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L’umorismo come strumento per combattere l’ansia da Coronavirus

L’evolversi della situazione pandemica ed il continuo emergere di materiale divertente e ironico legato al COVID-19, hanno portato numerosi ricercatori a valutare il ruolo e le funzioni dell’umorismo nell’affrontare questa situazione.

 

Introduzione

Gli ultimi 40 anni hanno visto un notevole aumento dell’interesse scientifico per quanto riguarda il ruolo dell’umorismo nella promozione della salute. Uno degli aspetti maggiormente studiati riguarda la relazione fra umorismo e ansia (Menéndez-Aller et al., 2020): le ricerche finora condotte mostrano che le persone dotate di un maggiore senso dell’umorismo tendono ad avere minori livelli di ansia e stress (Dionigi et al., 2021; Martin & Ford, 2018; Kuiper, 2012). Questo  è vero in una vasta platea di situazioni e, negli ultimi due anni, sono stati diversi gli studi per valutare il ruolo dell’umorismo nel mediare l’ansia e la paura da COVID-19. Inoltre, l’umorismo è spesso ispirato da circostanze tragiche: questo è accaduto anche durante l’epidemia da COVID-19. Ciò è principalmente dovuto al fatto che l’umorismo rappresenta una strategia adattiva di coping individuale e le persone ne fanno riscorso spesso in situazioni in cui, sebbene si attivino per fronteggiare l’evento temuto, non ci riescono. In questi casi l’umorismo funge da regolatore delle emozioni negative e favorisce strategie cognitive quali il reappraisal cognitivo, la distrazione ed il distanziamento (Kuiper et al., 2014).

Nel marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia da Coronavirus. Una situazione che mai ci saremmo immaginati e che, ancor prima che venissero messi ben a fuoco i rischi collegati, ha visto ben presto comparire sui social media contenuti di stampo umoristico legati al Coronavirus (Vicari & Murru, 2020). La pandemia di COVID-19, comportando minacce per la salute e la vita delle persone poste dalla malattia stessa e dalle sue complicanze, ha portato ad enormi cambiamenti nel funzionamento quotidiano delle persone, molti dei quali possono essere visti come cambiamenti negativi. Questi fattori possono aumentare il disagio psicologico e, di conseguenza, portare allo sviluppo di sintomi da disturbo d’ansia generalizzata.

La ricerca su Covid-19 e umorismo

L’evolversi della situazione pandemica ed il continuo emergere di materiale divertente e ironico legato al COVID-19, hanno portato numerosi ricercatori a valutare il ruolo e le funzioni dell’umorismo nell’affrontare questa situazione senza precedenti. Le ricerche scientifiche variano notevolmente nella loro qualità e rientrano in diverse grandi categorie quali, ad esempio, ricerche volte a valutare quale materiale umoristico viene maggiormente apprezzato e le funzioni svolte dall’umorismo pandemico. L’umorismo, in questo caso, può essere una risorsa preziosa per far fronte alla paura degli effetti imprevedibili del virus SARS-Cov-2 (Torres et al., 2020).

Fin da subito i social media sono diventati importanti strumenti per tenersi in contatto e per divulgare informazioni, ma anche per proporre materiale divertente volto a sdrammatizzare la situazione. Uno dei primi studi in questo ambito è stato condotto da Bischetti e collaboratori (2021): con un sondaggio su larga scala completato durante le prime fasi del lockdown in Italia, i ricercatori hanno studiato l’apprezzamento (divertimento e avversione) di diversi formati di umorismo legato al Covid-19 che venivano condivisi sui social media. I risultati hanno mostrato che l’apprezzamento dell’umorismo legato al coronavirus è legato a fattori demografici e alla distanza emotiva (e fisica) dal rischio percepito. Il rischio percepito di infezione ha amplificato l’avversione all’umorismo Covid-19, mentre la distanza chilometrica dalla zona del primo focolaio di contagio italiano ha favorito il divertimento in termini globali: chi risiedeva più lontano da Bergamo reputava i meme sul COVID-19 come più divertenti. Con l’aumentare dell’età e nelle donne, l’umorismo Covid-19 è stato giudicato più avverso. Gli individui che utilizzano abitualmente l’umorismo come strategia di coping hanno valutato l’umorismo Covid-19 più divertente e meno avverso. Allo stesso modo, Amici (2020), nel suo studio anch’esso condotto durante il lockdown in Italia, conclude che l’umorismo può favorire un senso di affiliazione e appartenenza, attraverso l’induzione di emozioni positive. Inoltre, l’effetto distanziante dell’umorismo aiuta le persone a percepire gli eventi in corso come meno minacciosi. Sempre in occasione della prima ondata, è stata condotta una raccolta intensiva di barzellette, meme, fake news e teorie del complotto (Meder, 2021), mostrando come il contenuto servisse a esprimere frustrazioni, veicolare sentimenti aggressivi in modo umoristico e mitigare paura e sentimenti di sfiducia che stavano crescendo.

Uno studio americano (Olah & Ford, 2021) ha mostrato che lo stress e l’ansia da COVID-19 variano in base all’utilizzo di determinati stili umoristici: chi utilizza un umorismo auto-rinforzativo mostra minore stress e disperazione e mostra di impegnarsi maggiormente in comportamenti protettivi. In secondo luogo, le persone con uno stile di umorismo auto-svalutativo hanno mostrato il pattern contrario: hanno percepito più stress e disperazione a causa del COVID-19 e quindi hanno riferito di aver intrapreso comportamenti meno protettivi.

In un altro studio turco (Kasapoğlu, 2022) è stata studiata la relazione fra spiritualità, autoefficacia, ansia da COVID-19 e disperazione, mostrando come spiritualità, autoefficacia e ansia da COVID-19 hanno effetti diretti sulla disperazione. Inoltre, l’effetto della paura del COVID-19 sulla disperazione era in parte mediato dalla consapevolezza e dall’umorismo. Livelli più elevati di paura del COVID-19 erano associati ad una minore consapevolezza e un minore senso dell’umorismo. Al contrario, una minore consapevolezza e un minore senso dell’umorismo erano associati a livelli più elevati di disperazione.

Uno studio longitudinale (Bitterly & Schweitzer, 2021) condotto in 11 diversi periodi di tempo ha mostrato come lo spingere le persone a generare contenuti umoristici durante la pandemia aiuta a ridurre significativamente l’ansia da Coronavirus. Nel loro studio i ricercatori hanno messo a confronto diverse tipologie di umorismo, umorismo generale e direttamente collegato al Coronavirus, mostrando come entrambi i tipi di umorismo siano efficaci nel diminuire l’ansia da Coronavirus. Uno studio israeliano (Reizer et al., 2022) ha esaminato il contributo dell’ottimismo e degli stili umoristici nel promuovere il benessere soggettivo durante il lockdown del 2020. I ricercatori hanno osservato che l’ottimismo e l’umorismo adattivo hanno aiutato le persone a ridurre la paura del COVID-19 mentre l’utilizzo di umorismo disadattivo ha mostrato correlazioni negative con il benessere percepito. Inoltre, le analisi di mediazione hanno indicato che sia la paura del COVID-19 che l’interdipendenza tra lavoro e famiglia hanno mediato le associazioni dirette tra ottimismo e benessere, nonché le associazioni tra umorismo disadattivo e benessere.

Infine, è interessante notare che molte persone, sia ricercatori che gente comune, si sono domandate se fosse corretto ed etico ridere di questa situazione. Uno degli aspetti più dibattuti in questo ambito, riguardava il fatto se fosse adeguato utilizzare l’umorismo per contrastare l’ansia generata dal coronavirus, anche a fronte delle morti avvenute. Per questo motivo Miczo (2021) ha condotto un’analisi qualitativa del contenuto di 20 testate giornalistiche. La maggior parte delle analisi tematiche ha mostrato che i media hanno concluso che era eticamente appropriato ridere della pandemia. Ciò è principalmente dovuto al fatto che la funzione principale assolta dall’umorismo fosse quella di distrazione e strategia di coping funzionale. In una situazione in cui le persone cercano disperatamente di sconfiggere la pandemia, si sono attivamente aggrappate all’umorismo per far fronte a ciò che non potevano cambiare. Inoltre, va ricordato che l’umorismo legato a eventi tragici, viene prodotto e condiviso rapidamente, contemporaneamente allo sviluppo della situazione e che solitamente si riferisce ai temi più scottanti. In questi casi si parla di ‘ciclo umoristico’ (Attardo, 2001), in quanto le battute, i meme e le vignette sul Covid-19 sono state create in un lasso di tempo circoscritto e avevano un tema di base comune.

Conclusioni

Generalmente, gli studi finora condotti mostrano come l’umorismo sia uno strumento efficace nel ridurre significativamente lo stress e l’ansia associati alla pandemia. Consente alle persone di prendere le distanze in modo sano dalla realtà incerta del mondo colpito dal coronavirus, che è al di fuori del loro controllo. Questi studi forniscono ulteriori prove empiriche che l’umorismo è davvero una risorsa personale che svolge un ruolo importante nel far fronte all’ansia correlata alla pandemia SARS-Cov-2. I risultati sono congruenti con i risultati precedenti che mostrano che l’umorismo positivo è correlato negativamente al disturbo d’ansia generalizzato e alla paura del COVID-19 (Akimbekov & Razzaque, 2021; Cancelas-Ouviña, 2021; Dionigi et al., 2021).

 

Il ruolo degli interventi psicoeducativi nei contesti di salute mentale: l’approccio INTE.G.R.O.

L’approccio di psicoeducazione INTE.G.R.O. prevede una serie di Unità Didattiche finalizzate al miglioramento delle singole competenze della persona.

 

La psicoeducazione nel contesto di cura

Gli interventi di natura psicoeducativa nei disturbi mentali si sono rivelati efficaci inizialmente per la schizofrenia, anche se la diffusione maggiore è stata legata ai pazienti con diagnosi di disturbo bipolare. Numerose sono le evidenze in termini di efficacia nei pazienti con disturbo bipolare. Joas e colleghi hanno evidenziato, in tale gruppo di pazienti, un’efficacia in termini di riduzione delle recidive e della numerosità degli episodi maniacali, ipomaniacali, depressivi e misti (Joas et al., 2020). Una review del 2015 di Bond e colleghi ha rilevato invece l’efficacia degli interventi psicoeducativi nella prevenzione delle fasi maniacali e ipomaniacali, ma non di quelle depressive (Bond et al., 2015). Uno studio randomizzato di Candini e colleghi mette in luce un minor tasso di ospedalizzazione e un minor numero di giorni di ricovero nei pazienti con disturbo bipolare sottoposti ad interventi psicoeducativi rispetto ai controlli (Candini et al., 2012).

Una review del 2011 ha invece preso in esame l’efficacia nei pazienti affetti da disturbo dello spettro della schizofrenia: è emerso che la psicoeducazione ha un’efficacia nel miglioramento del funzionamento globale e sociale. Inoltre, tale intervento aumenta il grado di soddisfazione verso i servizi di salute mentale e la qualità della vita (Xia et al., 2011).

Vi sono alcuni studi che prendono in considerazione l’efficacia degli interventi psicoeducativi nei pazienti con disturbi di personalità: Zanarini e colleghi analizzano un campione di soggetti con disturbo di personalità borderline sottoposti a un programma psicoeducativo online, dimostrando una riduzione degli items inerenti l’impulsività e il funzionamento sociale rispetto ai controlli (Zanarini et al., 2018).

Colom e Vieta identificavano tre livelli di finalità psicoeducativa:

  • il primo, relativo alla coscienza di malattia, volto al miglioramento dell’aderenza farmacologica e alla prevenzione delle ricadute
  • il secondo, legato agli obiettivi parziali desiderabili, riguardo alla gestione dello stress, alla prevenzione dei comportamenti suicidari, ai cambiamenti delle abitudini di vita riguardanti l’uso e l’abuso di sostanze
  • il terzo, relativo all’eccellenza terapeutica, per il miglioramento del funzionamento psico-sociale, del benessere e della qualità di vita

Veltro e colleghi rielaborano tale classificazione delineando quattro livelli di azione:

  • il primo legato al disturbo mentale, all’interno del quale esistono manuali specifici relativi al Disturbo Bipolare (Colom e Vieta, 2006), Schizofrenia (Falloon, 2000), Ansia (Andrews et al., 2004) e per la Depressione (Morosini et al., 2004)
  • il secondo legato alle compromissioni cognitive correlate, all’interno del quale sono molto efficaci le metodologie di problem-solving
  • il terzo dominio è legato al funzionamento sociale, personale e lavorativo. Diversi lavori hanno dimostrato l’efficacia degli interventi psicoeducativi sul funzionamento socio-lavorativo dei pazienti (Pekkala et al., 2002; Pharoah et al., 2010). In questo aspetto, il miglioramento funzionale deve essere considerato essenzialmente secondario al miglioramento clinico. Uno dei più famosi interventi di questo tipo che mantengono come outcome primario il funzionamento della persona è l’approccio VADO (Morosini et al., 2003)
  • il quarto è relativo ai diritti della persona e alla promozione della salute mentale. L’azione psicoeducativa dovrebbe essere quindi centrata anche sul miglioramento della consapevolezza relativa ai propri diritti, tramite il potenziamento della capacità di negoziazione di tali diritti, la promozione della salute mentale e del benessere psichico. In Italia vi sono solamente due manuali legati a questo aspetto: uno sulla promozione della salute mentale nelle scuole superiori (Morosini e Gigantesco, 2005), l’altro elaborato rivedendo tale testo nel contesto delle scuole medie inferiori (Gigantesco e Veltro, 2012).

L’azione degli interventi psicoeducativi dovrebbe pertanto estendersi verso ogni step del processo terapeutico, senza porre al centro il concetto stesso di ‘malattia’. Tale tipo di approccio non deve essere quindi un semplice dare informazioni sul disturbo, sulla sintomatologia e sui farmaci assunti.

Il concetto di base è pertanto l’insegnamento, non inteso in termini strettamente professionali ma basato sulla condivisione e il coinvolgimento attivo, fondato su una relazione dove il conduttore funge da facilitatore nell’apprendimento gruppale.

L’azione psicoeducativa non è mirata a fornire delle risposte in senso terapeutico: il ruolo del conduttore dovrebbe essere quello di alimentare un dialogo socratico, aiutando la persona mediante semplici domande a esprimere con chiarezza i suoi bisogni, cosa intende affermare in quello specifico momento.

L’Approccio INTE.G.R.O.

L’approccio INTE.G.R.O., descritto in maniera approfondita nel manuale L’intervento psicosociale di Gruppo per il raggiungimento di Obiettivi di Veltro e colleghi, si occupa di agire all’interno dei livelli sopra elencati. Esso prevede una serie di Unità Didattiche finalizzate al miglioramento delle singole competenze della persona. La gran parte dei moduli è inerente ad aspetti di natura neurocognitiva, relativi alle funzioni esecutive e alla cognizione sociale. Già nel 2014 Galderisi e colleghi hanno evidenziato una forte correlazione fra neurocognizione e funzionamento sociale, mediante uno studio multicentrico che ha coinvolto 921 pazienti. In tale studio, la neurocognizione, il miglioramento dei sintomi positivi e la disorganizzazione concettuale sono risultati essere correlati all’incremento del funzionamento psico-sociale di pazienti con schizofrenia.

