozione si attiva prima del ragionamento, superando l’attività cognitiva e quanto la concerne. La sintomatologia somatico-neurologica ad essa correlata ne costituisce l’aspetto più immediato e percepibile, con cui siamo in grado di confrontarci sin dalle prime esperienze di vita, quando l’attività emotiva è costituita per la maggior parte da sensazioni corporee e viscerali, spesso originate all’interno della diade (Spitz, 1965; Stern, 1985).

Ma perché proprio la ‘pancia’? Il bambino protagonista di questo breve testo illustrato, singolare e prezioso nel suo genere, esprime inconsapevolmente un’intuizione pregevole, espressa con grande accessibilità espositiva. Il luogo di origine di tutte le emozioni, quegli stati d’animo incomprensibili e spesso più veloci della nostra capacità di spiegarceli, può essere identificato proprio nella pancia, intesa come nucleo delle emozioni viscerali, e per questo più intime e profonde. È lì che si avvertono le modifiche più sostanziali dell’umore, degli stati d’animo, le oscillazioni e i cambiamenti endogeni che costituiscono la risposta, più o meno adattiva, ad uno stimolo esterno.

Ma c’è di più. La pancia può essere intesa come un’efficace sineddoche con cui si indica il correlato somatico dell’emozione, di per sé imprescindibile e ben più esteso. L’emozione prende corpo nel corpo, ed è dal corpo – inteso nella sua globalità – che può essere inferita e codificata, soprattutto quando ulteriori canali di espressioni risultano non adeguatamente evoluti nelle loro funzioni essenziali. Ma anche dopo il completamento dello stato evolutivo è opportuno che l’individuo non perda mai un contatto consapevole con il proprio stato corporeo e viscerale, riconoscendo allo stesso il valore altamente comunicativo di una modifica della condizione emotiva.

Conoscere le emozioni sin dall’infanzia

Osservare rappresenta lo strumento d’elezione per accedere al mondo del bambino, di per sé inesplorabile, intimo e difficile da attraversare nei suoi multiformi contenuti.

Osservare le azioni e le condotte di un soggetto infantile serve a comprendere quanto i suoi comportamenti, lungi dal risultare fini a se stessi, siano in realtà il sostituto di una pulsione espressiva che necessita di emergere e ricevere accoglimento.

Osservando il nipote di 5 anni, l’autrice del testo deve aver pensato all’importanza fondamentale della propriocezione, al fine dell’apprendimento del complesso universo emotivo, che si palesa precocemente e con incredibile tensione pulsionale.

Posto a contatto con il proprio contesto ambientale, il bambino è mosso da una pressante pulsione esplorativa, che lo porta al desiderio di conoscere le miriadi di cose nuove che si palesano di fronte ai suoi occhi, e di cui non riusciva ad immaginare nemmeno l’esistenza.

L’altro aspetto dell’esaltante avventura conoscitiva insita nella crescita è la possibilità che il bambino si trovi letteralmente subissato da un sovraccarico di stimoli sensoriali ed emotivi che, se non elaborati, possono mostrarsi persecutori, talvolta persino traumatici. Lo scopo principale del libricino è proprio questo: dare un nome al vissuto emozionale e collocarlo nello spazio vitale in una modalità logico-simmetrica, chiara perché conosciuta. E per questo gestibile.

Maturare una capacità di regolazione emotiva significa avere una conoscenza globale ed assertiva delle proprie emozioni, al fine di modularle adattivamente in qualsiasi contesto, senza lasciarsene sopraffare, ma al contrario sfruttandone le potenzialità comunicative e relazionali, al fine di strutturare un rapporto inter e intrapersonale più solido.

V’è di più. Possedere una competenza di regolazione emotiva consente di conferire alle proprie e alle altrui emozioni un’origine e una direzione, di codificarne il significato in una modalità metainterpretativa e di modularne il flusso di attivazione in termini di frequenza e intensità, sviluppando al contempo un adeguato vocabolario semantico in grado di esprimerne il contenuto tramite la comunicazione verbale.

Si tratta di un processo graduale, difficoltoso, non privo di conflitti, cadute e passi falsi. Ed è proprio in ragione della sua complessità che deve essere appreso sin dalle prime fasi della vita, in modo da venir interiorizzato come un’esperienza evolutiva in grado di corroborare e favorire la crescita egoica.

L’importanza dell’elemento grafico e simbolico

Per raggiungere il proprio importante obiettivo il testo si avvale più che altro dello strumento grafico: in uno stadio evolutivo in cui la parola non viene padroneggiata al meglio e la capacità di simbolizzazione non si è adeguatamente sviluppata, il disegno costituisce il mezzo comunicativo d’elezione, perché semplice, immediato e dotato di un alto potenziale espressivo. Attraverso il disegno il bambino può esternare i propri stati d’animo coniugando un meccanismo espressivo con uno di valenza proiettiva, di non minore importanza. È infatti nell’espressione grafica che vengono convogliati le sensazioni e i vissuti emotivi che non hanno trovato riscontro nel linguaggio, e che il bambino percepisce come dei ‘fardelli’ spesso ingestibili proprio perché non comunicabili (Oliviero Ferraris, 1973). Ed è sempre attraverso lo strumento grafico che il bambino evacua i vissuti ansiogeni, rappresentandoli a mezzo di forme manifeste da cui può ricevere un feedback visivo del proprio mondo interiore, e familiarizzare al contempo con il concetto di simbolo. Quella cosa che sta al posto di un’altra, della quale riproduce il senso e il significato, pur vestendosi di una diversa struttura formale.

In assenza di un’adeguata capacità di simbolizzazione, accedere all’interpretazione del proprio universo emotivo, di per sé astratto e assolutamente endogeno, risulta ancor più difficile. Per supplire a questa incapacità c’è dunque bisogno di avvicinarsi alle emozioni con prudenza, affidandosi, al fine di stemperarne la portata spesso soverchiante, ai più familiari strumenti del gioco, della fantasia, dell’immaginazione, nei quali tutto trova una spiegazione, una soluzione, un adattamento, e nessun cambiamento è mai del tutto definitivo. Al contempo, per facilitare la formazione di un’adeguata capacità di rappresentazione, le emozioni devono essere associate a qualcosa di concreto e materiale, che sia in grado di sottrarle a quella percezione così vaga e sfuggente che le rende ingestibili e per tanti aspetti minacciose.

In questo testo illustrato l’emozione subisce una esteriorizzazione, e da una dimensione puramente endogena viene associata a simboli di cui il bambino possiede già conoscenza: nello specifico, le quattro emozioni principali – rabbia, tristezza, gioia e paura– vengono dall’autrice collegate ad un colore e ad un evento di vita particolare, che mostrino al bambino il significato del vissuto emotivo sperimentato in quella determinata circostanza e gliene forniscano al contempo un riscontro figurativo. Se ne origina un quadro iconico e di gradevole impatto visivo, capace di stimolare i processi cognitivi e creativi del lettore, bambino o adulto che sia.

La gioia, gialla come il sole, viene collegata ad eventi di gioco e benessere individuale legati al vissuto familiare e scolastico; la rabbia, rossa come il fuoco, si affianca a vissuti di conflitto e di scontro, a contesti in cui il bambino si sente deprivato, ferito, preso in giro; la tristezza è l’azzurro di un cielo senza sole, e alla stessa sono associati eventi latori di dolore e abbandono, come la separazione dalla mamma; la paura, raffigurata con il viola, viene abbinata alle situazioni in cui il bambino si sente da solo ad affrontare un pericolo, e necessita di figure di riferimento adulte in grado di proteggerlo.

La possibilità di raffigurarsi materialmente le emozioni e di collegarle ad eventi familiari consentirà inoltre la formazione di un processo routinario, in grado di creare degli schemi di riferimento sequenziali, script di eventi predeterminati con cui filtrare e dare un significato alle informazioni attinte dall’esterno; dunque il bambino non apprenderà soltanto le cause, ma anche le conseguenze delle emozioni, creandosi delle aspettative attendibili su ciò che si svolgerà, a livello affettivo e corporeo, in seguito al loro manifestarsi. Sarà così più facile comprendere come si sentirà ogni volta che andrà a scuola, o litigherà con un compagno, o si sentirà solo, quando sarà felice e appagato. Sono rosso perché sono arrabbiato, e allora aggiungo un po’ di giallo per esserlo di meno. Sono triste perché ho paura, vediamo cosa possa fare per colorare questa mia tristezza, e renderla meno opprimente. Quel qualcosa che cambia nel suo pancino avrà un volto e un colore, in attesa di divenire uno schema rappresentativo, simbolico ed interiorizzabile, attraverso il quale costruire una capacità regolativa che si trova alla base di ogni vissuto adattivo, inter ed intrapersonale, e che tanto beneficio apporta alla dimensione individuale e relazionale.

L’importanza di una educazione emotiva precoce

È necessario ‘mettere in ordine’ le emozioni.

La regolazione emotiva incarna un processo diacronico con il quale il bambino deve familiarizzare sin dalle prime fasi della vita, per favorire la formazione di una dimensione affettiva socializzante e flessibile. È un passaggio che non può essere evitato: l’essere umano è per natura predisposto alla condivisione e al monitoraggio affettivo (Emde, 1990), e questo è sufficiente a conferire al processo regolativo delle emozioni una spinta motivazionale innata. Insopprimibile.

Educare alle emozioni significa conoscerle a pieno, per regolarne il flusso e la direzione, e non lasciarsene dominare in maniera disadattiva. Emozioni non gestibili si rivelano spesso autentiche minacce per lo sviluppo della capacità relazionale e il compimento dell’intero processo evolutivo, perché spingono a vissuti di oppressione e minaccia. Ed è facile che, nel tentativo di trovare un sollievo a questo disagio, si scelga di orientarsi verso soluzioni dannose per il Sé e per l’altro: ad esempio quella, sin troppo frequente, volta a tramutare vissuti di debolezza e fragilità in agiti aggressivi auto o eterodiretti, condotte persecutorie, tentativi di oppressione dell’altro. Al contrario, dominare le emozioni significa favorire la formazione di sentimenti adattivi, riflessivi e mentalizzanti, emozioni prosociali volte al senso di responsabilità, autoconsapevolezza e capacità assertiva, attraverso le quali far valere i propri diritti, senza mai perdere di vista il rispetto dell’alterità.

Questo libro, scritto per i bambini, ha l’ulteriore pregio di essere scritto da un bambino. Al suo interno i più classici costrutti teorici o scientifici sono sostituiti dall’impatto con l’espressività rudimentale di un bambino di cinque anni, che si ‘immagina’ il mondo mentre comincia ad apprenderlo.

Leggerne le pagine ci trasporta tutti in una dimensione infantile troppo spesso dimenticata, e ce ne mostra, in una maniera straordinariamente semplice, quegli aspetti con i quali è bene non perdere mai un opportuno contatto.

Al termine della lettura si ha l’impressione di aver compiuto un viaggio all’interno del mondo emotivo infantile. È come se il bambino stesso, godendo assieme al genitore della lettura di queste poche pagine illustrate, staccasse un biglietto di andata per compiere un percorso nei meandri della propria dimensione affettiva, scoprendone i più intimi aspetti.

Il bottino di questa avventura esplorativa sarà il conseguimento di una maggiore conoscenza e familiarità affettiva, grazie alla quale le emozioni avranno finalmente un nome, una causa, una conseguenza, e anziché dei minacciosi mezzi di distruzione, dai quali difendersi o evitare in ogni modo possibile, diventeranno degli strumenti per raggiungere una consapevolezza del Sé individuale e relazionale finalmente piena ed assertiva.

 

Gli effetti della menzogna sui ricordi: come le funzioni esecutive possono influenzare una testimonianza

La testimonianza, nel corso della storia, ha dovuto fare i conti con diverse problematiche che hanno spinto l’uomo a ricercare metodi il più possibile scientifici e affidabili per stabilire la veridicità di una versione dei fatti.

 

Spesso si riscontrano alcune problematiche nei processi, tra le quali le menzogne intenzionali, le false confessioni e la possibilità che un resoconto testimoniale non sia veritiero, sebbene spesso riportato in buona fede. I testimoni oculari determinano quasi l’80% delle incriminazioni (Wrightsman et al., 2002), nonostante le loro ricostruzioni dei fatti siano spesso inaccurate e imprecise.

Testimonianza e menzogne

Sono stati condotti numerosi studi per capire come poter rilevare una bugia e quali fattori possano interferire con la rilevazione delle bugie: è noto infatti che mentire può influenzare la memoria di colui che ha mentito in diversi modi (Paige et al., 2020). Tali modi variano a seconda di come una persona decide di nascondere la verità o di utilizzare strategie ingannevoli. Queste ultime sono la falsa negazione (negare di aver vissuto un evento; Block et al., 2012), la finta amnesia (simulare una perdita di memoria; Pyszora et al., 2003) e, infine, la fabbricazione (creare un falso resoconto di un evento; Chrobak & Zaragoza, 2008). Ciascuna strategia ha un impatto negativo e unico sulla memoria, alcuni studi relativi alla falsa negazione, per esempio, affermano che questa strategia può portare a dimenticare di aver negato dettagli dell’evento, tale dimenticanza è nota come dimenticanza indotta dalla negazione (DIF; Otgaar et al., 2014). Per quanto riguarda gli effetti sulla memoria della finta amnesia, gli studi hanno dimostrato una compromissione del ricordo degli eventi (Bylin, 2002). Il deterioramento della memoria causato dalla fabbricazione, invece, può consolidare la memoria per dettagli auto-generati provocando una perdita per i dettagli dell’evento reale (Chrobak & Zaragoza, 2008). Molti studi hanno dimostrato che la fabbricazione rende le persone più propense a riconoscere le proprie fabbricazioni come dettagli reali dell’evento: i fabbricanti sono quindi più inclini a riferire errori di commissione (cioè distorsioni o dettagli mai visti) quando decidono di rivelare la verità.

Dal momento che l’atto del mentire richiede un carico cognitivo maggiore rispetto al dire la verità, Otgaar e Baker nel 2018 con il loro modello Memory and Deception (MAD) hanno sostenuto che gli effetti delle varie strategie sono legati alla quantità di risorse cognitive impegnate durante la bugia (Battista et al., 2021). In particolare, gli autori hanno ipotizzato che una possibile causa dei diversi effetti sulla memoria è la quantità di risorse cognitive implicate durante la bugia. Le tre strategie differiscono l’una dall’altra per il grado di risorse richieste, dove le false negazioni richiedono la minore quantità di risorse e la fabbricazione la maggiore. Il modello MAD tuttavia non tiene in considerazione che chi inganna, al di là della strategia adottata, possa utilizzare più risorse cognitive di chi dice la verità, poiché deve rendere l’evento plausibile e coerente; questo rende ragionevole credere che, oltre ai diversi sforzi cognitivi richiesti dai diversi tipi di menzogna, le differenze individuali nelle risorse cognitive siano da considerare per predire gli effetti della menzogna sulla memoria.

Testimonianza e funzioni esecutive

Alcuni studi recenti hanno dimostrato che le persone con una bassa disponibilità di risorse delle Funzioni Esecutive (EF) hanno una maggiore compromissione (cioè, dimenticanze ed errori di memoria) del ricordo dell’evento rispetto a coloro che hanno un’alta disponibilità di risorse delle funzioni esecutive. Queste ultime sono un insieme di funzioni cognitive responsabili della modulazione di diversi sottoprocessi cognitivi e della realizzazione di compiti esecutivi complessi (Carretti et al., 2010). Le principali sono lo shifting che si riferisce alla capacità dell’individuo di muoversi avanti e indietro tra diverse operazioni o compiti; l’inibizione delle risposte: la capacità di sopprimere volontariamente le risposte dominanti, automatiche e prepotenti e l’aggiornamento, che riguarda la capacità degli individui di individuare le informazioni rilevanti per svolgere un compito tra le diverse informazioni in arrivo.

