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Quando ti controllo ma so che non dovrei farlo. L’influenza della gelosia comportamentale e del rimuginio nella coppia secondo una prospettiva LIBET

L’estrema gelosia romantica è una delle principali cause di disagio nelle coppie (Pines, 1998). I comportamenti dettati dalla gelosia possono essere ulteriormente rinforzati da una componente metacognitiva, come il rimuginio (Lehay e Tirch, 2008).

 

L’estrema gelosia romantica è una delle principali cause di disagio nelle coppie (Pines, 1998). Le emozioni associate a essa possono includere la rabbia, la paura, la tristezza, l’invidia e l’umiliazione; tutte emozioni che tipicamente hanno un impatto fortemente negativo sulla soddisfazione relazionale e sul benessere della coppia. Oltre alla componente emotiva, la gelosia può causare una serie di sintomi fisiologici quali dolori allo stomaco, difficoltà nel dormire, sensazioni di affaticamento, tremore alle mani e battito cardiaco aumentato.

Osservando la gelosia romantica attraverso una prospettiva multidimensionale, essa si rivela essere composta da tre differenti dimensioni: una dimensione cognitiva, la quale fa riferimento alla frequenza di sospetti e preoccupazioni di un individuo riguardo la possibilità che il partner possa provare interesse verso un’altra persona; una dimensione emotiva, che fa riferimento al grado di attivazione emotiva che un individuo esperisce quando si trova ad affrontare una situazione di gelosia; una dimensione comportamentale, che comprende un insieme di azioni volte al controllo del proprio partner, al monitoraggio dei suoi spostamenti e all’invasione della sua privacy, con lo scopo di affrontare la minaccia di un rivale, sia esso reale o immaginario, che possa compromettere la stabilità della relazione (Pfeiffer e Wong, 1989; Elphinston et al., 2013).

Tali comportamenti possono essere ulteriormente rinforzati da una componente metacognitiva, come il rimuginio (Lehay e Tirch, 2008). Esso, infatti, riveste un ruolo chiave nei pensieri che elicitano i comportamenti gelosi. Lo stato di preoccupazione verso il rivale può causare una disfunzionale ipervigilanza costante, che ha lo scopo di prevenire ogni potenziale minaccia, o di preparare la persona a essere in grado di gestire al meglio tale minaccia, qualora si verificasse. Questo stato di continua ipervigilanza rende l’individuo molto suscettibile all’interpretazione errata di ogni tipo di stimolo, sia esso anche neutro, associando ogni informazione ottenuta a possibili minacce verso la stabilità della relazione.

La gelosia comportamentale

La gelosia comportamentale fa riferimento alla frequenza con la quale un individuo attua dei comportamenti di controllo (Elphinston et al., 2011). Può essere espressa in differenti modalità, per esempio si possono attuare comportamenti di sorveglianza volti a controllare il partner o comportamenti aggressivi e violenti (Elphinston et al., 2013). Il continuo porre domande di carattere inquisitorio, il parlare continuamente della propria gelosia e l’eccessiva richiesta di sicurezza dal proprio partner sono azioni che solitamente hanno un impatto altamente negativo sulla soddisfazione diadica (Yoshimura, 2004).

La caratteristica principale dell’individuo geloso, solitamente, è il bisogno di controllare e mantenere la supremazia sulla relazione, anche in condizioni di stabilità (Giusti e Frandina, 2017). Questa ricerca di controllo è caratterizzata da un’attenzione minuziosa ad ogni particolare, rendendo la relazione una continua forma di controllo sul partner, causando così uno spostamento dell’attenzione sulla ricerca di dettagli che confermino i propri timori, piuttosto che sul tentativo di controllare i propri comportamenti.

La gelosia e il rimuginio

Spesso, il rimuginio ansioso compromette diverse aree di vita di un individuo, causando problematiche lavorative, interpersonali e di coppia (Ruiz et al., 2019). Le preoccupazioni inerenti alla relazione di coppia sono frequentemente incentrate sui sentimenti del partner, la stabilità della relazione e il suo futuro, giustificando così la presenza di atti di gelosia spesso eccessivi, che possono risultare in disagi relazionali, fino ad arrivare, in alcuni casi, alla separazione della coppia. A livello metacognitivo, l’individuo geloso è sicuro del fatto che un’ipervigilanza perenne sia utile per prevenire ogni tipo di sorpresa, preparandolo al peggio e facendo in modo che non soffra eccessivamente nel momento in cui scoprirà la verità (Leahy e Tirch, 2008). Tipicamente, l’individuo geloso rimuginante ha paura di lasciare scoperta la guardia e di trovarsi impreparato ad affrontare la minaccia. È presente una forte attivazione cognitiva persistente, in quanto la persona gelosa continua a cercare nella sua mente pensieri o memorie riguardanti la gelosia, che possano giustificare i suoi pensieri.

Inoltre, il rimuginio elicita delle strategie di coping disfunzionali che possono compromettere negativamente la soddisfazione relazionale (Leahy e Tirch, 2008). Alcune di queste strategie disfunzionali possono comprendere l’attacco al partner, sotto forma sia di offese verbali che di aggressioni fisiche, oltre al continuo monitoraggio dei suoi spostamenti, con la possibilità di arrivare a minacce dirette al partner. In aggiunta, è possibile che l’individuo geloso rimuginante sviluppi bias attentivi, come la lettura della mente (e.g. ‘Lei è interessata a lui’), la personalizzazione (e.g. ‘Lui sta leggendo il giornale perché non è più interessato a me’), la previsione catastrofica del futuro (e.g. ‘Mi lascerà’) e la generalizzazione (e.g. ‘Lui fa sempre così’). Inoltre, anche gli schemi emotivi dell’individuo geloso hanno un ruolo importante, in quanto condizionano significativamente la visione della realtà della persona gelosa. L’intensità emotiva viene utilizzata come rinforzo della veridicità delle proprie idee di pericolo per la relazione, soprattutto se le emozioni esperite dall’individuo risultano incontrollabili.

La coppia e la gelosia da una prospettiva LIBET

Osservando questi comportamenti attraverso una prospettiva LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment; Sassaroli et al., 2017), essi potrebbero essere letti come piani semi-adattivi, e possono essere percepiti come utili e/o incontrollabili.

Secondo il modello LIBET, l’interazione tra i partner avviene tramite l’utilizzo delle proprie convinzioni; in base a esse gli individui agiscono, pensano, vivono emozioni e pensano sui propri pensieri e sui pensieri del proprio partner, interagendo con le proprie convinzioni distorte, i propri pensieri, le proprie emozioni e i propri comportamenti (Rebecchi e Vinai, 2017). All’interno della coppia, l’individuo ha costruito, e costantemente costruisce, le sue credenze sulla coppia, ovvero assunti, standard, comportamenti relazionali e credenze metacognitive. L’interazione tra i piani dei singoli genera il piano di vita della coppia, che ne rappresenta l’unicità, ed è dato dall’insieme delle credenze relazionali di entrambi i partner (e.g. credenze definitorie su scopi e modalità di essere della coppia), dalle metacredenze (e.g. tolleranza nel fronteggiare le differenze e i cambiamenti) e dagli standard (e.g. convinzioni sulla relazione e il partner ideali).

Quando i piani semi-adattivi di entrambi i partner si incontrano, e interagiscono tra loro, può accadere che l’interazione che ne nasce diventi rigida e inflessibile, causando un’escalation di cicli interpersonali disfunzionali (Rebecchi e Vinai, 2017). Per esempio, può accadere che in una coppia l’individuo decida di non tollerare più gli atteggiamenti e i comportamenti di gelosia del partner, che ha sempre sopportato, poiché ritiene che siano diventati eccessivi. In questo caso, probabilmente l’individuo reagirà con comportamenti ed emozioni di distacco e rifiuto nei confronti del partner geloso. Quest’ultimo, di conseguenza, aumenterà il suo livello di ansia e i comportamenti di controllo causati da essa.

Se osservate singolarmente, la gelosia comportamentale e il rimuginio risultano quindi essere due variabili che hanno una forte influenza sulla soddisfazione diadica. Nel caso in cui ci dovesse esserci un’interazione tra le due, la soddisfazione relazionale risulterebbe ulteriormente compromessa. Fortunatamente, è possibile affrontare queste problematiche con un percorso di psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, partendo da una concettualizzazione del caso condivisa, per poi indagare i pensieri irrazionali che sono alla base dei comportamenti di gelosia (Lehay e Tirch, 2008).

 

Slamsex: quando iniettare droga diventa pratica sessuale

Il termine slamsex indica un particolare modo di assumere droghe e un particolare tipo di sesso. Lo slamming si riferisce alla pratica di iniettare droghe – tipicamente la metanfetamina – per via endovenosa. Accostare il termine ‘slamming’ con ‘sesso’ significa fare della somministrazione endovenosa di droga l’elemento definitivo nella delineazione di una pratica sessuale.

Articolo tratto da “Injecting as a sexual practice: Cultural formations of ‘slamsex’ di Race e colleghi (2021)

 

Lo slamsex

Il termine slamsex trova la sua origine nel gergo gay degli ultimi anni per indicare un particolare modo di assumere droghe e un particolare tipo di sesso. Lo slamming si riferisce in questo contesto alla pratica di iniettare droghe – tipicamente la metanfetamina – per via endovenosa. Accostare il termine ‘slamming’ con ‘sesso’ significa fare di una via di somministrazione della droga l’elemento definitivo nella delineazione di una pratica sessuale.

Lo slamsex può essere considerato una sottocategoria del chemsex, un termine che i professionisti hanno trasposto dal gergo gay per nominare quello che ritenevano come un insieme problematico di comportamenti (Race, 2018). Ma laddove le definizioni del chemsex specificano l’uso di particolari sostanze – tipicamente metanfetamina, gamma idrossibutirrato/gamma butirrolattone (GHB/GBL) e mefedrone – e contesti (incontri mediati da app) come caratteristiche integranti della pratica, lo slamsex fa riferimento a uno specifico modo di somministrare le relative sostanze, ed è emerso come oggetto di interesse solo più recentemente. Inquadrare lo slamming come una preferenza sessuale implica dirigere l’attenzione agli attaccamenti erotici che alcuni praticanti sviluppano a vari aspetti dell’esperienza, tra cui: i rituali di preparazione e sistemazione delle droghe e delle attrezzature; le attività coinvolte nella somministrazione della droga e i vari ruoli che questo comporta;  le sensazioni caratteristiche e le intensità dello ‘sballo’ e le possibilità sessuali a cui queste danno luogo. In quest’ottica, l’attaccamento delle persone a questo metodo di somministrazione della droga è legato ai loro desideri per un determinato tipo di esperienza sessuale. Questa modalità di somministrazione della droga potrebbe dunque essere considerata parte dell’incontro sessuale, piuttosto che semplicemente un mezzo per un fine.

I significati dello slamsex

Mentre gli studi preliminari sono stati poco espliciti sui piaceri, i desideri e le motivazioni che animano la pratica, preoccupati principalmente dai rischi a essa associati – specialmente la trasmissione dell’HIV e dell’epatite C (Scheibein et al., 2020) – lo studio di Race et al. (2021) ha esplorato le dimensioni qualitative dello slamsex e i significati, gli attaccamenti e i ruoli che lo costituiscono come pratica sessuale.

Per indagare al meglio il fenomeno dello slamsex sono state inizialmente raccolte le interviste semi-strutturate approfondite di 42 persone coinvolte nel Chemical Practices Project, uno studio australiano che indaga il consumo di droghe legali ed illegali nella comunità LGBTQ+. L’analisi qualitativa dello studio di Race e colleghi (2021) si basa su 13 interviste fatte a chi avesse precedentemente dichiarato di fare uso di metanfetamina, somministrata per endovena, in un periodo di tempo che andava dall’anno precedente ad almeno dieci anni. Tutti i partecipanti erano uomini apertamente omosessuali di un’età compresa fra i 27 ed i 66 anni, provenienti da Sydney o Melbourne. Le interviste sono state audio registrate, trascritte, rese anonime tramite l’assegnazione di pseudonimi e codificate tramite il software NVivo.