Le parole chiave di tale metodologia sono:

  • Intermodulare: ogni Unità Didattica è formata dalle stesse tipologie di moduli (Definizione degli Obiettivi, Comunicazione Efficace, Percezione Emotiva e Problem-Solving).
  • Molare: termine contrapposto a molecolare, in tali interventi non sono pertanto prese in considerazione solo le componenti tipiche delle abilità, ma anche elementi esperienziali correlati a fatti di vita. La presenza di stati emozionali può fare prendere in considerazione al conduttore la necessità di concentrare il lavoro su tali specifici aspetti.
  • Cross-crossing: termine riferito alla metodologia di apprendimento. INTE.G.R.O. non segue una metodologia lineare, vi sono elementi e conoscenze introdotte e poi non necessariamente riprese nell’incontro successivo, per poi essere richiamate in un secondo momento e integrate con informazioni legate al contesto di vita del soggetto. Le tecniche di problem-solving sono basate sul concetto di flessibilità cognitiva, risultando particolarmente efficaci riguardo all’apprendimento mnemonico e al rinforzo della working memory nei soggetti con psicosi. Una tecnica spesso usata è quella della ripetizione dilazionata (o Spaced Learning), basata sul concetto, dimostrato (Cepeda et al., 2006), dell’effetto della ‘distribuzione temporale’ per cui risulterebbe più utile ed efficace per una memorizzazione a lungo termine una ripetizione di poche volte su tempi lunghi piuttosto che intensamente ma in periodi brevi.
  • Top down: tale approccio si basa sull’insegnamento di abilità complesse (ad es. Problem Solving), costituite da una serie di abilità cognitive elementari (ad es. attenzione, memoria di lavoro, definizione).
  • Indiretto: si agisce indirettamente su una abilità cognitiva semplice, necessaria per abilità più complesse. Inoltre, si agisce su di una abilità utile per il paziente affrontando una tematica per lui importante, come per esempio sostenere ogni paziente nell’impegnarsi a definire e sostenere un Obiettivo Piacevole.
  • Motivazione Intrinseca: si stimolano attività importanti per l’utente stesso, considerate come significative per migliorarsi.

Il ruolo del gruppo e le parole chiave dell’interazione gruppale nell’approccio INTE.G.R.O.

L’approccio gruppale ruota attorno ad alcuni concetti chiave:

  • apprendimento collaborativo: viene spesso utilizzata la metodologia di divisione in gruppi per migliorare reciprocamente l’apprendimento. In questo ambito risulta particolarmente importante il ruolo del moderatore, il cui compito è proprio quello di dare un contenimento ai più loquaci e stimolare il dialogo dei più taciturni
  • apprendimento attivo: si tratta di un concetto ‘learner-centered’, ovvero centrato su colui che deve apprendere. Fondamentale è il sollecitamento dell’impegno fra una sessione e l’altra a perseguire i propri obiettivi piacevoli. Un altro principio molto utile è quello della negoziazione, che subentra nel momento in cui uno dei partecipanti non riesce a perseguire uno degli obiettivi che si era prefissato
  • apprendimento fra pari: in termini psicoeducativi, l’avere un sentimento di comunanza con l’altro o anche immaginare di avere qualcosa da condividere con un’altra persona, le stesse problematiche, obiettivi od esperienze, rendono la persona un interlocutore più credibile
  • modellamento: concetto molto diffuso nei contesti cognitivo-comportamentali, ovvero la facilitazione dell’apprendimento per effetto imitativo, in caso di un successo di uno dei partecipanti, o riparativo, in caso di errori di uno di essi
  • mutualità: si tratta di fattori che possono migliorare l’outcome di un disturbo, spesso in secondo piano rispetto ai sintomi, come la condivisione e la valorizzazione. La condivisione di un’esperienza giova sia a colui che viene aiutato sia a colui che aiuta, rafforzando quel benessere che a sua volta aiuta a migliorare la persona meno abile. Risulta altresì importante il concetto di valorizzazione, che si esplica ad esempio nel dare importanza al senso di speranza di un utente che sta riuscendo nel perseguimento dei propri obiettivi.

Il ruolo dei conduttori nel gruppo

L’intervento necessita di un conduttore coadiuvato da un co-conduttore, potenzialmente interscambiabili se hanno lo stesso livello di formazione. Il conduttore svolge il ruolo di moderatore o facilitatore, incoraggiando, per esempio, a parlare chi tende a non farlo o a limitare i discorsi dei più loquaci, monitorando il clima emotivo durante le sessioni.

Il co-conduttore affianca il conduttore in modo attivo, scrivendo sulla lavagna i passaggi più importanti da evidenziare. Lo stile di conduzione del gruppo dovrebbe sempre tenere presenti alcune regole fondamentali, come il saper parlare in modo semplice e chiaro, saper ascoltare, utilizzare la partecipazione attiva e la comunicazione efficace positiva, cercando di attenersi sempre alla tematica dell’incontro e alla pertinenza degli argomenti trattati.

Definizione degli obiettivi piacevoli

Il conduttore deve tenere presente che un Obiettivo risulta ben definito se risponde ai requisiti dell’acronimo SMART:

  • Stimolante e specifico: l’obiettivo non deve essere troppo semplice da raggiungere
  • Misurabile
  • Autostima: la scelta di un obiettivo, specialmente all’inizio del percorso, costituisce anche un esercizio, di conseguenza si dovrebbero identificare obiettivi piccoli, stimolanti e non troppo difficili da raggiungere
  • Realistico
  • Temporalizzato: l’obiettivo deve avere un inizio e un termine temporale di raggiungimento

Conclusioni

Tale tipo di intervento risulta essere pertanto un percorso psicoeducativo strutturato per sostenere il percorso di recovery delle persone con Disturbo Mentale, che si coniuga in maniera efficace con altri interventi come il Social Skills Training, interventi psicoterapeutici di gruppo come l’IPT o la Cognitve Remediation.

Esso può essere strutturato in un contesto residenziale, ambulatoriale e, con ovvie differenti modalità di esecuzione, in contesto di acuzie psichiatrica (Vendittelli, 2015). Tale approccio risulta essere ormai di comprovata efficacia in tutte le categorie diagnostiche psichiatriche, specialmente in riferimento ai disturbi dell’umore e ai disturbi dello spettro della schizofrenia, in merito ai quali si è concentrata la maggior parte dei lavori presenti in letteratura.

 

Le interazioni online mediatrici della vulnerabilità narcisistica e del phubbing

Grieve e colleghi (2021) hanno svolto un esperimento per comprendere se il phubbing, e quindi una dinamica relazionale virtuale e l’utilizzo di social media, permetta ai narcisisti vulnerabili di massimizzare i loro aspetti positivi, utili a mascherare i dubbi su di sé e la vergogna provata in determinate contingenze.

 

Introduzione

Esistono innumerevoli studi in letteratura sul narcisismo e sulla ‘triade oscura’ dell’approccio categoriale, disturbi di personalità visti come aventi tratti socialmente avversi che esistono sia clinicamente che subclinicamente (Furnham et al., 2013, come citato in  Grieve et al., 2021). Oltre alle credenze sul sentirsi speciale, il narcisismo presenta un pattern percettivo legato al tema della superiorità ed è un disturbo osservabile attraverso due sottocategorie: il narcisista grandioso, pensato come persona che presenta senso di grandiosità e alta stima nei propri confronti, e quello vulnerabile, labile, maggiormente imprevedibile per la necessità di validazioni e approvazione da parte di terzi, nonché ipersensibile e che vive un’elevata affettività negativa (Grieve et al., 2021). Un fenomeno recente, chiamato phubbing (contrazione di ‘phone snuffing’, letteralmente ‘telefono’ e ‘snobbare’), indica la tendenza ad ignorare le situazioni sociali o la persona con cui si sta interloquendo per interagire con il telefono o altri dispositivi elettronici, consultandoli in modo più o meno compulsivo (Al-Saggaf & O’Donnell, 2019).

Uno studio su phubbing e narcisismo vulnerabile

Grieve, Lang e March (2021) hanno osservato come i narcisisti vulnerabili siano maggiormente inclini a prediligere il phubbing rispetto ai dialoghi vis à vis, rinforzati dal bisogno di creare una grande autostima attraverso la sponsorizzazione della loro concezione identitaria sui social network e attraverso interazioni massicce con persone lontane. Nel 2020, Schlosser (come citato in Grieve et al., 2020) ha suggerito come le interazioni online siano maggiormente controllabili e asincrone rispetto all’interazione buona alla prima, dove viene presentato un biglietto da visita di sé immediato e dove non viene curata la propria figura attraverso la messaggistica.

Grieve e colleghi (2021) hanno svolto un esperimento per comprendere se una dinamica relazionale virtuale e l’utilizzo di social media permetta ai narcisisti vulnerabili di massimizzare i loro aspetti positivi, solitamente utili a mascherare i dubbi su di sé e la vergogna provata in determinate contingenze. Le ipotesi formulate mirano a comprendere se esista una correlazione positiva tra il sottotipo vulnerabile e il phubbing e, in caso, se esistano dei meccanismi di azione nella relazione tra questi ultimi attraverso una preferenza per le interazioni online, viste come potenziali mediatrici. Gli autori includono le raccomandazioni inserite nell’articolo di Furnham e colleghi (2013), cioè di considerare gli altri tratti della ‘triade oscura’ (narcisismo grandioso, psicopatia e machiavellismo) e l’ansia sociale (associata al prediligere conversazioni telematiche) come covariate (Grieve et al., 2020). È stato selezionato un campione di 402 soggetti, 300 femmine e 100 maschi circa: la maggior parte del campione possiede un iPhone (65,4%) e non un Android (32,6%), mentre il social predominante è Facebook (91%), a seguire Instagram (73,1%) e infine Snapchat (70,1%). Grieve, Lang e March hanno validato una scala, composta da sette domande, utile a misurare i livelli di phubbing e hanno somministrato 12 domande operazionalizzate del Pathological Narcissism Inventory (Pincus et al., 2009) per valutare la vulnerabilità. L’SD3 è stata utile per raccogliere dati a proposito dei livelli di machiavellismo, narcisismo grandioso e psicopatia, mentre l’ansia sociale è stata misurata con tre domande della Mini-SPIN (Connor et al., 2001).

Correlazione positiva tra phubbing e narcisismo vulnerabile

I risultati confermano le ipotesi formulate, in quanto l’utilizzo dei social media sembra mediare una correlazione positiva tra phubbing e narcisismo vulnerabile. Costruire una relazione interpersonale telematica facilita il controllo dell’auto-presentazione, forse come prodotto di una bassa autoefficacia sociale e di una maggiore ansia sperimentata durante le interazioni faccia a faccia: in molti soggetti tale preferenza può provocare un comportamento di controllo del telefono e di dipendenza inappropriato. È importante sottolineare che anche l’effetto di mediazione dei social media è stato solo parziale; dunque, esiste una relazione diretta e significativa che vede il phubbing come comportamento predittivo del narcisismo vulnerabile (Miller et al., 2011, come citato in Grieve et al., 2021). Questi dati sono utili non solo per comprendere nel dettaglio una sottocategoria di personalità, bensì anche per orientare ricerche future su una maggiore conoscenza dei comportamenti e delle modalità di interazione applicati in rete (Grieve et al., 2021).

 

Prioni e malattie neurodegenerative: una panoramica d’insieme

Con il nome di prioni si indicano proteine infettanti capaci di autoduplicazione, responsabili di gravi malattie.

 

La scoperta dei prioni

I prioni furono studiati a partire dal 1982 da Stanley Prusiner (Università di San Francisco), tantoché al ricercatore è stato assegnato il premio Nobel per la medicina (1997).

In modo particolare, i prioni furono individuati nel 1982 come agenti della scrapie, malattia che colpisce il sistema nervoso delle pecore.

Nel 1987 un’altra patologia con caratteristiche simili (encefalopatia spongiforme o BSE) colpì i bovini in Inghilterra. Il nome della patologia è dovuto a estese bolle nel tessuto cerebrale, che lo rende simile ad una spugna.

Il termine prione è stato definito dallo stesso Prusiner che li identifica come ‘forme varianti patologiche di proteine normali’.

Queste proteine, come tutte le altre, possono assumere conformazioni tridimensionali variabili.

La caratteristica madre dei prioni consiste nel fatto che, in una forma si comportano da proteine normali e in un’altra diventano patogene stimolando una reazione a catena.

Fanno parte delle Encefalopatie spongiformi umane il kuru, il morbo di Creutzfeld-Jakob (CJD) e il morbo di Gerstmann-Straussler.

Tutte queste malattie sono caratterizzate dall’accumulo (anomalo) di una proteina prionica nel sistema nervoso centrale, in assenza di una costante risposta immunologica specifica.

In modo specifico vi è la conversione di glicoproteine normali in particelle proteiche infettanti.

La CJD è stata trasmessa all’uomo dall’ingestione di carne bovina non accuratamente cotta contaminata da prioni. I sintomi sono rappresentati da incapacità di mantenere la posizione eretta, tremori persistenti, movimenti scoordinati, demenza. Il morbo di Creutzfeld-Jakob rappresenta la forma più frequente (circa l’85%) delle malattie da prioni.

Le altre forme derivano da fattori genetici come la CJD ereditaria, l’insonnia letale familiare e la malattia familiare da prioni Alzheimer-simile.

Classificazione delle malattie da prioni

Le malattie da prioni sono classificate in:

  • Sporadiche: quando insorgono spontaneamente, senza una causa specifica
  • Famigliari: quando compaiono all’interno di soggetti della stessa famiglia e sono causate da malattie genetiche
  • Acquisite: quando insorgono in seguito ad infezione con prioni provenienti da altri organismi

Tra le forme rare di malattie da prioni troviamo:

  • Malattia di Creutzfeldt-Jakob sporadica (sCJD)
  • Insonnia fatale sporadica
  • prionopatia variabilmente sensibile alle proteasi

Diagnosi delle malattie da prioni

La diagnosi viene formulata attraverso vari esami come:

  • Elettroencefalogramma, per valutare la presenza di anomalie
  • Risonanza magnetica, per annotare eventuali alterazioni strutturali del cervello
  • Analisi del liquido cefalorachidiano per individuare marcatori molecolari specifici

Recentemente è stato sviluppato l’RT-QuIC (real-time quaking-induced conversion), per identificare piccolissime quantità della proteina prionica tramite l’analisi dei campioni del liquido cerebrospinale o della mucosa olfattiva.

Ad oggi esistono varie associazioni a sostegno dei pazienti affetti da queste patologie, tra cui:

  • Associazione Italiana per Encefalopatie da Prioni-ONLUS (A.I.En.P)
  • Associazione Familiari Insonnia Familiare Fatale (AFIFF)
  • CJD International Support Alliance (CJDISA)

 

Il cuore di un uomo (2022) di Luca Serafini – Recensione

Va dato merito a Luca Serafini per aver portato a conoscenza dei lettori italiani la storia di René Favaloro con il suo libro Il cuore di un uomo.

 

La sua vicenda umana è davvero sensazionale ma sostanzialmente sconosciuta nel nostro paese, nonostante, come avviene spesso per gli argentini, la sua famiglia fosse di origine italiana. I suoi nonni emigrarono alla fine dell’Ottocento dalle isole Eolie e lui venne in Italia, un anno prima della morte, proprio per ritirare la cittadinanza onoraria di Salina. Aveva espresso rammarico per aver ricevuto onorificenze da tutto il mondo, eccetto che dal paese d’origine della sua famiglia. La sua storia merita di essere conosciuta: non si tratta solo di un grande medico, ma di un grande uomo, la cui vita è stata avvincente e il libro la racconta con il fascino e la cifra stilistica di un romanzo.

