expand_lessAPRI WIDGET

La Play Therapy ed i videogiochi

La Play Therapy è una pratica conosciuta ed applicata in Nord America, Corea del Sud, Nord Europa e Giappone.

 

Nel libro di testo Play Therapy: The Art of Relationship, Landreth (2012) definisce la terapia del gioco come: ‘relazione interpersonale dinamica tra un bambino (o una persona di qualsiasi età) e un terapeuta formato che, attraverso materiali di gioco selezionati, facilita lo sviluppo di una relazione sicura affinché il bambino (o una persona di qualsiasi età) possa esprimere pienamente e esplorare il sé (sentimenti, pensieri, esperienze e comportamenti) attraverso il gioco, il mezzo di comunicazione naturale del bambino, per una crescita e uno sviluppo ottimali’. Attraverso il gioco i bambini imparano a interagire con il mondo che li circonda e iniziano a comprendere le relazioni sociali.

I tipi di intervento nella Play Therapy

Nella Play Therapy (Mochi, C. 2019) vi sono diverse modalità d’intervento. Negli interventi di tipo non direttivo, il Play Therapist seleziona con attenzione i giocattoli nella stanza dei giochi per aiutare i bambini ad esprimere una varietà di sentimenti e problemi. Sarà poi il bambino a scegliere quali giocattoli utilizzare ed anche il modo con cui intende giocarvi. Il Play Therapist segue empaticamente l’iniziativa del bambino unendosi a giochi di finzione e immaginazione quando invitato dal bambino e fornisce nei momenti opportuni i limiti per tutelarne l’integrità fisica e favorire l’esercizio e lo sviluppo dell’autocontrollo. Un’altra forma di Play Therapy è quella familiare. In questa tipologia di intervento è l’intera famiglia ad essere coinvolta in giochi e attività ludiche. Una forma particolare di intervento Familiare è la Filial Therapy ove i genitori divengono gli agenti principali nel trattamento dei propri figli. I principi terapeutici della Play Therapy sono assimilabili non soltanto ai classici giochi, ma anche ai videogiochi, ai giochi online e ad alcuni mondi virtuali. Tra questi troviamo:

  • Abreazione: le persone attraverso il gioco o attraverso la realtà virtuale (meglio conosciuta come virtual reality) possono rivivere in maniera graduale determinate esperienze traumatiche esercitando nel contempo un maggior controllo su di esse. Ad oggi, l’efficacia della terapia di esposizione alla realtà virtuale, si è dimostrata utile nel trattamento di diverse fobie specifiche, come nel caso della selacofobia (dal greco Σελαχοειδή: squalo e φοβία: paura). Chi soffre di questa fobia presenta una seria difficoltà nel fare il bagno in mare aperto, a praticare sport acquatici anche in luoghi dove di sicuro non sono presenti squali, a fare un’uscita in barca o a visitare acquari o zoo. Nei casi molto gravi la paura si estende anche per il bagno in piscina o alla sola vista di una foto o di un filmato. Nello studio in questione (Malbos, E., et al. 2021) l’uso della VRET, oltre a comportare una riduzione dei sintomi della paziente colpita da tale fobia, ha dimostrato una vantaggiosità che si è mantenuta nel tempo anche dopo un follow up a distanza di 12 mesi.
  • Catarsi: il rilascio emotivo è quasi universalmente riconosciuto come un elemento essenziale in ogni forma di psicoterapia. Coinvolge quelle forme emozionali in precedenza interrotte.
  • Potere e controllo: nel gioco si può fare accadere quello che si vuole, sentirsi potente e tenere la situazione sotto controllo permettendo di sviluppare un locus of control interno.

La play therapy attraverso i videogiochi

Abreazione, catarsi, potere e controllo sono dinamiche fondamentali che ritroviamo anche nella Videogames Therapy o V.G.T, metodologia riabilitativa ideata dal Dott. Francesco Bocci, Psicologo e Psicoterapeuta Adleriano. Questo ambito di intervento sviluppato dal collega è uno strumento usato che permette di intraprendere un lavoro di contenimento emotivo, clinico e terapeutico, come di tipo supportivo ed espressivo, ricorrendo al videogioco commerciale. Proprio come l’attività di ‘gioco’ consente ai bambini di esprimere inconsciamente aspetti del proprio mondo interno ed esterno, anche i videogiochi garantiscono questo risultato amplificandolo, in quanto, anche se sono un ‘gioco’, in ogni modo, sono accessibili a utenti di età superiore a quella infantile. Inoltre, i videogiochi sono diventati un oggetto sempre più esplicito di comunicazione tra i giovani, le cui immagini sembrano assimilare sempre più elementi tipici del mondo dei videogiochi.

