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Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il terzo episodio è dedicato alla Grandiosità

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la terza puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite il Dott. Giovanni Maria Ruggiero. Si parlerà di Grandiosità, ovvero la convinzione di essere superiori agli altri, di meritare un trattamento speciale. Perché per alcune persone “tutto è dovuto”? Scopritelo nel terzo episodio.

Dove ascoltare il terzo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il terzo episodio su:

 

After Life, il vangelo laico di Ricky Gervais – Recensione della Serie TV

After life è la storia di un uomo di nome Tony che perde l’amata moglie Lisa e rimane a vivere da solo con l’adorabile cane Brady che, come spesso ricorda il protagonista, lo salva più volte dal suicidio.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler!

Ho appreso della serie After life ideata e interpretata dal geniale Ricky Gervais solo poche settimane fa dal post di un amico e collega che invitava a guardarlo perché tra le altre cose ‘racconta della fatica di esistere, racconta di noi’. Mi ha incuriosito l’intensità del post del mio amico in un momento sicuramente pesante e difficile per tutti, così come mi è tornato alla mente l’indimenticabile sarcasmo delle prime puntate di The office di Ricky Gervais, che vidi in Inghilterra tanti anni fa, caratterizzato da un tipo di ironia per certi versi unica (per chi se l’è perso è una sorta di documentario su un goffo capoufficio narcisista e politically scorrect, che incappa in una situazione imbarazzante dopo l’altra).

Nella migliore tradizione della bulimia da serie che ti prende di brutto, ho divorato le tre stagioni in pochi giorni, terminando la terza con un po’ di dispiacere perché è l’ultima, ma pensando che meglio di così non si poteva fare e che non avrei corso il rischio di annoiarmi con una saga infinita.

After life è la storia di un uomo di nome Tony che perde l’amata moglie Lisa e rimane a vivere da solo con l’adorabile cane Brady che, come spesso ricorda il protagonista, lo salva più volte dal suicidio.

Tony e Lisa sono una coppia dalla complicità che fa davvero invidia, che emerge dai numerosissimi video girati negli anni di convivenza, che il protagonista guarda dal proprio laptop sul letto o sul divano bevendo birra o vino ogni volta che si trova a casa da solo. Tony lavora come giornalista in un piccolo giornale locale, il Tambury Gazzette, specializzato in notizie strambe e spesso inutili di persone comuni. La serie è ambientata in una cittadina inglese e la prima cosa che colpisce è che ci sia sempre il sole, in tutte le puntate, una trovata geniale che ti spiazza e ti porta in una dimensione quasi irreale. L’altro elemento che ho trovato potentissimo è la colonna sonora costituita per la maggior parte da canzoni eterne, di quelle che non ti stanchi mai di ascoltare, che sono state scritte quaranta anni fa ma potrebbero essere uscite la settimana scorsa (anzi purtroppo musica così non ne esce tanta di questi tempi). Rocket man di Elton John, Satellite of love di Lou Reed, Into my arms di Nick Cave, You got a friend nella versione di James Taylor (il brano è di Carole King), Not dark yet di Bob Dylan, solo per citare alcuni dei più famosi. Spesso alcuni di questi brani vengono proposti con l’introduzione allungata, in modo tale che si riconosce la canzone, ma c’è un effetto di dilatazione temporale e ulteriore sospensione, come per la luce perenne di prima.

Tony nelle prime puntate della serie è alle prese con una insistente ideazione suicidiaria. La sua vita ha perso di senso senza Lisa, è pieno di rabbia che sfoga verso i colleghi, gli amici e persino gli estranei. Tony è intelligente, sarcastico, disilluso, ateo e disperato. Oltre che nella presenza silenziosa del proprio cane cerca continuamente conforto nell’alcol. Anche i personaggi che lo circondano sono persone problematiche o per lo più infelici a partire dal direttore del giornale (che è pure suo cognato) e gli altri improbabili colleghi.

Tony cerca aiuto senza successo da un terapeuta davvero improbabile (qui Gervais è stato piuttosto impietoso verso la categoria) che rappresenta un perfetto esempio di mascolinità tossica, con clamorose violazioni del setting e della deontologia professionale. Non ne esce meglio l’istruttore di meditazione che viene prontamente mandato a quel paese dall’insofferente Tony (che soffre anche di una sorta di misofonia) al primo incontro di gruppo perché tira su col naso e biascica la tisana ayurvedica, tra un’istruzione di rilassamento e l’altra. Forse una delle scene più divertenti della serie, che avrò riguardato almeno cinque volte.

Sembra che nulla possa aiutare il protagonista a rendere più sopportabile il proprio dolore ma per fortuna due figure femminili sembrano portare un po’ di speranza. Una è Anna, una vedova saggia e gentile che Tony incontra sulla panchina del cimitero dove entrambi si recano quotidianamente a parlare coi rispettivi coniugi defunti. È Anna la vera terapeuta per Tony, con lei riesce ad aprirsi, si sente ascoltato e un po’ alla volta riesce a trasformare la propria rabbia (che all’inizio in qualche modo è stata funzionale e utile, forse salvandolo dal suicidio) in qualcosa di più utile per sé e per le altre persone, facendosi convincere a tornare a vivere.

Le chiacchierate sulla panchina sono di beneficio per entrambi e ovviamente arrivano a toccare temi religiosi e spirituali, fino al tema degli angeli che per Anna ‘indossano divise da infermiera e lavorano sodo per pagare l’affitto, alcuni lavorano per enti benefici, altri hanno quattro zampe e abbaiano. Tu sei il mio angelo, Tony’.

Il tema del ‘dopo vita’ pare molto sentito da Gervais, affrontato precedentemente in modo inconsueto e divertente anche nel film The invention of lying. Sembra che il messaggio che ci voglia trasmettere è che per una persona atea che non riesce a credere in future ricompense o realizzazioni, tanto valga cercare di trattare sé stesso e gli altri il meglio possibile per la durata della permanenza terrena, proprio per rendere questa permanenza a tempo determinato più sopportabile. Un messaggio laico e di buon senso che è difficile non condividere.

C’è un momento in cui la professione di giornalista lo porta ad entrare in contatto con bambini che stanno lottando contro la stessa malattia contro cui ha lottato la moglie e lì succede qualcosa di importante. Per la prima volta succede qualcosa di inaspettato: il Tony razionale inizia un po’ a traballare e il contatto con il dolore di qualcun altro ha una sorta di effetto catartico. Con la risposta a una domanda inaspettata, Tony rinuncia alla solita ostentazione della propria verità e dalla sua bocca esce una piccola bugia per sollevare il morale di un’altra persona in difficoltà.

È un passo importante per discostarsi dalla rigidità di una visione a senso unico che lo porta piano piano ad aprirsi maggiormente verso l’esterno, a guardare anche fuori di sé, iniziando a sentirsi parte di una comune umanità che cerca di sopravvivere ad ogni tipo di dolore. Forse è ancora presto per arrivare ad accettare una perdita così importante, ma è come se Tony quanto meno smettesse di essere solo il proprio dolore.

Tony continua a parlare con tutti dell’insostituibilità di Lisa, ma puntata dopo puntata scopre il potere della gentilezza e dell’altruismo, diventando il punto di riferimento per tanti ‘beautiful loosers’, per dirla alla Leonard Cohen, che ne apprezzano l’autenticità e la schiettezza. Non perde mai una certa dose di sarcasmo, non diventa mai melenso o buonista, ma si riapre un po’ alla volta alla vita e alle possibilità che offre di non isolarsi nel proprio dolore. Tony diventa la persona con cui prendere un caffè per confidare le proprie frustrazioni al lavoro, favorisce il fidanzamento tra il postino e una amica prostituta e l’incontro della stessa Anna con un altro vedovo solo.

L’altra figura femminile importante è l’infermiera Emma che assiste il padre affetto da demenza (che morirà alla fine della seconda serie). Tony è attratto da questa donna, dalla profonda umanità che mostra nell’accudire le persone anziane, ma non riesce andare oltre un sentimento di amicizia perché la presenza e il ricordo di Lisa sono ancora troppo forti nella sue mente. Anche questo delicato rapporto è raccontato senza retorica, senza uno scontato lieto fine.

Ricky Gervais ci regala con questa serie un piccolo miracolo di poesia e umanità, in grado di trasmetterci soprattutto la speranza, un bene davvero preziosissimo in questo periodo, di cui tutti abbiamo bisogno.

Do not stand at my grave and weep,
I am not there, I do not sleep.
I am a thousand winds that blow;
I am the diamond glints on the snow.
I am the sunlight on ripened grain;
I am the gentle autumn’s rain.
When you awaken in the morning’s hush,
I am the swift uplifting rush
Of quiet birds in circled flight.
I am the soft star that shines at night.
Do not stand at my grave and cry.
I am not there; I did not die.

 

AFTER LIFE – Guarda il trailer:

Il Modello della Cascata Emotiva come spiegazione della co-occorrenza tra Disturbi alimentari e Condotte Autolesive

I disturbi alimentari (DA), rappresentano una delle principali cause di mortalità tra gli adolescenti e i giovani adulti. Un’altra problematica che si sta diffondendo sempre più, soprattutto tra i giovani, è l’Autolesività non Suicidaria (Non-Suicidal Self-Injury; NSSI). Questo fenomeno si presenta spesso in comorbilità con altri disturbi mentali, inclusi i disturbi alimentari 

 

In particolare, per questa fascia d’età, la diagnosi di Anoressia Nervosa mantiene il primato per tasso di mortalità rispetto ad ogni altro disturbo mentale (Dalle Grave & Calugi, 2021).

Un’altra problematica che si sta diffondendo sempre più, soprattutto tra i giovani, è l’Autolesività non Suicidaria (Non-Suicidal Self-Injury; NSSI). Questo fenomeno si presenta spesso in comorbilità con altri disturbi mentali, inclusi i disturbi alimentari (Islam et al., 2015). Infatti, si stima che circa il 10% dei giovani sani metta in atto tali condotte. La percentuale aumenta drasticamente, variando dal 40% all’80% in una popolazione di adolescenti che presentano disturbi psichici (Varela-Besteiro et al., 2017). Si è inoltre riscontrato che avere una storia clinica pregressa di l’autolesività non suicidaria possa essere precursore di tentativi di suicidio, e sia correlato ad un aumento del rischio di morte a seguito di tali tentativi (Andover & Gibb, 2010).

Poiché sia i disturbi alimentari che l’autolesività non suicidaria danneggiano il funzionamento corporeo e sono associate ad un aumento del rischio di cronicizzazione e morte, rappresentano un serio rischio per la salute pubblica. Per questo motivo, la messa in atto di entrambi i comportamenti contemporaneamente è ancora più preoccupante (Claes & Muehlenkamp, 2014).

La comorbilità tra disturbi alimentari e condotte autolesive

Studi empirici hanno dimostrato come i disturbi alimentari e i comportamenti di autolesività non suicidaria si presentino spesso in comorbidità nella popolazione clinica (Zelkowitz & Cole, 2019). Infatti, in una revisione sistematica sull’argomento, è stato riscontrato che la percentuale di pazienti affetti sia da disturbi alimentari che da autolesività non suicidaria varia dal 13.6% al 68.1% (Svirko & Hawton, 2007). La prevalenza di autolesività non suicidaria sembra maggiore in pazienti con Bulimia Nervosa (BN) o in pazienti con Anoressia Nervosa (AN-BP) con abbuffate/condotte eliminatorie piuttosto che nell’Anoressia Nervosa di tipo restrittivo (AN-R) (Svirko & Hawton, 2007). Inoltre, i pazienti con sintomatologia DA di tipo bulimico purgativo sembrano mettere in atto condotte autolesive utilizzando più di un metodo rispetto a pazienti con altri tipi di disturbo alimentare (Muehenkamp et al., 2011). Un’analisi più recente stima che la prevalenza dell’autolesività non suicidaria nei soggetti con una diagnosi di disturbo alimentare sia del 27.3% e concorda con la letteratura precedente che tale dato sia più alto in pazienti con BN rispetto a quelli con AN-R (Cucchi et al., 2016).

Una delle possibili spiegazioni agli alti tassi di co-occorrenza, sta nel considerare il fenomeno dell’autolesionismo come uno spettro, in cui sia l’autolesività non suicidaria che i disturbi alimentari possono essere inclusi. Infatti, l’autolesionismo può essere definito come un insieme di metodi di auto danneggiamento sia diretti che indiretti, come ad esempio: l’autolesività non suicidaria, tentativi di suicidio, abitudini alimentari particolari, fumo e abuso di alcool o di sostanze psicoattive (St. Germain & Hooley, 2012). A prima vista, comportamenti come l’eccessivo introito di cibo, le condotte eliminatorie e la diminuzione della quantità di cibo assunta possono sembrare molto diversi da atti di autolesività diretta come tagli, bruciature e tutte le condotte categorizzate come autolesività non suicidaria, o da azioni suicidarie. Nonostante ciò, nella ricerca si sono notate alcune similarità di tipo concettuale tra atti di autolesività indiretta (incluse condotte alimentari disfunzionali e disturbi alimentari) e condotte di l’autolesività non suicidaria (Zelkowitz & Cole, 2019).

Inoltre, a causa del forte grado di sovrapposizione tra i due disturbi, che portano comunque
ad un danneggiamento fisico alla persona, è probabile che vi sia anche un’eziologia sottostante comune e che condividano alcuni fattori a livello epidemiologico e socioculturale (Svirko & Hawton, 2007).

Il Modello della Cascata Emotiva come spiegazione per Disturbi Alimentari e autolesività

Uno dei modelli eziologici che potrebbe spiegare i meccanismi che sottendono entrambe le problematiche è il Modello della Cascata Emotiva (ECM; Selby & Joiner, 2009). Secondo questa teoria, strategie cognitive di regolazione emotiva (e.g. ruminazione o repressione di emozioni negative) sono collegate alla messa in atto di comportamenti disfunzionali, come abuso di alcol o sostanze stupefacenti, autolesività non suicidaria e sintomatologia bulimica. Infatti, secondo il Modello della Cascata Emotiva le strategie cognitive disfunzionali amplificano l’intensità delle emozioni negative, che a loro volta svolgono un ruolo trigger per l’aumento dei pensieri negativi, creando così un circolo vizioso (cascata emotiva). La messa in atto di comportamenti disfunzionali viene quindi percepita dal soggetto come uso di strategie di coping utili a distrarsi dai processi ruminativi e dall’affettività negativa (Cuesta-Zamora et al., 2021). Infatti, strategie come l’alimentazione sregolata (abbuffate, condotte eliminatorie, esercizio fisico compulsivo o restrizioni alimentari) e l’autolesività non suicidaria rappresentano azioni fortemente stimolanti e coinvolgenti, in grado di far distaccare il soggetto dalle intense emozioni negative del momento (Claes & Muehlenkamp, 2014). Benché il modello della cascata emotiva sia stato testato su entrambe le problematiche separatamente, ad oggi è presente solo uno studio che prenda in considerazione l’applicazione di questa teoria come possibile spiegazione per la co-occorrenza di disturbi alimentari e autolesività non suicidaria (Arbuthnott et al., 2015). I risultati dello studio supportano parzialmente il modello della cascata emotiva. Infatti, alla prima elicitazione di pensieri ruminativi, soggetti con una storia clinica di disturbo alimentare e autolesività non suicidaria mostravano un aumento delle emozioni negative e una diminuzione dell’intensità delle emozioni positive maggiore rispetto a quanto riportato dal gruppo di controllo. Tali cambiamenti però erano riscontabili solo nelle fasi iniziali di esposizione ai processi ruminativi, tendendo a livellarsi durante le successive elicitazioni (Arbuthnott et al., 2015). Inoltre, si è riscontrato che soggetti con una storia clinica di entrambi i disturbi mostravano cambiamenti maggiori nell’intensità delle emozioni provate rispetto a soggetti che presentavano solo una delle due condizioni. Tuttavia, non si è riscontrato alcun effetto di interazione tra i due comportamenti.