La vita di Favaloro può essere suddivisa in tre grandi capitoli. Il primo si svolge nel cuore della Pampa, nel piccolo borgo di Jacinto Arauz, dove, avversario del peronismo, è costretto a trasferirsi nel 1950 dopo la laurea su invito di uno zio. Qui muove i primi passi da medico rurale, vi resta 12 anni e si fa conoscere per aver dato vita a una struttura sanitaria di eccellenza, nonostante i pochi mezzi a disposizione. La seconda tappa si svolge negli Stati Uniti, dove si trasferisce per lavorare in strutture all’avanguardia. A Cleveland nel 1967 esegue a 44 anni il primo bypass aorto-coronarico al mondo, seguendo una propria intuizione e rivoluzionando la cardiochirurgia. Ad oggi sono stati eseguiti ben 40 milioni di bypass, divenuto l’intervento più efficace e diffuso per contrastare alcune patologie cardiache. Ma, all’apice del successo, rinuncia a offerte milionarie e decide di tornare in Argentina, in un momento di grave crisi politica ed economica del suo paese, per creare una struttura sanitaria di eccellenza da mettere a disposizione della popolazione meno agiata. Nasce la Fondazione che porta il suo nome, diventata sia una struttura universitaria che un centro clinico.

Il finale è tragico: Favaloro si è suicidato nel 2000. La sua Fondazione, nonostante la gran mole di lavoro, non godeva dell’appoggio governativo (siamo ai tempi della dittatura di Videla), gli venivano negati o ritardati i finanziamenti, aveva debiti e si sentiva isolato, abbandonato da tanti amici. La Fondazione è tuttora attiva, diretta dai nipoti. Solo dopo la sua morte il governo argentino ne riconoscerà la funzione sociale e vi è stato nel suo paese il legittimo riconoscimento del suo impegno civile, oltre che l’apprezzamento per il medico, condiviso in tutto il mondo. Nel febbraio 2020 il governo e la banca centrale propongono di coniare una banconota da 2000 pesos con la sua effige, ma gli eredi negano l’autorizzazione: ‘Avreste dovuto aiutarlo quando era vivo. Non sosterremo questa iniziativa e non parteciperemo alla sua diffusione’.

Serafini, nato a Milano nel 1961, noto al grosso pubblico innanzitutto per la sua attività di giornalista sportivo televisivo (segue da anni una delle due grandi squadre di calcio di Milano, quella per cui non tifo io, per chi mi conosce…) è un intellettuale a tutto tondo. Non è solo competente di calcio e di sport, scrive su diverse testate nazionali e questa non è la sua prima prova di romanziere. Già in passato, con Lady Stalker era andato a scovare, quella volta in Scozia, storie di vita straordinarie e poco note per ricavarne romanzi. Il libro è frutto di anni di ricerche e di un’attenta documentazione. Serafini si è più volte recato in Argentina per conoscere gli eredi di Favaloro e la clinica da lui creata.

Nel presentare il volume, Serafini scrive: ‘trovo aberrante il suicidio, dove paura e coraggio si rafforzano a vicenda, ma trovo ancora più aberrante giudicare la disperazione altrui’.

La sua lettura è consigliata per conoscere la vicenda di un grande medico, uno straordinario innovatore in campo scientifico, ma anche un sognatore e un uomo guidato sempre dalla passione civile, che ha salvato  migliaia di persone, ma morto a causa dell’isolamento sociale subito nel suo paese. Le vicende narrate nel libro sono certamente fuori dal comune, inoltre la scrittura di Serafini ha la capacità di appassionare il lettore, facendo rivivere persone, paesaggi, epoche. A partire dall’infanzia e proseguendo con la vita del medico di campagna, le sue aspirazioni, i sacrifici, le intuizioni cliniche, l’ambientamento all’estero, le soddisfazioni nel salvare vite, i progetti, le vicende private e sentimentali, le delusioni, per giungere alle lettere d’addio, tutto è raccontato con partecipazione e rispetto, oltre che con dovizie di particolari. Particolarmente intensi i dialoghi ricostruiti da Serafini che hanno il potere di unire vita e letteratura.

Il libro è stato insignito del premio Zanibelli-Sanofi 2020 dedicato alla letteratura scientifica.

 

Il disturbo schizo-ossessivo

Il disturbo schizo-ossessivo è caratterizzato da criteri diagnostici che includono una presenza significativa di sintomi ossessivi e sintomi psicotici positivi, negativi e cognitivi.

 

L’1% della popolazione generale è affetta da schizofrenia, mentre il 2-3% presenta un disturbo ossessivo-compulsivo (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). Mentre il primo è un disturbo psicotico, nel DSM IV (APA, 1994) il disturbo ossessivo-compulsivo era inserito all’interno della categoria dei disturbi ansiosi.

Scotti-Muzzi e Saide (2016) hanno proposto un articolo di aggiornamento sul disturbo dello spettro schizo-ossessivo, con il fine di indagare una nuova prospettiva sui marcatori endofenotipici, utile a comprendere il substrato dei disturbi menzionati e le sue relazioni.

Che cos’è il disturbo schizo-ossessivo

Per quanto riguarda l’epidemiologia, i ricercatori hanno trovato in letteratura uno studio longitudinale svolto su un campione contenuto in un registro di tre milioni di persone seguite per 17 anni: dei 30.556 pazienti con un disturbo dello spettro schizofrenico, a 700 (2.29%) di essi è stato formulato il DOC come prima diagnosi. Alcuni studi contemporanei (Fenton & McGlashan, 1986, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016) documentano una frequente comorbilità tra sintomi ossessivi e schizofrenia: nello specifico, il 25% delle persone che hanno una diagnosi formulata di disturbo psicotico presentano una comorbilità con i sintomi ossessivi, tali sintomi vengono presentati nel 17% dei casi durante il primo episodio psicotico, mentre il 12% presenta una comorbilità con il DOC vero e proprio (Schirmbeck & Zink, 2013). Nel 1994, lo stesso anno in cui fu pubblicata la quarta edizione del DSM, fu coniato il termine ‘schizo-ossessività’ da Hwang e Opler (1994). Poyurovsky e Koran (2005) hanno esaminato i disturbi dello spettro ossessivo-schizofrenico, includendo il DOC, DOC con scarso insight, DOC in comorbilità con il disturbo schizotipico, DOC e schizofrenia e schizofrenia pura (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). La visione di questi due disturbi è stata corroborata nell’ultima edizione del DSM (APA, 2013), dove viene riconosciuta l’esistenza del cosiddetto disturbo dello spettro schizofrenico (Phillips et al., 2010, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016). Poyurovsky e colleghi (2005) hanno proposto così l’esistenza di una nuova e presunta entità clinica, chiamata disturbo schizo-ossessivo, stabilendo un insieme provvisorio di criteri diagnostici che includono una presenza significativa di sintomi ossessivi e sintomi psicotici positivi, negativi e cognitivi (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). I criteri diagnostici ipotizzati sono i sintomi del DOC riportati nel criterio A del DSM 5 (APA, 2013), dove il contenuto delle ossessioni e delle compulsioni è correlato a deliri e allucinazioni (ad esempio, lavarsi compulsivamente le mani in risposta ad allucinazioni uditive) e dove i sintomi ossessivi sono presenti per un tempo sostanziale nella fase prodromica, attiva e/o residua della schizofrenia (Poyurovsky et al., 2012). Inoltre, le ossessioni e le compulsioni sono presenti per almeno un’ora al giorno e causano stress e invalidazioni quotidiane alla persona che le sperimenta (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

Dal punto di vista fenomenologico, i deliri e le ossessioni presentano delle caratteristiche distintive, come l’egodistonia e la presenza dell’insight nel DOC, utile a riconoscere le ossessioni e le compulsioni come eccessive in alcuni casi. Nonostante non sia presente il sottogruppo schizo-ossessivo nella nomenclatura esistente, tale sottotipo viene integrato da parte di un grosso gruppo di ricerca (Tumkaya et al., 2009; Catapano et al., 2013, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016) lungo un continuum tra ossessioni e deliri, grazie alla specifica ‘con scarso insight’. A favore di questa ipotesi, nella clinica si osservano pazienti con DOC in comorbidità con il disturbo schizotipico di personalità, persone con un andamento maggiormente deteriorato, con insight scarso e con più sintomi negativi e resistenza al trattamento (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

Le basi neurobiologiche del disturbo schizo-ossessivo

I substrati neurobiologici di questi due disturbi sono relativi al neurosviluppo: in letteratura sono state identificate delle anomalie fronto striatali, nello specifico nel talamo e nell’amigdala (Cummings, 1993). Per l’appunto, le connessioni dissociate nella corteccia prefrontale e orbitofrontale sono state osservate in entrambe le condizioni, dove la serotonina gioca un ruolo centrale. A differenza del DOC, recenti studi fMRI mostrano come vi sia una ridotta connettività funzionale dell’intero cervello guidata da alcune aree prefrontali, come il giro frontale inferiore sinistro (IFG) nei pazienti schizofrenici (Li et al., 2010, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016), che porta ad un’organizzazione disturbata delle funzioni cerebrali durante i processi linguistici.

Sono stati svolti degli studi per comprendere se ci fosse un substrato genetico comune tra DOC e schizofrenia: numerosi studi evidenziano come diversi polimorfismi, come il Val66Met associato a sintomi ossessivi nella schizofrenia o polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) coinvolti nella trasmissione glutammatergica implicata nel DOC, possano conferire una suscettibilità ai pazienti schizofrenici durante il trattamento con Clozapina (Hashim et al., 2012; Arnold et al., 2006, come citato in Scotti-Muzzi e Saide, 2016)

Ci sono prove sufficienti che dimostrano la rilevanza clinica di potenziare i disturbi dello spettro schizo-ossessivo. Tuttavia, si sa ancora poco sulla genetica, sugli aspetti neurocognitivi così come sulle strategie di trattamento farmacologico che possono rivelarsi efficaci. Allen e colleghi (2009) hanno trovato in letteratura degli endofenotipi correlati alla schizofrenia, dove i marcatori più forti includevano il volume ventricolare, il volume del piano temporale, il volume del giro temporale superiore, alterazioni di P50, P300 e P400 negli ERP e deviazioni neuromotorie. Per quanto riguarda il DOC, la fMRI e le prestazioni comportamentali suggeriscono marcatori come flessibilità cognitiva, processo decisionale, inibizione motoria, comportamenti ripetitivi, scarsa risoluzione dei conflitti e deficit nella risposta. Per le ricerche future, gli autori ipotizzano come i marcatori endofenotipici siano uno strumento promettente per comprendere meglio il substrato dello spettro schizo-ossessivo, nonché per convalidarne una potenziale esistenza (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

 

Gratitudine e Neuroscienze: come cambia il nostro cervello quando alleniamo la gratitudine

La gratitudine è un’emozione complessa che consiste nella capacità di riconoscere le cose buone nel mondo e nella propria vita, anche al di fuori di sé stessi  (Emmons, R. A., & Mishra, A. 2011). 

 

La gratitudine è una delle ‘emozioni empatiche’ che affondano le loro radici nella capacità di entrare in empatia con gli altri e ha un tema relazionale centrale, che sta nel riconoscimento o l’apprezzamento di un dono altruistico (Lazarus e Lazarus, 1994) che, se praticato con costanza, può rendere la nostra vita più serena nel rapporto individuale e relazionale (Emmons, R. A., & Mccullough, M. E., 2003) e sviluppare benefici emotivi e cognitivi in grado di migliorare l’approccio quotidiano alla vita. È stato dimostrato che la gratitudine può nascere da un gesto di gratificazione o un dono altruistico spontanei e disinteressati e dalla soddisfazione di bisogni fondamentali per chi li riceve (Tesser et al., 1968). È associata a benefici per il benessere soggettivo (Emmons e McCullough, 2003; Froh et al., 2008), all’aumento della resilienza al trauma (Kashdan et al., 2006) e a benefici per le relazioni sociali (Algoe et al., 2008). Inoltre i soggetti che dimostrano maggiore gratitudine sono anche quelli che mostrano un maggiore benessere psicologico (Wood et al., 2008a).

Il legame tra gratitudine e benessere

In uno dei suoi studi più famosi dal titolo Why gratitude enhances well-being: What we know, what we need to know, Emmons individua le possibili relazioni tra benessere e gratitudine:

  • migliora l’adattamento allo stress e la crescita personale: riflettere sulle circostanze della propria vita per chi è grato è un modo più efficace per affrontare eventi di vita stressanti, sia acuti che cronici.
  • Riduce le emozioni tossiche derivanti dal confronto sociale: una persona grata per la sua qualità della vita avrà meno possibilità di incorrere in invidie sociali derivanti dall’osservazione di condizioni sociali più vantaggiose della sua.
  • Riduce le aspirazioni materialistiche: gratitudine e materialismo sono due spinte motivazionali opposte. La gratitudine può aiutare il benessere motivando le persone a soddisfare i bisogni fondamentali di crescita personale, relazioni e comunità. Finalità, queste, incompatibili con fini materiali.
  • La gratitudine migliora l’autostima: è un potente alleato della felicità e ricevere riconoscimenti dalle persone alle quali si mostra gratitudine è un viatico per migliorare l’autostima personale.
  • Favorisce il recupero di ricordi positivi: la gratitudine si prova maggiormente facendo riferimento ad eventi che stimolano emozioni piacevoli.
  • Aumenta le nostre risorse sociali: il nostro pensiero formula intenzioni positive verso l’altro e ci predispone alla relazionalità.
  • Motiva il comportamento morale: favorisce comportamenti prosociali che intensificano la nostra attività positiva nella società. Un buon comportamento verso l’altro si traduce in un buon insegnamento.
  • Favorisce il raggiungimento degli obiettivi: un approccio più positivo alla vita può favorire comportamenti più determinati al raggiungimento dei propri desideri.

Gli effetti della gratitudine a livello cerebrale

Ma questi benefici hanno conseguenze sul nostro cervello? La gratitudine può essere la chiave della felicità? Le neuroscienze hanno approfondito in questi anni di ricerca gli effetti positivi a livello neuronale per chi allena la gratitudine, evidenziando reali cambiamenti sinaptici nel nostro cervello ed i loro correlati neurobiologici. Attraverso l’utilizzo di esami strumentali di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori Fox, Kaplan e Damasio pubblicarono uno studio nel 2015, con lo scopo di sollecitare l’emozione complessa della gratitudine attraverso le regioni cerebrali coinvolte nella cognizione morale, nel giudizio, nell’emozione positiva e nella Teoria della Mente. Nell’indagine i ricercatori si concentrarono sulla gratitudine che nasce dal ricevere un ‘dono’, che interessa un donatore e chi lo riceve;  Il termine ‘dono’, di tipo altruistico, si riferisce sia ai doni materiali, come cibo o vestiti, sia ai doni immateriali sotto forma di aiuto o supporto psicologico, identificando la gratitudine come un riconoscimento sociale.

Vennero somministrate storie tratte dall’Olocausto, presenti nell’archivio di storia visiva della USC Shoah Foundation. L’archivio è ad oggi composto da oltre 50.000 testimonianze videoregistrate di sopravvissuti tra le quali troviamo racconti di persone salvate o aiutate da altri attraverso cibo, riparo o vestiti. In queste storie, i sopravvissuti spesso riportano forti sentimenti di gratitudine. Infatti ai soggetti veniva chiesto di immedesimarsi nel periodo storico in oggetto e di immaginare di ricevere doni altruistici da estranei che si trovavano con loro in quel particolare momento storico. Per ogni regalo ricevuto dovevano descrivere quanto si sentivano grati.