Nelle interviste sono state indagate diverse aree legate al fenomeno quali la differenza fra assumere la metanfetamina endovena o per inalazione e il ruolo della sostanza e della ‘ritualità’ dello slamming all’interno delle relazioni erotiche.

Lo slamsex e l’iniezione di sostanze

Dalle interviste condotte è emerso che, sebbene esistano numerose tipologie di droghe che possano essere assunte per scopi differenti, la ricorrenza e la coerenza del collegamento tra slamming e sesso nei resoconti dei partecipanti potrebbe essere la prova di una cultura sessuale emergente che valorizza l’intensità delle sensazioni corporee. Alcuni praticanti dello slamsex rivestono di significati erotici la figura dell’’iniettore’, il quale si fa carico di iniettare la droga in modo responsabile, prendendosi cura del partner sessuale. La scelta di farsi iniettare la sostanza si configura come un’attenta negoziazione tra le fantasie sessuali interpersonali e i desideri relazionali, la visione erotica legata al sottomettersi alle competenze altrui e il grado di responsabilità che si è disposti ad assumere quando si inietta la metanfetamina. Il ruolo dell’iniettore molto spesso viene percepito a tutti gli effetti come un lavoro che comporta delle ricompense: status sociale, piacere vicario, persino retribuzione e qualsiasi altro beneficio che potrebbe derivare dall’essere considerato per la propria capacità di dare piacere agli altri. Dallo studio è emerso inoltre un uso consapevole delle siringhe utilizzate per le iniezioni, che offre il potenziale per creare relazioni di fiducia, sottomissione, vulnerabilità e cura tra partecipanti, contribuendo a delineare relazioni e ruoli slamsex come l’iniettore competente, il destinatario sottomesso e la loro dinamica erotica. Alcuni partecipanti hanno affermato di preferire l’iniezione all’inalazione poiché la prima consente loro di sperimentare un maggiore senso di connessione erotica. Il fenomeno dello slamsex porta con sé delle preoccupazioni legittime relative ai rischi correlati all’iniezione e, a tal proposito, Race (2021) suggerisce di pensare, insieme a chi pratica slamsex, a possibili strategie di riduzione dei rischi  che incontrino le esigenze relazionali, erotiche e semantiche di chi adotta questa pratica sessuale.

 

Perché si crede alle teorie del complotto

Le teorie del complotto resistono a qualunque prova di falsificazione, non sono quindi verificabili in quanto si basano su assunti e teorie non dimostrabili.

 

Secondo il vocabolario Treccani on line, un complotto è una Cospirazione, congiura, intrigo ai danni delle autorità costituite o di persone private.

I complotti esistono, fin dall’antichità. Fu un complotto quello ordito dai senatori a danno di Giulio Cesare, che fu assassinato il 15 marzo del 44 a.C., così come fu un complotto quello architettato dal presidente americano Richard Nixon – il famoso scandalo Watergate – contro gli avversari democratici, che portò alle sue dimissioni l’8 agosto 1974 (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019)

Definizione di teorie del complotto

Se quindi i complotti esistono cosa si intende quindi per teorie del complotto?

Tali teorie prevedono che un gruppo segreto di cospiratori, ordisca e manovri tutto quello che accade (Uscinski, 2017). Nelle teorie del complotto nulla è come sembra e niente accade per caso (COMPACT Education Group, 2020). L’idea di base delle teorie del complotto è che, cercando a fondo, si trovano connessioni tra persone, fatti ed organizzazioni che chiariscono cosa sta succedendo in realtà (COMPACT Education Group, 2020), perché in fondo, “sotto sotto qualcosa non va” (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020)

Le teorie complottiste resistono a qualunque prova di falsificazione (Uscinski, 2017). Esse non sono quindi verificabili in quanto si basano su assunti e teorie non dimostrabili.

È comunque importante determinare quando una notizia risulta attendibile visto che talvolta scomode verità sono bollate a fini politici come fake o teorie cospirative (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Bisogna poi tenere presente che vi è differenza tra fake news e teorie del complotto. Ciò in quanto, in linea generale, le fake news sono intenzionalmente diffuse, mentre i fautori delle teorie del complotto credono veramente nelle teorie medesime. Inoltre, sempre in linea generale, la narrativa retrostante le fake news non prevede l’intervento di sinistri gruppi di cospiratori, che sono invece sempre presenti nelle teorie del complotto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Le teorie del complotto ‘storiche’

Nella storia del complottismo possiamo individuare alcune teorie ‘storiche’, come quella sull’assassinio del Presidente Kennedy (Karen M. Douglas e altri, 2019). Infatti, in molti credono che Kennedy non sia stato ucciso da Lee Harvey Oswald, ma da un gruppo di cospiratori composto in varie maniere, a seconda della teoria a cui si decide di credere (Posner, 1993) (Adams, 2011). Il tema sull’assassinio Kennedy è molto sentito negli Stati Uniti, dove di tanto in tanto si fanno sondaggi sull’argomento, che danno risultati diversi a seconda del momento storico (AEI Public Opinion Studies, 2013).

Queste variabilità nei risultati sono confortate dagli studi che hanno evidenziato che in periodi di sfiducia nelle istituzioni, si tende a credere di più alle teorie del complotto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019). Nello stesso senso anche nei periodi di incertezza (Karen M. Douglas e altri, 2019) (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) e in quelli di instabilità economica (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Altre teorie del complotto, che possiamo definire ‘consolidate’ sono quelle relative al presunto falso sbarco sulla Luna (AEI Public Opinion Studies, 2013) nonché quella relativa all’11 settembre 2001, che molti credono sia stato un ‘inside job’ del governo americano. Anche in quest’ultimo caso, a seconda della teoria, il governo ha lasciato che accadesse o ha partecipato attivamente a organizzare la demolizione delle Torri Gemelle (AEI Public Opinion Studies, 2013).

È stato inoltre visto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) che i democratici maggiormente credono a queste teorie sull’11 settembre, considerato che all’epoca il presidente statunitense era il repubblicano George Bush Jr.

Le ‘nuove’ teorie del complotto

In questi ultimi anni, ‘nuove’ teorie del complotto si aggiungono alle ‘vecchie’ (Signorelli, 2021) come la teoria di QAnon, che vede Trump come un eroe che combatte segretamente contro i Democratici che, secondo la teoria, sarebbero satanisti e pedofili.

Trovandoci in tempo di pandemia non potevano poi mancare le teorie sul vaccino contro il COVID 19 che si affiancano alle ‘tradizionali’ teorie antivacciniste (Zheng Yang e altri, 2021), regalo di Andrew Wakefield.

Chi crede alle teorie del complotto e perché

È stato visto che i complottisti in genere credono in più di una teoria (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) (Robert Brotherton e altri, 2013). Inoltre è stato osservato che possono anche credere in più teorie che riguardano uno stesso argomento, anche se si contraddicono tra di loro.

Ad esempio, molti credono che la Principessa Diana sia morta per mano dell’MI6 – il servizio segreto britannico – ma che abbia anche simulato la sua morte (Karen M. Douglas e altri, 2019) (Karen M. Douglas e altri, 2012). In senso analogo c’è chi crede che Osama Bin Laden fosse già morto al momento del blitz degli americani ma che, nel contempo, non è vero che sia morto (Karen M. Douglas e altri, 2012).

In linea generale, i complottisti si collocano ai margini della società (Karen M. Douglas e altri, 2019) (Karen M. Douglas e altri, 2017) e sono insoddisfatti della loro situazione. Essi, quindi, cercano di attribuire la colpa della loro situazione ad altri, in genere alle istituzioni pubbliche (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

È stato però anche osservato che gli aderenti alle teorie cospiratorie, talvolta cercano di soddisfare bisogni di socializzazione (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

In ogni caso, credere in una teoria porta a far parte di gruppi nei quali prevale la logica del ‘noi’ contro ‘loro’ (Karen M. Douglas e altri, 2019). Alcuni studi, in particolare statunitensi, hanno poi evidenziato che gli afroamericani sono in genere più propensi a credere alle teorie complottiste (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Ulteriori motivi per credere alle teorie del complotto sono il bisogno di sentirsi unici e ‘diversi’ dagli altri (Anthony Lantian e altri, 2015), nonché la convinzione di avere conoscenze ‘segrete’ che nemmeno gli esperti hanno (Karen M. Douglas e altri, 2019). È stato poi osservato che gli aderenti alle teorie del complotto hanno scarse capacità di pensiero logico (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019; Viten Swami e altri, 2014) e bassi livelli di istruzione. Talvolta l’adesione a teorie complottiste soddisfa dei bisogni narcisistici di gruppo (Karen M. Douglas e altri, 2019).

Le conseguenze delle teorie del complotto

L’adesione alle teorie del complotto può comportare molte conseguenze, in generale da evitare.

Può quindi aversi un minore impegno in politica o anche una mancata adesione alle azioni per la lotta contro il cambio climatico (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

È stato poi evidenziato che i soggetti che aderiscono alle teorie no-vax sono ovviamente contrari alla vaccinazione, sia in linea generale, sia per quella specifica contro il COVID 19 (Zheng Yang e altri, 2021). Il paradosso che risulta da alcune ricerche è che comunque l’anti vaccinista, pur non negando l’esistenza del COVID 19, rifiuta di mettere in atto le politiche di prevenzione, come l’uso della mascherina ed il distanziamento sociale (Kinga Bierwiaczonek e altri, 2020). Quanto detto comporta, ovviamente, grossi rischi sia per lo stesso no-vax, sia per la salute pubblica.

I complottisti, peraltro, lungi dall’essere un puro fenomeno di folclore, si sono resi spesso responsabili di azioni violente (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019). Ad esempio, in tempi recenti (6 gennaio 2021) gli aderenti alla teoria di QAnon, hanno invaso il Campidoglio a Washington causando cinque morti.

Ulteriori esempi sono poi dati dalle follie di Timoty Mc Veigh e Anders Breivik (Karen M. Douglas e altri, 2019). Il primo è responsabile per l’attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, che causò la morte di 168 persone. Breivik, norvegese, è invece l’autore degli attentati del 22 luglio 2011 in Norvegia, che determinarono 77 vittime (Karen M. Douglas e altri, 2019) a causa dell’adesione alle teorie dell’islamizzazione (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Tali azioni omicide sono coerenti con i risultati di alcune ricerche (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020) le quali hanno evidenziato che i complottisti ritengono accettabile l’uso della violenza. I ‘mezzi forti’ sono comunque ritenuti accettabili più dagli uomini che dalle donne (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020)

In alcuni casi è stato però evidenziato che la ‘spinta’ delle teorie del complotto può influenzare in senso positivo l’azione delle istituzioni pubbliche, inducendo ad una maggiore trasparenza delle stesse (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Come parlare ai complottisti

Non è facile parlare ai complottisti perché il loro modo di ragionare si basa sul sospetto e sul rifiuto delle prove (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020). Considerato che i complottisti ritengono di essere liberi pensatori, è stato suggerito che ci si dovrebbe appellare all’utilizzo del pensiero critico, per poi ridirezionarlo al fine di valutare in maniera adeguata le evidenze ed i fatti accertati (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020).

Si ritiene comunque opportuno evitare di ridicolizzare i complottisti (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020). Sempre molto elevati sono poi i rischi di ‘backfire effect’ cioè il rifiuto di qualsiasi evidenza e l’utilizzo della stessa come prova del complotto (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020).

 

DSM-5-TR: quali novità?

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, Text Revision, DSM-5-TR, è la risorsa più completa e attuale di cui i professionisti della salute mentale possano disporre.

 

Il DSM-5-TR, rispetto all’edizione precedente, include testi e riferimenti scientifici completamente revisionati, nonché un aggiornamento dei criteri diagnostici e dei codici ICD-10-CM.

