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Sonno e sogni: gli effetti del lockdown sull’attività onirica

Uno studio di Gorgoni e colleghi (2021) ha analizzato i cambiamenti nell’esperienza dei sogni durante il lockdown, rispetto al periodo pre-lockdown in un campione italiano.

 

Nel mese di Aprile del 2020, in pieno lockdown, sono emersi i primi risultati inerenti il sonno e i cambiamenti che esso ha mostrato durante la pandemia di COVID-19 (Altena et al., 2020).

Questi risultati hanno dimostrato che la pandemia ha avuto sia conseguenze negative che positive sul sonno; Infatti, se da un lato la qualità del sonno è stata scarsa ed è stato presente un aumento dei disturbi del sonno (Blume et al., 2020), d’altra parte, è aumentato il tempo trascorso a letto e la durata del sonno (Li et al., 2020; Wright Jr et al., 2020).

In generale il lockdown ha portato soprattutto a un modello di sonno caratterizzato da una qualità più scadente e da una durata maggiore (Gorgoni et al., 2021).

Le caratteristiche dei sogni durante il lockdown

Uno studio italiano (Iorio et al., 2020) che ha analizzato il contenuto dei sogni durante la pandemia, ha mostrato che le donne, rispetto agli uomini, hanno riportato una maggiore intensità emotiva con predominanza di emozioni negative e una maggiore frequenza del richiamo dei sogni. Con ‘frequenza del richiamo dei sogni‘ si intende la frequenza con la quale una persona riesce a richiamare/ricordare i propri sogni in un periodo di due settimane. Tra i contenuti riportati, il 20% era esplicitamente legato al COVID-19, e i partecipanti che avevano un conoscente infettato o deceduto per il virus presentavano un’ancora maggiore intensità emotiva. I sogni, inoltre, erano spesso ambientati in un luogo esterno ed erano caratterizzati da emozioni negative.

Un modo per interpretare l’aumento dell’attività onirica è l’Ipotesi della Continuità, secondo la quale i sogni riflettono l’esperienza di veglia e, in particolare, le caratteristiche emotive dell’attività mentale quotidiana (Schredl, 2006). Diversi risultati, inoltre, supportano l’idea che i sogni possano avere un ruolo nella memoria emotiva e nei processi di regolazione emotiva (Scarpelli et al., 2019). Si potrebbe per cui ipotizzare che un’esperienza intensa ed emotivamente rilevante come il lockdown dovrebbe avere un impatto diretto sull’attività onirica, in particolare per quanto riguarda i suoi aspetti emotivi.

Un’altra ipotesi è che il cambiamento nell’attività onirica potrebbe essere dovuto al fatto che, una maggiore durata del sonno, un’elevata frammentazione o un elevato arousal, che sembrano caratterizzare il sonno durante la quarantena, sono associati ad un maggiore richiamo dei sogni (Schredl & Reinhar, 2008; Van Wyk et al., 2019). Queste due ipotesi non si escludono a vicenda.

Un confronto sui sogni prima e durante il lockdown

Uno studio di Gorgoni e colleghi (2021) ha analizzato i cambiamenti nell’esperienza onirica durante il lockdown, rispetto al periodo pre-lockdown in un campione italiano, tenendo in considerazione il ruolo predittivo di alcune variabili come ad esempio il tono emotivo del vissuto quotidiano, le variabili cliniche e le caratteristiche del sonno.

I risultati mostrano che il 59,1% dei partecipanti ha riportato una scarsa qualità del sonno, il 63,8% ha sperimentato sintomi notturni simili al PTSD, il 71,8% ha riportato ansia di stato, il 67,6% ha presentato ansia di tratto, e il 35,5% sintomi depressivi. Vale la pena notare che studi precedenti sulla popolazione italiana indicavano la presenza di difficoltà di sonno nel 30% dei soggetti (Léger et al., 2018) e di sintomi d’ansia nel 10,3% (Warner et al., 2006). Quest’indagine, rispetto a lavori precedenti, è stata condotta nella fase finale del lockdown, e per questo motivo i livelli di disturbo del sonno e le difficoltà psicologiche riportati appaiono ancora più elevati.

I risultati dimostrano inoltre un aumento della frequenza del richiamo dei sogni, dell’intensità  emotiva, della vividezza, della bizzarria e della durata dei sogni stessi. In particolare, le variabili maggiormente predittive di questi cambiamenti erano l’età ridotta, i sintomi depressivi, l’essere nel nord Italia, il vivere da soli durante il blocco e l’essere donna, confermando così anche l’ipotesi dell’influenza del genere sui sogni (Settineri et al., 2019).

Le emozioni negative erano particolarmente aumentate nei sogni durante il lockdown rispetto al periodo precedente, e maggiormente nelle donne, nei partecipanti con scarsa qualità del sonno, in quelli con disturbo dei comportamenti notturni e con sintomi depressivi.

L ‘aumento osservato di emozioni negative nei sogni, con una predominanza di paura, è coerente con i dati esistenti che indicano una diffusione di emozioni negative (Schredl & Bulkeley, 2020), caratterizzati da contenuti legati all’ansia e alla pandemia (MacKay & DeCicco, 2020). È stata confermata l’ipotesi che l’esperienza emotiva provata nella quotidianità e il cambiamento nei modelli del sonno influenzano l’attività onirica. L’attività onirica e la regolazione emotiva, infatti, condividono processi neurobiologici simili, suggerendo l’esistenza di un continuum tra la veglia e l’attività del sonno REM (Vallat et al., 2018).

Secondo l’ipotesi della salienza (Cohen & MacNeilage, 1974) l’impatto soggettivo dei sogni rappresenta un determinante della frequenza di richiamo dei sogni. Da questo punto di vista, la maggiore intensità dei sogni durante l’isolamento può aver determinato la maggiore frequenza di richiamo dei sogni. D’altra parte, dovrebbe essere considerato anche il punto di vista opposto: un maggior numero di sogni associati a un sonno più lungo e disturbato può portare a una percezione soggettiva di maggiori proprietà qualitative dei sogni.

I risultati ottenuti dallo studio sono coerenti sia con l’Ipotesi di Continuità che con l’influenza del cambiamento delle caratteristiche del sonno sull’attività onirica dei partecipanti (Bottary et al., 2020). I cambiamenti avvenuti nella vita quotidiana e l’esperienza emotiva vissuta possono aver influenzato la qualità e la quantità dei sogni, ma una maggiore durata del sonno associata a un orario più flessibile e una ridotta qualità del sonno possono aver rappresentato un terreno fertile per un maggiore richiamo dei sogni (Li et al., 2020).

Per concludere, il lockdown ha avuto un impatto significativo sulla vita, influenzando fortemente le abitudini quotidiane, le condizioni socio-economiche, le relazioni, le emozioni, la salute fisica e mentale, i cicli di veglia e di sonno. Grazie ai risultati riportati, si può dire che anche l’attività onirica è stata fortemente influenzata dal lockdown.

 

Il Progetto Baobab: il primo studio al mondo sui familiari e figli dei malati di SLA – Recensione

Il Progetto Baobab vuole essere un riconoscimento della sofferenza vissuta nella famiglia che circonda le persone affette da SLA. Una patologia che mette a dura prova non solo il malato, ma anche i suoi cari, ed in particolare i figli che da piccoli si trovano a doversi confrontare con una realtà tanto più grande di loro.

 

Generalmente i genitori sono per i bambini quello che c’è di più vicino ai supereroi. Hanno la soluzione a tutti i loro problemi. Sanno ogni cosa. Sono la fonte principale di protezione e soddisfazione dei loro bisogni. Durante le prime fasi di vita, il rapporto esistente tra genitore e figlio pone le basi per lo sviluppo di un modello di attaccamento che dovrebbe conferire al caregiver la funzione di base sicura (Bowlby, 1988; Stayton et al., 1973). Il genitore costituisce un riferimento per il bambino, in primo luogo perché rappresenta un punto stabile da cui partire per esplorare l’ambiente e fare esperienze relazionali e sociali favorevoli allo sviluppo psicofisico; in secondo luogo, perché funge da posto sicuro a cui tornare nei momenti di stress, allo scopo di ricevere consolazione e protezione (Marvin e Britner, 2008). Così, attraverso un processo che avviene in diverse fasi, il bambino impara a riconoscere la sua figura di attaccamento e a manifestare i suoi bisogni attraverso comportamenti volti a richiamare la vicinanza e il contatto con il caregiver e a ricercare rassicurazione rispetto ai pericoli endogeni ed esogeni percepiti (Sudati et al., 2015).

Su questa processualità duale tra bambino e genitore, possono intervenire fattori di influenza propositivi o impedienti. Può capitare che improvvisamente uno dei genitori si trovi a dover affrontare una malattia neurodegenerativa progressiva che impatta nella quotidianità di vita di chi ne è affetto e dell’intero nucleo familiare coinvolto.

Tra tali patologie può essere rintracciata la diagnosi di Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) che, a causa delle implicazioni mediche neuromuscolari e psicologiche, può interferire nelle funzioni di ruolo e di regolazione psico-affettiva che un genitore si trova a svolgere nell’esercizio del parenting.

Inoltre tale patologia può comportare delle limitazioni funzionali nella comunicazione verbale e non verbale. Nello specifico si possono manifestare problemi nell’articolazione linguistica e un’immobilità a livello dei muscoli facciali (Testoni et al., 2021). In questo secondo caso, risulta essere compromessa anche la capacità espressiva, importantissima negli scambi caregiver-bambino, sia nel processo di apprendimento tramite modellamento (Budell et al., 2010), sia negli scambi sociali, in quanto le espressioni facciali permettono la decodifica degli stati mentali altrui (Testoni et al., 2021).

Cosa succede, quindi, quando i bambini si accorgono che i loro supereroi stanno perdendo i poteri? O, addirittura, sono proprio i loro supereroi che hanno bisogno di essere protetti? Qual è l’impatto che questi bambini hanno con il dolore? Quali sono gli aspetti che incidono sulla loro crescita emotiva? Che idea hanno della morte?

Ideatori, conduttori e supporter del Progetto Baobab

La SLA ha un forte impatto emotivo non solo sulla persona che ne è affetta, ma anche sull’intero nucleo familiare del malato. Nei bambini, in particolare, assistere ai sintomi iniziali della malattia ed al progressivo peggioramento della sintomatologia, può incidere notevolmente sulla crescita emotiva. Per questo motivo l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLA), ha incentivato e sostenuto lo svolgimento del Progetto Baobab, condotto dai ricercatori della Scuola di Psicologia dell’Università di Padova, supportato dalla Fondazione Mediolanum, e reso possibile grazie al contributo di giovani figli e parenti di persone affette da SLA.

Lo studio, durato tre anni, è stato coordinato dalla dr.ssa Gabriella Rossi, con la supervisione scientifica della prof.ssa Ines Testoni, direttore del master Death Studies and the End of Life e la collaborazione della dott.ssa Lucia Ronconi. Hanno, inoltre, fornito il loro contributo la dr.ssa Lorenza Palazzo (dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova), la dr.ssa Jenny Ferizoviku e il dr. Jose Ramon Pernia Morales, membri dell’AISLA.

Scopo del Progetto Baobab

La scelta del nome ‘Baobab’ rappresenta una famosa citazione dal libro Il piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupéry. Nel capitolo quinto, difatti, si narra di come questa pianta gigantesca si fosse impossessata di un intero pianeta dove l’unico abitante era un ‘Pigro’, poiché a causa della sua trascuratezza, aveva mancato di strapparne le radici quando era solo un arbusto; similmente la SLA può risultare ‘ingombrante’, non solo per la vita della persona che ne soffre, ma anche per la quotidianità di tutti gli affetti che le sono vicini.

Questo progetto di AISLA nasce dal desiderio di capire il vissuto psicoemotivo di queste famiglie, quale sia l’impatto del dolore e come tali stravolgimenti possano incidere sulla crescita emotiva dei ‘figli della SLA’; inoltre rappresenta un aiuto fattivo e supportivo al benessere psicologico di questi bambini, orientato a ‘custodire i loro sogni e proteggere il loro futuro’, come afferma Fulvia Massimelli, presidente AISLA ‘ascolto, comprensione e supporto possono essere le armi fondamentali per affrontare questa battaglia’.

Uno studio longitudinale per valutare l’impatto emotivo sul bambino

In questo studio è stato chiesto a 25 nuclei familiari di partecipare a un’indagine longitudinale, durata complessivamente tre anni. Allo studio hanno preso parte 76 bambini, divisi in un gruppo target costituito da 38 minori con familiari affetti da SLA e da un gruppo di controllo costituito da altrettanti bambini.

 Gli psicologi, prima dell’avvio del progetto, hanno seguito un training formativo orientato ad apprendere le modalità d’intervento rivolte alla funzione riflessiva, all’apprendimento trasformativo ed alla gestione delle esperienze legate sia alla perdita ambigua che al lutto anticipatorio. La particolare attenzione rivolta a tali costrutti è legata alla relazione che hanno l’apprendimento trasformativo e la funzione riflessiva, come dimostrato anche dagli studi condotti da Mezirow (1978). Durante la crescita dell’individuo, l’apprendimento trasformativo si configura come un processo di maturazione della persona che, in seguito a un evento critico e stressante, può raggiungere elevati livelli di riflessività che gli permettono di associare nuove prospettive di significato alle proprie esperienze, apportando anche cambiamenti nella propria quotidianità. Ciò spiega, dunque, il focus sulla funzione riflessiva (Testoni et al., 2021), intesa come la capacità di una persona di poter riconoscere sia i propri stati mentali che quelli altrui, riflettendo sulla propria esperienza personale (sentimenti, pensieri, desideri, credenze e comportamenti) e sul lutto anticipatorio e la perdita ambigua, considerate entrambe dolorose esperienze emotive (Boss et al., 2004). Nel caso del lutto anticipatorio, il familiare esperisce il dolore a causa del progressivo peggioramento delle condizioni del malato, ancora prima che avvenga la perdita del proprio caro (Siegel & Weinstein, 1983). Quando il malato è fisicamente assente ma psicologicamente presente, il familiare può fare esperienza della ‘perdita ambigua’: soffrire la perdita della persona come la conoscevano, per gli esiti prognostici della malattia, pur avendola ancora vicino a sé (Boss & Couden, 2002). Basta pensare, in effetti, come uno degli aspetti più drammatici da affrontare per il figlio di un malato di SLA sia quello di non riuscire a riconoscere i sentimenti del proprio genitore a causa dei gravi problemi dovuti alle difficoltà comunicative ed alla progressiva paralisi delle espressioni facciali (Calvo et al., 2015; Guidry et al., 2013).