I partecipanti hanno valutato la loro gratitudine per ogni regalo su una scala da 1 a 4. La media dei voti di gratitudine dei partecipanti era 2,62. I partecipanti a fine esperimento rivelarono che si erano sentiti coinvolti, con un aumento della loro empatia e una maggiore comprensione per i fatti riguardanti l’Olocausto.

Ai fini della ricerca i risultati confermarono le ipotesi iniziali: le aree cerebrali maggiormente coinvolte nell’esperienza della gratitudine risultarono essere la corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale mediale.

Gli effetti della gratitudine sulle aree frontali

Ma quali sono gli effetti sulle aree frontali cerebrali? Partendo ormai dall’evidenza della presenza di una relazione tra scambio di doni e gratitudine, uno studio di Balconi del 2019 mirava a indagare se e come lo scambio di doni altruistici potesse influenzare il comportamento, l’attività neurale e l’aumento e il miglioramento delle prestazioni cognitive, attraverso la percezione della cooperazione. L’esperimento consisteva in un’attività di cooperazione tra due soggetti nell’atto di scambiarsi un dono, utilizzando dell’iperscansione basata su EEG, che consente di ottenere una migliore risoluzione temporale e di registrare le interazioni dei due soggetti momento per momento .

I risultati hanno rivelato che lo scambio aveva effetti positivi sulle risposte comportamentali, con il coinvolgimento di una specifica rete neurale che recluta le aree frontali: la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC). Effetti riscontrabili sia per il donatore che per il ricevente. Per l’indagine l’empatia si è rivelata fondamentale per l’interazione sociale e il meccanismo alla base viene spiegato dalla relazione tra i due soggetti nell’attivazione automatica di rappresentazioni condivise, che comporta anche un miglioramento delle capacità cognitive. Tuttavia, si legge nello studio, oltre alle ragioni altruistiche prosociali, potrebbero essere coinvolti meccanismi egoistici, come il desiderio di ricevere attenzione (Batson, 2009). Di conseguenza, quando gli individui eseguono un comportamento prosociale (come offrire un beneficio a qualcuno), quest’ultimo può essere considerato come un mezzo strumentale per ottenere un guadagno personale. Nello specifico, anche in assenza di evidenti ricompense esterne, offrire un beneficio ad un altro individuo comporta una forma di guadagno personale che viene percepita dal benefattore come ricompensa personale e autocompiacimento (Cialdini e Kenrick, 1976; Bandura, 1977).

 

Il cervello plastico – L’ABC della plasticità cerebrale

I meccanismi principali alla base della plasticità cerebrale coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi sia la creazione di nuove sinapsi.

 

Siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo
(Eric Kandel)

Cos’è la plasticità cerebrale

Il concetto di plasticità cerebrale è un concetto decisamente ‘cool’ di questi tempi e infatti riveste un grandissimo interesse, non solo tra i neuroscienziati, ma anche tra i curiosi di scienza. Il termine deriva dal greco plastos che significa plasmato/modellato.

La plasticità neurale si riferisce alla incredibile ed intrinseca capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, in funzione dell’esperienza, al fine di apprendere informazioni sull’ambiente oppure, nel caso di danni cerebrali, per ripararli.

Eric Kandel, uno dei padri delle neuroscienze moderne, afferma: siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo. A dire che, se il nostro cervello non disponesse di questa speciale proprietà nel corso dello sviluppo, il nostro comportamento sarebbe rigido e stereotipato, non saremmo in grado di apprendere e diventeremmo esseri senza memoria.

Tale capacità è una componente chiave nei processi di sviluppo cerebrale durante l’età evolutiva, ma entra anche in gioco in risposta a cambiamenti fisiologici come l’invecchiamento oppure nei casi di patologie neurologiche e/o danni cerebrali (per es. demenze, tumori cerebrali e ictus).

I meccanismi principali alla base della plasticità coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi (ovvero i collegamenti tra i neuroni) sia la creazione di nuove sinapsi, attraverso un processo che viene definito plasticità sinaptica. L’esperienza esterna genera un cambiamento dell’attività elettrica (=nervosa) cerebrale che, a sua volta, modifica l’efficacia della trasmissione sinaptica, promuovendone un potenziamento o una riduzione. In quasi ogni struttura cerebrale, una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni quando sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come la legge di Hebb (1949), uno psicologo canadese che negli anni Quaranta del secolo scorso formulò il primo modello formale dei meccanismi dell’apprendimento.

In questo modo si determina, in risposta all’esperienza, la modificazione della funzionalità di un circuito neurale. Alcune modifiche sono rapide, transitorie e reversibili (modifiche a breve termine) e servono per ottimizzare le risposte comportamentali. Si pensi a quando è necessario ricordare un’informazione per svolgere un’attività nell’immediato: per esempio ricordare un numero di telefono implica recuperare l’informazione dal magazzino della memoria e ‘trasportarla’ per qualche istante nel magazzino della memoria di lavoro, dal quale sparirà appena non sarà più necessaria.

Se la modificazione dell’efficacia sinaptica risulta duratura nel tempo (modifiche a lungo termine), ne consegue un cambiamento duraturo a livello anatomico e funzionale dei circuiti stessi.

Il primo a parlare di plasticità fu però lo psicologo inglese William James, che, partendo dallo studio del comportamento umano, nella sua opera The Principles of Psychology (1890), descrisse il concetto di plasticità come la base del processo di apprendimento. Uno dei padri delle neuroscienze moderne Ramòn y Cayal (1892), già noto per i suoi contributi scientifici nello studio delle cellule nervose, pose invece l’accento sulla dinamicità dell’architettura corticale.

Negli anni altri importanti fisiologi e neurologi si occuparono di plasticità arricchendone il significato, ma bisogna aspettare fino agli anni ’50-60 del secolo scorso per passare da una fase di teorizzazioni a quella sperimentale vera e propria.

Plasticità cerebrale e influenze ambientali

Un concetto fondamentale connesso alla neuroplasticità, emerso dalle ricerche degli scienziati Hubel e Wiesel, Nobel per la medicina nel 1981, riguarda quello di periodo critico. Si tratta di una finestra temporale precisa, nel periodo di sviluppo del bambino, caratterizzata da alti livelli di plasticità cerebrale grazie alla quale l’esposizione a stimoli specifici e rilevanti per una certa funzione determina la rapida acquisizione e il raffinamento della funzione stessa. In questo periodo di tempo, l’esperienza agisce modificando attivamente la struttura e le funzioni dei circuiti nervosi in modo da renderli capaci di rappresentare il mondo esterno in maniera congrua e di rispondere agli stimoli mediante comportamenti adattivi.

Negli anni ’60 i due scienziati dimostrarono infatti che la privazione della vista durante lo sviluppo postnatale alterava in modo irreversibile la capacità di elaborare le immagini in gatti con un occhio cucito chirurgicamente, e quindi deprivato della vista, per un massimo di 3 mesi dalla nascita (Hubel and Wiesel, 1962). Il fenomeno veniva osservato anche nei bambini cresciuti con disturbi visivi, come ad esempio la cataratta congenita.

Questo dimostra che l’ambiente esterno gioca un ruolo cruciale nell’influenzare la plasticità del cervello in crescita. La neuroplasticità è infatti strettamente connessa ai processi di sviluppo del cervello nei primi anni di vita in quanto entra in gioco nell’elaborazione delle informazioni sensoriali (per es. visive, uditive, motorie) che sono alla base del meccanismo dell’apprendimento. Si pensi ad esempio ai meccanismi di discriminazione fonemica che il cervello di un neonato utilizza per sviluppare il linguaggio. Indipendentemente da dove il neonato nasce egli è in grado, attraverso un’esposizione appropriata per stimolazione e frequenza, di apprendere qualsiasi lingua e, nel caso di esposizione ad un ambiente bilingue, di apprenderne anche una seconda in modo naturale. Questa ‘facilità’ di apprendimento è un’altra dimostrazione dell’esistenza del periodo critico.

Oltre agli studi di Hubel e Wiesel, Mark R. Rosenzweig e i suoi collaboratori (Diamond et al., 1964) indagarono il ruolo dell’ambiente esterno nel modellare l’architettura corticale e nel potenziare la plasticità, introducendo un paradigma denominato ‘arricchimento ambientale’. Nei modelli animali, in particolare nei ratti, l’arricchimento ambientale consiste nell’impiego di una combinazione di stimoli animati, inanimati e sociali. Lo scopo è quello di fornire all’animale un livello maggiore di stimolazione multisensoriale, cognitiva, fisica e di favorire la massima interazione sociale.

Gli effetti benefici sul cervello dei ratti derivanti dall’arricchimento ambientale sono stati descritti a vari livelli. Qui riassumiamo solo i principali: effetti a livello molecolare (stimolazione dei livelli dei fattori neurotrofici che guidano la crescita neurale nella corteccia visiva, effetti significativi sui sistemi dei neurotrasmettitori che sono le sostanze che veicolano le informazioni tra i neuroni), a livello anatomico (aumento dello spessore corticale) e a livello comportamentale (aumento delle prestazioni di apprendimento e memoria). Adattando lo stesso paradigma sperimentale nell’uomo, si è osservato che il massaggio in neonati nati prematuramente accelera lo sviluppo cerebrale. In particolare, questa semplice azione, apparentemente del tutto insignificante, ha prodotto effetti inaspettati e sorprendenti tra cui una diminuzione del cortisolo, che è l’ormone dello stress, un aumento di peso, un aumento di produzione di fattori neurotrofici, una accelerazione dello sviluppo dell’attività elettrica del cervello, ed infine uno sviluppo precoce della visione.

Plasticità neurale in età adulta

Se prima degli anni ’90 si pensava che la riorganizzazione anatomo-funzionale del cervello fosse ristretta ai primi anni di vita, perdendo oltretutto la possibilità di far nascere nuovi neuroni, e si esaurisse definitivamente nell’età adulta, recentemente si è osservato che anche il cervello adulto, in determinate condizioni, ha la possibilità di andare incontro a modifiche molto rilevanti. Le evidenze a favore di questa nuova prospettiva sono molteplici.

In primis, oggi è noto che la rigenerazione neuronale (=neurogenesi) è presente anche nel cervello adulto, sebbene con un ritmo decisamente inferiore rispetto a quello del cervello in crescita. Questo fenomeno è stato riscontrato soprattutto nell’ippocampo, che è una struttura coinvolta nei meccanismi di apprendimento e di memoria. Famoso è l’esperimento che ha indagato la memoria visuo-spaziale nei tassisti londinesi, riscontrando una correlazione positiva tra il volume dell’ippocampo e gli anni di anzianità di servizio: i tassisti più esperti mostravano un volume ippocampale maggiore in quanto avevano memorizzato più informazioni visive e spaziali rispetto ai tassisti meno esperti (Wollett and Maguire, 2011; Confalonieri, 2011).

La seconda evidenza deriva dalla patologia e può essere riassunta in due parole: plasticità adattiva. Infatti, in seguito a lesioni cerebrali dovute ad insulti ischemici o tumori caratterizzati da una lenta crescita, anche un soggetto adulto è in grado di compensare una funzione persa oppure di massimizzare una funzione compromessa dalla malattia. Con l’impiego delle tecniche di neuroimmagine, quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è stata dimostrata, nei soggetti colpiti da ictus, una riorganizzazione funzionale della corteccia motoria primaria, in cui aree motorie dell’emisfero controlaterale o aree motorie secondarie si attivano in modo da compensare la funzione compromessa (Rehme et al 2011). Tale potenzialità può essere sfruttata al meglio per favorire il recupero in seguito a danni cerebrali ed implementare programmi di riabilitazione personalizzati delle funzioni motorie e/o cognitive.

Il recupero funzionale delle funzioni danneggiate post-malattia è reso possibile da un semplice fatto: noi non smettiamo mai di apprendere. Nonostante la velocità e l’efficienza di apprendimento diminuiscano nell’età adulta e con l’invecchiamento, il nostro comportamento può essere sempre modificato dalle esperienze che viviamo. Questo fenomeno è noto come plasticità comportamentale ed è strettamente connesso all’abilità dell’individuo di essere flessibili ovvero alla capacità cognitiva di modificare strategie attentive, decisionali e comportamentali in un ambiente esterno nuovo o mutevole (Gaetano, 2018).

Plasticità e psicoterapia

Una situazione prototipica in cui entra in gioco la flessibilità cognitiva è quella della psicoterapia dove il terapeuta, con opportune tecniche cognitivo-comportamentali, favorisce nuovi apprendimenti sul piano del pensiero e delle emozioni (es. tramite la ristrutturazione cognitiva), che unitamente concorrono a modificare il comportamento. Pensiamo alla tecnica dell’esposizione graduale allo stimolo fobico per trattare un paziente affetto da fobia specifica. Avvicinarsi progressivamente allo stimolo temuto, unitamente al lavoro di ristrutturazione cognitiva fatto in seduta col terapeuta, permette al soggetto di entrare in contatto poco alla volta con lo stimolo e quindi con le emozioni e i pensieri connessi, ‘sperimentando di fatto una nuova esperienza’. Questa nuova esperienza, sul piano del comportamento, unitamente ai nuovi apprendimenti cognitivo-emotivi, rappresenta la possibilità di cambiamento mentale/psichico o di plasticità psichica, e in ultima analisi di diminuzione della sofferenza del paziente.

Le tecniche di cura come la psicoterapia infatti potenzialmente lavorano su tutti e tre i livelli di neuroplasticità, quella psichica e quella comportamentale, che sottendono la plasticità sinaptica.

In particolare per alcuni disturbi mentali, la psicoterapia può essere integrata con successo massimizzandone la sua efficacia nel lungo termine attraverso l’applicazione di tecniche innovative di neuromodulazione, quali la stimolazione magnetica transcranica (TMS).

Si stanno accumulando evidenze riguardanti sia la fattibilità che l’efficacia di protocolli di trattamento TMS per la depressione farmaco-resistente e per il disturbo d’ansia generalizzata, sebbene per ora gli studi siano ancora eterogenei in termini di parametri di stimolazione impiegati (es. frequenza di stimolazione, numero di sessioni) (Lefaucheur et al 2014, Parikh et al 2021, Fitzgerald et al. 2009).

Sulla base di queste iniziali evidenze si ipotizzava e oggi si comincia a dimostrare che, stimolando opportunamente alcune regioni cerebrali, si può agire sulla plasticità sinaptica ottenendo effetti benefici sul comportamento del soggetto (Ferro et al, 2021; Lamanna, Ferro, 2021).

Studi futuri sono necessari da una parte per dimostrare in modo rigoroso l’efficacia dell’uso combinato della psicoterapia e delle tecniche di neuromodulazione nell’ambito dei principali disturbi mentali ed emotivi e, dall’altra, per fare luce sulle enormi potenzialità di riorganizzazione funzionale del nostro cervello, partendo dai meccanismi molecolari di neuroplasticità fino ad arrivare alla loro connessione con la plasticità psichica.