Nel 2021 Battista e colleghi hanno condotto uno studio per verificare se l’impatto di due strategie ingannevoli (false negazioni e fabbricazione) dipendesse dalle risorse cognitive degli individui in termini di funzioni esecutive (shifting, inibizione e aggiornamento). Un campione di 147 partecipanti ha guardato un video di una rapina e poi è stato istruito a produrre dettagli falsi (condizione di fabbricazione), negare (condizione di falsa negazione) o dire la verità (condizione di verità) ad alcune domande sul crimine. Due giorni dopo, tutti i partecipanti hanno preso parte ad un test di memoria finale in cui hanno espresso il loro ricordo di aver distorto i dettagli (cioè, fabbricato, negato, o detto la verità) e la loro memoria per il video. Infine, sono state valutate le loro risorse delle funzioni esecutive. I risultati mostrano che le differenze individuali nelle funzioni esecutive giocano un ruolo nel modo in cui l’evento è stato ricordato e sugli effetti della menzogna sulla memoria. Il ricordo dell’evento, dopo aver mentito, dipendeva soprattutto dalle risorse di shifting degli individui. Inoltre, le due strategie ingannevoli hanno influenzato in modo diverso la memoria degli individui per l’intervista e per l’evento: negare ha influenzato la memoria per l’intervista mentre fabbricare ha influenzato la memoria per l’evento. I risultati ottenuti hanno lo scopo di informare i professionisti legali della possibilità di valutare le funzioni esecutive degli individui come indicatore della credibilità dei testimoni (Battista et al., 2021).

 

La coperta di Linus: l’oggetto transizionale di Winnicott

Nel cinquantunesimo anniversario della morte di Donald Woods Winnicott, mi piace ricordarlo con alcune strisce sulla copertina di Linus, una delle rappresentazioni più popolari, tenere e divertenti dell’oggetto transizionale.

 

Donald Winnicott era un pediatra e uno psicoanalista; nel corso della sua esperienza clinica, ha osservato il rapporto tra madre e bambino nelle fasi più precoci della vita, ha riflettuto e scritto moltissimo sul nesso di tale relazione con lo sviluppo emotivo.

Ha studiato approfonditamente il ruolo svolto dall’ambiente primario nel favorire la crescita psicologica; secondo lui, un ambiente adeguato introduce la realtà a piccole dosi, accompagnando l’evoluzione mentale del lattante, infante e poi fanciullo.

Nel corso dello sviluppo emotivo, grazie a esperienze progressive di avvicinamento alla realtà mediate dal caregiver (la principale figura di riferimento), il bambino piccolo passa dalla convinzione di essere onnipotente – in cui non esiste distinzione tra il sé e ciò che è altro da sé – a un contatto corretto con il reale, basato sulla distinzione tra la propria realtà interna e la realtà esterna.

L’oggetto transizionale

L’oggetto transizionale, come ci racconta la parola stessa, si situa a metà strada in questo cammino evolutivo, nell’area dell’illusione, della creatività, del gioco e della fantasia, intermedia tra la convinzione di onnipotenza e un’adeguata percezione della realtà (o, se si preferisce, in termini tecnici, un corretto esame di realtà). L’oggetto transizionale è un oggetto scelto dal bambino, di solito con delle qualità tattili, già riconosciuto come altro da sé ma investito affettivamente e simbolicamente rappresentativo della relazione, con il quale si crea un legame speciale.

Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 10

Secondo Donald Winnicott, l’oggetto transizionale si colloca in un’area al limite tra la realtà interna e quella esterna; aiuta il bambino a vivere i momenti di passaggio (ad es. dalla veglia al sonno e viceversa), ad affrontare le separazioni e le frustrazioni.

La copertina di Linus come oggetto transizionale

Linus spiega bene la funzione dell’oggetto transizionale parlando del potere della sua copertina al caro amico Charlie Brown e alla scorbutica sorella maggiore, Lucy.

Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 2

Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 3

L’amata copertina non svolge solo una funzione consolatoria per Linus, ma anche rassicurante e di rinforzo.

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La bisbetica Lucy considera quasi una missione aiutare il fratello minore ad abbandonare la sua coperta…

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Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 6

Ma Linus non ha alcun dubbio, lo farà con i suoi tempi.

Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 8Esperienze di vita vissuta: l’oggetto transizionale di mio figlio

Quella che si vede come immagine dell’articolo è una copertina un po’ meno famosa, quella di mio figlio. La scelta di quella coperta è stata totalmente autonoma da parte sua; per motivi misteriosi, ne ha scartate altre, così come pupazzetti o doudou proposti allo scopo, scegliendo questa copertina che ha ‘servito’ già almeno due famiglie. Per lui è un oggetto significativo, che custodisce con cura e sistema in certi luoghi della casa, che porterebbe con sé ovunque; la sua necessità ci ha costretto a vere acrobazie e pianificazioni per poterla lavare, ma ha prodotto anche inesprimibili emozioni quando ha visto un genitore ammalato o giù di morale e gliel’ha offerta per potersi consolare.

Oggetto transizionale di Winnicott la funzione della coperta di Linus 9

Nel corso della crescita, ha in parte perso la sua importanza; sono passati i tempi in cui, come Linus, la fissava mentre girava dentro la lavatrice. Ora può separarsene, ad esempio per andare a scuola, sebbene abbia espresso che lì ne sente la mancanza. Al momento di addormentarsi resta un attrezzo fondamentale, viene usata come cuscino, ma anche come modo per rilassarsi o consolarsi quando c’è un malessere fisico o emotivo tenendola a contatto con la pelle.

 

L’iperdotazione cognitiva a scuola: come si presentano i bambini gifted in classe?

Secondo Betss e Neihart (1988), esistono 6 diversi profili di studenti o bambini gifted: di successo, creativo, sotterraneo, a rischio, autonomo e twice-exceptional.

 

Parlare di iperdotazione cognitiva a scuola significa fare riferimento ai bambini gifted, ‘Studenti che manifestano o hanno il potenziale per mostrare delle abilità superiori alle aspettative, anche di due/tre anni o più, rispetto ai loro pari, in un determinato momento e in aree circoscritte, considerate di rilievo nella propria cultura di appartenenza’ (Rigon et al., 2017, 46).

Le abilità dell’iperdotazione cognitiva e dei bambini gifted

Quali sono queste abilità?

  • Abilità intellettive generali
  • Abilità accademiche specifiche
  • Abilità sociali
  • Pensiero divergente
  • Talento artistico

I livelli di giftedness

Secondo Betss e Neihart (1988), esistono 6 diversi profili di giftedness, di seguito descritti.

1. Lo studente di successo

  • Bambino adattato al contesto scolastico;
  • Ottiene buoni risultati senza impegnarsi eccessivamente;
  • Manifesta un perfezionismo ‘sano’.

2. Lo studente creativo

  • Bambino poco adattato al sistema scolastico perché non lo considera vantaggioso per lui;
  • In classe si annoia, percepisce le lezioni come ‘poco sfidanti’;

3. Lo studente sotterraneo

  • Marcato disagio a scuola;
  • Nasconde il proprio potenziale;
  • Difficoltà ad instaurare relazioni con gli altri;
  • Prevale nelle femmine.

4. Lo studente a rischio

  • Condotte prosociali: dispersione scolastica e rischio di drop-out.
  • Condotte antisociali: bullismo, devianza, abuso di sostanze, etc.

5. Lo studente autonomo

  • Sicuro di sé, motivato, entusiasta;
  • Buone capacità di instaurare relazioni con i pari e con gli insegnanti;
  • A volte basso rendimento scolastico.

6. Lo studente doppiamente eccezionale o twice-exceptional children

  • Presenta capacità cognitive elevate in associazione a disturbi che ne limitano l’espressione quali DSA, ADHD, DOP, Disturbi dell’Umore (Kalbfleisch, 2013).

In questo caso si viene a creare un effetto mascheramento in cui le loro abilità elevate e le loro difficoltà si mascherano a vicenda, rendendo difficile sia l’identificazione, sia la messa in atto di interventi adeguati. (Webb, Amend, Webb, Goerss, Beljan, e Olenchak, 2005)

Il profilo cognitivo ‘tipico’ di un bambino doppiamente eccezionale, rilevato mediante il test di intelligenza WISC- IV Wechsler Intelligence Scale for Children (6 – 16 anni), è costituto da:

  • Punteggi più elevati nell’IAG: Indice di Comprensione Verbale e Indice di Ragionamento Visuo-Percettivo. Soprattutto nei subtest Vocabolario e Informazione.
  • Punteggi più bassi nell’ICC: Indice di Memoria di Lavoro e Indice di Velocità di Elaborazione. Soprattutto nei subtest Ricerca di Simboli e Cifrario.

Tali punteggi dimostrano come i bambini gifted manifestino elevate capacità verbali e non verbali, e nel ragionamento più astratto e articolato; e come preferiscano eseguire un compito nel modo più corretto possibile, piuttosto che eseguirlo velocemente.

Il confronto tra QI e IAG, e tra IAG e ICC consente di riconoscere gli studenti ‘doppiamente eccezionali’ (Rimm et al., 2008; Silverman, 2003, 2009; Weiss et al., 2006).

Le strategie didattiche con bambini gifted

Le strategie che la scuola dovrebbe utilizzare si basano sulla compattazione e personalizzazione della didattica (Baum, 2004):

  • Gli insegnanti non devono seguire la programmazione della classe ma approfondire, incrementare il grado di complessità dei contenuti curriculari rendendoli più sfidanti.
  • Adottare un approccio alla didattica esperienziale, operare su un livello più astratto e articolato.
  • Dare l’opportunità al gifted di esprimere pubblicamente il proprio potenziale, le sue ‘scoperte’ e conoscenze.
  • Spaziare la didattica in contesti diversi, confrontarsi con altri gifted o con persone molto formate sui loro campi di interesse.
  • Differenziare le valutazioni dal resto della classe (Winebrenner, 2012).

 

Medicina narrativa: la scoperta del senso della malattia come strada per la salute

La medicina narrativa aiuta i professionisti a sviluppare il “senso della storia” del paziente, dei sintomi e dei segni clinici, intendendo dunque l’intera pratica medica come una sorta di “story-telling”

 

Che cos’è la malattia e cosa significa curare? Queste sono due tra le domande che maggiormente impegnano psicologi e medici, ciascuno nel proprio settore. Di fatto, la scelta di una professione di aiuto come quella dei sanitari richiede una quotidiana ed intima riflessione sul senso del proprio lavoro, da cui trae nutrimento la pratica clinica stessa.

Spesso, per chi sta affrontando una patologia o è costretto a conviverci per tutta la vita, non è sufficiente lo scambio di informazioni puramente biologiche con il medico che lo ha in carico. Ricevere informazioni esclusivamente sul proprio stato “organico” attraverso una comunicazione emotivamente sterile può costituire una fonte di disagio per il paziente. La necessità di oltrepassare questa problematica comunicativa ha dato vita alla cosiddetta medicina narrativa. Tale paradigma si focalizza anzitutto sull’esperienza della malattia e sulla rappresentazione mentale che il paziente ha della stessa, pur non perdendo mai di vista l’aspetto scientifico-biologico (Spinozzi & Hurwitz, 2011). Già nel 1933 Sir Farquhar Buzzard sosteneva che “la differenza più importante tra un buon clinico ed uno indifferente sta nella quantità di attenzione investita sulla storia del paziente”.

Nascita e principi fondamentali della medicina narrativa

La medicina narrativa è una branca della scienza che affonda le proprie radici in una concezione indissolubilmente integrata non solo di mente e corpo, comprendendo anche le relazioni interpersonali ed i rapporti con i contesti e le istituzioni. Può essere definita come una medicina che aiuta i professionisti a sviluppare il “senso della storia” del paziente, dei sintomi e dei segni clinici, intendendo dunque l’intera pratica medica come una sorta di “story-telling” (Charon & Hermann, 2012; Shapiro, 2012). Volendo semplificare in modo riassuntivo gli elementi fondamentali della medicina narrativa, appaiono indispensabili (Shapiro, 2012):

  • l’attenzione del medico nei confronti del paziente;
  • la modalità attraverso cui il paziente viene rappresentato da parte del medico ai colleghi, parenti ed all’interessato stesso;
  • il coinvolgimento rispetto alla sofferenza ed alla prospettiva del paziente.

L’intento principale è quello, da parte del medico e del paziente, di co-costruire il senso della malattia attraverso un’attribuzione di significato all’esperienza che si sta vivendo. Si assiste dunque ad un abbandono della prospettiva unidirezionale della cura e, al contrario, viene attribuita una forte valenza all’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente, finalizzata ad una migliore comprensione del disagio vissuto. Non solo, l’ermeneutica della patologia conferisce una maggiore possibilità al paziente di scegliere tra le cure disponibili, offrendogli la possibilità di effettuare decisioni ponderate e maggiormente partecipate.

Medicina narrativa e concezione di malattia

Sarebbe anacronistico oggi concepire la malattia solo come patologia fisica; essa va piuttosto intesa come malattia della persona che, con le proprie emozioni, attribuzioni di senso, associazioni, simbolizzazioni, connota di significato l’esperienza stessa di patologia (Lanzetti et al., 2008). Se questo tema interessa chiunque viva uno stato (anche transitorio) di malessere, assume un rilievo ancora maggiore per chi soffre di una patologia cronica ed è chiamato a riformulare l’intera esistenza alla luce di una diagnosi.

In pazienti con patologia renale, ad esempio, è stato osservato come questo approccio, che richiede la sinergia di contributi multidisciplinari provenienti dalla psicologia, sociologia, antropologia, pone l’accento sul vissuto soggettivo della persona consentendo una personalizzazione delle cure. Tale opportunità include quindi non solo parametri organici ma anche la rappresentazione mentale che il paziente ha della malattia, del decorso e della prognosi, aumentando la compliance alla terapia e la partecipazione (Mettifogo et al.,2017).

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato l’utilizzo della medicina narrativa per migliorare il servizio di sanità e la qualità delle cure prestate ai pazienti (Shapiro, 2012). Ancora una volta la sinergia tra i diversi professionisti della salute si configura come il metodo vincente per un approccio olistico e biopsicosociale ed il più efficiente nell’aiutare il paziente, non solo attraverso un contenimento emotivo, ma sostenendolo nell’attribuzione di senso al dolore che è costretto a vivere.

 

L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti (2021) di Matteo Lancini – Recensione del libro

Il testo L’età tradita di Lancini è un libro onesto e sincero, di chi ha maturato con gli adolescenti una solida esperienza clinica.

 

È anche però uno scritto umano, che trasmette contenuti tecnici in modo chiaro e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, ai quali in fondo si rivolge.

Nato in piena pandemia, il testo si apre con una sorta di “mea culpa” generazionale, una lettera che l’autore pubblica a Marzo 2020, sentendo l’esigenza di scusarsi con gli adolescenti e di “ridistribuire le responsabilità”.

Durante i mesi faticosi e incerti che hanno visto tutti coinvolti in sforzi umani e organizzativi per fronteggiare qualcosa di inaspettato, è fuor di dubbio che la società abbia puntato il dito in particolar modo contro gli adolescenti.

Accusati di essere irresponsabili, menefreghisti, addirittura contenti di poter saltare mesi di scuola, molti adulti non si sono resi conto di quanto fossero contraddittorie queste affermazioni.

Il libro parte da una puntuale e sincera analisi di cosa sia accaduto a livello psicodinamico in pandemia nella mente di adulti, adolescenti e istituzioni, ma si apre ad una riflessione che va al di là del momento peculiare.

Le scuse in apertura sembrano doverose e necessarie per sottolineare la fragilità non solo delle istituzioni, ma anche dei singoli adulti, che non sono sembrati capaci di sostenere l’adolescenza e, anzi, l’hanno utilizzata come “fonte di ogni male”, trincerandosi dietro i luoghi comuni che spesso etichettano gli adolescenti di oggi come irresponsabili, egoisti e poco empatici.

Il libro di Lancini si pone come una sincera disamina di questi luoghi comuni e aiuta a comprendere perché e come non siano più “attuali”.

Da diverso tempo, infatti, l’etichetta di adolescente ribelle ha perso significato e veridicità. Il crollo dei tre grandi garanti sociali (Stato, Famiglia, Chiesa), ha reso pressoché inesistente lo scontro generazionale, che ad oggi si gioca su un terreno e all’interno di un clima emotivo ben diverso da quello delle epoche precedenti.

Ogni adolescente, infatti, indipendentemente dal periodo storico che vive, è chiamato ad autonomizzarsi, ad affrontare cambiamenti corporei e mentali, a inserirsi in una società che ha richieste e modalità di espressione peculiari, incontrando dunque difficoltà specifiche.