Per indagare questi costrutti sono stati somministrati dei questionari a ognuno dei bambini del gruppo target in due momenti differenti: prima dei colloqui di sostegno e sette mesi dopo la fine del sostegno psicologico (Testoni et al., 2021).

Progetto Baobab studio su familiari e figli dei malati di SLA Recensione Fig 1

L’intervento psicologico nel Progetto Baobab

Le metodologie di intervento promosse con i bambini coinvolti e appartenenti al gruppo target sono state: lo psicodramma, finalizzato al potenziamento della funzione riflessiva e delle modalità di coping relate alla perdita ambigua, e l’arte terapia, mirata ad una più funzionale organizzazione rappresentazionale posseduta dal bambino sul genitore malato.

La seconda parte dell’intervento, a causa delle limitazioni pandemiche, è stata articolata su un percorso differenziale ed eterogeneo, mediato per lo più da mezzi telematici, indirizzato a ciascun nucleo familiare coinvolto in toto nelle attività promosse. Nello specifico ogni incontro aveva la finalità di fornire al bambino uno spazio emotivo di condivisione in cui esprimere la propria sofferenza, favorendo la resilienza e migliorando la qualità della comunicazione e della relazione (Testoni et al., 2021).

Sono emerse differenze significative tra i due gruppi di minori in merito allo sviluppo dell’affettività e della competenza emotiva

Dalle misurazioni sono emerse delle differenze significative tra il gruppo dei minori con familiari affetti da SLA e quelli del gruppo di controllo che non hanno fatto esperienza diretta della malattia. In particolare, si è riscontrato che i bambini del gruppo target presentavano difficoltà nella regolazione e nell’espressione emotiva. Inoltre, all’interno del gruppo target sono stati individuati nei bambini disturbi psicologici clinicamente significativi orientati all’esternalizzazione, come l’iperattività e la disattenzione. I risultati dello studio dimostrano come i bambini che hanno un genitore affetto da SLA, risultano avere minore competenza emotiva, maggiori difficoltà nell’esplorazione sicura ed una autostima decrementata. Inoltre i bambini del gruppo sperimentale mostravano avere un grado più elevato di autonomia e una propensione maggiore nel riconoscimento dei valori familiari. Non è stata rilevata, al contrario, alcuna differenza nei due gruppi per ciò che concerne la rappresentazione della morte, considerata nell’insieme dai bambini solo come un passaggio dell’esistenza umana.

La giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza per la presentazione del progetto

Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific reports di Nature, è stato presentato in diretta streaming durante la giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sulle piattaforme social più conosciute. Il webinar, dal titolo Troppo grandi per stare in un pianeta così piccol, ha dato l’occasione di condividere un momento di riflessione sulle difficoltà emotive che un bambino deve affrontare quando viene colpito direttamente o indirettamente da una malattia complessa come la SLA. All’incontro hanno preso parte gli autori dello studio Gabriella Rossi, Ines Testoni, Lucia Ronconi, Lorenza Palazzo, Jenny Ferizoviku e Jose Ramon Pernia Morales, la Presidente dell’AISLA Fulvia Massimelli e la Presidente Esecutiva della Fondazione Mediolanum Sara Doris. Infine, Benedetta Signorini ha fornito la sua testimonianza relativamente a cosa volesse dire essere ‘figlia della SLA’, ricordando l’indimenticabile padre, Gianluca Signorini, il capitano del Genoa colpito da questa terribile malattia. In particolare, ha parlato di come vivere in una famiglia unita possa rappresentare una risorsa preziosa in questo tipo di situazioni, di come ogni figlio possa avere una reazione diversa alla notizia della malattia, di quanto questa esperienza solleciti una crescita accelerata e una prospettiva più matura di fronte ai comuni problemi della vita quotidiana.

Quando una malattia come la SLA si fa strada nella vita di una persona, le sue conseguenze sono difficili da affrontare, da accettare, da comprendere. Ma non solo: essa prende piede anche all’interno della famiglia del malato e, come un gigantesco albero, affonda le sue radici nella quotidianità delle persone più care, come i suoi figli. E le radici, si sa, scendono in profondità. Grazie al progetto Baobab sono state poste in primo piano le esperienze e le necessità dei figli dei malati di SLA, i quali, affrontando con grande coraggio e al fianco del proprio genitore ogni sfida presentata dalla malattia, meritano e necessitano anche loro di un supporto adeguato.

 

Impazzire può essere una risposta alla realtà? – Recensione dei due libri di Benjamín Labatut ‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ e ‘La pietra della follia’

Benjamin Labatut nei suoi libri tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti.

 

C’è un momento nella storia passata in cui l’uomo ha smesso di capire il mondo? Per Benjamín Labatut accade con l’interpretazione di Copenaghen, quando la meccanica quantistica si accorge di essere «una teoria chiusa, i cui presupposti fisici e matematici non sono più suscettibili di modifiche» (Labatut, 2021a), incapace di studiare il mondo reale che la circonda. È il 1927, ma Heisenberg e Bohr danno già la loro versione della scienza contemporanea: «La realtà, dissero ai presenti, non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un oggetto quantistico non ha proprietà intrinseche. Un elettrone non si trova in nessun luogo finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare. Esiste in modo determinato solo quando viene rilevato da un determinato strumento. Tra una misurazione e l’altra non ha alcun senso chiedersi come si muove, cos’è o dove si trova. Come la luna per il buddhismo, una particella non esiste: è l’atto della misurazione a trasformarla in un oggetto reale» (Labatut, 2021a).

‘Quando abbiamo smesso di capire il mondo’ di Benjamín Labatut

Uscito in Cile nel 2019 col titolo originale di Un verdor terrible, Quando abbiamo smesso di capire il mondo è arrivato in Italia nel pieno della pandemia. Anche solo guardando la copertina Adelphi sembra che il libro voglia essere profetico: quella macchia di blu di Prussia, da cui ha inizio la narrazione, ricorda lontanamente la forma che assume il virus letale e pericolosissimo nella serie tv danese The rain, che diffonde morte e oscurità in un mondo che sta morendo. Anche lì, sebbene il contagio sia partito dalla pioggia, la malattia allontana gli umani, rendendoli sospettosi e incapaci di toccarsi come prima, sullo sfondo di una terra che piano paino volge all’oscurità.

Labatut ci offre una visione lungimirante di quello che potrebbe attenderci se solo lasciassimo spazio al genio irrazionale, e a volte incomprensibile, che abbiamo deciso di soffocare. Lo dimostrano tutte le storie che si intrecciano in un testo che non possiamo chiamare né romanzo né saggio, dalle trame di scienziati incalliti alla genealogia di colori inaspettati. Il blu di Prussia, quello che compare «nella Notte stellata di Van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai», porta nella sua struttura chimica «la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche» (Labatut, 2021a). Il verde smeraldo, il colore preferito da Napoleone, con cui si tingono giocattoli e dolciumi nell’Europa di fine Settecento, è in realtà il composto del cianuro: il cosiddetto «acido prussico», che significa «fegato spappolato, il corpo ricoperto dalla testa ai piedi di vesciche purulente, e paralizzato per l’accumulo di liquido nelle articolazioni» (Labatut, 2021a). Colori che sono bellissimi, ma terribili allo stesso tempo, per la loro nascita fatta di casualità e morte. Come il carminio, «che si ottiene triturando milioni di esemplari femmina di cocciniglia» (Labatut, 2021a), o il «nero d’ossa», ottenuto dai «crani di trenta milioni di bisonti massacrati nelle praterie americane» (Labatut, 2021a), triturati nelle fabbriche americane che producono fertilizzanti.

I colori non sono altro che il preludio al racconto di vite complicate, di uomini in cerca di approvazione, succubi di una società che spesso ne ha strumentalizzato le scoperte. Come l’azoto, che non serve più per «nutrire le masse affamate, ma per fornire alla Germania la materia prima di cui aveva bisogno per continuare a fabbricare esplosivi e polvere da sparo durante la prima guerra mondiale» (Labatut, 2021a).

Il matematico Grothendieck, invece, si ritira «per proteggere tutti quanti. Nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte, ma si rifiutò di spiegare cosa intendesse quando parlava de «l’ombre d’une nouvelle horreur» (Labatut, 2021a). Tutto parla di una ossessione che consuma irrimediabilmente, una scoperta che contraddice il senso comune. Oppenheimer scrive: «non prendetemi troppo sul serio. Io mostro un mondo che non è quello che voi avete in mente quando mi usate» (Labatut, 2021a). Mentre «Schrodinger sapeva che era la scoperta cui aspirava da tutta la vita, ma non aveva idea di come spiegarla. Per ricavare la sua equazione non parte da nessuna formula. Non si era basato su nulla di conosciuto. L’equazione stessa era un principio, e la sua mente l’aveva tratta dal nulla» (Labatut, 2021a).

‘La pietra della follia’ di Benjamín Labatut

Diversamente da quanto accaduto con la profezia di David Quammen sul coronavirus contenuta in Spillover del 2014, il terzo libro di Labatut racconta il mondo di oggi facendo riferimento al recente passato di una scienza sempre più distaccata dalla realtà circostante. «Alla domanda sul perché il nostro mondo sia diventato tanto incomprensibile ci sono risposte ovvie: quando i sistemi sono interconnessi, la loro complessità aumenta e si manifestano fenomeni nuovi, che non era possibile prefigurarsi poiché sono originati da un’interazione, così come la nostra mente e le nostre percezioni. La miriade di connessioni tra aspetti dell’esperienza umana che un tempo erano isolati può portare a un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione. Ma questa è solo una risposta parziale; qualsiasi sistema nel quale senza sosta viene immessa energia comincia a comportarsi in modo sempre più turbolento. La sua evoluzione diventa imprevedibile. In una parola, è il caos» (Labatut, 2021b).

Lo spiega benissimo ne La pietra della follia, un librettino di appena sessanta pagine, uscito nel 2021 come appendice al successo di pubblico del libro precedente: «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento. Ma io sospetto che ci sia dell’altro. Non disponiamo di storie per spiegare noi stessi perché siamo lanciati in corsa, sganciati dal passato e da salde previsioni sul futuro, apparentemente liberi da ogni vincolo, ma fondamentalmente persi. Soggiogati dalla velocità, ci siamo trasformati in alcioni, in martin pescatori che s’immergono a occhi chiusi, storditi dall’impeto dello slancio e accecati dall’impatto con l’acqua» (2021b).

Ne abbiamo avuto una dimostrazione con la pandemia: impauriti dagli accadimenti, abbiamo deciso di buttarci nel futuro. Ma così, solo per fare una nuotata in un mondo che sarebbe potuto essere diverso. Niente più smog e inquinamento, vita sana immersa nella natura, gli animali di nuovo liberi di girare sulla terra, zero spreco alimentare, un cambiamento climatico che accenna qualche passo. Poi ci siamo stancati. Abbiamo finito la vasca col fiatone. E non ci è piaciuto, arenati alla domanda: «ci innalzeremo verso la luce o ci rintaneremo nella caverna delle nostre paure?» (2021b).

Lo ha espresso bene Baricco: «Non so perché, e non mi interessa saperlo, ma, credetemi, sono passati cinque anni in uno. Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno. Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025. Se detta così suona come una boiata, la formulo in modo più razionale. Provate a fare questo ragionamento: se non ci fosse stata alcuna pandemia, e fossimo semplicemente andati avanti per la nostra strada, come più o meno pensavamo di fare, dove saremmo arrivati nel 2025? Ho la risposta: nel punto in cui siete adesso» (Baricco, 2021). Dopo di che si è stabilito che «una moderata sventura sembra particolarmente congeniale al tipo più diffuso di intelligenza: quella capace di sofferenza, ostinata nel passo, paziente più che fantasiosa, sostanzialmente conservativa. Poiché le riesce più facile percepire il mondo quando il mondo procede a una velocità misurata, lo rallenta; poiché in generale le è più congeniale il gioco di difesa, dà il meglio in presenza di nemici e catastrofi incombenti; poiché in generale non ha predisposizione per il gioco d’attacco, teme il futuro» (Baricco, 2019).

Eppure già Erasmo da Rotterdam lo scrisse: «Propagatrice del genere umano è quella parte così folle e ridicola che non si può neppure nominare senza ridere» (Erasmo Da Rotterdam, 2018). Di fronte al caos generato dalla miriade di connessioni e percezioni a cui la nostra mente e il nostro corpo sono sottoposti ogni giorno, la rottura è inevitabile e brutale. Come nella scienza. «La fisica non doveva più preoccuparsi della realtà, ma di ciò che si può dire della realtà. L’essenza degli atomi e delle loro particelle elementari era diversa da quella degli oggetti dell’esperienza quotidiana. Vivono in un mondo di potenzialità, spiegò Heisenberg: non sono cose, ma possibilità. La transizione dal ‘possibile’ al ‘reale’ avveniva solo durante l’atto dell’osservazione o della misurazione. Nessuna realtà quantistica, dunque, esisteva in maniera indipendente. Misurato come un’onda, un elettrone sarebbe apparso tale; misurato come una particella, avrebbe assunto quest’altra forma» (2021a).

Per questo Labatut racconta il mondo di oggi senza accennare in alcun modo a fatti contemporanei: la scienza è in rottura con il reale; eppure soltanto attraverso la genialità di menti ai bordi della vita sociale, il caos che ci circonda potrà tentare di farsi comprendere dall’uomo. Riprendendo il dipinto Estrazione della pietra della follia, datato 1494, lo scrittore cileno arriva al cuore della sua indagine: «il caos suggerisce che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista» (2021b). Esortandoci a riprendere in mano la nostra attitudine all’intuizione immaginifica, ci avverte: «in queste faccende, non c’è modo di sapere chi sia il chirurgo, chi il frate, chi il paziente, chi la monaca, e chi di noi rechi in sé la pietra della follia» (2021b). Nell’enigmatico dipinto di Hieronymus Bosch si mette in scena la pratica rinascimentale di incisione del cranio per asportare la cosiddetta ‘pietra della follia’, ritenuta come la causa della malattia mentale.