 

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Glossario in ordine alfabetico

  • Fattori neurotrofici o Brain derived neurotrophic factor, BDNF: neurotrofina che agisce su determinati neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico, contribuendo a sostenere la sopravvivenza dei neuroni già esistenti e favorendo la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi.
  • Memoria di lavoro o working memory: è quel particolare tipo di memoria temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni per un tempo limitato, per consentire l’utilizzo dell’informazione stessa nell’immediato.
  • Neurotrasmettitore: sostanze liberate dai neuroni a livello sinaptico che servono a inviare messaggi chimici endogeni tra i neuroni.
  • Neurogenesi: processo di rigenerazione neuronale attraverso cui vengono generati nuovi neuroni da cellule immature. E’ possibile distinguere due tipi di neurogenesi: quella durante lo sviluppo, che dà origine alle cellule nervose e gliali destinate a formare i tessuti del sistema nervoso, quella presente nell’adulto, il cui significato è legato alla plasticità funzionale di determinate aree cerebrali.
  • Risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI): tecnica non invasiva di visualizzazione del cervello in vivo in risposta a specifici stimoli (uditivo, visivo, etc) o durante un compito cognitivo (produzione parole, riconoscimento emozioni).
  • Sinapsi: è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione delle cellule del tessuto nervoso tra loro (neuroni) o con altre cellule (cellule muscolari, sensoriali o ghiandole endocrine).
  • Stimolazione magnetica transcranica (Transcranic Magnetic Stimulation, TMS): tecnica non invasiva di neuromodulazione che si fonda sul principio dell’induzione elettromafgnetica. Il tessuto cerebrale viene opportunamente stimolato posizionando dei magneti (bobine) in prossimità della cute.

 

“13 Reasons Why” e autolesionismo tra gli adolescenti

Uno studio molto recente (Sinyor et al., 2021) ha analizzato possibili cambiamenti nella frequenza delle visite nei reparti di emergenza per suicidio o autolesionismo da parte di adolescenti e giovani adulti nei mesi successivi al rilascio della prima stagione della serie tv Tredici.

 

Il 31 Marzo del 2017, su Netflix, è stata mandata in onda la prima stagione della serie tv 13 Reasons Why, in italiano Tredici. La serie, che includeva una lunga rappresentazione del suicidio di un’adolescente, Hannah Baker, è stata già ampiamente criticata per aver violato numerose raccomandazioni per le rappresentazioni responsabili del suicidio (Bridge et al., 2020; Niederkrotenthaler et al., 2019; Rosa et al., 2019 ; Sinyor et al., 2019). In particolare, l’episodio finale che descrive il suicidio del personaggio principale raffigura Hannah in una vasca da bagno mentre si taglia i polsi con una lama di rasoio. Questa scena ha destato una particolare preoccupazione e già diversi studi hanno analizzato la correlazione della serie con il fenomeno del suicidio che sembra aver mostrato un aumento nei giovani di circa il 15% negli Stati Uniti (Niederkrotenthaler et al., 2019) e del 18% in Canada (Sinyor et al., 2019).

Questi risultati hanno rafforzato la letteratura esistente che dimostrava che la serie tv era associata ad un aumento delle ricerche su Google ‘come suicidarsi’ (Ayers et al., 2017), e ad un peggioramento dell’umore in un adolescente su quattro dopo aver visto la serie Tredici (Rosa et al., 2019). L’argomento è stato trattato anche in un articolo precedentemente pubblicato su State of Mind.

Inoltre, un’indagine del 2019 (Hong et al., 2019) aveva addirittura mostrato che, su 87 adolescenti che si sono presentati al pronto soccorso durante una crisi suicida, circa un quarto credeva che lo spettacolo avesse aumentato il rischio di suicidio.

I risultati ottenuti in letteratura che dimostrano i possibili danni provocati sugli adolescenti a seguito della visione della serie tv risultano essere altamente suggestivi.

Oltre al focus sul suicidio, però, anche il tema dell’autolesionismo appare centrale. Un personaggio secondario della serie, Skye, ricorre all’autolesionismo descrivendolo come ‘quello che fai invece di ucciderti’ (Yorkey, 2017; episodio 13), mostrando anche egli dei tagli sul corpo.

Studi in letteratura ci dimostrano che anche le raffigurazioni di autolesionismo possono portare a comportamenti imitatori (Jarvi et al., 2013; Khasawneh et al., 2020). Dato che entrambi i personaggi di Hannah e Skye mostrano comportamenti autolesivisi, ci si potrebbe aspettare, come è accaduto per il suicidio, un’imitazione dei comportamenti autolesivi non fatali nella popolazione. Nonostante ciò, sono presenti pochi dati sulle visite in pronto soccorso per atti autolesivi a seguito del rilascio della serie Tredici.

Uno studio, ad esempio, ha riscontrato un aumento dei ricoveri per tentativi di suicidio/autolesionismo in un ospedale pediatrico negli Stati Uniti (Cooper et al., 2018) e un altro studio preliminare sulle visite nei dipartimenti d’emergenza e accettazione per autolesionismo negli Stati Uniti ha indicato un possibile aumento di tale comportamento dopo l’uscita della serie tv (Feuer & Havens, 2017).

Pochi studi però hanno esaminato l’elemento dell’autolesività rispetto a quelli che hanno analizzato il tasso di tentativi di suicidio portati a termine o meno. La relativa scarsità di studi in quest’area rappresenta un’importante lacuna nella letteratura dato che l’aumento di tali presentazioni, se osservato, rappresenterebbe esiti sanitari negativi altamente rilevanti che rafforzerebbero i precedenti risultati sui decessi per suicidio.

Data la mancanza di dati in questo campo, uno studio molto recente (Sinyor et al., 2021) ha cercato di analizzare possibili cambiamenti per quanto riguarda la frequenza delle visite nei reparti di emergenza da parte di adolescenti e giovani adulti (nello specifico, di età compresa tra 10 e 29 anni) confrontando i dati con un gruppo di adulti di mezza età (età compresa tra 30 e 45 anni) in Ontario, Canada, nei mesi successivi al rilascio della prima stagione della serie tv Tredici. In particolare, lo studio ha cercato di analizzare un possibile aumento di visite al pronto soccorso per autolesionismo, ma anche visite al pronto soccorso relative alla salute mentale e alla dipendenza e visite mediche ambulatoriali.

I risultati di questo studio hanno mostrato un aumento significativo di visite al pronto soccorso sia per autolesionismo sia per problemi di dipendenza nei tre mesi successi al rilascio della serie tv Tredici. L’aumento che si è osservato nelle visite riguarda in particolare la fascia d’età degli adolescenti e il sesso femminile.

Il fatto che gli aumenti siano stati maggiori nella fascia d’età dai 10 ai 19 anni è coerente con ciò che gli autori dello studio si aspettavano dall’effetto dell’imitazione, dato anche che il pubblico a cui era indirizzata la serie e i protagonisti stessi erano proprio gli adolescenti.

Nonostante i risultati dello studio non mostrino nessun nesso di causalità tra i due elementi, essi sono coerenti con l’idea che la serie abbia stimolato comportamenti imitativi in spettatori vulnerabili.

Sebbene quindi l’intento dei creatori della serie Tredici fosse dei migliori, ovvero lo scopo era quello di coinvolgere la popolazione generale sul tema del suicidio e della salute mentale, aiutando di conseguenza chi ne soffre, i risultati in letteratura sembrano indicare il contrario. Se la serie avesse avuto un effetto positivo sulle persone con pensieri suicidi o con malattie mentali in generale, è plausibile pensare che si sarebbe verificato un aumento delle visite ambulatoriali psichiatriche o un aumento nelle cure primarie per le dipendenze. Invece, negli Stati Uniti, per esempio, nel periodo immediatamente successivo al rilascio della prima stagione, è stato registrato un minor numero di chiamate rispetto alla media (Thompson et al., 2019).

Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono che la visione della serie tv è associata ad un aumento dei comportamenti autolesionistici con visite al pronto soccorso, piuttosto che facilitare i contatti di cure non acute o di crisi.

In conclusione, questi risultati si aggiungono alle prove considerevoli che suggeriscono che la serie in questione ha causato danni negli adolescenti vulnerabili e sottolinea la necessità di un ulteriore impegno con i creatori e i fornitori di media di intrattenimento per diffondere le migliori pratiche per rappresentazioni sicure del suicidio (Organizzazione mondiale della sanità, 2019).

 

Gli psicologi e la guerra

Se pensiamo che l’ultima volta fu negli anni ‘90, nella ex Jugoslavia (ma in quel preciso momento storico la Russia, appena reduce dal crollo dell’URSS, non era un’antagonista e il conflitto non aveva possibilità di estendersi a potenze atomiche), intere generazioni di colleghi non hanno avuto alcun sentore di cosa fosse una guerra in casa nostra.

 

Chi, come il sottoscritto, è nato negli anni ‘60, della guerra aveva avuto sentore eccome. Genitori sfollati e scampati da piccoli ai bombardamenti della seconda guerra mondiale; nonno giovane ardito nella guerra di trincea della prima guerra mondiale. I racconti atroci di cosa fosse la guerra in casa erano comuni e frequenti. Ma anche delle sue conseguenze in termini di fame, povertà, pericolo costante. E quindi poi, conseguentemente, di disturbi alimentari, traumi inelaborati, angosce pantoclastiche, e così via.

Il disturbo post traumatico per alcune generazioni è stato comune tanto quanto lo spettro narcisistico per noi oggi. Si conviveva con esso come se nulla fosse, ma questa traumaticità è stata motivo di una trasmissione transgenerazionale del lutto e del panico le cui conseguenze, latenti e sotterranee, sono per lo più sconosciute. Non si finisce mai di curare le ferite delle guerre del passato, sembra inverosimile ma in qualche modo ce ne occupiamo ancora oggi. La guerra non produce solo morte e distruzione nel qui ed ora, ma ferite psichiche incommensurabili che si tramandano per molte generazioni.

Molte delle strategie terapeutiche che oggi applichiamo sono nate proprio durante l’ultima guerra mondiale: la comunità terapeutica e la terapia di gruppo nascono contestualmente, se pensiamo ai noti esperimenti sui gruppi svolti nell’ospedale militare di Northfield da parte di Bion e soprattutto di Foulkes (Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, 1948), proprio durante i massicci bombardamenti nazisti sull’Inghilterra. Il secolo che aveva prodotto il massimo della follia di massa che provava a rispondere a tale follia scoprendo le risorse terapeutiche del piccolo gruppo. Il veleno e il rimedio, entrambi nello stesso luogo: la gruppalità umana.

Ma veniamo all’attualità. Dicevamo degli psicologi attoniti. Dopo diversi giorni dall’inizio del conflitto russo-ukraino, nei gruppi professionali social nulla sembra trapelare, nessuno ne parla, si assiste ad una inquietante negazione di ciò che accade nel mondo come se un fatto del genere non riguardasse noi e il nostro lavoro. Sempre più forte la sensazione che esista un vulnus nelle nostre formazioni privatistiche che sembra proteggerci con un velo denegativo da ciò che accade “fuori”. L’implicito culturale e formativo, sembra essere sempre quello: il nostro compito è occuparci del mondo interno dei nostri clienti-committenti paganti, tutto il resto non ci interessa. Peccato che questa topologia dentro/fuori è un semplice artificio descrittivo che nulla dice della realtà psichica degli esseri umani e che, anzi, finisce per depistare ogni nostro atto professionale in quanto lo consegna ad una scissione irreparabile.

Psicologi in azione positiva (emergenziali) e in azione negativa (custodi del pensiero)

Ma per fortuna questo panorama desolante non corrisponde ai reali interessi e alle reali occupazioni di alcuni colleghi che, per vocazione personale e per applicazione professionale si occupano da sempre di eventi come la guerra. Mi riferisco in particolare a tutti coloro che sono impegnati nel sociale e ancor più nello specifico ai colleghi psicologi dell’emergenza che svolgono servizio nelle innumerevoli frontiere nazionali e internazionali: catastrofi naturali, emergenze politiche e sociali di varia natura, comprese situazioni di guerra.

Se fortunatamente esiste un ampio settore della psicologia sociale che ha sviluppato specifiche competenze e tecniche di intervento integrate con i compiti della protezione civile (la psicologia dell’emergenza, appunto) e che risponde con immediatezza ad una richiesta di azione, occorre immaginare che l’impegno della psicologia professionale non è soltanto di natura prettamente operativa, ma anche, specularmente e altrettanto importante, di “azione negativa”, cioè di recupero del pensiero. Lo psicologo è eminentemente il professionista dell’azione negativa del pensare, colui che sa prendersi il tempo e il modo per farlo.

La guerra non si limita a distruggere vite inermi e innocenti, ma aggredisce e distrugge anche il pensiero di chi sopravvive e di chi prova a farsene una qualche minima ragione. Ecco perché risulta urgente ed emergente il bisogno di creare uno spazio-tempo che permetta alla mente di contestualizzare gli accadimenti, di capirne le cause remote e prossime, di ordinare e governare, quanto possibile, le emozioni negative, di realizzare di continuo problem setting e problem solving sia nell’immediato che nei tempi lunghi.

Pensieri del passato sulla guerra

In passato tutti i grandi autori e padri dei nostri saperi si sono confrontati con questo tema.

Nel noto carteggio Freud-Einstein (Perché la guerra, in S. Freud, Opere, 1932), Freud riteneva piuttosto ineluttabile il destino pulsionale distruttivo e autodistruttivo dell’animo umano (chiamato istinto di morte), che può essere parzialmente mitigato dalla tensione civilizzatrice dell’identificazione con l’altro. Oggi chiameremmo questo concetto in termini di empatia, a cui Freud attribuiva una funzione di civilizzazione. Quanto è centrale questa riflessione per chi abbia voglia di negoziare la pace, soprattutto laddove identificazione-empatia non coincidono affatto con il concetto di simpatia. L’empatia con l’aggressore o il nemico (non la simpatia o la compiacenza) è il primissimo passo per evitare la guerra.

Anche C.G. Jung se ne occupa, (sia in Wotan, 1936, che in Dopo la Catastrofe, 1946, in Opere Comp. Boringhieri, Torino, 1985), rileggendo le colpe del popolo tedesco come forme di regressione spirituale verso culti primitivi. W. Reich parla invece di “peste emozionale” per indicare quel processo di alienazione degli individui e delle masse che, divenuti incapaci di amare autenticamente, diventano oggetti manipolabili al servizio di nazionalismi, autoritarismi e guerre.

Nell’immediato dopoguerra, la scuola filosofica di Francoforte cercò una primissima elaborazione culturale delle derive pantoclastiche del nazifascismo provando a descrivere ed esplorare la cosiddetta “personalità autoritaria” (T. Adorno et al. La personalità autoritaria, 1950), quella tendenza umana a sottomettersi e ad ubbidire all’autoritarismo corredata da specifiche caratteristiche di etnocentrismo (nazionalismo), antisemitismo, conservatorismo, convenzionalismo, disprezzo delle differenze, del confronto democratico, delle espressioni di fragilità e tenerezza, sessismo, misoginia, facilità ad accedere a risoluzioni violente e aggressive, etc.

Con E. Fromm troviamo un tentativo di elaborazione della distruttività umana (Anatomia della distruttività umana, 1973) che prova ad integrare i saperi psicoanalitici, ma epurati della teoria dell’istinto di morte, con quelli della nascente prospettiva etologica di K. Lorenz (istintivismo) e un’esplorazione antropologica delle società con minore o maggiore tensione distruttiva. Solo la specie umana, dice Fromm, aggiunge al naturale processo aggressivo di tipo difensivo e adattativo il bisogno assoluto di controllo e quindi di distruttività.