Il mondo extradomestico viene vissuto da genitori ed educatori come particolarmente minaccioso; si fa sempre più fatica a tollerare le ferite del corpo (e dell’anima) dei propri figli, spingendoli quindi a cercare nuove piazze di confronto.

Dal parchetto, dove ci si sbucciava le ginocchia, alle piattaforme virtuali, per poter sperimentare se stessi al di fuori del controllo di adulti troppo angosciati per poter accettare che crescere (invecchiare!) possa significare anche lasciar andare (e sbagliare, talvolta) i propri figli.

E’ molto interessante la riflessione trasversale di Lancini, sulla difficoltà della generazione adulta attuale a riconoscere la trave nel proprio occhio, ma pronta ad additare la pagliuzza in quella altrui.

Altrettanto meritevole di attenzione quella sul significato perso dell’Altro. Riprendendo una riflessione di Luigi Zoja (“La morte del prossimo”), l’autore sottolinea come la società odierna sia una società concentrata sull’uso dell’altro come pubblico, strumento utilizzato esclusivamente per controaltare, mai come oggetto relazionale. Si è perso l’interesse dell’Altro come vicino a noi, ma si è acuito l’interesse dell’altro come pubblico.

Questo porta necessariamente l’adolescente a confrontarsi/scontrarsi in una società della performance, del risultato, dell’apparenza, nella quale si deve essere visti, altrimenti si rischia di morire (metaforicamente e letteralmente).

Tutto questo, abbinato ad una cultura della pornografia, intesa non tanto come sessualizzazione, ma quanto esagerato esibizionismo di qualunque aspetto della vita (dal sentimento del dolore, che viene spettacolarizzato, alla violenza, al mero mostrare tutto senza un criterio e/o una protezione) che ha necessariamente un impatto sui nostri adolescenti e sul loro modo di reagire.

Gli adolescenti di oggi sono esattamente come abbiamo chiesto loro di essere. Sono cresciuti in famiglie attente alle esigenze dei propri bambini, sicuramente meno rigide e anche più attente ad una autonomizzazione e ad un potenziamento delle risorse. Di contro, si trovano a dover affrontare adulti fragili, a loro volta narcisisti e incapaci di tollerare il dolore altrui.

Non sempre e non tutti, ovviamente.

Il testo non è un’accusa alla generazione adulta o alle istituzioni, bensì un sincero invito a comprendere o quantomeno osservare il reale funzionamento degli adolescenti di oggi, con lo scopo di potersi interfacciare efficacemente con loro, pandemia o meno che sia.

Stile di pensiero e credenze paranormali: che ruolo hanno i bias cognitivi?

Da alcune indagini è emerso che nelle società occidentali contemporanee è piuttosto diffuso credere all’esistenza di fenomeni paranormali (Moore, 2005; Newport & Strausberg, 2001).

 

I ricercatori hanno proposto che la credenza al paranormale, scevra da un disturbo clinico specifico, rappresenta un deficit nell’esame di realtà, ovvero nella capacità di differenziare il sé dal non-sé, gli stimoli intrapsichici da quelli esterni e valutare il proprio comportamento e contenuto di pensiero in relazione ai dettami sociali condivisi (Kernberg, 1996).

Fenomeni paranormali e bias cognitivi

Gli individui propensi a credere ai fenomeni paranormali sono suscettibili anche a specifici tipi di bias cognitivi (Irwin et al., 2012). Questi sono, ad esempio, la catastrofizzazione, il ragionamento emotivo e il pensiero dicotomico. La catastrofizzazione consiste nel prevedere negativamente il futuro escludendo a priori altri esiti possibili. Il ragionamento emotivo indica utilizzare il proprio stato affettivo quale informazione saliente per esprimere valutazioni e giudizi sul mondo, optando dunque per inferenze che sono emotivamente attraenti piuttosto che logicamente derivate. Il pensiero dicotomico denota la tendenza a ragionare in “bianco o nero”, precisamente a considerare le cose in termini di categorie mutualmente escludentesi senza gradi intermedi.

Ognuno di questi bias è correlato positivamente con l’intensità delle credenze paranormali. Tuttavia, non è chiaro perché in alcuni individui si formino questo genere di credenze e in altri no. Un fattore che potenzialmente potrebbe fungere da ponte è la credenza nella scienza, che si riferisce generalmente al grado in cui gli individui la accettano come fonte affidabile e oggettiva di conoscenza del mondo. È stato infatti evidenziato che chi crede al paranormale riconosce i valori della scienza in modo meno forte rispetto ai più scettici (Irwin et al., 2014).

Fenomeni paranormali e stile di pensiero

Lo studio di Williams et al. (2021) ha indagato il grado in cui lo stile di pensiero, indicizzato dalla propensione ai deficit nell’esame di realtà e dalla credenza nella scienza, ha influenzato la tendenza ai bias cognitivi e la credenza al paranormale.

In questo studio sono stati coinvolti 496 partecipanti (202 uomini e 294 donne) di età compresa fra i 18 ed i 69 anni.

La maggior parte del campione è stata reclutata presso la Manchester Metropolitan University (MMU) e la comunità circostante, tramite l’invio di bandi di partecipazione, email o appelli in luoghi di svago.

Per quanto riguarda i materiali, sono state utilizzate 4 scale diverse, per raccogliere informazioni su pensiero paranormale, fiducia nella scienza, bias cognitivi legati a tendenze psicotiche ed esame della realtà.

Per misurare le credenze paranormali è stata utilizzata la Revised Paranormal Belief Scale (RPBS) (Tobacyk, 1988, 2004; Tobacyk & Milford, 1983), un questionario composto da 26 items che valutano sette categorie di pensieri astratti: spiritualismo, Psi (capacità di ricevere informazioni extrasensoriali), credenze religiose tradizionali, stregoneria, preveggenza, superstizione e forme extraterrestri. Un esempio di quesito presente nell’RPBS è “rompere uno specchio porta sfortuna” a cui i partecipanti devono attribuire un punteggio da 0 a 6 (0=fortemente in disaccordo; 6=fortemente d’accordo).

Per quanto riguarda la fiducia nella scienza, ai partecipanti è stata somministrata la Belief in Science Scale (BISS) (Farias et al., 2013), un questionario composto da 10 items con affermazioni riguardo ai meriti che si possono attribuire alla scienza (es. “Possiamo credere razionalmente in ciò che è scientificamente dimostrabile”) a cui viene chiesto di attribuire un punteggio da 1 a 6.

Per misurare i bias cognitivi attribuibili a psicosi è stata utilizzata la Cognitive Biases Questionnaire for Psychosis (CBQp) (Peters et al., 2010), un questionario a 30 items che valutano 5 tendenze di pensiero: catastrofizzazione, intenzionalità degli eventi (es.“destino”), pensiero dicotomico (polarizzazione del pensiero), tendenza a saltare a conclusioni affrettate e ragionamento emotivo (es.“me la sento”).

Infine, per valutare il rapporto dei partecipanti con la realtà, è stata somministrata la Inventory of Personality Organization (IPO-RT) (Lenzenweger et al., 2001), un questionario che valuta la capacità di distinguere ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo, ciò che è intrapsichico dagli stimoli esterni e l’aderenza ai criteri sociali della realtà (Kernberg, 1996).

Credenze associate ai fenomeni paranormali

Dai risultati è emersa una correlazione positiva tra la credenza al paranormale e la presenza di deficit nei test di realtà (IPO-RT) e una correlazione negativa con la credenza nella scienza (BISS). Nel complesso, tali dati supportano l’idea che la propensione ai deficit nell’esame di realtà (IPQ-RT) e la scala di credenze nella scienza (BISS) valutano diverse preferenze di elaborazione che possono corrispondere ad una maggiore inclinazione verso elementi personali intrapsichici o informazioni esterne basate sui fatti. Come attestano ricerche precedenti, livelli più elevati di fede nella scienza riflettono una preferenza per il pensiero analitico-razionale (Farias et al., 2013).

Per indagare fino a che punto il pensiero analitico influenzi l’approvazione di altre convinzioni scientificamente infondate i ricercatori hanno utilizzato misure indirette, ed è emerso che i pregiudizi cognitivi in merito al ragionamento emotivo e alla catastrofizzazione influenzano il livello di credenza nel paranormale. Questo può essere spiegato dal fatto che quest’ultime provocano fascino a livello emotivo, mentre la convinzione nelle credenze diminuisce quando vengono valutate razionalmente (Irwin et al., 2012). Inoltre, dobbiamo tenere a mente che la catastrofizzazione viene definita come l’inclinazione irrealistica a pensare scenari dall’esito peggiore, e ciò potrebbe essere legato ad una risposta emotiva negativa derivante da una mancanza di autoefficacia e un locus of control esterno. Ciò si estende alla percezione dei possibili risultati come insopportabili per chi li esperisce e non semplicemente come poco piacevoli (Irwin et al., 2012).

In linea teorica, i contributi del ragionamento emotivo e catastrofico nella credenza al paranormale sono coerenti con il modello cognitivo della psicosi, il quale postula l’esistenza di forti legami tra i deficit nei test di realtà, le emozioni e le convinzioni deliranti (Ishikawa et al., 2017). A tal proposito, la definizione dei deliri dell’American Psychiatric Association (2013) si estende bene alla credenza paranormale, la quale è guidata da stati emotivi interni (Garety & Hemsley, 1997), errata interpretazione di esperienze anomale (Garety & Hemsley, 1997) e prove inadeguate (Coltheart et al., 2011). Per quanto concerne lo stile di pensiero “saltare alle conclusioni” (JTC), esso è probabilmente mediato da altre variabili come la paranoia (Irwin et al., 2014; Prike et al., 2018). Questa conclusione è coerente con ricerche precedenti, le quali suggeriscono che la credenza nelle teorie della cospirazione, come nel paranormale, è associata agli stessi processi cognitivi dell’ideazione o del delirio paranoide (Pytlik et al., 2020).

 

L’immaginazione come cura. Le risposte delle Neuroscienze e della Psicoanalisi

No, non si parlerà di come curare il famoso personaggio di Molière, e neppure di un qualche pharmacos per ipocondriaci: affronteremo invece una facoltà dell’essere umano, l’immaginazione e come questa possa essere strumento per ridurre, alleviare o eliminare un disagio o una sofferenza.

 

Che cos’è l’immaginazione

Innanzitutto, cosa intendiamo per immaginazione? Fra le molteplici definizioni che sono state date adotteremo quella di Marjorie Taylor: “L’immaginazione è la capacità di trascendere mentalmente il tempo, il luogo e/o le circostanze per pensare a ciò che potrebbe essere stato, pianificare e anticipare il futuro, creare mondi immaginari e considerare alternative remote e/o vicine alle esperienze reali” (Taylor, 2013, pag. 791).

Secondo questa definizione quindi l’immaginazione è una particolare e parziale facoltà di quello che molti autori chiamano il pensiero produttivo; ma la caratteristica che può essere evidenziata dalla definizione della Taylor e che qui vorrei sottolineare è che l’immaginazione è un’attività del pensiero che produce scenari distanti o comunque diversi e separati dal qui e ora, dall’hic et nunc di ciò che esperisce chi immagina.

Dobbiamo poi considerare che, quando immaginiamo qualcosa che non abbiamo mai visto o sperimentato, il processo che mettiamo in atto è quello di partire da immagini già presenti nella nostra memoria (la nostra conoscenza esperienziale del mondo) e le rielaboriamo fino a creare nuove idee. In altre parole, consideriamo qualcosa di già visto/esperito e lo dotiamo di attributi inediti.

L’immaginazione è quindi una capacità o competenza dalle molte sfaccettature e presente in differenti stati di coscienza, con i suoi correlati neurali ancora, inutile dirlo, non del tutto studiati.

Quando immaginiamo? I tre stati di coscienza

Stato perfettamente cosciente

Ci può capitare di immaginare, quando ci è richiesto da altri o da noi stessi davanti a una particolare esperienza, di valutare determinati dati presenti considerando le varie ipotesi di evoluzioni future. In questi casi ci si focalizza sul compito (focus), la concentrazione è massima, così come la lucidità necessaria al compito (task). Potremmo quindi considerarla un’attività immaginativa determinata da un’attenzione sostenuta in risposta a uno stimolo. Si è quindi in una condizione di completa coscienza e vigilanza.

Stato di coscienza attenuata

A molti di noi sarà capitato di rimanere immersi nei pensieri, quasi assorti, mentre si sta studiando oppure lavorando. In quei momenti può accadere che la nostra mente “vaghi lontana” dalla contingenza della pagina appena letta o dal calcolo appena eseguito. Questo fenomeno è generalmente definito dagli studiosi mind wandering, generalmente tradotto con vagabondaggio mentale, definito come un pensiero spontaneo che sposta l’attenzione da un compito in corso al flusso mentale interiore (Smallwood, Schooler, 2015). Questi stessi autori riconoscono che tale flusso di pensieri occupa spesso una parte considerevole del tempo di veglia tra le persone ovunque impegnate in pensieri non correlati al qui e ora; e l’esplorazione del vagabondaggio mentale è oggetto di una vasta letteratura scientifica (Song and Wang 2012; Kane et al. 2007; Killingsworth and Gilbert, 2010)

Oltre il mind wandering alcuni studiosi considerano e distinguono altre attività di pensiero spontaneo durante lo stato di veglia a mano a mano che da questo si passi a uno stato di semi-coscienza e poi di incoscienza proprio dello stato di sonno che per brevità qui si trascurano.

Stato di incoscienza

Esiste poi l’attività immaginativa propria dei sogni, oggetto di numerosi studi fin dall’antichità e della quale si è parlato anche in un articolo precedentemente pubblicato su State of Mind (Mariano, 2021) e che quindi non verrà affrontato in questa sede. Mi limito solamente a segnalare che anche all’interno dell’attività onirica la letteratura scientifica ha operato varie differenziazioni di produzioni immaginative, valga per tutti il cosiddetto sogno lucido. Esso è uno stato peculiare di attività onirica che si verifica principalmente durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) in cui gli individui sono consapevoli di stare sognando e possono persino parzialmente controllare il contenuto onirico, pur rimanendo addormentati (Baird et al., 2019) e riflettere su di esso. Per approfondire l’argomento si consiglia il lavoro di Mota-Rolim et al., 2021, oppure, per i correlati neuroanatomici/neurofunzionali, quello di Baird et al. 2018.

L’immaginazione sulla quale mi vorrei soffermare è quella del mind wandering, quella forse maggiormente studiata con strumenti di neuro-imaging fino ad oggi. Come si è detto, essa si verifica o è prodotta in uno stato di coscienza attenuata; su di essa si ha un minimo/nullo controllo, ma al tempo stesso viene ricordato agevolmente da chi la esperisce, può essere oggetto di riflessione e/o essere esplicitata ad altri.

Dove nasce il mind wandering?

I primi studi sul mind wandering risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, brevi episodi di ”pensieri alla deriva” durante stati di veglia attenuata furono inavvertitamente scoperti da Foulkes e Scott (1973) durante sessioni di allenamento che avevano lo scopo di preparare i partecipanti di uno studio sperimentale a concentrarsi sui loro pensieri più recenti durante i risvegli del sonno. In uno studio di laboratorio i soggetti erano sdraiati in una stanza leggermente illuminata, con la loro veglia monitorata dalle registrazioni EEG ed EMG: il 24% dei pensieri campionati, riportati da 16 studentesse universitarie, furono descritti come visivi e drammatici e vissuti come sogni. In un successivo studio con 10 uomini e 10 donne, il cui compito era quello di segnalare i loro pensieri in 12 momenti casuali all’interno di sessioni di 45-60 minuti, Foulkes e Fleisher (1975) trovarono un 19% di episodi con esperienze assimilabili al sogno, un altro 20% di attività si potrebbe chiamare vagabondaggio mentale (dove il soggetto non controlla i suoi pensieri, ma è consapevole di essere nel laboratorio) e il restante 22% di produzione conteneva ciò che si potrebbe chiamare “perduto nel pensiero” (il soggetto può o meno riflettere sui  suoi  pensieri, ma non sa di essere in  laboratorio) (Foulkes  &  Fleisher, 1975,  p. 69 cit. in Domhoff & Fox 2015, pag. 345). Durante questi studi non sono stati registrati casi di sonno auto-descritto o oggettivo (Foulkes & Fleisher, 1975).