«I personaggi che assistono all’operazione, oltre al medico e al paziente, sono una monaca con un tomo di medicina in bilico sulla testa e un prete con in mano una brocca argentea. Sullo sfondo campeggia il placido paesaggio neerlandese, con i suoi minuti elementi resi in modo certosino: i villaggi con i campanili che svettano, gli alberelli, i cespugli, i fili d’erba disegnati uno alla volta e alcuni dettagli a dir poco inquietanti: una ruota di tortura e una forca. L’iscrizione dorata che corre intorno alla scena recita: Meester snyt die Keye ras / Myne name is lubbert das, ovvero: ‘Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è bassotto castrato’. I dettagli inquietanti, insieme all’iscrizione, indicano abbastanza chiaramente come sia da intendere questa rappresentazione. Il medico, che qui è trattato come un ciarlatano dal momento che l’imbuto della sapienza è capovolto e usato come un berretto di latta sul suo capo, è riuscito a ingannare un povero ingenuo (il ‘bassotto castrato’) che, legato alla sedia, si è sottoposto alle sue feroci cure. La pietra della follia, che è possibile identificare con un osteoma, è qui sostituita da un innocuo fiorellino che spunta dal capo del vecchio paziente. La monaca che assiste alla scena, e che ha la posa tipica di un personaggio che sta riflettendo, potrebbe essere intenta a scrutare l’inadeguatezza del medico o l’ingenuità del sempliciotto che si è fatto abbindolare. Il prete invece, rivolge la mano in segno di rimprovero. Ma non è molto chiaro se il gesto sia indirizzato al medico o al paziente» (Del Riccio, 2016).

L’intento di Labatut non è altro che questo: provare a capire qual è il confine tra inadeguatezza e ingenuità nel momento in cui lo scienziato, che viene a contatto, anche inaspettatamente, con l’evento scatenante della propria genialità, si trova spaesato di fronte a un mondo incapace di comprendere. «Sono proprio questi cambiamenti – provocati da differenze microscopiche che nessun essere umano potrebbe prevedere o monitorare, poiché solo l’immensa potenza di un computer è in grado di tracciare l’evoluzione di sistemi così intricati – a determinare il caos» (Labatut, 2021b).

Conclusioni

Così, definita dall’esterno come follia, questa attitudine a scorgere le trame nascoste della realtà ha portato molti a isolarsi dal mondo, eclissandosi in una realtà dimessa e lontana dalle luci di un successo impossibile. «Nel corso della vita non c’è altro che il saliscendi delle forme materiali e mentali, mentre la realtà insondabile permane. Dentro ogni creatura dorme un’intelligenza infinita, sconosciuta e occulta, ma destinata a svegliarsi, a strappare la rete inconsistente della mente sensibile, a rompere la sua crisalide di carne e a conquistare il tempo e lo spazio» (Labatut, 2021a).

Erasmo da Rotterdam, parlando per bocca della follia, lo confessò: «Davvero ingrati questi uomini! Essi sono i miei più fedeli seguaci, ma in pubblico si vergognano del mio nome, che lo rinfacciano agli altri indifferentemente, come se fosse un’ingiuria». Labatut tenta quasi di riappacificare il mondo, soprattutto quello istituzionale e potente, con la forza dirompente di menti geniali che non sono state capaci di comunicare, o hanno preferito non farlo per paura di venirne sopraffatti. Heisenberg afferma che «ogni nuovo progresso nei calcoli lo allontanava un po’ di più dal mondo reale» (Labatut, 2021a).

Stando a Labatut, «più che in qualsiasi altro luogo, oggi viviamo nella realtà di Dick: un incubo collettivo e paranoico nel quale non possiamo mai essere davvero sicuri di ciò che sentiamo, ascoltiamo, diciamo e addirittura pensiamo. Non abbiamo più accesso al reale. La nostra esperienza quotidiana non è meno strana e inconsistente del regno dei quanti, e gli aspetti illusori, simulati e fittizi dell’esistenza sembrano sovrastare la verità e scardinare la sacralità della ragione» (Labatut, 2021b).

Philip K. Dick, infatti, «ci ha mostrato che in certi casi impazzire risulta essere una risposta adeguata alla realtà, che verità e follia potrebbero essere sintomi della stessa malattia, e che il prezzo che paghiamo per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione».

 

Le caratteristiche sociodemografiche nel disturbo bipolare e nel disturbo ossessivo-compulsivo

Il National Comorbidity Survey Replication evidenzia come, nella popolazione statunitense, il 63% dei pazienti con DOC hanno almeno una manifestazione psicopatologica nella vita diagnosticabile come disturbo dell’umore, mentre nel 23,4% dei casi il disturbo bipolare si sovrappone al DOC (Merikangas et al., 2007).

 

La comorbidità tra disturbo bipolare e disturbo ossessivo compulsivo

Nello specifico, esistono ampie oscillazioni nei pazienti con DOC,  dove il tasso di comorbilità con il bipolarismo varia tra l’8% e il 30%, con valori che mediamente rappresentano il 20% per il disturbo bipolare di tipo II e il 5% per il bipolarismo di tipo I (Rigardetto et al., 2011; Lensi et al., 1996; Perugi et al., 1997; 1999; Ravizza, Maina & Bogetto, 1997; Diniz et al., 2004). Il problema principale di questa comorbilità è legato al fatto che tendenzialmente il DOC esordisce prima della sintomatologia umorale, con la conseguenza che il trattamento farmacologico antiossessivo induce più precocemente l’esordio della bipolarità. Sul piano clinico, l’associazione tra DOC e bipolarismo mira ad un trattamento terapeutico principalmente orientato alla stabilizzazione timica (Rigardetto et al., 2011). I dati esistenti sottolineano come i pazienti affetti da DOC, in comorbidità con un disturbo bipolare, sono più frequentemente di sesso maschile (Perugi et al., 1997; Diniz et al., 2004; Kruger et al., 2000; Perugi et al., 2002; Masi et al., 2004; Zutshi et al., 2010; Koyuncu et al., 2010; Magalhães et al., 2010) e la sintomatologia ossessiva è più grave (Perugi et al., 1997; Perugi et al., 2002, Zutshi et al., 2010, Magalhães et al., 2010). A livello sintomatologico, i disturbi ossessivi in comorbilità con il disturbo bipolare manifestano ossessioni aggressive, religiose, sessuali o di accumulo, mentre le compulsioni riguardano la ripetizione, il controllo, l’accumulo e l’ordine (Perugi et al., 1997; Perugi et al., 2002; Zutshi et al., 2010; Koyuncu et al., 2010; Magalhães et al., 2010; Joshi et al., 2010).

Caratteristiche dei pazienti con bisturbo bipolare e DOC in comorbidità

Lo studio di Rigardetto e colleghi (2011) vuole analizzare le differenze sociodemografiche e cliniche che emergono tra i pazienti con distrubo ossessivo compulsivo con o senza comorbilità con il disturbo bipolare; l’obiettivo è quello di identificare alcuni dei possibili predittori utili ad orientare le scelte terapeutiche. Nello studio sono stati inclusi 290 pazienti con una diagnosi di DOC, e con un punteggio minimo di 16 alla Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS; Goodman et al., 1989; 1989), afferiti consecutivamente presso il Servizio per i Disturbi Depressivi e d’Ansia del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Torino. Il 10,4% dei pazienti (31 casi) presentava anche una diagnosi lifetime del disturbo bipolare, con 11 soggetti (3,7%) un disturbo bipolare di tipo I e 20 soggetti (6,7%) un disturbo bipolare di tipo II (Rigardetto et al., 2011). La valutazione psicodiagnostica è stata condotta con l’utilizzo della Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis I and Axis II Disorders (SCID-I e SCID-II; First et al., 1997; 1997). Le caratteristiche sociodemografiche e cliniche del DOC invece, cioè i dati sociodemografici, la sintomatologia ossessivo-compulsiva, l’esordio e il decorso del disturbo, sono state raccolte con la somministrazione di un’intervista semistrutturata, messa a punto e già utilizzata da parte del Centro di Torino (Bogetto et al., 1999; Albert et al., 2002; 2004; Maina et al., 2004). Per l’analisi statistica, il campione è stato suddiviso in due sottogruppi a seconda della presenza o dell’assenza di comorbilità lifetime per il disturbo bipolare I o per il disturbo bipolare II.

I risultati di questo studio evidenziano come differenza statisticamente significativa, in termini sociodemografici, il genere: il sesso maschile è più rappresentato tra i soggetti che presentano un disturbo DOC associato a bipolarismo. Emerge anche una significatività per quanto riguarda la familiarità con i disturbi dell’umore, che risultano più frequenti nei soggetti con DOC e bipolarismo in comorbidità (Rigardetto et al., 2011). Inoltre, tali pazienti mostrano elevati livelli di ossessioni sessuali, compulsioni di ripetizione e sintomi di accumulo. Per quanto concerne i disturbi di Asse I, i pazienti con DOC e disturbo bipolare mostrano tassi più elevati di disturbo da uso di sostanze, mentre per quanto riguarda i disturbi di Asse II, la comorbilità per i disturbi bipolari si associa al DOC di personalità. Si rileva anche un interessante trend di significatività con il disturbo schizotipico (Rigardetto et al., 2011).

Conclusioni

La corretta identificazione della comorbilità tra disturbo bipolare e DOC ha rilevanti implicazioni per quanto riguarda la risposta al trattamento, dal momento che alcuni sintomi ossessivo-compulsivi (come, per esempio, la sintomatologia hoarding), la presenza di comorbilità multiple, l’abuso alcolico o di altre sostanze, nonché la comorbilità con disturbi di personalità hanno un’influenza negativa sulla compliance e sulla risposta ai farmaci antiossessivi attualmente disponibili (Zutshi et al., 2007; Mataix-Cols et al., 2002; Saxena et al., 2002). Di importanza ancora maggiore è poi il vantaggio legato alla possibilità di individuare ‘predittori di bipolarità’ nei pazienti affetti da DOC, al fine di evitare la somministrazione di alte dosi di serotoninergici scegliendo opzioni terapeutiche più prudenti (Rigardetto et al., 2011).

Il ‘colored hearing’ come voce narrante

La musica evoca immagini in 7 persone su 10 ed in un particolare fenomeno, il colored hearing, ai suoni vengono naturalmente associati colori.

 

Musica, suoni e colored hearing

Sono passati anni dalla famosa lezione di Deems Taylor in Fantasia (Disney, 1940), eppure l’idea che la musica abbia un forte potere evocativo non ci abbandona mai.

Se da un lato i suoni sono in grado di accompagnare una storia, dall’altro possono crearne una. È proprio questo che succede quando infiliamo le cuffie e ci lasciamo trasportare da ciò che ascoltiamo. La nostra immaginazione vaga tra macchie di colore, forme, direzioni di movimento o scene simili a quelle di un film, in un’esperienza cognitiva nota come mind-wandering (Taruffi e Küssner, 2019).

Secondo Martarelli, Mayer e Mast (2016), la musica evoca immagini in 7 persone su 10 e con una grande variabilità: in alcuni casi l’immagine sembra fluttuare, arriva e poi sparisce, mentre in altri assume pian piano la forma di panorami e/o memorie episodiche connotate emotivamente. Ciò può dipendere da quanto l’ascoltatore preferisca un genere musicale rispetto a un altro e, quindi, dal suo coinvolgimento, emerso oltre che da indagini qualitative, anche da un oggettivo aumento dell’attività elettrodermica, del ritmo respiratorio e del battito cardiaco (Taruffi e Küssner, 2019).

Cos’è il colored hearing

Non si sa perché il mind-wandering si verifichi ma è ben nota la sua associazione con l’attivazione delle regioni corticali implicate nel Default Mode Network, come la corteccia prefrontale mediale (mPFC), la corteccia cingolata posteriore (PCC) e il precuneo, attive quando il cervello ‘riposa’, ossia non è impegnato in compiti che richiedono un’attenzione focalizzata (Malia et al., 2007).

Il più delle volte, inoltre, capita che le immagini evocate trascendano la modalità visiva e canalizzino, attraverso l’integrazione di più processi, informazioni relative a sensazioni, quali texture o spessore, posizione e movimento, per creare delle immagini multimodali che si avvicinino alla nostra percezione del mondo. Non a caso, infatti, sembra che nel mind-wandering possa affacciarsi l’esperienza della sinestesia: ed ecco che il colored hearing, ossia la capacità di trasformare i suoni in colori, dà il via alla Fantasia (Soheili & Kokabi, 2018).

In questo caso, però, frutto di differenze strutturali e funzionali individuate a livello cerebrale, si osserva una maggiore attivazione delle regioni mediali della via visiva ventrale, della corteccia parietale e di alcune aree implicate nell’integrare attenzione, emozioni e memoria (Eagleman e Googale, 2009; Taruffi e Küssner, 2019). Ciononostante, persone con sinestesia e non, tendono a produrre associazioni simili! Infatti, i suoni acuti sono percepiti come più luminosi, piccoli e leggeri rispetto ai suoni gravi, collocandosi in alto nello scenario immaginato, mentre la musica sembra spostarsi da sinistra a destra o viceversa, a seconda della propria cultura di appartenenza (Ward, 2013).

 

L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti (2021) di Matteo Lancini – Recensione

Il nuovo volume di Matteo Lancini intitolato L’età tradita arte parte dalle accuse rivolte ai giovani in questo periodo storico per invitare a trasformare la crisi che stiamo vivendo in una preziosa occasione di crescita e di riflessione.

 

Guardate cosa combinano i ragazzi mentre i nostri anziani muoiono‘. Giovani onnipotenti, trasgressivi, individualisti, irresponsabili. Così risultano gli adolescenti nell’immaginario collettivo e ancor più sono stati così additati durante la pandemia.

L’autore, psicologo e psicoterapeuta da anni impegnato nelle tematiche legate all’adolescenza, parte proprio dalle accuse rivolte ai giovani in questo periodo storico per sottolineare il fallimento dei modelli educativi finora adottati dagli adulti e per invitare questi ultimi a trasformare la crisi che stiamo vivendo in una preziosa occasione di crescita e di riflessione che permetta una presa di coscienza delle proprie responsabilità e delle contraddizioni educative poste in essere negli ultimi decenni.

Per poter mettere in atto una vera e propria trasformazione culturale è necessario in primo luogo favorire una maggiore conoscenza e comprensione dell’adolescente, abbandonando una visione ageistica dello stesso. L’età tradita. Oltre i luoghi comuni sugli adolescenti risulta, dunque, un ottimo volume a cui affidarsi per capire al meglio l’adolescente, con le sue complessità e fragilità, e riconoscere le nuove normalità e le nuove forme di disagio che caratterizzano il presente.