Ciò suggerisce che disturbi alimentari e autolesività non suicidaria siano utilizzati dai soggetti in momenti diversi, per regolare emozioni diverse. In particolare, è possibile che l’autolesività non suicidaria sia utilizzata per regolare l’affettività negativa, mentre i disturbi alimentari siano utili per modulare l’affettività positiva (Arbuthnott et al., 2015).  Un’altra ipotesi avanzata dai ricercatori è che il contenuto della ruminazione che elicita comportamenti di l’autolesività non suicidaria sia diverso dal contenuto ruminativo che elicita condotte legate a disturbi alimentari. Se tale ipotesi venisse confermata, potrebbe essere utile per comprendere come, in soggetti con comorbilità di l’autolesività non suicidaria e disturbi alimentari, emozioni e stati mentali diversi possano elicitare comportamenti differenti. Ciò consentirebbe ai clinici di comprendere meglio le funzioni di ogni condotta per il soggetto, così da sviluppare piani di trattamento più efficaci (Arbuthnott et al., 2015).

Nonostante le conclusioni promettenti, lo studio presentava alcune limitazioni, quali ad esempio la mancanza di dati sulla frequenza con cui i soggetti mettessero in atto i comportamenti di autolesività non suicidaria e/o di disturbi alimentari, e l’assenza di informazioni sulla possibile messa in atto di altri comportamenti disfunzionali (e.g. abuso di alcool e sostanze stupefacenti). Pertanto, nonostante i risultati incoraggianti, sono necessarie ricerche future per comprendere meglio quanto il modello della cascata emotiva possa spiegare la messa in atto di entrambi i comportamenti, e quali possano essere altri fattori che influenzano il legame tra la ruminazione e la risposta emotiva in soggetti con disturbi alimentari e autolesività non suicidaria (Arbuthnott et al., 2015).

Altri modelli per spiegare la comordbilità tra Disturbi Alimentari e autolesività

Oltre al modello della cascata emotiva, anche altri modelli sono stati testati per spiegare l’insorgenza di autolesività non suicidaria e disturbi alimentari e per comprendere la loro co-occorrenza, quali ad esempio: il Four-Function Model (Nock & Prinstein, 2004), l’Experiential Avoidance (Chapman et al., 2006) e la possibilità di una percezione del dolore alterata (Muehlenkamp et al., 2012; Claes & Muehlenkamp, 2014). Ciononostante, la ricerca sui modelli eziologici esistenti risulta limitata e lacunosa e la maggior parte delle teorie sono testate solo su una delle due patologie. Per questo motivo, sono necessarie ricerche future per valutare l’applicabilità dei modelli esistenti ad entrambe le condizioni e determinare quanto siano valide nello spiegare l’eziologia dei disturbi in analisi. Ciò consentirebbe, quindi, lo sviluppo di un modello integrato che possa indicare ai clinici una via per identificare e mirare i fattori di mantenimento più forti di tali patologie, consentendo così lo sviluppo di trattamenti più efficaci (Claes & Muehlenkamp, 2014).

 


 

Che figura! Ansia sociale e violazione involontaria delle norme sociali

Lo studio di Bas-Hoogendam et al. (2018) ha indagato la relazione tra le valutazioni delle violazioni delle norme sociali e i livelli di ansia sociale nella popolazione generale.

 

La maggior parte delle persone sperimenta la paura di ‘saltare all’occhio’.

  Ci si può sentire così quando si cena da soli in un ristorante, quando accidentalmente si fa scattare un allarme di sicurezza, o come l’unico invitato a una festa che non ha notato che l’invito specificava un abbigliamento formale, non sandali e camicia hawaiana. Gran parte dell’intensità dietro la reazione di una persona a queste situazioni deriva dalla convinzione che gli altri noteranno e si occuperanno del suo status di ‘eccezione’ rispetto a una norma. Ma quanto sono realistiche queste preoccupazioni? In ricerche precedenti è stato dimostrato che tendono ad essere esagerate, che le persone spesso sovrastimano la misura in cui gli altri notano il loro aspetto e comportamento, sia nei momenti di gloria sia, soprattutto, nei momenti di difficoltà (Savitsky et al., 2001).

Il disturbo d’ansia sociale

L’esperienza di quest’ansia sociale varia da persona a persona, andando dal disagio in specifiche situazioni sociali per alcuni individui a una paura intensa in quasi tutte le situazioni sociali per altri. All’estremità del continuum si trova il disturbo d’ansia sociale: in questo caso, la preoccupazione di essere oggetto di critiche negative va oltre la preoccupazione di essere semplicemente notati. C’è la paura che, una volta individuati, si venga giudicati duramente – non solo come qualcuno che non ha guardato attentamente l’invito a una festa, per esempio, ma come qualcuno che è inadeguato, imbranato o fuori luogo. Questa paura degli stimoli socio-valutativi, che è sproporzionata alla minaccia reale e al contesto socioculturale, porta all’evitamento delle situazioni sociali e provoca compromissioni nella vita quotidiana dell’individuo (Stein, 2008). È stato sostenuto che i pazienti con disturbo d’ansia sociale sono principalmente preoccupati per le caratteristiche di sé che percepiscono come carenti o contrarie alle aspettative o norme sociali percepite (Moscovitch, 2009). Secondo questo punto di vista, una delle principali preoccupazioni è la paura di commettere involontariamente un errore comportamentale imbarazzante in una situazione sociale, il che permette di ipotizzare che l’ansia sociale sia specificamente legata all’esperienza di un maggiore imbarazzo in reazione a violazioni involontarie delle norme sociali.

L’ansia sociale e le norme sociali

A tal proposito, lo studio di Bas-Hoogendam et al. (2018) ha indagato la relazione tra le valutazioni delle violazioni delle norme sociali e i livelli di ansia sociale nella popolazione generale.

In questo studio sono stati coinvolti 87 adulti e adolescenti olandesi, senza psicopatologie pregresse.

I partecipanti sono stati sottoposti al Social Norm Processing Task (SNPT-R), un compito composto da due fasi (Bas-Hoogendam et al., 2017).

Nella prima fase ai partecipanti sono state proposte 78 storie brevi suddivise in tre tipologie: storie di situazioni in cui nessuna norma sociale veniva violata (Condizione neutra. Es:  Stai cuocendo una torta di mele con i tuoi amici ed usi la quantità di zucchero scritta nella ricetta), storie con norme sociali violate involontariamente (Condizione involontaria. Es. Stai cuocendo una torta di mele con i tuoi amici e accidentalmente usi il sale al posto dello zucchero) e storie che delineano violazioni intenzionali delle norme sociali (Condizione intenzionale. Es: Stai cuocendo una torta di mele con i tuoi amici. Utilizzi il sale invece dello zucchero per dispetto).

Le storie sono state scritte in seconda persona ed i partecipanti sono stati istruiti ad immaginarsi nelle situazioni, al fine di massimizzare il loro coinvolgimento personale (Finger et al., 2006). Sono state inoltre impiegate quattro tipologie di compito calibrate rispetto al genere e all’età. Nella seconda fase ai partecipanti è stato chiesto di valutare tutte le storie su una scala likert a 5 punti, rispetto a criteri legati all’imbarazzo e all’inappropriatezza. In base all’età, sono stati inoltre utilizzati due questionari per valutare i livelli di ansia sociale: la Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS) (Heimberg et al., 1999) e la Social Anxiety Scale for Adolescents (SAS- A) (La Greca & Lopez,1998).

L’LSAS è un questionario per adulti che misura la paura e l’evitamento da situazioni che possono suscitare ansia sociale (Heimberg et al., 1999), mentre il SAS-A (La Greca & Lopez,1998) misura l’ansia sociale negli adolescenti.

La percezione della violazione di norme sociali nell’ansia sociale

Da ricerche precedenti è emerso che pazienti con disturbo d’ansia sociale valutano tutte le storie del Social Norm Processing Task (SNPT-R) come significativamente più inappropriate e più imbarazzanti rispetto ai partecipanti sani. Questo risultato è supportato dall’ipotesi secondo cui tra le principali preoccupazioni dei pazienti con un disturbo d’ansia sociale si trova la paura di attuare involontariamente un comportamento imbarazzante in una situazione sociale. Anche nel presente studio è emerso che i partecipanti con livelli di ansia sociale più elevati valutano le storie come più inappropriate e più imbarazzanti. Inoltre, i partecipanti con livelli di ansia sociale più bassi prendono in considerazione l’intenzione alla base della trasgressione e segnalano meno imbarazzo quando l’azione non è stata intenzionale, al contrario dei partecipanti con livelli di ansia sociale più elevata i quali non compiono questa distinzione. Questi risultati suggeriscono la presenza di una dissomiglianza nella valutazione cognitiva e affettiva delle violazioni delle norme sociali: a livello cognitivo, nella valutazione dell’inappropriatezza del comportamento esperito, gli individui con alti livelli di ansia sociale non sono poi così diversi da quelli con bassi livelli di ansia sociale; tuttavia, a livello affettivo nella valutazione dell’imbarazzo non riescono a distinguere tra violazioni delle norme sociali intenzionali e non intenzionali. Questa maggiore esperienza di imbarazzo potrebbe contribuire allo sviluppo e al mantenimento del disturbo d’ansia sociale, poiché l’imbarazzo è un’emozione prosociale che promuove l’evitamento di comportamenti considerati sbagliati. Le autovalutazioni negative possono portare a sopravvalutare la misura in cui commettere un errore sia importante per gli altri, a preoccupazioni fuori luogo e inutili in merito al giudizio degli altri, e a comportamenti timidi e passivi che caratterizzano le persone socialmente ansiose. La letteratura riporta, inoltre, una correlazione tra ansia sociale e alti livelli di perfezionismo e autocritica. I dati emersi dallo studio contribuiscono a comprendere la sintomatologia legata al disturbo d’ansia sociale e potrebbero aiutare a migliorare gli interventi preventivi e terapeutici per questo disturbo. Ad esempio, la terapia cognitivo-comportamentale potrebbe mettere in discussione la preoccupazione dei pazienti in merito alla convinzione che le caratteristiche di sé siano carenti e non soddisfino le norme sociali.

 

Scuola Futuro Lavoro, una targa in memoria di Lucio Moderato – Report

La Scuola Futuro Lavoro ha organizzato una giornata dedicata alla memoria di Lucio Moderato, psicologo psicoterapeuta che ha speso la propria vita facendo per la popolazione autistica ciò che molti hanno forse solo saputo sognare

 

Rispondo con piacere all’invito di Scuola Futuro Lavoro a partecipare ad una giornata dedicata alla memoria di Lucio Moderato, morto per Covid nel 2020. A Lucio Moderato va la mia riconoscenza, insieme a quella di tutti i presenti, per aver speso la propria vita facendo per la popolazione autistica ciò che molti di noi hanno forse solo saputo sognare.

Lucio Moderato, psicologo e psicoterapeuta, era il direttore dei Servizi Innovativi per l’Autismo di Sacra Famiglia e nel 2019 inaugurò, in qualità di Referente Scientifico, Scuola Futuro Lavoro, una realtà che risponde con concretezza al progetto di piena inclusione delle persone autistiche nella società attraverso la valorizzazione delle risorse personali in un ambiente congeniale allo stile di apprendimento che caratterizza la neurodiversità.

È Massimo Montini, Presidente della Fondazione un Futuro per l’Asperger e finanziatore della Scuola, a ricordare per primo Lucio, ‘Il compagno di viaggio di cui aveva bisogno’ per dar vita a un progetto ambizioso che non aveva precedenti a cui ispirarsi. Non fu solo la sua competenza tecnica a supportarlo, ma anche quella positività contagiosa che faceva di un ostacolo un problema da risolvere con quel suo ‘qualcosa ci inventeremo’, in cui confluivano tutto il suo sapere e la sua tenacia. È con questo spirito, unito ad una straordinaria costanza, che Lucio ha anche ridato speranza a molte famiglie e ha contagiato, attraverso la sua attività di formazione, le menti di tutti quegli operatori e insegnanti che spesso non riescono a scorgere risorse nella diversità, quando invece dovrebbero essere tra i primi rappresentanti di una società che si sforza di abilitare piuttosto che di ritagliare uno spazio destinato a ciò che contribuisce a rendere disabilità.

In aula sono presenti anche diverse cariche istituzionali a onorare il suo ricordo, tra cui Carlo Borghetti, vice presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Alessandra Locatelli, assessore di Regione Lombardia a Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità e Lamberto Bertolè, assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano. Dalle parole di tutti traspare la stima per l’uomo e il professionista che è stato e la volontà di ricordarlo attraverso l’impegno dello Stato a remare più velocemente nell’unica direzione che Lucio vedeva possibile, la piena realizzazione delle possibilità di tutti all’interno di una società abilitante.

È però di Antonella, sua compagna di vita, la voce più commossa che invita tutti a far tesoro della sua eredità culturale attraverso quel richiamo alla responsabilità personale e all’iniziativa (‘si può fare, facciamolo’) che Lucio non risparmiava a nessuno.

Dal 14 di febbraio 2022 all’ ingresso dell’Aula Magna di Scuola Futuro Lavoro è affissa una targa in memoria di questo guerriero dal passo lento e inesorabile.

LE IMMAGINI DA SCUOLA FUTURO LAVORO: 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 1

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 2

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 3

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 4

 

 

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 7

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 8

 

Scuola futuro lavoro autismo e inclusione l impegno di Lucio Moderato Fig 9

 

Il ruolo dell’omertà e i processi cognitivi implicati nel fenomeno del bullismo

Attualmente il bullismo si manifesta come una vera e propria piaga sociale, con caratteristiche proprie e definite. Solitamente è presente in ogni ambiente scolastico, tanto da far attivare delle risorse specifiche che mirino al cambiamento ed alla prevenzione della problematica.

 

Nella nostra società si fa riferimento al termine bullismo per descrivere il fenomeno in cui uno o più soggetti hanno l’intenzione di prevaricare una o più persone, facenti parte dello stesso gruppo o con le medesime caratteristiche. Attualmente il bullismo si manifesta come una vera e propria piaga sociale, con caratteristiche proprie e definite. Solitamente è presente in ogni ambiente scolastico, tanto da far attivare delle risorse specifiche che mirino al cambiamento ed alla prevenzione della problematica. Ciò che caratterizza tale fenomeno è la prepotenza, la prevaricazione, la squalifica dell’altro, gli insulti, l’estorsione di oggetti, di valori simbolici o di denaro, i quali sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano l’azione del bullo. Il bullismo non coinvolge solo il bullo e la sua vittima, ma ci sono tanti altri attori coinvolti, in modo più o meno diretto; se dovessimo riflettere sul ‘come’ si diffonda tale fenomeno, si può pensare al ruolo degli spettatori, cioè a tutti coloro i quali restano inermi solo ad osservare ciò che accade senza attuare alcun tipo di intervento, o agli adulti di riferimento che talvolta si sentono costretti al silenzio proprio per paura di ulteriori atti di violenza. Per saper combattere il bullismo è importante attivare una serie di risorse, individuali e collettive; in tal senso, ci si riferisce al muro di resistenze e anche di omertà che spesso si innalza a protezione del bullo.

Le caratteristiche del bullismo

Chi intrattiene delle relazioni con il bullo è spesso indirettamente invischiato, per quanto riguarda i comportamenti e le conseguenze prodotte dagli stessi protagonisti sulla vittima. Molto sovente, dietro agli atti di bullismo si ritrovano le espressioni rivelatrici del disagio provato dal ragazzo, adolescente o pre-adolescente; esse si determinano come problematiche percepite più grandi di lui, che non riesce ad affrontare se non attraverso l’unica modalità che ha imparato, cioè la violenza. I comportamenti aggressivi spesso mascherano una sorta di insicurezza di sé nei rapporti interpersonali affettivi di base. Si tratta di un disagio che è possibile combattere, eliminare o prevenire.

Gli elementi fondamentali per identificare il bullismo:

  • è finalizzato a provocare un danno, che sia morale, fisico o all’immagine dell’altro;
  • è intenzionale e volontario;
  • il bullo ha fiducia nell’appoggio di complici;
  • la vittima ha paura e/o non è in grado di difendersi, né di riferire ad altri l’accaduto, per timore di ritorsioni per sé stesso e/o i suoi cari;
  • eventuali spettatori sono intimoriti dall’idea di intervenire o di riferire ad altri l’accaduto;
  • la vittima viene deumanizzata, così da eliminare qualsiasi senso di colpa nel bullo, nei complici o negli spettatori;
  • esiste una differenza di potere tra il bullo e la vittima;
  • è spesso organizzato e sistematico.