Il Default Mode Network (DMN)

L’evidenza del neuroimaging ha suggerito che il vagabondaggio mentale è associato all’attività della rete in modalità predefinita (Default Mode Network – DMN) (Addis et al. 2009; Andrews-Hanna et al., 2010; Christoff et al., 2009; Mason et al., 2007; Kucyi 2016). In particolare, Mason e colleghi hanno osservato che è il segnale dipendente dal livello di ossigeno nel sangue (BOLD) del DMN che può predire positivamente la frequenza dei sogni ad occhi aperti degli individui (Mason et al., 2007). Viceversa studi che utilizzano campioni di neuroimaging continuo hanno confermato che il DMN viene attivato durante il mind-wandering (Zhou & Lei 2018).

La scoperta del DMN è stata una conseguenza inaspettata degli studi di imaging cerebrale eseguiti da Raichle e collaboratori (2001) per la prima volta con la tomografia a emissione di positroni in cui vari compiti nuovi, che richiedono attenzione e non autoreferenziali, sono stati confrontati con un riposo tranquillo con gli occhi chiusi o con la semplice fissazione visiva (Raichle 2015).

Il DMN viene definito in letteratura una rete neurale estremamente ampia, formata da varie regioni cerebrali distinte tra loro, che sincronizzano la loro attività quando il soggetto si trova vigile, con gli occhi chiusi e non attivamente coinvolto in compiti specifici (Andrews-Hanna, et al. 2014; Fox et al. 2015).

Oltre che peculiare del mind wandering, va precisato che il DMN è risultato essere attivo anche in compiti on task, ossia in attività di pensiero concentrate su un determinato obiettivo (Sormaz et al 2018,); infatti tale rete è considerata anche la base neurologica del sé (Andrews-Hanna, 2012) ed è stata inoltre osservata essere correlata con le reti di attenzione frontoparietale e dorsale e la corteccia visiva nell’introspezione (Soto et al. 2018).

Come descrive Edward Pace-Schott: “la rete predefinita consiste in regioni che, in assenza di attenzione esterocettiva [orientata all’esterno ndr] o di uno sforzo mentale strettamente focalizzato, supportano le preoccupazioni autodirette, l’immersione nella propria vita interiore (ad esempio, il sogno ad occhi aperti) o immaginare la vita interiore degli altri (Teoria della mente)” (Pace-Schott 2013, p. 159).

Riflettendo sulle varie funzioni del DMN, Buckner e colleghi postulano che la loro caratteristica comune sia quella di “simulare una prospettiva alternativa al presente” (Buckner et al. 2008, pag. 23 cit. in Taylor, M. 2013).

Per comprendere i meccanismi e la fenomenologia del pensiero spontaneo sono stati effettuati numerosi studi sulla correlazione fra i sottosistemi del DMN e le funzioni/comportamenti cerebrali “on task”. Per brevità si omettono qui tali ricerche.

Regioni cerebrali coinvolte nel DMN

Vari studi di connettività funzionale e strutturale da oltre un decennio hanno aiutato a comprendere quali sono le aree corticali e sottocorticali coinvolte nel DMN (ad esempio, Buckner, 2012; Greicius et al.2003; Gusnard  &  Raichle,  2001; Raichle  et  al., 2001). Tale rete, o meglio, insieme di connessioni, schematicamente può essere distinto in due grandi sottosistemi (Andrews-Hanna et al.  2010), ognuno coinvolto in determinati processi e con le proprie aree di riferimento (Andrews-Hanna et al., 2014). Un sottosistema dorso-mediale, legato a processi di mentalizzazione e ragionamento sociale (composto dalla corteccia prefrontale dorso-mediale dmPFC, dalla corteccia laterale temporale LTC, e dalla giunzione temporo-parietale TPJ) e un sottosistema mediale-temporale, legato alla memoria episodica e al pensiero sul futuro (composto dalla corteccia prefrontale ventro-mediale vmPFC, dal lobo parietale posteriore inferiore pIPL, dalla corteccia retrospleniale Rsp, e dalla formazione ippocampale HF, Andrews-Hanna et al.); alcuni autori identificano anche un terzo sottosistema, quello della linea mediana, legato a processi autoreferenziali e autobiografici (composto dalla corteccia cingolata posteriore PCC, e dalla corteccia prefrontale mediale anteriore amPFC) (Cfr. Doucet  et  al.,  2011; Fox  et  al.,  2005; Sporns,  2011; Yeo  et  al.,  2011).

In uno studio sul connettoma umano, è stato scoperto che ”(all’interno del cervello) per tutte le combinazioni di metodi, le aree della rete in modalità predefinita hanno mostrato il più alto accordo struttura-funzione.” (Horn A, et al. 2014, Abstract)

Nello specifico, seguendo un rigoroso criterio di studio, Domhoff and Fox (2015) hanno condotto una meta-analisi nella quale sono state individuate le 13 regioni più attive nel pensiero spontaneo, rispetto a varie condizioni di confronto orientate ai compiti con livelli più bassi di vagabondaggio mentale. Tra i risultati spiccano tutti i principali hub della rete predefinita: l’MPFC, il PCC, il lobo temporale mediale e il lobulo parietale inferiore bilaterale (Domhoff and Fox 2015). Altri dati meta-analitici includevano aree somatosensoriali secondarie, coerentemente con la letteratura psicologica sulla cognizione incarnata (Gibbs, 2006; Wilson, 2002). Inoltre, è stato osservato che un’area coinvolta nelle immagini visive, il giro linguale, è stata attivata anche durante il pensiero spontaneo di veglia. (Fox et al. 2015)

Il sogno lucido o mind wandering può essere classificato come pensiero non guidato, mentre allo stesso tempo dipende da vincoli deliberati. (….) Ed essere oggetto per il trattamento dei disturbi mentali legati ad alterazioni spontanee del pensiero, in particolare depressione e incubi. (Konjedi et al. 2021; qui gli autori usano i termini sogno lucido e mind wandering come sinonimi).

Cosa succede a livello neuronale durante l’immaginazione? Plasticità e neurogenesi

Dai numerosi studi sul network Mirroring, il sistema dei neuroni a specchio, è ormai considerazione consolidata in letteratura che a livello di corteccia premotoria non vi è distinzione tra azione e percezione della stessa azione che si sta osservando, poiché si attiva il medesimo neurone (Craighero et al. 1999; Craighero et al. 2002; Iacoboni et al. 2005) e relativamente al coinvolgimento delle rappresentazioni motorie sull’organizzazione spazio-temporale del movimento e nella pianificazione delle sequenze di azioni (Seegelke et al. 2015).

Tutto ciò ci permette di affermare:

  • che la continua interazione tra sistemi sensoriali (quindi visivi, uditivi, etc.) e sistema motorio è una componente fondamentale del processo di conoscenza attiva del mondo (Craighero 2020);
  • che le rappresentazioni sensomotorie, ossia l’azione osservata, più la conseguenza sensoriale dell’azione, sono alla base delle azioni finalizzate, cioè dell’intenzione (Craighero ibidem). [e del senso di autoefficacia, mi permetto di aggiungere].

[Tutto ciò è vero poiché] le rappresentazioni sensomotorie sono modificate in corteccia premotoria come scopo dell’azione e non come mero comando motorio all’effettore e sono indipendenti dall’agente (Craighero ibidem).

In altre parole, cercando di semplificare, possiamo dire che i network neuronali che si attivano nell’osservatore di una determinata azione sono sì i medesimi di chi quell’azione la compie, ma vengono attivati dall’intenzione di compiere quel movimento e non (soltanto o unicamente) per muovere la parte del corpo che effettua quella medesima azione.

Dalla numerosa letteratura sulla neurogenesi, risulta evidente come l’ambiente incida sull’epigenetica (Denoth-Lippuner et al. 2021; Pagani et al. 2019; Kandel 1998).

Ad esempio, cercando di sintetizzare, è noto che una situazione stressogena, considerata tale da un soggetto, attiva modificazioni successive sull’asse HPA, ipotalamo, ipofisi, surrene con effetti pleiotropici sul sistema immunitario (Cain et al. 2017;  Qing et al. 2020) e sulla neurogenesi nel giro dentato dell’ippocampo (Surget et al. 2021), sicuramente nei roditori, ma tale fenomeno, sebbene non unanimemente condiviso, è in larga parte accettato anche per l’uomo (Gould and Gross, 2002).

È forse opportuno ricordare qui che nel modello murino la formazione di questi nuovi neuroni dei roditori adulti è stata associata a diverse funzioni dell’ippocampo: la flessibilità comportamentale, ossia l’adattamento comportamentale dell’animale in risposta a cambiamenti esterni o interni, e soprattutto la codifica di nuove esperienze e quindi la memoria e la dimenticanza di ciò che è stato precedentemente appreso. (McEwen 2001; Diekelmann & Born, 2010; Gais et al., 2007; Kreutzmann et al 2015; Lahl et al. 2008; O’Neil et al., 2015)

In particolare, sappiamo che lo stress è principalmente connaturato all’attribuzione di significato che un soggetto dà dell’agente stressogeno e alla valutazione delle risorse che il singolo ha a disposizione per fronteggiare una determinata situazione stressogena (Lazarus et al. 1984), quindi nell’attività di elaborazione cognitiva principalmente sono coinvolte la corteccia frontale e l’amigdala; strutture che mediano le percezioni provenienti dall’esterno e che vanno a stimolare l’ipotalamo, innescando l’attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA) che è di fatto responsabile del rilascio di glucocorticoidi, tra i quali il cortisolo, principale ormone mediatore dello stress. Il cortisolo a sua volta andrà ad innescare un meccanismo di feedback negativo sull’ipotalamo bloccando l’ulteriore secrezione di cortisolo, ma soprattutto andrà a stimolare un’altra area cerebrale: l’ippocampo. Struttura questa che, particolarmente ricca di recettori per i glucocorticoidi, per una funzionalità ottimale ha necessità di determinate concentrazioni di glucocorticoidi: se ce n’è un eccesso l’ippocampo riduce l’area di sensibilità attraverso ritrazioni o pruning di spine dendritiche (Saaltink et al. 2014). È noto infatti che in soggetti affetti da disturbo da stress post traumatico (PSTD) si osserva una riduzione di volume dell’ippocampo (Bonne et al. 2001; Bremner 2006; Jatzko et al. 2006; Logue et al. 2017).

Per quanto riguarda gli effetti dello stress sul sistema immunitario, anch’esso legato all’asse HPA, molto sinteticamente e schematizzando un processo molto complesso, possiamo dire che uno stress acuto causa un rilascio di citochine pro-infiammatorie in circolo (Salvador et al. 2021), anche se poi occorre ricordare che il cortisolo negli uomini, il corticosterone nei roditori, rilasciato dall’asse HPA, è un importante agente immunosoppressivo, quindi paradossalmente lo stesso sistema, cioè lo stress, permette il rilascio di agenti infiammatori e di agenti antinfiammatori immunosoppressivi (Gentile 2020). Inoltre è forse opportuno ricordare che citochine pro-infiammatorie quali interlochina 1 beta, interlochina 6 ed altre, sono state associate a vari domini comportamentali, ad esempio alla sickness behaviour e la depressione (Maes et al. 2012).

Sappiamo tutti, infine, che esperire in prima persona o semplicemente assistere ad esperienze traumatiche, può comportare tutta una serie di disturbi, sintomi e segni, sia che la persona accusi un vero e proprio PTSD, sia che abbia in sé sufficienti risorse per fronteggiare la situazione o l’evento stressante.

Studi scientifici relativamente recenti mettono in luce un altro aspetto del trauma: il trauma psicologico non soltanto può influenzare la  biologia degli individui ma persino avere conseguenze biologiche e comportamentali sulla prole di individui che sono stati esposti al trauma; si è quindi dimostrata l’ereditarietà transgenerazionale dovuta all’esposizione a traumi (tra i molti Yehuda 2016; Perroud et al. 2014).

Molto sinteticamente, è stato dimostrato che gli effetti duraturi dell’esposizione al trauma possono essere trasmessi alla prole in modo transgenerazionale  attraverso  il  meccanismo di ereditarietà  epigenetica delle alterazioni della metilazione del DNA con la possibilità di modificare l’espressione dei geni e del metaboloma (Youssef et al. 2018). In altre parole, l’esposizione a un trauma può essere presente nell’organismo, come fosse un’impronta, anche in soggetti che non hanno vissuto (o assistito) all’esperienza traumatica ma sono soltanto discendenti diretti di chi quell’esperienza l’ha vissuta; tale “impronta” può quindi essere considerata il livello organico, più interno, profondo, e naturalmente sotto la soglia della consapevolezza, dell’esperienza traumatica.

Curare con l’immaginazione

Coloro che avranno avuto la costanza di leggere l’articolo sin qui, legittimamente si potranno chiedere: ma tutto questo in quale modo riguarda il curare o curarsi con l’immaginazione? Ebbene, non certamente “immaginando” di guarire! Sebbene l’effetto placebo in alcuni casi clinici possa rivestire un ruolo statisticamente significativo.

Ci sono, invece, numerosi orientamenti psicoterapici che usano, ognuno secondo un proprio metodo, tecniche immaginative.

L’esperienza immaginativa del pensiero spontaneo, come abbiamo visto, è un’esperienza reale che il soggetto vive, ossia sono reali le dimensioni affettive correlate ad essa; tale esperienza, opportunamente sollecitata e guidata dal terapeuta in un ambiente protetto, permette al paziente di esperire non soltanto emozioni, ma anche (eventuali) sentimenti di autoefficacia e di self determination, con anche le possibili modificazioni epigenetiche che l’ambiente, e quindi anche l’immaginazione, opera sulle nostre strutture cerebrali e che anche qui abbiamo visto.

In particolare, ad esempio, in un ambiente sicuro e tranquillo, qual è il setting psicoterapico, con luce attenuata, in condizione di rilassatezza e stato di coscienza attenuata, il paziente sdraiato su una chaise lounge e con gli occhi chiusi, quindi in una condizione analoga a quella della situazione sperimentale condotta da Raichle nel 2001 (Raichle, 2015), durante un’esperienza immaginativa vive e sperimenta molteplici processi sensoriali, emotivi, cognitivi e metacognitivi.

  • Un duplice processo percettivo e immaginativo: come oggetto, in quanto riceve gli stimoli emozionali (ed eventualmente stressogeni) che l’esperienza immaginativa gli trasmette e suscita; come soggetto attivo, in quanto coautore (insieme agli strati più o meno profondi del suo inconscio) dell’esperienza immaginativa, ed essendo in grado anche di orientare e modificare l’esperienza stessa nel suo svolgersi.
  • Una prima attività cognitiva necessaria per l’esplicitazione orale al terapeuta dell’esperienza immaginativa che sta vivendo nel momento stesso del suo esperirla, che viene rinforzata/modificata dall’attività di ascolto delle parole del suo stesso racconto (Passerini, De Palma 2016).
  • Un’azione di metanalisi cognitiva durante e al termine dell’esperienza immaginativa quando, su sollecitazione del terapeuta, riflette sui momenti più emotivamente intensi dell’esperienza e sul suo stato d’animo al termine della stessa. (Toller, Passerini 2007).

 

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Seconda parte

Affrontato da tempo dalla psicologia, lo studio del corteggiamento può permetterci, tra le altre cose, di risalire alle espressioni più basilari dei comportamenti che entrambi i sessi attuano nel tentativo di stringere una relazione di coppia a breve o a lungo termine.

Il presente articolo è il secondo di una serie di due articoli sull’argomento. Il precedente contributo è stato pubblicato pochi giorni fa su State of Mind

 

Nella prima parte di questo articolo si è cercato di introdurre il tema dei segnali di corteggiamento. Studiato da tempo dalla psicologia, l’indagine in questo campo può permetterci, tra le altre cose, di risalire alle espressioni più basilari dei comportamenti che entrambi i sessi attuano nel tentativo di stringere una relazione di coppia a breve o a lungo termine. Queste espressioni trovano la loro controparte, in chi osserva, nella reazione di attrazione per l’altro e nella percezione che sia disponibile a lasciarsi avvicinare. In altre parole, i segnali di disponibilità femminile motivano l’osservatore all’adozione di tattiche e strategie di approccio, che nel regno umano possono anche essere molto raffinate.

