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È stata la mano di Dio, il cinema come terapia all’abbandono – Recensione

Dopo aver attinto con generosità alla sua biografia, tanto che anche il palazzo dove ha trascorso l’infanzia è esattamente lo stesso, Paolo Sorrentino, con il suo ultimo lavoro È stata la mano di Dio, ci propone un viaggio disincantato e scarno intorno al tema dell’abbandono.

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Rimasto orfano a sedici anni, dopo un incidente nella casa di montagna dove i genitori rimasero avvelenati da una fuga di monossido di carbonio, il regista affida allo sguardo del suo protagonista (Fabio Schisa) la responsabilità di raccontare un dolore insuperabile, attraverso silenzi malinconici e rumori evocativi. Non c’è però autocommiserazione. Anzi, nelle diverse personalità dei tre fratelli vengono messe in luce tutte le possibili sfaccettature che può assumere una perdita: la sorella si nasconde in bagno, il fratello non vuole rinunciare alla giovinezza, Fabio decide di sentirsene responsabile. Così, nel tentativo di rispondere con coraggio alla chiamata nell’età adulta, scappa a Roma per realizzare il sogno del cinema.

Sembra fuggire dal dolore, da una città che lo ha salvato e tradito allo stesso tempo, da un fallimento insuperabile, ma si propone comunque di dire qualcosa, di non tacere su quanto ha visto, perché guardare è l’unica cosa che sa fare. Ragazzo di poche parole, casalingo e affezionatissimo alla famiglia, decide di esprimersi attraverso le trame del cinema. Proprio come Sorrentino: in una intervista a Giovanni Minoli lo disse chiaramente di essere pigro e solitario, legato alla famiglia nonostante il successo e l’Oscar vinto con La grande bellezza.

Sebbene l’autobiografia rappresenti soltanto uno spunto per montare l’intreccio, la pellicola segna con nitidezza i due tempi nell’esistenza del giovane protagonista: quello della spensieratezza in famiglia, fatta di lunghi pranzi goduriosi e le partite del Napoli viste sul balcone, e quello della maturità dopo la perdita, quando la solitudine prende il sopravvento e i ricordi sembrano tormentare gli animi già provati. Anche visivamente si percepisce il divario tra la pienezza della vita vissuta insieme, il massimo della gioia, e lo smarrimento causato dalla perdita, il massimo del dolore.

È stata la mano di Dio è un film profondamente italiano: un omaggio a Napoli, alle origini, alle storie intime e private che possono fare la differenza. «Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città». Un atto di fede verso la vita che deve continuare, nonostante i lutti e le perdite; ma anche una sorta di ringraziamento al ‘divino’: Maradona che arriva al Napoli, i suoi che gli permettono di non partire per vederlo, il caso o la provvidenza che lo salvano dalla morte. La storia è quindi quella di un miracolato che sente il desiderio impellente di incanalare il flusso dei sentimenti verso una forma di comunicazione che gli sia congeniale, non troppo personale e sicuramente creativa. La sua famiglia si è disintegrata: vuole a tutti i costi ricostruirsi una vita immaginaria, uguale a quella di prima.

Sorrentino, dopo vent’anni dal primo film, mette la sua carne a cuocere: si sente pronto a raccontare qualcosa di sé in maniera esplicita, attraverso uno stile che conferma il suo lento procedere nelle trame dei desideri umani. Nella storia racconta tutto quello che fa di un’adolescenza il salto verso l’età adulta: le delusioni negli affetti quando la famiglia affronta una crisi, il senso di abbandono, la malinconia per un tempo che corre veloce, la fascinazione di figure irraggiungibili come la zia bellissima e fragilissima, la scoperta ingenua del sesso con la baronessa del piano di sopra, il desiderio dell’avventura. Al centro, il manifesto di una dichiarazione d’amore ai genitori perduti, accusati apparentemente di aver provocato la sua solitudine, ma in realtà i veri artefici di una dote che pian piano è esplosa.

È stata la mano di Dio segna la maturità di un regista all’apice della sua carriera: un testamento nel quale raccontare le origini di un talento nemmeno tanto cercato, più una via di fuga da una realtà scadente che un sogno coltivato a lungo. Figlio di un banchiere e di una casalinga, con il walkman sempre addosso, confessa di aver visto pochissimi film; ma non per questo si sente meno attratto da un mondo a cui deve la sua rinascita da orfano. Di fronte a un lutto insuperabile decide di non stare fermo: un pigro, iperattivo della mente, affida alla fantasia il compito di tirarlo fuori dalla realtà, deludente e insopportabile, per trascinarlo nelle visioni oniriche di Federico Fellini, di cui Sorrentino è l’erede naturale. E seguendo le orme di Capuano, il maestro degli inizi, riuscirà poi nell’intento di non disunirsi: fare cinema diventa la terapia, il luogo dell’espressione intima, il mezzo con cui guarire la malinconia.

Quindi forse l’unica scelta che abbiamo è decidere che cosa fare quando qualcuno di caro muore. Morire con lui, vivere una vita mutilata. Oppure forgiare, sul dolore e sui ricordi, nuovi adattamenti. Col lutto prendiamo coscienza del dolore, lo sentiamo, sopravviviamo a esso. Col lutto abbandoniamo i defunti e li introiettiamo, col lutto accettiamo i cambiamenti difficili che la perdita deve apportare – e così cominciamo a porre fine al lutto.

 

Il ruolo dell’ansia per la morte: le differenti traiettorie del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

L’ansia per la morte è un costrutto transdiagnostico che ha mostrato differenti correlazioni con determinate patologie mentali e con il numero di diagnosi che un individuo può avere nel corso della propria vita.

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una condizione psicologica che colpisce circa l’1-3% della popolazione (Ruscio et al., 2010), che si presenta spesso, circa per il 92% degli individui che ne soffrono (De Mathis et al., 2013), in comorbidità con altri disturbi quali ad esempio il disturbo depressivo maggiore, il disturbo d’ansia generalizzato, l’ansia da separazione, il disturbo d’ansia sociale e le fobie specifiche (Miguel et al., 2008).

L’ordine temporale con cui i disturbi in comorbidità si presentano rispetto alla diagnosi di DOC, è ancora poco conosciuto. Comprendere questo punto sarebbe di fondamentale importanza poiché potrebbe avere un valore prognostico.

La letteratura ci mostra che le diagnosi ottenute precedentemente predicono la gravità del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e il rischio di sviluppare ulteriori disturbi. Ad esempio, il 17%-27% degli adulti con DOC ha precedentemente ottenuto una diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione (Separation Anxiety Disorder) (De Mathis et al., 2013; Mroczkowski et al., 2011) e quelli con una precedente diagnosi di Ansia da Separazione mostrano un esordio più precoce e una maggiore gravità del DOC.

L’ansia per la morte

L’ansia per la morte è un costrutto transdiagnostico che ha mostrato differenti correlazioni con determinate patologie mentali (Iverach et al., 2014) e con il numero di diagnosi che un individuo può avere nel corso della propria vita (Menzies & Dar-Nimrod, 2017; Menzies et al., 2019).

Questo costrutto ha dimostrato di avere un ruolo anche nello sviluppo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e correlazioni con la gravità del disturbo (Menzies e Dar-Nimrod, 2017), motivo per cui si potrebbe pensare che l’ansia per la morte potrebbe avere un ruolo nella traiettoria che segue il DOC. Menzies, Menzies e Iverach (2015) hanno sottolineato che le paure per la morte sembrano essere alla base di molti dei sottotipi comuni del disturbo: all’interno del sottotipo della contaminazione, molti individui attribuiscono il loro comportamento di lavaggio compulsivo alla paura di contrarre malattie mortali come risultato del contatto con i germi (Menzies & De Silva, 2003). Il sottotipo di DOC con controllo potrebbe implicare il controllo compulsivo di prese di corrente, dei fornelli e delle serrature di porte e finestre per la paura di elettrocuzione, incendi domestici e invasioni, ovvero eventi che hanno il potenziale diretto di provocare la morte (Vaccaro et al., 2010).

Uno studio di Menzies e colleghi (2020) ha tentato di studiare la traiettoria che segue il Disturbo Ossessivo Compulsivo. In particolare gli autori hanno indagato il ruolo dell’ansia per la morte in questa traiettoria di sviluppo, concentrandosi sui livelli di ansia per la morte nel predire il numero di disturbi sperimentati prima di una diagnosi di DOC. Dato il ruolo transdiagnostico dell’ansia da morte nella salute mentale, è stato ipotizzato che gli individui con maggiore paura della morte avrebbero avuto più disturbi prima di sviluppare DOC e che gli individui con bassa ansia di morte sarebbero stati più propensi a sperimentare DOC come primo disturbo.

I risultati hanno confermato le ipotesi, dimostrando che esiste un’associazione tra l’ansia per la morte e la storia diagnostica di un individuo prima del DOC.

L’ansia per la morte e la comorbidità con altri disturbi

Nello specifico, gli individui con livelli più elevati di ansia per la morte avevano più probabilità di aver sperimentato una serie di disturbi legati all’ansia prima di ottenere una diagnosi per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, coerentemente con l’ipotesi che prevede che l’ansia per la morte può essere un importante costrutto transdiagnostico che influenza lo sviluppo di varie condizioni di salute mentale (Iverach et al., 2014). I livelli di ansia per la morte, inoltre, predicevano significativamente il numero di diagnosi ricevute prima dell’insorgenza del DOC. In particolare, gli individui con più gravi paure della morte hanno sperimentato, in media, più del doppio del numero di diagnosi prima del disturbo ossessivo compulsivo, rispetto a quelli con bassa ansia di morte.

Gli individui con una maggiore ansia per la morte sembrano per cui attraversare ciclicamente un maggior numero di disturbi, e questo può potenzialmente indicare che il DOC è solo una delle tante manifestazioni di questa paura esistenziale sottostante.

In sostegno della ricerca precedente (De Mathis et al., 2013), Il Disturbo d’Ansia da Separazione ha preceduto la diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo per quasi la metà degli individui nel campione analizzato. Anche Fobie specifiche, GAD, disturbo d’ansia da malattia e disturbo di panico sono stati frequentemente sperimentati prima dello sviluppo del DOC. Quindi, nonostante l’esclusione del DOC dalla categoria ‘disturbi d’ansia’ del DSM-5, i risultati dimostrano la frequente co-occorrenza di disturbi legati all’ansia, tra cui non solo i disturbi ossessivo-compulsivi e correlati, ma disturbi legati ai sintomi somatici.

In conclusione, lo studio dimostra una serie di traiettorie che portano allo sviluppo del DOC. Per gli individui che dimostrano paure della morte più elevate, il DOC si dimostra una manifestazione delle paure sottostanti della mortalità, che sono apparse in precedenza sotto forma di altri disturbi legati all’ansia incentrati sulla malattia o sul danno. Viene per cui sottolineata l’importanza di comprendere il ruolo dell’ansia per la morte nella psicopatologia e l’imperativo di considerare questo costrutto transdiagnostico per un efficace intervento clinico.

Il trattamento dell’ansia per la morte

Se la paura per la morte è il nucleo sottostante che guida la manifestazione dell’ansia clinica, allora, il trattamento mirato a migliorare tali preoccupazioni può rivelarsi un prezioso rimedio transdiagnostico. Inoltre, gli interventi che mirano a mitigare l’ansia per la morte possono aiutare a prevenire lo sviluppo di ulteriori malattie mentali nel corso della vita.

Per quanto riguarda il trattamento dell’ansia per la morte, una recente meta-analisi ha sottolineato l’efficacia degli interventi CBT con un focus sulla sulla terapia di esposizione (Menzies et al., 2018). Quindi, i trattamenti attuali possono trarre beneficio dall’implementazione di strategie CBT (per esempio esposizione graduata alle specifiche situazioni temute dell’individuo relative alla morte) al fine di migliorare l’ansia per la morte di un individuo.

 

La comunicazione assertiva

I principi necessari per sviluppare l’assertività sono l’immagine positiva di sé, la libertà espressiva, il contatto con gli altri, la gestione di richieste, di feedback e del conflitto.

 

Nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, il terapeuta si trova spesso di fronte a clienti che necessitano di un ‘rafforzamento’ delle proprie abilità comunicative, in particolare la richiesta è quella di riuscire a farsi ascoltare, e nel riuscire a far comprendere adeguatamente le proprie emozioni, i propri stati d’animo e bisogni. È in quest’ottica che lo psicoterapeuta orienta la sua attività terapeutica nell’addestrare alle competenze assertive, facendo leva su sei principi che consentono di sviluppare l’assertività del cliente: immagine positiva di sé, libertà espressiva, contatto con gli altri, gestione delle richieste, gestione del feedback e gestione nel conflitto.

Analizzando i principi in ordine di sequenza, incrementare l’autostima rende la persona più sicura delle proprie posizioni perché consente di sentire i propri bisogni e diritti validi. Procedendo, la libertà espressiva e il contatto con gli altri sono state concettualizzate da Thomas Gordon nel 1991. Con l’utilizzo dei cosiddetti ‘messaggi di responsabilità’ (metodo per consentire la libera espressione) il soggetto viene aiutato dal terapeuta ad esprimersi utilizzando la prima persona singolare, un verbo che esprima assunzione di responsabilità (ad esempio, voglio, desidero, apprezzo, sento, gradisco) e un contenuto chiaro, breve e diretto.

Questa tipologia di comunicazione dà due vantaggi: il primo è l’esplicitazione di un messaggio sincero e quindi autentico, il secondo è l’attribuzione di responsabilità che porta il cliente a non attribuirla all’esterno. Il principio del contatto con gli altri viene usato per accrescere la capacità di ascolto del soggetto, infatti viene guidato con simulate e role playing a prestare ascolto attivo dell’altro nel senso di prestare completa attenzione, ascoltare in maniera aperta e non giudicante, con un assetto verbale e non verbale che incoraggi l’altra persona a esprimersi liberamente, per poi riformulare il contenuto del messaggio che è stato espresso. Un altro punto fondamentale utile all’accrescimento dell’assertività è saper gestire le richieste: quest’abilità è implementata dal clinico addestrando il paziente a mettere a fuoco l’obiettivo che vuole ottenere con la comunicazione, tradurre la richiesta in un messaggio verbale semplice e diretto, assumersi la responsabilità della richiesta.

Queste abilità vanno di pari passo con quelle che consentono di opporsi a richieste che non si vogliono corrispondere; perciò, il cliente verrà guidato a guardare l’altro e parlare in maniera ferma, dire all’altro che non si vuole fare quanto richiesto e dare una motivazione ma senza giustificarsi. Le ultime due abilità che completano il bagaglio di una buona competenza assertiva sono la gestione del feedback e del conflitto. La prima consiste nel dare un feedback all’altro su un suo comportamento o atteggiamento ritenuto sia positivo sia negativo, fatto che consente all’altro di capire meglio i valori, desideri e bisogni del soggetto che dà il feedback. La gestione del conflitto, infine, ruota attorno all’insegnamento della negoziazione, processo costituito dal problem solving e dal brainstorming, i quali, partendo da obiettivi condivisi da entrambi gli interlocutori, portano a soluzioni condivise, evitando di fatto il conflitto.

 

Quali sono gli effetti psicologici dei trattamenti per l’infertilità? L’impatto della fecondazione in vitro sulla qualità di vita

La consulenza psicologica è fondamentale nei casi di infertilità, dove le coppie, spesso, ricorrono alla fecondazione in vitro (FIV), che si compone di trattamenti impegnativi.

 

La gravidanza e il parto costituiscono fasi di vita importanti per alcune donne in molti paesi sviluppati e in via di sviluppo (Direkvand-Moghadam et al., 2016). L’infertilità, definita come il mancato concepimento dopo un anno di rapporti sessuali regolari non protetti (Sezgin et al., 2016), spesso causa notevole disagio sociale ed è accompagnata da numerosi problemi psicologici e sociali come depressione, ansia, isolamento e disfunzioni sessuali (Baghiani Moghadam et al., 2011). Può essere vista come una crisi di vita importante e ha un impatto sulla qualità della vita degli individui che la sperimentano (Namdar et al., 2017).