Inoltre presenta un nuovo disturbo, il Disturbo da Lutto Persistente, e anche i codici per il comportamento suicida e autolesionismo non suicidario, utilizzabili dal clinico senza la necessità di porre alcun’altra diagnosi.

In uscita nel mese di marzo 2022, DSM-5-TR fornisce una presentazione coerente e aggiornata di criteri, codici diagnostici e del testo (American Psychiatric Association, 2021).

Quali novità nel DSM-5-TR?

  • Testo completamente rivisto per ciascun disturbo con sezioni aggiornate su caratteristiche associate, prevalenza, sviluppo e decorso, fattori di rischio e prognostici, cultura, marcatori diagnostici, suicidio, diagnosi differenziale e altro ancora.
  • Aggiunta del disturbo da Lutto Persistente alla Sezione II.
  • Oltre 70 set di criteri modificati con utili chiarimenti dalla pubblicazione del DSM-5
  • Introduzione e utilizzo del manuale completamente aggiornati per guidare l’utente nell’utilizzo e per fornire una terminologia comune.
  • Considerazioni sull’impatto del razzismo e delle discriminazioni sui disturbi mentali.
  • Nuovi codici per segnalare e monitorare il comportamento suicidario e autolesionismo non suicidario, a disposizione di tutti i medici di qualsiasi disciplina e senza la necessità di alcun’altra diagnosi
  • Ripristinato il ‘Disturbo dell’umore non specificato’ per presentazioni di umore misto che non soddisfano i criteri per un disturbo bipolare o depressivo.
  • Codici ICD-10-CM completamente aggiornati e implementati dal 2013, inclusi oltre 50 nuovi aggiornamenti di codifica, per intossicazione e astinenza da sostanze e altri disturbi.
  • Classificazione diagnostica aggiornata e riprogettata.
  • Due disturbi sono stati rinominati: la disabilità intellettiva è ora rinominata disturbo dello sviluppo intellettuale e il disturbo di conversione è rinominato disturbo da sintomi neurologici funzionali.
  • Aggiornamenti della terminologia e della nomenclatura. Il termine ‘neurolettico’ viene sostituito da altri termini che dipendono dal contesto in cui viene utilizzato. Verrà utilizzato ‘Farmaco antipsicotico’ quando ci si riferisce al trattamento dei sintomi psicotici, mentre ‘medicinali antipsicotici o altri agenti bloccanti i recettori della dopamina’ quando ci si riferisce alla classe farmacologica più ampia. Questa decisione è stata presa poiché il termine neurolettico enfatizzava gli effetti collaterali. Pertanto non sarà più utilizzato se non nel caso della ‘sindrome neurolettica maligna’.
  • Aggiornamenti significativi alla terminologia utilizzata per descrivere la disforia di genere. Il termine ‘genere desiderato’ è ora sostituito da ‘genere esperito’, il termine ‘procedura medica per il cambio di sesso’ è ora ‘procedura medica di affermazione del genere’ e il termine ‘maschio alla nascita’/’femmina alla nascita’ è ora ‘maschio assegnato all’individuo /femmina alla nascita’.

Disturbo da Lutto Persistente nel DSM-5-TR

Il disturbo da Lutto Persistente o Prolonged Grief Disorder (PGD) è il risultato di anni di ricerca ed esperienza clinica che indicano che alcune persone sperimentano un’incapacità pervasiva a superare il lutto per la perdita di una persona cara e tali sintomi sono così gravi da influenzare il funzionamento quotidiano dell’individuo. Si stima che in seguito alla perdita non violenta di una persona cara, 1 adulto su 10 sia a rischio di sviluppare un disturbo da lutto persistente.

Codici comportamento suicidario e autolesionismo non suicidario nel DSM-5-TR

I codici del comportamento suicidario e dell’autolesionismo non suicidario compaiono nella Sezione II, capitolo ‘Altre condizioni che possono essere al centro dell’attenzione clinica’. Questo capitolo presenta condizioni e problemi che non sono disturbi mentali di per sé, ma per i quali è utile disporre di un modo sistematico di registrazione, per i ricercatori, perché può aiutarli a tenere traccia della prevalenza e delle correlazioni, e per i clinici, perché queste condizioni possono giustificare attenzione continua.

Il codice dei sintomi del comportamento suicidario può essere utilizzato per le persone che si sono impegnate in comportamenti potenzialmente autolesionistici con almeno una certa intenzione di morire a causa dell’atto. La prova dell’intenzione di porre fine alla loro vita può essere esplicita o dedotta dal comportamento o dalle circostanze. Un tentativo di suicidio può comportare o meno un vero e proprio autolesionismo.

Invece, il codice dei sintomi dell’autolesionismo non suicidario può essere utilizzato per le persone che hanno intenzionalmente inflitto dei danni al proprio corpo e che di conseguenza possono presentare: sanguinamento, lividi o dolore (ad esempio, tagliando, bruciando, pugnalando, percuotendo o eccessivo sfregamento) in assenza di intenti suicidi.

Per quali disturbi sono stati revisionati i criteri nel DSM-5-TR?

Inoltre, sono state apportate modifiche alle definizioni degli specificatori per diversi disturbi (Moran, 2021).

In Conclusione il DSM 5 -TR, in uscita a marzo 2022, sembra apportare innumerevoli modifiche di varia natura, dimostrando di essere uno strumento adattivo e perfettibile, sempre migliorabile per poter essere più adeguato al raggiungimento degli obiettivi preposti. Non resta che aspettare l’uscita, che per adesso è disponibile solo in lingua inglese.

 

Le prigioni esistenziali in ‘America Latina’ (2022) – Recensione del film

Nella recensione a seguire si proporrà una rilettura psicologica del film America Latina, proponendo al lettore alcuni intrecci con la letteratura di stampo esistenzialista.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Introduzione

America Latina è un film tagliente, crudo, con un color grading dalle tinte oniriche e febbrili.

Alcune scene paiono quasi accostarlo a un tipico B-movie, sia anche per l’intento abbastanza esplicito di disturbare l’attenzione dell’osservatore – che ne risulta, in maniera magistrale, puntualmente sospesa.

Le colonne sonore, firmate dal trio bergamasco dei Verdena, aggiungono ulteriore acidità corrosiva e spessore emotivo al susseguirsi di scene horror e, solo secondariamente, dai toni di thriller psicologico.

I dialoghi stringati, l’ambientazione spazio-temporale volutamente vaga e poco esplorata, sono tutti elementi atti a descrivere il reale set della narrazione: le coordinate interiori del protagonista che, al tempo stesso, è anche antagonista. In effetti, l’intero film si innesta proprio lungo questa ambivalente tensione che, l’attore stesso, riesce bene ad incarnare e performare nel corso della pellicola.

La trama è nota:

Massimo è un dentista di Latina benestante, felicemente sposato e con due figlie. Un giorno come un altro, scende in cantina per una faccenda domestica e vi trova una ragazza legata e imbavagliata che chiede aiuto (Wikipedia).

Kafka in America Latina

Personalmente ho trovato l’attore condannato a vivere, in maniera ossessiva e perentoria, un dramma Kafkiano, più precisamente, è tutto lo schema narrativo che assume caratteristiche del tutto sovrapponibili alla trama del Processo. (Kafka, 2004). Difatti, entrambi esordiscono in medias res, focalizzandosi su di un personaggio – forse innocente o forse no – che diviene vittima di un ingranaggio che lo incastra e lo condanna ad uno sterile eterno ritorno.

Quanto detto, ricorda anche lo schema della Metamorfosi di Kafka (2004), nel cui racconto il protagonista si risveglia d’un tratto – senza particolari premesse logiche degne di nota – nei panni di uno scarafaggio.

Ulteriore aspetto in comune con le opere di Kafka, rimarcato nel film in questione, pare essere il costante vissuto d’angoscia che l’attore intrattiene con la quotidianità.

Molti sono i primissimi piani dal taglio claustrofobico, i colori desaturati e le sequenze, in cui il respiro affannoso del dentista di Latina prevale su tutto il resto, espandendosi nel corpo dello spettatore, ennesimo partecipe innocente di tanta oppressione (Beebe & Lachman, 2013).

Dostoevskij in America Latina

Il rapporto stesso, che l’attore intrattiene con l’autorità paterna, è sorretto da una serie di schemi ricorrenti e disfunzionali, connotati da forti tratti di impotenza. Tali schemi, lo porteranno a un continuo processo di (auto)sabotaggio implicito, tali da richiamare, alla mente di chi scrive, temi tipici del celebre Delitto e Castigo (Dostoevskij, 2014).

Anche qui, come accadeva a Raskolnikov nel romanzo di cui sopra, i dubbi ossessivi di carattere morale paiono far desistere l’attore dagli atti definitivi che, solo un attimo prima, s’era posto di portare a termine con una certa convinzione. Questo tema – quello della redenzione – pare emergere in maniera pregnante proprio nell’epilogo del film che, come un progressivo colpo di scena, andrà chiarendosi, sin dai primi secondi della storia, agli occhi degli spettatori.

Questo profondo senso di colpa implicito che il dentista rimuove, dissocia e proietta fuori da sé – in maniera allucinatoria – pare, a volte, prender forma nei compulsivi lavaggi delle mani – frammenti intrusivi della sua quotidiana deformazione professionale; la stessa, talvolta, che lo porterà ad intrattenere un rapporto – addirittura di cura – con la vittima segregata e legata nel suo scantinato e a cui riserverà le proprie attenzioni morbose e confuse (Farina & Liotti, 2018; Bromberg, 2014).

Si potrebbe pensare che la scelta scenografica di relegare la vittima nelle Memorie del sottosuolo (Dostoevskij, 2021; Jung, 1991) – ossia, collocandola in cantina – sia frutto di una precisa scelta dei fratelli d’Innocenzo: quella di rappresentare gli aspetti profondamente dissociati della casa interiore del protagonista; lo stesso che, quando volta le spalle alla porta del seminterrato, è ben attento a chiuderla a chiave con quattro mandate. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

In compenso, la vita del dentista risulta costellata da una fantasmatica famiglia, persino spensierata e dalle vesti bianche lucenti, apparentemente pulite da ogni forma di pericolo e bruttura.

Per altro, forse è proprio il disperato tentativo del protagonista di mantenere coesa la propria integrità morale – gran lunga aldilà dell’esame di realtà – a terrificare in maniera spettrale lo spettatore, del tutto immerso in questo teatro splittato (Verdesca, 2018a; 2020a;2020b) .

Niente è come sembra: prigioniero di sé stesso

Mi preme concludere che, a pellicola conclusa, una domanda sorgerà forse lecita: chi era il vero prigioniero della storia?

In questo punto cieco, in questo drammatico fraintendimento, si nasconde quell’ordinaria follia, discretamente dipinta – nei tratti più introspettivi – dai fratelli d’Innocenzo.

Conclusione

Se qualcuno dovesse domandarsi se tale film descriva accuratamente i disturbi dissociativi di identità (Morrison, 2014) la risposta, a parer di chi scrive è un no. Secco.

Piuttosto, esso tratteggia le prigioni esistenziali delle terre di nessuno ad essi connesse, dove l’isolamento sociale amplifica ed affila i lati cruenti di cui l’uomo può divenir vittima.

Un film, dunque, che parla di memorie in frammenti, di narrazioni vitali ridotte in cocci – ben in vista nella locandina ufficiale del film – che tentano d’esser tenuti, invano, uniti… restituendo un puzzle rattrappito e confuso che tanto racconta dell’incommensurabile solitudine interiore.

 

AMERICA LATINA – Guarda il trailer del film:

Un momento di consapevolezza prima della morte: la lucidità paradossale nei pazienti con demenza

La lucidità paradossale è un episodio di lucidità inaspettata, spontanea e rilevante in un paziente che si presume abbia perso permanentemente la capacità di interazione verbale o comportamentale a causa di un processo progressivo e fisiopatologico di demenza (Mashour et al., 2019).