È interessante notare come l’ageismo sia divenuto un tema molto sentito a seguito delle criticità emerse con l’emergenza Covid-19, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità stessa ha pubblicato recentemente un report globale sul fenomeno, sottolineando come questa forma di discriminazione abbia un forte impatto sulla salute psico-fisica di chi ne è vittima (WHO, 2021).

Di seguito, alcune delle tematiche trattate dall’autore nel suo volume.

La situazione scolastica

L’autore, prima di addentrarsi nello sfatare i principali miti dell’adolescenza, affronta con uno stile decisamente tagliente le contraddizioni manifestate dall’istituzione scolastica.

L’emergenza epidemiologica ha portato, come sappiamo, alla chiusura delle scuole e all’utilizzo della didattica a distanza (DAD), strumento che si è rivelato essere sicuramente pratico e strategico ma che ha fatto emergere non poche falle.

In primo luogo, la povertà digitale diffusa e la sovraesposizione e vergogna sociale sperimentati dai ragazzi, costretti a rendere pubblici i propri spazi privati, hanno determinato un aumento della dispersione scolastica, fenomeno già diffuso prima della pandemia.

In secondo luogo, la DAD ha messo in evidenza il ruolo relazionale ed emotivo oltre che formativo della scuola. Come sottolineato da Lancini, è ormai risaputo che il clima affettivo che viene a crearsi in un gruppo classe abbia una rilevante incidenza nei processi di apprendimento.

Infine, l’accanimento nei confronti degli studenti verificatosi al rientro nelle scuole ha messo in evidenza la perdita da parte del corpo docente del senso e dello scopo del proprio ruolo educativo: dare priorità ai compiti evolutivi, affettivi e relazionali tanto quanto all’apprendimento puramente nozionistico.

Bambini adultizzati e adolescenti infantilizzati

Per l’autore alla base dell’incomprensione nei confronti dell’adolescente vi è una ormai radicata emergenza educativa che si manifesta con una precocizzazione e adultizzazione del bambino, iperstimolato all’autonomia, alla socializzazione e alla realizzazione di sé, a cui fa seguito una infantilizzazione dell’adolescente, soggetto continuamente a paletti, regole e limiti.

I ragazzi del nuovo millennio hanno seguito alla lettera le richieste familiari fin dall’infanzia, non sono più oppositivi e trasgressivi come un tempo, ma nonostante ciò i compiti evolutivi di questa fase di vita rimangono gli stessi: accettare le trasformazioni corporee, separarsi dai genitori, individuare il proprio ruolo sociale. L’incomprensione nasce nel momento in cui il mondo adulto non contestualizza i comportamenti adolescenziali e il loro funzionamento psichico, affettivo e relazionale.

La soluzione, per l’autore, è ‘puntare sulla responsabilità più che sul controllo, su modelli formativi cooptativi piuttosto che passivizzanti […] Responsabilizzarli, invece che accusarli di essere diventati irresponsabili‘.

Onnipotenti, ribelli e trasgressivi

Tra i luoghi più comuni sull’adolescenza vi sono quelli che vedono la ribellione, la trasgressione e il senso di onnipotenza quali tratti caratteristici di tale fase di vita.

In realtà, l’autore dimostra come i ragazzi di oggi siano molto cambiati rispetto a quelli delle epoche storiche precedenti. La ribellione e la trasgressione hanno lasciato il posto alla delusione: se in passato la violazione era alimentata da un’infanzia mortificante, ora l’adultizzazione del bambino lascia il posto a un senso di inadeguatezza per la mancata corrispondenza tra ciò che si è e le elevate aspettative della società.

L’adolescenza, inoltre, è l’età in cui termina il senso di onnipotenza e si diviene maggiormente consapevoli dei propri limiti e, dunque, della propria morte. Secondo, infatti, gli studi sulla maturazione del concetto di morte in età evolutiva, è proprio intorno ai 12 anni che l’individuo accetta la morte come parte integrante e inevitabile della vita (Nagy, 1948).

La sessualità

Oggi è importante penetrare la mente dell’altro, non il suo corpo. […] Per questo motivo contano molto di più il selfie e il sexting‘.

L’autore, tenuto conto della propria esperienza clinica, ha riscontrato nel corso dei decenni una riduzione dell’interesse da parte dei giovani per le tematiche relative alla sessualità.

Anche in questo caso, il comportamento adolescenziale viene ricondotto al modello educativo sociale e familiare dominante. Se in passato la difficoltà dell’adolescente nell’accettare l’impulso sessuale era spiegata da una cultura essenzialmente sessuofobica, ora la difficoltà sperimentata sta nell’accettare il proprio corpo alla luce dei canoni di bellezza dominanti e del bisogno di notorietà e riconoscimento indotti da questa società.

È colpa di Internet

Altro stereotipo trattato da Lancini è ritenere che i comportamenti disfunzionali degli adolescenti siano dovuti alla dipendenza da Internet.

I nativi digitali si sono trovati a nascere e crescere in un mondo dove la connessione Internet è del tutto indispensabile per la vita quotidiana. È proprio l’adulto, divorato dalle proprie fragilità, ansie e angosce, il responsabile di questa rivoluzione digitale: ha impedito al bambino di fare esperienze di socializzazione all’aperto per paura che si ‘sbucciasse’, equipaggiandolo sempre più precocemente di uno smartphone e impedendogli qualsiasi fisiologico processo separativo.

Ma la contraddizione più lampante è avvenuta proprio con la pandemia: se prima Internet era una minaccia per la crescita e la salute dei più giovani, ora è obbligatorio il suo utilizzo e una disconnessione dall’ambiente virtuale equivale ad una vera e propria assenza dall’ambiente educativo.

In conclusione, L’età tradita risulta essere una preziosa opportunità di riflessione per genitori, insegnanti, psicologi e adulti in generale, sulla necessità di rivoluzionare i modelli educativi proposti e l’attuale offerta formativa scolastica, alla luce dei bisogni espressi dagli adolescenti e del periodo storico che stiamo vivendo, catalizzatore di inevitabili cambiamenti.

 

La malattia mentale e l’isolamento in carcere: un ciclo che si autoalimenta

Lo scopo dello studio di Clark (2018) era quello di analizzare la relazione tra una malattia mentale prediagnosticata e l’assegnazione dell’isolamento all’interno del carcere in seguito a una cattiva condotta.

 

La popolazione carceraria degli Stati Uniti, dal 2015 in poi, ammonta a quasi 7 milioni di uomini e donne (Kaeble & glaze, 2016). Tra questi, i detenuti a cui è stata precedentemente diagnosticata una malattia mentale, costituiscono circa il 44%. Tali malattie, nella maggior parte dei casi, sono ansia, depressione o gravi disturbi psicotici (Bronson & Berzofsky, 2017). Si può dire che le carceri, dal 2004 in poi, ospitino un numero di persone con problemi psicologici che è quasi dieci volte superiore a quello degli ospedali psichiatrici. È risaputo, inoltre, che i soggetti che manifestano sintomi della malattia mentale possono essere autori di comportamenti violenti; in aggiunta, talvolta rischiano di essere loro stessi vittime in carcere o di recidivare una volta rilasciati: spesso, il loro disturbo li porta a violare le regole istituzionali.

Le persone con malattia mentale in carcere

Molti studi presenti in letteratura (Steiner et a., 2014; Houser & Belenko, 2015), hanno esplorato la relazione tra problemi di salute mentale e cattiva condotta istituzionale, trovando una relazione significativa tra le due variabili: i detenuti gravemente malati di mente hanno tassi più elevati di comportamenti scorretti sia violenti che non violenti (Felson et al., 2012; Matejkowski, 2017). Inoltre, altrettanti studi hanno dimostrato che la segregazione o l’isolamento forzato provocano effetti psicologici che vanno ad aggravare la sintomatologia preesistente (ad esempio insonnia, allucinazioni e paranoia) e che un livello di sicurezza massimo è il maggiore predittore di cattiva condotta all’interno del carcere (Steiner et al., 2014). Oltre a ciò, Steiner e Wooldredge (2013) hanno dimostrato che livelli più elevati di cattiva condotta sono stati osservati in strutture di maggiore sicurezza. Oggi esistono due differenti tipologie di segregazioni, utilizzate nelle carceri penitenziarie per diversi motivi; le celle di isolamento possono essere usate su una base di emergenza a breve termine o come assegnazione residenziale a lungo termine. In primo luogo, la segregazione disciplinare, un tipo di alloggio restrittivo riservato ai detenuti riconosciuti colpevoli di violazione delle norme istituzionali, protegge il personale e gli altri detenuti da comportamenti dannosi come l’aggressione. In altri casi, invece, il trasferimento del detenuto in un ambiente speciale aiuta a prevenire l’escalation delle situazioni, mantenendo così l’ordine nella popolazione carceraria generale. La seconda tipologia di segregazione è quella amministrativa, protegge il detenuto dall’essere vittima e può anche aiutare a proteggere un detenuto che ha intenzione di autolesionarsi.

Sebbene la segregazione sia un metodo di disciplina comune nelle prigioni statunitensi (Steinbuch, 2014), molteplici studi indicano possibili effetti psicologici dannosi dell’isolamento sui detenuti, sia su quelli con che su quelli senza condizioni mentali preesistenti. In uno studio del 2003, ad esempio, Carothers ha sostenuto che i detenuti che avevano comportamenti suicidari percepivano la segregazione come una punizione, e, per evitare questa esperienza, tenevano per sé i loro pensieri, compresa l’ideazione suicidaria, che aumentava le loro possibilità di suicidio in quanto temevano di cercare aiuto. Talvolta bilanciare il trattamento e il controllo dei detenuti con problemi psicologici può essere quindi difficile per gli amministratori delle carceri, che hanno la responsabilità di trattare anziché punire gli individui per il comportamento che, spesso, è il risultato della loro malattia mentale (Bersot & Arrigo, 2010). Tuttavia, con scarse risorse per il trattamento e la priorità della sicurezza e dell’ordine, può essere complicato conciliare i bisogni a lungo termine dei malati mentali con i bisogni a breve termine del controllo istituzionale (Fellner, 2006) e il trattamento e la riabilitazione dei detenuti sono messi in secondo piano.

La misura di isolamento in carcere nei casi di malattia mentale

Dal momento che i detenuti affetti da malattie mentali costituiscono oggi una parte sostanziale della popolazione carceraria e pongono sfide amministrative e terapeutiche agli amministratori delle carceri e ai professionisti della salute mentale, nel 2018, uno studio di Clark ha esplorato la relazione tra la malattia mentale e l’azione disciplinare, in particolare l’isolamento. Nello specifico, lo scopo era quello di analizzare la relazione tra una malattia mentale prediagnosticata e l’assegnazione della segregazione disciplinare in seguito a una cattiva condotta; inoltre l’autore voleva valutare se le persone con una malattia mentale prediagnosticata avessero più probabilità di ricevere la segregazione disciplinare rispetto ad altri tipi di punizioni. Per rispondere a tali quesiti sono stati utilizzati i dati del SISFCF, un sondaggio rappresentativo a livello nazionale che include un campione probabilistico di detenuti all’interno di istituti federali e statali (Bureau of Justice Statistics, 2004).

L’obiettivo di Clark era quindi quello di confrontare, tra coloro che avevano commesso almeno una cattiva condotta durante la loro incarcerazione, i soggetti con una malattia mentale preesistente  (N = 1.904) con quelli che non avevano malattie psichiche (N = 3.919). I risultati mostrano che i detenuti con una malattia mentale sono stati coinvolti in un maggior numero di abusi violenti rispetto ai soggetti senza una malattia mentale preesistente. Inoltre, tali detenuti, non solo avevano una probabilità maggiore di essere messi in segregazione, sembra che proprio la loro malattia mentale sia stata la causa della cattiva condotta per cui sono stati messi in isolamento. Nel complesso, i risultati dimostrano quindi che la malattia mentale è un predittore unico di assegnazione alla segregazione disciplinare.

Questo si aggiunge agli studi che hanno dimostrato che coloro che hanno problemi di salute mentale possono essere più suscettibili agli effetti negativi dell’isolamento, creando così un ciclo in cui i detenuti vengono messi in segregazione a causa della loro malattia mentale, che viene peggiorata dall’isolamento, portando ad un ulteriore peggioramento della sintomatologia e del comportamento problematico (Fellner, 2006; Metzner & Fellner, 2010). In conclusione, anche se l’isolamento può essere considerato una scelta più economica o pratica per contenere questi detenuti, quando si considerano gli effetti sulla salute mentale, questa soluzione è controproducente; sarebbe dunque necessario sostituirla con una maggiore cura della salute mentale da parte dei professionisti, senz’altro più efficace nel trattare il loro comportamento (Clark, 2018).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il secondo episodio è dedicato all’Angoscia di Separazione

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Nate in piena pandemia, le precedenti stagioni di “Caffè cognitivo”, create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast, hanno sin da subito riscosso un ampio consenso da parte del pubblico, sia esperto che meno esperto.

Dato il successo ottenuto, il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la seconda puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite il Dott. W alter Sapuppo. Si parlerà di Angoscia di Separazione, ovvero il timore di rimanere soli a causa del rifiuto da parte di e/o della separazione da figure significative. Da dove nasce questo timore? Perché chi ne soffre mostra una mancanza di fiducia nelle proprie possibilità di prendersi cura di se stessi? Scopritelo nel secondo episodio.

Dove ascoltare il secondo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il secondo episodio su:

 

Umorismo: strategie di distanziamento cognitivo-affettivo

L’umorismo ha il suo ruolo all’interno della terapia: permette di ‘mettere le cose in prospettiva’, mettendo quella giusta distanza critica tra ciò che proviamo e percepiamo e ciò che il mondo realmente è.

 

L’humour è un eccellente antidoto allo stress. Poiché le relazioni umane amorevoli sono cosi salutari per la mente, vale la pena sviluppare un lato umoristico. Ho raggiunto la conclusione che l’umorismo sia vitale per sanare i problemi dei singoli, delle comunità e delle società. Patch Adams

Negli ultimi anni, alcuni studi hanno scoperto che l’umorismo può essere utile come strategia, insieme ad altre, nel trattamento di un gran numero di disturbi, come l’ansia, il disturbo ossessivo compulsivo, la depressione ma anche nel trattamento di gravi disturbi come schizofrenia e psicosi.