L’impatto dell’infertilità sulla qualità di vita

Alcuni studi in letteratura, a tal proposito, si sono occupati di validare uno strumento per valutare l’impatto dei problemi di fertilità su diverse dimensioni della vita (FertiQOL; Dural,et al., 2016). Molte donne infertili hanno infatti spesso relazioni coniugali problematiche, sentimenti di impotenza e senso di colpa e una qualità di vita ridotta. Anche gli uomini hanno diverse ripercussioni psicologiche e sociali, inoltre possono sperimentare minore soddisfazione nei rapporti sessuali, causata probabilmente dalla pressione psicologica del concepimento o dalla tempistica forzata del rapporto sessuale intorno al ciclo ovulatorio della donna (Monga et al., 2004). Diversi dati dimostrano tuttavia che le donne risultano essere più colpite dalle conseguenze dell’infertilità.

I trattamenti per l’infertilità

La consulenza psicologica è fondamentale quindi per le coppie che non riescono ad avere figli le quali, spesso, ricorrono alla fecondazione in vitro (FIV) che si compone di trattamenti impegnativi. La stimolazione ovarica controllata (COS), ad esempio, è una parte essenziale della FIV che prevede due o tre settimane di trattamenti combinati a prelievi di sangue ed ecografie transvaginali per ottenere ovociti che saranno successivamente fecondati in laboratorio e trasferiti nell’utero della donna. Il successo della FIV è variabile e dipende da molti fattori, solitamente è stimato intorno al 30% una volta che il ciclo di trattamenti è iniziato (Toftager et al., 2017); l’incertezza di un risultato soddisfacente costituisce quindi un altro motivo di stress: una buona salute mentale a inizio trattamento sembra essere fondamentale per poter affrontare un possibile fallimento di una gravidanza.

Molte coppie che non sono seguite o supportate sufficientemente, spesso rinunciano ai trattamenti proposti ancora prima di cominciare (Crawford et al., 2017). Diversi studi in letteratura hanno confrontato le donne infertili, trovando dei livelli molto elevati di stress rispetto al resto della popolazione. Inoltre sembra che l’età e la durata dell’infertilità aumentino i livelli di ansia nelle coppie che cercano una gravidanza; tuttavia non vi sono ancora risultati chiari che mostrano disturbi psichiatrici o psicopatologia generale più elevata in tali coppie (Chiaffarino et al., 2011).

Il vissuto emotivo legato ai trattamenti per l’infertilità

Dal momento che l’impatto dei trattamenti per l’infertilità, in particolare il COS, rispetto all’impatto generale dell’infertilità non è stato ancora studiato approfonditamente, Massarotti e colleghi, nel 2019, hanno condotto uno studio per valutare i livelli di ansia e depressione nelle donne, correlati all’infertilità e ai trattamenti per quest’ultima, mettendo in luce quali fossero i predittori di livelli di disagio elevati. 89 donne sono state incluse nello studio e sono stati sottoposti loro due questionari, sia prima dell’inizio del loro primo ciclo di trattamento, sia alla fine della stimolazione ovarica per la fecondazione in vitro (FIV). I questionari erano la Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), che misura l’ansia e la depressione, usata soprattutto nei campioni che non mostrano i classici segnali fisici della depressione clinica (Bjelland et al., 2002), e la Fertility Quality of Life (FertiQoL; Boivin et al., 2011), uno strumento specifico utilizzato per pazienti infertili, che valuta la qualità di vita in due domini: la vita generale e durante i trattamenti. Entrambi i  questionari vengono utilizzati per valutare in dettaglio gli indicatori di peggioramento della qualità della vita e i disturbi dell’umore specificamente correlati all’infertilità. I risultati ottenuti mostrano che le donne infertili sperimentano angoscia generale causata da diversi fattori, alcuni dei quali sono individuali, altri invece dipendono dalla relazione con il partner, la famiglia e la società. Questo è spiegato dal fatto che spesso il desiderio insoddisfatto di una gravidanza può portare ad avere la sensazione di non soddisfare le aspettative della società e aumenta di conseguenza il livello di stress.

I livelli d’ansia durante il trattamento per l’infertilità

Nel campione di donne incluso nello studio, la maggior parte del quale ha sperimentato infertilità di media-lunga durata, i livelli di ansia sono aumentati durante le prime visite alla clinica di infertilità, probabilmente a causa del lungo periodo passato a cercare una gravidanza o dall’ansia e dalla paura di un trattamento sconosciuto. L’ansia sembra però diminuire significativamente durante il trattamento e successivamente ad un confronto con un medico dell’infertilità che aiuta le donne a prendere decisioni consapevoli (Gameiro et al., 2015). Sebbene la procedura sia molto impegnativa, sembra che le donne si sentano meglio quando fanno attivamente qualcosa per ottenere un risultato desiderato da tempo; inoltre poter confrontarsi con altre donne infertili le fa sentire meno sole nei loro problemi. In aggiunta, suddividendo le donne in tre gruppi in base alla causa principale dell’infertilità (infertilità maschile, infertilità femminile, o sia maschile che femminile), i risultati mostrano livelli significativamente più alti di ansia e disagio generale nei pazienti in trattamento a causa di infertilità femminile. In conclusione questi dati forniscono ai medici che si occupano di infertilità alcune indicazioni per un supporto psicologico più mirato, centrato sul paziente. Tale supporto sembrerebbe essere fondamentale soprattutto nei momenti più difficili (cioè i primi accessi in un centro di fertilità) o nei sottogruppi più vulnerabili (cioè le donne con una causa di infertilità esclusivamente femminile; Massarotti et al., 2019).

 

Pensaci ancora (2021) di Adam Grant – Recensione del libro

Pensaci ancora è un saggio di Adam Grant, tradotto in italiano da Giuseppe Maugeri ed edito nel 2021 da Egea.

 

Adam Grant è un giovane professore della Wharton School dell’Università della Pennsylvania, esperto di psicologia del lavoro. Ha collaborato con un gran numero di aziende, è stato un brillante pubblicitario, oltre che un eccellente sportivo, campione di tuffi ai giochi olimpici giovanili.

Lo scopo di questo saggio è quello di provocare una rivoluzione nel modo di pensare del lettore. Si tratta di una guida alla scoperta della possibilità di nuove capacità cognitive che permettono di ripensare e disimparare. La capacità di modificare le proprie opinioni è, secondo l’autore, una forma di intelligenza che consente di raggiungere ottimi risultati in ambito lavorativo e di vivere saggiamente.

Pensaci ancora è un libro composto da tre parti, la prima parte è dedicata alla trattazione della necessità di imparare a ripensare. Secondo Grant i geni creativi, non posseggono soltanto una particolare carica, ma la capacità di essere disposti continuamente a ripensare le proprie posizioni. Inoltre, in ambito lavorativo chi è ai vertici ed è capace, non solo di ammettere di non conoscere determinate cose, ma è anche disposto a cercare nuove soluzioni attraverso l’ascolto degli altri e ottiene i risultati migliori nella guida del team.

La seconda parte è dedicata all’alfabetizzazione argomentativa cioè a quel metodo interdisciplinare che permette di ripensare l’apprendimento.

Nell’ultima parte Grant illustra come esista una resistenza da parte della scuola, del mondo del lavoro e della politica ad incoraggiare la cultura del ripensamento.

Pensaci ancora è una riflessione su come, in un mondo in rapido cambiamento, diviene fondamentale non solo imparare, ma anche mettere in discussione ciò che si è imparato e modificare le proprie idee e convinzioni.

Grant con il suo libro dimostra come sia possibile abbandonare determinati punti di vista ed essere contenti di avere torto e lo fa attraverso prove concrete, come ad esempio il suo personale successo nel persuadere i tifosi degli Yankees a parteggiare per i Red Sox. Quello che Adam Grant, con questo saggio, intende insegnare è argomentare come se si avesse ragione, ma ascoltare come se si avesse torto perché questo consente di continuare ad imparare per tutta la vita.

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il primo episodio è dedicato al Ritiro

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Nate in piena pandemia, le precedenti stagioni di “Caffè cognitivo”, create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast, hanno sin da subito riscosso un ampio consenso da parte del pubblico, sia esperto che meno esperto.

Dato il successo ottenuto, il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la prima puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli parleranno del Ritiro, ovvero la preferenza per il restare da soli piuttosto che con gli altri. Da dove nasce il ritiro? Perché alcune persone evitano i rapporti sociali? Scopritelo nel primo episodio.

Dove ascoltare il primo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il primo episodio su:

 

La dipendenza dalle cattive notizie, doomscrolling e doomsurfing

Nei periodi di crisi e di incertezza cerchiamo informazioni che ci aiutino a comprendere ciò che succede, anche quando queste informazioni ci rendono ansiosi, tristi, preoccupati, si tratta del doomscrolling o doomsurfing.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 26) La dipendenza dalle cattive notizie, doomscrolling e doomsurfing

 

La pandemia da Covid-19, soprattutto a partire dai primi mesi dello scorso anno, ha coinciso con un’impennata dell’utilizzo di Internet e dei device digitali che ci sono serviti per lavorare, studiare, continuare con le nostre attività, rimanere in contatto con amici e familiari, essere informati.

Mai come in questo caso le incertezze sono state tante e abbiamo dovuto affrontare una situazione del tutto inedita con informazioni nuove e a volte contrastanti ogni giorno.

Le notizie negative hanno dominato l’agenda di giornali e canali di comunicazione governativi. A partire dall’appuntamento fisso quotidiano delle 18 con l’aggiornamento da parte delle autorità, siamo stati inondati da informazioni su ospedali al collasso, città chiuse, drastiche misure preventive, statistiche su casi, ricoveri e decessi, e, fino a non molti mesi fa, previsioni discontinue sul vaccino, tema tuttora accompagnato da non poche incertezze su tempistiche ed efficacia.

Il significato di doomscrolling o doomsurfing

Con doomscrolling e doomsurfing ci si riferisce alla tendenza marcata a ricercare notizie negative online con conseguenze sulla nostra salute mentale.

Si tratta di un fenomeno di cui si è cominciato a parlare da poco in relazione alla pandemia da Covid-19: per la prima volta nella storia durante eventi di portata globale abbiamo avuto la possibilità di usare così tanto nuove tecnologie, in alcuni casi inedite fino ad allora, e quindi di avere accesso in ogni momento ad un numero potenzialmente infinito di informazioni.

La parola deriva dallo ‘scrollare’ – ovvero da ‘scroll’ in inglese-  il movimento che facciamo quando siamo sui social (o comunque online) e facciamo scorrere il feed con le ultime notizie. ‘Surf online’ è un altro termine, un po’ meno utilizzato e un po’ meno recente, per indicare un generico navigare su internet. Aggiungere ‘doom’ (sorte avversa, destino tragico) serve poi a dare proprio una connotazione negativa a questo far scorrere sotto le nostre dita una sfilza di notizie avverse. È quello che abbiamo fatto in maniera massiccia soprattutto durante il primo lockdown, quello più duro per tutti e con maggiori incertezze (Ytre-Arne & Hallvard, 2021).

Controllare il numero di casi e di morti dovute al Covid19, cercare le ultime informazioni su nuovi sintomi e su come può diffondersi è qualcosa che va bene fare, ma quando parliamo di doomsurfing e doomscrolling ci riferiamo a farlo molto spesso ed in maniera insistente. Ciò porta ad intense emozioni di ansia, incertezza, preoccupazione, paura, angoscia, che a loro volta portano a difficoltà nel dormire, diminuzione dell’appetito e scarso interesse per attività che di solito piace fare (Anand et al., 2021).

Essere immersi in notizie negative

Secondo Anand et al. (2021) ci sono dei bias cognitivi che spingono molte persone a persistere nel doomscrolling. Farlo ci serve a dare un senso all’esperienza che stiamo vivendo ed a quello che sta succedendo nel mondo, ci aiuta a fare ordine in una situazione incerta e a riempire il vuoto informativo. L’aspettativa è di ampliare le prospettive, arrivare ad un maggiore senso di controllo (più ne so, più ne capisco, più posso controllare) e quindi ridurre i sentimenti negativi.

In realtà così facendo si ottiene l’effetto opposto: si finisce in una spirale di notizie negative ed incerte che porta ad un’ulteriore esacerbazione di paura e preoccupazione, in un circolo vizioso in cui gli individui sembrano rimanere intrappolati.

Se è vero che il doomscrolling indica il ricercare e leggere continuamente notizie negative, dall’altro non tutte le informazioni per noi hanno lo stesso peso e riserviamo loro la stessa attenzione. L’aspettativa di arrivare a informazioni positive o nuove prospettive sulla pandemia e quindi ridurre ansia, paura, preoccupazione, viene guidata da alcuni bias.

Infatti tendiamo a sottostimare rischi ed eventi negativi (bias di ottimismo) e nella nostra ricerca di informazioni assegniamo un peso maggiore alle prove che supportano la nostra ipotesi e, viceversa, diamo un peso minore alle prove che disconfermano la nostra prospettiva (bias di conferma) ed infine continuiamo le nostre ricerche per accumulare più info che supportano e sono coerenti con le informazioni che abbiamo visto per prime (bias di ancoraggio) (Anand et al.,2021; Park et al., 2020).

Si instaura un circolo vizioso, un loop in cui siamo motivati alla ricerca di informazioni nell’aspettativa che siano positive. Troviamo invece informazioni negative e persistiamo nella nostra ricerca, sviluppiamo sintomi emotivi negativi, ci sentiamo ansiosi, apprensivi e ciò aumenta il nostro livello di incertezza, il che ci spinge a navigare e ricercare ancora più informazioni.

Doomscrolling, una strategia di sopravvivenza

Siamo istintivamente portati a prestare attenzione a qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa, soprattutto in periodi di incertezza, quando la ricerca di informazioni mira anche ad aumentare il nostro senso di controllo. Ne va della nostra sopravvivenza. Ma in un mare di informazioni abbiamo anche la preoccupazione di perderci qualcosa di importante. Così continuiamo a cercare.

Nella speranza di trovare informazioni che ci facciano sentire meglio e più in controllo, siamo anche più vulnerabili alle informazioni imprecise e incomplete che invece di aumentare il nostro senso di controllo vanno a validare paura, ansia, incertezza e ci spingono verso un costante bisogno di saperne di più e di fare doomsurfing o doomscrolling (Anand et al., 2021).

Il doomscrolling è quindi una strategia che mettiamo in atto in un contesto di crisi, di incertezza, di paura e di minaccia che è disadattiva nella misura in cui diventa eccessiva e porta ad intense emozioni di stress.
Ci vuole uno sforzo per fermarsi e prendersi una pausa, riuscire a monitorare l’impatto emotivo, separare le informazioni utili da quelle irrilevanti. L’aspetto fondamentale è riuscire a discernere dove sia il limite per noi tra l’essere informati, anche quando le informazioni sono negative, e quanto questo ci destabilizza e ci fa stare male.

 

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo. Consigli pratici per genitori e figli (2021) di Irene Chatoor – Recensione

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo è una guida pratica per genitori che ha l’obiettivo di fornire metodi per la prevenzione e la gestione di problematiche alimentari nell’età evolutiva

 

L’autrice Irene Chatoor è pediatra e neuropsichiatra infantile, docente di psichiatria e pediatria presso la George Washington School of Medicine e vicedirettrice del Dipartimento di psichiatria all’ospedale pediatrico di Washington DC. Nel 2012, pubblica il libro When Your Child Won’t Eat or Eats Too Much. A Parent’s Guide for the Prevention and Treatment of Feeding Problems in Young Children, che racchiude storie ed evidenze scientifiche raccolte nel corso del suo lavoro clinico e di ricerca con bambini che presentano difficoltà di natura alimentare. Nel 2021, Caterina Lombardo e Loredana Lucarelli curano la traduzione italiana per Erickson.

L’edizione italiana si preoccupa anche di adattare alcuni passaggi al sistema culturale del nostro Paese: come l’utilizzo del termine ‘cibo’ (ovvero l’unione di vari alimenti cucinati) per indicare l’avversione a uno specifico alimento che di rado viene presentato in forma pura; oppure gli orari dei pasti e le routine, in quanto nel testo originale viene dato particolare accento alla necessità di permettere al bambino di partecipare ai pasti con il resto della famiglia, aspetto meno marcato nella versione italiana, che si rivolge a un gruppo culturale in cui i pasti assumono un valore socialmente considerevole.

Il volume acquista valore divulgativo in quanto l’alimentazione e il rapporto con il cibo rivestono un ruolo centrale nella vita di ogni individuo. In particolare, per il genitore la nutrizione risulta essenziale nell’accudimento del bambino ed è molto importante nella relazione con il proprio figlio, sia come fonte di piacere e rassicurazione, sia come intensa preoccupazione laddove emergano delle difficoltà.