 

Che cos’è la lucidità paradossale

Gli operatori sanitari che si occupano di demenza hanno riportato alcuni episodi in cui i pazienti, spontaneamente e inaspettatamente, parlano o si comportano in modi che sembrano suggerire lucidità e consapevolezza del loro ambiente e riacquistano la memoria e le funzioni verbali che sembravano aver perduto (Normann et al., 2006).

Il termine più utilizzato per inquadrare questo episodio di remissione è lucidità paradossale, denominato lucidità terminale quando esso si verifica in prossimità della morte. La lucidità paradossale è un episodio di lucidità inaspettata, spontanea e rilevante in un paziente che si presume abbia perso permanentemente la capacità di interazione verbale o comportamentale a causa di un processo progressivo e fisiopatologico di demenza (Mashour et al., 2019).

Gran parte di ciò che sappiamo attualmente su questo fenomeno si basa su informazioni derivanti dalla vecchia letteratura medica, specialmente del XIX secolo, quando gli studi di casi individuali erano un elemento più comune. In seguito, l’interesse per il fenomeno si è affievolito e sono stati pubblicati pochi rapporti o discussioni sull’argomento. Per esempio, Witzel (1975) ha seguito 250 pazienti durante le settimane precedenti la morte, riferendo che un certo numero di pazienti ha mostrato un aumento della vitalità e un miglioramento generale poco prima di morire. Egli sottolineò che: ‘Immediatamente prima della morte il bisogno di farmaci analgesici diminuì e molti pazienti mostrarono un breve aumento di vitalità, apprezzarono di nuovo il cibo e sembrarono migliorare in generale’ (p. 82).

Gli studi sulla lucidità paradossale

Negli ultimi anni, una serie di studi (Fenwick, Lovelace, & Brayne, 2010; MacLeod, 2009, Schreiber & Bennett, 2014) condotti sull’argomento ha suggerito che questi episodi lucidi precedono il declino clinico e la morte del paziente, facendo eco alle osservazioni di Witzel e dei medici del XIX secolo.

Per quanto riguarda i casi più recenti è emerso che il 70% degli operatori in una casa di cura ha assistito a episodi di lucidità terminale in pazienti morenti con demenza, grave deterioramento cognitivo e confusione nei cinque anni precedenti (Brayne, Lovelace e Fenwick, 2008). In uno studio successivo, Fenwick e Brayne (2011) riportano che il 14 % del campione analizzato ha sperimentato un episodio lucidità terminale in fin di vita.

Nell’unico studio prospettico pubblicato fino ad oggi, Macleod (2009) ha osservato 100 decessi consecutivi in un hospice in Nuova Zelanda e ha trovato sei casi di miglioramento inaspettato e spontaneo delle funzioni cognitive e della capacità verbale entro 48 ore prima della morte del paziente.

Per cercare di fare chiarezza sull’argomento, uno studio da poco pubblicato (Batthyány & Greyson, 2021) ha studiato la fenomenologia e la struttura degli episodi di lucidità paradossale in un campione di pazienti con demenza. I risultati hanno dimostrato che, prima dell’episodio di lucidità, più del 90% del campione era stato estremamente compromesso cognitivamente, e quasi l’80% ha avuto episodi lucidi che hanno coinvolto una comunicazione verbale chiara e coerente che è apparsa ‘quasi normale’. Questi episodi lucidi di solito duravano meno di un’ora, anche se il 20% persisteva per un giorno o più.

La demenza prevede di norma delle fluttuazioni cognitive, ma raramente accade che le funzioni cognitive ormai compromesse vengano riacquisite quasi completamente, come nel caso degli episodi di lucidità paradossale. Più dell’80% dei pazienti nello studio sembra aver sperimentato una completa, anche se breve, inversione del deterioramento cognitivo nella demenza avanzata. I risultati ottenuti sembrano quindi suggerire l’esistenza di una specifica sindrome di ritorno delle funzioni cognitive e della capacità di comunicazione in pazienti la cui diagnosi e lo stadio della malattia lo rendono improbabile.

Lucidità paradossale e vicinanza della morte

Nonostante in letteratura siano stati presentati anche casi di lucidità non correlati poi alla morte (Normann et al., 2006), i risultati di Batthyány e Greyson (2021) mostrano una vicinanza temporale tra la lucidità e la morte notevolmente alta: più di due terzi di questi pazienti sono morti entro due giorni dall’episodio lucido, e solo il 6% è sopravvissuto più di una settimana.

Lo studio in questione suggerisce quindi che la lucidità paradossale mostra una certa sovrapposizione con il costrutto di lucidità terminale, nella misura in cui questi episodi sembrano entrambi verificarsi in relazione alla morte. Mashour e colleghi (2019) hanno ipotizzato una somiglianza tra la lucidità terminale e altri fenomeni di eccitazione inattesi vicino alla morte, come l’esperienza di quasi morte (NDE). Sebbene i meccanismi dell’esperienza di quasi morte e della lucidità paradossale siano attualmente sconosciuti, i due sembrano condividere il fenomeno dell’eccitazione cognitiva inaspettata a fronte di una funzione corticale in declino o compromessa (Chiriboga-Oleszczak, 2017; MacLeod, 2009; Mashour et al., 2019).

Lucidità paradossale e prospettive future

Gli studi futuri dovrebbero cercare di chiarire se e quali meccanismi fisiologici o psicologici durante il processo di morte possono essere coinvolti nella remissione cognitiva in pazienti precedentemente compromessi e, cosa importante, se e come questi meccanismi possano essere utilizzati o attivati da nuove strategie terapeutiche per le demenze e altri disturbi neurologici.

Inoltre, è importante chiedersi se l’attuale modello delle demenze come processi patologici irreversibili possa essere adeguato dato che una certa percentuale di pazienti potrebbe, verso la fine della loro vita, sperimentare la lucidità terminale.

Una migliore comprensione della neurobiologia della lucidità paradossale potrebbe anche favorire la ricerca in quei campi cognitivi che indagano, per esempio, il recupero della coscienza in seguito ad amnesie, lesioni cerebrali traumatiche o ictus.

 

Che cosa intendiamo per Terapia Metacognitiva

La Terapia Metacognitiva è una forma di psicoterapia di recente sviluppo. Nata alla fine del secolo scorso grazie ad Adrian Wells e Gerald Matthews (1994), si fonda sul modello metacognitivo della sofferenza psicologica.

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. Dapprima applicata al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000), la MCT ha poi mostrato la propria efficacia anche su altri tipi di disturbi (Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

La Terapia Metacognitiva propone un modello di intervento basato su una teoria scientificamente fondata (evidence-based theory) e un bagaglio di tecniche di colloquio e tecniche esperienziali integrate.

Terapia Metacognitiva e Metacognizione

La metacognizione è spesso definita come il “pensare i propri pensieri”, indica dunque quei processi di auto-monitoraggio e di controllo dei propri processi cognitivi e attentivi.

Mentre alcuni aspetti della metacognizione operano al di fuori della nostra coscienza, può capitare a volte che particolari pensieri vengano colti dalla nostra consapevolezza e vi possiamo reagire con modalità problematiche che comprendono ipervigilanza, rimuginio ed evitamento. Queste reazioni contribuiscono ad aumentare i pensieri e le emozioni spiacevoli.

Questa modalità di reagire a pensieri negativi è chiamata CAS (Cognitive Attentional Syndrome) ovvero Sindrome Cognitivo-Attentiva.

Il Modello della sofferenza psicologica nella Terapia Metacognitiva

Il modello metacognitivo è un modello transdiagnostico che vede il mantenimento di tutta la psicopatologia legato allo stile di pensiero perseverante della CAS. La CAS si declina in varie forme di pensiero ripetitivo (come rimuginio e ruminazione) e in diversi comportamenti disfunzionali di coping (quali evitamento, soppressione del pensiero, ricerca di rassicurazioni) che una persona impiega nel tentativo di gestire pensieri e sentimenti angoscianti. Tali tentativi, tuttavia, non fanno altro che aumentare i pensieri e i sentimenti angoscianti, riducendo la flessibilità dell’attenzione, che porta così a sperimentare uno scarso controllo su pensieri ed emozioni negative.

Secondo il modello di Wells, infatti, pensieri ed emozioni negative hanno carattere temporaneo. Tuttavia, quando una persona risponde a questi con la CAS, ne prolunga l’effetto disadattivo, aumentando di pari passo il proprio disagio psicologico.

Ma da dove nasce la CAS? La CAS è controllata dalle conoscenze metacognitive, credenze non sempre consapevoli che riguardano la natura dei fenomeni mentali e le reazioni necessarie per gestirli. Le credenze metacognitive possono avere sia valenza positiva (es. “Preoccuparmi mi aiuta ad affrontare meglio le situazioni”) che negativa (es. “Non riesco a controllare i miei pensieri”).

Obiettivi della Terapia Metacognitiva

Obiettivo della Terapia Metacognitiva è identificare e modificare tali credenze metacognitive. La Terapia Metacognitiva mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione.

Il primo passo nella Terapia Metacognitiva è concettualizzare la formulazione del caso col paziente e presentargli i processi di mantenimento della sua sofferenza, compreso l’impatto di rimuginio e ruminazione e l’inefficacia delle strategie di coping messe in atto. Successivamente le credenze metacognitive vengono discusse e testate attraverso esperimenti che mirano a cambiare il rapporto con i propri fenomeni mentali, a uscire dai circuiti di rimuginio e ad acquisire maggior governo del proprio funzionamento psicologico.

Tra le tecniche terapeutiche troviamo, ad esempio, l’Attention Training (un compito uditivo per “allenare” l’attenzione con l’obiettivo di riguadagnare flessibilità attenzionale, rafforzare il controllo esecutivo e quindi interrompere la CAS) e la Detached Mindfulness (con la quale il paziente è istruito a diventare consapevole dei pensieri disfunzionali e a distaccarsene con la finalità di disimpegnarsi dai processi di preoccupazione e ruminazione). La Terapia Metacognitiva prevede interventi brevi (12-15) sedute focalizzate su disturbi d’ansia o d’umore specifici. Lo scopo generale è scoprire quanto possiamo controllare la nostra mente per abbandonare la tendenza a rimuginare e a lottare contro i pensieri negativi e le sensazioni di disagio che attraversano la nostra mente.

Complessivamente la Terapia Metacognitiva mira ad aumentare l’esperienza di controllo dell’attenzione da parte della persona e promuovere lo sviluppo strategie di coping più adattive.

In che cosa la Terapia Metacognitiva è differente dalla Terapia Cognitivo Comportamentale

Rispetto alla Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), la Terapia Metacognitiva si concentra sui processi di pensiero, piuttosto che sul contenuto: mentre la CBT mette in discussione la validità del pensiero (es “io non valgo”), la Terapia Metacognitiva considererebbe tale pensiero normale, transitorio per la maggior parte delle persone, ma che può dar vita a processi di preoccupazione o ruminazione se gestito in modo inadeguato. La Terapia Metacognitiva pone dunque l’attenzione sulle modalità con cui ci si lascia coinvolgere da determinati pensieri e lavora sui processi responsabili del controllo di questi pensieri.

Nonostante affondi le sue radici nei modelli cognitivi, la Terapia Metacognitiva è un trattamento autonomo che, come abbiamo visto, utilizza altre tecniche rispetto a quelle della CBT tradizionale.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici (non solo limitata ai disturbi d’ansia, ma anche a quelli ossessivi, depressivi, post-traumatici, ecc), ha creato nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’ MCT-Institute e della terapia metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

Per informazioni sul Masterclass MCT >> CLICCA QUI

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Metà della gente mente, l’altra metà non dice nulla. Le trappole nascoste nel dibattito televisivo

La modalità di discussione più diffusa nei programmi televisivi di informazione è il dibattito, che si svolge attraverso il confronto tra diversi ospiti che intervengono esprimendo il proprio pensiero relativamente ad un tema proposto dal conduttore.