L’umorismo serve come una potente fonte di intense emozioni positive, come divertimento, euforia o allegria e quindi ha il potenziale per annullare gli affetti negativi persistenti con le loro conseguenze fisiologiche.

Un meccanismo rilevante è quello di distrarre dal significato negativo di situazioni angoscianti.

L’umorismo cambia drasticamente il significato di una situazione negativa in una meno grave e meno minacciosa (Lefcourt et al., 1995 ). Si ritiene che ciò implichi cambiamenti cognitivi radicali e corrispondenti modificazioni nella risposta emotiva, tipicamente descritti come un cambiamento cognitivo-affettivo (Lefcourt, 2001). Di conseguenza, un individuo può prendere con successo le distanze da una situazione negativa e valutarne il significato da un punto di vista meno angosciante. L’effetto adattivo della distanza basata sull’umorismo è stato evidenziato, tra l’altro, in una ricerca sperimentale sul paradigma dell’auto-minaccia, in cui è stato dimostrato che l’umorismo ha portato alla valutazione delle avversità in un modo meno inquietante, dannoso e accettabile.

Sebbene l’umorismo sia spesso considerato un modalità adattiva di affrontare le avversità, è stato sottolineato che esistono molti tipi o forme di umorismo e ognuno ha le proprie conseguenze sulla salute mentale (vedi Martin, 2007 ). Alcune di queste forme, specialmente quelle legate a una visione allegra della vita o al ridere in modo costruttivo delle avversità, sono considerate potenti strategie per affrontare le esperienze negative, mentre altre forme di umorismo, come il sarcasmo, il ridicolo, sono tradizionalmente interpretati come disfunzionali (Vaillant, 2000 ). Ci sono stati studi considerevoli sulle differenze individuali nell’uso dell’umorismo, dimostrando che ci sono quattro distinti stili umoristici: due adattivi e due disadattivi (vedi Martin, Puhlik-Doris, Larsen, Gray e Weir,2003 ). Esistono numerose prove, per lo più correlazionali, che gli stili di umorismo adattivo (affiliativo e auto-migliorante), rispetto a quelli disadattivi (aggressivo e autolesionista), siano positivamente correlati a varie componenti della salute mentale, come l’autostima, l’ottimismo /pessimismo, sintomi depressivi o ansiosi (es. Martin, 2007 ). Ad esempio, Rnic, Dozois e Martin (2016) hanno evidenziato che stili umoristici disadattivi diminuiti e aumentati sono associati a maggiori distorsioni cognitive depressogene.

L’umorismo in psicoterapia

Nel tradizionale cognitivismo, Ellis (1998) usava l’umorismo e il paradosso come pensiero critico per mettere in discussione idee irrazionali con lo scopo di trasformare emozioni e sentimenti negativi. Questa tradizione di prima ondata ha guadagnato un maggiore slancio grazie agli ultimi sviluppi che promuovono un trattamento basato sul distanziamento. Approcci di terza generazione si basano proprio su tale obiettivo.

L’umorismo ha quindi il suo ruolo anche all’interno della terapia: permette di ‘mettere le cose in prospettiva’, guardandole dall’esterno attraverso la lente dell’ironia e mettendo quella giusta distanza critica tra ciò che proviamo e percepiamo e ciò che il mondo realmente è.

Un importante mediatore tra l’uso dell’umorismo e il miglioramento emotivo è proprio il distanziamento, parliamo di tipi di umorismo che creano una visione distante di eventi angoscianti, come l’umorismo che assume una prospettiva (Lefcourt, 2001) o il ridere di se stessi (Beermann & Ruch, 2011).

Trovare umorismo in situazioni negative può sembrare incongruo o inappropriato per i pazienti che vivono uno stato di sofferenza, determinando così la loro riluttanza. Se è così, una forma più semplice di umorismo che non è correlata a una situazione negativa, potrebbe essere più accessibile e, inoltre, può avere effetti più forti, in quanto consente di isolarsi dai materiali negativi e deviare tutta l’attenzione verso stimoli divertenti. Sebbene questa forma distaccata di umorismo non fornisca un modo per rivalutare la situazione negativa e quindi non attiverebbe il meccanismo di allontanamento, la sua estraneità allo stress e il suo contenuto puramente positivo potrebbero evocare emozioni positive più intense e fornire una distrazione molto più forte da un umore negativo.

Come utilizzare l’umorismo come strumento terapeutico?

Dalla clownterapia, alla terapia della risata sono vari gli approcci che si occupano dell’uso dell’umorismo come forma di cura o di promozione del benessere.

Sia in terapia individuale che in interventi di gruppo risulta, per molti, fondamentale stimolare i pazienti ad una prospettiva umoristica. La ricerca dimostra che per ottenere risultati a lungo termine è necessaria tanta pratica al fine di stimolare una visione più funzionale di se stessi, degli altri e del mondo. In particolare, si sono rivelati molto utili training psicoeducativi incentrati sull’umorismo in programmi da 8 a 10 incontri. L’uso di filmati, storie, video-clips, esercizi esperienziali, strumenti come l’autocaratterizzazione di Kelly, l’ABC di Ellis e la  conseguente ristrutturazione in termini umoristici, hanno permesso di stimolare una maggiore consapevolezza di sé e determinato benefici anche nella sfera socio-relazionale.

L’incremento dell’uso dell’umorismo, nei vari contesti clinici conferma effetti positivi all’organismo e pare sia addirittura un buon antidoto per la regolazione emotiva e per il miglioramento di alcune abilità metacognitive.

 

MoviEtà: generazioni a confronto – Recensione della webserie

MoviEtà: generazioni a confronto è una webserie prodotta dall’associazione ANTEAS di Monselice (PD) in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune.

 

Date le criticità emerse con la pandemia a livello socio-sanitario, l’OMS nel 2021 ha promosso una campagna di sensibilizzazione sull’ageismo, pubblicando un report globale in cui vengono sottolineate le conseguenze negative sulla salute e sul benessere delle persone causate da questa forma di discriminazione (WHO, 2021).

Con l’occasione, l’OMS ha proposto anche delle strategie per contrastare l’ageismo: in primo luogo è necessario sensibilizzare la popolazione sul fenomeno per mezzo di interventi educativi e, in secondo luogo, è indispensabile promuovere occasioni di intergenerazionalità. Oltre alla riduzione degli stereotipi, quest’ultima ha anche altri vantaggi: aumenta il benessere, rafforza la rete sociale, riduce la solitudine (Drury et al., 2017; Canedo-Garcia et al., 2017; Maley et al., 2017).

Il progetto MoviEtà

MoviEtà: generazioni a confronto è una webserie prodotta dall’associazione ANTEAS di Monselice (PD) in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune stesso. Il progetto è stato ideato e realizzato nel 2020 grazie ai ragazzi del Servizio Civile Universale, costretti a causa della pandemia a reinventare la propria partecipazione alle attività previste dall’esperienza di volontariato. Date le restrizioni imposte dalla situazione pandemica e lo sconforto accusato specialmente dalla popolazione anziana, si è deciso di realizzare una webserie che rappresentasse un momento di incontro e di reciproca conoscenza tra due diverse generazioni.

La webserie MoviEtà, perfettamente in linea con i suggerimenti proposti dall’OMS, è al contempo un esempio di intergenerazionalità e di intervento educativo vero e proprio poiché, tramite la sua diffusione sul web, sensibilizza chi guarda gli episodi sulla necessità di uno scambio intergenerazionale.

Il progetto è stato presentato al pubblico tramite un evento tenutosi il 6 ottobre 2021 presso la Sala della Buona Morte all’interno del complesso monumentale di San Paolo del comune di Monselice, con la collaborazione di “APS Open Resource” nell’ambito del piano “Giovani Euganei”.

Di seguito alcune delle tematiche trattate negli 8 episodi che compongono la webserie, disponibile su YouTube.

Linguaggio e ageismo

Qualsiasi forma di discriminazione parte dal linguaggio: le parole e il modo in cui le usiamo quando ci approcciamo agli altri sottointendono determinati pregiudizi e stereotipi (Maass & Arcuri, 1992).

Un esempio classico è l’elderspeak, uno stile di linguaggio utilizzato spesso in maniera automatica con gli anziani piuttosto infantilizzante, caratterizzato da frasi brevi, semplici, pronunciate ad alta voce e accompagnate da gestualità enfatizzata. Questo perché si dà per scontato che l’altro, poiché anziano, abbia necessariamente difficoltà di comprensione.

Per quanto riguarda MoviEtà, nell’episodio ‘Buongiornissimo’ una delle due ragazze, senza malizia e in modo automatico, dà all’anziano del ‘diversamente giovane’, manifestando il culto della giovinezza tipico della nostra società, tale per cui esistono solo la giovinezza e la non-giovinezza, mentre la vecchiaia viene negata.

Anche l’anziana dimostra un certo pregiudizio nei confronti dei giovani, definendoli in dialetto veneto ‘ascari’ ovvero villani, maleducati.

Il linguaggio utilizzato dimostra, dunque, la presenza di stereotipi nei confronti dell’altra generazione, stereotipi che andranno ad attenuarsi nel corso degli episodi evidenziando così gli effetti positivi di questi incontri intergenerazionali.

Solitudine

La generazione anziana nel corso degli incontri manifesta una certa sofferenza per la solitudine provata nel corso della pandemia.

La solitudine degli anziani è un tema molto sentito, tanto che nel 2018 è stata istituita il 15 Novembre la Giornata Nazionale contro la solitudine degli anziani. La solitudine è un fattore di rischio per il processo di fragilizzazione dell’anziano e, come dimostrato dalle evidenze scientifiche, impatta profondamente sulla salute fisica e psicologica dell’individuo, tanto che sembrerebbe ​​associata a una riduzione della durata della vita simile a quella provocata dal fumo di 15 sigarette al giorno, con un aumento del 27% del rischio di mortalità prematura (Murthy, 2017).

La sessualità nella terza età

Seppur possa sembrare un argomento distante rispetto alle tematiche maggiormente trattate dalla webserie, anche i pregiudizi sulla sessualità nella terza età emergono nelle conversazioni tra le due generazioni. La signora Franca, a seguito della richiesta ironica del signor Mario di una foto delle ragazze al mare, dice in dialetto ‘quando diventano vecchi hanno ancora di queste cattive abitudini’. Una frase di questo tipo sottointende lo stereotipo dell’anziano casto, non più sessualmente attivo e disinteressato, ma che, se manifesta desiderio di contatto, diviene inevitabilmente un ‘vecchio sporcaccione’.

In realtà la Dichiarazione dei diritti sessuali (World Association of Sexology, 1999) afferma che il diritto all’intimità, in tutte le sue forme, dura tutta la vita e che la sessualità è parte integrante di ogni essere umano.

Contesto storico e socio-culturale e benessere psicologico

Essere nati e cresciuti in un determinato periodo storico sicuramente influisce, oltre che sugli usi e costumi della popolazione, anche su aspetti psicologici.

Se, ad esempio, mettiamo a confronto la generazione dei baby boomers (i nati tra il 1946-1964) con la generazione Z (i nati tra il 1995-2012), possiamo notare come mentre i primi sono cresciuti in un’epoca di ripresa economica e demografica, periodo di transizione e prosperità che ha sicuramente forgiato un certo ottimismo, i secondi sono i nativi digitali, cresciuti in un’epoca di forte recessione e con un livello di disoccupazione giovanile record, portando con sé sfiducia e forte preoccupazione.

Ciò è confermato dai dati della letteratura, secondo cui la generazione Z manifesta molto più stress e problematiche psicologiche rispetto ai baby boomers (APA, 2018).

Essere consapevoli di queste differenze socio-culturali permette di leggere i comportamenti e gli atteggiamenti dell’altro con maggiore sensibilità, facendo sì che l’incontro tra generazioni non diventi uno scontro tra età.

Criticità della società odierna

Infine, ciò che ricorre in più puntate sono le criticità della società odierna per la popolazione anziana. La digitalizzazione e l’uso sempre più frequente della lingua inglese nella vita quotidiana mettono in seria difficoltà i più anziani e, in generale, le persone meno scolarizzate.

Per quanto riguarda la digitalizzazione degli anziani, da anni su tutto il territorio nazionale vengono proposti progetti di alfabetizzazione digitale rivolti agli over 60, spesso all’interno delle aule informatiche degli istituti scolastici e condotti da giovani studenti, promuovendo così anche uno scambio intergenerazionale. Un esempio è il progetto ‘Nonni su Internet’ promosso dalla Fondazione Mondo Digitale, un progetto basato sul modello di apprendimento intergenerazionale e che, grazie alla collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, ha messo a disposizione sul proprio sito una serie di manuali per facilitare il processo di alfabetizzazione.

 

MoviEtà – Guarda il primo episodio:

L’intervento per rimozione di cataratta utile per diminuire il rischio di demenza

Una ricerca condotta sui partecipanti allo studio prospettico Adult Changes in Thought ha indagato il possibile legame tra l’intervento per rimozione di cataratta e il rischio di demenza.

 

Introduzione

Numerosi studi hanno mostrato associazioni tra compromissione sensoriale e declino cognitivo (Lim ZW et al 2020, Loughrey DG et al  2017, Uhlmann RF et al 1989). La compromissione sensoriale può contribuire all’isolamento sociale e al decadimento cognitivo, che a sua volta può aumentare il rischio di demenza. Uno studio pubblicato su JAMA (Association Between Cataract Extraction and Development of Dementia. Cecilia S Lee 2021) ha analizzato la riduzione del rischio di demenza associata alla chirurgia per cataratta.

Lo studio su demenza e rimozione della cataratta

La ricerca è stata condotta sui partecipanti allo studio Adult Changes in Thought (ACT) reclutati tra il 1994 ed il 1996.

ACT è uno studio di coorte prospettico, basato sulla popolazione, i partecipanti sono reclutati casualmente dagli elenchi dei membri del Kaiser Permanente Washington e poi seguiti fino allo sviluppo della demenza. All’iscrizione e durante le visite biennali, i partecipanti ricevono test di screening cognitivo standardizzati, brevi valutazioni fisiche, anamnesi medica e valutazioni dei fattori di rischio.

I soggetti arruolati dovevano avere almeno 65 anni. Sono stati inclusi tutti quelli che hanno partecipato allo studio ACT che avevano ricevuto una diagnosi di cataratta prima dell’insorgenza della demenza e avevano almeno 1 visita di controllo dopo la diagnosi di cataratta.