Nel suo insieme, il testo si configura come un manuale che vuole guidare i genitori a comprendere e gestire eventuali problematiche legate all’alimentazione dei propri figli. Tale aspetto viene esplorato nella sua complessità, spaziando dall’atto puramente comportamentale di rimanere a tavola per tutta la durata del pasto, alle competenze grosso e finomotorie necessarie al bambino per alimentarsi in autonomia, a manifestazioni comportamentali di natura clinica come l’anoressia infantile o le avversioni sensoriali persistenti. Dunque, lo scopo è quello di rispondere a potenziali bisogni dei genitori, sia che questi riguardino la prevenzione di comportamenti-problema di natura alimentare, sia che si tratti della gestione di difficoltà già in atto. L’autrice raggiunge l’obiettivo grazie all’utilizzo di un linguaggio chiaro e accessibile, massimizza la comprensione fornendo spiegazioni, laddove i tecnicismi si rendono necessari, e casi clinici, esemplificativi della realtà clinica osservata nel corso della sua carriera.

È proprio questo un primo punto di forza del volume, poiché inserire una breve panoramica sulla storia di vita e sul trattamento di un paziente assolve una duplice funzione: da una parte normalizza l’esperienza del genitore che si trova a dover gestire difficoltà legate all’alimentazione del figlio, descrivendo esperienze altrui in cui si può riconoscere; dall’altra conferisce al manuale un approccio evidence-based, ottenuto anche grazie alla descrizione di studi clinici i cui risultati avvalorano l’efficacia delle strategie suggerite nel libro.

Vengono fornite indicazioni pratiche e immediate al genitore che si trova a fronteggiare difficoltà alimentari del figlio; per esempio, il metodo del ‘time-out’ è utile per incrementare l’autonomia del bambino nell’alimentarsi e per promuovere competenze trasversali come l’autoregolazione emotiva. Per consolidare i punti cruciali delle strategie l’autrice aggiunge delle sezioni riassuntive.

Si passa a una vera e propria educazione all’alimentazione. Innanzitutto, il genitore riceve una breve spiegazione di quali siano le tappe fondamentali dello sviluppo delle autonomie nei pasti, differenziando le tempistiche anche in base a variabili intervenienti di natura culturale. Viene descritto il forte valore sociale ed educativo che possiede il momento del pasto e la necessità di condividere le eventuali strategie educative che si deciderà di adottare con tutti gli adulti di riferimento del bambino.

Viene dato spazio alla distinzione tra la fame fisiologica e la fame di natura emotiva, che spesso viene incentivata dall’utilizzo del cibo come ricompensa e può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari in adolescenza. Perciò, viene spiegato al genitore come aiutare il bambino a riconoscere la sensazione di sazietà, per esempio abbandonando l’imposizione di ‘finire ciò che si ha nel piatto’, che invece ostacola la capacità di riconoscere quando si è mangiato a sufficienza. In aggiunta, viene discusso il valore che si tende a dare ai cibi dolci, i quali spesso diventano ricompensa per l’avvenuta consumazione di alimenti più sani e meno graditi, come le verdure. L’autrice suggerisce di non presentare il dolce come un rinforzo per un comportamento corretto o come elemento di consolazione, ma di cercare di attribuire ai cibi dolci lo stesso valore degli altri alimenti, per esempio proponendo al bambino di scegliere se mangiare prima il dolce o il pasto principale.

Inoltre, vengono esplorati gli aspetti più clinici legati all’insorgenza di disturbi alimentari e vengono date al genitore piccole strategie per diminuire le possibilità che si acutizzino nel tempo. Per esempio, si sottolinea come forzare un bambino a mangiare cibi che detesta possa traumatizzarlo in modo tale da suscitare sensazioni di nausea e vomito ogni volta che vi si troverà a contatto, persino a distanza di anni. Non vengono esplorati solo aspetti puramente diagnostici, ma anche problematiche comuni alla popolazione generale come la selettività alimentare, la quale può essere episodica e transitoria. Per ciascuno di questi disturbi o difficoltà vengono fornite delle strategie specifiche in base alla fascia d’età in cui possono manifestarsi.

Bambini che non vogliono mangiare o mangiano troppo risulta quindi essere un manuale ben strutturato, pratico e utile, contenente nozioni e strategie facilmente fruibili da neo-genitori e genitori alle prese con le difficoltà alimentari dei figli.

 

 

Il presente articolo è scritto in collaborazione con Cliniche Italiane di Psicoterapia Età Evolutiva (CIPee)

 

“E tu chi sei?”: La personalità nei pazienti con amnesia anterograda

L’amnesia anterograda consiste in un deficit nell’abilità di formare nuovi ricordi (memoria dichiarativa) a seguito di lesione cerebrale. Come questi deficit di memoria possono influenzare il modo in cui gli individui vedono chi “sono”? La relazione tra amnesia anterograda e senso di Sé risulta ancora poco indagata

Personalità e memoria

I filosofi e gli psicologi sono stati a lungo interessati al concetto di “sé” e a come questo viene rappresentato dall’individuo. Il sé è un costrutto sfaccettato che può essere misurato nei modi più vari. Giacché non esiste un approccio standard, si è resa una risorsa importante la misurazione dei tratti di personalità (Turner & Onorato, 1999). I tratti di personalità sono definiti come modelli relativamente duraturi di pensieri, sentimenti e comportamenti. Tuttavia, ciò non implica che ogni tratto sia stagnante o immutabile. Al contrario, la ricerca ha suggerito che, sebbene i tratti dimostrino una forte stabilità a breve termine, essi possono subire cambiamenti significativi in periodi di tempo più lunghi a causa dell’influenza delle principali esperienze di vita (Roberts et al., 2006).

Il ruolo della memoria è stato oggetto di considerazione negli studi di come gli individui creano rappresentazioni di sé attraverso le valutazioni di personalità (Conway, 2005; Klein & Lax, 2010). Gli individui con danni acquisiti ai lobi temporali mediali hanno spesso profondi deficit di memoria, in particolare in relazione all’apprendimento di fatti ed eventi avvenuti dopo il danno cerebrale. Si tratta, in questo caso, di amnesia anterograda. Ma la questione di come questi deficit di memoria possano influenzare il modo in cui questi individui vedono chi “sono” è stata indagata solo parzialmente. Non è chiaro se i pazienti con amnesia siano in grado di formare una percezione stabile, accurata e aggiornata della loro personalità senza la capacità di incorporare nuove conoscenze dichiarative sulle esperienze di vita e sugli eventi, compresi i dettagli sul loro comportamento nel contesto delle nuove circostanze di vita.

Tratti personologici e amnesia anterograda

Dato che la personalità è abbastanza stabile, ma è anche influenzata dai grandi eventi di vita, sorge spontaneo domandarsi se i pazienti con amnesia sarebbero capaci di aggiornare le loro autovalutazioni della personalità in risposta a questo tipo di cambiamenti significativi. Garland et al. (2021) hanno tentato di rispondere al quesito in uno studio avente come soggetti alcuni pazienti con grave amnesia anterograda.

In questo studio sono stati coinvolti 7 soggetti (6 uomini ed 1 donna) appartenenti al registro dei pazienti neurologici presenti in Iowa, con diagnosi di grave amnesia anterograda. Il requisito principale per il reclutamento era che i pazienti avessero documentata una lesione cerebrale del lobo temporale mediale (MTL), dimostrata da un’analisi fatta tramite tecniche di neuroimaging (MRI o tomografia computerizzata), e che avessero una grave amnesia anterograda (definita da un punteggio differenziale di minimo 25 punti fra la loro Wechsler Adult Intelligence Scale [WAIS- III] (Wechsler, 1997a) e la loro General Memory Index (GMI; Wechsler Memory Scale, Third Edition [WMS-III]; Wechsler, 1997b).

Tutti e sette i pazienti avevano un grave deficit nell’abilità di formare nuovi ricordi (memoria dichiarativa) dopo l’insorgenza della lesione cerebrale, nonostante avessero conservato gran parte delle loro capacità cognitive complessive ed il funzionamento intellettuale.

I soggetti studiati erano nella fase cronica di riabilitazione, in quanto la loro lesione cerebrale risaliva dai 4 ai 28 anni antecedenti allo studio. Tutti i pazienti avevano subito cambiamenti significativi nel loro stile di vita, nella loro capacità di funzionare autonomamente e di prendersi cura di loro stessi. Per indagare la personalità del campione è stato utilizzato il Big Five Inventory (BFI) (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009).

Il BFI è stato riproposto in 4 momenti diversi: 1 giorno dopo, 2 settimane dopo, 2 mesi dopo ed 1 anno dopo. I ricercatori hanno studiato la personalità del campione anche dalla prospettiva dei caregiver a cui è stato chiesto di compilare il Big Five Inventory (BFI) (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009), facendo riferimento ai loro pazienti. Le loro misurazioni sono state ottenute in una fase preliminare e dopo 2 mesi. Ad 1 anno dalla prima misurazione, gli operatori hanno usato gli stessi questionari per valutare come ricordavano i pazienti durante l’anno prima della lesione cerebrale. Per le valutazioni di base e dopo 2 mesi, sono state fornite le seguenti istruzioni: “Rispondere a tutte le domande riferendo il modo in cui il paziente agisce, si comporta, e si sente attualmente, non rispetto a come erano prima della lesione cerebrale”. Al contrario, al follow-up di 1 anno, agli operatori sanitari è stato chiesto di “descrivere il paziente per come se lo ricorda durante l’anno prima della lesione cerebrale”. La stabilità della personalità è stata valutata confrontando i diversi punteggi ottenuti nei 4 Big Five Inventory (BFI) proposti (John et al., 2008; John & Srivastava, 1999; Soto & John, 2009). Questo stesso processo è stato utilizzato per esaminare la stabilità delle valutazioni degli operatori sanitari nel tempo.

Stabilità della personalità nell’amnesia anterograda

Confrontando le valutazioni della personalità auto-riferite dai pazienti amnesici e quelle riferite dai caregiver nel corso di un anno è emerso un livello relativamente alto di stabilità su ciascuno dei tratti individuali di personalità. Per i due momenti temporali in cui i caregiver hanno fornito valutazioni simultanee, si è riscontrata una stabilità altrettanto elevata, suggerendo che i pazienti non hanno mostrato alcun cambiamento importante nella personalità. Nel complesso questi dati indicano che la memoria dichiarativa potrebbe non essere necessaria per mantenere un senso stabile del sé. Tuttavia, il mantenimento di un senso di sé accurato e aggiornato può dipendere dalla capacità di integrare nuove esperienze di vita nella propria memoria. I pazienti in questo studio hanno sperimentato cambiamenti di vita estremi a seguito della loro lesione cerebrale che hanno apportato cambiamenti nel loro comportamento. Infatti, senza la capacità di ricordare gli eventi di vita accaduti dopo la lesione e le loro risposte comportamentali a cambiamenti così drastici, questi soggetti non sono stati in grado di fornire rappresentazioni accurate e aggiornate di se stessi, evidenziando così l’interconnessione tra la memoria dichiarativa e l’accurata percezione di sé. Questi pazienti avevano un accesso molto limitato alla memoria episodica, di conseguenza si può affermare che le valutazioni della personalità possono essere in gran parte fatte attraverso la propria memoria semantica. La ricerca futura potrebbe provare a comprendere come i ricordi episodici e semantici contribuiscano in modo indipendente e influenzino le valutazioni della personalità.

 

Podcast di Psicologia: come e quale scegliere? – Le proposte di State of Mind

Nel mondo dei podcast sta diventando sempre più ampia la scelta degli argomenti da ascoltare: dalla cucina allo sport, dalla storia alla scienza, vi è l’imbarazzo della scelta. E se qualcuno volesse ascoltare un Podcast di Psicologia? Quale scegliere?

 

Podcast di Psicologia: come scegliere il podcast da ascoltare?

Sebbene l’ampia offerta sembri facilitare la scelta dei podcast da ascoltare, tante volte un così vasto repertorio non fa altro che aumentare la nostra indecisione.

Ciò è vero anche per i Podcast di Psicologia, che ad oggi sono numerosi e risultano in continuo aumento.

Come scegliere il Podcast di Psicologia? Ecco alcune dritte:

  • Argomento – Innanzitutto scegli l’argomento di tuo interesse. Che tu sia un appassionato di psicologia o un esperto psicologo, inizia ascoltando le serie o i singoli episodi dei Podcast di Psicologia che trattano i temi che più ti appassionano. L’ascolto interessato aumenterà la tua attenzione, e potrai così scoprire ulteriori argomenti e curiosità, trattati magari in altri podcast.
  • Finalità – Sei un appassionato o un professionista? Cerchi qualcosa che possa darti delle dritte su come affrontare un particolare momento della tua vita? Dei Podcast di Psicologia Positiva o di autoaiuto potrebbero fare per te. Ti piace semplicemente conoscere quante più cose possibili di psicologia? Oppure sei un professionista che ama aggiornarsi sulle novità della disciplina di cui è esperto? In questo caso i Podcast di Psicologia più indicati sono quelli che affrontano diversi temi della materia, magari dedicando un episodio ad ogni tema, partendo dalla più accreditata e aggiornata letteratura. Quindi arriviamo al prossimo punto:
  • Autorevolezza delle informazioni – Scegli quale Podcast di Psicologia ascoltare, anche informandoti su chi lo conduce.  È importante che un Podcast di Psicologia sia tenuto da professionisti, ricercatori ed esperti che parlano di Psicologia facendo riferimento a delle fonti autorevoli, attendibili e aggiornate, anche quando la riflessione si estende ad altri ambiti quali attualità, cultura, cronaca ecc.

Podcast di Psicologia: ascolta i podcast di State of Mind

Alla luce di quanto esposto ti proponiamo dei suggerimenti d’ascolto, a partire dai podcast realizzati dal gruppo Studi Cognitivi. In particolare segnaliamo le nostre serie di maggior successo.

Caffè Cognitivo: un podcast per una conoscenza a tuttotondo della Psicologia

Dalle webseries ai podcast: nate in piena pandemia, le prime stagioni di “Caffè cognitivo” sono state diffuse dapprima come webseries e successivamente sono diventate un Podcast di Psicologia, che ha sin da subito riscosso un ampio consenso da parte del pubblico, sia esperto che meno esperto.

Chi lo conduce: I professionisti delle Scuole di Specializzazione e dei Centri Clinici del circuito Studi Cognitivi sono i protagonisti dei diversi episodi. Guidano l’ascoltatore tra gli argomenti più interessanti della Psicologia, della Psicoterapia e della Psichiatria, con uno sguardo all’attualità e al panorama sociale. Ogni incontro prende avvio da una conversazione tra due o più esperti in materia.

Gli argomenti trattati: gli episodi di Caffè Cognitivo sono numerosi e spaziano tra diversi argomenti che interessano gli esperti e i meno esperti: dalla manipolazione alla noia; dalla tendenza a giudicare gli altri, agli effetti del lockdown; dalla rabbia alla psicologia del viaggiare.

La nuova stagione dedicata ai tratti di personalità: dato il successo ottenuto, il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Dove ascoltarlo: puoi ascoltare Caffè Cognitivo su:

Il rimuginio: un podcast per chi pensa troppo

Un podcast per chi pensa (e si preoccupa) troppo: rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che potrebbero capitare in futuro o riflettere continuamente sugli aspetti negativi della propria esistenza o del proprio passato. Talvolta è un tentativo di risolvere i problemi, ma spesso il rimuginio diventa un cardine portante della sofferenza psicologica.

Dal libro al podcast:  l’uscita del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” ha rappresentato una tappa centrale di un lungo percorso di studio e ricerca che ha accompagnato gli autori nel corso degli ultimi quindici anni. La sua pubblicazione è stata accompagnata da un notevole interesse che non si è limitato a psicologi e psicoterapeuti: molte persone hanno chiesto una versione divulgativa e meno tecnica dei suoi contenuti. Il podcast “Il rimuginio” nasce per rispondere a questa richiesta e per dare anche qualche suggerimento che possa essere applicato in autonomia.

Chi lo conduce: il podcast è condotto dal Dott. Gabriele Caselli, autore del libro “Rimuginio. Teoria e Terapia del pensiero ripetitivo” insieme a G. M. Ruggiero e S. Sassaroli. Direttore della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale ‘Psicoterapia e Scienze Cognitive’ di Genova.