In questo senso gli indizi di exploitability (segnali vulnerabilità o disponibilità a relazioni sessuali a breve termine) sono particolarmente interessanti poiché, come intuibile, possono essere altamente motivanti a un approccio e, come si vedrà nei prossimi paragrafi, sono connessi all’uso di tattiche di seduzione, manipolazione, e uso della forza fino anche alla coercizione sessuale.

Il corteggiamento e i tratti di personalità

Rispetto ai tratti di personalità che segnalano exploitability, Goetz e colleghi (Goetz, Easton & Meston, 2014) hanno chiesto alle partecipanti alla ricerca di registrare dei brevi video di circa un minuto da mettere poi su un ipotetico sito di dating online, nei quali dovevano cercare di rendersi attraenti. Veniva poi chiesto loro di rispondere ad alcune domande sul video appena fatto e di compilare due questionari, dei quali uno di personalità e l’altro sui propri atteggiamenti, comportamenti e desideri riguardo alle relazioni a breve termine e al sesso casuale. Ad altri partecipanti veniva poi chiesto di valutare i video rispondendo ad alcune domande.

I risultati mostravano che le persone maggiormente estroverse o aperte all’esperienza avevano una percezione più positiva delle relazioni a breve termine e del sesso casuale ed erano maggiormente disposti a farne. Questi risultati sono in linea con le ricerche che mostrano come persone molto aperte a nuove esperienze abbiano un raggio di esperienze sessuali più ampio della media (Costa, Fagan, Piedimont, Ponticas, & Wise, 1992). Emergeva inoltre, a causa della breve durata del video da valutare, che gli osservatori erano in grado di interpretare tali indizi di disponibilità in tempi molto rapidi.

Un ultimo dato interessante, infine, era che le persone più aperte alle nuove esperienze, quelle più estroverse e quelle con punteggi superiori sulle aree indagate dal secondo questionario venivano percepite dagli osservatori come maggiormente vulnerabili a eventuali tentativi di sfruttamento sessuale. Ma, come sappiamo, questa percezione veniva inferita dai comportamenti che mostravano consapevolmente (promuovere la propria immagine su un sito di dating online). In altre parole, per rendersi più attraenti agli occhi dell’osservatore, le partecipanti allo studio usavano consapevolmente comportamenti che le facevano sembrare più vulnerabili ai tentativi di approccio.

Il corteggiamento e il rischio di exploitability

Altri studi hanno poi rilevato altre caratteristiche legate alla percezione di exploitability in chi osserva, soprattutto di tipo psicologico, e indizi di incapacitazione psicofisica (Goetz, Easton, Lewis, & Buss, 2012; Goetz et al., 2014b).

Tra le caratteristiche psicologiche si segnalano: bassa autostima e bassa assertività; immaturità, ingenuità e mancanza di giudizio; bassa intelligenza; tendenza a ‘flirtare’; tendenza alla promiscuità sessuale ed avere amici sessualmente promiscui; atteggiamenti sessuali maggiormente permissivi; la tendenza a mettersi in situazioni pericolose; l’impulsività; la ricerca di attenzione da parte dell’altro e la ricerca del rischio. Tra gli indizi di incapacitazione psicofisica ricadono invece le condizioni psicofisiche derivanti dal consumo eccessivo di alcol, da affaticamento o altre forme di difficoltà cognitive e, da ultimo, la presenza di potenziali difensori (come ad esempio essere in compagnia di amici, parenti o altro).

Le caratteristiche e le condizioni psicofisiche appena considerate possono determinare la percezione altrui della vulnerabilità della donna ad approcci finalizzati allo sfruttamento sessuale e che il soggetto si metta, inconsapevolmente o di proposito, in situazioni in cui il rischio di exploitability è maggiore. Ad esempio, bassa autostima e bassa assertività sono spesso presenti in persone che hanno sperimentato esperienze di coercizione sessuale; una bassa intelligenza, invece, è connessa ad un elevato rischio di essere manipolati o ingannati dall’altro; infine l’impulsività, la propensione al rischio, la temerarietà e la promiscuità aumenterebbero la probabilità che il soggetto possa trovarsi suo malgrado in situazioni nelle quali può essere vittimizzato sessualmente (cfr. Greene & Navarro, 1998; Testa & Dermen, 1999).

A partire da queste idee gli autori citati (Goetz, et al. 2012; 2014ab) hanno utilizzato riprese video e fotografie, e chiesto ai partecipanti di rispondere ad alcune domande mirate alla valutazione della percezione di exploitability e della desiderabilità del soggetto come partner in una relazione, identificando così dei comportamenti che renderebbero la donna attraente agli occhi dell’osservatore, percepita come disponibile ad avere relazioni a breve termine di tipo sessuale e, quindi, vulnerabile ai tentativi di sfruttamento sessuale. L’elenco dei comportamenti comprende: comportamenti spavaldi e temerari, promiscui o ‘festaioli’; guardare di sottecchi e con malizia; cercare attenzione da parte dell’altro; vestire abiti succinti; mostrarsi ‘facile’; comportarsi in modo immaturo; essere intossicata da alcol/droghe; mostrarsi sonnolente; toccarsi il seno. Altri comportamenti avrebbero invece l’effetto opposto, verrebbero cioè considerati indici di non exploitability: intelligenza, timidezza, età matura o anziana; essere svenute; succhiare da una cannuccia; manifestare ansia; arrossire, essere toccati dagli altri.

A questi indizi di vulnerabilità si possono associare, da parte dell’osservatore, diverse strategie di approccio (Goetz et al. 2012). L’osservatore potrebbe, ad esempio, tentare di sedurre il target con pressioni di tipo verbale o non verbale (come il mostrarsi gradevole o insistendo, importunando, assillando etc.). Oppure potrebbe decidere di celare all’altro le proprie intenzioni, fingendo di desiderare una relazione a lungo termine, o di possedere caratteristiche e tratti di personalità considerati desiderabili in un partner, insomma utilizzare tattiche di tipo manipolatorio (cfr. Haselton, Buss, Oubaid, & Angleitner, 2005). Potrebbe, infine, decidere per un approccio fisico o violento, usando la forza per pressare, minacciare o costringere l’altro a un rapporto sessuale.

Tutti i comportamenti elencati nei paragrafi precedenti si presentano in associazione con almeno tre delle quattro strategie di approccio considerate. Ad esempio, la strategia che si basa sull’uso della forza per indurre compiacenza verrebbe messa in atto se la controparte è percepita come “facile” o intossicata dall’alcol. La tendenza a manipolare verrebbe messa in atto se i comportamenti altrui vengono percepiti come immaturi e ingenui. Immaturità e ingenuità possono inoltre determinare l’eventualità di entrare e uscire continuamente da relazioni a breve termine insoddisfacenti. La mancanza di giudizio e la ricerca di attenzione potrebbero determinare l’accontentarsi di partner di bassa qualità ma seduttivi, pur di ricevere gratificazione momentanea per l’immagine di sé, e così via.

Gli esempi possibili sono limitati solo dalla fantasia, ma il messaggio di fondo è che i comportamenti di corteggiamento sono in qualche misura codificati anche nell’uomo e sono presenti regolarità tra i segnali che vengono inviati all’altro (consapevolmente o inconsapevolmente) e la percezione che l’altro avrà di noi come vulnerabili a tentativi di sfruttamento sessuale, con la conseguenza che sceglierà di usare, nei nostri confronti, alcune tattiche e strategie di approccio piuttosto che altre, fermo restando la storia del soggetto, la cultura e il suo ambiente di riferimento.

Punti critici

Giunti a questo punto sembra utile fare alcune considerazioni.

Riprendendo quanto detto all’inizio, tentare di catalogare i comportamenti percepiti come indicatori di disponibilità sessuale a breve termine può sembrare semplicistico e ingenuo. Può infatti essere posta la questione dell’intenzionalità sottostante e, considerando che gli studi citati utilizzano solo campioni di comportamento femminile, andrebbero sicuramente considerate anche le controparti maschili. Dovrebbero infine essere considerate le differenze di genere nella percezione di questi segnali, come anche, per entrambi i sessi, le situazioni specifiche in cui essi vengono inviati. Questi obiettivi vanno oltre gli scopi del presente lavoro, ma la letteratura disponibile è ampia e interessante.

Ad esempio è ben documentata una maggiore propensione degli uomini, rispetto alle donne, a vedere interesse sessuale quando si trovano in situazioni sociali (Abbey, 1982). Gli uomini, inoltre, tendono a percepire più intensamente i segnali di disponibilità sessuale e meno intensamente quelli di rifiuto (Moore, 2002), con la conseguenza di vedere disponibilità sessuale anche laddove non è presente. Per le donne sembra invece valido il contrario, ovvero che abbiano soglie superiori per identificare i propri comportamenti come seduttivi (Shotland & Craig, 1988). Il rischio in questo caso è di mostrare inavvertitamente disponibilità sessuale (Leenaars, Dane, & Marini, 2008) e quindi risultare meno desiderabile agli occhi di uomini che valorizzano la fedeltà nelle relazioni a lungo termine (ad es. Buss, 1989).

Per terminare questa breve rassegna, altri studi ci dicono che gli uomini possono identificare l’orientamento sociosessuale (ad esempio la tendenza alla promiscuità sessuale) anche per mezzo di brevi interazioni (Stillman & Maner, 2009). In questo modo è più probabile che la maggiore propensione a utilizzare tattiche di seduzione sessuale di un soggetto incline al sesso casuale coincida con l’avvicinamento di partner con inclinazioni simili (ad es. Boothroyd, Jones, Burt, DeBruine, & Perrett, 2008).

Il quadro mostrato finora potrebbe dare l’idea che i nostri incontri quotidiani con gli altri siano inevitabilmente permeati di segnali di disponibilità sessuale, voluti o non voluti, e inevitabilmente identificati dall’altro come tali. In realtà la tendenza generale sembra essere quella di non usarli. Le donne comunque sembrano essere ben consapevoli della loro esistenza, di come si usano e dei loro effetti (Goetz et al., 2014b), probabilmente a causa di processi di socializzazione legati alla cultura di riferimento. La decisione se usarli o meno dipenderebbe così dai contesti in cui si trovano di volta in volta, dai propri desideri e da quelli attribuiti al potenziale partner, come anche dal livello di investimento atteso dalla controparte nella coppia.

Utilizzare tali segnali in contesti inadeguati può avere infatti dei costi, anche significativi, soprattutto per chi si trova già in una relazione. Il rischio è quello di promuovere la stretta sorveglianza da parte del partner, fino alla chiusura della relazione o alla violenza di coppia (ad es. Cousins & Gangestad, 2007). L’uso di tali tattiche può risultare vantaggioso per chi non si trovi in una relazione, comportando benefici di vario tipo (benefici economici, protezione da altri uomini, benefici genetici per la prole; Greiling & Buss, 2000), ma con costi associati che possono andare dal danno di autostima e di reputazione (Campbell, 2002), fino a casi vittimizzazione, di abuso verbale o fisico, o allo sviluppo di problemi di salute derivanti da malattie sessualmente trasmissibili.

Il corteggiamento nella psicologia evoluzionistica

Da questa breve presentazione l’immagine romantica del corteggiamento cede il passo alle ragioni della psicologia evoluzionistica, i cui studi ci mostrano un lato della sessualità e del corteggiamento meno idealizzato, ma fondato empiricamente e con basi teoriche consistenti: la specie non sopravvive senza la riproduzione, e perché ciò avvenga la natura prevede dei comportamenti più o meno codificati e ritualizzati, presentati sia dagli esseri umani che dagli animali non umani, in base alle proprie specificità. Danze di corteggiamento, splendidi piumaggi, gorgheggi, lotte: il repertorio dei comportamenti di corteggiamento che la natura offre all’osservatore è tanto vasto quanto inatteso. L’uomo non ne è escluso, e se il pavone fa mostra del proprio piumaggio e le femmine di gorilla fissano languidamente il maschio, perché la donna non dovrebbe ammiccare maliziosamente, tirarsi indietro i capelli, sorridere verso un uomo che vuole attrarre? È strano considerare i segnali di disponibilità sessuale come la forma umana dei comportamenti del pavone o del gorilla?

Certo, uomini e donne hanno adattato i propri rituali di corteggiamento, che possiedono radici molto antiche, ai cambiamenti della società e della cultura. Oggi questi comportamenti possono trovare un’espressione anche molto raffinata e dipendente dal contesto (pensiamo alla situazione del cocktail bar, descritta all’inizio). Tuttavia questi comportamenti, che lo vogliamo o meno, sono finalizzati verso obiettivi di stampo evoluzionistico e la mente umana, con la sua infinita creatività e tensione verso la ricerca di senso, vi imprime significati ulteriori, creando il gioco e la sfida della seduzione, che rendono la vita sicuramente più complicata ma anche molto più interessante.

 

Leggi la prima parte dell’articolo:

Il gioco delle coppie per la psicologia evoluzionistica: i segnali femminili di corteggiamento – Prima parte

Ad un metro dal futuro (2021) di Marco David Benadì – Recensione del libro

Nel libro Ad un metro dal futuro vengono intervistati sedici ragazzi provenienti da contesti diversi, accumunati dalla giovane età, ai quali viene lasciato spazio per potersi esprimere senza essere giudicati.

 

Spesso si parla dei giovani in maniera assolutamente banale, irrispettosi di un’età evolutiva assolutamente complessa quanto complicata. Spesso si parla dei giovani solo per il gusto di ergersi dall’alto di un piedistallo dove tutto è un dovere, dover essere, dover fare, dover ascoltare, senza ricordarsi di quanto un periodo simile sia per loro pieno di punti interrogativi, di contraddizioni da risolvere, ma anche di tanta maturità sorprendente.

L’età tra la pubertà e l’adolescenza è ricca di cambiamenti da ogni punto di vista: il corpo comincia a trasformarsi, cambia il modo di pensare, si entra spesso in conflitto tra il desiderio di rimanere ancorati alla famiglia, un posto sicuro, e dall’altro lato la voglia di sperimentare nuovi orizzonti, di provare quella sensazione di libertà e di indipendenza con uno sguardo rivolto al domani. Se pensiamo poi a questo lungo periodo di pandemia, probabilmente non riusciamo nemmeno ad immaginare fino in fondo quanto questo mondo complesso possa essere ulteriormente scosso, quanto sia stato e sia difficile mantenere quell’equilibrio già di per sé dinamico a causa di un evento così tragicamente inaspettato.

Questo non è un semplice libro, ma un vero e proprio progetto che unisce il nostro Stivale da Nord a Sud, un progetto dove gli stessi giovani sono i protagonisti, narratori della propria storia, fatta di cose, ma soprattutto di persone, di emozioni, di pensieri, di desideri, di motivazioni, di bisogni, di paure, di aspettative, di volontà.

In particolare vengono intervistati sedici ragazzi provenienti da contesti diversi, pervasi da una parte dalla quiete meravigliosa di campagne sconfinate, ma dall’altra dall’ingombro di palazzoni di periferia, contesti che spaziano dal mare alla città, sedici ragazzi accumunati dalla giovane età a cui viene lasciato finalmente spazio. Uno spazio per esprimersi senza essere giudicati, uno spazio dove essi stessi divengono i protagonisti, dove finalmente nessuno impartisce lezioni di vita, uno spazio intriso di concetti e di messaggi che vanno ben oltre a quegli argomenti stereotipati assolutamente banali che la società spesso addita loro.

Un progetto supportato da un’associazione Onlus, Il Gruppo Abele, fondato nel 1965 da don Luigi Ciotti, per affrontare e cercare di superare tutte quelle situazioni che provocano emarginazione, diseguaglianza, senso di vuoto e di smarrimento con l’intento di dare supporto concretamente a tutti coloro che vivono situazioni di disagio.

Dalla lettura di questo testo è possibile immaginare uno ad uno tutti questi ragazzi che raccontano di sé, delle proprie famiglie e soprattutto di quello che per loro sembra poter essere il futuro. Parlano a nome di tutti i loro coetanei per cercare di trasmettere il loro punto di vista e nei loro racconti, se pur letti, traspare tutto il loro entusiasmo e la loro voglia di essere ed esserci.

Che cosa ci si aspetterebbe da questa gioventù sospesa?