In termini di tipologie di bullismo e forme di prepotenza sociale, se ne riconoscono vari tipi in base al contesto ed all’età dei protagonisti; infatti, non sono solo i bambini o gli adolescenti ad essere coinvolti in tale fenomeno, ma spesso, i comportamenti aggressivi o ‘velatamente’ tali, vengono riprodotti dai ragazzi che nella propria cerchia familiare o di amicizie, hanno esempi eloquenti. Di seguito, un elenco delle varie tipologie:

  • bullismo fisico: atti aggressivi fisici diretti; danneggiamento della proprietà altrui; furto o sottrazione di oggetti con violenza o atteggiamenti di sfida.
  • Bullismo verbale: manifesto e/o nascosto.
  • Bullismo relazionale: sociale e/o manipolativo
  • Cyberbullismo.

Tale fenomeno, oltre a svilupparsi tramite l’esempio presente negli ambienti familiari o essere imitato nel contesto di riferimento, può essere associato ad un deficit nei lobi frontali ed alla compromissione dell’inibizione di emozioni, pensieri, comportamenti e stimoli che possono guidare il soggetto nel qui e ora. Le condotte distorte rispecchiano il proprio sistema di valori e degli atteggiamenti chiaramente alterato, le quali vengono reiterate a causa della mancanza di principi appresi socialmente accettabili e per un deficitario sistema di meta-cognizione.

I processi cognitivi sottostanti al bullismo

Il modello di Crick e Dodge, di seguito in tabella (Fig.1), per spiegare le percezioni e le finalità implicate nel fenomeno:

Bullismo ruolo del silenzio e dell omerta nel mantenimento del fenomeno Fig 1

Fig. 1: Il modello di Crick e Dodge

Il modello degli autori sopra citati, Crick e Dodge, rappresenta il tentativo di indagare i processi cognitivi che sottostanno all’elaborazione dello stimolo sociale. La teoria delle percezioni implicate nel fenomeno del bullismo, come raffigurato nella tabella sopra, al punto n.1, si riferisce alla non corretta codifica degli stimoli poiché in un primo momento, essendo influenzata dalle proprie interpretazioni mentali distorte, dovute fondamentalmente all’apprendimento di esperienze negative e dei cattivi esempi. Di conseguenza, come si legge al punto n.2 e n.3, è facile incorrere in errori attributivi che riguardano le ‘colpe’ ed andare alla ricerca incessante del controllo dell’altro con conseguente sottomissione; la tabella, ai punti n.4 e n.5, rappresenta come la visione distorta del bullo risulti quindi limitata cognitivamente all’accesso ed alla generazione di potenziali risposte, portando ad una immediata valutazione delle risposte ed alla loro esecuzione tramite i comportamenti aggressivi.

Potremmo dire che i pensieri e gli schemi mentali in riferimento alle condotte aggressive, se non corretti in tempo, non essendo correttamente mediati dalle reali emozioni e percezioni del momento, al contrario, vengono rafforzati positivamente dall’ottenimento di un vantaggio sociale o di una percezione di potere sull’altro. Chiaramente, essendo un fenomeno molto diffuso quello del bullismo, soprattutto nei giovani, può assumere diverse sfaccettature, le quali prendono le caratteristiche da comportamenti reattivi o proattivi, a seconda del grado d’impulsività o del livello cognitivo. Quindi, mentre alla base del comportamento reattivo spiccherebbe maggiormente un temperamento impulsivo con scarsa capacità di inibire risposte immediate, in particolare nella fase percettiva, alla base dell’aggressività proattiva o premeditata si raffigura la considerazione cognitiva ed emotiva della strumentalità dell’azione.

Come intervenire nei casi di bullismo

In una fase avanzata del fenomeno, occorrerebbe agire con i protagonisti attraverso una pianificazione d’incontri rivolti alla promozione delle condotte prosociali e dell’empatia. La capacità di autoregolazione delle proprie emozioni permette ai protagonisti coinvolti nel fenomeno, sia di essere sostenuti nella valutazione obbiettiva dello stimolo sociale, priva di pregiudizi, sia un maggiore controllo e valutazione delle conseguenze del proprio comportamento.

Per tali dinamiche, la complicità dei protagonisti coinvolti in tali condotte ed il loro silenzio nelle relazioni contribuiscono a rendere invisibile il fenomeno, se non a rafforzarlo, sino a quando qualcuno riesce a dare ‘voce’ a ciò che sta vivendo ed alle proprie emozioni. Inoltre, una valutazione positiva delle condotte aggressive e la percezione di una ridotta autoefficacia per i comportamenti prosociali, possono diffondere ed aggravare la problematica senza un’apparente via d’uscita. In un’accurata analisi delle dinamiche e delle conseguenze del bullismo, ci si renderà conto che la visione della realtà del bullo non è altro che il frutto della riproduzione di esperienze negative, del tentativo di rielaborarle e della sperimentazione del proprio fallimento in esse, sottese da sentimenti d’ insicurezza e labilità emotiva.

Il primo passo per arginare il fenomeno, quando riconosciuto, sarà incoraggiare il ragazzo a parlare, senza insistere troppo o fargli provare colpa o vergogna; ascoltarlo ed aiutarlo a ricordare temporalmente gli episodi accaduti e rispettare i suoi tempi per poter prendere delle decisioni responsabili in merito al problema.

 

5 buoni motivi per leggere il libro ‘Neurocopywriting, come rendere la comunicazione e i contenuti più efficaci con il neuromarketing’ (2021) di Marco La Rosa

L’articolo riassume i principali motivi per cui leggere il nuovo volume di Marco La Rosa dal titolo Neurocopywriting, come rendere la comunicazione e i contenuti più efficaci con il neuromarketing.

 

1 È un libro rivolto a chiunque sia appassionato di comunicazione e meccanismi psicologici sottostanti

Dallo studente che deve preparare una presentazione efficace per un esame, al candidato che deve affrontare un colloquio, a chi si occupa di comunicazione in contesti aziendali o a chi è semplicemente curioso di conoscere i meccanismi psicologici e neuroscientifici che rendono efficaci le presentazioni e lo storytelling, sia personale, che di un prodotto commerciale. Per neurocopywriting si intende infatti l’applicazione delle neuroscienze alla creazione di contenuti, con l’intento di renderli il più possibile chiari, fruibili e vicini alle reali necessità delle persone.

2 Vuoi trovare risposte a domande: ‘Perché abbiamo difficoltà a scegliere un film su Netflix o Amazon Prime, nonostante le numerose opzioni?’

Oppure, ‘È mai capitato, durante una lezione, di essere estremamente interessati ad un argomento, ma di annoiarvi guardando le slides correlate?’. L’autore, grazie alla propria specializzazione nell’ambito dell’UX design e dell’Inbound marketing e alla collaborazione con alcune agenzie di comunicazione digitale italiane ed estere, espone attraverso uno stile chiaro e discorsivo, ma arricchito di esempi quotidiani e concreti, quali siano le principali teorie scientifiche ed i fondamenti psicologici che influenzano lo storytelling nelle strategie di marketing e non solo. All’interno del libro, sono presenti numerosi ‘Tips&Trick’ in cui l’autore offre consigli e suggerimenti utili e pratici, per migliorare la creazione dei contenuti e garantire un’efficace applicazione delle teorie neuro-scientifiche. Le principali funzioni cognitive esaminate e coinvolte all’interno di questi processi, sono la percezione, attraverso l’applicazione delle regole della Gestalt, l’attenzione, la memoria, le emozioni, il ruolo dei bias cognitivi.

3 Avere più consapevolezza del fatto che: non è tutto oro quel che luccica

Le neuroscienze hanno fornito una rosa di strumenti scientifici, dai meno invasivi come l’eyetrack, ai più costosi, quale la risonanza magnetica, al fine di indagare e misurare alcuni parametri tra cui la risposta emozionale, il tempo di fissazione oculare indice di attenzione, l’attivazione delle aree cerebrali durante l’esposizione di specifici item. A differenza dei metodi di indagine tradizionali, quali le interviste o le survey, gli strumenti neuroscientifici possono fornire maggiori e più accurate informazioni su alcune variabili e processi di cui il soggetto non è direttamente consapevole. Inoltre, le indagini di mercato tradizionali possono essere influenzate da alcuni fattori, quali la presenza di un ricordo non nitido o la difficoltà nel recuperarlo in memoria o la desiderabilità sociale. Vi è un noto esperimento di Martin Lindstrom, il cui scopo era indagare la reale efficacia delle warning label poste sui pacchetti delle sigarette. Nonostante durante le interviste preliminari la maggior parte dei fumatori affermava che il comportamento di tabagismo diminuisse alla vista delle etichette di pericolo, la fMRI evidenziava come in realtà alla vista delle warning labels si attivassero delle aree cerebrali quali il nucleo accumbes, appartenente al ‘centro del piacere’, che in realtà incoraggiavano il comportamento di tabagismo.

Sebbene questi strumenti siano molto utili per rilevare l’efficacia di uno spot, di un sito web, delle etichette di un determinato prodotto, bisogna sempre tener a mente che i consumatori non sono dei robot manipolabili, il cui obiettivo è premere un pulsante di acquisto nel loro cervello, ma che le scelte e l’intero processo di decision making sono guidati da numerose e complesse variabili, che nemmeno le neuroscienze possono controllare. Inoltre, come ogni strumento, è necessario possedere delle competenze tecniche, che coinvolgono varie figure professionali, non solo per raccogliere i dati, ma anche per interpretarli.

4 Conoscere l’esperienza di esperti nel settore attraverso dei case study

All’interno del libro è possibile trovare delle interviste, rivolte a neuropsicologi, ricercatori e neuroscienziati, i quali riportano le proprie conoscenze ed esperienze lavorative concrete nell’ambito del neuromarketing.

5 Comprendere come migliorare i propri contenuti, sia nel digitale che nella real-life

Esiste una lunghezza ottimale dei contenuti? Come organizzarli in maniera efficace? Perché creare uno storytelling che solleciti le giuste emozioni attraverso l’utilizzo efficace delle parole? Queste sono alcune delle domande a cui è possibile trovare risposta all’interno del libro. L’uomo è circondato da storie che lo coinvolgono, a partire dai libri, fino alle pubblicità, ai post di Instagram e Facebook. Comprendere come ottimizzare i propri contenuti al fine di creare un coinvolgente personal storytelling può essere fondamentale in qualunque ambito di vita, da un colloquio di lavoro, una presentazione in pubblico, fino alla customer experience .

Il ruolo della soddisfazione sessuale nel declino cognitivo

La ricerca sulla sessualità e sulle relazioni intime in età avanzata è aumentata negli ultimi anni, tuttavia, ancora poco affrontata rimane la relazione tra intimità, sessualità e salute cognitiva.

 

Gli anziani rimangono sessualmente attivi e intimi anche nel periodo della vecchiaia (Freak-Poli et al., 2017), e diversi studi hanno sottolineato l’esistenza di un associazione positiva tra la frequenza dell’attività sessuale e una migliore salute dal punto di vista cognitivo in campioni di persone anziane (Allen, 2018; Wright & Jenks, 2016).

Nonostante siano state già ampiamente dimostrate queste associazioni, mancano in letteratura sia studi longitudinali che dimostrino queste associazioni nel tempo, sia studi che chiariscano l’esistenza di una relazione causale tra sessualità/intimità e salute cognitiva o viceversa. Inoltre, non è chiaro fino a che punto altri fattori, come ad esempio il benessere fisico e la salute mentale, giochino un ruolo in tali associazioni.

La sessualità e l’intimità coinvolgono un nesso di fattori biologici e psicosociali, tra cui salute, benessere, qualità della vita e resistenza all’attività fisica (Wright & Jenks, 2016). Ognuno di questi fattori è noto per essere associato all’invecchiamento cognitivo. Ad esempio, la malattia cronica è un forte predittore del declino cognitivo (Tilvis et al., 2004) ed è anche associata a ridotta attività sessuale e disfunzione sessuale (Lindau et al., 2007), nonché a una minore soddisfazione sessuale (Flynn et al. ., 2016). Pertanto, gli individui che sono fisicamente e cognitivamente più sani possono anche impegnarsi in un’attività sessuale più soddisfacente.

La sessualità nella terza età

Sommariamente, la ricerca sull’intimità nell’età avanzata si è concentrata maggiormente sulle componenti biologiche del funzionamento sessuale, non tenendo conto dei fattori sociali, psicologici e relazionali che sono pertinenti all’espressione della sessualità e delle relazioni intime di un individuo (DeLamater & Karraker, 2009). L’evidenza suggerisce che gli anziani che si impegnano frequentemente in attività sessuali, inclusi baci e carezze, riportano livelli più elevati di benessere e soddisfazione per la vita rispetto a quelli che non sono sessualmente attivi (Smith, et al., 2019). Di conseguenza, poiché un maggiore benessere è collegato a una migliore funzione cognitiva (Allerhand et al, 2014), l’attività sessuale può avere un impatto positivo sulla salute cognitiva indirettamente attraverso il suo impatto sul benessere (Wright & Jenks, 2016). Al contrario, livelli più bassi di attività sessuale e soddisfazione sessuale sono associati a un benessere generale più scarso, ad una maggiore probabilità di sperimentare la solitudine, la depressione e altri disturbi psichiatrici, tutti associati a un funzionamento cognitivo peggiore (Allerhand et al., 2014; Tilvis et al., 2004).

Il legame tra sessualità e salute cognitiva in età avanzata

Date le crescenti prove che supportano l’importanza della sessualità e dell’intimità nel mantenere una salute ottimale e buone funzioni cognitive durante la vecchiaia, un recente studio (Smith et al., 2021) ha analizzato gli aspetti della sessualità e dell’intimità su 155 coppie di anziani con l’intento di testare un effetto predittivo sullo stato cognitivo delle persone, fornendo approfondimenti su una potenziale relazione causale che non è stata precedentemente esplorata.

I risultati mostrano l’esistenza di un legame diretto tra la soddisfazione sessuale e la salute cognitiva. I soggetti con punteggi più alti di soddisfazione sessuale avevano meno probabilità di ricevere diagnosi di Disturbo Cognitivo Lieve (Mild Cognitive Impairment – MCI) o di demenza in un periodo di follow-up di 10 anni. Ciò sembra sottolineare l’importanza del tenere conto degli aspetti psicosociali delle relazioni sessuali in relazione alla salute cognitiva, piuttosto che dell’attività sessuale manifesta in sé e per sé.

I risultati inoltre non sembrano confermare ciò che emerge dalla letteratura precedente rispetto al grado di supporto sociale e al declino cognitivo. Infatti, sebbene alcuni studi abbiano trovato collegamenti tra grado di supporto sociale elevato e tassi inferiori di declino cognitivo (Barnes et al., 2004), nello studio di Smith e colleghi (2021) il supporto sociale non era predittivo del declino cognitivo. In particolare, il supporto sociale è stato elevato sia per gli individui con funzioni cognitive integre, sia per quelli che hanno avuto punteggi cognitivi più bassi, indicando per cui livelli elevati di supporto sociale in generale e sottolineando l’importanza della relazione tra soddisfazione sessuale e deterioramento cognitivo indipendentemente dal supporto sociale.

In aggiunta, i risultati dimostrano che le variabili di età e sesso non erano correlate al declino cognitivo nel tempo. Tuttavia, un livello di istruzione superiore era associato a una minore probabilità di declino cognitivo, che è coerente con la letteratura recente che collega un’istruzione maggiore all’insorgenza ritardata del declino cognitivo (Clouston et al., 2020). Nel campione analizzato, una percentuale più alta di individui che hanno perso il proprio coniuge ha ricevuto una diagnosi di Disturbo Cognitivo Lieve o demenza rispetto a coloro che non hanno avuto una morte coniugale, confermando quindi la letteratura precedente che suggerisce che sperimentare una morte del coniuge accelera il declino cognitivo negli anziani (Shin et al., 2018). La ricerca futura in questo settore potrebbe migliorare gli interventi basati sull’evidenza per i medici per supportare gli anziani dopo la morte di un coniuge.