Dove ascoltarlo: puoi ascoltare Il Rimuginio su:

Gli altri podcast di Psicologia di State of Mind:

Altri interessanti contenuti di State of Mind sono disponibili su:

Il disturbo da stress post traumatico correlato al parto (CB-PTSD) è un problema di salute globale. Ancora poco conosciuto, quanto ne sanno i paesi europei?

Lo studio indaga politiche, servizi e offerta formativa per le donne che hanno vissuto un’esperienza di parto traumatico. Da una recente review, infatti, è emerso che il 4% delle donne nella popolazione generale sviluppa un disordine da stress post traumatico legato al parto

 

Introduzione

La salute mentale perinatale fa riferimento al periodo di tempo che va dalla gravidanza a un anno dopo il parto. I cambiamenti fisiologici ed emotivi della gravidanza, del parto e della cura di un neonato rendono il periodo perinatale un momento di grande vulnerabilità per madri e padri.

Un elemento chiave alla base del disagio psicologico della donna in questo delicato periodo è rappresentato da un’esperienza di parto traumatico.

Le donne che vivono l’esperienza del parto come traumatica possono sviluppare la sindrome da stress post traumatico correlato al parto (childbirth- related post-traumatic stress disorders, CB-PTSD).

Da una recente review e meta-analisi è emerso che il 4% delle donne nella popolazione generale sviluppa un disordine da stress post traumatico legato al parto (CB-PTSD) e fino al 19% delle donne con fattori di rischio per disagio psicologico (storia precedente di malattia mentale, disturbo da stress post-traumatico, parto prematuro, aborto neonatale).

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo del CB-PTSD c’è la mancanza o la scarsa relazione con gli operatori sanitari. Le donne sperimentano abbandono, paura, insicurezza, impotenza.

Tuttavia c’è molta difficoltà nel riconoscere questa sindrome, o meglio, ancora poca consuetudine a rilevarla da parte degli operatori della nascita.

Emerge la necessità di formare gli operatori sanitari su questa problematica per individuarla e contenerla, formulare politiche di prevenzione, cura e trattamento del CB-PTSD.

Parto traumatico – Lo studio

L’obiettivo dello studio di Gill Thomson, Magali Quillet, Suzannah Stuijfzand e Antje Horsch, dal titolo COST After birth Consortium. Policy, service, and training provision for women following a traumatic birth: an international knowledge mapping exercise e pubblicato su BMC Health Services Research (Thomson, Quillet, Stuijfzand, Antje Horsch, 2021) è quello di indagare le politiche, i servizi e l’offerta formativa per le donne a seguito di un parto traumatico nei diversi paesi europei.

Lo studio è stato inserito nell’ambito della COST Action ‘Salute mentale perinatale e trauma correlato alla nascita: massimizzare le migliori pratiche e i risultati ottimali’. La Cost Action CA18211 è un network finanziato dall’UE, di oltre 160 ricercatori e medici specializzati in salute perinatale, provenienti da 33 paesi europei. Il progetto è stato lanciato nell’ottobre 2019, con lo scopo di produrre, consolidare e diffondere evidenze per prevenire, ridurre e risolvere i traumi psicologici legati alla nascita.

Sono stati coinvolti 20 rappresentanti della COST Action ed è stato disegnato il progetto di studio. Si è deciso di iniziare con l’analisi delle politiche e dei servizi a disposizione dell’utenza attualmente esistenti (dati epidemiologici, studio di politiche nazionali, linee guida in uso, buone pratiche) e con l’indagine riguardo alla formazione degli operatori sanitari del percorso nascita.

I dati sono stati raccolti nel periodo di tempo che va da marzo 2020 a febbraio 2021.

Parto traumatico – Risultati

Dei 23 paesi europei che originariamente avevano accettato di partecipare, 18 hanno completato lo studio e questi sono: Belgio, Cipro, Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, Norvegia, Islanda, Paesi Bassi, Irlanda del Nord, Polonia, Portogallo, Irlanda, Scozia, Serbia, Spagna, Svizzera e Turchia.

Solo un paese, i Paesi Bassi, ha politiche nazionali e linee guida riguardanti lo screening, il trattamento e la prevenzione di un’esperienza traumatica di nascita CB-PTSD.

Quasi tutti i paesi, ad eccezione di Cipro e della Turchia, offrono una sorta di assistenza al CB-PTSD; 6 paesi (33%) sono in grado di fornire formalmente il servizio; il 78% lo fa in modo informale. L’89% riferisce di poter indirizzare l’utenza a servizi specialistici per la salute mentale perinatale.

I servizi, quando istituzionalizzati, sono pubblici ed erogati negli ospedali; tendono ad essere offerti dalle ostetriche, anche se ci sono percorsi indubbiamente multidisciplinari. In sette paesi (39%) la conoscenza di queste tematiche fa parte della formazione di base degli operatori della nascita, tuttavia si tratta di una formazione superficiale. Non sono previsti corsi di aggiornamento obbligatori.

Conclusioni

Dallo studio dei 18 paesi in esame è emerso che sostanzialmente mancano linee guida nazionali sulla prevenzione, cura e trattamento dell’esperienza di parto traumatico; non sono garantiti servizi uniformi, in grado di prendere in cura la puerpera e, allo stesso tempo, non è presente una formazione adeguata dei professionisti.

Tuttavia, la salute mentale perinatale rappresenta un problema di salute pubblica a causa dell’impatto che ha, a breve e lungo termine, su donne, neonati e famiglie.

Infatti il riconoscimento e la presa in carico di un disagio o di un disturbo psicopatologico nella madre o nel padre sono importanti sia per il singolo, sia per gli effetti che ha sullo sviluppo del bambino e sul nucleo familiare.

Ulteriori studi sono necessari per identificare percorsi standardizzati e basati sulla medicina dell’evidenza, questo studio rappresenta un tentativo di identificare le lacune e gli ambiti di miglioramento a livello europeo.

 

Il terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica (2021) di Muran e Eubanks – Recensione

Il volume Il terapeuta sotto pressione offre una guida per negoziare le complesse richieste emotive a cui il terapeuta deve rispondere nella propria pratica clinica.

 

Che cosa è l’alleanza terapeutica? ‘Dirigere l’attenzione in modo condiviso verso una meta del processo di cura che il paziente tenta di raggiungere e il terapeuta trova ragionevole’.

Gli attori in campo sono due: il paziente e il terapeuta. La qualità della relazione interpersonale che si stabilisce fra loro è la condizione imprescindibile affinché il progetto terapeutico possa compiersi e portare ai risultati auspicati.

Senza tale condizione, l’efficacia di qualsiasi psicoterapia – terapia che usa come unico strumento la parola – è inimmaginabile.

L’intento – peraltro riuscito – di questo testo ampio e complesso è individuare, nell’ambito delle ricerche della psicologia della performance, indicazioni utili per gestire le fasi del trattamento in cui l’alleanza terapeutica si incrina.

Gli autori propongono strumenti concettuali e pratici efficaci nella gestione e regolazione delle esperienze emotive in condizione di stress nel corso della pratica clinica.

Al fine di supportare i terapeuti nel produrre performance efficaci e promuovere un miglior stato di benessere del paziente, anche in condizioni avverse o complesse, gli autori forniscono ampi riferimenti teorici e concreti strumenti operativi.

Quali sono i fattori che favoriscono e agevolano lo stabilirsi di una buona alleanza terapeutica, quali sono le condizioni che consentono il suo preservarsi e mantenersi solida nelle varie fasi del trattamento?

Quali sono le strategie che il terapeuta può attuare per preservare questa condizione e per uscire dalle impasse quando essa si incrina?

Alla base del testo vi è l’idea che, per garantire una buona alleanza terapeutica, il terapeuta debba sapere gestire momenti di stress emozionale e fornire risposte terapeutiche adeguate anche quando manca collaborazione e sintonia con il paziente. Continuare a operare efficacemente sotto stress senza perdere lucidità, obbiettività e capacità di intervento è rilevante soprattutto nei frangenti in cui emozioni di rabbia, aggressività o noia invadono il setting terapeutico.

Il libro offre una guida per negoziare le complesse richieste emotive a cui il terapeuta deve rispondere nella propria pratica clinica: la scienza della performance fornisce indicazioni al terapeuta per agire con pertinenza anche in frangenti di stress e turbamento emotivo.

Determinare il significato di stress e di performance sotto stress è operazione complessa: molteplici sono i fattori coinvolti. Occorre allineare la richiesta percepita con l’abilità percepita di riuscire a gestirla e da ultimo con l’importanza percepita di riuscire a gestirla.

La situazione percepita come stressante non è prodotta solo dallo scarto fra richiesta e abilità, ma anche dal desiderio e dall’ambizione di soddisfare la richiesta di base.

Per mantenere un buon livello di performance in condizioni di stress occorre considerare l’azione di più fattori:

  • La capacità decisionale individuale, dove intuizione e abilità di analisi del contesto si fondono nel produrre il risultato ottimale. Gli schemi cognitivi formati sulla base delle esperienze pregresse si integrano con le competenze analitiche: il processo di simulazione mentale crea ipotesi plausibili sulla possibile risoluzione del problema nel contesto attuale.
  • Il ricorso al pensiero controfattuale, ovvero il pensiero definito contrario ai fatti: il ragionamento in condizioni di stress si àncora spesso a euristiche e bias. Si tratta di scorciatoie cognitive che forniscono coordinate di orientamento quando il processo decisionale deve avvenire in condizioni di urgenza e/o incertezza. Fra queste euristiche le più frequenti sono quelle legate ai principi di rappresentatività, disponibilità e ancoraggio.
  • L’uso di bias impliciti, intesi come caratteristiche inconsce di giudizio: l’attribuzione di significato e di qualità, all’oggetto o soggetto dell’osservazione, è automatica ovvero avviene anche sulla base di stereotipi. Orientarsi nella realtà richiede schemi cognitivi che ne rendano immediata e intuitiva l’interpretazione. Tali automatismi seppur vantaggiosi in termini di semplificazione e selezione delle informazioni, possono tuttavia produrre interpretazioni del reale poco attendibili o basate su falsi presupposti.
  • L’impiego dell’euristica affettiva: esiste la tendenza a farsi influenzare, nel processo valutativo, da ciò che piace e da ciò che non piace. Spesso giudizi e decisioni sono implicitamente guidati dal gradimento personale.
  • La risposta allo stress varia soggettivamente, ma tendenzialmente si osserva che quando il distress supera l’eustress si presentano con maggiore frequenza cali di attenzione e distrazione. Questi fattori possono inficiare significativamente la performance.  Inoltre lo stress influisce negativamente su valutazione e giudizio condizionando la corretta valutazione di minacce, controllabilità e prevedibilità. Sotto stress le valutazioni tendono a essere più pessimistiche e come tali anticipano con più probabilità esiti negativi. Viceversa valutazioni più ottimistiche, se comunque aderenti al piano di realtà, oltre a ridurre lo stress promettono performance migliori.
  • L’attenzione al self focus ovvero una forma di autocoscienza associata all’iper riflessività. Nello specifico nella pratica clinica esso è salvaguardato anche grazie al confronto con colleghi e supervisori.
  • La capacità di regolazione emotiva, intesa da James Gross, autore di Handbook of Emotion Regulation come ‘l’insieme dei processi mediante cui gli individui influenzano quali emozioni provare, quando provarle e quando vivere ed esprimere tali emozioni’. Tale processo di regolazione avviene grazie a strategie specifiche: la selezione o la modifica delle situazioni che elicitano emozioni indesiderate; il dispiegamento attentivo con distrazione o distacco da aspetti critici della situazione; la ristrutturazione cognitiva per riformulare l’interpretazione di una situazione; infine la modulazione o la soppressione della risposta emotiva automatica.
  • La resilienza infine, intesa come adattamento positivo alle vicissitudini avverse, rappresenta un ultimo ma non meno rilevante fattore di controllo sullo stress. Le strategie a cui individui resilienti fanno ricorso sono la regolazione emotiva, l’atteggiamento ottimistico e l’emozionalità positiva per contrastare la negatività. L’idea alla base è che gli eventi non siano traumatici, se non nella misura in cui sono percepiti come tali: l’adeguata rivalutazione cognitiva di un evento avverso sostiene la fiducia di poterlo gestire e superare.

La capacità del terapeuta di funzionare in modo adeguato sotto stress si rende necessaria soprattutto quando l’alleanza terapeutica è a rischio o minacciata da una fase di impasse della terapia. La rottura dell’alleanza terapeutica rappresenta un momento di scissione improvvisa e drammatica fra paziente e psicoterapeuta. In questo frangente possono esservi diversi tipi di rotture:

Nelle ‘rotture di ritiro’ avviene un allontanamento da sé stessi o dall’altro nel tentativo di proteggersi nell’isolamento o come esito di un’eccessiva accondiscendenza. Risposte laconiche, comunicazione astratta, narrazione evitante fatta di discorsi troppo lunghi, accondiscendenza verso il terapeuta e ricorso eccessivo all’autocritica e alla rassegnazione sono indici di rotture di ritiro.

Il terapeuta può adottare comportamenti eccessivamente protettivi o accomodanti nei confronti del paziente, senza sostenerlo a sufficienza nel tentativo di uscire dall’impasse in cui si trova. L’atteggiamento eccessivamente rassicurante del terapeuta ostacola nel paziente il riconoscimento e l’espressione dei propri bisogni, anche a scapito della propria agency.

Al contrario altre forme di rottura sono legate a un vero e proprio scontro con l’interlocutore: istanze aggressive e di controllo prendono il sopravvento su quelle di unione e comunione. Lamentele e dubbi del paziente sul terapeuta e sulle sue competenze, tentativi di metterlo sotto pressione o controllo ne sono esempi.

Se si verifica una rottura dell’alleanza terapeutica cosa può fare il terapeuta per ripristinarla? A quali strategie può quindi ricorrere?

La regolazione emotiva rappresenta il primo strumento a sua disposizione in quanto consente di ripristinare i processi di riconoscimento e di soggettivazione reciproci. Entrambi avvengono grazie alla metacomunicazione: si tratta di esprimere a parole l’esperienza personale vissuta nel qui e ora.

Ciò avviene su due livelli: a livello di contenuto (ciò che effettivamente viene detto) e a livello di processo (il modo in cui viene detto). La metacomunicazione, ovvero la comunicazione sul processo comunicativo, consiste quindi nel tentativo di uscire fuori dall’interazione paziente terapeuta per osservarla e trattarla come l’argomento dell’indagine collaborativa.

Concretamente la metacomunicazione è possibile grazie ad alcuni criteri:

  • L’invito a collaborare: nel corso di una rottura dell’alleanza terapeutica il paziente sperimenta sentimenti di isolamento e solitudine: il terapeuta è un’altra persona incapace di entrare in contatto profondo con i suoi bisogni e di accoglierli. Per far sì che il paziente torni a percepire il terapeuta come un alleato, occorre che questi legittimi la soggettività delle percezioni tanto del paziente quanto delle proprie: non esiste una prospettiva assoluta, quanto l’integrazione possibile di diverse prospettive.
  • Stimolare la consapevolezza esperienziale del qui e ora della seduta: evitare speculazioni astratte contiene la tendenza a fughe difensive dai temi caldi per il paziente. Proporre ipotesi anziché interpretazioni lascia al paziente la possibilità di cogliere collegamenti fra la propria esperienza emotiva nella relazione terapeutica e le altre relazioni significative vissute nel mondo esterno.
  • Assunzione di responsabilità: per il terapeuta riconoscere il ruolo che egli stesso ha avuto nel verificarsi della rottura significa accogliere il paziente in uno spazio valutativo dove egli ha una titolarità, tanto quanto il terapeuta stesso.
  • Monitoraggio delle reattività emotive: il terapeuta monitora come il paziente reagisce emotivamente a quanto viene detto in seduta. Questo consente di modulare gli interventi interpretativi in modo che non risultino né intrusivi né distanzianti.
  • Evitare di enfatizzare eccessivamente ciò che è già esplicito: essere sempre assertivi rischia di diventare fastidioso. Occorre mantenere il totale rispetto della riservatezza e lasciare lo spazio anche al silenzio e all’autoriflessione. Anche nel contesto terapeutico occorre tenere a mente il naturale oscillare delle relazioni fra momenti di avvicinamento e intimità da quelli di maggiore distanza e riservatezza. Il rispetto di questo confine, mai stabile e sempre fluido, garantisce al paziente la tutela necessaria per vivere il setting come uno spazio sicuro e protetto.