Racconti di moda, di successo irraggiungibile, di ricerca di perfezione, di social, in una parola di futilità. E invece tutt’altro, l’aspettativa viene meno già dai primi racconti. E allora il lettore rimane con il fiato sospeso, perché si rende conto che la gioventù moderna è fatta di ben altro, è una gioventù da cui si può apprendere molto, una gioventù che chiede semplicemente aiuto, perché spesso non è davvero ascoltata e capita.

Questi giovani parlano di valori, di una famiglia spesso fatta di nonni saggi e accudenti, di madri che tornano distrutte dal lavoro, ma sempre pronte a preparare la cena e magari portare fuori il cane. La casa non è solo uno spazio, afferma Francesca, 18 anni. È fatta di piccoli gesti quotidiani per lei importanti, senza i quali non avrebbe senso vivere. Questi giovani amano leggere, conoscono Socrate, Foscolo, la dichiarazione universale dei diritti umani, ascoltano musica che li aiuta a riempire i momenti difficili. Questi giovani sono consapevoli di una società che spesso li addita come privi di sostanza, ma ecco le parole di uno di loro: Alle volte penso che noi giovani siamo etichettati come superficiali, come se non ci importasse di quello che accade tutti i giorni. Secondo me invece siamo proprio noi che stiamo lì a pensarci più di tutti, perché abbiamo davanti un futuro che ci spaventa.

Il futuro: ognuno di loro ne parla a suo modo, ma trasmette il fatto di pensarci costantemente. È un futuro ancora confuso, un futuro che è importante proteggere fin da subito per non rischiare di perderlo per sempre. Questi ragazzi pensano anche a coloro che verranno e proprio per questo credono che sia giusto fare più attenzione al pianeta, parlano di progetti per salvaguardarlo non solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista valoriale ed emotivo. Aspirano ad un mondo non più intriso di odio, dove ci sia maggiore consapevolezza dell’altro, dove la parola altruismo non sia solo una voce senza senso, dove amare significa prendersi le proprie responsabilità e farlo attivamente. Riporto le parole di Salvatore, 17 anni, di Palermo che risultano toccanti nella loro semplicità: Io credo che le parole non bastino. Amore e generosità, dette così sono solamente parole. Almeno fino a quando non diventano “fatti” d’amore e “fatti” generosi.

Le parole di questi giovani lasciano davvero il segno, quando discorrono del lockdown manifestano tutto il proprio disagio incompreso. Spesso gli adulti non si accorgono di che cosa significa veramente per loro stare rinchiusi, non avere la possibilità di formarsi a scuola a stretto contatto con gli insegnanti e con la possibilità di confrontarsi con gli altri compagni, senza uno schermo davanti.

In effetti il problema esiste e ben è stato sottolineato al Convegno internazionale di Suicidologia e Salute pubblica-XIX Edizione, dove ben emerge il disagio giovanile in questo periodo di pandemia, disagio che non va affatto trascurato. Chi afferma che i ragazzi se ne stiano beatamente a casa senza problemi fa un grosso sbaglio e queste sedici interviste lanciano un segnale diretto.

Si parla anche di arte, di politica, di tecnologia, di socialità, di lotta al razzismo, si parla persino del tema della morte, vista non tanto come fine della vita, ma come paura di invecchiare senza poter essere felice.

Questo testo spazia oltre i confini delle pagine, porta il lettore adulto davvero a stretto contatto con una gioventù così fragile, ma allo stesso tempo così determinata, ma dà anche la possibilità a quello più giovane di ritrovarsi, di non sentirsi più solo o sbagliato. Un piccolo testo che si trasforma in un potente mezzo di aiuto per i giovani, ma anche uno strumento attraverso cui gli stessi giovani possono aiutare noi adulti a comprendere meglio questa età sospesa.

Quello spirto guerrier ch’entro gli rugge ad un metro dal futuro ha davvero tanto da insegnarci.

 

“Anno nuovo, vita nuova”: Capodanno e i propositi di cambiamento

Spesso il giorno di Capodanno è visto come un’opportunità per fare il punto, per scegliere nuovi propositi e obiettivi per l’anno nuovo.

 

Cosa guida il nostro comportamento

In psicologia e in psichiatria, il controllo intenzionale del comportamento è stato studiato spesso, in particolare per quanto riguarda le implicazioni sul cambiamento.

Alcuni teorici adottano una spiegazione di stampo più cognitivo: Miller, Galanter e Pribram (1960) ad esempio hanno fornito una spiegazione di come i “piani” auto sviluppati vengano eseguiti. Altri studiosi invece propongono una visione di tipo comportamentale, come quella avanzata da Kanfer e Phillips (1970) che prende in esame parametri e determinanti di una risposta comportamentale da modificare, (ad es. l’inizio di una nuova risposta; la cessazione e la resistenza di una vecchia) e delle relative risposte “controllanti” (Skinner, 1953; Marlatt & Kaplan, 1972).

Comportamenti, obiettivi e cambiamento

Va inoltre sottolineato come il comportamento sia guidato dal perseguimento degli obiettivi personali, che promuovono l’adattamento e il benessere psicologico anche quando non vengono raggiunti (Sheldon & Elliot, 1999). Austin e Vancouver (1996) definiscono gli obiettivi personali come rappresentazioni cognitive di risultati futuri desiderati, che implicano uno sforzo per raggiungere un esito positivo. La flessibilità dell’obiettivo è la capacità di vedere le battute d’arresto con equanimità per regolare l’obiettivo da perseguire, mentre la tenacia è definita come la persistenza dello sforzo utile al raggiungimento di un obiettivo specifico, anche in condizioni difficili (Siltanen et al., 2019). Nonostante la ricerca abbia approfondito poco l’argomento, il giorno di Capodanno è comunemente visto come un’opportunità per fare il punto della propria vita, scegliere nuovi obiettivi e darsi nuovi propositi (Dickson et al., 2021).

Il mantenimento dei nuovi propositi stabiliti a Capodanno

Dickson e colleghi (2021) hanno indagato se la flessibilità e la tenacia degli obiettivi, in modo indipendente, prevedono un aumento del benessere e la risoluzione di un obiettivo da perseguire. Per testare quest’ipotesi, è stato svolto uno studio longitudinale online, a cui tutti i partecipanti hanno partecipato subito dopo Capodanno e prima della fine di gennaio. Le misure di base somministrate nel tempo 1 (T1) sono state seguite da tre sondaggi, con un intervallo di tempo di due settimane tra T1 e T2, T2 e T3. Dato che le precedenti ricerche suggeriscono che le persone tendono a non perseguire gli obiettivi imposti se non per qualche settimana e basta (Griffiths, 2016), è stato incluso un intervallo di quattro settimane tra T3 (fine del primo mese) e T4, un tempo specifico alla fine del secondo mese utile per accertarsi che i partecipanti stessero perseguendo lo scopo che si sono imposti (Dickson et al., 2021). Il campione totale era composto da 182 studenti universitari, 144 reclutati in Australia e 38 nel Regno Unito. Nello specifico, le misurazioni del tempo T1 sono state riportate da 161 partecipanti, del tempo T2 da 92 persone, del tempo T3 da 65 e del tempo T4 da 54. È stato somministrato il New Year Resolution Task (adattato da Dickson e Moberly, 2010) per chiedere ai soggetti di scegliere un proposito per l’anno nuovo, la TEN/FLEX (Henselman et al., 2011) per valutare la flessibilità dell’obiettivo e la tenacia, la WEMWS (Tennant et al., 2007) utile ad indagare i livelli di benessere, infine è stato chiesto ai partecipanti di valutare tre elementi: impegno, adesività e dedizione (Dickson et al., 2021). È stato aggiunto un quarto punto dedicato alla risoluzione, in quanto otto partecipanti riferiscono di aver abbandonato il loro obiettivo al tempo T2, sei al tempo T3 e sette al tempo T4: il motivo maggiormente contrassegnato è stato il cambiamento delle priorità (ad esempio, avere un figlio) o delle circostanze (Dickson et al., 2021).

Tenacia e flessibilità degli obiettivi ci aiutano davvero con i buoni propositi?

I risultati evidenziano come non ci siano differenze significative tra il campione australiano e il campione inglese. I propositi più frequenti riguardano soprattutto la dieta e l’ esercizio fisico. La flessibilità degli obiettivi correla positivamente con il benessere mentale a lungo termine e non prevede il rispetto dei propositi del nuovo anno, mentre la tenacia correla positivamente con il benessere solo nel tempo T1. Nel complesso, la ricerca suggerisce come né la flessibilità degli obiettivi, né la tenacia consentono di prevedere il perseguimento dei propri propositi, sebbene la flessibilità risulti associata a livelli più altri di benessere mentale (Dickson et al., 2021).

 

Neurofisiologia del sonno

Il sonno è uno stato di coscienza alterato in cui possiamo vedere e sentire soltanto quel che è presente nella nostra mente, tuttavia attraverso il sogno possiamo integrare inconsciamente elementi esterni nel sonno. Sonno e sogno difendono la nostra salute mentale.

 

Il sonno è un comportamento fisiologico indispensabile per la sopravvivenza dell’individuo, che garantisce il riposo, il recupero delle energie mentali e fisiche e il consolidamento della memoria.

È regolato da tre fattori: fattore omeostatico, fattore allostatico e fattore circadiano, che vediamo di seguito:

  • fattore omeostatico: se l’organismo è privato del sonno, tende a recuperare almeno una parte del sonno perduto non appena gli è possibile.
  • Fattore allostatico: il termine ‘allostatico’ si riferisce alle reazioni ad eventi ambientali stressanti (per esempio, se siamo minacciati da una situazione pericolosa è importante rimanere svegli e vigili).
  • Fattore circadiano: i ritmi biologici circadiani sono ritmi a cadenza quotidiana, che si adattano all’alternanza del giorno e della notte e che regolano la maggior parte delle nostre funzioni corporee. Le funzioni corporee – metabolismo, pressione sanguigna, temperatura corporea, tono muscolare, ciclo sonno/veglia etc – hanno variazioni periodiche in un lasso di tempo di circa 24 ore. Il corpo umano è come dotato di un orologio endogeno che coordina e gestisce velocità, intensità ed efficacia della maggior parte delle nostre funzioni. I fattori circadiani, pertanto, restringono il sonno in particolari periodi del ciclo giorno/notte.

Il sonno è uno stato di coscienza alterato in cui possiamo vedere e sentire soltanto quel che è presente nella nostra mente, tuttavia attraverso il sogno possiamo integrare inconsciamente elementi esterni nel sonno. Sonno e sogno difendono la nostra salute mentale. Il sonno è di vitale importanza per l’organismo: una deprivazione del sonno altera gli stati di coscienza e comporta difficoltà di concentrazione e di applicazione di compiti, mancanza di lucidità, allucinazioni, deliri e, in casi estremi, compromissione fisica e mentale, collasso e morte.

Sonno e aree cerebrali

Dal punto di vista neurobiologico, il sonno è un processo attivo e ritmico indotto da diverse aree cerebrali:

  • Nuclei della formazione reticolare: essi sono situati nel ponte, il punto di transizione tra encefalo e midollo spinale, e la loro funzione principale è quella di attivare o disattivare le funzioni cerebrali in base all’utilizzo di neurotrasmettitori eccitatori o inibitori. Nel caso del sonno, i nuclei del rafe utilizzano la serotonina apportando un effetto inibitorio sui nuclei della base per indurre e mantenere il sonno, mentre il locus coeruleus utilizza la noradrenalina apportando un effetto eccitatorio. Lo stato di sonno e di veglia dipende dal diverso strato della formazione reticolare e dal rapporto tra i suoi nuclei e il talamo.
  • Ipotalamo: il pacemaker circadiano è localizzato nel nucleo sovrachiasmatico dell’ipotalamo anteriore che è influenzato dal ciclo luce/buio, dalla temperatura e da fattori ormonali. Nello specifico, il sonno è indotto dall’area preottica ventrolaterale dell’ipotalamo, che inibisce GABA e galanina, cioè il sistema attivante la veglia.
  • Talamo: il talamo è la stazione di controllo dei segnali afferenti verso la corteccia. Influenza i fusi del sonno e controlla lo stato di coscienza e la transizione sonno-veglia.

Con la scoperta delle onde alpha e l’introduzione dell’elettroencefalogramma (EEG) – che registra l’attività elettrica del cervello mediante macroelettrodi collocati sul cuoio capelluto – si è iniziato uno studio scientifico e sistematico del sonno.

Le fasi del sonno

Dai tracciati dell’EEG in fase di veglia e sonno sono emerse varie fasi di funzionamento:

  • Stadio 0 o veglia rilassata: in questa fase si registrano onde alpha di modesta ampiezza, irregolari e di alta frequenza.
  • Stadio 1 o dormiveglia: è la fase di addormentamento o sonno leggero, in cui la frequenza e l’ampiezza delle onde cominciano a ridursi. Si entra nel sonno e compaiono onde theta.
  • Stadio 2 o sonno medio: questa fase è caratterizzata da onde miste di varia intensità con fusi del sonno, che garantiscono un sonno indisturbato da sollecitazioni leggere, e complessi K, rapide e improvvise deflessioni verso l’alto e verso il basso, periodi isolati di inibizione neurale implicati nel consolidamento della memoria.
  • Stadio 3 o sonno sincronizzato: il sonno diventa profondo, le punte delle onde si fanno più ampie e numerose e compaiono onde delta.
  • Stadio 4 o sonno profondo (o ad onde lente):  il soggetto si desta con difficoltà, le onde sono lente e ampie, così come è lento il battito cardiaco, ed è la fase del sonno più riposante. Alla fine di questo stadio ricompaiono le onde theta, i complessi K e i fusi del sonno. I quattro stadi  – stadio 1, stadio 2, stadio 3 e stadio 4 – compongono la fase NON REM del sonno, una delle due macroaree del sonno, che è caratterizzata da una sincronizzazione dell’EEG (onde lente), tono muscolare moderato, assenza di attività genitale, movimenti oculari lenti o assenti.

Dallo stadio 4 del sonno NON REM si passa alla fase REM, l’altra macroarea del sonno. La fase REM del sonno corrisponde circa al 20% del sonno totale, è caratterizzata da una desincronizzazione dell’EEG, presenta onde piccole, veloci e irregolari, movimenti oculari con palpebre chiuse (REM è acronimo di “Rapid Eyes Movements”). In questa fase, denominata anche ‘sonno paradosso’, il cervello è attivo, ma il sonno è profondo. Il tono muscolare è assente, il corpo è pressoché paralizzato, in quanto la maggior parte dei motoneuroni centrali e spinali risulta inibita e la temperatura corporea continua ad abbassarsi. Il flusso ematico cerebrale e il consumo di ossigeno sono accelerati (la velocità del flusso ematico aumenta in corrispondenza della corteccia visiva associativa riflettendo le allucinazioni visive indotte dai sogni e si abbassa a livello della corteccia visiva primaria riflettendo il fatto che gli occhi non ricevono alcun imput visivo), il battito cardiaco e la pressione sanguigna aumentano. Durante alcuni momenti della fase REM si evidenziano nell’uomo l’erezione del pene mentre nella donna la stimolazione del clitoride e secrezioni vaginali. La fase REM è inoltre caratterizzata dalla comparsa dei sogni – che assumono una forma narrativa; il sogno è una particolare forma di pensiero fantasticato e sganciato dalla realtà, l’aspetto che assume l’attività psichica durante il sonno. Se di notte ci capita di svegliarci durante la fase REM ricorderemo il nostro sogno. Se ci capita di svegliarci durante uno degli stadi della fase N-REM non ricorderemo il nostro sogno. L’intero ciclo di sonno si ripete 4-5 volte ogni notte e ognuno di essi dura 90-110 minuti, di cui 20-30 minuti di sonno REM. Per l’esattezza, la differenziazione tra sonno REM e sonno N-REM sussiste a partire dai sei mesi di vita del bambino, età in cui la struttura del sonno viene interpretata come quella dell’adulto: la sola diversità sta nella durata dei cicli di sonno e nella quantità di tempo impiegata in ogni stadio. Durante la primissima infanzia i bambini hanno bisogno di dormire per un periodo di tempo compreso tra le 14 e le 18 ore; solo verso le otto settimane di vita comincia ad allungarsi il sonno notturno e a diluirsi quello diurno. Precisamente il sonno nella prima infanzia – prima, in ogni caso, dei sei mesi di vita –  è strutturato in sonno attivo (corrisponde al futuro sonno REM, occupa la metà del tempo di sonno totale e comprende cicli di 60 minuti) e sonno calmo (che corrisponde al futuro sonno N-REM e occupa l’altra metà di tempo).