Conclusioni

In conclusione, lo studio presentato in questo articolo è il primo a dimostrare che l’intimità sessuale è correlata al declino cognitivo nell’arco di 10 anni. In particolare, i risultati supportano un’associazione potenzialmente predittiva della soddisfazione sessuale sullo stato di salute cognitiva longitudinale. I risultati ottenuti suggeriscono inoltre che la valutazione di routine della soddisfazione sessuale e, ove appropriato, l’invio a specialisti sanitari come coppie o terapisti sessuali possono rivelarsi utili nel mantenimento della salute cognitiva per la popolazione in età avanzata.

 

Identità sessuale per principianti: la traduzione italiana del Genderbread Person, un possibile strumento di supporto per lo psicologo

Non-binary, gender fluid, espressione di genere, identità sessuale e tante altre sono parole che negli ultimi anni stanno entrando nel nostro vocabolario. Il “The Genderbread Person”, creato da Sam Killermann, spiega in modo semplice ed efficace l’identità sessuale ai non addetti ai lavori.

 

 Non-binary, gender fluid, espressione di genere, identità sessuale e tante altre sono parole che negli ultimi anni stanno entrando nel nostro vocabolario. Sempre più studi (es. Diamond, 2020) affermano come l’identità sessuale sia fluida, in continua evoluzione. È necessario, quindi, imparare nuovi termini e vedere il mondo e la sessualità con lenti diverse.

In modo particolare, lo psicologo si trova frequentemente ad indagare gli aspetti dell’identità sessuale dei propri assistiti.

Il dottor Daminato, del gruppo fluIDsex della Sigmund Freud University ha tradotto in italiano il “The Genderbread Personcreato da Sam Killermann per spiegare in modo semplice ed efficace l’identità sessuale ai non addetti ai lavori.

Il suo nome nasce dall’unione di gingerbread person (l’omino di pan di zenzero) e la parola gender che, in questo gioco di parole, rappresenta l’identità sessuale nella sua interezza.

Vi sono tre versioni del Genderbread Person italiano (ndr: le tre versioni sono allegate a fine articolo per il download):

  • Il poster: ricco di informazioni per un primo approccio all’identità sessuale
  • Il Genderbread Person nella sua versione compatta
  • Il worksheet: il Genderbread Person da completare con il paziente/cliente

Oggetto di questo articolo è proprio il worksheet che potrebbe essere utilizzato dal clinico per esplorare l’identità sessuale del prorpio assistito in modo semplice, efficace e in un contesto accogliente ed inclusivo.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

ITA genderbread person (1) copy

IMM 1 – Genderbread Person – Traduzione in Italiano

Il Genderbread Person come strumento: le basi teoriche

Per usare correttamente il Genderbread Person risulta necessario conoscere l’identità sessuale che si può dividere in quattro costrutti: sesso assegnato alla nascita, identità di genere, espressione e ruolo di genere, e l’orientamento affettivo e romantico.

Il sesso assegnato alla nascita include tutte le caratteristiche sessuali basate sulla conformazione biologica presenti alla nascita (OPL, 2021). Il sesso assegnato alla nascita può avere tre opzioni: femmina, maschio e intersex, un termine più inclusivo per indicare le persone che sono nate con una diversità dello sviluppo sessuale (per un approfondimento: https://www.intersexesiste.com/terminologia/).

Perché parlare di sesso assegnato alla nascita e non semplicemente di sesso biologico? Per essere inclusivi e rispettosi nei confronti delle persone il cui sesso assegnato alla nascita non corrisponde con l’identità di genere (es. persone transgender, non-binary). Sarebbe opportuno, quindi, usare “AMAB” e “AFAB” (assigned male/female at birth).

L’identità di genere è il modo in cui una persona si percepisce e in cui fa riferimento a sè stessӘ (OPL, 2021). Nel momento in cui l’identità di genere corrisponde al sesso assegnato alla nascita ci si trova di fronte ad una persona cisgender. Quando, invece, la persona ha un’identità di genere diversa dal sesso assegnato alla nascita entriamo nel mondo transgender che si può dividere a sua volta in due grandi “categorie”: binary e non-binary.

La persona transgender binary (o binaria) è una persona, la quale si identifica con il genere opposto (sempre in un’ottica binaria, appunto). Per esempio, una persona con organi genitali maschili che si identifica come donna. Al contrario, una persona non-binary non si indentifica all’interno del binario di genere (uomo – donna). In tal senso, tramite l’uso di scale visuoanalogiche, il Genderbread Person risulta essere uno strumento semplice ed utile nel comprendere l’identità sessuale e le varie componenti.

Vi sono vari modi in cui una persona non-binary si può identitificare. Per esempio: una persona la cui identità di genere oscilla temporalmente tra il femminile e il maschile si identificherà come genderfluid. Al contrario, una persona che non si identifica in nessun genere si identificherà come agender.

Un appunto importante: seppur possa venire spontaneo pensare che una persona transgender voglia affrontare le procedure per la riassegnazione del sesso, bisogna tenere in considerazione che ogni persona vive la propria identità sessuale diversamente rispetto ad un’altra.

Che cos’è Ә? È lo scevà, un grafema che assomiglia ad una a ed o, è stato recentemente introdotto dalla linguista Vera Gheno per raggiungere l’obiettivo che si stanno ponendo linguisti di ogni parte del mondo: rendere il linguaggio inclusivo.

La “naturale evoluzione” dell’identità di genere sono l’espressione e ruolo di genere. In breve: il ruolo di genere è l’insieme delle norme sociali relative ad un genere (es. una donna viene vista come emotiva, accudente, disponibile all’ascolto), mentre l’espressione di genere è la dimensione visibile del ruolo di genere (es. l’uomo usa i pantaloni, la donna usa la gonna) (OPL, 2021). Entrambi hanno una forte influenza dalle norme socioculturali del periodo storico in cui la persona vive (OPL, 2021).

In conclusione, l’orientamento affettivo e romantico sono l’attrazione romantica e sessuale nei confronti del genere opposto (eterosessuale), lo stesso genere (omosessuale), entrambi i generi (bisessuale), e altri orientamenti che prescindono dal genere della persona (OPL, 2021).

Attenzione: spesso sentiamo parlare di relazioni poliamorose. Non è un orientamento sessuale, è uno stile relazionale.


Alcuni consigli sul linguaggio

Recentemente l’American Psychological Association (APA, 2021) ha pubblicato delle linee guida per il linguaggio inclusivo. Di seguito alcuni suggerimenti inseriti:

  • Chiedere i pronomi con cui la persona si identifica
  • Usare termini neutri (es. con una donna: “hai un ragazzo?”. Si sta presupponendo che quella donna sia eterosessuale. L’alternativa potrebbe essere: “C’è qualche persona importante nella sua vita?”)
  • Non usare “omosessuale”: viene percepita come medicalizzante. Meglio usare “la persona gay” (come aggettivo, non “il gay” come sostantivo)

Il Genderbread Person nella pratica psicologica

Approfonditi i vari costrutti dell’identità sessuale si potrà iniziare ad utilizzare con l’assistitӘ il Genderbread Person. L’idea è quella di utilizzare il worksheet e di completare i vari spazi vuoti assieme alla persona, e procedendo contemporaneamente con della psicoeducazione.

L’uso delle scale visuoanalogiche risulta essere vantaggioso soprattutto con persone che hanno un’identità di genere transgender. Con questo strumento è possibile utilizzare le stesse lenti della persona per entrare nel suo mondo e, auspicabilmente, instaurare un’alleanza terapeutica più forte.

Ad esempio, se una persona con sesso maschile assegnato alla nascita si identifica come donna porrà una croce all’estrema destra del continuum femminile e all’estrema sinistra del continuum maschile. Al contrario, se la sua identità di genere è agender porrà le croci all’estrema sinistra di entrambi i costrutti.

 

Scarica le tre versioni del Genderbread Person in italiano:

POSTER

VERSIONE COMPATTA

WORKSHEET

 

Dalla filosofia della medicina alla psicologia della cura: la prevenzione dell’errore diagnostico-clinico

Frequentemente l’errore diagnostico-clinico è legato al numero elevato di decisioni che l’operatore sanitario deve prendere contemporaneamente.

 

Abstract

La scienza nel suo percorso evolutivo, attraverso l’epistemologia, ha sempre sottoposto al processo di verificazione o di falsificazione i suoi assiomi. In base alla datità empirica via via riscontrata, alcuni paradigmi sono venuti meno per lasciare il posto a cognizioni sintoniche con i nuovi saperi scientifici reperiti. Nell’ambito sanitario un ruolo di rilievo lo riveste l’errore diagnostico-clinico, che spesso inficia le buone prassi terapeutiche. L’errore diagnostico-clinico può assumere differenti morfologie e fenomenologie ed essere causato da svariati fattori. Esistono molteplici modalità per prevenirli, fra esse è di notevole importanza la relazionalità che si struttura tra operatore sanitario e utente, che diviene l’archetipo fondante di una psicologia della cura, attenta a prevenire l’errore diagnostico – clinico.

Keywords: epistemologia, errore diagnostico-clinico, psicologia della cura.

La filosofia della medicina: dalla prevenzione dell’errore diagnostico-clinico al principio di causazione della patologia

Una delle problematiche che la filosofia della scienza, in generale, e la filosofia della medicina, in particolare, hanno dovuto sempre affrontare è stata quella di superare i propri errori per giungere a dei saperi che trascendessero queste mistificazioni con l’intento di costruire dei saperi scientifici euristicamente veri, che si differenziassero dagli assunti della pseudoscienza (Amendolagine, 2020). Questo riveste una particolare valenza euristica soprattutto nel campo diagnostico – clinico, in quanto l’errore medico può inficiare sia la diagnostica, fuorviando e alterando l’accertamento della patologia, ma soprattutto il percorso terapeutico, non aiutando il paziente a superare la propria malattia per raggiungere la guarigione.

Solitamente l’iter terapeutico – diagnostico ha una sua metodologia, che si estrinseca in alcune tappe procedurali, quali:

inserimento del paziente all’interno di un quadro nosografico consolidato;
ricerca delle cause scatenanti del morbo e spiegazioni attraverso modelli biologici;
formulazione della prognosi;
formulazione di una strategia terapeutica più o meno complessa (Lo Sapio, 2012, pp. 206).

La formulazione di una diagnosi ha in sé un margine di fallacia, in quanto malgrado le osservazioni cliniche, le indagini ematochimiche e i risultati della diagnostica strumentale non si può essere certi in maniera assoluta del quadro clinico ipotizzato, per cui la diagnosi può essere definita probabilistica, in quanto quella reperita è la più probabile.

L’errore clinico può nascere in ambito diagnostico per incompletezza dell’osservazione, confusione tra l’osservazione di un fenomeno e interpretazione della stessa […], ancora per enumerazione incompleta delle ipotesi diagnostiche plausibili e infine dall’errata interpretazione dei quadri sintomatologici (Ibidem, pp. 208).

Una procedura importante nella filosofia della medicina, dal punto di vista epidemiologico, è quella di stabilire un processo di causazione, ovvero determinare la causa di una patologia per evitare che la malattia sorga con maggiore frequenza e si abbia, quindi, una maggiore conoscenza dei meccanismi patogenetici che la determinano ai fini della prevenzione dell’errore diagnostico-clinico.

A questo riguardo Evans (1978) propose alla fine degli anni Settanta del secolo scorso

un suo fecondo modello di interpretazione e di gestione dei complessi causali suddiviso in otto punti:

  • la malattia deve avere prevalenza più alta nei soggetti esposti al fattore;
  • la presenza dell’esposizione è riscontrata con maggiore frequenza nei malati che nei sani;
  • l’incidenza deve essere più alta negli esposti;
  • l’esposizione deve precedere la malattia;
  • si deve poter misurare un gradiente biologico nelle reazioni dei soggetti;
  • la malattia deve essere riproducibile sperimentalmente;
  • l’eliminazione della ipotetica causa deve far diminuire l’incidenza della malattia;
  • la modificazione di caratteristiche dell’ospite deve far registrare diminuzioni dei casi di malattia (in caso di trattamento terapeutico) (Ibidem, pp. 212).

Le differenti tipologie degli errori diagnostico-clinici

Diversi Autori si sono occupati degli errori diagnostico-clinici, classificandoli secondo nomenclature differenti. A questo riguardo, Rasmussen, Duncan e Leplat (1987) suddividono gli errori in:

  • skill-based behaviour: sono gli errori che in ambito medico possono derivare da condotte automatiche, fatte senza pensarci. All’individuo si propone uno stimolo cui reagisce meccanicamente senza porsi problemi d’interpretazione (Commissione Tecnica sul Rischio Clinico, 2004, pp. 5);
  • ruled-based behaviour: si mettono in atto dei comportamenti, prescritti da regole, che sono state definite in quanto ritenute più idonee da applicare in una particolare circostanza. Il problema che si pone all’individuo è di identificare la giusta norma per ogni specifica situazione attenendosi ad un modello mentale di tipo causale (Ibidem);
  • knowledge-based behaviour: si tratta di comportamenti messi in atto quando ci si trova davanti ad una situazione sconosciuta e si deve attuare un piano per superarla. È la situazione che richiede il maggiore impiego di conoscenza e l’attivazione di una serie di processi mentali che dai simboli porteranno all’elaborazione di un piano per raggiungere gli obiettivi (Ibidem).

Secondo Reason (1990), gli errori diagnostico-clinici possono essere classificati in:

  • errori di esecuzione che si verificano a livello di abilità (slips): in questa categoria vengono classificate tutte quelle azioni che vengono eseguite in modo diverso da come pianificato (Ibidem, pp. 6);
  • errori di esecuzione provocati da un fallimento della memoria (lapsus): questi errori sono generati da lacune che si strutturano nell’ambito della memoria dell’operatore sanitario;
  • errori non commessi durante l’esecuzione pratica dell’azione (mistakes): si tratta di errori pregressi che si sviluppano durante i processi di pianificazione di strategie: l’obiettivo non viene raggiunto perché le tattiche ed i mezzi attuati per raggiungerlo non lo permettono (Ibidem).

Il rapporto della Commissione Tecnica sul Rischio Clinico (2004) suddivide gli errori diagnostico-clinici in due categorie, ovvero la categoria generale e la categoria specifica.

La categoria generale comprende:

  • errori di commissione: questa categoria raggruppa tutti gli errori dovuti all’esecuzione di atti medici o assistenziali non dovuti o praticati in modo scorretto (Ibidem, pp. 8);
  • errori di omissione: questa categoria raggruppa tutti gli errori dovuti alla mancata esecuzione di atti medici ed assistenziali ritenuti, in base alle conoscenze e all’esperienza professionale, necessari per la cura del paziente (Ibidem).

La categoria specifica include alcuni errori che possono verificarsi in situazioni particolari, quali:

  • errori nell’uso dei farmaci;
  • errori durante le procedure chirurgiche;
  • errori nell’uso di apparecchiature diagnostiche;
  • errori nelle procedure diagnostiche;
  • errori nella tempistica della cura.

Frequentemente gli errori in ambito diagnostico – clinico, secondo Cricelli e Zaninelli (2019), sono legati al numero elevato di decisioni che l’operatore sanitario deve prendere contemporaneamente. Tali decisioni includono la diagnosi iniziale, le opzioni di trattamento, cura, assistenza post-ospedaliera, proseguimento della cura e riabilitazione, decisioni cliniche (Cricelli e Zaninelli, 2019, pp. 34).

Molti degli errori diagnostico-clinici possono essere superati implementando alcune abilità che il sanitario deve possedere, quali:

il possesso di conoscenze teoriche aggiornate (il sapere);
il possesso di abilità tecniche o manuali (il fare);
il possesso di capacità comunicative e relazionali (l’essere) (Ibidem).