Vi sono emozioni specifiche con le quali frequentemente il terapeuta si deve confrontare nel corso della terapia. La sua capacità di regolarle, gestirle e restituirle prive di giudizi al paziente salvaguarda la qualità della relazione e scongiura possibili rotture dell’alleanza.

Le emozioni negative del paziente a cui il terapeuta è chiamato a rispondere sono:

  • Ansia e panico: sono stati emotivi a forte connotazione negative che in maniera quasi automatica innescano reazioni difensive evitanti di ricerca di sicurezza.
  • Rabbia e odio: si tratta di reazioni emotive intense in risposta a situazioni percepite come violente e di attacco o di prevaricazione. Esiste uno scarto importante fra provare ed esprimere la propria rabbia. Di fronte ad attacchi o invadenze dei pazienti il terapeuta deve monitorare la propria reazione rabbiosa: uno degli obbiettivi della terapia è mostrare al paziente che il terapeuta sopravvive alla rabbia del paziente, che riesce a contenerla.
  • Tristezza e disperazione: difronte a queste reazioni emotive di profonda sofferenza il terapeuta è chiamato a manifestare sostegno empatico e accudimento, spesso stimolando la speranza e contenendo la disperazione.

Nel delicato e complesso processo di gestione di queste emozioni emergenti il terapeuta è invitato ad adottare alcune strategie volte a tutelare la qualità del suo lavoro, ma soprattutto il proseguo della terapia in un’ottica di vantaggio e beneficio per il paziente.

A tal fine gli autori suggeriscono una serie di semplici ma efficaci accortezze:

  • mantenere un atteggiamento umile, di osservazione e ascolto;
  • coltivare la compassione e sforzarsi nel mantenere posizioni di comprensione scevre da giudizio;
  • tenere desta in sé la curiosità per giungere a una comprensione autentica e profonda del mondo interno del paziente;
  • essere pazienti anche di fronte a momenti di noia e stallo;
  • infine sostenere il paziente con la positività e la fiducia nelle possibilità di cambiamento che il futuro può riservare.

Gli strumenti operativi suggeriti attraverso cui esercitare e mantenere queste posture terapeutiche sono:

  • gli esercizi di mindfulness prima delle sedute;
  • il diario delle emozioni dopo le sedute;
  • la lettura critica dei dati raccolti volta a cogliere dati fra loro contrastanti e gli effetti iatrogeni di possibili bias cognitivi;
  • role playing che simulano la pratica sotto pressione, al fine di monitorare reattività e modulazione delle proprie emozioni;
  • la condivisione delle competenze con colleghi che facciano da interfaccia nella valutazione delle ipotesi.

Il testo nella sua complessità rappresenta un contributo autenticamente significativo sia per chi voglia impegnarsi nel migliorare la propria pratica clinica sia per chi abbia esigenza di strutturarla in maniera ancora più solida ed efficace, soprattutto quando chiamato a operare sotto stress.

Gli spunti che il testo fornisce sono ricchi, ampi e ben documentati: è una lettura che non solo informa, ma che promuove, in chi lo voglia intraprendere, un processo di costante miglioramento della propria pratica clinica. A beneficio proprio, ma soprattutto del paziente.

 

Oltre la paura: senso di colpa e vergogna durante il COVID-19

Come già ampiamente riportato, la diffusione del COVID-19 ha comportato delle conseguenze dannose per la salute mentale delle persone (Greenberg et al., 2020).

 

Oltre alla paura costante di essere infettati, vergogna e senso di colpa sembrano avere un ruolo principale nello scenario pandemico. Queste emozioni possono essere particolarmente problematiche poiché, se non vengono adeguatamente riconosciute e gestite, sono correlate a gravi sintomi psicologici tra cui PTSD, depressione, ideazione suicidaria, abuso di sostanze e, più un generale, una scarsa qualità di vita (Tracy et al., 2007; Cândea & Szentagotai-Tătar, 2018).

COVID-19 e senso di colpa

La colpa implica un’autocritica per una specifica azione e preoccupazione per il danno che si può causare agli altri (Tangney & Dearing; 2003). In alcuni casi, il senso di colpa può essere considerato un’emozione adattiva e costruttiva, poiché spinge le persone ad azioni pro-attive, come ad esempio chiedere scusa, apportando benefici alle relazioni interpersonali.

Tuttavia, quando il senso di colpa diventa slegato da contesti specifici, può essere disfunzionale, creando un esagerato senso di responsabilità per eventi che si verificano fuori dal nostro controllo (Cherry et al., 2017).

Una condizione prolungata di incertezza e di allerta costante legata al COVID-19, combinata alla paura di infettare gli altri, può dare luogo ad un senso di colpa disadattivo.

Anche quando si seguono attentamente le misure di sicurezza necessarie, possono essere presenti pensieri legati alla possibilità di essere un portatore di COVID-19, e di conseguenza, considerarsi un rischio per i membri della famiglia. Questa esperienza emotiva potrebbe essere amplificata per le famiglie, amici o colleghi di coloro che hanno contratto il virus o che nel peggiore dei casi, ne sono morte.

In molti casi, il tracciamento del contagio viene a perdersi facilmente, perciò chiunque potrebbe essere potenzialmente un vettore di contagio asintomatico, senza esserne a conoscenza. Proprio in questi casi, i pensieri ricorsivi legati a una reale, o presunta, responsabilità personale di infezione possono rivelarsi davvero molto opprimenti (Cavalera, 2020).

Chiunque sia stato in contatto con persone che sono state infettate o sono morte a causa del COVID-19 è esposto ad una situazione costante di incertezza, che può suscitare sensi di colpa disfunzionali e sentimenti di responsabilità inappropriati o esagerati (Cândea & Szentagotai-Tătar, 2018).

Il senso di colpa può rivelarsi un problema anche per le stesse persone che hanno contratto il virus (Ransing et al., 2020). La prassi nei casi di positività implica severe misure di controllo del contagio, per cui, anche un’infezione lieve, richiede spesso una quarantena forzata che impone un allontanamento sociale e un improvviso cambiamento delle abitudini domestiche (non solo per la persona contagiata, ma per chiunque sia stato a contatto con essa). In questa situazione possono sorgere sentimenti di colpa per aver rovinato la propria vita e quella degli altri membri della famiglia, che possono essere dirompenti quando l’infezione presenta complicazioni cliniche che richiedono l’ospedalizzazione (Brooks et al., 2020). In questi casi, la paura di morire (per sé o per gli altri), unita alla condizione di solitudine, può portare a sentimenti di colpa quali “non ho prestato abbastanza attenzione” oppure “ho fatto un gravissimo errore”.

Un ulteriore fattore che aggrava il senso di colpa può essere l’utilizzo di social media, poiché questi possono portare ad un sovraccarico di disinformazione che può amplificare i sentimenti di iper-responsabilità personale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2020).

Il senso di colpa può emergere anche tra gli operatori sanitari visto che in alcuni paesi le risorse per le cure intensive sono limitate, per cui i medici ospedalieri possono essere costretti a scegliere quale vita salvare, rendendo necessarie decisioni difficili su chi trattare per primo (Greenberg et al., 2020). Queste esperienze possono essere emotivamente travolgenti, il senso di colpa può essere suscitato dal rimpianto o dal rimorso legato alle decisioni prese in condizioni critiche.

COVID-19 e vergogna

L’emozione della vergogna induce esperienze tossiche di inutilità, inferiorità e incompetenza e porta ad un desiderio di fuga e/o ritiro sociale (Tracy et al., 2007); esperita con ricorsività, la vergogna può esacerbare un’auto-attribuzione globale negativa che spesso si associa a effetti negativi sul benessere mentale, come ad esempio un cattivo adattamento psicologico, difficoltà interpersonali e un cattivo funzionamento generale della vita (Cavalera et al., 2018).

Le precedenti pandemie (HIV, epatite B, Ebola) ci hanno dimostrato che le risposte sociali, in queste situazioni, hanno il potenziale di esacerbare lo stigma e sensazioni di vergogna (Logie & Turan, 2020). Anche La pandemia di COVID-19, a causa dei numerosi fattori di stress, può essere angosciante e causare le medesime risposte. Le risposte di vergogna legate al COVID-19, possono generare aspetti traumatici basati sulla percezione di non avere valore per gli altri, o peggio, di essere pericolosi per loro (Dorahy et al., 2017). In alcune situazioni, per evitare di essere rifiutati dagli altri e di provare emozioni di vergogna, le persone possono addirittura nascondere agli altri la loro positività e/o informazioni sul loro effettivo rischio di contagio (Taylor, 2001), creando la possibilità di una successiva diffusione del virus.

La vergogna di chi ha contratto il COVID-19 può derivare da pensieri di inferiorità e debolezza, che innescano un’autocritica verso sé stessi, portando le persone a percepirsi come difettose e impotenti. Nelle persone infette, ma anche in quelle che non sono più infette, si può sviluppare del sentimento di vergogna legato al rifiuto sociale (Brooks et al., 2020). Infatti, le esperienze narrative vissute dai pazienti con COVID-19 hanno evidenziato pensieri intrusivi vergognosi e la paura di essere stigmatizzati dalle persone care (Sahoo et al., 2020).

Conclusioni

In conclusione, da un punto di vista sociale, durante la pandemia le persone possono incorrere in stigmatizzazioni e, di conseguenza, in strategie di mitigazione dello stigma.

A causa delle implicazioni psicologiche della pandemia è ormai fondamentale sviluppare programmi di trattamento specifici, sia per gli operatori sanitari che per la popolazione generale (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2020). Necessario è, inoltre, affrontare l’emozione di vergogna e di colpa disfunzionale che sembrano assumere un ruolo importante per la salute mentale durante la pandemia. Terapie utili in questi casi potrebbero essere la terapia focalizzata sulla compassione (Gilbert, 2014), EMDR nel caso in cui emergano sintomi traumatici o si sovrappongano traumi precedenti (Shapiro, 2017) e trattamenti individuali specifici (Dearing & Tangney, 2011).

Amenorrea nei Disturbi Alimentari: cause e trattamento

L’amenorrea è spesso il primo segnale che qualcosa, all’interno del comportamento della persona, stia minando la salute dell’organismo.

Ciclo mestruale e amenorrea

In una donna in età fertile, il ciclo mestruale può essere considerato regolare quando ha una durata che varia tra i 25 ai 36 giorni: infatti, moltissimi fattori possono influenzarne la durata e interferire con la sua regolarità, siano essi interpersonali o dovuti a fattori esterni.

Tuttavia, quando per sei mesi consecutivi le mestruazioni vengono a mancare, si può parlare di amenorrea.

Qualora al compimento dei sedici anni la donna non abbia mai avuto il menarca, si parla di amenorrea primaria, mentre si indica come secondaria un’amenorrea che insorga in una donna dai cicli per lo più regolari.

L’interruzione dei cicli mestruali (o il mancato inizio di questi) è sempre un campanello d’allarme per la salute della donna, in quanto può essere specchio di un malessere sia fisico sia psicologico, e pertanto porta spesso alla richiesta di aiuto verso figure professionali in grado di identificarne le cause.

Una volta escluse le possibili disfunzioni organiche (tra le più comuni ritroviamo disordini dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaio, sindrome dell’ovaio policistico, sindrome di Cushing o tireopatie), si può parlare di amenorrea funzionale ipotalamica.

Quest’ultima è una forma di amenorrea non dovuta a cause organiche, ma associata piuttosto a stati di forte stress psico-fisico, alla perdita di peso e/o all’eccessivo esercizio fisico.

Disturbi Alimentari e Amenorrea

Questi tre aspetti (stress, perdita di peso ed esercizio fisico eccessivo) sono facilmente riscontrabili in donne affette da un disturbo dell’alimentazione ed è infatti molto frequente che l’amenorrea sia proprio il primo segnale che qualcosa, all’interno del comportamento della persona, stia minando la salute dell’organismo.

I disturbi alimentari sono patologie complesse, caratterizzate da un rapporto alterato e disfunzionale con il cibo e da una preoccupazione eccessiva per il peso e per la forma del corpo, che porta all’instaurarsi di comportamenti atti a modificarli o controllarli.

Tra questi comportamenti, vediamo prevalentemente:

  • Restrizione alimentare quantitativa, caratterizzata dalla riduzione dell’introito energetico giornaliero;
  • Restrizione alimentare qualitativa, contraddistinta dall’esclusione di alimenti e gruppi alimentari (frequentemente carboidrati e lipidi);
  • Esercizio fisico eccessivo, praticato anche in condizioni fisiche precarie

Questi sono proprio, uniti alla perdita di peso che spesso ne consegue e agli alti livelli di stress psico-fisico, i fattori eziologici dell’amenorrea funzionale ipotalamica.

Nonostante l’amenorrea sia una condizione reversibile, le conseguenze a lungo termine qualora non venisse trattata, sono molteplici e interessano diversi aspetti della salute della donna:

  • alternata funzionalità vascolare e prematuro rischio di insorgenza di malattie cardio-vascolari;
  • ridotta densità ossea e prematuro sviluppo di osteopenia e osteoporosi;
  • disturbi della fertilità.

Per tutte queste ragioni, è importante che le donne che soffrono di questa condizione ricevano il giusto trattamento per tempo, così da prevenire l’insorgenza o l’aggravamento di una o più delle complicanze citate.

Linee guida per il trattamento dell’amenorrea

Le nuove linee guida (da Nuove linee guida per diagnosticare e trattare l’amenorrea funzionale ipotalamica: l’importanza dell’intervento nutrizionale e cognitivo comportamentale – Dr. Riccardo Dalle Grave) per il trattamento dell’amenorrea funzionale ipotalamica indicano:

  • Una corretta diagnosi della patologia, che avverrà ‘per esclusione’ di tutte le condizioni organiche che potrebbero averla causata;
  • Correzione dello squilibrio energetico e dei deficit nutrizionali per migliorare la funzione dell’asse ipotalamo-pituitario-ovarico, attraverso l’introduzione di una dieta adeguata dal punto di visto energetico e nutrizionale;
  • Qualora il peso corrispondesse ad un Indice di Massa Corporea IMC < 18.5 oppure si sia verificato un importante calo di peso in breve tempo, è inoltre indicato l’aumento di peso;
  • Riduzione dei livelli di attività fisica;
  • È consigliabile un supporto psicologico, come la terapia cognitivo comportamentale (CBT).

Infine, qualora l’intervento atto alla normalizzazione dell’introito energetico, la sospensione dell’attività fisica e il supporto psicologico non abbiano ottenuto risultati nel normalizzare il ciclo mestruale, e solo nelle donne il cui indice di massa corporea IMC sia compatibile con uno stato di normopeso (IMC > 18,5), può essere prescritto un contraccettivo orale.

Appare quindi chiaro che il miglior intervento possibile per correggere l’assenza di ciclo mestruale sia multidisciplinare, e richieda la cooperazione di diverse figure professionali che possano intervenire su tutte le sfaccettature che caratterizzano questa condizione, soprattutto in presenza di un disturbo alimentare.

La Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E – enanched) è una forma ‘specifica’ di CBT sviluppata dal Centre for Research on Eating Disorders at Oxford (CREDO) per affrontare la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione.

Il protocollo, oltre agli aspetti più propriamente psicoterapici del Disturbo Alimentare, è caratterizzato anche da una grande attenzione a quelli nutrizionali, attraverso l’introduzione di menù specifici per il recupero del peso (correggere la restrizione quantitativa) e la graduale reintroduzione dei cosiddetti ‘alimenti vietati’ (correggere la restrizione qualitativa).

Per questa ragione, la CBT-E può essere considerata un valido strumento non solo per l’intervento sulla psicopatologia del disturbo alimentare, ma anche sull’amenorrea che spesso ne consegue e che è, nella maggior parte dei casi, non solo una richiesta d’aiuto da parte dell’organismo, ma anche un forte fattore motivazionale per l’inizio di un percorso di guarigione.

 


Il ruolo di internet e dei social media nell’esplorazione della sessualità tra gli adolescenti

Alcuni studi hanno indagato il potenziale ruolo dell’esplorazione sessuale online tra gli adolescenti come momento di costruzione ed espressione dell’identità.