Sonno e attaccamento infantile

Il sonno è strettamente connesso all’attaccamento infantile: esso è regolato da processi psicofisiologici che determinano una diminuzione significativa dei livelli di vigilanza e arousal; affinché tali processi si verifichino è necessario che il soggetto percepisca un sufficiente senso di sicurezza fisica ed emozionale: dormire bene è garantito da uno stile di attaccamento sicuro. L’attaccamento sicuro, infatti, determina la modalità di tratto di regolazione delle emozioni, la reattività allo stress del bambino e la maturazione psicobiologica. Attraverso un’esperienza ripetuta di regolazione positiva fornita dai genitori, il bambino assimila un attaccamento sicuro, grazie al quale è capace di maturare strategie autoregolatorie che facilitino l’addormentamento e il riaddormentamento dopo un risveglio notturno anche in assenza del genitore e che ottimizzino la qualità del sonno.

Insonnia e disturbi del sonno

Uno dei principali disturbi del sonno è l’insonnia: l’insonnia è un disturbo del sonno caratterizzato da una reiterata difficoltà di inizio, mantenimento, durata e qualità del sonno. L’insonnia è presente nonostante l’opportunità di ottenere quantità e condizioni di sonno adeguate. Presenta sintomi diurni – sonnolenza, irritabilità, difficoltà sociali e occupazionali, calo del tono dell’umore, fatica e malessere, difficoltà di concentrazione e di memoria, riduzione della motivazione, dell’energia e dell’iniziativa, propensione ad errori ed incidenti e apprensione nei confronti del sonno – e sintomi notturni – difficoltà di inizio e mantenimento del sonno e sonno leggero o non ristorativo.

L’insonnia indica l’incapacità di addormentarsi dopo un risveglio notturno o dopo esser andati a letto, ma va definita in relazione alle necessità individuali di ore di sonno: non è necessariamente costante nel tempo per sintomi ed entità e ha una componente di percezione soggettiva e caratterizzante. L’insonnia rappresenta un problema occasionale per il 25% della popolazione, mentre per il 9% un disturbo persistente. Può trasformarsi in sintomo vero e proprio quando è causata da angoscia e disagio ma può anche derivare da fattori indipendenti dalla sfera psicologica.

Esistono quattro principali tipi di insonnia:

  • Insonnia idiopatica: insorge in età infanto-giovanile e perdura per tutta la vita, non è influenzata da stress o fattori ambientali ma dalla familiarità e la causa è un anomalo controllo dei meccanismi che regolano il ciclo sonno/veglia.
  • Insonnia psicofisiologica: rappresenta il 15% delle insonnie, prevale nelle donne e nelle persone di mezza età; insorge dopo un evento stressante e chi ne soffre mostra apprensione per la sua difficoltà di addormentarsi, avverte il bisogno di dormire ma appena si reca a letto non riesce ad addormentarsi ed è altamente suscettibile a sollecitazioni esterne.
  • Pseudoinsonnia: non è un vero e proprio disturbo a livello clinico, indica la percezione soggettiva di un disturbo del sonno senza apparenti reperti di alterazione oggettiva; le persone che ne soffrono riportano di dormire poco o di non dormire affatto o di avere un sonno poco ristorativo, ma ciò è smentito generalmente dai partner di letto. In realtà, il riposo per il numero totale di ore rientra nella norma, ma durante la notte avvengono micro-risvegli, dovuti ad un’eccessiva attività mentale, che comportano una frammentazione della qualità e della continuità del sonno.
  • Apnea morfeica: particolare forma di insonnia caratterizzata da incapacità di dormire e respirare contestualmente; le persone che ne soffrono si addormentano e smettono di respirare. Durante una crisi di apnea morfeica, il livello ematico di anidride carbonica stimola i chemiorecettori, la persona quindi si sveglia annaspando profondamente in cerca di aria. Il livello ematico di ossigeno torna normale, la persona si addormenta di nuovo e il ciclo ricomincia da capo.

L’insonnia può manifestarsi fin dalla prima infanzia: i disturbi di insonnia in età infantile costituiscono uno dei principali motivi di consultazione pediatrica. Si stima che circa il 30% dei bambini in età pediatrica dorma male e che durante i primi tre anni di vita i disturbi di insonnia riguardino soprattutto le difficoltà di addormentamento e i risvegli notturni. La base eziopatogenica, in tal caso, quasi sempre è rappresentata da un’interazione multifattoriale di variabili fisiologiche, genetiche, costituzionali e legate all’interazione tra bambino e caregiver; solo in meno del 20% di casi di insonnia infantile si riconosce una causa organica. La diagnosi di insonnia in età pediatrica non viene mai emessa al di sotto dei sei mesi di vita, dal momento che i risvegli notturni sono assolutamente fisiologici e normali a quest’età. Le difficoltà di addormentamento e mantenimento del sonno o entrambe, quando il bambino è molto piccolo, spesso derivano da associazioni inappropriate e disfunzionali col sonno, determinate da una dipendenza del bambino da specifiche situazioni stimolo (es. il bambino necessita di essere cullato per potersi addormentare), dal setting (es. presenza del genitore nella stanza da letto del bambino) o da un oggetto (es. un ciuccio). L’assenza di tali condizioni potrebbe determinare un ritardo netto nella fase di inizio del sonno, tuttavia il bambino sarebbe nuovamente in grado di recuperare la capacità di addormentarsi qualora venissero ripristinate le suddette condizioni.

 

La realtà virtuale (VR) nel trattamento di Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder. La terapia di esposizione allo stimolo nella VR: perché funziona e le prove di efficacia

Diversi studiosi si sono occupati di esplorare ed indagare nuove opzioni di trattamento per i disturbi alimentari, tra cui Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder, e una direzione particolarmente promettente prevede l’integrazione della realtà virtuale (VR) con i trattamenti evidenced-based (EBT) già esistenti

 

I disturbi alimentari (DA) sono disturbi mentali diffusi, invalidanti e spesso cronici (Carvalho et al., 2017) e spesso comportano gravi conseguenze psicologiche e fisiologiche (APA, 2013). Secondo il DSM-5, si caratterizzano per un disturbo persistente dell’alimentazione o per comportamenti ad essa correlati che determinano un consumo alterato di cibo che compromette la salute fisica e il funzionamento psicosociale. In questo articolo faremo particolare riferimento ai disturbi alimentari di tipo binge-purge (Carvalho et al., 2017): Bulimia Nervosa (BN) e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, chiamato anche Binge Eating Disorder (BED).

Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder

Bulimia e Binge Eating Disorder si caratterizzano per un modello di alimentazione disordinata la quale consiste in episodi di consumo insolitamente elevato di cibo, in un determinato periodo di tempo, accompagnati da sensazioni soggettive di perdita di controllo (APA, 2013). Nella bulimia, gli episodi di abbuffate sono seguiti da comportamenti compensatori inappropriati per evitare l’aumento di peso. Il comportamento più comune è il vomito auto-indotto, seguito poi dall’abuso di lassativi, il digiuno o eccessivo esercizio fisico. Nel Binge Eating Disorder (BED), invece, gli episodi di perdita di controllo sono spesso seguiti da vergogna, orrore o pensieri depressivi. Questi episodi di alimentazione incontrollata che caratterizzano bulimia nervosa e BED possono essere innescati da fattori emotivi e ambientali, come un evento di vita significativo, spesso correlato a perdita, cambiamenti significativi della vita dai quali scaturiscono autocritica nell’individuo o che portano a sperimentare affetti negativi, angoscia e solitudine (Burton & Abbott, 2017).

Il trattamento di Bulimia Nervosa e Binge Eating Disorder

Le Linee Guida di pratica clinica (NICE, 2017) raccomandano la terapia cognitiva comportamentale (CBT) come approccio psicoterapico più efficace. Tuttavia, in media solo il 50% dei pazienti va in remissione mentre il 24% abbandona prima di completare il trattamento (Brown et al., 2020). Per questo motivo diversi studiosi si sono occupati di esplorare ed indagare nuove opzioni di trattamento per i disturbi alimentari e una direzione particolarmente promettente prevede l’integrazione della realtà virtuale (VR) con i trattamenti evidenced-based (EBT) già esistenti. La realtà virtuale (VR) può essere descritta come “una forma avanzata di interfaccia uomo-computer che consente all’utente di interagire e immergersi in un ambiente generato dal computer in modo naturalistico” (Schultheis & Rizzo, 2001). L’aspetto fondamentale per la funzionalità e l’efficacia della realtà virtuale è che sia in grado di suscitare il senso di presenza, ovvero la sensazione di “esserci” effettivamente all’interno dell’ambiente digitale che sostituisce le percezioni reali (Riva, 2021). Affinché ciò si realizzi, sono necessari due fattori: immersione e interazione (Gorini et al., 2010). L’immersione avviene attraverso l’utilizzo del dispositivo tecnologico che consente agli utenti di sentirsi fisicamente presenti nel mondo virtuale. L’interazione si ottiene permettendo agli utenti di interagire con il mondo virtuale in tempo reale, quindi vivere l’ambiente virtuale come reale o molto simile al reale. Maggiore è il senso di presenza percepito, più è realistica l’esperienza virtuale e più è intenso il coinvolgimento emotivo degli utenti, e di conseguenza si sperimenta un più alto livello di reazioni (Gutiérrez-Maldonado et al., 2006; Gorini et al., 2010). Infine, sempre con lo scopo di suscitare una risposta emotiva paragonabile a quella reale nei soggetti che l’utilizzano, è di fondamentale importanza che gli ambienti virtuali siano clinicamente significativi tali da evocare le paure e i pensieri sperimentati nella vita reale (Perpiñá et al., 2003).

Disturbi alimentari e realtà virtuale

Negli ultimi 25 anni, una delle applicazioni cliniche più efficaci della realtà virtuale è stato l’ambito dei disturbi alimentari (DA) con lo sviluppo di approcci terapeutici innovativi (Clus et al., 2018; Gutiérrez-Maldonado et al., 2016; Ferrer-García et al., 2013). Tra questi, uno degli interventi clinici più comuni nei DA quali bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata, è la terapia di esposizione allo stimolo (in inglese Cue Exposure Therapy, CET) in VR.

La CET si basa sul modello di condizionamento classico dell’alimentazione incontrollata (Jansens, 1998): l’esposizione graduale e ripetuta ad un segnale di abbuffata mira ad estinguere l’associazione tra il segnale (stimolo condizionato, CS) e la risposta disadattiva (stimolo incondizionato, US). In quest’ottica, la vista, il gusto, l’olfatto o il contesto in cui si mangia sono considerati stimoli che determinano in modo affidabile l’assunzione di cibo e possono agire come stimoli condizionati (CS), e l’assunzione di cibo è considerata uno stimolo incondizionato (US). La presenza degli stimoli condizionati suscita risposte fisiologiche che vengono vissute come desiderio intenso (es: irresistibile voglia di mangiare) e possono aumentare la probabilità degli episodi di abbuffate. Lo scopo di tale procedura di intervento è estinguere e/o abituare il desiderio intenso e incontrollabile per il cibo (craving) e le risposte ansiose in risposta agli stimoli legati al cibo, riducendo in questo modo il rischio associato all’episodio di abbuffata nei pazienti con bulimia nervosa e binge eating disorder (Ferrer- García et al., 2019; Gutiérrez-Maldonado et al., 2016). In termini più semplici, l’intervento mira a rompere il legame tra gli stimoli condizionati e l’innesco dell’episodio di abbuffata.

Utilizzare la realtà virtuale nell’applicazione di tale intervento offre diversi vantaggi rispetto all’esposizione tradizionale (in vivo o per immagini) per ridurre il desiderio di cibo e i livelli di ansia. Innanzitutto, la realtà virtuale permette di entrare in simulazioni sicure ed ecologiche degli scenari di vita reale, molto più simili e rappresentative delle situazioni in cui di solito si verificano i comportamenti alimentari disfunzionali. Inoltre, la realtà virtuale permette di erogare ripetutamente gli stessi segnali e scenari con una ricca stimolazione multisensoriale, consentendo quindi di attenuare la risposta e allo stesso tempo di graduare la difficoltà e personalizzarla per ogni specifico paziente.

VR-CET per pazienti Bulimia e Binge Eating Disorder

Diversi studiosi si sono occupati di indagare l’efficacia della VR-CET come terapia di secondo livello in gruppi di pazienti con bulimia e BED, e hanno ottenuto risultati molto promettenti.

In particolare, in uno studio randomizzato e controllato con un follow-up di 6 mesi (Ferrer-García et al., 2017; Ferrer-García et al., 2019), un campione di pazienti con bulimia e BED, in seguito al fallimento del trattamento cognitivo-comportamentale (cognitive behavior therapy, CBT), è stato esposto, in sei sessioni di realtà virtuale, ad una gerarchia di ambienti virtuali che simulavano varie situazioni legate al cibo in cui erano presenti alimenti precedentemente valutati come quelli che innescano i più alti livelli di desiderio (es: cibo ad alto contenuto calorico, cucina). I risultati di tale studio riportano un miglioramento dell’ansia legata all’alimentazione sia a breve che a lungo termine, una riduzione significativa del numero di episodi di abbuffata e di eliminazione, ed una riduzione della tendenza auto-riferita a mettere in atto episodi in perdita di controllo, pensieri legati al desiderio di cibo e all’ansia, rispetto ad un gruppo di controllo che era stato sottoposto a sessioni aggiuntive di CBT. Inoltre, tutti i pazienti hanno mostrato riduzioni significative nei punteggi clinici al questionario che misura la presenza del disturbo alimentare (Eating Disorder Inventory, EDI, Garner et al. 1983), in particolare nella scala relativa alla spinta alla magrezza e all’insoddisfazione per il corpo, indipendentemente dal gruppo di appartenenza.

Infine, una recente metanalisi ha dimostrato l’efficacia dell’intervento della VR nel ridurre la frequenza delle abbuffate evidenziando il potenziale della realtà virtuale nell’aiutare i pazienti con BED e bulimia nervosa a sviluppare strategie di coping verso gli stimoli alimentari e situazionali (Low et al., 2021). Come nello studio precedente, è stato riscontrato che l’esposizione al segnale in VR sia particolarmente efficace nel ridurre l’intenso desiderio del cibo e l’ansia associata, che tipicamente innescano episodi di abbuffata nei pazienti con BED e bulimia nervosa (Brown et al., 2020; Burton & Abbott, 2017).

In conclusione, si può affermare che la letteratura dimostra come la VR-CET sia valida ed efficace come trattamento di secondo livello per pazienti con bulimia nervosa e BED, in quanto non solo riduce la frequenza di comportamenti di perdita di controllo e compensatori, ma permette anche un miglioramento della reazione emotiva legata al cibo in termini di ansia e di desiderio.

 


Dialogo sul lavoro e la felicità (2021) di Paolo Iacci e Umberto Galimberti – Recensione

Il libro Dialogo sul lavoro e la felicità tratta la complessità del mondo del lavoro oggi, chiedendo se possa essere uno strumento di realizzazione della propria identità, oltre che un mezzo di sopravvivenza.

 

Oggi viviamo in mondo basato sul mito del successo e dove solo il possesso di denaro è basilare per consentire una vita felice. Non sappiamo più cosa sia giusto o sbagliato, cosa ci rende felici o infelici, sappiamo solo ciò che è utile e ciò che ci fa guadagnare.

É possibile svegliarsi ogni mattina ed essere felici di andare a lavoro? Come può il lavoro essere fonte di benessere non solo economico, ma anche emotivo? E soprattutto, quando abbiamo smesso di chiederci cosa ci rende davvero felici, cosa favorisce la realizzazione del nostro sé più autentico?