La psicologia della cura: la prevenzione dell’errore diagnostico-clinico

Sovente alcuni degli errori che sono commessi in ambito diagnostico – clinico sono imputabili all’alterata relazionalità che si struttura fra curante e curato: infatti, una relazione positiva che si instaura fra il medico e il suo paziente consente di diminuire il margine di errore e le complicanze che si instaurano nel percorso di cura. In molte situazioni la relazionalità fra le due alterità si finalizza esclusivamente alla determinazione della diagnosi e alla gestione del percorso clinico, escludendo altri fattori comunque importanti.

Quando il medico entra in relazione con un paziente, deve tener conto del fatto che le sue reazioni e i suoi comportamenti saranno condizionati da diversi fattori:

  • la concezione che ciascun paziente ha di salute e di malattia;
  • le esperienze che il paziente ha vissuto nel corso della vita, in base alle quali ha sviluppato le proprie conoscenze, aspettative e credenze;
  • le regole del sistema familiare a cui appartiene, che determinano ruoli, funzioni e comportamenti suoi e degli altri membri;
  • le abitudini consolidate, che ritiene di non poter cambiare;
  • le conseguenze per se stesso e per gli altri provocate dagli eventuali cambiamenti nelle abitudini e nello stile di vita determinati dalla malattia (Ripamonti, 2015, pp. 184).

La relazionalità, quindi, fra il medico e il paziente è condizionata da differenti fattori, che frequentemente hanno l’archetipo fondante nelle passate storie di vita, negli stereotipi e nei pregiudizi che costituiscono la mappa cognitiva di ciascuno e nell’emotività individuale.

Le reazioni emotive del medico sovente elicitano condizioni di scarsa lucidità, responsabili di errori in ambito diagnostico – clinico. Fra di esse si possono citare l’ansia, la depressione, la negazione e la proiezione (Ripamonti, op. cit.).

Frequentemente l’ansia nel sanitario che si interfaccia con il paziente può nascere dalla paura di commettere uno sbaglio, facendo, ad esempio, una diagnosi non esatta con un conseguente errato percorso terapeutico. Per ovviare a questa emozione dolorosa il medico prende le distanze dal paziente, trincerandosi dietro la considerazione esclusiva della diagnosi e della terapia, escludendo ogni fattore umano implicato nel percorso diagnostico – terapeutico.

La depressione provata dal medico può essere alla base di una sua mistificazione diagnostico – terapeutica, allorquando si rende conto di poter fare molto poco per il paziente e per la sua guarigione.

La negazione subentra nel momento in cui il medico nega il diritto di cittadinanza alle sue emozioni: il riconoscerle e l’elaborarle è un modo per non permettere ad esse di inficiare la sua lucidità mentale, il cui venir meno è alla base di molti errori diagnostico-terapeutici.

Altra modalità che permette un alto margine di errore è rappresentata dalla proiezione. In altri termini il medico proietta sul paziente le proprie conflittualità interiori, ascrivendo al curato vissuti, emozioni e cognizioni che non gli appartengono.

La relazionalità fra medico e paziente: i differenti modelli operativi nel percorso diagnostico – terapeutico

Emanuel ed Emanuel (1992), citati in Ripamonti (op. cit.), hanno individuato cinque relazionalità che si possono strutturare fra medico e paziente, ovvero:

  • la relazionalità informativa;
  • la relazionalità paternalistica;
  • la relazionalità interpretativa;
  • la relazionalità deliberativa;
  • la relazionalità assertiva.

Nella relazionalità informativa viene sviluppato il polo razionale, ovvero il medico fornisce al paziente tutte le informazioni che a livello scientifico possono essere elicitate per fornire delucidazioni riguardo alla diagnosi della patologia e al percorso clinico. La criticità di tale modello è che il paziente viene inondato di informazioni che spesso non è in grado di comprendere fino in fondo.

Nella relazionalità paternalistica il medico si pone nei confronti del paziente come se fosse una vicariazione di una figura genitoriale positiva e in questa circostanza decide per lui, rassicurandolo sull’eventuale insorgenza di problematicità nell’ambito del percorso diagnostico e curativo. Il rischio che questa relazionalità corre è quella di sottovalutare la realtà oggettiva in una sorta di paternalismo poco realistico.

Nella relazionalità interpretativa il medico si interfaccia con il soggetto come se fosse un consigliere che interpreta le cognizioni, le emozioni e i comportamenti del paziente, conducendolo a delle decisioni che sembrano l’interpretazione euristica del suo pensiero.

Nella relazionalità deliberativa il medico spinge il paziente verso un’autonomia decisionale, fornendo tutti gli elementi che dal punto di vista cognitivo, emotivo ed esperenziale possono spingere il curato a prendere la migliore decisione in quel momento, partendo dalla convinzione che il migliore medico di sé è proprio il soggetto stesso.

Nella relazionalità assertiva il medico giunge subitaneamente alla diagnosi e alla terapia e, nell’ambito di un singolo incontro, comunica al paziente le sue convinzioni riguardo al percorso diagnostico – terapeutico, non ammettendo repliche o dissensi riguardo a ciò.

In conclusione, per prevenire l’errore diagnostico terapeutico sarebbe opportuno seguire alcune indicazioni, quali:

ascoltare il paziente senza dare nulla per scontato;
cercare il senso di quello che sta comunicando il paziente;
non essere frettolosi nel fare una diagnosi;
astenersi dal giudicare;
non porsi su un piano di contrapposizione (Ripamonti, op. cit., pag. 199).

 

Le lingue impossibili (2017) di Andrea Moro – Recensione

Le lingue impossibili è un libro che sfida l’idea generalmente accettata che una cosa così altamente arbitraria come una lingua abbia dei vincoli biologici che prescindono le nostre capacità creative.

 

Il libro Le lingue impossibili è stato scritto da Andrea Moro, noto studioso del linguaggio che insegna linguistica generale presso la scuola universitaria superiore di Pavia, conosciuto soprattutto per avere condotto un esperimento neuroscientifico particolarmente importante che ha gettato luce sulla natura del linguaggio umano confermando la tesi rivoluzionaria proposta dal geniale ed eclettico linguista Noam Chomsky più di cinquant’anni fa.

Le lingue impossibili è un testo scritto in modo molto accessibile anche per chi non è avvezzo ai tecnicismi scientifici né tantomeno della linguistica e, proprio per questo motivo, risulta essere uno dei pochi libri divulgativi italiani particolarmente aggiornati dal punto di vista scientifico dove si discute dell’architettura biologica del linguaggio.

Il testo è una sfida dichiarata ad alcune false convinzioni molto radicate che abbiamo nei confronti del linguaggio, ma soprattutto del fatto che vi sono dei limiti nella potenzialità sintattica che possiamo esprimere.

L’obiettivo del libro è convincere in maniera tanto provocatoria quanto scientificamente fondata che i limiti della sintattica linguistica sono di natura biologica ed in questo senso si tratta di uno scritto molto ambizioso perché sfida l’idea generalmente accettata che una cosa così altamente arbitraria come una lingua abbia dei vincoli biologici che prescindono le nostre capacità creative e quindi anche indirettamente la percezione che abbiamo della nostra libertà.

Il libro mira a dimostrare quanto non sia banale comprendere la base biologica del linguaggio umano e integrare questo aspetto specie specifico (appartenente cioè solo alla specie umana) con la disorientante quanto estesa varietà di lingue umane presente nel pianeta e quindi anche con la straordinaria moltitudine legata alla loro dimensione convenzionale ed arbitraria.

Così come la comprensione del processo che spiega il disegno di un maglione, o di un arazzo, può essere realmente compreso solo rovesciando l’artefatto stesso, perché solo così si afferrano gli indizi della trama sottostante e quindi del modo di cucire il disegno percepito dall’esterno, il linguaggio può essere compreso solo ribaltando il nostro punto di vista tradizionale che ci impedisce di vedere la trama invisibile ma esplicativa rappresentata dall’architettura biologica sottostante.

Questo ‘ribaltamento’ concettuale viene sostanziato, anche in termini metodologici, all’interno dello studio realizzato nel 2003 da Moro ed il suo gruppo di ricerca, dove hanno dimostrato la significativa differente attivazione neurale dell’area di Broca (dedicata all’elaborazione delle strutture linguistiche in particolare della proprietà della dipendenza della struttura linguistica) in seguito all’esposizione di lingue possibili rispetto quelle invece impossibili.

Nello studio condotto dall’autore, la ‘trama’ del maglione linguistico viene messa in evidenza introducendo il fattore delle ‘lingue impossibili’, di lingue cioè potenzialmente concepibili, ma che non soddisfano le caratteristiche strutturali gerarchiche di quelle umane.

Il gruppo, capitanato da Moro, ha infatti dimostrato in maniera pressoché unica e decisiva un aspetto particolarmente importante del meccanismo biologico del linguaggio perché, presentando alle persone strutture sintattiche gerarchiche possibili, ha verificato che, durante il processo di apprendimento, l’afflusso di ossigeno veicolato da quello sanguigno nell’area di Broca aumentava mano a mano che le esperienze linguistiche si accumulavano mentre, nel caso dell’esposizione a strutture sintattiche gerarchiche impossibili, avveniva esattamente l’opposto, cioè il sistema neurale riconosceva sempre più nettamente che si trattava di un’informazione non linguistica.

La dimostrazione che il cervello, procedendo nella sua esposizione a esperienze linguistiche di strutture sintattiche possibili ed impossibili, discriminasse sempre con maggiore facilità e precisione cosa ritiene corretto da ciò che non lo è, facendo attivare neuralmente l’area di Broca solo nel contesto della prima categoria di strutture, evidenzia l’esistenza di un meccanismo ‘progettato’ in maniera specifica, che precede l’esperienza linguistica stessa e che è indipendente dagli aspetti culturali umani.

Gli studi di Moro convergono sul concetto secondo il quale, in piena coerenza con la rivoluzionaria tesi sostenuta da Chomsky decenni fa, la specie umana è dotata di una architettura ‘progettata’ e predisposta per cogliere il significato di alcune specifiche strutture linguistiche (come la dipendenza della struttura gerarchica), ignorandone altre (come l’ordine sequenziale delle parole ascoltate o viste), attraverso l’esposizione di esperienze linguistiche (acustiche o visive) costituite anche da componenti convenzionali e arbitrarie.

La disorientante (e per alcuni versi fuorviante) molteplicità di lingue esistenti attualmente, quella che potremmo chiamare la Babele linguistica, è caratterizzata da una varietà ed eterogeneità formidabile, senza dubbio anche connotata da un’enorme arbitrarietà ma, proprio come altri fenomeni biologici, è stata prodotta attraverso un processo ‘a monte’ che è invariante a livello di architettura neurale (il cosiddetto ‘organo del linguaggio’ in termini chomskiani) che ne definisce i limiti strutturali.

Gli studi originali di Moro hanno gettato luce proprio sulla natura neurale, che definisce il perimetro esistente delle lingue possibili che una persona può imparare (il ‘recinto di Babele’) distinguendolo da quelle che non si possono apprendere perché non soddisfano le proprietà strutturali richieste dall’architettura umana (una lingua che per la specie umana è quindi ‘impossibile’).

Analogamente al contesto alimentare dove esiste una notevole varietà culturale gastronomica umana in cui vi sono popolazioni che si cibano di un certo tipo di alimenti e non di altri (per esempio pesci e non carne o insetti) mentre altre popolazioni esprimono scelte esattamente opposte, ma in nessun caso ci si alimenta con una pinta di cherosene per l’intrinseca incapacità dell’organismo umano di digerire tale miscela di idrocarburi, nel caso del linguaggio l’enorme eterogeneità linguistica presente sottende dei vincoli che sono determinati dallo specifico modo biologico di elaborare le informazioni linguistiche.

Almeno in parte, la difficoltà culturale di cogliere questi aspetti complessi del linguaggio nasce anche dalla difficoltà di associare al significato di vincolo ed architettura biologica l’enorme potenzialità in parte arbitraria che percepiamo quando pensiamo alle lingue ed alle loro possibili varianti che possiamo anche decidere di creare individualmente.

Probabilmente risulta importante sforzarsi di non intendere il concetto di ‘vincolo’ o ‘architettura’ solo nel loro significato restrittivo, bensì come struttura che permette di esprimere una possibile grande variazione determinata dalla traiettoria stessa di tale fattore intrinseco.

Un esempio di tale concetto potrebbe essere la performance di un centometrista olimpionico che può essere molto superiore rispetto alla media della popolazione umana, ma che è pur sempre in relazione alla struttura anatomica di un organismo terrestre che si muove principalmente con andamento bipede (attività motoria possibile) e che proprio per questa sua specifica architettura, la quale quindi intrinsecamente prevede dei vincoli, non è capace di svolgere una performance come il volo (attività motoria impossibile per la specie umana).

In questo contesto complesso le menti linguistiche ‘staminali’ dei bambini sono intrinsecamente predisposte ad apprendere qualsiasi lingua possibile umana in tutte le sue attuali e future varianti anche convenzionalmente definite data la natura biologicamente definita che ne limita sia le potenzialità logiche (entro quindi i confini della Babele linguistica che ne esclude quelle umanamente impossibili) che temporali (il processo di apprendimento linguistico della lingua ‘madre’ avviene all’interno di una limitata finestra temporale relativa lo sviluppo ontogenetico).

Il libro di Moro ci accompagna nella comprensione di questa architettura attraverso un percorso fatto di piccoli passi graduali ma persuasivi, puntellati da metafore calzanti (come quella che ho citato poco sopra relativa la trama del maglione o l’analogia alimentare appena descritta) che permettono al lettore di avere velocemente una certa competenza assolutamente non banale sulla natura del linguaggio.

Affrontando con progressione e precisione alcuni luoghi comuni sul linguaggio, come la presunta natura totalmente arbitraria delle lingue, così come l’altrettanto diffusa convinzione che a lingue diverse equivalgono aspetti mentali diversi (a questo proposito si leggano anche gli interessanti altri testi divulgativi dello stesso autore), l’autore propone delle argomentazioni che passano dalle evidenze matematiche a quelle osservazionali a quelle neuroscientifiche, sempre arricchite da riferimenti storici interessanti quanto illuminanti.

Gli studi particolarmente rilevanti sulla natura biologica del linguaggio dello stesso Moro sono citati nel testo per consolidare una visione più complessa, in parte ancora da comprendere, del meccanismo che permette alla specie umana di apprendere ed esprimere il nostro caratteristico codice linguistico.

Personalmente trovo interessante pensare al linguaggio un po’ come la ragnatela di un ragno dove però, diversamente da esso, la ragnatela linguistica umana non è costituita solo dalle componenti fisico-chimiche biologiche rappresentate dalle proteine che costituiscono l’artefatto dell’aracnide, ma anche dalle esperienze caratterizzate dai codici arbitrari convenzionalmente condivisi all’interno di una comunità.

Il libro è un testo che consiglio di leggere a tutti gli psicologi sia perché da professionisti delle dinamiche mentali umane ci aiuta a riconsiderare alcuni miti purtroppo diffusi anche all’interno della nostra categoria (si veda, ad esempio, il caso delle improbabili trecento parole utilizzate dagli eschimesi per indicare i diversi tipi di neve a dimostrazione del fatto che la lingua determina la percezione della realtà), sia perché offre un punto di vista originale e sfidante sul fenomeno del linguaggio e del dualismo natura-cultura.

La prospettiva offerta dal libro indica una maggiore complessità del fenomeno linguistico rispetto a quanto precedentemente creduto (si pensi a questo riguardo ai decenni di fallimentare comportamentismo applicato al linguaggio) e stimola ad una maggiore consapevolezza sulla natura, in parte inesplorata e misteriosa, di questo aspetto umano così importante per la nostra identità.

 

Sonno e sogni: gli effetti del lockdown sull’attività onirica

Uno studio di Gorgoni e colleghi (2021) ha analizzato i cambiamenti nell’esperienza dei sogni durante il lockdown, rispetto al periodo pre-lockdown in un campione italiano.

 

Nel mese di Aprile del 2020, in pieno lockdown, sono emersi i primi risultati inerenti il sonno e i cambiamenti che esso ha mostrato durante la pandemia di COVID-19 (Altena et al., 2020).