 

I compiti evolutivi degli adolescenti

Durante l’adolescenza, lo sviluppo e la formazione di una propria identità, è fortemente legato allo sviluppo della sessualità e all’interesse per i legami sentimentali. Secondo un rapporto del 2015 del Pew Research Center, quasi il 24% degli adolescenti naviga su internet quasi costantemente e il 92% degli adolescenti accede a internet quotidianamente; di conseguenza, gran parte dell’esplorazione in campo sentimentale per gli adolescenti si è spostata online, dove i giovani si rivolgono al Web per la costruzione di relazioni romantiche e l’esperienza sessuale. Diversi studi suggeriscono che gli adolescenti usano l’ambiente online per esplorare questioni importanti in tale ambito (Subrahmanyam et al., 2009). Tra i compiti evolutivi che devono affrontare i giovani, vi è quello di costruire una sessualità sana: il tasso di attività sessuale, infatti, aumenta con l’età; tra i ragazzi dai 15 ai 17 anni negli Stati Uniti, il 36% dei maschi e il 39% delle femmine hanno avuto un rapporto sessuale (Mosher et al., 2005). Un altro importante compito evolutivo per gli adolescenti è quello di sviluppare un’identità, che include un’identità di genere, sessuale, morale, politica e religiosa (Kroger, 1995). Un’identità stabile consiste nella definizione di sé, così come dei ruoli e delle relazioni che si assumono, i valori personali o le credenze morali (Huffaker & Calvert, 2005). Inoltre l’adolescenza è un periodo di maggiore assunzione di rischi (Sales & Irwin, 2009). Le stime affermano che circa il 54% dei profili degli adolescenti su alcuni social network, mostrano un coinvolgimento in comportamenti rischiosi tra cui il sesso non protetto o l’alcol (Moreno et al., 2009); molti adolescenti ritengono l’assunzione di rischi un aspetto importante per la propria identità.

L’uso della tecnologia tra gli adolescenti

L’aumento spropositato del possesso di oggetti tecnologici personali tra i giovani, unito alla fase di sviluppo dell’esplorazione sessuale e dell’identità hanno, con il tempo, modificato i modi in cui i più giovani costruiscono le relazioni e si sottopongono all’esplorazione sessuale. Le app di incontri e i siti costituiscono degli spazi in cui iniziare relazioni sessuali, scoprire la pornografia, sperimentare il gioco sessuale e conoscere persone per un appuntamento (Dolcini et al., 2015). Alcuni studi hanno indagato il potenziale ruolo dell’esplorazione sessuale online tra gli adolescenti come momento di costruzione ed espressione dell’identità; è noto, infatti, che le piattaforme dei social media costituiscono per i giovani un’opportunità per connettersi e costruire una propria identità online (Subrahmanyam, 2009; Valkenburg & Peter, 2011). Tuttavia esistono ancora pochi studi sui nuovi metodi online usati dai giovani per l’esplorazione sessuale e sull’uso di siti d’incontro tra i ragazzi di età inferiore ai 18 anni (Allison et al., 2012).

Il dating online tra gli adolescenti

Sembra opportuno, quindi, approfondire il livello di fiducia e di coinvolgimento che i giovani ripongono nel dating e nel flirt online, in particolare nel contesto della salute pubblica, al fine di individuare delle opportunità per alcuni interventi preventivi. Nel 2019 Lykens e colleghi hanno condotto uno studio al fine di esplorare i comportamenti e le opinioni degli adolescenti durante l’esplorazione sessuale online, la costruzione di relazioni e gli appuntamenti online, per poter fornire ulteriori informazioni sul comportamento dei giovani e mettere in atto delle possibili modalità di intervento. I ricercatori hanno condotto uno studio esplorativo chiamato TECHsex nel quale sono stati analizzati, tramite un approccio misto di metodi, diversi dati raccolti da gennaio a dicembre 2016 per capire le esperienze e i desideri dei giovani mentre navigano, le loro relazioni sessuali attraverso i social media, le chat e gli appuntamenti online. Tali dati sono stati raccolti mediante un sondaggio di tipo quantitativo su 1500 giovani (di età compresa dai 13 ai 24 anni), e dodici focus group qualitativi ai quali hanno preso parte 66 giovani.

I risultati mostrano che gli spazi online spesso sono considerati delle vie primarie per iniziare relazioni romantiche e promuovere le identità sessuali attraverso il flirt e gli appuntamenti online. Sebbene i siti d’incontro siano frequentati da ragazzi maggiorenni e alcuni siano vietati ai minori, molti giovani di età inferiore ai 18 anni li utilizzano per fare amicizia e intraprendere relazioni: il 70% degli adolescenti iscritti ad un sito per dating ha incontrato qualcuno di persona dopo un primo approccio online. Dai focus group è emerso inoltre che i ragazzi imparano ad avere rapporti sessuali attraverso la pornografia, i siti di incontri o tramite i flirt sui social media. Questi ultimi sono considerati un canale privilegiato per esplorare un potenziale partner o intraprendere una relazione romantica. La paura della violenza o del catfishing, che talvolta incombe sui giovani, spinge alcuni di loro a utilizzare i social media più conosciuti come opzione più sicura per gli incontri, probabilmente a causa della maggiore familiarità e visibilità di tali piattaforme. Per molti adolescenti, invece, gli incontri online sono un’opportunità per connettersi con i coetanei, in particolare per i ragazzi LGBT e per coloro che vivono fuori città.

Conclusioni

In conclusione i risultati ottenuti dimostrano la complicata relazione che i giovani hanno con l’esplorazione sessuale online e lo sviluppo delle relazioni. Le pratiche online possono fornire molti benefici ma anche alcuni rischi che bisogna tenere in considerazione per utilizzare più strategicamente le piattaforme e creare programmi incentrati sui giovani per migliorare gli esiti della salute sessuale dei giovani (Lykens et al., 2019).

 

L’ascolto psicoanalitico in emergenza (2021) di Anna Maria Nicolò – Recensione del libro

L’ascolto psicoanalitico in emergenza descrive l’attività di assistenza psicologica telefonica progettata e realizzata dalla S.P.I., mostrandone anche i risultati.

 

Sin dai primi mesi di pandemia l’intera comunità degli psicologi, con la generosità che le è propria ma anche in modo inevitabilmente poco coordinato, ha proposto iniziative a sostegno della popolazione. Mentre gli psichiatri si sono rivolti prevalentemente alla ricerca, producendo anche risultati interessanti, molte istituzioni sia pubbliche che private della nostra categoria hanno offerto consulenze psicologiche spesso gratuite e in modalità online.

Non sorprende dunque che anche la comunità psicoanalitica si sia posta la questione e abbia attivato delle iniziative, di cui il volume mostra i risultati.

È curato da Anna Maria Nicolò, attualmente past president della S.P.I., con un passato da terapeuta familiare, essendo stata una dei fondatori dell’Istituto di Terapia Familiare di via Reno, insieme a Carmine Saccu, Paolo Menghi e Maurizio Andolfi, successivamente si è occupata molto e ha scritto di terapia di coppia ad orientamento psicoanalitico.

Il libro descrive l’attività di assistenza psicologica telefonica progettato e realizzato dalla S.P.I., mostrandone anche i risultati. Il servizio è partito il 20 marzo 2020, l’attività è durata 3 mesi ed ha coinvolto circa 400 psicoanalisti di vari centri operanti in diverse regioni. Ciascuno di essi ha offerto un intervento gratuito consistente in un servizio volontario di ascolto, limitato al massimo di 4 colloqui telefonici, della durata compresa tra 20 e 50 minuti. Vi sono state circa 1350 richieste d’aiuto, 2/3 da parte di donne e un terzo da parte di uomini, per circa 3500 colloqui telefonici complessivi.

Riconosciuta la volontà positiva degli psicoanalisti di fornire il proprio contributo sociale in un momento di grave crisi collettiva, l’esperienza ripropone due interrogativi molto interessanti. Il primo, dibattuto da tempo, fa riferimento alla possibilità di flessibilità adattiva della psicoanalisi. In altri termini, quanto essa sia ancora efficace se posta al di fuori del suo specifico setting clinico, rigoroso ma a volte anche rigido. In una situazione di grave emergenza complessiva, eliminato il contatto fisico diretto, tolto il lettino, riducendo il numero complessivo di sedute ad appena quattro, ma conservando il setting interno, l’attitudine all’ascolto e la lettura in termini di transfert e controtransfert, è ancora psicoanalisi quella svolta dai colleghi in quest’occasione?

L’altra questione è se, quanto e in che maniera sia diverso l’ascolto laddove sia condotto da parte di uno specialista con una formazione molto ricca e specifica. Insomma, quanto sia possibile, pur nell’arco di massimo 4 incontri, non vis-a-vis ma telefonici, far emergere qualcosa che sia non solo sostegno, ma anche “interpretazione”. A questi quesiti, oltre a fornire ovviamente altri dati e spunti di riflessione, danno una risposta le pagine dei 15 contributi che costituiscono il corpo del libro, firmati da ben 27 psicoanalisti. Ovviamente, ciascun lettore, in base innanzitutto alla propria concezione di psicoanalisi, potrà valutare l’efficacia ed apprezzare lo sforzo di dare una risposta non ortodossa al disagio altrui, ma anche personale, in una situazione eccezionale assolutamente non prevedibile. Tra i tanti capitoli, segnalo l’interessante confronto, nell’introduzione scritta da Marianne Leuzinger-Bohleber, tra la visione psichiatrica del disturbo da stress post traumatico e la teorizzazione psicoanalitica a proposito della traumatizzazione. Inoltre, le iniziative descritte nel libro hanno coinvolto anche gli operatori sanitari in prima linea nella lotta al Covid, che si sono autonomamente rivolti ai contatti telefonici della S.P.I. Particolarmente coinvolgente la relazione telefonica descritta da Stefano lussana con un medico, da lui definito dottor “Viaggio”, facendo riferimento al condiviso viaggio nel mondo delle emozioni che hanno realizzato il medico in prima linea e lo psicoanalista.

Questa emergenza ha sicuramente colpito tutti, ovviamente in modo e intensità diversa. I rapporti sociali sono cambiati, soprattutto nel periodo del primo lockdown in cui è stata effettuata la ricerca, e ancora non sappiamo per quanto tempo saranno necessarie modifiche al nostro comportamento quotidiano. Il confronto con un nemico invisibile ma molto potente, il virus, e le conseguenti strategie di prevenzione hanno avuto un impatto notevole sul mondo psichico di ciascuno di noi. Nessuno è stato esente dall’impatto della pandemia: l’isolamento sociale ha avuto specifiche conseguenze per i bambini e per il mondo scolastico; gli anziani sono stati particolarmente a rischio; gli ammalati di altre patologie hanno visto un decadimento della qualità delle loro cure mediche; le problematiche di disagio economico si sono acuite in diverse situazioni. Anche la questione dell’efficacia dei vaccini, con le conseguenti polemiche, ha un riverbero psicologico notevole, che merita di essere studiato ma che per motivi di spazio non può essere trattato qui. Nel libro curato da Nicolò ci sono spunti che fanno riferimento ad alcune di queste situazioni, all’ascolto nelle varie fasi della vita e a come una relazione d’aiuto fondata su un ascolto partecipe possa svolgere una funzione di grande utilità.

Parlando della pandemia, il mio vertice osservativo è particolare ed emotivamente non neutro essendo, come attività istituzionale, responsabile dell’U.O.S.D. di Psicologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, di cui fa parte anche l’ospedale Cotugno di Napoli, meritoriamente balzato alle cronache nazionali ed internazionali proprio per l’impegno dei suoi operatori. Insieme al Sacco di Milano e allo Spallanzani di Roma è uno dei 3 poli ospedalieri italiani dedicati esclusivamente alle malattie infettive ed è da quasi due anni impegnato nella cura dei pazienti affetti da Covid.

Dalla mia visuale di psicologo ospedaliero, è ovvio che il carico emotivo più pesante lo abbiano vissuto i pazienti, soprattutto quelli costretti al ricovero, e i loro familiari. Tra le tante specificità del Covid quella sicuramente più potente dal punto di vista psicologico, unendo il timore per la propria salute con quella dei propri cari, è che, in tantissime situazioni, si sono ammalate diverse persone della stessa famiglia. Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre una malattia “familiare”: sia perché investe i parenti che vivono a loro volta una condizione spesso di forte stress, sia perché essi sono sempre la risorsa più importante. Quindi, proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare. Ma, in questo caso, si sono ammalati davvero interi nuclei familiari. Quello che i ricoverati ci hanno riferito è che la separazione familiare, più che l’isolamento in sé, già traumatico con l’impossibilità di avere contatti se non con operatori bardati in tute protettive, è stata l’evenienza più difficile da accettare. La fonte di maggior disagio è stata proprio l’impotenza per non poter far nulla in un momento di difficoltà delle persone che ami, il desiderio di voler partecipare dando sostegno, mentre invece si è costretti ad essere tutti separati. Tutto ciò sapendo che a casa, o finanche nello stesso ospedale, ci fossero genitori o coniuge ammalati e non poter essere d’aiuto.

Inoltre, non si può mai trascurare il fatto che sono morte nel nostro paese oltre 137.000 persone. Ciò significa che sono centinaia di migliaia le persone che stanno vivendo in questi mesi un lutto: mogli, mariti, figli, fratelli e sorelle, genitori. La questione è innanzitutto etica e culturale. Etica perché è un dovere della collettività essere vicino a queste persone. Il secondo aspetto è invece culturale: smettere di eliminare finanche il pensiero della morte dalla nostra società. Occorre dare risalto a questo tema, per quanto doloroso e difficile. La morte non si sconfigge cercando di ignorarne l’esistenza. Occorre incentivare progetti che favoriscano il sostegno psicologico per i familiari di vittime del Covid o altra patologia per supportarli nell’elaborazione del lutto. Infine, l’ultima area molto importante riguarda l’assistenza agli operatori sanitari, sottoposti ad una situazione tuttora in corso con un carico emotivo straordinario.

Confesso che negli scorsi mesi ho provato anche un po’ di fastidio quando psicologhe/gi da casa si proponevano per consulenze di sostegno agli operatori ospedalieri in prima fila nella lotta al Covid. Ciò per due motivi. Il primo, più banale, è legato al fatto che difficilmente chi sta nelle “retrovie” può comprendere cosa si prova “in trincea”. Utilizzo non a caso un linguaggio bellico, ma i miei colleghi ospedalieri mi hanno raccontato più volte la drammaticità della propria situazione, a partire dalle prime settimane di febbraio-marzo dello scorso anno, in cui dovevano confrontarsi con una malattia nuova, inizialmente sconosciuta, che portava al decesso a volte in poche ore. L’altro motivo è più strutturale. Intendiamoci, io penso sia utile offrire assistenza psicologica ai lavoratori che sviluppano, ad esempio, forti quote d’ansia legate proprio al contesto professionale e ai rischi ad esso connessi. Ma sono tra quelli che reputano assai più utile occuparsi del benessere psicologico degli operatori sanitari “a monte” e non dopo che il disagio si sia manifestato. Come in medicina, anche in psicologia è importante la prevenzione e non solo la cura delle malattie. Ma è chiaro che ciò significa fare interventi sistemici, mettere mano all’organizzazione del lavoro, che deve tener conto della componente psicologica.

 

Esperienze avverse e traumi infantili: fattori di rischio per le malattie cardiovascolari

I pazienti con malattie cardiovascolari riportano un numero maggiore di traumi nei primi 10 anni di vita rispetto al gruppo di controllo. I traumi infantili vissuti dai soggetti con malattie cardiovascolari non solo si sono mostrati maggiori in termini di frequenza, ma hanno anche avuto un impatto emotivo più forte.

 

Le malattie cardiovascolari (Cardiovascular Disease – CVD), sono tutte quelle patologie ricollegabili al cuore, che includono la cardiopatia ischemica, le malattie cerebrovascolari, l’aritmia, la sindrome di Marfan, la trombosi, la malattia pericardica, l’insufficienza cardiaca, ictus, malattie vascolari e cardiomiopatie (Braunwald, 2017). Esse rappresentano la prima causa di morte nel mondo, e per questo motivo risulta essere fondamentale indagare i fattori di rischio di tali patologie (Galli et al., 2018; Galli et al., 2021). Oltre ai fattori di rischio biologici e ai fattori di rischio comportamentali (il fumo, l’uso eccessivo di alcol, l’iperalimentazione e l’aumento di peso) (Levine et al., 2021), sono presenti anche alcune variabili psicologiche.