I partecipanti sono stati valutati ogni due anni con lo strumento di valutazione delle capacità cognitive (CASI), che va da 0 a 100, con punteggi più alti che indicano migliori capacità cognitive.

I soggetti con punteggi CASI di 85 o meno sono stati sottoposti a una valutazione diagnostica standardizzata, compresi esami fisici e neurologici, revisione della cartella clinica e una batteria di test neuropsicologici.

Quale relazione tra demenza e rimozione della cataratta

In totale, sono stati inclusi 3038 partecipanti (età media [DS] alla prima diagnosi di cataratta, 74,4 (6,2) anni; 1800 donne (59%) e 1238 uomini (41%); e 2752 (91%)).

La rimozione chirurgica della cataratta è stata associata a un rischio significativamente ridotto (rapporto di rischio, 0,71; 95% CI, 0,62-0,83; P <.001) di demenza rispetto ai partecipanti senza intervento chirurgico.

Nello stesso studio è emerso che la chirurgia del glaucoma non ha avuto un’associazione significativa con il rischio di demenza (rapporto di rischio, 1,08; 95% CI, 0,75-1,56; P = 0,68). Risultati simili sono stati riscontrati con lo sviluppo della malattia di Alzheimer.

Conclusioni

Questo studio di coorte ha rilevato che l’estrazione della cataratta era significativamente associata a un minor rischio di sviluppo di demenza. Se convalidato in studi futuri, la chirurgia della cataratta potrebbe avere rilevanza clinica negli adulti più anziani a rischio di sviluppare demenza.

 

Efficacia delle terapie psicologiche per la sindrome dell’intestino irritabile (IBS): una metanalisi

La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è una condizione gastrointestinale cronica che colpisce fino al 10% delle persone (Lovell & Ford, 2012). Nel Regno Unito, tra le linee guida per la gestione dell’IBS, è raccomandato l’invio a interventi psicologici in pazienti che non traggono benefici dal trattamento farmacologico

 

La sindrome dell’intestino irritabile

La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è una condizione gastrointestinale cronica che colpisce fino al 10% delle persone (Lovell & Ford, 2012). Storicamente soleva essere definita come un disturbo funzionale gastrointestinale, ma più recentemente è stata riconosciuta come un disturbo dell’interazione intestino-cervello. La fisiopatologia è multifattoriale e comprende una motilità gastrointestinale disturbata, un’ipersensibilità viscerale e un’elaborazione alterata del sistema nervoso centrale (SNC), ma i meccanismi con cui questi processi interagiscono sono ad oggi di incerta origine e, di conseguenza, la sindrome dell’intestino irritabile è difficile da gestire clinicamente (Holtmann & Ford, 2016). Questa condizione cronica ha un impatto considerevole sul funzionamento sociale e sulla qualità della vita. Infatti, il grado di compromissione tra i pazienti con sindrome dell’intestino irritabile è simile a quello osservato nei pazienti con disturbi organici del tratto gastrointestinale come, ad esempio, le malattie infiammatorie intestinali. In studi controllati randomizzati (RCT) aventi come soggetti pazienti con sindrome dell’intestino irritabile, sono stati testati numerosi farmaci autorizzati e non autorizzati, quali neuro-modulatori intestinali, antidepressivi triciclici, farmaci che agiscono sui recettori della serotonina e farmaci che agiscono sui canali ionici dell’enterocita intestinale (Black et al., 2020b).

Tuttavia, molti pazienti sono risultati refrattari alla gestione medica. Poiché la sindrome dell’intestino irritabile è stata riconosciuta come un disturbo dell’interazione intestino-cervello, si sta quanto mai comprendendo come la comorbidità psicologica possa avere un impatto sulla funzione gastrointestinale e viceversa, nonostante i meccanismi di causa-effetto rimangano poco chiari. Nel Regno Unito, il National Institute for Health and Care Excellence, tra le linee guida per la gestione della sindrome dell’intestino irritabile, raccomanda ai medici di considerare l’invio a interventi psicologici in pazienti che non traggono benefici dal trattamento farmacologico (Hookway et al., 2015). Tra gli interventi consigliati vi sono l’ipnosi e la terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Black et al. (2020a) hanno condotto una meta-analisi per stimare l’efficacia relativa alle terapie psicologiche per la cura della sindrome dell’intestino irritabile. Gli articoli utilizzati nella meta-analisi sono stati selezionati tramite una ricerca su MEDLINE (articoli dal 1947 a gennaio 2020), EMBASE, EMBASE Classic (articoli dal 1947 a gennaio 2020), PsycINFO (dal 1806 a gennaio 2020) e dal registro centrale di studi controllati condivisi sulla piattaforma Cochrane.

Per selezionare gli articoli sono stati utilizzati diversi criteri di eleggibilità.

I trattamenti psicologici per la sindrome dell’intestino irritabile

In primo luogo sono stati inclusi solo studi di sperimentazione randomizzata controllata (RCT), ovvero con almeno due gruppi: uno sottoposto al trattamento ed uno di controllo.

I partecipanti dei paper selezionati dovevano avere un minimo di 18 anni ed una diagnosi di Sindrome da Colon Irritabile (IBS), basata sul parere di un medico o su criteri diagnostici sintomatici accettati (criteri di Manning, punteggi di Kruis, criteri di Rome I, II, III or IV) (Fig. 1), supportati da ricerche confermative qualora fossero necessarie. Era inoltre fondamentale che le terapie psicologiche si potessero confrontare tra di loro o che si potesse fare un intervento di controllo rispetto a: lista d’attesa, educazione e/o supporto rispetto alla malattia, consigli dietetici e/o sullo stile di vita o cure di routine.

Sindrome dell intestino irritabile efficacia delle terapie psicologiche FIg 1

Fig. 1: Esempi di criteri IBS. Gandolfi (2004) 

Il minimo di durata del trattamento doveva essere di 4 settimane. I soggetti dovevano essere sottoposti ad un follow up di 4 settimane e gli studi, dopo il completamento della terapia,  dovevano riportare una valutazione globale della risoluzione o miglioramento dei sintomi della sindrome dell’intestino irritabile, risoluzione o miglioramento del dolore addominale, preferibilmente riferito dal paziente, da un questionario o da un medico.

Il primo risultato valutato è stata l’efficacia di tutte le terapie psicologiche e degli interventi di controllo per la cura della sindrome dell’intestino irritabile, in termini di effetto sui sintomi globali o sulla riduzione del dolore addominale dopo il completamento della terapia.

I risultati secondari ricercati, includevano gli eventi avversi che si verificano a seguito di una terapia. Per quanto riguarda tutti gli studi inclusi gli autori hanno raccolto anche dati anagrafici quali: paese di origine, strutture di cura a cui si sono rivolti, tipo esatto di terapia psicologica utilizzata (compresa la durata della terapia e il numero di incontri previsti) criteri utilizzati per la diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile, l’indice per definire il miglioramento o la risoluzione dei sintomi dopo la terapia, la durata del follow-up, la percentuale di pazienti di sesso femminile e se i ricercatori avessero reclutato solo pazienti i cui sintomi erano refrattari alla terapia medica standard.

Conclusioni

Dalla meta-analisi è emerso che esistono prove a sostegno dell’efficacia delle terapie psicologiche, nello specifico rispetto agli interventi di CBT auto-somministrata a contatto limitato, CBT in presenza e l’ipnosi, in relazione alla riduzione a lungo termine della sintomatologia legata alla diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile.

Per quanto concerne l’efficacia delle terapie psicologiche in pazienti con sintomi refrattari, la CBT di gruppo e l’ipnosi si sono rivelate più efficaci di entrambi i trattamenti usati nei gruppi di controllo, ovvero supporto o cure di routine. Le terapie psicologiche con minor evidenza di efficacia a lungo termine sono risultate essere la CBT auto-somministrata o a contatto limitato, le terapie focalizzate sulla gestione dello stress, la CBT telematica, la CBT online, sessioni di ipnosi individuale e di ipnosi di gruppo. Negli studi selezionati, la presenza o assenza di comorbilità psicologiche non è stata valutata come predittore di risposta al trattamento, rendendo difficile comprendere il ruolo/impatto dell’umore rispetto all’efficacia delle terapie valutate. In conclusione, offrire terapie psicologiche che accompagnino la normale gestione medica non solo può avere degli effetti positivi sulla sintomatologia ma può ridurre l’utilizzo non necessario dell’assistenza sanitaria.

 

Metaverso… risorsa o aberrazione?

È sempre più in voga il termine Metaverso soprattutto tra i giovani (grazie al gioco Fortnite o Minecraft) nelle case di moda (che recentemente hanno iniziato a creare le loro collezioni virtuali o capsule collection) e grazie anche al recente cambio di nome aziendale da ‘Facebook’ a ‘Meta’ da parte di Mark Zuckerberg.

 

Cos’è il Metaverso

Cercando sul dizionario Treccani la parola sopracitata scopriamo la seguente definizione di – Metavèrso s. m. – Termine coniato da Neal Stephenson nel romanzo cyberpunk Snow crash (1992) per indicare uno spazio tridimensionale all’interno del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attraverso avatar personalizzati.

Il Metaverso viene descritto come un enorme sistema operativo, regolato da ‘demoni’ che lavorano in background, al quale gli individui si connettono trasformandosi a loro volta in software che interagisce con altro software e con la possibilità di condurre una vita elettronica autonoma. Il Metaverso è regolato da norme specifiche e differenti dalla vita reale e il prestigio delle persone deriva dalla precisione e dall’originalità del rispettivo avatar. Si è parlato di Metaverso per definire le chat tridimensionali e i giochi di ruolo multiplayer online.

In questo nuovo universo tutto è virtuale, ma le esperienze e l’economia sono reali.

In passato si è già parlato di realtà virtuale aumentata e una delle più popolari esperienze di questo tipo è stato il fenomeno dell’app Pokémon Go che ha coinvolto milioni di persone a caccia sfrenata di piccoli mostriciattoli giapponesi. Inizialmente il gioco era individuale ma successivamente, la possibilità di interagire con altri utenti e collaborare per ottenere una ricompensa comune, ha generato una forte aggregazione che ha coinvolto molti utenti di età, genere e cultura differente.

È stata una rivoluzione che ha permesso aggregazione e coinvolgimento di grandi e piccini. Ognuno ha un avatar, che è libero di personalizzare con costumi standard o personalizzabili a pagamento. Nella realtà virtuale, ‘i giocatori’, hanno un’esperienza di realtà fisica combinata ad informazioni aggiuntive derivanti dal gioco e dall’alterazione della realtà stessa.

Tuttavia l’esperienza di Pokémon Go presupponeva che le persone interagissero anche nella vita reale.

La sensazione è quella che il Metaverso sia un’ulteriore evoluzione del concetto introdotto dalle app simili a Pokémon Go che azzeri completamente quello che è il contatto umano tra gli utenti; infatti le interazioni tra gli avatar saranno esclusivamente di carattere digitale – virtuale.

Possibilità e limiti del Metaverso

Sorge spontaneo chiedersi se questa evoluzione non sia un’aberrazione della nostra umanità che non farà altro che creare un finto universo facendo smarrire all’intera comunità ciò che caratterizza l’uomo per definizione ovvero la propria umanità, il proprio animo. Questa evoluzione potrebbe snaturare per sempre la nostra comunità ed il nostro modo di vivere e di intendere la vita. Inoltre stress e ansia sociale potrebbero favorire la proiezione di sé all’interno di queste altre realtà che assicurerebbero distanza e lontananza dalle situazioni temute.

D’altro canto il Metaverso rappresenta sicuramente un’opportunità per coloro che non riescono a muoversi liberamente all’interno del mondo, vuoi per impedimenti esclusivamente fisici o per difficoltà psicologiche e sociali. A mio modesto parere per questi individui il Metaverso rappresenterebbe un’opportunità, potrebbe anche essere utilizzato dai professionisti del settore come terapia abbinato ad un serio percorso psicologico volto ad introdurre queste persone a quello che è il nostro contesto umano di riferimento e quindi il nostro mondo reale.

È indiscusso che il Metaverso potrebbe essere una preziosa risorsa qualora in un futuro, speriamo molto lontano, il nostro mondo possa essere inospitale e ci costringa a rimanere protetti in struttura per via di eventuali disastri atmosferici per noi non controllabili. A tal proposito sarebbe anche opportuno fare una riflessione sulla sostenibilità a lungo termine del progetto Metaverso che presumo comporti un ingente consumo di energia elettrica se un domani dovesse essere il nostro mondo di riferimento.

 

“La voce delle mie emozioni” di Benvenuto, Costantini, Gianandrea e Rusconi – Recensione

L’obiettivo del volume La voce delle mie emozioni è quello di fornire ai giovani, ai genitori e agli insegnanti una bussola per orientarsi nel mondo delle emozioni.

 

L’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica (AIED) ha pubblicato per mano di Alfonso Benvenuto, Maurizio Costantini, Antonella Gianandrea e Mario Rusconi una guida per comprendere le ansie e le emozioni in un mondo che cambia.

L’obiettivo dichiarato è quello di fornire ai giovani, ai genitori e agli insegnanti una bussola per orientarsi nel mondo delle emozioni che caratterizzano la nostra vita. In sostanza il libro guida il lettore a identificare, riconoscere e gestire le emozioni in un contesto, quello della società moderna, sempre più complesso.

La scuola e la famiglia, secondo gli autori, devono essere in grado di sviluppare competenze emotive e promuovere un’integrazione tra ragione ed emozione per favorire una maturità psicologica negli e tra gli individui.

Il volume si divide in quattro parti, la prima tratta delle emozioni in termini generali: cosa sono, i correlati fisiologici, la gestione e l’educazione, e i disturbi che si possono generare da una disfunzionale regolazione.

La seconda parte prende in considerazione il contesto scolastico e illustra com’è possibile intervenire per sviluppare capacità e abilità di regolazione delle emozioni, favorire l’altruismo e la prosocialità.

Nella terza parte, ‘Cultura ed emozioni’ sono presenti tre capitoli, uno curato da Donatella Bisutti dal titolo ‘Le emozioni nella poesia’, uno riporta un’intervista a Chiara Gamberale su letteratura ed emozioni e l’altro a Edoardo Leo su cinema ed emozioni.

Una parte molto interessante è la quarta, dove s’illustrano le problematiche della trasformazione digitale e dell’impatto che ha sull’espressione emotiva, sul vivere sociale, e sulle nuove forme di dipendenza dovute all’infosfera, in cui sempre più il reale è parte del virtuale e il virtuale è parte del reale e in cui i cittadini digitali, organismi informazionali, vivono onlife.