Ma è con un autore italiano, Franco Fornari (Psicoanalisi della Guerra, 1966), che probabilmente troviamo la teoria più compiuta (e a mio parere, più convincente) sulla guerra. Fornari sostiene l’ipotesi che la guerra sia un’elaborazione paranoicale del lutto e della depressione. L’esperienza del parto e della nascita rappresentano il paradigma della estrema vicinanza delle esperienze di vita e di morte. Nella mente umana si crea fin da qui l’esperienza, definita terrificante, di un nemico interno ineludibile contro cui l’invenzione del nemico esterno da controllare e uccidere diventa automaticamente compensatoria. Nella struttura coinemica della famiglia tale scissione rende possibile l’esportazione del vissuto paranoicale nella figura del padre dispotico e autoritario che si assume come compito la protezione della coppia madre-bambino e la protezione del parto e della nascita.

Qualche pensiero sparso su Putin e le sue fragilità

Dopo aver visto attentamente la lunga intervista del regista americano Oliver Stone (2015) al presidente russo Putin (nella quale sono rintracciabili tutte le attuali conseguenze), e dopo aver sentito, a seguire, le sue recentissime dichiarazioni di guerra all’Ucraina, non ho potuto non pensare a quanto la storia si stesse, tragicamente, ripetendo nello stesso solco e con le stesse conseguenze che il patto di Versailles del 1919 ebbe a carico della Germania sconfitta e a carico della fragile psiche di Adolf Hitler che di quel trattato fece, fino alla fine dei suoi giorni, la sua oscura bandiera rivendicatrice.

Le analogie tra le due vicende, dal punto di vista psicologico, sono a mio parere piuttosto impressionanti.

In entrambi i personaggi ci troviamo di fronte a funzionari militari che all’improvviso, vuoi per una sorta di revanscismo (Hitler), vuoi per un inaspettato vuoto di potere (Putin), si sono ritrovati a rappresentare senza alcuna preparazione politica un’intera nazione in situazione di gravissima crisi economica e politica. Entrambi si sono ritrovati ad essere sia destinatari delegati sia portatori di un sentimento popolare di rivincita a seguito di condizioni di umiliazione e sconfitta. Entrambi avevano una reale umiliazione alle loro spalle: il patto di Versailles (Hitler), l’emarginazione internazionale della Russia dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente assimilazione delle zone d’influenza verso l’Europa e la Nato (Putin).

Proprio come i re taumaturghi e apotropaici del medioevo, un po’ santi, un po’ maghi guaritori, investiti di una identificazione mistica e religiosa con le viscere più ancestrali del loro popolo e con la sua gloriosa storia mitologica vivente, sia Hitler che Putin, hanno vissuto sulla propria carne, con la stessa virulenza paranoicale descritta da Fornari, il dolore inflitto dalla storia ai loro popoli e alla loro supposta potenza e grandezza. Entrambi sono diventati, seguendo la medesima metafora fornariana, padri tirannici e dispotici a difesa del parto mistico, in questo caso una rinascita, della loro stessa patria.

La Deutschland Über Alles (nel culto di Wotan) e la Grande Santa Madre Russia sono le rinascite che i due padri tiranni devono operare.

Due creature destinate a morire già prima di nascere.

La storia si ripete, i destini dei tiranni pure.

Il tiranno paranoico, ormai maschera di se stesso, si sente autorizzato a muovere guerra. Egli lo fa perché si sente assediato ovvero perché si sente autorizzato a capovolgere l’umiliante condizione di soggezione (il “terrificante”) che l’offesa del tradimento o del maltrattamento subito illo tempore ha prodotto.

Anche i nemici interni, di cui il tiranno si sente (ed è realmente) circondato, sono ostacoli che si frappongono tra sé e la missione mistica di restituire l’onore al popolo ferito e alla sua presunta missione nella storia.

La Russia è grande, La Russia è santa e madre, la Russia ha un’anima speciale, la Russia non può essere ridimensionata e neanche vagamente minacciata, tanto meno offesa. Questo il discorso interno grandioso del tiranno. Ed è osservando questo genere di pensieri patriottici e nazionalistici che ringrazio il cielo che qui da noi in Italia sono davvero pochi coloro che si prendono così sul serio riguardo il patriottismo…

Peccato che la Russia è una nazione che, gas a parte, ha un’economia mediocre e non eccelle a livello globale quasi in nulla. Un gigante militare con un’oligarchia economica mafiosa (capitalismo mafioso, inefficiente, destinato a perdere contro le superpotenze cinesi e occidentali), che mantiene un’alleanza con un capo militare che garantisce in cambio una apparente stabilità politica. Ma su tutto il resto, diritti sociali, diritti civili, la Russia è una nazione oggettivamente molto meno che mediocre.

Muovere guerra, nel quadro qui descritto, è un atto di enorme debolezza. Occorre capire quale sia quella specifica di Putin. In tal senso il richiamo freudiano all’identificazione empatica con la condizione pietosa dell’altro ha molto senso.

Tutte informazioni essenziali per chi si ritroverà a negoziare la pace.

Il fenomeno del Cyber sex: validazione e adattamento dell’Internet Sex Screening Test in lingua Italiana – PARTECIPA ALLA RICERCA

Scopo dello studio è quello di consentire la validazione e l’adattamento in italiano dell’Internet Sex Screening Test indicato per lo screening delle attività sessuali online e quindi del cybersex.

 

Il fenomeno del cybersex viene attualmente considerato come un uso eccessivo ed incontrollato di internet allo scopo di ottenere una gratificazione sessuale, attraverso diverse attività come la visione di materiale pornografico, la partecipazione a chat a carattere erotico, l’utilizzo di webcam o attraverso simulatori di attività sessuali in 3D (Cooper et al. 2004; Doring, 2009; Wéry et al, 2014).

Attualmente non esiste alcuna concettualizzazione del disturbo da cybersex addiction che permetta di effettuare una diagnosi clinicamente valida nonostante diversi studi rivelino che tra il 33% e il 75% della popolazione abbia utilizzato internet per scopi sessuali (Shaughnessy et al, 2011; Albright, 2008), che ci sia un aumento del 13% delle ricerche online legate al sesso (Ogas and Gaddam, 2011) e che, solo in In Italia, nel 2018, le parole chiave Xxx sono state le più ricercate (15.100.000), seconde solo ad Amazon (24.000.000) e Libero mail (20.400.000), mentre Pornhub, uno dei maggiori portali a luci rosse mondiali, ha analizzato il traffico generato dai propri server nel 2016 evidenziando che il numero dei video visti è 91.980.225.000 che, diviso gli abitanti attuali del pianeta terra, fanno appunto 12,5 video a persona (Dettore, 2018).

Lo stesso DSM-5 non riconosce la diagnosi di disturbo da dipendenza sessuale, né di dipendenza da sesso online, sebbene la masturbazione compulsiva con videopornografia online e il coinvolgimento in giochi erotici sulla rete siano spesso associati a depressione, ansia e a difficoltà relazionali e nell’intimità (Corley, 2012; Voon et al, 2014), problemi finanziari e discontinuità lavorativa, isolamento sociale (Levin et al, 2012), sentimenti di colpa e vergogna e a comorbilità psichiatriche.

Tuttavia, questa problematica presenta le stesse caratteristiche delle addiction senza sostanza già inserite all’interno del DSM-5, come il disturbo da gioco d’azzardo o disturbo da uso di internet, inseriti nelle condizioni che necessitano di maggiori ricerche, come ad esempio perdita di controllo, che si può manifestare come un desiderio persistente di ripetere il comportamento cybersessuale, oppure come un’incapacità di controllarlo o interromperlo; pensieri intrusivi correlati alle attività online e ossessione o preoccupazione costante ed eccessiva riguardo il perpetuare o l’interrompere il comportamento; eccessivo tempo quotidiano dedicato alla masturbazione o visione di contenuti sessuali online; utilizzo del cybersesso per la regolazione dei propri stati emotivi; astinenza, manifestata attraverso stati negativi quando non vi è disponibilità di mettere in atto i comportamenti; tolleranza, manifestata attraverso la necessità di maggiore tempo prima di raggiungere una gratificazione sessuale con un nuovo contenuto erotico online (Carnes, 2000; Goodman, 2008; Kafka, 2013).

Per quanto riguarda l’Italia, il dato più recente è quello fornito dall’endocrinologo Carlo Foresta (2021); si tratta di un’indagine svolta su 5000 studenti dell’età compresa tra 18 e 21 anni che frequentano l’ultimo anno degli istituti superiori del Veneto e di altre Regioni nell’ambito del progetto DiGitPro. Le nuove abitudini di vita durante il lockdown causato dall’emergenza epidemiologica COVID-19, hanno indotto una nuova abitudine nelle ragazze: più del 30% ha dichiarato di collegarsi abitualmente a siti pornografici, rispetto a solo il 15% del 2018-2019 e un aumento parallelo dell’autoerotismo. Nei ragazzi invece la frequenza di collegamento a siti pornografici era già molto evidente negli anni passati (89%). Indagini precedenti condotte dalla stessa Fondazione Foresta rivelano che su 1914 studenti, i più (il 63%) visitano i siti hot più volte a settimana, mentre l’8% afferma di frequentare siti porno almeno una volta al giorno, restandovi in media tra i 20 e i 30 minuti.

Quando la necessità di visionare materiale porno raggiunge certi livelli, a partire da quelli di chi lo fa più volte a settimana, ci sono ricadute sensibili nella vita reale: il 25,1% dei casi mostra comportamenti sessuali ‘compromessi’ e che si possono considerare vere e proprie disfunzioni (contro il 19% di quelli che ne fanno un consumo più moderato).

Data quindi la rilevanza clinica della problematica descritta, si rende necessaria la validazione di uno strumento che sia in grado di rilevare quando i comportamenti sessuali legati all’uso di internet diventano clinicamente problematici.

L’ISST (Internet Sex Screening Test) è uno dei questionari maggiormente utilizzati nello screening delle attività sessuali online. L’obiettivo del lavoro è fornire un primo contributo per l’adattamento e la validazione di questo strumento in una popolazione italiana adulta per fornire non solo un modello di valutazione, ma permettere anche un’adeguata cornice di cura.

 

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Il grande impostore (2021) di Susannah Cahalan – Recensione del libro

Il grande impostore è un libro che nasce da una diagnosi sbagliata. Scritto dalla giornalista Susannah Cahalan, l’autrice racconta della sua encefalite autoimmune, scambiata per un disturbo schizoaffettivo. Una diagnosi errata che ha tragicamente fatto prendere alla sua vita una direzione totalmente sbagliata.

 

I disturbi come quello che nel 2009 ha mandato ‘in fiamme’ il mio cervello vengono chiamati ‘the great pretenders’ ovvero ‘i grandi impostori’, perché collegano i mondi della medicina: i loro sintomi ‘imitano’ quelli di malattie psichiatriche quali la schizofrenia o il disturbo bipolare, ma hanno cause fisiche riconosciute, per esempio una reazione autoimmune, un’infezione o qualche altra disfunzione materialmente individuabile. I medici utilizzano termini come organico e somatico per descrivere le patologie come la mia, mentre le malattie psichiatriche sono definite inorganiche, psicologiche o funzionali.

Dalla sua errata diagnosi nasce il libro Il grande impostore, scritto dalla giornalista Susannah Cahalan. La Cahalan, infatti, era affetta da un’encefalite autoimmune che mima disturbi schizoaffettivi.

Una diagnosi errata può tragicamente far prendere alla vita una direzione totalmente sbagliata.

L’intero sistema si basa su questa distinzione, sul far rientrare la malattia in una categoria piuttosto che nell’altra, e determina il modo in cui trattiamo i pazienti che ne sono colpiti. Dunque, che cos’è la malattia mentale?

L’autrice si appassiona tanto al tema che spolvera un vecchio articolo di David Rosenhan, psicologo e docente universitario a Stanford, nonchè il protagonista del nostro libro, ovvero, David Lurie (paziente numero 5213).

Lo psicologo infatti, nel 1973 scrive l’articolo Essere sani in luoghi folli in seguito al suo esperimento.

Rosenhan, infatti, si fa ricoverare in un istituto per verificare se i medici o gli infermieri sarebbero riusciti a smascherare la verità, come lui anche altri otto tra uomini e donne sani di mente. Cosa ne esce fuori? Un articolo epocale.

Avanza l’antipsichiatria, iniziano le revisioni al DSM.

L’autrice, attraverso materiale d’archivio e decine di interviste a persone coinvolte nell’esperimento, scrive di quella missione segreta che ha cambiato la nostra idea della malattia mentale e lo fa coinvolgendoci totalmente. In qualche modo smaschera un lavoro un po’ esasperato, ma che di certo è stato utile ad evidenziare come spesso e ancora oggi alla malattia psichiatrica viene attribuita minore legittimità rispetto alla malattia fisica.

Un libro che pone lo sguardo lucido di una non addetta ai lavori, che riesce in modo obiettivo ed equilibrato a coinvolgere il lettore in una storia da leggere tutta d’un fiato.

 

Le interrelazioni tra attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità relazionale nelle coppie

Esistono due meccanismi che spiegano in che modo lo stile di attaccamento adulto e il funzionamento delle relazioni sono legati tra loro: la selezione del partner e le abilità relazionali.

 

Introduzione

Le relazioni di coppia sono importanti fonti di sostegno emotivo e sociale, crearle e mantenerle è uno dei compiti principali dello sviluppo psicosociale dei giovani, i quali costruiscono una propria identità e migliorano le proprie competenze sociali anche grazie alle relazioni (Booth et al., 2015). Per comprendere il funzionamento delle relazioni spesso si fa riferimento alla teoria dell’attaccamento adulto: accade frequentemente che alcune interazioni conflittuali tra due partner, percepite come minacce di separazione o rifiuto, attivino comportamenti caratteristici del proprio stile di attaccamento. Una persona evitante, per esempio, dopo una situazione di conflitto è probabile che aumenti la distanza dal partner, in quanto percepisce il conflitto come una minaccia alla propria indipendenza e come una possibile forzatura ad impegnarsi in conversazioni intime (Paley et al., 1999).

Stili di attaccamento adulto nella coppia

Nel 1991, Bartholomew e Horowitz, hanno strutturato un modello di attaccamento adulto all’interno del quale sono valutati i modelli interni positivi o negativi di sé stessi e degli altri. Per ogni relazione di attaccamento sono stati presi in considerazione il grado in cui le persone temono di essere rifiutate o abbandonate dal proprio partner (ansia) e il grado in cui ciascuno si sente a proprio agio con l’intimità emotiva e la vicinanza altrui (evitamento). Da queste valutazioni sono emersi diversi stili di attaccamento adulto: gli individui sicuri, i quali hanno una visione positiva sia di sé che degli altri, e conseguenti bassa paura di abbandono e basso evitamento dell’intimità; gli individui preoccupati, che mostrano invece un’elevata ansia a causa della percezione negativa che hanno di sé, ma un basso evitamento in quanto hanno una percezione positiva altrui; le persone paurose-evitanti, che hanno una percezione negativa sia di sé che degli altri con marcati livelli di ansia ed evitamento; infine gli individui respingenti-evitanti, che hanno bassa ansia a causa della percezione positiva di sé e alto evitamento per la negativa percezione degli altri (Griffin & Bartholomew, 1994).