Depressione, ansia, ostilità, isolamento sociale e condizioni di stress psicologico sono a tutti gli effetti fattori che giocano un ruolo nello sviluppo di malattie cardiovascolari e ne peggiorano la progressione (Levine et al., 2021). Tuttavia, l’American Heart Association non ha ancora considerato le esperienze di traumi precoci come fattore di rischio per l’insorgenza delle malattie cardiovascolari (Levine, et al., 2021).

La letteratura ha dimostrato che l’aver vissuto esperienze traumatiche nell’infanzia aumenta il rischio di sviluppare malattie mentali, ma anche l’insorgenza di malattie fisiche, come ad esempio quelle gastrointestinali, tumorali, autoimmuni e dermatologiche (Goodwin et al., 2003; Dube et al., 2009; Simonic et al., 2010).

Wilkins e colleghi (2017) hanno mostrato che gli individui che avevano vissuto traumi come abusi sessuali o fisici durante l’infanzia avevano un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari. Studi riguardo le esperienze avverse nell’infanzia (ACE), come la trascuratezza o conflitti familiari, hanno suggerito associazioni altamente significative tra queste esperienze avverse e malattie cardiovascolari ischemiche, dimostrando quindi la rilevanza di questi fattori psicologici rispetto ad altri fattori di rischio (Dong et al., 2004).

Anche l’età in cui si è vissuto il trauma (Suglia et al., 2018) e il genere (Thurston et al., 2014) sembrano delinearsi come fattori importanti nello sviluppo di malattie cardiovascolari; in particolare l’essere donna sembra avere un valore predittivo maggiore rispetto all’essere uomo (Garad et al., 2017).

Sulla base della letteratura presente, uno studio di Galli e colleghi (2021) ha studiato l’associazione tra esperienze traumatiche e l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Utilizzando uno strumento psicodiagnostico, la Traumatic Experience Checklist (TEC) (Nijenhuis et al., 2002), che descrive in dettaglio il tipo di evento traumatico e l’età del soggetto al momento del trauma, sono stati messi a confronto due gruppi di soggetti. Un gruppo di controllo, reclutato dalla popolazione generale, prevedeva soggetti senza alcuna diagnosi, o per lo meno non recente, di malattia cardiovascolare. Un secondo gruppo sperimentale invece era composto da pazienti con una malattia cardiovascolare entrati nell’Unità di Cardiologia dell’Ospedale San Paolo di Milano.

I risultati hanno dimostrato che i pazienti con malattie cardiovascolari hanno riportato un numero maggiore di traumi nei primi 10 anni di vita rispetto al gruppo di controllo. I traumi maggiormente esperiti erano la trascuratezza emotiva, l’abuso emotivo e l’abuso fisico a partire dalla prima infanzia (nei primi 10 anni di vita) fino all’adolescenza, e ciò sembrava essere associato alla presenza di una malattia cardiovascolare. I traumi infantili vissuti dai soggetti con malattie cardiovascolari non solo si sono mostrati maggiori in termini di frequenza, ma hanno anche avuto un impatto emotivo più forte.

Questi risultati confermano così l’ipotesi che maggiori episodi di violenza fisica o trascuratezza emotiva nei primi anni di vita possano essere fattori di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari in età adulta, confermando i risultati precedenti presenti in letteratura (Suglia et al., 2015; Thurston, et al., 2017; Jakubowski et al., 2018). La salute cardiovascolare, inoltre, sembra essere influenzata dall’abuso fisico anche per ulteriori vie, infatti la violenza è spesso associata a depressione, aggressività, uso di sostanze o ridotta attività fisica, tutti importanti fattori di rischio per le malattie cardiovascolari (Suglia et al., 2015).

Per quanto concerne le differenze di genere, le donne con malattie cardiovascolari hanno riportato maggiori esperienze traumatiche, rispetto agli uomini del medesimo gruppo, confermando risultati ottenuti da studi precedenti (Garad et al., 2017). Infatti, le donne, rispetto agli uomini, potrebbero essere maggiormente vulnerabili allo stress provocato da tali eventi, e ciò avrebbe un impatto maggiore sullo sviluppo di malattie cardiovascolari (Rørholm Pedersen et al., 2017).

L’aver vissuto esperienze traumatiche durante l’infanzia nelle donne, infatti, è stato associato a specifici fattori di rischio quali una diminuzione della variabilità della frequenza cardiaca (Stone et al., 2018), un aumento della reattività allo stress neuroendocrino (Heim et al., 2002), un aumento dell’attività infiammatoria e immunitaria (Altemus et al., 2003) e alti livelli di una molecola di sintesi epatica, la proteina C-reattiva (PCR) (Matthews et al., 2006).

Un altro importante mediatore tra trauma e patologie cardiovascolari potrebbe essere la presenza di una patologia mentale. In particolare emerge una relazione tra un’esperienza infantile avversa (ACE) e lo sviluppo di un disturbo mentale quale il Disturbo da Stress Post-Traumatico, i Disturbi dell’Umore e i Disturbi d’Ansia, che sembrano aumentare il rischio di malattie cardiovascolari (Galli et al., 2021).

Riassumendo, quindi, lo studio presentato offre una conferma per l’associazione tra esperienze traumatiche infantili e il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari in età adulta. In particolare, i tipi di traumi maggiormente associati alle malattie cardiovascolari sono stati la trascuratezza emotiva, l’abuso emotivo e fisico, le molestie e gli abusi sessuali, soprattutto se subiti prima dei 18 anni di età. Questi risultati, insieme alla consistente letteratura in materia, dovrebbero spingere a promuovere attività di intervento preventivo e tempestivo, soprattutto con i bambini e gli adolescenti vittime di trascuratezza, abusi e maltrattamenti. Inoltre, nella pratica clinica, potrebbe essere utile promuovere un approccio integrato, soprattutto nella presa in carico di un paziente con malattie cardiovascolari. Se i traumi infantili, così come altri fattori psicologici e comportamentali, possono essere considerati fattori di rischio per l’insorgenza della malattia, è anche vero che possono avere un peso importante nel determinare l’esito del processo riabilitativo, delineando il coinvolgimento degli psicologi clinici in un team multidisciplinare che sia in grado di trattare il paziente nel suo complesso (Levine et al., 2021).

La Tecnologia del Comportamento fra prassi terapeutica e riflessione filosofica

Quando si parla di ‘tecniche di modificazione del comportamento’ si evocano inevitabilmente una serie di preconcetti. Una critica che spesso si muove a tutta la tecnologia comportamentista riguarda il fatto che essa non tiene conto della coscienza degli individui su cui viene esercitata

 

Quando si parla di ‘tecniche di modificazione del comportamento’ si evocano inevitabilmente una serie di preconcetti che vanno dalla coercizione a ciò che attualmente viene chiamata ‘Psicologia oscura’. È ingenuo pensare che le conoscenze e le tecniche psicologiche siano esenti da applicazioni in ambiti quali i ‘processi di normalizzazione’, il marketing, l’ingegneria sociale, ecc, ma ciononostante il punto di vista che il seguente articolo vuole offrire è che l’approccio ‘comportamentista’ è di per sé uno strumento neutro, la cui applicazione consapevole può avere risvolti etici molto rilevanti.

Una critica che spesso si muove a tutta la ‘tecnologia’ comportamentista riguarda il fatto che essa non tiene conto della coscienza degli individui su cui viene esercitata (il comportamentismo nei suoi aspetti più radicali non solo non contempla minimamente il concetto di coscienza, ma tende pure ad ignorare quello di mente e di processo cognitivo), tale critica è espressa da chi, seppur in modo inconscio, adotta una visione del mondo trascendentalista che considera il comportamento come governato da automatismi inconsci, dalla componente meccanica dell’uomo, di quella natura considerata appunto “inferiore” preda del determinismo biologico.

Questo assunto perde di efficacia quando si contestualizza la modificazione del comportamento all’interno delle prassi terapeutiche, riabilitative ed educative di soggetti affetti da deficit cognitivi e intellettivi, quali ad esempio i pazienti psichiatrici cronici e le persone autistiche.

Quando si parla di questo tipo di soggetti fragili si deve tener conto che l’interazione educativa è ben diversa dall’alleanza terapeutica che avviene in un contesto psicoterapico. Quando gli obiettivi da raggiungere riguardano le autonomie (vestirsi, prendere i mezzi, ecc) o le più basilari forme di interazione sociali, gli strumenti del comportamentismo risultano essere di incomparabile efficacia (Arkin et al, 1976).

1. Traslare dal linguaggio al comportamento

La prassi educativa non è un mero esercizio di tecniche da impartire ad un soggetto passivo, è piuttosto un tentativo di connessione, una particolare forma di comunicazione che deve ricercare il suo vocabolario e la sua sintassi al di fuori del linguaggio ordinario.

Si deve pensare ad un modello che impartisca degli apprendimenti impliciti e non più espliciti, quindi in cui la comunicazione verbale sia sottodimensionata o talvolta limitata.

Si pensi alle tecniche del ‘prompting’ e del ‘fading’ spesso usate in successione, effettuano questo slittamento dai processi di apprendimento verbale a quelli comportamentali. La fase del prompting consiste nell’introdurre degli stimoli aggiuntivi (promt), sotto forma di aiuti forniti nel momento in cui dovrebbe verificarsi il comportamento voluto. Tali stimoli possono essere suggerimenti verbali, indicazioni gestuali o aiuto fisico.

Sebbene in questa fase l’elemento verbale sia presente, non lo si deve considerare tale: nella teoria degli atti linguistici di Jhon L. Austin vengono definite frasi performative quegli enunciati che non sono normalmente concepiti come ‘dire qualcosa’, ma costituiscono l’esecuzione di un azione, come ad esempio:

(E. a) <<Sì (prendo questa donna come mia legittima sposa)>> – pronunciata nel corso di una cerimonia nuziale

(E. b) <<Battezzo questa nave Queen Elisabeth>> – pronunciato quando si rompe la bottiglia contro la prua

(E. c) <<Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello>> – quando ricorre in un testamento

(E. d) <<Scommetto mezzo scellino che domani pioverà>> (Austin, 2010).

Come si può notare dagli esempi, questi enunciati non sono un resoconto vero o falso di qualcosa, ma sono enunciati che “dicendo qualcosa fanno qualcosa”; stessa cosa vale per i prompt comportamentisti, i quali devono essere considerati alla stregua di veri e propri ‘atti’, o per dirla con la terminologia usata da Jhon R. Searle, nella sua classificazione, degli ‘atti linguistici direttivi’, ovvero degli enunciati mediante cui il locutore vuole che l’interlocutore compia, o non compia, una certa azione. Considerati quindi i prompt come atti linguistici direttivi possiamo ritenerli di conseguenza assimilabili al comportamento.

Se già nel prompting si può notare un allontanamento dal piano verbale, nel fading ciò diviene ancora più evidente. Questa strategia si adopera quando gli stimoli aggiuntivi tendono a provocare una dipendenza all’aiuto, quindi si attua una progressiva diminuzione dei prompt.

Il fading applicato all’aiuto verbale consiste nella riduzione del numero di parole o nella modulazione di alcuni tratti espressivi, come volume e tono con cui gli stimoli vengono pronunciati; mentre nel caso di prompt fisici, se consideriamo l’esempio in cui un operatore aiuta il soggetto a vestirsi guidando con le sue mani le mani del soggetto, il fading può configurarsi in questi quattro step (Meazzini, Fagetti, 1985):

  1. ridurre gradualmente l’area del corpo toccata (ad esempio: se all’inizio il soggetto veniva toccato con tutta la mano, in un secondo momento lo si tocca solo con alcune dita, poi con un solo dito ed infine con la punta del dito);
  2. ridurre gradualmente la pressione esercitata sulla parte del corpo del soggetto implicata nella prima fase del prompt;
  3. spostare gradualmente la presa dalla zona iniziale del corpo del soggetto a zone via via più distanti;
  4. usare all’inizio del trattamento tutte e tre le diverse categorie di prompt ed eliminare per primi i prompt fisici, in quanto quelli verbali e gestuali risultano più facilmente riducibili.

Le tecniche summenzionate stabiliscono un sistema di apprendimento basato su una comunicazione prettamente ‘comportamentale’.

2. Problemi di codice

La prassi terapeutico-riabilitativa insegna la necessità di trovare una modalità comunicativa con cui connettersi all’utente. Questo processo, se si affronta da un punto di vista fenomenologico, si comprende che nel vissuto del soggetto esistono differenti livelli, ciascuno con un codice, con una modalità comunicativa.

Negli ultimi decenni ci sono stati cenni di apertura ad una visione meno cognicentrica del vissuto (per ‘cognicentrismo’ Stanislav Grof intende la tendenza della Psichiatria ad occuparsi solo delle esperienze e delle osservazioni provenienti dallo stato ordinario di coscienza ignorando i differenti stati di coscienza e i fenomeni ad essi relativi). Concetti di ‘intelligenza emotiva’, empatia, autocoscienza emozionale, ‘ascolto attivo’ sono oramai metabolizzati dalle prassi psico-educative e sono temi di discussione nelle attività laboratoriali nei contesti psichiatrici, sintomo che il lavoro sul piano emotivo è imprescindibile nel processo terapeutico.

In modo simile ci si è accorti di quanto siano fondamentali le attività di espressività corporea nei contesti di cura dei disturbi del comportamento alimentare (Dalla Ragione, Mencarelli, 2016).

Ma nonostante ciò manca una visione multilivello del vissuto, per cui anche questi approcci non cognicentrici rischiano di essere fagocitati in quella confusione definibile come ‘fenomenologia ingenua’.

Un concetto che mi è tornato particolarmente utile, durante i miei laboratori nei contesti riabilitativi, e in quelli formativi, è quello di ‘surcodifica’ (Deleuze, Guattari, 2003) preso in prestito dai filosofi post-strutturalisti francesi Gilles Deleuze e Felix Guattari. Una surcodifica è la creazione o/e l’utilizzo di un livello di astrazione superiore (con relativo codice) per tradurre (decodificare) un qualcosa proveniente da un piano di maggiore concretezza. Ad esempio quando parliamo di emozioni stiamo surcodificando l’emotivo; stiamo in realtà parlando di muti fenomeni viscerali che quasi nulla hanno a che fare con  le parole con cui vengono designati. Come direbbe Alfred Korzybski: “la mappa non è il territorio”.

Contestualizzando quanto detto in ambito psico-educativo, con i pazienti con deficit cognitivi gravi, l’uso di comunicazioni surcodificate porta più problemi che soluzioni. Il rimprovero, il giudizio, la spiegazione sono quelle surcodifiche dannose che andrebbero sostituite con la tecnologia comportamentista. Sono surcodifiche in quanto vissuti provenienti dal piano verbale, inseriti artificiosamente nella sfera del comportamento.

Ora dovrebbe essere più comprensibile il progetto di slittamento ‘dal linguaggio al comportamento’ accennato nel paragrafo precedente, e se con il prompting e il fading (specie quando sono combinati) si delinea bene il detto slittamento, è con la tecnica del modeling che questo passaggio diventa definitivo.

Il modeling ad esempio, come tutti gli apprendimenti imitativi, nel quadro teorico che qui viene esplicitato, risulta essere un intervento di sottocodifica: l’operatore e il soggetto si connettono mediante la comunicazione di comportamenti da imitare. Ciò che viene trasmesso in genere al soggetto è uno schema motorio finalizzato, che egli deve riprodurre. Ma ciò può riguardare anche comportamenti complessi, come ad esempio l’acquisto di un biglietto del tram.

Il modeling consiste nella “promozione di esperienze di apprendimento attraverso l’osservazione del comportamento di un soggetto che funge da modello” (Caracciolo, Rovetto, 1989).

In altri termini il comportamento è il codice della comunicazione fra operatore e soggetto. È il medio con cui si connettono e si comprendono; è nello stesso tempo l’oggetto dell’apprendimento e lo strumento attraverso cui avviene.