 

I dibattiti e le regole

Come per qualsiasi tipo di gioco, di sport o di attività condivisa, anche i dibattiti linguistici hanno delle regole e come in tutti i giochi, anche in un dibattito, è possibile barare.

Questo può avvenire per il tentativo dei contendenti di avere la meglio con mezzi scorretti, oppure può verificarsi in modo non consapevole in seguito a ragionamenti che, pur apparendo ben condotti, nascondono da qualche parte un errore.

Nello specifico, non ci riferiamo a quelle regole di forma che prevedono il rispetto di tempi e turni di intervento o a quelle regole di comportamento che invitano ad adoperare un linguaggio educato e rispettoso, le regole di cui tratteremo sono quelle che garantiscono che i partecipanti al dibattito, nel presentare la propria idea, non ricorrano all’uso di trappole linguistiche, logiche, psicologiche, ecc… tali da falsare l’argomentazione proposta.

Tali trappole sono chiamate fallacie.

Le fallacie nei dibattiti

Le fallacie sono errori nascosti nel ragionamento che comportano la violazione delle regole di un confronto argomentativo corretto. I ragionamenti fallaci appaiono come rigorosi e logici, ma in realtà non sono validi perché le premesse illustrate non implicano le conclusioni a cui giunge il ragionamento (Irving M. Copi e Carl Cohen, 1999).

In questa analisi considereremo il dibattito come atto linguistico che si manifesta nell’uso contestuale della lingua come azione reale e concreta. Osserveremo la strategia di comunicazione dei partecipanti al dibattito tentando di individuare la frequenza con cui le fallacie si presentano.

Più nello specifico, ci occuperemo di come un dibattito che presenta fallacie non segnalate distorca la codifica, e quindi la comprensione, del messaggio da parte dello spettatore.

L’intenzione dell’articolo è dunque quella di osservare e misurare cosa accade se in un dibattito televisivo uno o più partecipanti utilizzano una fallacia.

Le fallacie nei dibattiti televisivi

Lo studio ha avuto inizio con l’individuazione dei principali programmi televisivi di informazione, andati in onda nel 2021 sulle principali reti generaliste della televisione italiana, che utilizzano il dibattito come strumento principale del format.

Tra queste abbiamo selezionato le venti trasmissioni con i livelli di audience più elevati e per ognuna abbiamo seguito interamente 10 puntate, per un totale di 200 puntate complessive.

I programmi monitorati presentavano una durata variabile che andava da un minimo di 30 minuti ad un massimo di 3 ore per le trasmissioni di prima serata. Le ore di programmazione complessivamente visionate sono state 225.

L’osservazione ha prodotto i seguenti risultati:

  • In tutti i format osservati è presente la figura del moderatore che è quasi esclusivamente svolta dal conduttore, spesso supportato da un gruppo di collaboratori, autori, redattori, ecc…
  • Il conduttore, nella quasi totalità dei casi, si limita a garantire (con più o meno efficacia) le regole di forma, cioè quelle che prevedono il rispetto di tempi e turni di intervento o di quelle regole di comportamento che invitano ad adoperare un linguaggio educato e rispettoso. Allo stesso modo è il conduttore che regola il confronto tra le parti: gestisce i conflitti troppo violenti, evita che ci si accavalli in modo eccessivo, ecc…In questo caso dunque il conduttore non interviene mai nel merito dell’argomentazione.
  • In rari casi, il conduttore interviene nel correggere le informazioni palesemente errate riportate dal partecipante al dibattito, segnalando allo spettatore il dato ritenuto corretto. Tale intervento però presenta una distorsione, poiché l’intervento del conduttore (arbitro) sembra essere espressione dell’opinione personale del conduttore stesso, un’opinione tra le opinioni presenti nel dibattito. L’impressione è confermata dal fatto che il partecipante che è stato corretto dall’arbitro non accetta il nuovo dato (in nessuna circostanza vi è un confronto tra le fonti) ma continua nella sua argomentazione contestando lo stesso arbitro come fosse uno dei tanti giocatori in campo. L’insieme di questi elementi mostra come il ruolo dell’arbitro non è di fatto riconosciuto dalle parti.
  • In nessun caso osservato il moderatore/conduttore interviene nella segnalazione di scorrettezze argomentative seppur palesemente presenti.
    Le fallacie vengono accolte come un qualsiasi ragionamento, e cosa ancor più grave, vengono spesso riprese dallo stesso conduttore (arbitro) e utilizzate come tema su cui concentrare il resto del dibattito. Rispondere ad una fallacia argomentativa senza denunciarla di fatto ne autorizza l’utilizzo e ne rafforza la capacità persuasiva. La fallacia, da errore di ragionamento di una delle parti, si trasforma in tema stesso del dibattere.
  • Solo in 2 casi l’utilizzo di fallacie è stato evidenziato, ma non dal conduttore del programma, da uno degli stessi partecipanti al dibattito. In questo caso, l’ospite ha riconosciuto l’utilizzo della fallacia, ha identificato e illustrato quale tipologia di errore argomentativo fosse emerso, segnalando l’invalidità di tale affermazione. In queste circostanze il conduttore (arbitro) si è limitato a registrare tale segnalazione come fosse anch’essa una tra le opinioni in gioco e non una irregolarità come di fatto è stata.

Conclusioni

Alla luce di tali dati, ci chiediamo:

Se lo spettatore medio nella gran parte dei casi non dispone degli strumenti e delle conoscenze sufficienti neppure per riconoscere che il fallo è stato commesso, che senso ha assistere ad un confronto in cui i partecipanti possono barare senza che l’arbitro segnali il fallo?

Immaginate di assistere ad una partita di calcio in cui il fuorigioco, pur essendo una importante regola della competizione, sia sconosciuto a parte dei giocatori e alla quasi totalità del pubblico. Lo stesso arbitro, che conosce perfettamente questa regola, pur riconoscendo l’avvenuto fallo, non segnala mai tale infrazione, permettendo sempre al gioco di continuare. Il pubblico che assiste alla partita, ignorando tale regola ed incapace di riconoscere il fallo, non protesta, anche qualora la squadra avversaria se ne serva per aggiudicarsi un vantaggio illecito.

Non ricevendo penalità da parte dell’arbitro, e non essendoci proteste da parte del pubblico, i giocatori sono dunque lasciati liberi di commettere falli, ognuno in base alla propria coscienza individuale, invalidando di fatto il risultato.

In questa competizione ‘falsata’ non è una delle due squadre a perdere ma lo spettatore, poiché crede di assistere ad un partita di calcio, ma sta osservando altro, perché un gioco senza regole non è più lo stesso gioco.

 

Ossitocina, l’ormone dell’amore. Fonte di calma, rigenerazione e guarigione (2019) di Kerstin Uvnas Moberg – Recensione

Attraverso le pagine di Ossitocina, l’ormone dell’amore l’autrice Kerstin Uvnas Moberg illustra quello che definisce ‘sistema calma e connessione’ antagonista, in una visione dualistica, del ‘sistema attacco e fuga’ molto più conosciuto e studiato oggigiorno.

 

In fisiologia, quella branca della medicina che cerca di descrivere il funzionamento interno degli esseri viventi, da molto tempo ci si dedica allo studio del sistema attacco o fuga (fight or flight) basato sulla produzione di stress e come reazione allo stesso. Nel caso di questa reazione ben conosciuta, noi e gli altri mammiferi ci prepariamo ad affrontare situazioni stressanti attaccando oppure mettendoci in salvo. Tutta l’energia del corpo si concentra per difenderci da un eventuale pericolo, reale o immaginario che sia. Non è difficile capire il motivo di tanto interesse in una società come la nostra, indirizzata all’agire, al fare, al produrre.

L’autrice vede, invece, l’altra faccia della medaglia. Ci accompagna in un viaggio alla scoperta di quel processo fisiologico che è l’esatto contrario, indispensabile quanto misconosciuto, il sistema calma e connessione.

Il sistema calma e connessione è visto come un sistema a sé stante e non solo come semplice assenza di stress. Un processo altrettanto essenziale del nostro corpo: si attiva quando il corpo è a riposo. Dietro la quiete apparente si nasconde una quantità enorme di lavoro che non è orientata al movimento, allo sforzo, all’azione, ma aiuta piuttosto il corpo a recuperare, crescere, guarire, trasformare il nutrimento in energia ed immagazzinarlo per un utilizzo futuro. Influenza le interazioni sociali. In questo stato possiamo accedere con più facilità alle risorse interne e alla creatività.

Alla base di questo sistema c’è la produzione di ossitocina.

L’ossitocina è un ormone peptidico prodotto nel nucleo sopraottico e nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo. Questa molecola straordinaria è allo stesso tempo un ormone, che agisce attraverso il circolo sanguigno e un neurotrasmettitore all’interno del sistema nervoso (Argols A. 1991).

Lo studio dell’ossitocina è strettamente legato alla gravidanza e ancora di più al momento del parto nella vita della donna ed è innegabile che sia la star indiscussa dell’allattamento. Ma oggi sappiamo che ha implicazioni molto più ampie, ad esempio nelle interazioni sociali, tanto che la producono anche gli uomini con evidenti effetti in entrambi i sessi.

Una maggiore comprensione del ruolo dell’ossitocina e dei circuiti neurali e ormonali che vi sono implicati, potrebbe aiutare a ritrovare il benessere nella società di oggi, così complessa ed esigente. Ristabilendo un equilibrio, chiave di volta nel raggiungimento della salute intesa nel senso più ampio del termine, tra attività e riposo, tra lavoro rivolto verso l’esterno e riflessione interiore. Solo riscoprendo le enormi potenzialità del sistema calma e connessione, sarà possibile affrontare le situazioni quotidiane di stress senza perdere l’equilibrio. Questa è la via per la salute, su scala sia individuale che sociale (KU Moberg 2019).

 

Effetto placebo e nocebo nel trattamento del dolore cronico e acuto

Le evidenze empiriche mostrano come le suggestioni verbali, il condizionamento classico e l’apprendimento osservazionale possono portare ad ipoalgesia, come effetto placebo, o ad iperalgesia, come nocebo (Brascher et al., 2018).

 

L’effetto placebo e nocebo

La parola placebo deriva dal latino e significa ‘piacerò’: è una sostanza o una procedura priva di attività specifica per la condizione trattata (Shapiro & Morris, 1978) e tale terapia viene usata deliberatamente per il suo effetto specifico o aspecifico. L’effetto placebo è l’effetto psicologico e psicofisiologico prodotto da un placebo, e Vernon Oh (1994) lo definì come ‘una forma di trattamento senza la sua sostanza’. Balint (1957) ha definito un placebo come il più potente agente terapeutico in quanto un ossimoro, una sostanza inerte a livello chimico e biologico, ma non a livello psicologico, mentre l’effetto nocebo agisce come un ‘avversario’ in grado di produrre una malattia iatrogena. L’effetto nocebo, antitetico all’effetto placebo, indica le reazioni psicologiche negative che si sperimentano dopo l’assunzione di un farmaco inerte (Treccani, n.s.). Proprio per la mancanza di una reazione generata chimicamente, tale reazione indesiderata viene sperimentata a causa di un atteggiamento emozionale che induce stati quali insicurezza, patofobia, angoscia (Treccani, n.s.).