La letteratura mostra che esistono due meccanismi che spiegano in che modo lo stile di attaccamento e il funzionamento delle relazioni sono legati tra loro: la selezione del partner e le abilità relazionali. La prima fa riferimento alla tendenza che ciascuno di noi ha ad associarsi con persone che hanno un determinato stile di attaccamento; la seconda invece riguarda la capacità del partner di risolvere i conflitti e regolare le proprie emozioni. Diversi studi hanno dimostrato infatti che le proporzioni di ansia e di evitamento e gli stili insicuri come preoccupato, respingente o timoroso, sono associati a difficoltà nei conflitti e ostacolano il problem solving: accade spesso che le persone con livelli di evitamento elevati siano più propense a evitare o ritirarsi dai conflitti, mentre gli individui ansiosi tendono ad essere molto coinvolti nelle situazioni conflittuali (Rholes et al., 2014). L’utilizzo di strategie efficaci e costruttive nella risoluzione dei conflitti sembra essere correlato alla soddisfazione relazionale rispetto a coloro che utilizzano il ritiro o l’eccessivo coinvolgimento, alcuni studi però non mostrano risultati significativi che evidenzino un collegamento tra l’utilizzo di strategie costruttive o distruttive nella risoluzione dei conflitti e la qualità relazionale (Bretz, 2009).

Spesso però gli studi presenti in letteratura che esaminano l’influenza dell’attaccamento nella risoluzione dei conflitti e nella soddisfazione relazionale prendono in considerazione solo un membro della coppia; è possibile invece che questi fattori siano influenzati non solo dalle caratteristiche individuali, ma anche da quelle del partner. Per tale ragione ultimamente alcuni ricercatori utilizzano il modello Actor-Partner Interdipendence Model (APIM; Cook & Kenny, 2005), che tiene in considerazione l’interdipendenza delle caratteristiche dei due membri della coppia, ovvero di prevedere gli effetti che un membro può provocare sia nei propri comportamenti sia in quelli del proprio partner.

Attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità della relazione

Una recente ricerca di González-Ortega e colleghi del 2021, si è posta come obiettivo quello di analizzare le interrelazioni tra attaccamento adulto, stile di risoluzione dei conflitti e qualità della relazione in molte coppie eterosessuali di giovani adulti. Nello specifico gli autori desideravano esaminare le correlazioni tra queste tre variabili, sia individualmente sia nella coppia; successivamente verificare se l’attaccamento adulto, lo stile di risoluzione dei conflitti, e la qualità della relazione di uno dei due membri predicessero la qualità della relazione dell’altro. Il campione oggetto di studio contava 405 giovani coppie eterosessuali, le quali hanno completato online la forma breve del questionario Experiences in Close Relationships-Revised (ECR-R; Fraley et al., 2000) per valutare l’ansia e l’attaccamento dell’evitamento; il Conflict Resolution Styles Inventory (Kurdek, 1994), per valutare lo stile di risoluzione dei conflitti e, infine, sono state poste loro quattro domande per indagare la qualità della relazione (Conger et al., 2000). I risultati ottenuti mostrano una correlazione negativa tra attaccamento evitante e qualità della relazione, maggiore rispetto all’ansia; questo accade perché talvolta gli individui evitanti percepiscono meno positivamente gli eventi quotidiani di sostegno nelle loro relazioni mentre le persone ansiose sono più inclini a trarre maggiore soddisfazione dalle relazioni quando si sentono sicure della disponibilità del loro partner (Li & Chan, 2012). Sembrerebbe però che entrambe le dimensioni di attaccamento siano dannose per la soddisfazione relazionale.

Inoltre mettono in luce che gli stili disfunzionali di risoluzione dei conflitti (eccessivo coinvolgimento e ritiro) sono dannosi per la qualità della relazione, mentre una risoluzione efficace dei problemi favorisce la soddisfazione nella coppia. Gli stili di risoluzione dei conflitti sono risultati altamente correlati sia con l’evitamento sia con l’ansia; i risultati indicano però che il coinvolgimento o l’evitamento di un conflitto di uno dei due membri non influenza la qualità della relazione. A livello diadico, la qualità della relazione è stata predetta negativamente dall’attaccamento evitante dell’attore (colui che ha risposto alle domande) e positivamente dalla qualità della relazione del partner. In conclusione è emerso che esistono interrelazioni sia a livello individuale sia diadico tra attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità relazionale: le insicurezze dell’attaccamento fanno emergere l’uso di stili disfunzionali nei conflitti diminuendo la qualità della relazione. I risultati suggeriscono ai terapeuti di prestare attenzione all’attaccamento di entrambi i membri della coppia per valutare in che modo influenza la soddisfazione relazionale e la risoluzione dei conflitti (González-Ortega, 2021).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il quinto episodio è dedicato alla Sottomissione

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la quinta puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Simona Giuri. Si parlerà di Sottomissione, ovvero l’adattamento del proprio comportamento a interessi e desideri (reali o presunti) di altre persone, anche quando ciò è antitetico ai propri interessi, bisogni o desideri. Da dove nasce la tendenza ad accontentare gli altri a scapito dei nostri bisogni? Scopritelo nel quinto episodio.

Dove ascoltare il quinto episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il quinto episodio su:

 

Nuove tecnologie nel trattamento dell’autismo: la terapia assistita da robot (RAAT) – Psicologia Digitale

I più recenti sviluppi tecnologici nel campo dell’intelligenza artificiale hanno fornito nuovi metodi per il trattamento dell’autismo.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 27) Nuove tecnologie nel trattamento dell’autismo: la terapia assistita da robot (RAAT)

 

 Nei disturbi dello spettro autistico abbiamo una significativa compromissione del neurosviluppo che porta a interessi ristretti e ripetitivi, interazioni e comunicazione (verbale e non) inadeguate (APA, 2013). Le prime manifestazioni del disturbo insorgono entro i 3 anni e possono variare notevolmente da soggetto a soggetto; quello che accomuna i bambini con disturbi dello spettro autistico è il dover fronteggiare delle sfide notevoli: infatti sviluppare le abilità sociali, comunicative e comportamentali, rappresenta un compito non facile per il quale necessitano di supporto specializzato.

Sono stati sviluppati e validati diversi interventi per i bambini con disturbi dello spettro autistico, principalmente di matrice cognitivo comportamentale. A questi si vanno ad aggiungere quelli supportati dalle tecnologie, in particolare la terapia assistita da robot per l’autismo (RAAT), che abbraccia ed integra molte discipline tra cui, ma non solo, psicologia dello sviluppo, informatica, robotica, ingegneria.

Aree di sviluppo e RAAT

La terapia per l’autismo assistita da robot ha come obiettivi terapeutici ed educativi il miglioramento ed il potenziamento dello sviluppo sociale ed emotivo, cognitivo, motorio e sensoriale. Ognuna di queste aree richiede un approccio e tipologie di dispositivi specifici, per questo sono stati realizzati modelli di intervento distinti a seconda degli scopi della determinata competenza su cui lavorare.

Quando parliamo di sviluppo sociale facciamo riferimento a tutte quelle situazioni in cui il bambino sperimenta la – e si sperimenta in – relazione ad altri. Durante queste interazioni ha modo anche di esplorare la gamma delle emozioni, esprimendole adeguatamente al contesto ed alla circostanza. I robot possono supportare nel riconoscimento e nel rispecchiamento delle emozioni, per esempio migliorando la capacità di espressione facciale. I robot aiutano ad incentivare la condivisione e la comunicazione, portando alla costruzione di abilità sociali sperimentate prima in situazioni specifiche che possono poi essere generalizzabili; si lavora anche al miglioramento delle interazioni verbali e non verbali come il contatto visivo e i gesti (ad esempio, indicare, etichettare o toccare).

Altri comportamenti che vengono sollecitati nei bambini durante le interazioni con i robot sono l’attenzione congiunta, l’imitazione, le interazioni spontanee, quelle triadiche e diadiche, il turn-taking e i comportamenti di richiesta. Grazie alla messa in scena di giochi interattivi i bambini non vengono appesantiti da setting troppo artificiali e allo stesso tempo si esercitano nelle abilità sociali; utilizzare giochi interattivi stimola anche la motivazione che incentiva ancora di più i piccoli alla partecipazione attiva e al coinvolgimento.
Anche lo sviluppo motorio e sensoriale può beneficiare di tecniche di terapia assistita da robot. Infatti, esercizi mirati in cui il bimbo è affiancato da un robot possono aiutarlo ad interagire più efficacemente con l’ambiente circostante e raffinare la percezione visiva, tattile, spaziale e corporea, per esempio con esercizi di scrittura dedicati a migliorare la motricità fine delle mani e delle dita.

Le diverse tipologie di robot

Le tipologie di robot utilizzate nella RAAT variano molto a seconda degli obiettivi terapeutici e delle tecnologie impiegate. Attualmente possiamo raggrupparle in cinque categorie che Alabdulkareem e colleghi (2022) raggruppano in base alle loro caratteristiche strutturali: robot umanoidi, simili ad animali, a giocattoli, a macchine o indossabili.

Nella prima tipologia, in cui rientrano ad esempio modelli come NAO o Kaspar (Mengoni et al, 2017; Rakhymbayeva et al., 2021), i robot hanno sembianze umane con testa, mani, gambe, occhi, naso, bocca. L’obiettivo è quello di replicare il più possibile le fattezze umane e creare così interazioni il più possibile simili a quelle con umani. Stessa cosa per quelli che somigliano ad animali, molto spesso a cani come nel modello KiliRo (Bharatharaj et al., 2017), in cui vengono coperte parti metalliche con piume o lana per rendere la somiglianza agli animali anche tattile.
I robot simili a giocattoli invece mirano ad avere in maniera più esplicita le sembianze di un peluche, di un pupazzo o di una macchinina, come Probo o Cozmo (Anamaria et al.,2013; Ghiglino et al., 2021). Questa tipologia è disponibile in diverse forme, dimensioni e materiali e risulta piacevole ai bimbi che si prestano volentieri ad interagire con loro. Lo scorso anno è stato invece pubblicato uno studio (Chen et al.,2021) sul primo prototipo di robot indossabile che permette agli operatori di monitorare le interazioni con una prospettiva in prima persona: questo li aiuta a vedere la situazione dalla prospettiva del bambino e a comprendere maggiormente quali sono le sue difficoltà.

Direzioni future nella terapia assistita da robot

Anche se le ricerche al momento disponibili ci offrono spunti positivi oltre che interessanti, ci sono sicuramente aspetti da indagare ulteriormente ed alcune possibili limitazioni. Oltre a dubbi che concernono privacy ed etica (è considerabile un inganno proporre interazioni artificiali a soggetti che potrebbero non comprendere del tutto o in parte che si tratta di artifici?), aspetti pratici come costi e formazione dovranno essere oggetto di riflessione.

I costi di una terapia assistita da robot non sono certo trascurabili anche se, va ricordato, si tratta per lo più di costi iniziali di progettazione e realizzazione da sostenere una sola volta. Vanno considerati costi anche la formazione ad hoc che è richiesta ai terapeuti, formazione che attualmente è lasciata alla decisione del singolo dato che non sono ancora presenti percorsi standardizzati. Questo punto si collega alla necessità che ci siano competenze multidisciplinari e che si parlino professionisti di diversa estrazione: ingegneri, informatici, psicologi. La collaborazione tra professionisti di diverse discipline per progettare e costruire dispositivi sempre più efficienti porterà ad un numero maggiore di contributi in questa area di ricerca con conseguenti ricadute positive sulle terapie.

Rimangono importanti i punti a favore della terapia assistita da robot. Essendo trattamenti informatizzati è possibile tracciare e monitorare i progressi e gli step del trattamento che quindi può essere altamente personalizzato e adattato alle specifiche esigenze del singolo bambino. I disturbi dello spettro autistico si caratterizzano per la grande variabilità che c’è tra un soggetto e l’altro e la possibilità di avere strumenti condivisi ma personalizzabili è sicuramente di grande vantaggio per i clinici.

La RAAT migliora l’efficacia e l’efficienza dei trattamenti cognitivo-comportamentali (Alabdulkareem et al., 2022). La terapia assistita da robot è un campo di ricerca ed applicazione promettente, un’altra delle sfide che tecnologia e clinica affrontano insieme allo scopo di supportare i pazienti.

Sexsomnia: si possono avere rapporti sessuali nel sonno e al risveglio non ricordarsi più nulla?

Col termine sexsomnia si indica una particolare declinazione del disturbo dell’arousal del sonno non-REM, una parasonnia che il DSM-5 colloca all’interno del capitolo relativo ai disturbi del sonno.

 

Che cos’è un parasonnia?

Secondo l’American Psychiatric Association (2014), le parasonnie sono disturbi caratterizzati da esperienze e comportamenti anomali o da eventi fisiologici che si verificano in associazione al sonno e che, di solito, esordiscono durante l’infanzia. L’aspetto interessante è dato dal fatto che parliamo di condizioni che rappresentano un misto di sonno e di veglia assieme, a dimostrazione di come questi stati non si escludano a vicenda, ma possano bensì coesistere.

Il DSM-5 descrive quattro parasonnie principali:

  • il disturbo da incubi;
  • il disturbo comportamentale del sonno REM;
  • la sindrome delle gambe senza riposo;
  • il disturbo dell’arousal del sonno non-REM.

La sexsomnia è un comportamento che rientra in quest’ultima categoria, accanto al sonnambulismo, al pavor nocturnus e all’alimentazione correlata al sonno (APA, 2014). Ciononostante, la letteratura riporta anche dei casi in cui è stato descritto in relazione alle parasonnie del sonno REM (Martynowicz et al., 2018).

Che cos’è la sexsomnia?

Si tratta di una forma ‘specializzata’ di sonnambulismo, in cui durante il sonno non-REM sono messi in atto comportamenti sessuali di vario livello, che possono andare dalle vocalizzazioni (gemiti o dirty talk) al palpeggiamento, fino ad arrivare al rapporto sessuale completo. La particolarità è che, al risveglio, il soggetto presenterà amnesia dell’episodio (APA, 2014, Toscanini et al., 2021).

L’individuo non riferirà neanche particolari sequenze oniriche congruenti col comportamento sessuale, in quanto tali episodi si verificano in una fase non-REM (APA, 2014).

Tra le molteplici manifestazioni della sexsomnia c’è anche la violenza sessuale, insieme a lesioni fisiche che il soggetto può cagionare a se stesso e agli altri (Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021).

Quali sono i fattori di rischio per la sexsomnia?

Secondo una review condotta nel 2007 da Schenck, Arnulf e Mahowald, i fattori di rischio per le manifestazioni di sexsomnia includono:

  • il contatto fisico con un’altra persona nel letto (64%);
  • lo stress (52%);
  • l’affaticamento (41%);
  • l’uso di alcol (14,6%);
  • l’uso di droghe (4,3%).

Il medesimo studio evidenzia anche delle correlazioni con altre categorie di disturbi del sonno, tra cui (Schenck et al., 2007):

  • altre parasonnie;
  • sindrome di Kleine-Levin;
  • grave insonnia cronica;
  • narcolessia;
  • erezioni dolorose legate al sonno;
  • disturbi dissociativi legati al sonno;
  • disturbi psicotici notturni.

Secondo altri studi (Martynowicz et al. 2018; Soca et al., 2015; Kim et al., 2021), un’altra correlazione importante è quella con l’apnea/ipopnea ostruttiva del sonno, un disturbo del sonno correlato alla respirazione. Si tratta del tipo più comune di apnea notturna, caratterizzata dall’ostruzione completa o parziale delle vie aeree superiori (Martynowicz et al., 2018; APA, 2014). Secondo lo studio della Martynowicz (2018), la co-occorrenza di sexsomnia e apnea ostruttiva del sonno sarebbe la seconda più comunemente segnalata, dopo quella con i disturbi del sonno non-REM. Sono inoltre stati riportati casi di persone che presentavano epilessia ipermotoria correlata al sonno (Martynowicz et al., 2018).