3. Le conseguenze del ‘surcodificare’

Se si adotta l’approccio della modificazione del comportamento, l’operatore o l’equipe deve essere in grado di controllare e modulare il proprio comportamento in modo da intervenire con il giusto codice nel giusto ambito di codifica. Gli strumenti della tecnologia comportamentista, come ogni dispositivo psicotecnico richiedono una formazione ed una pratica approfondita, che molto spesso non si possiede, o che non tutti nelle équipe multidisciplinari posseggono. Se la conoscenza delle prassi basate sulla modificazione del comportamento può sembrare scontato in alcuni ambiti, non lo è in altri. Si pensi alle strutture di riabilitazione psichiatrica con un’utenza eterogenea, in cui è spesso sono presenti utenti con disabilità intellettiva in comorbilità con la patologia psichiatrica, utenza che richiede un trattamento non solo personalizzato ma anche relativo ad un ambito di codifica sul quale spesso non si è abituati a lavorare. Si pensi altresì ai comportamenti problematici che potrebbe presentare la suddetta utenza, su cui se l’équipe non interviene con le opportune tecniche di modificazione del comportamento, produrrà sicuramente prassi di intervento basate su comportamenti reattivi, impulsivi, di frustrazione, contagio emotivo, autoritarismo, coercizione e quant’altro. In sintesi in questo particolare ambito se si dovesse perdere il focus del comportamento si genereranno delle surcodifiche.

4. La surcodifica dell’etichettamento

Il rimprovero è una surcodifica in quanto avviene nel linguaggio e difficilmente ha un impatto positivo sul comportamento. L’utente psichiatrico sorpreso in comportamenti problematici, siano essi aggressivi o autolesivi, quando viene rimproverato sistematicamente matura un identificazione con colui che è disubbidiente, fallace, patologico e quant’altro.

Questo meccanismo di identificazione è spiegato dalla teoria dell’etichettamento (Labeling Theory) la quale pur nascendo come una teoria sociologica della devianza , risulta essere predittiva di ciò che accade nei contesti psichiatrici.

Secondo i teorici dell’etichettamento quando la reputazione di un individuo diventa negativa si crea una forma di etichettamento morale da parte della comunità (altri pazienti) e delle istituzioni (équipe sanitaria) che produce un circolo vizioso: diffidenza, disistima, stigmatizzazione della collettività ristrutturano negativamente la percezione di sé. Ciò è ancora più pericoloso per i pazienti psichiatrici la cui condizione di stigma sociale e di scarsa autostima è già parte del loro vissuto regresso e non fa che essere confermata dall’interazione surcodificata con gli operatori.

Il rimprovero e la critica sistematica hanno l’effetto contrario rispetto alle motivazioni che le hanno generate, spingendo l’utente ad agire in conformità con la percezione di sé che in quel contesto si va via via costruendo.

Ci sarebbe tanto da dire riguardo alla costruzione sociale dell’identità del paziente psichiatrico, ma non è questo contesto opportuno; nonostante ciò credo che sia interessante sottolineare come il discorso sull’etichettamento e le modalità basate sulle teorie ingenue degli operatori si innesti negli studi sulla profezia che si auto-adempie della Psicologia sociale: in un esperimento controllato, Rosental e Jacobson (1968) somministrarono un test di intelligenza a tutti gli allievi di una scuola elementare, riferendo quindi agli insegnanti che alcuni di loro avevano riportato dei risultati strabilianti e che si sarebbero dimostrati delle “promesse” nell’anno scolastico successivo. Ciò non era vero in quanto le “promesse” erano state sorteggiate a caso. Dopo aver creato delle aspettative negli insegnanti i due sperimentatori monitorarono il successivo anno scolastico al termine del quale somministrarono un effettivo test di intelligenza. I risultati mostrarono che la profezia si era auto confermata in quanto gli studenti che erano stati etichettati come delle “promesse” mostrarono in modo significativo dei punteggi maggiori rispetto agli altri. Le cause di ciò, a detta dei due ricercatori, sono da ricercare nei meccanismi retroattivi che si instauravano fra il modo con cui i “talentuosi” venivano trattati dai docenti (etichettamento) e la successiva costruzione della loro percezione di sé.

5. Una parentesi anti-psichiatrica

Istituzioni disciplinari (Deleuze, 1990), processi di normalizzazione, controllo, repressione, pratiche, tecniche, sono termini di una nomenclatura purtroppo non più in uso. Ciò vuol dire che se non si parla più, non si riflette più sui concetti cardine che hanno costituito tutta la riflessione sul bio-potere e sull’anti-psichiatria, si è scelto di accettarne gli assunti e le conseguenze. Si è scelto di militare per il gruppo dominante, forse convinti, come sosteneva Basaglia, che da questa “guerra”

si credeva di poter costruire un mondo che fosse diverso da quello contro cui si era lottato, e ci si preparava a svolgere un ruolo positivo, qualunque esso fosse, nell’edificazione di una nuova società (Basaglia, Basaglia Ongaro, 1975).

Ovviamente solo i più attenti hanno operato questa scelta, i più la vivono inconsapevolmente esercitando prassi a loro preesistenti senza che esse siano vagliate con spirito critico.

E a cosa portano queste prassi? La succitata opera di Basaglia e tutta la corrente da lui incarnata sostiene che

il manicomio non è l’ospedale per chi soffre di disturbi mentali, ma il luogo di contenimento di certe devianze di comportamento degli appartenenti alla classe subalterna

e che lo psichiatra in quanto tecnico\intellettuale è colui il quale mette a disposizione di un potere di contenimento e normalizzazione, gli strumenti e le tecniche per attuare tutto ciò.

La lucidità dell’analisi di Basaglia è tangibile nella diffidenza con cui vede il sorgere del mutamento istituzionale (che proprio dal suo operato prendeva le mosse) che ha in quel periodo portato alla chiusura delle strutture manicomiali:

Riformatori dei codici da un lato, frenologi e specialisti dall’altro, hanno di volta in volta stabilito nuovi regolamenti, classificazioni, teorie, suddivisioni che lasciavano ogni volta immutato il rapporto fra la società «civile» e gli elementi che ne vengono esclusi. Ma, insieme, hanno anche lasciata immutata la natura dell’esclusione fondata sulla violenza, la mortificazione, la totale distruzione dell’uomo istituzionalizzato, dimostrando che la finalità effettiva degli istituti di rieducazione e di cura resta sempre la soppressione di chi dovrebbe essere rieducato e curato. (Basaglia, Basaglia Ongaro, 1975)

Sostituendo le istituzioni (non più i manicomi ma i centri di riabilitazione psichiatrica) si è cambiato solo l’esecutore di questa violenza, non più lo stato, messo a nudo nei suoi intenti dal movimento anti-psichiatrico, ma il privato sociale che in piena logica di “microfisica del potere”, attraverso la massimizzazione del profitto, la soppressione dei fattori igienici del lavoro (Herzberg), la mancata prevenzione del Burnout, la scelta di prassi istituzionalizzanti e non realmente riabilitanti, ecc.. si è reso responsabile di quelli che Basaglia chiama i “crimini di pace”.

6. La tecnica come strumento di liberazione

Purtroppo la nostra attualità ci ha abituato, quasi desensibilizzato alla violenza in ambito ‘disciplinare’. Notizie di violenze fisiche su psichiatrici, anziani, carcerati, ma anche bambini negli asili e adolescenti nelle comunità per minori, sembrano essere all’ordine del giorno. Tali notizie, per chi lavora nell’ambito assistenziale nascondono una cruda verità, accettata per lo più inconsapevolmente: la violenza è stata istituzionalizzata. Ma per violenza qui non considero solo quella fisica delle percosse, ma anche l’isolamento, la segregazione, lo stigma, e le pratiche di normalizzazione.

Nel testo di Basaglia appena citato la tecnologia comportamentista è vista in modo estremamente critico, ma lo stesso Basaglia ammette che qualsiasi tecnica può essere adoperata come uno strumento di liberazione dall’oppressione:

Il tecnico che vuole agire a difesa e a tutela di chi chiede il suo aiuto e la sua opera può usare gli strumenti che «la scienza» gli offre solo se riesce a farli diventare mezzi di liberazione e non di oppressione. La scienza – così come la legge – nasce sempre come esigenza di tutela e di liberazione dell’uomo, ma è facile si traduca in un nuovo strumento di oppressione. La tecnica – così come la legge – può dunque essere usata come strumento di liberazione se riusciamo ogni volta a comprendere i bisogni reali cui si deve rispondere, evitando di presumere o di accettare che la scienza e la legge servano a rispondere ai bisogni dei tecnici o della società che li delega. L’ospedale è costruito per la cura dei malati e non per dare un ruolo al gruppo curante o difendere la società dal malato.

7. Il carico emotivo dell’operatore e la Token Economy

A tal riguardo considero la ‘modificazione del comportamento’ uno strumento che può prevenire la violenza sui pazienti. Credo fermamente che una grossa componente di violenza sia causata dall’interazione surcodificata: ramanzine, rimproveri, moralismo, giudizi sul comportamento del paziente creano differenti punti di conflitto sul piano dell’interazione comunicativa.

La comunicazione verbale è di per sé problematica: nel contesto psichiatrico si ha spesso a che fare con la comunicazione patologica, e se l’intervento  prevede solo un’interazione verbale, l’operatore corre sempre il rischio di essere fagocitato nei meccanismi di simmetria o in complementarietà (Watzlawick) con il paziente; quindi se l’interazione non è opportunamente gestita, attraverso tecniche comunicative quali la ‘comunicazione non violenta’ (Rosemberg) o la ‘comunicazione assertiva’, c’è il pericolo di dover far uso all’autorità del ruolo (con tutte le conseguenze che essa comporta) per intervenire, almeno in parte su tali dinamiche.

In linea con la teoria delle emozioni di James-Lange il verbale non solo è espressione della rabbia, ma può essere anche la causa di una sua escalation; l’interazione verbale fa spesso da contenitore al carico emotivo dell’operatore, sia se esso è esterno al contesto lavorativo, sia se è causato dalla frustrazione del non riuscire a migliorare il comportamento del paziente, o infine se è prodotto dalla mancanza dei già menzionati fattori igienici del contesto lavorativo, come stipendio, accuratezza del ruolo e del mansionario, clima di lavoro favorevole ecc..

Se si interviene con le tecniche di modificazione del comportamento, si modula dapprima l’espressione del proprio agire verso un preciso campo di codifica. In altri termini ci si concentra sul comportamento mettendo fra parentesi la surcodifica dei carichi emotivi preesistenti o attuali che inevitabilmente altererebbero l’interazione. In questo modo si riducono le possibilità di innescare conflitti e di compiere violenza nei confronti del paziente.

Vorrei ora soffermarmi sulla token economy, una strategia che si basa sul rinforzo positivo e consiste nell’erogare rinforzatori simbolici (i gettoni/token) ogni volta che il comportamento desiderato viene emesso, fino a quando non si arriva a un numero precedentemente stabilito di token, che darà accesso al rinforzatore vero e proprio, ossia un premio che per la sua caratteristica di desiderabilità riesce a motivare il processo di implementazione dei nuovi comportamenti.

Qual è l’aspetto interessante di questa strategia? Sicuramente il fatto che l’operatore non è più chiamato a convincere il soggetto, a cercare di modificarne i suoi atteggiamenti, a giudicare il suo comportamento, ma è chiamato ad applicare una regola di scambio neutra.

La tecnica non deve essere accompagnata né da rimproveri, né da spiegazioni. L’operatore deve fare emergere solo la semplicità dei nessi causali. Dal canto suo il soggetto non si sentirà giudicato, non subirà il carico emotivo dell’operatore, non dovrà assumere particolari atteggiamenti estranei al suo vissuto per essere accettato, in quanto la sua inclusione non è messa in discussione; egli non sarà né sorvegliato, né punito.

La Token Economy ha un potenziale enorme. Appiana i conflitti e non ne genera di nuovi. Comunica al paziente una richiesta chiara, che da lui, nel processo riabilitativo, è richiesto solo l’apprendimento e l’implementazione di comportamenti che lo rendano più autonomo e meglio inserito. Dirama tutta quella confusione che riguarda il conformarsi, il modificare gli atteggiamenti, il compiacere l’équipe, l’essere accettato o il non venir etichettato; ovvero tutto ciò che fa parte dell’interazione surcodificata.

La metafora economica che sorregge questa tecnica non deve generare pregiudizio, essa in realtà permette uno slittamento di codice in un piano inferiore, ossia una sottocodifica. Già il linguista De Saussure considerava lo scambio dei termini della langue assimilabili a quelli del denaro, in quanto devono potersi scambiare con un bene reale e devono poter essere messi in rapporto con gli altri termini del proprio sistema (Baudrillard, 2009). La stessa metafora economica possiede nella sua struttura la possibilità di operare lo slittamento dal linguaggio al comportamento.

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Tecnologia del comportamento fra prassi terapeutica e riflessione filosofica - TAB

 

7. Il ruolo

Per me, che si parli di psicologo o di schizofrenico, di maniaco o di psichiatra è la medesima cosa: sono tanti i ruoli, all’interno di un manicomio, che non si sa più chi è il sano o il malato. Io direi che una della condizioni del nostro lavoro fu che la nostra unione non scaturiva dalla tecnicizzazione, ma dalla finalità politica che univa tutti. Essere psicologo, psichiatra, terapeuta occupazionale, ecc. ed essere internato era la medesima cosa perché, quando ci univamo in assemblea per discutere, tutti cercavano di dare il loro contributo per un cambiamento. Noi capimmo, per esempio, che un folle era molto più terapeuta di uno psichiatra, e allora lo psicologo e lo psichiatra erano messi in discussione (Basaglia, Giannichedda, 2018)

per comprendere la pericolosità del ruolo come surcodifica è utile riflettere sull’esperimento carcerario di Zimbardo (1971):

Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione.

I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati e dall’altro un certo disappunto da parte delle guardie.

Oltre alle conclusioni sulla deindividuazione, teoria per cui è stato ideato l’esperimento, si dovrebbe riflettere anche sul concetto di ruolo. Il ruolo è quella ‘maschera sociale’ caratterizzata da modalità comportamentali più o meno predefinite, funzionali allo svolgimento di un compito.

Purtroppo però, possiede un risvolto negativo: il ruolo stabilisce una interazione impari, comunica implicitamente una gerarchia, surcodifica l’incontro fra due Leib (Leib è il termine tedesco che in fenomenologia indica il ‘corpo vivo’, è distinto dal termine Körper, in quanto animato dai vissuti).

Le guardie dell’esperimento carcerario di Standford sicuramente erano condizionate dal contesto e dalle dinamiche gruppali, ma ciò che direzionava tale condizionamento era il loro ruolo di guardie. In questo modo è facile capire tutto il discorso dell’antipsichiatria sul ruolo, in quanto la classe dei sanitari, o dei terapeutici non si è mai realmente distanziata dalle modalità comportamentali delle guardie che secoli fa contenevano indistintamente le forme di devianza, sia quelle psicopatologiche che quelle criminali.

I tecnici della salute mentale interponendo fra loro e i pazienti il medio del ruolo esercitano l’autorità, istituzionalizzano la violenza; nello schema fornitoci dall’antipsichiatria appaiono come i gangli di un potere periferico che ha introiettato nelle loro prassi le direttive di un potere centrale atte al contenimento delle istanze che nella società minano l’ordine precostituito.

Conclusioni

La tecnologia comportamentista non è da adottare come paradigma entro cui comprendere ed operare nei contesti di deficit intellettivi; è da considerare invece come uno strumento ‘psicotecnico’, un insieme di tecniche che in modo pragmatico si adoperano in virtù dei risultati che esse producono. Nel quadro teorico appena delineato, un risultato rilevante è lo slittamento (sottocodifica) da un piano di interazione verbale\mentale al piano del comportamento, dell’azione e della corporeità. Ed è proprio per arrivare alla corporeità che si devono eliminare tutte le surcodifiche, il giudizio, l’etichettamento, il ruolo ecc…; queste sono da considerare barriere fra noi e l’altro, sono strutture mentali che condizionano l’interazione.

Il corpo è il destinatario degli apprendimenti, è lo strumento di connessione, è il testimone muto di ogni particolare modo di ‘stare al mondo’; ed è al corpo che si vuole arrivare con le tecniche sopra descritte.

È necessario che il nostro pensiero scientifico (…) si ricollochi sul terreno del mondo sensibile per in nostro corpo, non quel corpo possibile che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni. Bisogna che insieme al mio corpo si risveglino i corpi associati, gli altri, che non sono  semplicemente i miei congeneri, come dice la zoologia, ma che mi abitano, che io abito, insieme ai quali abito un solo Essere effettuale presente, come mai animale ha abitato gli animali della sua specie, il suo territorio o il suo ambiente (Merleau-Ponty, 1989)

 

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