Una lettura preziosa, quella del volume La voce delle mie emozioni per chi, a qualunque titolo, opera con i giovani.

 

Military Sexual Trauma (MST): Il Trauma Sessuale Militare e le sue conseguenze

Il termine Trauma Sessuale Militare (Military Sexual Trauma – MST) comprende qualsiasi aggressione, abuso, molestia, subiti da qualcuno durante il servizio attivo, in addestramento o in servizio inattivo

 

Trauma Sessuale Militare: definizione e prevalenza

Il termine Trauma Sessuale Militare (Military Sexual Trauma – MST) comprende qualsiasi aggressione, abuso, molestia, intimidazione, coercizione, abuso di potere da parte di un superiore o attenzione indesiderata, come commenti verbali, pressioni per ottenere favori sessuali e contatti fisici, subiti da qualcuno durante il servizio attivo, in addestramento o in servizio inattivo (Allard et al., 2011; Department of Defense Sexual Assault Prevention and Response, 2012; Department of Veteran Affairs [VA], 2004).

Il Trauma Sessuale Militare è un problema pervasivo, che colpisce circa 1 donna su 4 e 1 uomo su 100 nell’esercito (Military Sexual Trauma Support Team, 2012; Department of Veteran Affairs [VA], 2004). Un numero crescente di studi ha mostrato un collegamento tra il trauma sessuale militare e i comportamenti rischiosi, autodistruttivi e compromettenti per la salute, quali l’abuso di sostanze (Yalch et al., 2018), compromissione del comportamento sessuale (Blais et al., 2021), comportamenti alimentari disfunzionali (Blais et al., 2017) e aumento di comportamenti suicidari (Bryan et al., 2015). Il trauma sessuale militare sembra inoltre avere collegamenti con complicanze a livello di salute fisica (Godfrey et al., 2015), e con il rischio di sviluppare patologie mentali (Gilmore et al., 2016).

Date alcune caratteristiche, come ad esempio le dinamiche di spiegamento (la lunga durata e l’elevato stress), l’ipermascolinità (il sessismo, il basso rapporto tra uomini e donne) e la mancanza di conseguenze per tali atti, i contesti militari possono creare un ambiente particolarmente favorevole alla violenza sessuale (Burns et al., 2014). Per esempio, l’ipermascolinità è associata a una maggiore tolleranza e accettazione verso le molestie sessuali e gli stupri, e le istituzioni che aderiscono a ideali maschili più stereotipati tendono ad avere tassi più elevati di violenza sessuale (Ilies et al., 2003). Molteplici sono, inoltre, le barriere legate al mondo militare che ostacolano la rivelazione e la ricerca di un trattamento per i traumi sessuali militari, compresi i vincoli di riservatezza, la paura di essere puniti attraverso incarichi di servizio, la paura dell’ostracismo, della stigmatizzazione e della vicinanza all’aggressore (Holland et al., 2016). Tutto questo può portare tali individui a cercare modi alternativi per affrontare il trauma sessuale, come ad esempio i comportamenti a rischio (Weiss et al., 2015).

Trauma sessuale militare e comportamenti a rischio

Forkus e colleghi (2021) hanno fornito una revisione sistematica della letteratura disponibile sul trauma sessuale militare e comportamenti a rischio, al fine riassumere la natura della relazione tra queste due variabili. I risultati della revisione, che ha esaminato 15 studi sull’argomento, hanno rivelato che i traumi sessuali militari sono associati a comportamenti suicidari. I risultati ottenuti confermano la letteratura precedente che ha indicato la violenza sessuale come un fattore di rischio per i comportamenti sucidiari (ad esempio, Devries et al., 2013) e sono coerenti con teorie secondo le quali i comportamenti suicidari vengono utilizzati per modulare i sintomi o il disagio legati al trauma vissuto (Davis et al., 2014; Smith et al., 2014).

Un risultato interessante risiede nella relazione riscontrata tra Traumi Sessuali Militari e Disturbi alimentari, confermando i risultati ottenuti da Chen e colleghi (2010), che hanno identificato la violenza sessuale come un fattore di rischio per l’insorgere di una patologia alimentare. In particolare, è stata riscontrata una correlazione con i comportamenti di restrizione alimentare, e con l’utilizzo di purghe o di lassativi, ma nessun collegamento con le abbuffate.

I comportamenti alimentari disfunzionali possono emergere quando le emozioni sono percepite come dirompenti e ingestibili, così che, le persone, per regolare le emozioni indesiderate, possono fare affidamento su modelli alimentari disadattivi al fine di riavere una percezione di controllo, percezione che è stata compromessa dall’esperienza traumatica (Forkus et al., 2021).

Per quanto riguarda l’uso di sostanze a seguito di un trauma sessuale militare, è emersa una relazione significativa tra il trauma sessuale militare e Disturbi da Abuso di Sostanze, quali alcool, droga e fumo (Ryan et al., 2015), supportando i quadri empirici e teorici che collegano violenza sessuale e uso di sostanze ( Xu et al., 2013). Nel contesto del trauma (ad esempio, nel disturbo da stress post-traumatico – PTSD), le sostanze vengono utilizzate con lo scopo di evitare o alleviare i sintomi e l’angoscia generati dal trauma (Baker et al., 2004).

Esaminando i comportamenti illegali e/o aggressivi, la revisione suggerisce un’associazione significativa tra trauma sessuale militare e comportamenti rischiosi, ma sono necessarie ulteriori ricerche prima di poter trarre conclusioni, data la poca numerosità di studi che hanno indagato questa associazione. Inoltre, c’è una vasta gamma di comportamenti rischiosi che non sono ancora stati valutati in relazione ai traumi sessuali militari, come il gioco d’azzardo, le spese avventate, la guida spericolata e l’uso problematico della tecnologia (Frokus et al., 2021).

L’attuale revisione sistematica di Frokus e colleghi (2021) fa progredire la letteratura fornendo un forte sostegno all’associazione tra trauma sessuale militare e un’ampia gamma comportamenti a rischio. I risultati ottenuti da questa revisione suggeriscono la necessità di ulteriori ricerche e approfondimenti sulla relazione tra trauma sessuale militare e comportamenti a rischio ad esempio, quelli con risultati incoerenti o che, ad oggi, sono stati poco studiati (Frokus et al., 2021).

 

La personalità isterico-istrionica negli uomini

Il disturbo istrionico di personalità, nel corso del tempo, è stato associato maggiormente al sesso femminile, ma esso risulta diffuso anche nella popolazione maschile.

 

Premessa

Nel seguente articolo, per una più facile scrittura e comprensione, si utilizzano i termini ‘isterico/a’, ‘istrionico/a’, ‘isterico-istrionico/a’ o ‘isteria’ per riferirsi al disturbo di personalità caratterizzato da emotività teatralizzata e sessualizzata. Si utilizza il termine ‘isteria da conversione’ per fare riferimento alla presenza di problematiche fisiche senza problemi d’organo, dovute a un conflitto emozionale.

Personalità istrionica e fattori culturali

Nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), il disturbo istrionico di personalità viene descritto come caratterizzato da una eccessiva emotività e dalla richiesta di sentirsi al centro dell’attenzione: il linguaggio usato, dai caratteri teatrali, è finalizzato a far sì che tutti siano concentrati su di sé. ‘Questi individui possono anche allontanare gli amici con richieste di attenzione costante’ e sentirsi ‘depressi e turbati quando non sono al centro dell’attenzione’ (ibidem, pg 774). Tali soggetti, inoltre, presentano dei comportamenti sessualizzati in frequenti occasioni, e non solo quando c’è un interessamento sessuale/sentimentale verso una specifica persona. Le loro idee od opinioni sono per altro fortemente suggestionabili da altri, in particolare da coloro ai quali attribuiscono una forte autorità (ibidem).

Tendono ad ‘utilizzare la seduttività per sentirsi potenti con le persone del genere sopravvalutato’ in modo da ‘proteggersi da sentimenti di debolezza, manchevolezza e paura, per sentirsi forte e trionfante’ (Lingiardi & McWilliams, 2017, pg 48). Questo accade poiché questo disturbo è presente in quelle culture in cui i ruoli di genere sono rigidi e gerarchizzati, tale che la sintomatologia è influenzata da fattori culturali: in occidente è più probabile che ci sia una manifestazione volta maggiormente alla teatralizzazione, mentre in culture più chiuse questa può essere più inibita (ibidem, 2017).

Il disturbo istrionico (isterico) di personalità, nel corso del tempo, è stato associato maggiormente al sesso femminile: essendo stati tradizionalmente gli uomini i detentori del potere nella società, la donna, solitamente associata a elementi di passività o sottomissione, cerca attraverso i suoi comportamenti sessualizzati di esercitare a sua volta un controllo sulla relazione. La donna dunque utilizzerebbe il potere della femminilità per avere accesso alla forza ‘maschile’. Tutto questo, in realtà, tende a ristabilire un’autostima che è inconsapevolmente carente e a ricercare sentimenti di sicurezza e accettazione (una situazione di tipo isterogena può essere quella in cui genitori avrebbero preferito un figlio maschio a una figlia femmina o quando si usano frasi del tipo ‘lanci come una ragazzina’ nei confronti dei maschi, a riprova del fatto che il sesso femminile sia considerato come più debole) (McWilliams, 1994). L’ansia relativa all’adeguatezza del proprio ruolo sessuale, può generare dunque un comportamento di tipo isterico-istrionico: si è visto come ci sono condizioni in cui le personalità isteriche presentino una risposta galvanica maggiore quando sentono il bisogno di ridurre l’ansia per un ruolo di genere sentito come inadeguato. Mostrano infatti un’alta sensibilità a giudizi sfavorevoli pronunciati da chi in date situazioni ritengono l’autorità, rispondendo con eccitazione emotiva e cambiamenti nel comportamento volti ad aumentare un bisogno inconscio di rassicurazione (Jordan & Kempler, 1970).

I tratti apparentemente narcisistici della personalità istrionica, caratterizzati da una competizione con gli altri usata per avere accettazione, è limitata all’ambito della sessualità e del genere: non sono infatti in grado di instaurare legami stabili al di fuori di queste aree. Ovviamente queste questioni circa il genere possono creare problemi nel corso della terapia: psicoterapeuti del genere sopravvalutato si sentiranno gratificati, mentre quelli del genere sottovalutato si sentiranno sminuiti (Lingiardi & McWilliams, 2017).

L’isteria da conversione

Inizialmente l’istrionismo era associato all’isteria da conversione: quest’ultima è definibile come un disturbo in cui, nonostante l’assenza di lesioni strutturali, si manifestano problematiche fisiche che coinvolgono sistemi d’organo. Tali reazioni di conversione sono viste come vere e proprie disfunzioni sensoriali e motorie, che vengono risolte una volta emerso il conflitto emozionale inconscio che questo cela: reazioni tipiche possono essere mal di testa, paresi, tremori, anestesie, cecità e, mentre le reazioni di conversione possono verificarsi anche in uomini, la personalità isterica non era attribuita al sesso maschile (Blinder, 1966).

Istrionismo maschile

Nel tempo, la femminilizzazione dei sintomi isterico-istrionici ha portato a una genderizzazione dell’isteria, in modo che questa fosse riscontrabile in misura minore negli uomini (Lubbe, 2003).

Separando la personalità isterico-istrionica dall’isteria da conversione, si osservò come i tratti istrionici fossero riscontrabili anche nel sesso maschile: si ritenne infatti che una personalità isterica maschile potesse essere riscontrata anche negli uomini che avevano comportamenti sovrapponibili ai tratti istrionici femminili, quelli che mostravano atteggiamenti femminei di sottomessa seduttività. Alcuni autori però affermarono come non fossero tanto i caratteri femminili a dover essere riscontrati in un maschio isterico-istrionico, quanto un comportamento da Don Giovanni che, difendendosi da un senso di inadeguatezza maschile, sente il bisogno conquistare e ingannare attraverso un comportamento provocatorio (Luisada, Peele, Pittard, 1974).

Questo potrebbe essere confermato da uno studio che ha notato come gli uomini dai tratti istrionici siano preoccupati di apparire attraenti e seducenti tanto da considerarsi dei grandi amanti. La loro preoccupazione maggiore sarebbe infatti quella di creare orgasmi nel partner, guardando alla soddisfazione femminile come un riflesso della propria capacità sessuale e aumentare così la sua autostima. Allo stesso tempo, minimizzerebbero le disfunzioni sessuali e presenterebbero un volume testicolare più elevato e una maggiore presenza di desiderio sessuale (Bandini et al., 2009).

Mentre la seduttività, la capricciosità, la promiscuità o la sessualizzazione erano considerati come tratti dell’isteria femminile, nel maschio venivano visti all’interno della cornice normativa di una cripto-perversione. Tale genderizzazione dell’istrionismo, ha fatto sì che l’enfatizzazione della mascolinità non fosse dunque messa al pari di quella femminile (Lubbe, 2003), supportata dal fatto che fosse maggiormente riscontrabile in donne poiché queste erano considerate più emotive degli uomini: in realtà si osservò poi come l’emotività fosse equilibrata tra i sessi, a variare sarebbe piuttosto l’espressione emozionale (Rabins & Slavney, 1979).

L’isterico-istrionico potrebbe rappresentare un’espressione della condizione umana che può essere compresa solo prendendo in esame il contesto nella quale è emersa. L’istrionismo nel maschio, quando riconosciuto, era letto attraverso le caratteristiche femminili che questi uomini mostravano, poiché le caratteristiche maschili della personalità istrionica erano tipicamente femminili, tanto da riscontrarne la presenza in uomini solo nel caso in cui fossero omosessuali dagli atteggiamenti femminei. Lindberg e Lindegard (1963) videro come l’incidenza di istrionismo negli uomini adulti fosse molto bassa, probabilmente perché gli atteggiamenti di eccitabilità, egocentrismo e manipolabilità del disturbo andrebbero a far sentire minacciato il terapeuta, sottoponendolo a un bias diagnostico dovuto al senso di disagio che l’inappropriatezza di queste caratteristiche causerebbe nel suo ruolo di genere (Silvers, 2017).