L’effetto placebo e nocebo sul dolore

Mentre l’ipoalgesia viene definita come la diminuzione della sensibilità al dolore, dovuta ad una causa patologica (Hoepli, 2015), l’iperalgesia è causata da alterazioni periferiche e centrali ed è un’aumentata sensibilità nei confronti di stimoli dolorifici (Treccani, n.s.). Le evidenze empiriche mostrano come le suggestioni verbali, il condizionamento classico e l’apprendimento osservazionale possono portare ad ipoalgesia (come effetto placebo) o ad iperalgesia (come nocebo; Brascher et al., 2018). La letteratura evidenzia risultati discordanti, in quanto è complesso individuare articoli che indaghino gli effetti del condizionamento senza suggerimenti verbali e, in caso contrario, l’effetto placebo e nocebo sono spesso connotati in termini medici (Voudouris et al., 1990; de Jong et al., 1996; Kirsch et al., 2014; Montgomery & Kirsch, 1997). Contestualizzare questi due dei termini può indurre più facilmente delle aspettative aggiuntive ed erronee durante la manipolazione sperimentale. Di conseguenza, i partecipanti potrebbero essere condizionati e potrebbero sviluppare idee, riferite al concetto di condizionamento stesso, che complicano l’esito di quest’ultimo (Brascher et al., 2018).

Brascher e colleghi (2018) si sono focalizzati sul contributo del condizionamento nell’induzione di un effetto fisico placebo, come l’ipoalgesia, e nocebo, come l’iperalgesia, raccogliendo prove che il condizionamento può essere influenzato da un’aspettativa formatasi da uno stimolo subliminale. Viene posta una particolare attenzione agli studi che utilizzano un condizionamento implicito, dove non vengono presentati stimoli sulla consapevolezza della contingenza. Un numero limitato di studi implementa il condizionamento di placebo e nocebo senza utilizzare un linguaggio esplicito ma usando stimoli condizionanti, come luci rosse e verdi. Molti altri studi esaminano partecipanti sani, mentre solo alcuni indagano il dolore clinico dei pazienti (Peerdeman et al., 2016). I risultati mostrano come i suggerimenti verbali sembrano essere efficaci per il dolore, acuto e cronico, indotto sperimentalmente in pazienti con la sindrome dell’intestino irritabile (IBS; Peerdeman et al., 2016; Klinger et al., 2017).

Effetto placebo sul dolore cronico

Gli effetti positivi dell’effetto placebo sono stati dimostrati in studi che combinano la suggestione verbale e il condizionamento fisico (ad esempio, somministrazione di creme) dei pazienti con IBS (Lee et al., 2012), artrosi del ginocchio (Hashmi et al., 2014), dolore muscoloscheletrico (Muller et al., 2016), lombalgia cronica (Peerdeman et al., 2016) e dermatite atopica (Kingler et al., 2007). Il condizionamento costituisce un aspetto importante nel dolore cronico (Vlaeyen & Linton, 2000). Al contrario, nonostante i pochi studi presenti in letteratura a causa di vincoli etici, l’effetto nocebo può diventare persistente a causa dell’esperienza ripetuta di fallimenti terapeutici, comuni nel dolore cronico (Brascher et al., 2018). Anche un apprendimento più scarso, ad esempio come effetto di una predisposizione inefficace, o gli effetti di blocco, cioè delle risposte inefficienti ad uno stimolo condizionato, aumentano il rischio di esperienze negative di trattamento.

Un’ipotesi per ricerche future sul trattamento del dolore cronico può focalizzarsi sulle prove che gli effetti placebo condizionati sono più duraturi degli effetti placebo indotti dalle aspettative esplicite (Kingler et al., 2007; Colloca et al., 2011). Un’altra possibilità per evitare la confusione tra condizionamento e induzione dell’aspettativa potrebbe essere l’implementazione di disegni di condizionamento implicito, dove sarebbero direttamente esclusi i suggerimenti espliciti, oppure la creazione di un disegno sperimentale dove vengono indotti effetti placebo e nocebo contrari, attraverso aspettative esplicite e condizionamento, per misurare tali effetti su variabili indipendenti. Di conseguenza, potrebbero esistere delle opportunità per trattare le diverse condizioni cliniche di dolore (Brascher et al., 2018).

 

Coppia e confini: la domanda non è perché, ma per chi ti auto-saboti?

Cosa avviene quando la coppia è in crisi? Spesso, quando i ruoli nella coppia cambiano e non si è pronti ad affrontare il cambiamento, si ha la cosiddetta crisi di coppia. Ci sono diverse ragioni, motivi che portano la coppia a destabilizzarsi.

 

Secondo la definizione data dal vocabolario, la coppia è composta da ‘due persone conviventi legate da un rapporto amoroso stabile’ (Treccani online). Ma tutti sappiamo che non è così semplice perché nella coppia intervengono vari fattori e variabili, dati dal sistema di credenze familiari che ognuno di noi si porta dietro come uno zaino sulle spalle.

Quando si entra in relazione con l’altro, ci si compone con le rispettive credenze e si cerca l’incastro perfetto per essere in sintonia. Delle volte, l’incastro avviene in maniera naturale e altre volte bisogna smussarne gli angoli.

Ma cosa avviene quando la coppia è in crisi? Spesso, quando i ruoli nella coppia cambiano e non si è pronti ad affrontare il cambiamento, si ha la cosiddetta crisi di coppia.

Ad esempio, con la nascita di un figlio cambiano i ruoli sia all’interno della coppia, sia all’interno delle rispettive famiglie di origine: la coppia passa dall’essere figli all’essere genitori e i rispettivi genitori diventano nonni e così via.

Bisogna specificare però che a volte la coppia va in crisi ancor prima che un evento così importante si verifichi. Ci sono diverse ragioni, motivi che portano la coppia a destabilizzarsi.

Le tre aree della crisi

La letteratura sull’argomento ha individuato tre grandi aree che possono portare i partner alla crisi.

La prima area riguarda l’infrazione del ‘contratto di coppia’ che è spesso implicito. Tale contratto si sviluppa in maniera naturale all’interno della coppia, basti pensare ai partner che scegliamo e alla connessione che c’è tra scelta dell’altro e ‘i nostri bisogni personali di cura, affiliazione, ma anche disponibilità all’accudimento dell’altro’ (Ghezzi, 2004). Ed è proprio dai bisogni personali di ciascuno che si sviluppa il contratto, una sorta di ‘non detto’ e quando ad esempio uno dei due è stanco di avere il ruolo nella coppia di soccorritore, protettore perché magari vorrebbe essere a sua volta protetto e ‘curato’ da parte dell’altro, si ha la crisi (ibidem). In questo esempio specifico è come se si dicesse ‘non era nei patti, il bisognoso di cure e attenzioni ero io e non tu’ e dunque tale cambiamento viene visto come una sorta di tradimento.

Una seconda ragione della crisi potrebbe essere il desiderio di crescita personale e/o professionale che uno dei due mette in atto. Tale desiderio di autonomia di uno dei due partner può produrre turbamento inatteso e scombussolare l’equilibrio della coppia (ibidem).

La terza grande area è data da quello che gli psicoterapeuti sistemico relazionali chiamano come mancato svincolo dalla propria famiglia di origine e la mancanza di confini chiari tra la coppia e le rispettive famiglie di origine. Il mancato svincolo avviene quando uno dei due partner o entrambi non hanno mai abbandonato davvero la condizione di figli e quindi per questo vivono la relazione di coppia in modo immaturo e con difficoltà anche gravi (ibidem).

Confini diffusi e confini rigidi

Minuchin, psicoterapeuta familiare, definisce i confini come l’insieme di regole che consentono e definiscono il passaggio delle informazioni tra i vari membri della famiglia.

Egli differenzia due grandi categorie di confini: ‘confini diffusi’ e ‘confini rigidi’.

I confini diffusi si hanno in quelle famiglie in cui vi è mancanza di confine e ciò significa che trapelano, passano troppe informazioni, non vengono celati determinati contenuti e i problemi di un membro della famiglia diventano problemi di tutti (Minuchin, 1974). In sintesi, possiamo dire che in questo caso tutti sanno tutto di ciascun membro della famiglia.

Mentre, invece, i confini rigidi sono tipici delle famiglie definite da Minuchin come ‘disimpegnate’. In queste famiglie si ha la sensazione di non essere visti, ascoltati e di non appartenere realmente ad una famiglia (ibidem).

Ritornando alla crisi di coppia, quindi, è importante stabilire dei confini chiari (né troppo rigidi né troppo diffusi) e attuare un passaggio di informazioni limitate e pertinenti tra coppia e rispettive famiglie di origine (Minuchin, 1974). Ciò significa il capire quando la famiglia di origine richiama troppo l’attenzione distogliendo lo sguardo dalla coppia e mantenendo lo stato di perenne figlio/a.

L’autosabotaggio

Molti individui fanno fatica a svincolarsi dalle famiglie proprio perché ad un certo livello avvertono la sensazione di non poterlo fare, di non poter lasciare del tutto il nido. Forse perché hanno paura di lasciare da sola la mamma con il papà o viceversa, forse perché la madre e/o il padre non sono pronti a ritornare ad essere coppia, etc.

E qui si arriva all’argomento centrale e cioè per chi ti auto-saboti?

La parola ‘autosabotaggio’ ormai è entrata a far parte del linguaggio comune ed è quindi necessario comprendere cosa si intende con tale parola. L’autosabotaggio racchiude pensieri e comportamenti incentrati a ostacolare il raggiungimento degli obiettivi. Questo fenomeno è più diffuso di quanto si pensa e tutti almeno una volta siamo stati ‘vittime’ di ciò senza rendercene conto (Villa M., 2021).

Delle volte la coppia non decolla per una serie di ragioni, ma altre volte ci si sabota e si fa di tutto per non farla funzionare e ciò ovviamente avviene in maniera inconscia. In questi casi è utile chiedersi per chi ci si sabota, forse per continuare a mantenere l’omeostasi della famiglia e mantenere così lo status quo? Oppure perché nella storia personale risulta proibita una coppia che funziona forse perché la narrazione familiare è segnata da separazioni, da coppie non felici, etc. Questi sono solo alcuni esempi che hanno l’obiettivo di farvi riflettere in quanto la vera domanda non è perché ci si auto-sabota, ma per chi.

 

Che cos’è la psiche (2021) di Franco Fabbro – Recensione del libro

La scienza, spiega Franco Fabbro nel volume Che cos’è la psiche, non deve diventare ingabbiante e riduttivo strumento di conoscenza della complessità dell’essere umano e della sua mente, ma deve rimanere uno strumento a disposizione dell’uomo.

 

Che cos’è la psiche, un testo ricco di contenuti ed approfondimenti circa la natura della mente umana e del suo funzionamento, del suo essere al mondo e nel mondo, che spazia da contributi scientifici a filosofici, religiosi e spirituali, scritto magistralmente da Franco Fabbro, medico, accademico, neurologo, Professore all’Università di Udine e autore di numerose pubblicazioni scientifiche e libri.

Il testo, corposo nel suo insieme, viene suddiviso in due parti: filosofia e neuroscienze la prima e la meditazione di filosofia e neuroscienze la seconda.

L’autore parte da un excursus storico dei contributi dalla scienza, con relative citazioni ed approfondimenti di grandi personalità come Galileo Galilei, con il suo pensiero matematico, la sua attenzione agli oggetti di osservazione e non alla relazione conoscitiva, con una relativa visione separatista tra realtà soggettiva e realtà oggettiva; poi Cartesio che, con la sua immagine geometrico-matematica del mondo, cercando l’assoluta certezza delle cose, si accorse che l’unica è l’attività di dubitare, ovvero pensare (dato che penso dunque esisto); ed ancora Locke, Newton e tante altre grandi personalità che, nel nome della scienza esatta, si proponevano di isolare piccoli pezzi di realtà per poterli studiare. Lo stesso atteggiamento lo si poté ritrovare anche nel mondo della filosofia.

In tal senso il testo segue con attenti e precisi approfondimenti.

Ma ciò che l’autore sembra evidenziare è come la scienza non deve diventare ingabbiante e riduttivo strumento di conoscenza della complessità dell’essere umano e della sua mente, ma deve rimanere uno strumento a disposizione dell’uomo. Nel momento in cui conosciamo o facciamo esperienza di un oggetto, infatti, costruiamo mentalmente l’oggetto della nostra conoscenza e tale costruzione è influenzata a sua volta da variabili non soltanto individuali, ma anche e soprattutto socioculturali.