Non aspettatevi misteri finalmente risolti o risposte semplicistiche. Questi interrogativi nel dialogo tra Galimberti e Iacci partono da un’analisi più filosofica della conoscenza che l’uomo deve avere di se stesso per raggiungere la felicità (intesa come scopo della vita), fino ad indagare le logiche del mercato su cui si fonda la società contemporanea e la conseguente perdita di senso generale cui assistiamo oggi, a partire dai più giovani. Perché se esiste una certezza, è che per inseguire il mito del successo e del denaro, stiamo dimenticando di chiederci cosa ci appassiona veramente, cosa ci piace fare, ci stiamo dimenticando di fare l’unica cosa che può dare un senso alla nostra vita, cioè esprimere noi stessi. Il senso della vita risiede in quello che siamo, che abbiamo fatto e che stiamo facendo. Galimberti e Iacci non pretendono di avere la verità in tasca, ma di indurre una riflessione profonda, attraverso uno scambio quanto mai stimolante, illuminante, provocatorio, educativo.

Oggi manca lo scopo, affermano le due menti. Un numero sempre più elevato di giovani si domanda perché dovrebbe investire energie ed impegnarsi se già sa che con grandi difficoltà potrà raggiungere stabilità economica; perché studiare se non si hanno speranze di trovare un lavoro che possa essere fonte di soddisfazione. Può il lavoro effettivamente essere la leva di sviluppo dei propri talenti, di realizzazione della propria identità e non solo un mezzo di sopravvivenza, più o meno agiata? In una società in cui siamo abituati a misurare il nostro valore a suon di like vi è l’urgenza di educare alla sensibilità, ai sentimenti, ad una visione della vita fatta tutt’altro che di sicurezze. E questo a partire dalle agenzie primarie: la famiglia e la scuola. Ai bambini bisogna dire la verità, spiegare che nella vita non tutto è garantito e che non ci sarà per sempre il genitore a risolvere i problemi; un’adeguata educazione emotiva ridurrebbe, forse, questa sperimentazione di angoscia e insignificanza nei giovani. La scuola, dal canto suo, non dovrebbe formare “futuri diplomati parcheggiati all’università”, ma insegnare che i libri, i contenuti, servono per imparare a pensare, a sviluppare l’abilità del pensiero critico per andare oltre ai significati evidenti delle cose; ad avere delle idee proprie, a non diventare vittime di un sistema o di ritmi imposti dall’esterno. E infine, c’è bisogno di educazione ai sentimenti anche nelle organizzazioni, poiché il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova. Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa il giusto uso, scrive Wittgeinstein.

Una vita all’insaputa di chi siamo veramente non è degna di essere vissuta.

 

La relazione tra nevroticismo e aritmia sinusale respiratoria durante il COVID-19

La pandemia di coronavirus (COVID-19) ha segnato un periodo di crisi che ha portato a profondi cambiamenti di vita.

 

Il 21 gennaio 2020 è stato identificato il primo caso di COVID-19 negli Stati Uniti (Schuchat, 2020), mentre il 22 marzo New York City era un epicentro globale della pandemia, rappresentando oltre il 5% dei casi nel mondo (Evelyn, 2020; Szency & Nelson, 2021). Sono state adottate misure urgenti per controllare la diffusione di COVID-19 e gli individui dovevano adattarsi a restrizioni mutevoli come confinamento in casa, imprevisti finanziari e incertezza riguardo al rischio di infezione (Szency & Nelson, 2021).

L’aritmia sinusale respiratoria

La variabilità della frequenza cardiaca (HRV) è un marcatore transdiagnostico di rischio per la psicopatologia (Beauchaine & Thayer, 2015). Nello specifico, è una misura della capacità del sistema nervoso autonomo di rispondere in modo flessibile e di adattarsi agli stimoli nell’ambiente. Un indicatore dell’HRV pensato per indicizzare il controllo vagale del sistema nervoso parasimpatico è l’aritmia sinusale respiratoria (RSA). Come l’HRV, l’RSA viene misurata esaminando le variazioni di tempo tra battiti cardiaci consecutivi, ma si differenzia dall’HRV, che esamina specificamente la variazione durante i cicli respiratori. L’RSA misura l’aumento della frequenza cardiaca durante l’inspirazione e una sua diminuzione durante l’espirazione, è quindi una misura della modulazione parasimpatica del cuore tramite il nervo vago. La ricerca suggerisce che indici RSA a riposo, quindi più bassi, portano ad una minore regolazione delle emozioni e della capacità di funzionamento esecutivo (Beauchaine, 2015; Hamilton & Alloy, 2016). Le metanalisi hanno trovato che l’RSA è associata ad ansia e a disturbi depressivi (Chalmers et al., 2014; Koenig et al., 2016), in quanto risulta essere un marcatore di depressione, della gravità dei sintomi e della risposta al trattamento (Chambers & Allen, 2002).

I tratti di personalità e il nevroticismo

Il modello a cinque fattori è uno dei modelli di personalità più utilizzati e ben supportati. Questo modello sostiene che la personalità può essere definita da diversi tratti, attraverso cinque dimensioni: amicalità, estroversione, apertura all’esperienza, stabilità emotiva e coscienziosità (McCrae & John, 1992). Il modello a cinque fattori ha guadagnato molta attenzione negli ultimi anni, portando diversi ricercatori ad indagare i suoi legami con la psicopatologia. Benché la ricerca supporti le relazioni tra tutti e cinque i tratti e le varie forme di psicopatologia (Malouff et al., 2005), alcune ricerche mostrarono che il nevroticismo riflette una disposizione caratteristica a sperimentare emozioni negative (Lahey, 2009). Quest’ultimo mostra forti relazioni con l’insorgenza di disturbi internalizzanti, suggerendo che può riflettere una responsabilità generale per la psicopatologia (Kotov et al., 2010; Tackett et al., 2008). Lo studio di Liu e colleghi (2020) indica che un maggiore nevroticismo è associato ad un aumento dello stress, mentre Kroenke e colleghi (2020) evidenziano un aumento degli effetti negativi (Kroencke et al., 2020) durante la pandemia di COVID-19.

Sintomi internalizzanti durante la pandemia di Covid-19

Prima dell’analisi di Szency e Nelson (2021), nessuno studio ha esaminato se la RSA predice i cambiamenti nei sintomi internalizzanti durante la pandemia di COVID. Gli obiettivi di questo studio sono l’indagine dei cambiamenti interni alle persone durante la pandemia di COVID a New York, l’identificazione delle esperienze specifiche che potrebbero contribuire all’internalizzazione dei sintomi e l’analisi dell’RSA e del nevroticismo pre-COVID, visti come predittori di cambiamenti nei sintomi di internalizzazione. Sono stati reclutati 222 studenti dell’università di Stony Brook, a Long Island, che hanno svolto dei test e delle misurazioni con l’elettrocardiogramma (ECG) per valutare i sintomi di ansia e depressione. Nello specifico, il test somministrato prima e durante la pandemia è l’Inventory of Depression and Anxiety Symptoms (IDAS-2; Watson et al., 2012), mentre quelli somministrati prima sono il Big Five Inventory (BFI; John & Srivasta, 1999), il Respiratory Sinus Arrhythmia (RSA; Allen et al., 2007) e il Pandemic Experiences Survey, un disegno di ricerca coniato dai ricercatori dell’esperimento per indagare i vari cambiamenti di vita relativi alla pandemia di COVID-19 (Szency & Nelson, 2021). I risultati della ricerca indicano come un aumento dei sintomi di disagio è associato ad un numero maggiore dei cambiamenti di vita, i sintomi di paura ed ossessione alle preoccupazioni per l’infezione e per la necessità dei bisogni di base, mentre una diminuzione dell’umore è associata a preoccupazioni maggiori sulla scuola e sul confinamento sociale (Szency & Nelson, 2021). Come osservato con l’IDAS-II, il nevroticismo è l’unico fattore di rischio pre-pandemico associato ad un aumento dei sintomi di disagio e ad una diminuzione delle caratteristiche positive dell’umore. Esiste un’interazione tra nevroticismo ed RSA in relazione ai sintomi di angoscia, ma solo quando l’RSA è basso. Questi risultati suggeriscono che la pandemia di COVID-19 ha contribuito ad aumentare i sintomi internalizzanti nei giovani adulti e i fattori di rischio possono portare ad un maggior rischio di sviluppare psicopatologie, in quanto diversi aspetti della pandemia potrebbero contribuire a particolari cambiamenti nell’interiorizzazione stessa (Szency & Nelson, 2021).

 

Il delirio come risposta dinnanzi a un’impronta psicopatologica insita nell’esperienza – Il ruolo del delirio nella ridefinizione del proprio Sé

Il delirio, in rapporto alle vicende traumatiche, evidenzia il delinearsi di un forte desiderio individuale di “essere parte del mondo”, con modalità differenti, nuove, accompagnate da una concezione della realtà altrettanto autentica.

 

Esso verrebbe ad assumere un valore teso a ripristinare il senso di continuità del proprio Sé, della propria realtà e soprattutto del proprio tempo interiore.

Questa forma psicopatologica circoscritta alla sfera del pensiero non la si vuole descrivere come una dimensione di cui si è prigionieri, bensì come una cornice all’interno della quale è possibile (trovandovi la spiegazione di tutto) trovare una nuova identità, all’interno della quale emerge un nuovo dipinto che non solo lascia il segno, ma che inizia ad assumere una forma, una sua cornice autentica e fortemente personale.

Come sottolineato da Tustin (1981): in soggetti che presentano croniche storie di trascuratezza, le emozioni traumatiche popolano quella parte della psiche definibile come “inconscio non rimosso”. Esse inoltre sembrano dare forma alla nascita e nondimeno alla costituzione di veri e propri “buchi corporei”, capaci peraltro di evocare un vissuto terrificante, tipico dei quadri sia psicotici che borderline.

Questi buchi e, come detto sopra, queste fessure assumono pienamente le sembianze di una voragine o meglio ancora di un vuoto. In riferimento a questa tesi il contributo di Giuseppe Craparo (2017) è volto ad evidenziare come tali emozioni impediscano notevolmente al soggetto di fare e di vivere un’esperienza consapevole dei propri stati mentali, che vengono mantenuti ad un livello pre-simbolico, sensoriale e peggio ancora primitivo.

Ciò che non è stato detto e che non si riesce ad inquadrare in una cornice simbolica, sfocia in un vissuto sensoriale, caratterizzato dall’impiego di difese dissociative, come modalità di gestione del dolore.

Tali modalità e soprattutto tali sensazioni sopra descritte sono state riprese più nello specifico dalla figura di R. Meares, (2015) che ha approfondito la dinamica del disturbo borderline.

Ciò che l’autore vuole evidenziare è una identità connotata da senso di vuoto, paura della solitudine e soprattutto instabilità nell’immagine di Sé. Inoltre Roy Grinker (2015), fondatore dell’Istituto di psicosomatica di Chicago, ha aggiunto come la condizione di tale disturbo non debba configurarsi come una regressione, bensì come una mancata maturazione del Sé.

Infatti una delle principali conseguenze può essere rintracciata in un ambiente relazionale pienamente fallimentare. Nondimeno la figura di Judith Herman consente di porre l’accento sulle varie modalità o meglio ancora sulle varie strategie di adattamento sia all’ambiente che alla sfera interna.

Se quindi l’esperienza traumatica può rappresentare il punto di partenza, ad essere molteplici sono le modalità di risposta individuali, volte a restituire un senso alla propria identità e soprattutto alla propria esperienza corporea e temporale, le quali subiscono drastiche modifiche.

Che ruolo ricopre il delirio nella propria cornice psichica?

Giunti a questo punto viene da chiedersi quale ruolo rilevante possa ricoprire il delirio e se possa rappresentare una modalità sia di risposta che di adattamento, ma anche e soprattutto uno strumento tramite il quale provare a sciogliere un nodo esperienziale celato ormai da troppo tempo.

Nella sua essenza il delirio è stato descritto come una sensazione di “scoperta”, caratterizzato dalla sensazione che la nuova idea affacciatasi alla coscienza permetta di “restaurare un ordine, di completare un quadro” (Rossi Monti, M. 2008, p. 5).

Meissner (1978) ha definito questo passaggio come “processo paranoico” funzionale ad organizzare un sistema di credenze coerente, che permette altresì al soggetto di interpretare la realtà e soprattutto di organizzarla in sintonia coi suoi bisogni di “adattamento”.

Se in una prima parte la mancata integrazione dovuta alle esperienze traumatiche non ha fornito una sequenza ed una scansione temporali, quella che viene a riscontrarsi è un’operazione finalizzata alla “integrazione stessa, al mantenimento dell’integrità e del senso di coesione del Sé”.

A voler essere raggiunti sono da una parte una gerarchia di significati e dall’altra una relazione con il mondo, il tutto al semplice scopo “chiarificatore”.

Volendo provare a rafforzare sempre più la connessione dell’aspetto delirante con la dimensione esperienziale e psicopatologica, in letteratura viene sottolineato il ruolo scatenante giocato dallo stress. Quest’ ultimo inteso a volte come l’apice di un background, la punta di un iceberg, dietro la quale si cela (come ribadito da Sanavio) una soglia oltre la quale le “capacità di fronteggiamento della persona cedono”.

Un’affermazione che deve far percepire lo stress come connesso a condizioni pienamente soggettive e di carattere relazionale. In questi casi infatti il delirio servirebbe a “tamponare una condizione altrimenti ingestibile”.

Il delirio e lo spazio tempo al confine con la psicosi

Nondimeno, come riportato da Antonio Correale (1995), il valore delirante sembra assumere dei connotati temporali. L’autore ha evidenziato per l’appunto una differenziazione tra il delirio nell’ambito della schizofrenia, che come ricorda Germani può riscontrarsi in alcuni casi di trauma estremo, e il delirio nel soggetto borderline.

Riprendendo in considerazione dunque l’importanza che il tempo e lo spazio assumono nella vita di ciascuno di noi e il rischio di essere bloccati nel passato a seguito di eventi dannosi e ripetitivi, Correale rimarca come nella prima condizione (schizofrenia) ad albergare la psiche del soggetto siano “mondi misteriosi” all’interno dei quali il tempo sembra fermo ed il passato pietrificato in alcuni scenari.

Nel secondo caso invece (borderline) il tempo è “velocissimamente fluttuante” ed il passato ridotto a pochi fantasmi ipersemplificati.

Quanto si viene a riscontrare è un ulteriore concetto ovvero quello della “momentaneizzazione”, che nel soggetto borderline è rappresentata dalla concentrazione sul presente.

Come sottolineato da Kimura Bin (1992) il rischio non solo è di perdere sé stessi, ma al contempo di sentirsi “assorbiti nell’immediatezza” in una sequenza di “ora -ora”. Con il conseguente rischio di una illusione connotata dal bisogno di colmare il vuoto, un tempo privo di fluidità e soprattutto uno spazio che risulta assente.

Come ribadito dall’autore manca la possibilità di riferirsi ad un futuro nel quale raggiungere finalmente la possibilità di “essere sé stesso”.

Se quindi nello schizofrenico la possibilità estrema di realizzazione della propria esistenza risiede nel suicidio, nel soggetto borderline non vi è una ricerca di “un futuro”, ma l’unione immediata con la “pura presenza”.

L’esperienza in cortocircuito

Pertanto in considerazione degli sviluppi traumatici è possibile notare come la loro ripetitività rischi di sbilanciare non solo il proprio rapporto con la sfera intrapsichica e con la realtà esterna, ma ancor di più come non sempre permettano la creazione di un “asse del tempo” che rappresenti da una parte la frontiera tra il passato ed il futuro e dall’altro un sano dialogo “tra entità indipendenti”.

Per avere una cornice che accolga quanto detto sin ora è opportuno un ulteriore contributo di Giaconia e Recalbuto (1997), secondo i quali “traumatiche sono tutte quelle vicende che non sono suscettibili di elaborazione psichica; accadimenti sia interni o esterni che non possono essere integrati nella realtà psichica, perché non vengono reperiti mezzi adeguati ad esprimere rappresentazioni di tali dati dell’esperienza”.

Vincenzo Bonaminio (2005), parla invece di una vera e propria “installazione residente del trauma”. Infatti con questo assunto si mette in risalto la serie di effetti indiretti del trauma stesso, connessi prevalentemente sia con il continuo lavoro di assorbimento che con la fatica di convivere con questi vuoti di pensiero in continua successione.

Due risposte che rischiano di portare ad una implosione e ad un tentativo di ripristinare, ricostruire la propria trama identitaria, che possa finalmente collocarsi nello spazio e nel tempo, ritrovando il giusto ritmo.

 

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