Le cause possono essere evidenziate attraverso accurate valutazioni cliniche, che includono le interviste cliniche, la polisonnografia, i questionari per i disturbi del sonno, l’actigrafia e il monitoraggio elettroencefalografico clinico durante la veglia e il sonno (Guilleminault et al., 2002). Una volta individuate, è possibile trattarle efficacemente (Schenck et al., 2007).

Secondo diversi studi (Guilleminault et al., 2002; Kim et al., 2021; Martynowicz et al., 2018; Schenck et al., 2007; Soca et al., 2015), nella maggior parte dei casi presi in esame, gli episodi di sexsomnia sono stati controllati quando si è iniziato a trattare i disturbi del sonno concomitanti, grazie all’integrazione di psicoterapia e farmacoterapia. Buone risposte sono state ottenute anche grazie a terapie che intervengono sui disturbi correlati alla respirazione, come ad esempio la CPAP (una terapia di ventilazione che sfrutta un presidio esterno) (Kim et al., 2021; Soca et al., 2015; Martynowicz et al., 2018).

In un recente studio di Toscanini et al. (2021), anche la riduzione dei fattori stressogeni della vita quotidiana ha evidenziato ripercussioni positive sugli episodi di comportamento sessuale correlato al sonno.

Quali sono le ripercussioni psicologiche della sexsomnia per chi ne soffre?

Una ricerca di Guilleminault et al. del 2002 ha preso in esame una serie di soggetti con condotta sessuale atipica durante il sonno, che si è rivelata spesso lesiva sia per l’individuo sia per le persone con cui condivideva il letto.

Tali condotte sessuali durante il sonno risultavano associate a sentimenti di colpa, vergogna e depressione. Proprio a causa di questi sentimenti, spesso il comportamento anomalo era tollerato per molto tempo prima di rivolgersi a uno specialista.

Quali ripercussioni per la sexsomnia in ambito forense?

Le conseguenze medico-legali sono frequenti e stanno richiedendo un’attenzione sempre maggiore soprattutto in ambito forense (Kim et al., 2021; Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021), specie quando il comportamento sessuale coinvolge un minore (Schenck et al., 1998; Schenck et al., 2007).

La letteratura, infatti, riporta casi relativi ad episodi di sexsomnia che hanno coinvolto adulti nei confronti di minorenni (Schenck et al., 1998; Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021).

A tal proposito, una raccomandazione fornita da Schenck et al. basata sui dati pubblicati nel loro studio del 2007, è proprio quella d’informare adolescenti ed adulti con parasonnie e disturbi dell’arousal del sonno non-REM (ad esempio il sonnambulismo) dei rischi derivanti dal dormire in prossimità di un minorenne, soprattutto quando si è in uno stato di deprivazione del sonno, sotto stress o dopo aver bevuto alcolici. Infatti, essendo questi dei fattori di rischio per la sexsomnia, possono verificarsi dei toccamenti involontari, di cui la persona non ha assolutamente consapevolezza, che potrebbero precipitare in comportamenti sessuali durante il sonno. Questo, di conseguenza, costituirebbe non solo un evento altamente traumatizzante per il minore, ma provocherebbe anche serie ripercussioni legali e psicologiche nei confronti dell’individuo che ha manifestato il comportamento atipico.

 

Dopo la violenza. Lo stupro e la ricostruzione del sé (2021) di Susan J. Brison – Recensione

Con il titolo Dopo la violenza la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

 

I racconti pongono sempre un’introflessione speculare al lettore che viene reso capace di percepire gli scorci di disagio delle vittime: la vaga innocenza incomunicabile, la costrizione, l’immaturità del male, l’intelaiatura muta ricacciata all’interno di sé stessi… è un grido terrificante! Un grido che, grado a grado, indica lo spegnersi delle parole e dei significati del mondo, si assorbe dalla sostanzialità interiore e afonica figurata nella carica del dolore che spazza in un attimo tanti anni passati a costruire una pienezza interiore. È una circostanza che nasce e sedimenta, che inizia da un punto zero con la sua metastasi… proprio nell’attimo della violenza (Claudio Lombardo).

Dopo la violenza è un racconto dove l’osceno e il sublime convivono. L’osceno della violenza e il sublime della narrativa, del denunciare pubblicamente, di reagire a severe avversità quali possono essere il giudizio degli altri o la vergogna di sé stessi. Una tipologia di violenza che, a differenza di altre, lede l’intimità della persona, sia sotto il profilo corporeo che, ancor più – e a volte irrimediabilmente – su quello psicologico.

Con questo titolo la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi della cultura tra memoria e oblio, ricordo e rimozione, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

Le considerazioni, di profondo taglio dialettico e facilmente assimilabili, fronteggiano scogli percettivi superati solo da una narrazione dettagliata che rende fosforescenti quelle immagini mentali che sono annebbiate da stereotipi, pregiudizi o dall’ignoranza dell’esperienza che nelle parole, nel detto, trova un modo per spiegare l’inspiegabile, per confortare ciò che non capisce, per tentare di cancellare la persistente paura di una realtà immorale scritta sul corpo della vittima.

È così che inizia il libro, con un cambio di prospettiva che manda in frantumi alcune credenze popolari sullo stupro. Nondimeno è coinvolta anche la scienza, o meglio chi fa scienza….

Esempio è uno scorcio del libro: ‘Diversamente da altri — ad esempio Sharon Lamb (professore americano nel Dipartimento di Counseling e Psicologia Scolastica presso l’Università del Massachusetts Boston) — che pensano che le diagnosi mediche sulle vittime di violenza sessuale ne sviliscano (o addirittura ne ledano) l’agentività, io ho provato un sollievo enorme quando mi sono resa conto di avere tutti i sintomi del DPTS (‘Disturbo Post-Traumatico da Stress) e ho saputo che esistevano prove che si trattasse di un disturbo ‘neurologico’, curabile con farmaci. C’è speranza, ho pensato, è una questione chimica! Dopo aver battagliato per i primi sei mesi cercando di sentirmi meglio senza supporto medico, è stato liberatorio pensare di avere un danno fisico’.

Continua la scrittrice: ‘I sintomi del DPTS smentivano il dualismo latente che ancora pervade l’atteggiamento predominante della società nei confronti del trauma, e cioè l’idea che le vittime dovrebbero tirarsi su, gettarsi il passato alle spalle e andare avanti con la propria vita. L’ipervigilanza, le esagerate risposte di allarme, l’insonnia e altri sintomi del DPTS non erano psicologici, se con questo si intende che fossero sotto il mio controllo cosciente, più di quanto non lo fossero il mio battito cardiaco e la mia pressione sanguigna’.

L’autrice mette in risalto una questione da me affrontata con altri articoli, ovvero la distinzione tra quello che è corporeo e quello che non lo è. Una distinzione molto spesso non chiara anche in ambito specialistico.

Altresì è importante comprendere come i ‘limiti’ (sicurezze, barriere, difese) vengono compromessi nel momento in cui la vittima è incapace di placare l’ira dell’aggressore con tutte le strategie messe in atto, fino ad arrivare all’estrema passività dell’implorazione, che spesso sortisce l’effetto di amplificare l’ira dell’aggressore. In tutto questo, come scrive l’autrice, «I confini del mio corpo sono i confini del mio Io», nel momento in cui questi confini vengono cancellati da un trauma ha inizio la disintegrazione del sé: ci si sente perennemente in pericolo, si perde di autostima e agentività. La persona è ridotta a una cosa. (Su questo punto viene citata Améry che paragona la tortura allo stupro, un accostamento appropriato, non solo perché entrambi considerano la vittima come oggetto e la traumatizzano, ma anche perché il dolore che si infligge la riduce a pura carne, a qualcosa di solamente fisico).

Ma la questione più indegna, quasi surreale, con cui deve fare i conti la vittima (e le persone che ha intorno) è la nuova identità, il cambiamento che il trauma trasmette: ‘Il trauma mi ha cambiata in modo irreversibile, e se troppo spesso insisto perché i miei amici e la mia famiglia lo riconoscano, è perché temo che non sappiano chi sono’.

In definitiva questo libro racconta una solitudine diversa da quella collettivamente percepita, è la solitudine dello stupro e del suo processo di guarigione in cui l’atto della narrazione e testimonianza integra il cambiamento, ma anche l’esperienza consentendo così di vivere un futuro, seppur diverso, con maggiore armonia.

Prima il dovere o il piacere? Il modello metacognitivo della procrastinazione

La procrastinazione si definisce come l’atto di rimandare lo svolgimento di un’attività perseguita per raggiungere un obiettivo (Fernie et al., 2016).

 

In un campione costituito da una popolazione adulta di sei diverse nazioni (Australia, Perù, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti e Venezuela), è emersa la prevalenza del 13,5% per una procrastinazione ‘stimolante’ (guidata dal desiderio di contrastare la noia) mentre del 14,3% per una procrastinazione ‘evitante’ (motivata dall’avversione al compito) (Ferrari et al., 2016). La prevalenza della procrastinazione cronica negli studenti è stata riportata come ancora più alta: Day et al. (2014) hanno stimato tassi del 32%. La problematicità di questo comportamento è risultata in una recente meta-analisi che ha riportato una relazione negativa tra procrastinazione e performance accademica (Kim & Seo, 2015). La procrastinazione non è solo dannosa per il rendimento accademico, ma anche per il benessere mentale, dacché è significativamente associata all’ansia e alla depressione. Tuttavia, potrebbe non essere sempre problematica; può riflettere anzi una raccolta adattiva di risorse e portare a risultati migliori. A tal fine, la procrastinazione è stata variamente delineata in sottotipi: funzionale e disfunzionale (Ferrari et al., 1995), attiva e passiva (Chu & Choi, 2005), intenzionale e non intenzionale (Fernie et al., 2016). Nonostante queste diverse terminologie condividano molte caratteristiche sovrapposte, vi sono importanti e sfumate differenze. Per esempio, la procrastinazione intenzionale si riferisce a un comportamento deliberato e consapevole (cioè attivo), ma non necessariamente vantaggioso (cioè funzionale), mentre la quella non intenzionale si riferisce a un comportamento non deliberato che è tipicamente sia disfunzionale che passivo.

Le metacognizioni sulla procrastinazione

Per poco più di un decennio, diversi studi hanno indagato la procrastinazione da una prospettiva metacognitiva. Le metacognizioni sono definite come credenze che gli individui detengono (sia implicitamente che esplicitamente) sulle proprie strategie attenzionali, comportamenti, processi di pensiero ripetitivi (ad esempio, ruminazione e preoccupazione) ed emozioni. Le convinzioni metacognitive sono state ampiamente delineate in sottotipi positivi e negativi. Per esempio, una credenza metacognitiva positiva sulla procrastinazione è ‘La procrastinazione permette alla creatività di verificarsi in modo più naturale’, mentre una credenza metacognitiva negativa è ‘La mia procrastinazione è incontrollabile’ (Fernie et al., 2009). Le credenze metacognitive positive sono associate positivamente con la procrastinazione intenzionale e meno con quella non intenzionale, mentre le credenze metacognitive negative sono più fortemente associate positivamente alla procrastinazione non intenzionale che a quella intenzionale (Fernie et al., 2017, 2016).

La procrastinazione tra gli studenti

Lo studio di Fernie et al. (2018) ha indagato le relazioni tra credenze metacognitive positive e negative sulla procrastinazione e l’umore depresso, tentando di spiegare, inoltre, i meccanismi alla base della relazione tra procrastinazione e performance accademica. Sono stati coinvolti 246 studenti, universitari o laureati, che nell’ultimo anno avessero avuto almeno una scadenza per un progetto universitario o lavorativo. L’età media dei partecipanti era di 23 anni.

Per raccogliere i risultati accademici è stato chiesto ai partecipanti di dichiarare 1 o 5 voti assegnati negli ultimi 12 mesi ai loro progetti, specificando il massimo punteggio ottenibile per ciascuno (es 100/100). Successivamente ogni voto ottenuto è stato diviso per il massimo ottenibile e poi sommato per creare la variabile ‘performance accademica’.

Per raccogliere dati sulla procrastinazione intenzionale sono stati proposti quattro items legati al dominio ‘Intentional Decision to Procrastinate’ (IDP) della Active Procrastination Scale (APS; Choi & Moran, 2009). Un esempio di item di questa scala è ‘Per utilizzare in modo efficiente il mio tempo, scelgo deliberatamente di posticipare alcuni compiti’. Per la procrastinazione involontaria è stata utilizzata la Unintentional Procrastination Scale (UPS: Fernie et al., 2016), una scala composta da sei items quali ‘Vorrei seriamente finire i compiti in tempo, ma raramente ci riesco’. Per valutare le metacognizioni rispetto alla procrastinazione è stata utilizzata la Metacognitions about Procrastination Scale (MaPS) di Fernie et al., 2008. Questa scala è composta da due domini, metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) e metacredenze negative su di essa (NMP), con otto items per ciascuno. Un esempio di item per valutare la PMP è ‘La procrastinazione mi aiuta a non iniziare qualcosa quando non mi sento pronto’, mentre un esempio di item per valutare la NMP è ‘procrastinare può essere dannoso’. Per raccogliere dati rispetto ai sintomi depressivi, è stato utilizzato il Patient Health Questionnaire 8 (PHQ-8), una forma ridotta del Patient Health Questionnaire 9 (Kroenke et al., 2001), omettendo l’item che valuta l’ideazione suicidaria.

Metacredenze positive e negative sulla procrastinazione

I risultati dello studio offrono prove a favore del ruolo strategico che le metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) rivestono nella procrastinazione intenzionale (IDP) rispetto a quella involontaria (UPS). I dati emersi suggeriscono che la procrastinazione involontaria (UPS) risulta essere un indicatore psicopatologico più forte rispetto a quella intenzionale (IDP) (Fernie et al., 2016). Sebbene sia le metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) che quelle negative (NMP) abbiano effetti negativi significativi sulla performance accademica, l’analisi del percorso accademico suggerisce che sono le metacredenze negative (NMP) ad avere un’influenza maggiore sulla performance accademica.

Per quanto concerne l’impatto delle metacredenze positive e negative sull’umore depresso, le prime (PMP) sembrano avere un’influenza minore rispetto alle seconde (NMP). Studi precedenti hanno dimostrato che le credenze metacognitive sulla preoccupazione possono essere associate all’ansia da prestazione (O’Carroll e Fisher, 2013; Spada et al., 2006), che a sua volta viene associata ad una scarsa performance accademica (Cassady & Johnson, 2002). Tuttavia il focus del presente studio è sul ruolo che hanno le metacredenze rispetto alla procrastinazione, piuttosto che sulla preoccupazione.

Nonostante nello studio siano presenti dei limiti legati alla desiderabilità sociale, ai bias di autovalutazione o agli effetti del contesto che possono aver contribuito nel commettere errori nelle misure di autovalutazione, vengono fornite prove a sufficienza per affermare che il modello metacognitivo della procrastinazione spiega una parte significativa della varianza nelle performance accademiche degli attuali studenti universitari. Ciò evidenzia il potenziale beneficio che si può trarre dallo sviluppo di interventi psicologici per affrontare la procrastinazione utilizzando tecniche mirate alle credenze metacognitive sulla procrastinazione.

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