Dal quarto capitolo si comincia a trattare la psiche all’interno della filosofia, anche in questo caso citando grandi personalità ed i loro contributi.

Socrate, Platone, Aristotele, Descartes, Kant, Fichte, Hegel, James, Brentano, Husserl per citarne alcuni, per poi entrare più nel vivo della psicologia, riprendendo i contributi della Gestalt, del Comportamentismo, della Cibernetica, della scienza della comunicazione e delle scienze cognitive.

Dal quinto capitolo si passa ai contributi delle neuroscienze, e saranno tanti gli argomenti che verranno approfonditi. Vediamone alcuni: la neuroanatomia, struttura del cervello e delle cellule nervose, la neuropsicologia clinica, la sindrome dell’arto fantasma, il fenomeno della visione cieca, l’esperienza di uscita dal corpo (OBE), il sonno e la veglia e la coscienza nello stato vegetativo. I capitoli continuano con i contributi della robotica e gli studi che nel frattempo hanno cercato di capire sempre di più come funziona la nostra mente, ma sempre di più se ne evidenziano anche i limiti e pertanto la necessità di superare il dualismo mente e corpo, soggettivo e oggettivo e recuperare la complessità senza temerne uno ‘smarrimento conoscitivo’, ma aprendoci alla conoscenza.

Dalla seconda parte del libro intitolata Meditazione, vengono approfonditi l’origine della vita, della mente e la differenza tra organismi viventi dalla materia non vivente. Un exscursus, anche in questo caso, di come la natura stessa dell’uomo e della mente nasca, si modifichi, si adatti ed interagisca continuamente con l’ambiente, un ambiente ed una realtà di cui fa esperienza, che conosce e percepisce e ne costruisce un senso. Si continua poi ad approfondire come si intrecciano la psiche e il mondo (pp.273), come la mente agisca sul mondo (pp.275), mappe e funzioni della memoria, varie funzioni e mappe cognitive.

Si parlerà anche del linguaggio, del pensiero e della creatività.

Dal capitolo 14 le riflessioni continuano nel campo della filosofia, della scienza, della psicologia e della religione, nel tentativo di provare ancora a rispondere al grande interrogativo che accompagna la stesura di questo libro ossia ‘di che cosa è fatta la psiche?’

Verrà fatto riferimento alla pratica meditativa ed ai contributi del Budda, a come questa possa contribuire al benessere dell’uomo grazie all’apertura al dolore e come la nostra mente conservi in sé un grosso potere così nella sofferenza, così come nel lenire il dolore (si pensi ad esempio all’effetto placebo).

Dunque, nonostante i passi avanti ed i contributi preziosi della scienza, gran parte dei fenomeni della natura dell’uomo rimangono a tutt’oggi misteriosi, ma questo sembrerebbe per l’autore non un limite, ma una risorsa.

Un testo molto ricco, interessante, che ritengo assuma le connotazioni di un testo accademico, che possa essere utile nel bagaglio di conoscenze essenziali di chi si affaccia nel campo della psicologia e di chi di tale ambito ne fa la sua professione.

 

In che modo i comportamenti di empowering dei leader possono influenzare il burnout tra gli infermieri

Sembra che le caratteristiche organizzative e i comportamenti di un leader possano migliorare la soddisfazione sul lavoro, la qualità dell’assistenza ai pazienti, aumentare la fiducia nella gestione del lavoro e ridurre i livelli di burnout tra gli infermieri.

 

In tutto il mondo un’importante problematica riguarda la carenza di operatori sanitari. Nel 2006 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato che la carenza di infermieri e operatori sanitari ha una notevole influenza negativa sul miglioramento della salute e del benessere della popolazione globale (WHO, 2006). La professione infermieristica in molti paesi sta affrontando un aumento del tasso di burnout causato da aspettative di lavoro irrealistiche, condizioni lavorative scadenti, richieste di lavoro che superano le risorse personali, relazioni scarse tra i professionisti e infine un aumento dei rischi nel luogo di lavoro (Al-Maaitah & Shokeh, 2009).

Il burnout tra gli infermieri

Il burnout è caratterizzato da un abbassamento piuttosto rapido dell’energia emotiva, fisica e psicologica conseguente ad un aumento di stress lavorativo. Spesso provoca sentimenti di scarsa autoefficacia e sorge da un sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo, risorse e giustizia. Inoltre può essere causato anche dall’assenza di un senso di comunità e conflitti di valori (Maslach et al., 1997). Il fenomeno psicologico del burnout solitamente è composto da tre principali fattori: l’esaurimento emotivo (EE) ovvero essere emotivamente e fisiologicamente esausti per lo stress lavorativo, che provoca un abbassamento dell’energia, affaticamento, disperazione, depressione e impotenza; la depersonalizzazione (DP), che si riferisce all’avere comportamenti negativi e insensibili nei confronti degli altri e ad un distacco dalle esigenze altrui e dalle direttive; infine un sentimento di bassa realizzazione personale (PA), cioè una valutazione di se stessi come inadeguati e fallimentari (Maslach & Jackson, 1981). Queste caratteristiche del burnout provocano un aumento dei tassi di turnover e hanno effetti negativi sulla qualità dell’assistenza sanitaria.

Alcuni studi hanno mostrato come il burnout abbassi la qualità della vita degli infermieri e la qualità dell’assistenza infermieristica; in aggiunta, il livello di performance e l’impegno organizzativo aumentano le loro intenzioni di mollare il lavoro e i tassi di turnover (Van Bogaert et al., 2009).

Altri studi in letteratura si sono occupati di studiare l’influenza di alcune variabili sul burnout, trovando che bassi livelli di istruzione e lavoro notturno e altre variabili demografiche erano associate a livelli più alti di burnout (Hamaideh, 2011), mentre il supporto sociale, le caratteristiche dell’ambiente professionale, e l’empowerment strutturale e psicologico ne diminuivano il rischio.

Leadership empowering e burnout

Sembra che le caratteristiche organizzative e i comportamenti di un leader possano migliorare la soddisfazione sul lavoro, la qualità dell’assistenza ai pazienti, aumentare la fiducia nella gestione del lavoro e ridurre i livelli di burnout tra gli infermieri. È noto che uno stile di leadership empowering (guidare con l’esempio, informare e mostrare interesse per il team) riduca le componenti di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e bassa realizzazione personale di cui si compone il burnout. L’empowerment sul posto di lavoro si riferisce alla capacità da parte dei dipendenti di accedere a risorse, informazioni e supporto per svolgere il loro lavoro e accrescere le loro potenzialità personali (Laschinger et al., 2007).

Conger e Kanungo, nel 1988, hanno identificato quattro categorie di comportamenti per raggiungere l’empowerment in ambiente lavorativo definite LEB (leader empowering behaviors), alle quali Hai nel 1994 ne ha aggiunta una quinta. Tali categorie sono: migliorare la significatività del lavoro motivando i dipendenti e dando al loro lavoro uno scopo; permettere agli impiegati di partecipare al processo decisionale; esprimere fiducia nelle prestazioni dei lavoratori; facilitare il raggiungimento degli obiettivi e, infine, fornire autonomia e libertà dalle restrizioni burocratiche. Nel settore infermieristico le LEB sono associate positivamente all’empowerment e all’efficacia personale e diminuiscono la tensione in ambiente lavorativo. Per tali ragioni ad alcuni infermieri è stato chiesto di creare un ambiente positivo e motivante, responsabilizzare gli infermieri sottoposti per diminuire il burnout e migliorare la qualità dell’assistenza infermieristica (Greco at al., 2006).

Il livello di burnout tra gli infermieri

Nel 2017, Mudallal e colleghi hanno condotto uno studio tra gli infermieri in Giordania per valutare il livello di burnout ed esaminare l’influenza dei comportamenti di empowering dei leader sui sentimenti di burnout. Nello specifico il loro obiettivo era quello di valutare l’importanza del ruolo dei leader infermieri nell’alleviare il burnout e ridurre i tassi di turnover. Gli autori hanno sottoposto ad un campione di 407 infermieri, provenienti da 11 ospedali della Giordania, la Leader Empowering Behaviors Scale (Hui, 1994), per esaminare empiricamente la percezione degli infermieri dei comportamenti di responsabilizzazione dei loro leader (attraverso le 5 categorie di LEB) e il Maslach Burnout Inventory (MBI; Maslach et al., 1996) per misurare il burnout degli infermieri. In aggiunta ai partecipanti sono state chieste alcune variabili demografiche come sesso, età, livello di istruzione, stato civile e anni di esperienza come infermiere dello staff; e alcune informazioni lavorative come il tipo di ospedale, il tipo di reparto, il modello di assistenza infermieristica, lo stile di leadership del capo infermiere, il turno di lavoro e il numero medio di pazienti ricoverati nel reparto.

I risultati mostrano che gli infermieri giordani hanno ottenuto dei risultati alti nelle sottoscale dell’esaurimento emotivo (EE) e depersonalizzazione (DP) e punteggi moderati nella realizzazione personale (PA), i quali indicano elevati livelli di burnout. Le condizioni lavorative, le caratteristiche demografiche e le LEB sono risultate significativamente correlate alle categorie di burnout. Quattro fattori sono risultati predittori dell’esaurimento emotivo: la tipologia di ospedale, il turno di lavoro, l’autonomia e la partecipazione al processo decisionale. Negli ospedali privati, per esempio, gli infermieri sono più inclini a percepire la struttura come favorevole e con una migliore organizzazione interna, sostegno alla qualità delle cure, leadership e supporto tra colleghi. Inoltre coloro che hanno dei turni fissi probabilmente sono sovraccarichi di responsabilità sia cliniche che manageriali, che aumentano la EE e la DP. Le variazioni della depersonalizzazione dipendono invece dal genere, dalla partecipazione al processo decisionale, e dalla tipologia di reparto; quelle del sentimento di bassa realizzazione personale dalla facilitazione nel raggiungimento degli obiettivi, e dall’esperienza di ciascun infermiere: con l’aumentare dell’età e dell’esperienza è possibile infatti che aumentino le responsabilità sociali e professionali che, a lungo andare, provocano il burnout.

In conclusione lo studio suggerisce che le condizioni lavorative, i tratti demografici e le LEB sono fattori che incidono sul burnout infermieristico. Inoltre è emerso che una buona leadership possa creare un ambiente di lavoro positivo, permettere ai partecipanti di contribuire alle decisioni sul proprio lavoro, esprimere fiducia nelle capacità dei dipendenti, fornire maggiore autonomia e facilitare il raggiungimento degli obiettivi. Tali condizioni riducono i tassi di turnover e migliorano la qualità dell’assistenza infermieristica (Mudallal et al., 2017).

 

Disturbi dello spettro autistico: baby talk e corteccia cerebrale temporale

Un recentissimo studio rivela l’esistenza di una ridotta reattività della corteccia temporale superiore in alcuni bambini affetti da disturbi dello spettro autistico, alterazione collegata all’incapacità dei bambini di rispondere al baby talk

 

Un recentissimo studio dell’Università della California di San Diego, apparso su Nature Human Behavior, rivela che esiste una ridotta reattività della corteccia temporale superiore in alcuni bambini affetti da disturbi dello spettro autistico (Xiao Y., Wen TH., Kupis L. et al., 2022). Questa alterazione cerebrale è collegata all’incapacità dei bambini con disturbi dello spettro autistico a rispondere al ‘maternese’, cioè al linguaggio semplificato ed affettuoso che gli adulti utilizzano quando si relazionano con i piccoli. Normalmente il linguaggio affettivo utilizzato con i bambini, detto anche motherese o baby talk, cattura l’attenzione dei fanciulli, favorisce lo sviluppo linguistico, emotivo e l’interazione sociale (Yoshi-Taka Matsuda, Kenichi Ueno, Kang Cheng et al.  2014).