Questi risultati hanno dimostrato che la pandemia ha avuto sia conseguenze negative che positive sul sonno; Infatti, se da un lato la qualità del sonno è stata scarsa ed è stato presente un aumento dei disturbi del sonno (Blume et al., 2020), d’altra parte, è aumentato il tempo trascorso a letto e la durata del sonno (Li et al., 2020; Wright Jr et al., 2020).

In generale il lockdown ha portato soprattutto a un modello di sonno caratterizzato da una qualità più scadente e da una durata maggiore (Gorgoni et al., 2021).

Le caratteristiche dei sogni durante il lockdown

Uno studio italiano (Iorio et al., 2020) che ha analizzato il contenuto dei sogni durante la pandemia, ha mostrato che le donne, rispetto agli uomini, hanno riportato una maggiore intensità emotiva con predominanza di emozioni negative e una maggiore frequenza del richiamo dei sogni. Con ‘frequenza del richiamo dei sogni‘ si intende la frequenza con la quale una persona riesce a richiamare/ricordare i propri sogni in un periodo di due settimane. Tra i contenuti riportati, il 20% era esplicitamente legato al COVID-19, e i partecipanti che avevano un conoscente infettato o deceduto per il virus presentavano un’ancora maggiore intensità emotiva. I sogni, inoltre, erano spesso ambientati in un luogo esterno ed erano caratterizzati da emozioni negative.

Un modo per interpretare l’aumento dell’attività onirica è l’Ipotesi della Continuità, secondo la quale i sogni riflettono l’esperienza di veglia e, in particolare, le caratteristiche emotive dell’attività mentale quotidiana (Schredl, 2006). Diversi risultati, inoltre, supportano l’idea che i sogni possano avere un ruolo nella memoria emotiva e nei processi di regolazione emotiva (Scarpelli et al., 2019). Si potrebbe per cui ipotizzare che un’esperienza intensa ed emotivamente rilevante come il lockdown dovrebbe avere un impatto diretto sull’attività onirica, in particolare per quanto riguarda i suoi aspetti emotivi.

Un’altra ipotesi è che il cambiamento nell’attività onirica potrebbe essere dovuto al fatto che, una maggiore durata del sonno, un’elevata frammentazione o un elevato arousal, che sembrano caratterizzare il sonno durante la quarantena, sono associati ad un maggiore richiamo dei sogni (Schredl & Reinhar, 2008; Van Wyk et al., 2019). Queste due ipotesi non si escludono a vicenda.

Un confronto sui sogni prima e durante il lockdown

Uno studio di Gorgoni e colleghi (2021) ha analizzato i cambiamenti nell’esperienza onirica durante il lockdown, rispetto al periodo pre-lockdown in un campione italiano, tenendo in considerazione il ruolo predittivo di alcune variabili come ad esempio il tono emotivo del vissuto quotidiano, le variabili cliniche e le caratteristiche del sonno.

I risultati mostrano che il 59,1% dei partecipanti ha riportato una scarsa qualità del sonno, il 63,8% ha sperimentato sintomi notturni simili al PTSD, il 71,8% ha riportato ansia di stato, il 67,6% ha presentato ansia di tratto, e il 35,5% sintomi depressivi. Vale la pena notare che studi precedenti sulla popolazione italiana indicavano la presenza di difficoltà di sonno nel 30% dei soggetti (Léger et al., 2018) e di sintomi d’ansia nel 10,3% (Warner et al., 2006). Quest’indagine, rispetto a lavori precedenti, è stata condotta nella fase finale del lockdown, e per questo motivo i livelli di disturbo del sonno e le difficoltà psicologiche riportati appaiono ancora più elevati.

I risultati dimostrano inoltre un aumento della frequenza del richiamo dei sogni, dell’intensità  emotiva, della vividezza, della bizzarria e della durata dei sogni stessi. In particolare, le variabili maggiormente predittive di questi cambiamenti erano l’età ridotta, i sintomi depressivi, l’essere nel nord Italia, il vivere da soli durante il blocco e l’essere donna, confermando così anche l’ipotesi dell’influenza del genere sui sogni (Settineri et al., 2019).

Le emozioni negative erano particolarmente aumentate nei sogni durante il lockdown rispetto al periodo precedente, e maggiormente nelle donne, nei partecipanti con scarsa qualità del sonno, in quelli con disturbo dei comportamenti notturni e con sintomi depressivi.

L ‘aumento osservato di emozioni negative nei sogni, con una predominanza di paura, è coerente con i dati esistenti che indicano una diffusione di emozioni negative (Schredl & Bulkeley, 2020), caratterizzati da contenuti legati all’ansia e alla pandemia (MacKay & DeCicco, 2020). È stata confermata l’ipotesi che l’esperienza emotiva provata nella quotidianità e il cambiamento nei modelli del sonno influenzano l’attività onirica. L’attività onirica e la regolazione emotiva, infatti, condividono processi neurobiologici simili, suggerendo l’esistenza di un continuum tra la veglia e l’attività del sonno REM (Vallat et al., 2018).

Secondo l’ipotesi della salienza (Cohen & MacNeilage, 1974) l’impatto soggettivo dei sogni rappresenta un determinante della frequenza di richiamo dei sogni. Da questo punto di vista, la maggiore intensità dei sogni durante l’isolamento può aver determinato la maggiore frequenza di richiamo dei sogni. D’altra parte, dovrebbe essere considerato anche il punto di vista opposto: un maggior numero di sogni associati a un sonno più lungo e disturbato può portare a una percezione soggettiva di maggiori proprietà qualitative dei sogni.

I risultati ottenuti dallo studio sono coerenti sia con l’Ipotesi di Continuità che con l’influenza del cambiamento delle caratteristiche del sonno sull’attività onirica dei partecipanti (Bottary et al., 2020). I cambiamenti avvenuti nella vita quotidiana e l’esperienza emotiva vissuta possono aver influenzato la qualità e la quantità dei sogni, ma una maggiore durata del sonno associata a un orario più flessibile e una ridotta qualità del sonno possono aver rappresentato un terreno fertile per un maggiore richiamo dei sogni (Li et al., 2020).

Per concludere, il lockdown ha avuto un impatto significativo sulla vita, influenzando fortemente le abitudini quotidiane, le condizioni socio-economiche, le relazioni, le emozioni, la salute fisica e mentale, i cicli di veglia e di sonno. Grazie ai risultati riportati, si può dire che anche l’attività onirica è stata fortemente influenzata dal lockdown.

 

Il Progetto Baobab: il primo studio al mondo sui familiari e figli dei malati di SLA – Recensione

Il Progetto Baobab vuole essere un riconoscimento della sofferenza vissuta nella famiglia che circonda le persone affette da SLA. Una patologia che mette a dura prova non solo il malato, ma anche i suoi cari, ed in particolare i figli che da piccoli si trovano a doversi confrontare con una realtà tanto più grande di loro.

 

Generalmente i genitori sono per i bambini quello che c’è di più vicino ai supereroi. Hanno la soluzione a tutti i loro problemi. Sanno ogni cosa. Sono la fonte principale di protezione e soddisfazione dei loro bisogni. Durante le prime fasi di vita, il rapporto esistente tra genitore e figlio pone le basi per lo sviluppo di un modello di attaccamento che dovrebbe conferire al caregiver la funzione di base sicura (Bowlby, 1988; Stayton et al., 1973). Il genitore costituisce un riferimento per il bambino, in primo luogo perché rappresenta un punto stabile da cui partire per esplorare l’ambiente e fare esperienze relazionali e sociali favorevoli allo sviluppo psicofisico; in secondo luogo, perché funge da posto sicuro a cui tornare nei momenti di stress, allo scopo di ricevere consolazione e protezione (Marvin e Britner, 2008). Così, attraverso un processo che avviene in diverse fasi, il bambino impara a riconoscere la sua figura di attaccamento e a manifestare i suoi bisogni attraverso comportamenti volti a richiamare la vicinanza e il contatto con il caregiver e a ricercare rassicurazione rispetto ai pericoli endogeni ed esogeni percepiti (Sudati et al., 2015).

Su questa processualità duale tra bambino e genitore, possono intervenire fattori di influenza propositivi o impedienti. Può capitare che improvvisamente uno dei genitori si trovi a dover affrontare una malattia neurodegenerativa progressiva che impatta nella quotidianità di vita di chi ne è affetto e dell’intero nucleo familiare coinvolto.

Tra tali patologie può essere rintracciata la diagnosi di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) che, a causa delle implicazioni mediche neuromuscolari e psicologiche, può interferire nelle funzioni di ruolo e di regolazione psico-affettiva che un genitore si trova a svolgere nell’esercizio del parenting.

Inoltre tale patologia può comportare delle limitazioni funzionali nella comunicazione verbale e non verbale. Nello specifico si possono manifestare problemi nell’articolazione linguistica e un’immobilità a livello dei muscoli facciali (Testoni et al., 2021). In questo secondo caso, risulta essere compromessa anche la capacità espressiva, importantissima negli scambi caregiver-bambino, sia nel processo di apprendimento tramite modellamento (Budell et al., 2010), sia negli scambi sociali, in quanto le espressioni facciali permettono la decodifica degli stati mentali altrui (Testoni et al., 2021).

Cosa succede, quindi, quando i bambini si accorgono che i loro supereroi stanno perdendo i poteri? O, addirittura, sono proprio i loro supereroi che hanno bisogno di essere protetti? Qual è l’impatto che questi bambini hanno con il dolore? Quali sono gli aspetti che incidono sulla loro crescita emotiva? Che idea hanno della morte?

Ideatori, conduttori e supporter del Progetto Baobab

La SLA ha un forte impatto emotivo non solo sulla persona che ne è affetta, ma anche sull’intero nucleo familiare del malato. Nei bambini, in particolare, assistere ai sintomi iniziali della malattia ed al progressivo peggioramento della sintomatologia, può incidere notevolmente sulla crescita emotiva. Per questo motivo l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), ha incentivato e sostenuto lo svolgimento del Progetto Baobab, condotto dai ricercatori della Scuola di Psicologia dell’Università di Padova, supportato dalla Fondazione Mediolanum, e reso possibile grazie al contributo di giovani figli e parenti di persone affette da SLA.

Lo studio, durato tre anni, è stato coordinato dalla dr.ssa Gabriella Rossi, con la supervisione scientifica della prof.ssa Ines Testoni, direttore del master Death Studies and the End of Life e la collaborazione della dott.ssa Lucia Ronconi. Hanno, inoltre, fornito il loro contributo la dr.ssa Lorenza Palazzo (dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova), la dr.ssa Jenny Ferizoviku e il dr. Jose Ramon Pernia Morales, membri dell’AISLA.

Scopo del Progetto Baobab

La scelta del nome ‘Baobab’ rappresenta una famosa citazione dal libro Il piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupéry. Nel capitolo quinto, difatti, si narra di come questa pianta gigantesca si fosse impossessata di un intero pianeta dove l’unico abitante era un ‘Pigro’, poiché a causa della sua trascuratezza, aveva mancato di strapparne le radici quando era solo un arbusto; similmente la SLA può risultare ‘ingombrante’, non solo per la vita della persona che ne soffre, ma anche per la quotidianità di tutti gli affetti che le sono vicini.

Questo progetto di AISLA nasce dal desiderio di capire il vissuto psicoemotivo di queste famiglie, quale sia l’impatto del dolore e come tali stravolgimenti possano incidere sulla crescita emotiva dei ‘figli della SLA’; inoltre rappresenta un aiuto fattivo e supportivo al benessere psicologico di questi bambini, orientato a ‘custodire i loro sogni e proteggere il loro futuro’, come afferma Fulvia Massimelli, presidente AISLA ‘ascolto, comprensione e supporto possono essere le armi fondamentali per affrontare questa battaglia’.

Uno studio longitudinale per valutare l’impatto emotivo sul bambino

In questo studio è stato chiesto a 25 nuclei familiari di partecipare a un’indagine longitudinale, durata complessivamente tre anni. Allo studio hanno preso parte 76 bambini, divisi in un gruppo target costituito da 38 minori con familiari affetti da SLA e da un gruppo di controllo costituito da altrettanti bambini.

 Gli psicologi, prima dell’avvio del progetto, hanno seguito un training formativo orientato ad apprendere le modalità d’intervento rivolte alla funzione riflessiva, all’apprendimento trasformativo ed alla gestione delle esperienze legate sia alla perdita ambigua che al lutto anticipatorio. La particolare attenzione rivolta a tali costrutti è legata alla relazione che hanno l’apprendimento trasformativo e la funzione riflessiva, come dimostrato anche dagli studi condotti da Mezirow (1978). Durante la crescita dell’individuo, l’apprendimento trasformativo si configura come un processo di maturazione della persona che, in seguito a un evento critico e stressante, può raggiungere elevati livelli di riflessività che gli permettono di associare nuove prospettive di significato alle proprie esperienze, apportando anche cambiamenti nella propria quotidianità. Ciò spiega, dunque, il focus sulla funzione riflessiva (Testoni et al., 2021), intesa come la capacità di una persona di poter riconoscere sia i propri stati mentali che quelli altrui, riflettendo sulla propria esperienza personale (sentimenti, pensieri, desideri, credenze e comportamenti) e sul lutto anticipatorio e la perdita ambigua, considerate entrambe dolorose esperienze emotive (Boss et al., 2004). Nel caso del lutto anticipatorio, il familiare esperisce il dolore a causa del progressivo peggioramento delle condizioni del malato, ancora prima che avvenga la perdita del proprio caro (Siegel & Weinstein, 1983). Quando il malato è fisicamente assente ma psicologicamente presente, il familiare può fare esperienza della ‘perdita ambigua’: soffrire la perdita della persona come la conoscevano, per gli esiti prognostici della malattia, pur avendola ancora vicino a sé (Boss & Couden, 2002). Basta pensare, in effetti, come uno degli aspetti più drammatici da affrontare per il figlio di un malato di SLA sia quello di non riuscire a riconoscere i sentimenti del proprio genitore a causa dei gravi problemi dovuti alle difficoltà comunicative ed alla progressiva paralisi delle espressioni facciali (Calvo et al., 2015; Guidry et al., 2013).

Per indagare questi costrutti sono stati somministrati dei questionari a ognuno dei bambini del gruppo target in due momenti differenti: prima dei colloqui di sostegno e sette mesi dopo la fine del sostegno psicologico (Testoni et al., 2021).

Progetto Baobab studio su familiari e figli dei malati di SLA Recensione Fig 1

L’intervento psicologico nel Progetto Baobab

Le metodologie di intervento promosse con i bambini coinvolti e appartenenti al gruppo target sono state: lo psicodramma, finalizzato al potenziamento della funzione riflessiva e delle modalità di coping relate alla perdita ambigua, e l’arte terapia, mirata ad una più funzionale organizzazione rappresentazionale posseduta dal bambino sul genitore malato.

La seconda parte dell’intervento, a causa delle limitazioni pandemiche, è stata articolata su un percorso differenziale ed eterogeneo, mediato per lo più da mezzi telematici, indirizzato a ciascun nucleo familiare coinvolto in toto nelle attività promosse. Nello specifico ogni incontro aveva la finalità di fornire al bambino uno spazio emotivo di condivisione in cui esprimere la propria sofferenza, favorendo la resilienza e migliorando la qualità della comunicazione e della relazione (Testoni et al., 2021).

Sono emerse differenze significative tra i due gruppi di minori in merito allo sviluppo dell’affettività e della competenza emotiva

Dalle misurazioni sono emerse delle differenze significative tra il gruppo dei minori con familiari affetti da SLA e quelli del gruppo di controllo che non hanno fatto esperienza diretta della malattia. In particolare, si è riscontrato che i bambini del gruppo target presentavano difficoltà nella regolazione e nell’espressione emotiva. Inoltre, all’interno del gruppo target sono stati individuati nei bambini disturbi psicologici clinicamente significativi orientati all’esternalizzazione, come l’iperattività e la disattenzione. I risultati dello studio dimostrano come i bambini che hanno un genitore affetto da SLA, risultano avere minore competenza emotiva, maggiori difficoltà nell’esplorazione sicura ed una autostima decrementata. Inoltre i bambini del gruppo sperimentale mostravano avere un grado più elevato di autonomia e una propensione maggiore nel riconoscimento dei valori familiari. Non è stata rilevata, al contrario, alcuna differenza nei due gruppi per ciò che concerne la rappresentazione della morte, considerata nell’insieme dai bambini solo come un passaggio dell’esistenza umana.

La giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per la presentazione del progetto

Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific reports di Nature, è stato presentato in diretta streaming durante la giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sulle piattaforme social più conosciute. Il webinar, dal titolo Troppo grandi per stare in un pianeta così piccol, ha dato l’occasione di condividere un momento di riflessione sulle difficoltà emotive che un bambino deve affrontare quando viene colpito direttamente o indirettamente da una malattia complessa come la SLA. All’incontro hanno preso parte gli autori dello studio Gabriella Rossi, Ines Testoni, Lucia Ronconi, Lorenza Palazzo, Jenny Ferizoviku e Jose Ramon Pernia Morales, la Presidente dell’AISLA Fulvia Massimelli e la Presidente Esecutiva della Fondazione Mediolanum Sara Doris. Infine, Benedetta Signorini ha fornito la sua testimonianza relativamente a cosa volesse dire essere ‘figlia della SLA’, ricordando l’indimenticabile padre, Gianluca Signorini, il capitano del Genoa colpito da questa terribile malattia. In particolare, ha parlato di come vivere in una famiglia unita possa rappresentare una risorsa preziosa in questo tipo di situazioni, di come ogni figlio possa avere una reazione diversa alla notizia della malattia, di quanto questa esperienza solleciti una crescita accelerata e una prospettiva più matura di fronte ai comuni problemi della vita quotidiana.

Quando una malattia come la SLA si fa strada nella vita di una persona, le sue conseguenze sono difficili da affrontare, da accettare, da comprendere. Ma non solo: essa prende piede anche all’interno della famiglia del malato e, come un gigantesco albero, affonda le sue radici nella quotidianità delle persone più care, come i suoi figli. E le radici, si sa, scendono in profondità. Grazie al progetto Baobab sono state poste in primo piano le esperienze e le necessità dei figli dei malati di SLA, i quali, affrontando con grande coraggio e al fianco del proprio genitore ogni sfida presentata dalla malattia, meritano e necessitano anche loro di un supporto adeguato.

 

Impazzire può essere una risposta alla realtà? – Recensione dei due libri di Benjamín Labatut ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ e ‘La pietra della follia’

Benjamin Labatut nei suoi libri tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti.

 

C’è un momento nella storia passata in cui l’uomo ha smesso di capire il mondo? Per Benjamín Labatut accade con l’interpretazione di Copenaghen, quando la meccanica quantistica si accorge di essere «una teoria chiusa, i cui presupposti fisici e matematici non sono più suscettibili di modifiche» (Labatut, 2021a), incapace di studiare il mondo reale che la circonda. È il 1927, ma Heisenberg e Bohr danno già la loro versione della scienza contemporanea: «La realtà, dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un oggetto quantistico non ha proprietà intrinseche. Un elettrone non si trova in nessun luogo finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare. Esiste in modo determinato solo quando viene rilevato da un determinato strumento. Tra una misurazione e l’altra non ha alcun senso chiedersi come si muove, cos’è o dove si trova. Come la luna per il buddhismo, una particella non esiste: è l’atto della misurazione a trasformarla in un oggetto reale» (Labatut, 2021a).

‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ di Benjamín Labatut

Uscito in Cile nel 2019 col titolo originale di Un verdor terrible, Quando abbiamo smesso di capire il mondo è arrivato in Italia nel pieno della pandemia. Anche solo guardando la copertina Adelphi sembra che il libro voglia essere profetico: quella macchia di blu di Prussia, da cui ha inizio la narrazione, ricorda lontanamente la forma che assume il virus letale e pericolosissimo nella serie tv danese The rain, che diffonde morte e oscurità in un mondo che sta morendo. Anche lì, sebbene il contagio sia partito dalla pioggia, la malattia allontana gli umani, rendendoli sospettosi e incapaci di toccarsi come prima, sullo sfondo di una terra che piano paino volge all’oscurità.

Labatut ci offre una visione lungimirante di quello che potrebbe attenderci se solo lasciassimo spazio al genio irrazionale, e a volte incomprensibile, che abbiamo deciso di soffocare. Lo dimostrano tutte le storie che si intrecciano in un testo che non possiamo chiamare né romanzo né saggio, dalle trame di scienziati incalliti alla genealogia di colori inaspettati. Il blu di Prussia, quello che compare «nella Notte stellata di Van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai», porta nella sua struttura chimica «la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche» (Labatut, 2021a). Il verde smeraldo, il colore preferito da Napoleone, con cui si tingono giocattoli e dolciumi nell’Europa di fine Settecento, è in realtà il composto del cianuro: il cosiddetto «acido prussico», che significa «fegato spappolato, il corpo ricoperto dalla testa ai piedi di vesciche purulente, e paralizzato per l’accumulo di liquido nelle articolazioni» (Labatut, 2021a). Colori che sono bellissimi, ma terribili allo stesso tempo, per la loro nascita fatta di casualità e morte. Come il carminio, «che si ottiene triturando milioni di esemplari femmina di cocciniglia» (Labatut, 2021a), o il «nero d’ossa», ottenuto dai «crani di trenta milioni di bisonti massacrati nelle praterie americane» (Labatut, 2021a), triturati nelle fabbriche americane che producono fertilizzanti.

I colori non sono altro che il preludio al racconto di vite complicate, di uomini in cerca di approvazione, succubi di una società che spesso ne ha strumentalizzato le scoperte. Come l’azoto, che non serve più per «nutrire le masse affamate, ma per fornire alla Germania la materia prima di cui aveva bisogno per continuare a fabbricare esplosivi e polvere da sparo durante la prima guerra mondiale» (Labatut, 2021a).

Il matematico Grothendieck, invece, si ritira «per proteggere tutti quanti. Nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte, ma si rifiutò di spiegare cosa intendesse quando parlava de «l’ombre d’une nouvelle horreur» (Labatut, 2021a). Tutto parla di una ossessione che consuma irrimediabilmente, una scoperta che contraddice il senso comune. Oppenheimer scrive: «non prendetemi troppo sul serio. Io mostro un mondo che non è quello che voi avete in mente quando mi usate» (Labatut, 2021a). Mentre «Schrodinger sapeva che era la scoperta cui aspirava da tutta la vita, ma non aveva idea di come spiegarla. Per ricavare la sua equazione non parte da nessuna formula. Non si era basato su nulla di conosciuto. L’equazione stessa era un principio, e la sua mente l’aveva tratta dal nulla» (Labatut, 2021a).

‘La pietra della follia’ di Benjamín Labatut

Diversamente da quanto accaduto con la profezia di David Quammen sul coronavirus contenuta in Spillover del 2014, il terzo libro di Labatut racconta il mondo di oggi facendo riferimento al recente passato di una scienza sempre più distaccata dalla realtà circostante. «Alla domanda sul perché il nostro mondo sia diventato tanto incomprensibile ci sono risposte ovvie: quando i sistemi sono interconnessi, la loro complessità aumenta e si manifestano fenomeni nuovi, che non era possibile prefigurarsi poiché sono originati da un’interazione, così come la nostra mente e le nostre percezioni. La miriade di connessioni tra aspetti dell’esperienza umana che un tempo erano isolati può portare a un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione. Ma questa è solo una risposta parziale; qualsiasi sistema nel quale senza sosta viene immessa energia comincia a comportarsi in modo sempre più turbolento. La sua evoluzione diventa imprevedibile. In una parola, è il caos» (Labatut, 2021b).

Lo spiega benissimo ne La pietra della follia, un librettino di appena sessanta pagine, uscito nel 2021 come appendice al successo di pubblico del libro precedente: «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento. Ma io sospetto che ci sia dell’altro. Non disponiamo di storie per spiegare noi stessi perché siamo lanciati in corsa, sganciati dal passato e da salde previsioni sul futuro, apparentemente liberi da ogni vincolo, ma fondamentalmente persi. Soggiogati dalla velocità, ci siamo trasformati in alcioni, in martin pescatori che s’immergono a occhi chiusi, storditi dall’impeto dello slancio e accecati dall’impatto con l’acqua» (2021b).

Ne abbiamo avuto una dimostrazione con la pandemia: impauriti dagli accadimenti, abbiamo deciso di buttarci nel futuro. Ma così, solo per fare una nuotata in un mondo che sarebbe potuto essere diverso. Niente più smog e inquinamento, vita sana immersa nella natura, gli animali di nuovo liberi di girare sulla terra, zero spreco alimentare, un cambiamento climatico che accenna qualche passo. Poi ci siamo stancati. Abbiamo finito la vasca col fiatone. E non ci è piaciuto, arenati alla domanda: «ci innalzeremo verso la luce o ci rintaneremo nella caverna delle nostre paure?» (2021b).

Lo ha espresso bene Baricco: «Non so perché, e non mi interessa saperlo, ma, credetemi, sono passati cinque anni in uno. Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno. Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025. Se detta così suona come una boiata, la formulo in modo più razionale. Provate a fare questo ragionamento: se non ci fosse stata alcuna pandemia, e fossimo semplicemente andati avanti per la nostra strada, come più o meno pensavamo di fare, dove saremmo arrivati nel 2025? Ho la risposta: nel punto in cui siete adesso» (Baricco, 2021). Dopo di che si è stabilito che «una moderata sventura sembra particolarmente congeniale al tipo più diffuso di intelligenza: quella capace di sofferenza, ostinata nel passo, paziente più che fantasiosa, sostanzialmente conservativa. Poiché le riesce più facile percepire il mondo quando il mondo procede a una velocità misurata, lo rallenta; poiché in generale le è più congeniale il gioco di difesa, dà il meglio in presenza di nemici e catastrofi incombenti; poiché in generale non ha predisposizione per il gioco d’attacco, teme il futuro» (Baricco, 2019).

Eppure già Erasmo da Rotterdam lo scrisse: «Propagatrice del genere umano è quella parte così folle e ridicola che non si può neppure nominare senza ridere» (Erasmo Da Rotterdam, 2018). Di fronte al caos generato dalla miriade di connessioni e percezioni a cui la nostra mente e il nostro corpo sono sottoposti ogni giorno, la rottura è inevitabile e brutale. Come nella scienza. «La fisica non doveva più preoccuparsi della realtà, ma di ciò che si può dire della realtà. L’essenza degli atomi e delle loro particelle elementari era diversa da quella degli oggetti dell’esperienza quotidiana. Vivono in un mondo di potenzialità, spiegò Heisenberg: non sono cose, ma possibilità. La transizione dal ‘possibile’ al ‘reale’ avveniva solo durante l’atto dell’osservazione o della misurazione. Nessuna realtà quantistica, dunque, esisteva in maniera indipendente. Misurato come un’onda, un elettrone sarebbe apparso tale; misurato come una particella, avrebbe assunto quest’altra forma» (2021a).

Per questo Labatut racconta il mondo di oggi senza accennare in alcun modo a fatti contemporanei: la scienza è in rottura con il reale; eppure soltanto attraverso la genialità di menti ai bordi della vita sociale, il caos che ci circonda potrà tentare di farsi comprendere dall’uomo. Riprendendo il dipinto Estrazione della pietra della follia, datato 1494, lo scrittore cileno arriva al cuore della sua indagine: «il caos suggerisce che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista» (2021b). Esortandoci a riprendere in mano la nostra attitudine all’intuizione immaginifica, ci avverte: «in queste faccende, non c’è modo di sapere chi sia il chirurgo, chi il frate, chi il paziente, chi la monaca, e chi di noi rechi in sé la pietra della follia» (2021b). Nell’enigmatico dipinto di Hieronymus Bosch si mette in scena la pratica rinascimentale di incisione del cranio per asportare la cosiddetta ‘pietra della follia’, ritenuta come la causa della malattia mentale.

«I personaggi che assistono all’operazione, oltre al medico e al paziente, sono una monaca con un tomo di medicina in bilico sulla testa e un prete con in mano una brocca argentea. Sullo sfondo campeggia il placido paesaggio neerlandese, con i suoi minuti elementi resi in modo certosino: i villaggi con i campanili che svettano, gli alberelli, i cespugli, i fili d’erba disegnati uno alla volta e alcuni dettagli a dir poco inquietanti: una ruota di tortura e una forca. L’iscrizione dorata che corre intorno alla scena recita: Meester snyt die Keye ras / Myne name is lubbert das, ovvero: ‘Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è bassotto castrato’. I dettagli inquietanti, insieme all’iscrizione, indicano abbastanza chiaramente come sia da intendere questa rappresentazione. Il medico, che qui è trattato come un ciarlatano dal momento che l’imbuto della sapienza è capovolto e usato come un berretto di latta sul suo capo, è riuscito a ingannare un povero ingenuo (il ‘bassotto castrato’) che, legato alla sedia, si è sottoposto alle sue feroci cure. La pietra della follia, che è possibile identificare con un osteoma, è qui sostituita da un innocuo fiorellino che spunta dal capo del vecchio paziente. La monaca che assiste alla scena, e che ha la posa tipica di un personaggio che sta riflettendo, potrebbe essere intenta a scrutare l’inadeguatezza del medico o l’ingenuità del sempliciotto che si è fatto abbindolare. Il prete invece, rivolge la mano in segno di rimprovero. Ma non è molto chiaro se il gesto sia indirizzato al medico o al paziente» (Del Riccio, 2016).

L’intento di Labatut non è altro che questo: provare a capire qual è il confine tra inadeguatezza e ingenuità nel momento in cui lo scienziato, che viene a contatto, anche inaspettatamente, con l’evento scatenante della propria genialità, si trova spaesato di fronte a un mondo incapace di comprendere. «Sono proprio questi cambiamenti – provocati da differenze microscopiche che nessun essere umano potrebbe prevedere o monitorare, poiché solo l’immensa potenza di un computer è in grado di tracciare l’evoluzione di sistemi così intricati – a determinare il caos» (Labatut, 2021b).

Conclusioni

Così, definita dall’esterno come follia, questa attitudine a scorgere le trame nascoste della realtà ha portato molti a isolarsi dal mondo, eclissandosi in una realtà dimessa e lontana dalle luci di un successo impossibile. «Nel corso della vita non c’è altro che il saliscendi delle forme materiali e mentali, mentre la realtà insondabile permane. Dentro ogni creatura dorme un’intelligenza infinita, sconosciuta e occulta, ma destinata a svegliarsi, a strappare la rete inconsistente della mente sensibile, a rompere la sua crisalide di carne e a conquistare il tempo e lo spazio» (Labatut, 2021a).

Erasmo da Rotterdam, parlando per bocca della follia, lo confessò: «Davvero ingrati questi uomini! Essi sono i miei più fedeli seguaci, ma in pubblico si vergognano del mio nome, che lo rinfacciano agli altri indifferentemente, come se fosse un’ingiuria». Labatut tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti. Heisenberg afferma che «ogni nuovo progresso nei calcoli lo allontanava un po’ di più dal mondo reale» (Labatut, 2021a).

Stando a Labatut, «più che in qualsiasi altro luogo, oggi viviamo nella realtà di Dick: un incubo collettivo e paranoico nel quale non possiamo mai essere davvero sicuri di ciò che sentiamo, ascoltiamo, diciamo e addirittura pensiamo. Non abbiamo più accesso al reale. La nostra esperienza quotidiana non è meno strana e inconsistente del regno dei quanti, e gli aspetti illusori, simulati e fittizi dell’esistenza sembrano sovrastare la verità e scardinare la sacralità della ragione» (Labatut, 2021b).

Philip K. Dick, infatti, «ci ha mostrato che in certi casi impazzire risulta essere una risposta adeguata alla realtà, che verità e follia potrebbero essere sintomi della stessa malattia, e che il prezzo che paghiamo per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione».

 

Le caratteristiche sociodemografiche nel disturbo bipolare e nel disturbo ossessivo-compulsivo

Il National Comorbidity Survey Replication evidenzia come, nella popolazione statunitense, il 63% dei pazienti con DOC hanno almeno una manifestazione psicopatologica nella vita diagnosticabile come disturbo dell’umore, mentre nel 23,4% dei casi il disturbo bipolare si sovrappone al DOC (Merikangas et al., 2007).