Lacan (1982), facendo riferimento al caso freudiano di Dora, disse che quella paziente altro non faceva che chiedersi cosa volesse dire essere donna: ‘la posizione isterica’ indicherebbe, quindi, l’insicurezza circa l’essere donna o uomo oppure l’accettazione della posizione di donna che si scontra contro la sua voglia di reagire alla sua condizione di oppressa (Richardson, 2004). È la sensazione che la propria identità sessuale sia problematica a poter scatenare una personalità istrionica (McWilliams, 1994): questa sensazione potrebbe dunque minare all’immagine collettiva che ad esempio si crea della mascolinità, basata sull’essere atletici, forti, eterosessuali e sessualmente attivi (Munsch & Gruys, 2018).

È stato osservato come anche il bodybuilder possa conservare in sé dei lati che potrebbero farlo rientrare in un tipo di isteria maschile. Poiché la personalità istrionica è sostanzialmente un problema di identità di genere (dualismo potenza-maschile/debolezza-femminile), la maggior parte dei bodybuilder dicono di aver iniziato a costruire il proprio corpo perché si consideravano deboli o non sufficientemente virili. Crearsi, dunque, un corpo che abbia un’ottima performance visiva di mascolinità, permetterebbe di fare di sé stesso un soggetto potente, esercitando una forza illusoria. Inconsapevolmente il bodybuilder occupa la posizione femminile all’interno di una società fallocentrica e, come la donna, ha problemi ad accettare la sua posizione di genere in una cultura patriarcale, iniziando una lotta per rivedere la performance del suo genere (Richardson, 2004).

Possiamo riscontrare, dunque, un’operazione di sincerità finalizzata alla ricerca di approvazione e al riconoscimento del proprio genere – atto presente allo stesso modo nelle donne – (Silvers, 2017), tale che attività ultra-maschili possono avere una base nell’isteria (Lubbe, 2003).

 

La zona cieca (2017) di Chiara Gamberale – Recensione

Chiara Gamberale in La zona cieca racconta la storia di due anime tormentate e profondamente invischiate nelle loro vite, da cui ognuno in qualche modo cerca di allontanarsi ma alle quali ritornano.

 

Chiara Gamberale apre un varco sulla psiche umana utilizzando un linguaggio chiaro e accessibile con pochi orpelli tecnicistici, come tale ci si aspetta da un romanzo che guarda ad un pubblico generalista ma non scevro di spunti e riflessioni specifiche.

Attraverso il suo libro, la scrittrice cerca di affrontare un tema importante e profondamente delicato della vita psichica, la non conoscenza, l’ignoto, quella parte inconscia che Freud destinava alla risoluzione dei conflitti psicopatologici, l’Inconscio e che Jung definisce Ombra (Jung, 1983).

La scrittrice entra in maniera decisa e intensa nella zona cieca dei protagonisti.

Il titolo del libro fa riferimento alla finestra di Johari, schema inventato dagli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham. La divisione è apparentemente semplice: ci sono quattro zone, quella conosciuta, quella cieca, quella privata e quella inconscia, ossia, quello che io so di me, quello che io non so, quello che gli altri sanno di me e quello che non sanno. Incrociando ascisse e ordinate, si ottengono diverse composizioni. Una di queste, che comprende ciò che gli altri sanno di te ma tu ignori, si chiama appunto la zona cieca (Luft, 1985).

In questo romanzo la Gamberale non racconta una storia d’amore ma parla dell’amore, nella sua trasposizione poco funzionale, e sotto alcuni punti di vista disadattiva. Come disadattivo può essere un sentimento che non trasferisce all’esterno ma vive il desiderio e la passione come termine conclusivo alla ricerca esasperata di se stessi. Una ricerca che i due protagonisti, soprattutto Lorenzo, nega a se stesso ma che in realtà si rivelerà fondamentale nel prosieguo della propria esistenza.

Il libro racconta di incontri, che a mano a mano si susseguono a vario titolo nelle pagine. Ma è soprattutto l’incontro di Lorenzo e Lidia, che permea il racconto, che trascina il lettore in quegli intrecci tipici di due personalità poco funzionali i cui tratti rammentano una personalità dipendente, Lidia, protesa all’altro, accondiscendente fino ad accettarne tradimenti e svalutazione e una personalità narcisista con caratteristiche borderline, Lorenzo, ma entrambi accumunati dall’autolesività delle loro azioni.

Due anime tormentate e profondamente invischiate nelle loro vite, da cui ognuno in qualche modo cerca di allontanarsi ma alle quali ritornano in maniera inestricabile alla ricerca del riscatto o come pretesto per ricominciare.

Lidia e Lorenzo si incontrano il 29 febbraio in un luna park. Due persone all’apparenza diverse ma molto più simili di quanto la loro natura non permetta di vedere. Lidia, conduttrice radiofonica di «Sentimentalisti Anonimi», avvezza al suo dolore, Lorenzo, scrittore narcisista e inafferrabile, conoscitore della vita solo nella maniera in cui l’inganno prende il sopravvento nel rapporto con se stesso e con gli altri. Eppure il bisogno di essere amata di lei consente a Lorenzo di avvicinarsi alla sua zona cieca, cioè quella parte di noi dove ognuno è sconosciuto a se stesso. E la paura di amare di Lorenzo consente a Lidia di fare altrettanto.

Io acconsentivo, com’è nella mia natura: non tanto per sottomissione,
ma sempre per quel mio solito vizio, perché non esistessero scarti
fra il desiderio e l’azione delle persone con cui avevo a che fare (Gamberale, 2017).

Al di là di tutte le nostre differenze, l’ho capito subito che in questo eravamo uguali, noi due. Bravi ad amare solo quello di cui percepiamo la caducità.

È la comparsa di Brian che rappresenterà il punto di rottura nella narrazione. È da qui che ciascuno entrerà nella propria zona cieca, seppur in maniera differente. Il racconto di se stessi, delle verità loro malgrado diventerà il promotore di un canale che irromperà nella loro storia permettendone scelte e cambiamenti. La prospettiva di un modo differente di prendersi cura dell’altro permetterà ad entrambi di accedere ad un’immagine realista di se stessi e quindi veritiera, abbandonando l’ideale a cui la necessità di amare può condurre.

Come C.G. Jung afferma:

La figura dell’Ombra personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce e che pur tuttavia, in maniera diretta o indiretta, instancabilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere poco apprezzabili o altre tendenze incompatibili (C.G. Jung, Coscienza, inconscio e individuazione,1939).

Il romanzo di Chiara Gamberale non avanza pretese scientifiche e cliniche ma ben si adatta al racconto necessario a cui ognuno tende quando l’evidenza sfugge di mano, quando il piano soggettivo deve lasciare il posto ai dati oggettivi nell’inevitabile incontro con se stessi.

L’Ombra è l’ignoto, l’Altro, il diverso, il nemico, l’osceno, il grottesco, la zona cieca, ciò che non vorremmo essere e che non viviamo consapevolmente e che incominciamo a vedere e a capire solo quando iniziamo a ignorare un po’ l’immagine ideale di noi stessi.

 

Giochi di carte collezionabili: l’importanza della competizione e della ricreazione

I giochi di carte collezionabili (GCC) sono una delle forme ludiche più popolari al giorno d’oggi.

 

Cosa sono i giochi di carte collezionabili

Giochi come Pokémon, Magic, Yu-Gi-Oh e the Gathering hanno un seguito enorme e forti sottoculture che li supportano. Questi giochi sono significativamente sottovalutati, insieme alla cultura dei giocatori, rispetto ai giochi da tavolo e i giochi di ruolo, supportati e analizzati da parte di numerose ricerche (Daynasti & Linuwih, 2021).

Yu-Gi-Oh è un gioco di carte collezionabili creato dalla società di giochi giapponese Konami nel 1999. Il gioco è stato localizzato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2002. Il gioco fa parte di un franchise multimediale più ampio, composto da più programmi televisivi, manga, film e altri giocattoli. Nel gioco di carte, ogni giocatore costruisce il proprio mazzo, ognuno con effetti e abilità differenti nel gioco. Ogni giocatore ha un totale di ottomila punti vita e l’obiettivo del gioco è esaurire quelli del proprio avversario. I giocatori lo fanno attaccando il loro avversario con delle ‘carte mostro’, che hanno valori di attacco diversi e i giocatori hanno accesso a carte incantesimo e carte trappola che consentono di utilizzare altre abilità utili nel gioco. Le abilità possono variare, ad esempio si può cercare una carta specifica nel proprio mazzo, costringendo così il proprio avversario a scartarne una (Daynasti & Linuwih, 2021). Gli effetti o le abilità di tutte le carte possono essere attivati ​​in tempi diversi, e talvolta anche durante il turno dell’avversario a seconda della carta. Il punto più importante è che i giocatori hanno accesso a innumerevoli abilità tra le migliaia di carte disponibili e che tali abilità possono essere applicabili praticamente in qualsiasi momento durante il gioco, ovviamente a seconda di ciò che è scritto sul testo della carta (Daynasti & Linuwih, 2021).

Cosa porta le persone a giocare ai giochi di carte collezionabili

Ma perché le persone giocano? Morteson, Sixsmith e Kaufman (2017) hanno osservato come il più grande vantaggio che le persone traggono dai giochi non digitali è l’interazione sociale che avviene tra i partecipanti. Hanno notato anche che ‘giocare per scappare dalla vita quotidiana’ è stata citata meno frequentemente rispetto al ‘divertimento’ e alla ‘stimolazione mentale’. Questo suggerisce che gli intervistati hanno giocato per i benefici positivi, piuttosto che come mezzo di evitamento (Morteson et al., 2017). Ciò era particolarmente vero per i giovani adulti nello studio, e potrebbe rivelarsi interessante per comprendere i giocatori di Yu-Gi-Oh.

Fattori esclusivi dei giochi di carte collezionabili che Billicent ha evidenziato sono il trading, l’investimento e l’espressione personale, aspetti del gioco che si intrecciano tra loro (Daynasti & Linuwih, 2021). Le interviste ai giocatori menzionano tutte il trading come un aspetto importante della comunità di gioco ed esprimono soddisfazione nel possedere e nel fare trading di carte preziose. In alcuni casi, le persone vendono carte invece di scambiarle semplicemente con altre. Billicent ha confrontato l’aspetto di investimento dei giochi di carte collezionabili con il ‘giocare in borsa per divertimento’ (Gee, 2014). Ito (2005) ha toccato anche il tema del commercio e della vendita di carte, notando che forma un’intera sottocultura all’interno delle comunità di giochi di carte collezionabili. Ha notato anche che la cultura commerciale esiste tra i bambini giocatori, anche se le carte considerate preziose tendenzialmente differiscono in modo notevole dalla comunità degli adulti (Daynasti & Linuwih, 2021). L’espressione personale è un altro aspetto unico dei giochi di carte collezionabili che Billicent osserva, derivante in parte dal fatto che i giocatori devono costruire i propri mazzi con le proprie collezioni di carte. Alcuni degli intervistati hanno espresso un senso di attaccamento personale ai loro mazzi e un senso di identificazione con loro e si è osservato come i giocatori tendano a identificarsi con lo stile di gioco o con le strategie coinvolte nei loro mazzi, più che con le immagini raffigurate sulle carte (Daynasti & Linuwih, 2021).

Adinolf e Turkay (2011) hanno indagato maggiormente le motivazioni che spingono le persone a giocare, hanno riportato quindi come sia la raccolta delle carte, sia le interazioni sociali, contribuiscano al mantenimento di un’attività ludica, evidenziando così l’importanza del gioco nell’apprendimento: la natura sociale dei giochi di carte collezionabili costituisce una via per l’insegnamento e per lo sviluppo di particolari abilità sociali. La necessità di insegnare ai nuovi giocatori le meccaniche di gioco è un modo in cui cooperare insieme, mentre altri aspetti come il trading possono aiutare i giocatori a sviluppare abilità di persuasione e negoziazione (Daynasti & Linuwih, 2021). Alcuni giochi di carte collezionabili possono anche aiutare a sviluppare abilità come la gestione delle risorse.

I giochi di carte collezionabili e i valori culturali nei giocatori: lo studio di Nagi e collaboratori

La raccolta dei dati per questo studio (Nagi, 2021) consiste nell’osservazione dei partecipanti, poiché questo metodo permette di adottare uno sguardo coinvolgente riguardo ai modelli e ai valori culturali. Un approccio etnografico è il modo migliore per scoprire la costruzione sociale del significato all’interno di una sottocultura, in particolare nell’ambito della teoria dei frame di Goffman, una lente per la comprensione delle costruzioni sociali integrate da metodi etnografici (Goffman, 1974). La teoria di Goffman (1974) suggerisce come le persone cercano di costruire differenti cornici attorno agli eventi, con lo scopo di dare un significato alle azioni (Nagi, 2021). Ogni persona opera così con più cornici in un dato momento, ma le azioni sono coerenti grazie alla cosiddetta struttura primaria (1974, 26). Mentre l’atto di inquadratura è importante per capire come viene creato il significato, l’atto di digitare è altrettanto importante, soprattutto nell’analisi del gioco. La digitazione differisce dall’inquadratura in quanto è la trasformazione del quadro primario (Goffman, 1974). Le prime osservazioni sono state svolte durante l’incontro settimanale dei giocatori di Yu-Gi-Oh all’interno di un negozio di giochi locale. Normalmente, il gruppo era composto da quattro o sei giocatori, tutti uomini tra i venti e i venticinque anni (Daynasti & Linuwih, 2021). Osservando le etichette applicate dai giocatori durante il gioco, il seguire le regole, il controllo sul proprio stile di gioco e sul mazzo altrui grazie alla familiarità con il proprio e la nostalgia per i mazzi GOAT, Nagi ha evidenziato come le strutture principali di Yu-Gi-Oh sono la competizione e la ricreazione. Il quadro della ricreazione riconosce Yu-Gi-Oh come una forma di intrattenimento. All’interno di questo quadro i giocatori sono riuniti con la pretesa condivisa di divertirsi giocando a Yu-Gi-Oh. Il secondo quadro è quello della concorrenza, dove i giocatori sono riuniti con l’obiettivo di vincere (Daynasti & Linuwih, 2021).

Queste strutture occasionalmente si oppongono l’una all’altra, ma attraverso il keying e altri insiemi di aspettative i giocatori riescono a bilanciare queste strutture e a conciliare questa dicotomia. Parallelamente, nella società i valori, i comportamenti e le aspettative della comunità lavorano in gran parte a sostegno di una o entrambe queste cornici e, a volte, lavorano per raggiungere un equilibrio tra queste ultime, come fanno i giocatori stessi (Daynasti & Linuwih, 2021).

 

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