Linguaggio e disturbi dello spettro autistico

La circonvoluzione temporale superiore è implicata in varie funzioni: nella percezione delle emozioni, in quella degli stimoli facciali, nell’elaborazione degli stimoli uditivi ed in certe funzioni del linguaggio. Insieme alla circonvoluzione temporale superiore, le aree anteriori e dorsali della corteccia del lobo temporale, sono state collegate alla capacità di elaborare informazioni derivanti dalle diverse e variabili caratteristiche di un volto (Bigler ED., Mortensen S., Neeleym ES etal. 2007).

I disturbi dello spettro autistico sono condizioni patologiche che si diversificano per tipologia e gravità. Gli individui che ne sono affetti presentano anomalie del linguaggio o assenza di esso, stereotipie e difficoltà nello stabilire normali relazioni sociali (Fontani S. 2014).

Uno dei primi segni che compare nei disturbi dello spettro autistico è una diminuzione delle interazioni tra il bambino e chi se ne prende cura ed una riduzione della risposta comportamentale agli input verbali (Longobardi E., Camillo E., De Lorenzo F. et al. 2012).

Uno studio su disturbi dello spettro autistico e baby talk

Lo studio dell’Università di San Diego, al quale ha partecipato anche l’Istituto Italiano di Tecnologia, ha utilizzato un campione di 71 bambini e 14 adulti. I ricercatori hanno combinato tecniche di imaging cerebrale, test clinici e monitoraggio oculare (Xiao Y., Wen TH., Kupis L.et al.2022).

Gli autori hanno organizzato e comparato i diversi dati. Sono così giunti alla conclusione che la scarsa risposta dei bambini con disturbi dello spettro autistico al baby talk compromette il normale sviluppo dei circuiti cerebrali della regione temporale. Questi circuiti, in situazioni normali, rispondono in maniera automatica al motherese. I ricercatori hanno inoltre rilevato che un piccolo gruppo di bambini, appartenenti al campione, rispondono al baby talk e mostrano un’alta attivazione cerebrale nella regione temporale. Tali dati suggeriscono che la stimolazione verbale dei bambini con disturbi dello spettro autistico può portare buoni risultati e che, quanto emerso dallo studio, potrebbe aprire la strada a nuovi interventi terapeutici.

Il suicidio: ricerche e best practice (2021) di Giacinto D’Urso – Recensione del libro

Un libro scritto da un amante della ricerca e dello studio della psicologia che fornisce un notevole contributo alla conoscenza di una problematica che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, causa annualmente circa 800.000 decessi nel mondo: il suicidio.

 

L’autore dell’opera è il Dott. Giacinto D’Urso, un esperto nel settore della gestione delle risorse umane con un pregevole curriculum professionale. Ha, infatti, frequentato la Scuola Militare ‘Nunziatella’, ha conseguito quattro lauree magistrali, alcuni master universitari ed è abilitato all’esercizio della professione di psicologo. È, inoltre, autore di articoli di psicologia e di libri afferenti a tematiche relative alla salute mentale.

Il suicidio è una problematica socio-sanitaria molto complessa di cui non sono stati ancora compiutamente individuati tutte le cause ed i meccanismi di funzionamento. Per questo motivo, l’opera è stata realizzata con l’obbiettivo di offrire al lettore una visione unitaria degli aspetti psicologici e socio-culturali che possono spingere un individuo a decidere volontariamente di farsi del male e/o di togliersi la vita.

L’Autore, attraverso la disamina delle ricerche scientifiche più recenti, si è cimentato nella descrizione delle cause organiche e neurofisiologiche del suicidio, dei fattori che possono indurre una persona a credere di essere condannato a vivere una vita densa di difficoltà insuperabili e di dolore insopportabile, oltre ad approfondire il ruolo della qualità del sonno, della pubblica informazione, di internet e dei social media.

Inoltre, di particolare interesse risulta l’esame del fenomeno del suicidio negli Istituti penitenziari e delle tecniche innovative che consentiranno in futuro di migliorare il monitoraggio delle condizioni del paziente nel corso della giornata nonché di definire i ‘fenotipi dei pensieri suicidi’.

Si tratta, quindi, di un libro che offre ampi spunti di riflessione nel quale l’Autore, attraverso un linguaggio limpido e divulgativo, riesce ad accompagnare per mano il lettore nel corso della conoscenza di una tematica così complessa. L’ottima sintesi di aspetti teorici e descrittivi con una ricca e ben documentata casistica consente di alimentare curiosità ed interesse, mentre l’ampia bibliografia fornisce l’opportunità di ampliare il bagaglio di conoscenze tecnico scientifiche sull’argomento.

 

Il ruolo della religione e del senso di colpa nel dolore sessuale tra le ragazze adolescenti

La famiglia, il gruppo di coetanei, le organizzazioni religiose e l’educazione ricevuta possono influenzare le aspettative e le esperienze sessuali delle giovani donne? 

 

La famiglia, il gruppo di coetanei, le organizzazioni religiose e l’educazione ricevuta possono influenzare le aspettative e le esperienze sessuali delle giovani donne. Spesso, infatti, non vengono fornite abbastanza informazioni sulla sessualità dal punto di vista biologico, sulle figure professionali a cui chiedere aiuto in caso di difficoltà, e su cosa effettivamente sia un’attività sessuale ‘normale’ e priva di dolore (Happel-Parkins et al., 2020). Solitamente le prime esperienze sessuali che ogni ragazza vive in adolescenza condizionano l’attività sessuale in età adulta: è possibile, quindi, che gli effetti negativi di un’esperienza modifichino la percezione del funzionamento sessuale che viene vissuto come doloroso per un lungo periodo di tempo.

Una variabile che può condizionare la percezione della sessualità sembra essere la religione: alcune religioni esplicitano in maniera piuttosto rigida cosa è lecito fare e cosa no riguardo alla sessualità; tali indicazioni talvolta suscitano sentimenti di colpa e paura di aver trasgredito la morale. Il senso di colpa sessuale è stato concettualizzato da Mosher e Cross nel 1971 come l’aspettativa generalizzata di una punizione per aver violato o anticipato gli standard di una corretta condotta sessuale (p. 27). È stato dimostrato, infatti, che il senso di colpa derivante dalla religiosità abbia un impatto su alcune funzioni sessuali come il dolore e il disagio e provochi conseguenti disturbi (Woo et al., 2012).

Dolore sessuale e disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione

Un disturbo sessuale molto frequente è il disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione (GPPPD) che, nel DSM 5, è caratterizzato da marcato dolore vulvare, vestibolare e vaginale prima, dopo o durante il tentativo di penetrazione; difficoltà nei rapporti sessuali, paura o ansia del dolore o della penetrazione vaginale, e tensione o stringimento del pavimento pelvico (APA, 2013). Questi sintomi si verificano anche a causa dell’utilizzo di tamponi vaginali, di visite ginecologiche o inserimento di dita o altri oggetti (Hartmann & Sarton, 2014). La frequenza dei rapporti dolorosi varia tra il 14 e il 27% nelle donne adulte, mentre nelle ragazze adolescenti la percentuale si aggira intorno al 20-26% (Landry & Bergeron, 2009). Sebbene le donne che soffrono del GPPPD abbiano una sintomatologia piuttosto simile l’una con l’altra, l’eziologia può variare molto: spesso è multifattoriale e può essere legata a traumi o infezioni, effetti collaterali di farmaci o condizioni ginecologiche; è necessario quindi fare una valutazione psicosociale (Conforti, 2017). Alcuni studi in letteratura hanno scoperto che spesso il dolore durante i rapporti sessuali causa ansia generalizzata, depressione, evitamento del contatto intimo, difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo e astinenza dalla masturbazione. Inoltre, nelle donne che ne soffrono, spesso si verificano una diminuzione del desiderio e dell’interesse sessuale e un’incapacità nel raggiungimento dell’orgasmo. Questi fattori sono frequentemente seguiti da sentimenti di inadeguatezza e conflittualità con il partner (Pazmany et al., 2013).

Dolore sessuale e religione

Altri studi si sono concentrati invece sull’influenza della religione nei disturbi sessuali delle donne, evidenziando che, anche laddove i risultati non risultano significativi, le donne che hanno riferito di attribuire un’elevata importanza ad alcuni insegnamenti religiosi avevano rapporti sessuali più dolorosi (Sutton et al., 2012). In aggiunta uno studio di Borg e colleghi (2011) ha esaminato l’influenza di valori morali conservatori e liberali in un contesto non esplicitamente religioso, trovando che le donne con vaginismo avevano punteggi più elevati nei valori conservatori. In generale gli studi presenti sono abbastanza concordi nel ritenere che la religiosità e gli ambienti conservatori tra cui famiglia, ambiente sociale e comunità religiosa, possono avere un impatto negativo sulle esperienze sessuali e sulla capacità di mantenere rapporti sessuali sani e senza dolore. Spesso, infatti, vengono trasmessi messaggi che il piacere sessuale sia un tabù, che la verginità debba essere protetta e che i rapporti sessuali possano avvenire solo a scopo riproduttivo; tali messaggi causano sentimenti di vergogna e di colpa che, se esacerbati, possono sfociare in un GPPPD (Happel-Parkins et al., 2020).

Nel 2021, Azim e colleghi hanno condotto uno studio per esaminare i predittori dei rapporti sessuali dolorosi nelle ragazze universitarie sessualmente attive degli Stati Uniti. Nello specifico gli autori volevano indagare la relazione tra GPPPD e le concettualizzazioni sessuali, l’autoidentificazione religiosa, la credenza e l’esposizione agli insegnamenti religiosi, le esperienze di colpa sessuale e altri fattori psicosociali. 974 ragazze hanno completato il Female Sexual Function Index (FSFI; Rosen et al., 2000), per misurare la funzione sessuale auto-riferita dalle donne; la Female Sexual Distress Scale (FSDS; Derogatis et al., 2002) che valuta l’angoscia associata alla funzione sessuale nelle donne, i sentimenti di inadeguatezza sessuale, l’insoddisfazione e l’imbarazzo; il Revised Mosher Sex Guilt Scale (Janda & Bazemore, 2011) per misurare il senso di colpa sessuale; l’Abbreviated Santa Clara Strength of Religious Faith Questionnaire (Plante et al., 2002), che misura l’impatto della fede religiosa sul processo decisionale e sullo scopo e il significato della vita; il Gender Role Beliefs Scale (Brown & Gladstone, 2012), che indaga l’ideologia del ruolo di genere, cioè quelli che secondo le persone sono caratteristiche, differenze e atteggiamenti appropriati per donne e uomini. Infine sono state rilevate alcune misure sul benessere e la pratica sessuale e le esperienze di educazione sessuale.

Successivamente le donne sono state suddivise in base a quanto sentissero dolore durante un rapporto sessuale (dolore frequente, dolore occasionale e nessun dolore). I risultati mostrano che le ragazze universitarie sperimentano dolori frequenti (24,1%) o occasionali (56,8%) durante i rapporti sessuali. Questi valori dipendono dalla frequenza del sesso, dalla capacità di raggiungere l’orgasmo, dalle sensazioni durante il rapporto, dalla presenza di un partner sessuale fisso, dalle aspettative di sesso doloroso, dal senso di colpa per il sesso e dal disagio sessuale. Il senso di colpa è risultato essere mediatore tra religiosità e dolore sessuale. In conclusione dai risultati si può affermare che la religiosità, sebbene non abbia un impatto diretto sul GPPPD nelle ragazze, quando provoca senso di colpa può portare ad avere rapporti dolorosi. Siccome un numero elevato di donne prova dolore, sarebbe importante permettere loro di riconoscere e cercare un trattamento per il dolore vaginale. Per consentire che ciò avvenga è fondamentale che il dolore non sia mai normalizzato, ma vengano fornite informazioni scientifiche di esperienze sessuali non dolorose e non accompagnate dal senso di colpa (Azim et al., 2021).

 

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