 

La comorbidità tra disturbo bipolare e disturbo ossessivo compulsivo

Nello specifico, esistono ampie oscillazioni nei pazienti con DOC,  dove il tasso di comorbilità con il bipolarismo varia tra l’8% e il 30%, con valori che mediamente rappresentano il 20% per il disturbo bipolare di tipo II e il 5% per il bipolarismo di tipo I (Rigardetto et al., 2011; Lensi et al., 1996; Perugi et al., 1997; 1999; Ravizza, Maina & Bogetto, 1997; Diniz et al., 2004). Il problema principale di questa comorbilità è legato al fatto che tendenzialmente il DOC esordisce prima della sintomatologia umorale, con la conseguenza che il trattamento farmacologico antiossessivo induce più precocemente l’esordio della bipolarità. Sul piano clinico, l’associazione tra DOC e bipolarismo mira ad un trattamento terapeutico principalmente orientato alla stabilizzazione timica (Rigardetto et al., 2011). I dati esistenti sottolineano come i pazienti affetti da DOC, in comorbidità con un disturbo bipolare, sono più frequentemente di sesso maschile (Perugi et al., 1997; Diniz et al., 2004; Kruger et al., 2000; Perugi et al., 2002; Masi et al., 2004; Zutshi et al., 2010; Koyuncu et al., 2010; Magalhães et al., 2010) e la sintomatologia ossessiva è più grave (Perugi et al., 1997; Perugi et al., 2002, Zutshi et al., 2010, Magalhães et al., 2010). A livello sintomatologico, i disturbi ossessivi in comorbilità con il disturbo bipolare manifestano ossessioni aggressive, religiose, sessuali o di accumulo, mentre le compulsioni riguardano la ripetizione, il controllo, l’accumulo e l’ordine (Perugi et al., 1997; Perugi et al., 2002; Zutshi et al., 2010; Koyuncu et al., 2010; Magalhães et al., 2010; Joshi et al., 2010).

Caratteristiche dei pazienti con bisturbo bipolare e DOC in comorbidità

Lo studio di Rigardetto e colleghi (2011) vuole analizzare le differenze sociodemografiche e cliniche che emergono tra i pazienti con distrubo ossessivo compulsivo con o senza comorbilità con il disturbo bipolare; l’obiettivo è quello di identificare alcuni dei possibili predittori utili ad orientare le scelte terapeutiche. Nello studio sono stati inclusi 290 pazienti con una diagnosi di DOC, e con un punteggio minimo di 16 alla Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS; Goodman et al., 1989; 1989), afferiti consecutivamente presso il Servizio per i Disturbi Depressivi e d’Ansia del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Torino. Il 10,4% dei pazienti (31 casi) presentava anche una diagnosi lifetime del disturbo bipolare, con 11 soggetti (3,7%) un disturbo bipolare di tipo I e 20 soggetti (6,7%) un disturbo bipolare di tipo II (Rigardetto et al., 2011). La valutazione psicodiagnostica è stata condotta con l’utilizzo della Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis I and Axis II Disorders (SCID-I e SCID-II; First et al., 1997; 1997). Le caratteristiche sociodemografiche e cliniche del DOC invece, cioè i dati sociodemografici, la sintomatologia ossessivo-compulsiva, l’esordio e il decorso del disturbo, sono state raccolte con la somministrazione di un’intervista semistrutturata, messa a punto e già utilizzata da parte del Centro di Torino (Bogetto et al., 1999; Albert et al., 2002; 2004; Maina et al., 2004). Per l’analisi statistica, il campione è stato suddiviso in due sottogruppi a seconda della presenza o dell’assenza di comorbilità lifetime per il disturbo bipolare I o per il disturbo bipolare II.

I risultati di questo studio evidenziano come differenza statisticamente significativa, in termini sociodemografici, il genere: il sesso maschile è più rappresentato tra i soggetti che presentano un disturbo DOC associato a bipolarismo. Emerge anche una significatività per quanto riguarda la familiarità con i disturbi dell’umore, che risultano più frequenti nei soggetti con DOC e bipolarismo in comorbidità (Rigardetto et al., 2011). Inoltre, tali pazienti mostrano elevati livelli di ossessioni sessuali, compulsioni di ripetizione e sintomi di accumulo. Per quanto concerne i disturbi di Asse I, i pazienti con DOC e disturbo bipolare mostrano tassi più elevati di disturbo da uso di sostanze, mentre per quanto riguarda i disturbi di Asse II, la comorbilità per i disturbi bipolari si associa al DOC di personalità. Si rileva anche un interessante trend di significatività con il disturbo schizotipico (Rigardetto et al., 2011).

Conclusioni

La corretta identificazione della comorbilità tra disturbo bipolare e DOC ha rilevanti implicazioni per quanto riguarda la risposta al trattamento, dal momento che alcuni sintomi ossessivo-compulsivi (come, per esempio, la sintomatologia hoarding), la presenza di comorbilità multiple, l’abuso alcolico o di altre sostanze, nonché la comorbilità con disturbi di personalità hanno un’influenza negativa sulla compliance e sulla risposta ai farmaci antiossessivi attualmente disponibili (Zutshi et al., 2007; Mataix-Cols et al., 2002; Saxena et al., 2002). Di importanza ancora maggiore è poi il vantaggio legato alla possibilità di individuare ‘predittori di bipolarità’ nei pazienti affetti da DOC, al fine di evitare la somministrazione di alte dosi di serotoninergici scegliendo opzioni terapeutiche più prudenti (Rigardetto et al., 2011).

Il ‘colored hearing’ come voce narrante

La musica evoca immagini in 7 persone su 10 ed in un particolare fenomeno, il colored hearing, ai suoni vengono naturalmente associati colori.

 

Musica, suoni e colored hearing

Sono passati anni dalla famosa lezione di Deems Taylor in Fantasia (Disney, 1940), eppure l’idea che la musica abbia un forte potere evocativo non ci abbandona mai.

Se da un lato i suoni sono in grado di accompagnare una storia, dall’altro possono crearne una. È proprio questo che succede quando infiliamo le cuffie e ci lasciamo trasportare da ciò che ascoltiamo. La nostra immaginazione vaga tra macchie di colore, forme, direzioni di movimento o scene simili a quelle di un film, in un’esperienza cognitiva nota come mind-wandering (Taruffi e Küssner, 2019).

Secondo Martarelli, Mayer e Mast (2016), la musica evoca immagini in 7 persone su 10 e con una grande variabilità: in alcuni casi l’immagine sembra fluttuare, arriva e poi sparisce, mentre in altri assume pian piano la forma di panorami e/o memorie episodiche connotate emotivamente. Ciò può dipendere da quanto l’ascoltatore preferisca un genere musicale rispetto a un altro e, quindi, dal suo coinvolgimento, emerso oltre che da indagini qualitative, anche da un oggettivo aumento dell’attività elettrodermica, del ritmo respiratorio e del battito cardiaco (Taruffi e Küssner, 2019).

Cos’è il colored hearing

Non si sa perché il mind-wandering si verifichi ma è ben nota la sua associazione con l’attivazione delle regioni corticali implicate nel Default Mode Network, come la corteccia prefrontale mediale (mPFC), la corteccia cingolata posteriore (PCC) e il precuneo, attive quando il cervello ‘riposa’, ossia non è impegnato in compiti che richiedono un’attenzione focalizzata (Malia et al., 2007).

Il più delle volte, inoltre, capita che le immagini evocate trascendano la modalità visiva e canalizzino, attraverso l’integrazione di più processi, informazioni relative a sensazioni, quali texture o spessore, posizione e movimento, per creare delle immagini multimodali che si avvicinino alla nostra percezione del mondo. Non a caso, infatti, sembra che nel mind-wandering possa affacciarsi l’esperienza della sinestesia: ed ecco che il colored hearing, ossia la capacità di trasformare i suoni in colori, dà il via alla Fantasia (Soheili & Kokabi, 2018).

In questo caso, però, frutto di differenze strutturali e funzionali individuate a livello cerebrale, si osserva una maggiore attivazione delle regioni mediali della via visiva ventrale, della corteccia parietale e di alcune aree implicate nell’integrare attenzione, emozioni e memoria (Eagleman e Googale, 2009; Taruffi e Küssner, 2019). Ciononostante, persone con sinestesia e non, tendono a produrre associazioni simili! Infatti, i suoni acuti sono percepiti come più luminosi, piccoli e leggeri rispetto ai suoni gravi, collocandosi in alto nello scenario immaginato, mentre la musica sembra spostarsi da sinistra a destra o viceversa, a seconda della propria cultura di appartenenza (Ward, 2013).

 

L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti (2021) di Matteo Lancini – Recensione

Il nuovo volume di Matteo Lancini intitolato L’età tradita arte parte dalle accuse rivolte ai giovani in questo periodo storico per invitare a trasformare la crisi che stiamo vivendo in una preziosa occasione di crescita e di riflessione.

 

Guardate cosa combinano i ragazzi mentre i nostri anziani muoiono‘. Giovani onnipotenti, trasgressivi, individualisti, irresponsabili. Così risultano gli adolescenti nell’immaginario collettivo e ancor più sono stati così additati durante la pandemia.

L’autore, psicologo e psicoterapeuta da anni impegnato nelle tematiche legate all’adolescenza, parte proprio dalle accuse rivolte ai giovani in questo periodo storico per sottolineare il fallimento dei modelli educativi finora adottati dagli adulti e per invitare questi ultimi a trasformare la crisi che stiamo vivendo in una preziosa occasione di crescita e di riflessione che permetta una presa di coscienza delle proprie responsabilità e delle contraddizioni educative poste in essere negli ultimi decenni.

Per poter mettere in atto una vera e propria trasformazione culturale è necessario in primo luogo favorire una maggiore conoscenza e comprensione dell’adolescente, abbandonando una visione ageistica dello stesso. L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti risulta, dunque, un ottimo volume a cui affidarsi per capire al meglio l’adolescente, con le sue complessità e fragilità, e riconoscere le nuove normalità e le nuove forme di disagio che caratterizzano il presente.

È interessante notare come l’ageismo sia divenuto un tema molto sentito a seguito delle criticità emerse con l’emergenza Covid-19, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stessa ha pubblicato recentemente un report globale sul fenomeno, sottolineando come questa forma di discriminazione abbia un forte impatto sulla salute psico-fisica di chi ne è vittima (WHO, 2021).

Di seguito, alcune delle tematiche trattate dall’autore nel suo volume.

La situazione scolastica

L’autore, prima di addentrarsi nello sfatare i principali miti dell’adolescenza, affronta con uno stile decisamente tagliente le contraddizioni manifestate dall’istituzione scolastica.

L’emergenza epidemiologica ha portato, come sappiamo, alla chiusura delle scuole e all’utilizzo della didattica a distanza (DAD), strumento che si è rivelato essere sicuramente pratico e strategico ma che ha fatto emergere non poche falle.

In primo luogo, la povertà digitale diffusa e la sovraesposizione e vergogna sociale sperimentati dai ragazzi, costretti a rendere pubblici i propri spazi privati, hanno determinato un aumento della dispersione scolastica, fenomeno già diffuso prima della pandemia.

In secondo luogo, la DAD ha messo in evidenza il ruolo relazionale ed emotivo oltre che formativo della scuola. Come sottolineato da Lancini, è ormai risaputo che il clima affettivo che viene a crearsi in un gruppo classe abbia una rilevante incidenza nei processi di apprendimento.

Infine, l’accanimento nei confronti degli studenti verificatosi al rientro nelle scuole ha messo in evidenza la perdita da parte del corpo docente del senso e dello scopo del proprio ruolo educativo: dare priorità ai compiti evolutivi, affettivi e relazionali tanto quanto all’apprendimento puramente nozionistico.

Bambini adultizzati e adolescenti infantilizzati

Per l’autore alla base dell’incomprensione nei confronti dell’adolescente vi è una ormai radicata emergenza educativa che si manifesta con una precocizzazione e adultizzazione del bambino, iperstimolato all’autonomia, alla socializzazione e alla realizzazione di sé, a cui fa seguito una infantilizzazione dell’adolescente, soggetto continuamente a paletti, regole e limiti.

I ragazzi del nuovo millennio hanno seguito alla lettera le richieste familiari fin dall’infanzia, non sono più oppositivi e trasgressivi come un tempo, ma nonostante ciò i compiti evolutivi di questa fase di vita rimangono gli stessi: accettare le trasformazioni corporee, separarsi dai genitori, individuare il proprio ruolo sociale. L’incomprensione nasce nel momento in cui il mondo adulto non contestualizza i comportamenti adolescenziali e il loro funzionamento psichico, affettivo e relazionale.

La soluzione, per l’autore, è ‘puntare sulla responsabilità più che sul controllo, su modelli formativi cooptativi piuttosto che passivizzanti […] Responsabilizzarli, invece che accusarli di essere diventati irresponsabili‘.

Onnipotenti, ribelli e trasgressivi

Tra i luoghi più comuni sull’adolescenza vi sono quelli che vedono la ribellione, la trasgressione e il senso di onnipotenza quali tratti caratteristici di tale fase di vita.

In realtà, l’autore dimostra come i ragazzi di oggi siano molto cambiati rispetto a quelli delle epoche storiche precedenti. La ribellione e la trasgressione hanno lasciato il posto alla delusione: se in passato la violazione era alimentata da un’infanzia mortificante, ora l’adultizzazione del bambino lascia il posto a un senso di inadeguatezza per la mancata corrispondenza tra ciò che si è e le elevate aspettative della società.

L’adolescenza, inoltre, è l’età in cui termina il senso di onnipotenza e si diviene maggiormente consapevoli dei propri limiti e, dunque, della propria morte. Secondo, infatti, gli studi sulla maturazione del concetto di morte in età evolutiva, è proprio intorno ai 12 anni che l’individuo accetta la morte come parte integrante e inevitabile della vita (Nagy, 1948).

La sessualità

Oggi è importante penetrare la mente dell’altro, non il suo corpo. […] Per questo motivo contano molto di più il selfie e il sexting‘.

L’autore, tenuto conto della propria esperienza clinica, ha riscontrato nel corso dei decenni una riduzione dell’interesse da parte dei giovani per le tematiche relative alla sessualità.

Anche in questo caso, il comportamento adolescenziale viene ricondotto al modello educativo sociale e familiare dominante. Se in passato la difficoltà dell’adolescente nell’accettare l’impulso sessuale era spiegata da una cultura essenzialmente sessuofobica, ora la difficoltà sperimentata sta nell’accettare il proprio corpo alla luce dei canoni di bellezza dominanti e del bisogno di notorietà e riconoscimento indotti da questa società.

È colpa di Internet

Altro stereotipo trattato da Lancini è ritenere che i comportamenti disfunzionali degli adolescenti siano dovuti alla dipendenza da Internet.

I nativi digitali si sono trovati a nascere e crescere in un mondo dove la connessione Internet è del tutto indispensabile per la vita quotidiana. È proprio l’adulto, divorato dalle proprie fragilità, ansie e angosce, il responsabile di questa rivoluzione digitale: ha impedito al bambino di fare esperienze di socializzazione all’aperto per paura che si ‘sbucciasse’, equipaggiandolo sempre più precocemente di uno smartphone e impedendogli qualsiasi fisiologico processo separativo.

Ma la contraddizione più lampante è avvenuta proprio con la pandemia: se prima Internet era una minaccia per la crescita e la salute dei più giovani, ora è obbligatorio il suo utilizzo e una disconnessione dall’ambiente virtuale equivale ad una vera e propria assenza dall’ambiente educativo.

In conclusione, L’età tradita risulta essere una preziosa opportunità di riflessione per genitori, insegnanti, psicologi e adulti in generale, sulla necessità di rivoluzionare i modelli educativi proposti e l’attuale offerta formativa scolastica, alla luce dei bisogni espressi dagli adolescenti e del periodo storico che stiamo vivendo, catalizzatore di inevitabili cambiamenti.

 

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