Nel videogioco si attivano molti elementi legati al nostro emisfero sinistro, dove risiede la nostra memoria di lavoro. Essa attivandosi permette al gamer di vivere una sorta di ‘autocontrollo’ di sé che lo porta a sentirsi ‘valido’ e ‘capace’, seppur in un ambiente funzionale come quello del contesto videoludico, e di poter raggiungere un equilibrio tra le ‘sfide’ che il gioco richiede e le proprie competenze e risorse, cognitive ed emotive (soft skills), messe in atto. Si viene così a creare ciò che Mihaly Csikszentmihalyi chiama ‘stato di flow’, una condizione di benessere che ha un potenziale molto forte rispetto al contenimento emotivo. Si riattiva così nel gamer, quel ‘Sè Creativo’ (concetto coniato nel 1912 da Alfred Adler) che permette di riprendere il controllo della propria attenzione nel momento presente, così come dei propri vissuti proiettivi, che si attivano attraverso il gioco in quel determinato momento. Capite bene come in questo tipo di setting le dinamiche inconsce legate a traumi passati o a ricordi specifici di vita, costitutivi dello ‘stile di vita’ del soggetto (altro termine coniato da Alfred Adler ai primi del 1900), possano venire alla luce attraverso il ‘dialogo’ tra gamer e caregiver (terapeuta) durante la sessione di gioco stessa.

Sull’utilità positiva dei videogiochi, il direttore ricerca e sviluppo del settore giochi dell’IFTF, nonché Game Designer (Institute for the Future di Palo Alto in California), James McGonigal ha dimostrato, tramite le sue ricerche, come i videogiochi e possono accrescere il benessere e migliorare le relazioni, influendo in tal modo sui nostri comportamenti e favorendo le capacità di crescita personale (Bocci, F., Sala, C., 2019).

Anche se sono diversi e numerosi i videogames che possiamo far rientrare a pieno titolo nella Play Therapy (Life is Strange, Unravel 2, The Last day of June, Sea of Solitude, ecc…) vale la pena citare quando parliamo di videogames, il caso di Pokémon Go. Nonostante la mancanza di principi come l’abreazione o la catarsi, questo videogioco si è dimostrato efficace in altri modi. Dalla sua uscita nel 2016, ha attratto più di 65 milioni di utenti (Serino, M., Cordrey, K., McLaughlin, L., & Milanaik, R.L., 2016)

La Play Therapy e il particolare caso di Pokémon Go

La popolarità di Pokémon Go può essere compresa nel contesto della teoria degli usi e della gratificazione di Jay Blumler ed Elihu Katz. (Ruggiero, T.E., 2000), che è una delle teorie più citate per comprendere il consumo dei media. Secondo tale teoria, le persone selezionano determinati media per soddisfare bisogni, come bisogni cognitivi, bisogni integrativi sociali, bisogni affettivi, bisogni di riduzione della tensione (diversione o fuga dalla noia) e bisogni integrativi personali (status sociale o credibilità). Più recentemente, questa teoria incentrata sul pubblico è stata applicata sia ai giochi mobili (Rauschnabel, P.A, Rossmann, A., & Dieck, M. C., 2017) che a quelli online (Wu, J., Wang, S., Tsai, S. 2010).

Uno studio recente ha indicato che coloro che avevano un umore negativo prima di giocare a Pokémon Go, si sentivano significativamente meglio dopo il gioco (Alloway T.P., Carpenter, R. 2021). Quindi, se stai cercando un rimedio veloce e salutare, Pokémon Go potrebbe essere un buon inizio, soprattutto ora che tutti possono sperimentare i suoi benefici per il miglioramento dell’umore. Mentre ci sono prove iniziali che suggeriscono che Pokémon Go può ridurre l’umore negativo, i ricercatori dello stesso studio hanno scoperto che giocare a Pokémon Go migliora anche alcuni aspetti della cognizione, in particolare la memoria di lavoro, il sistema cognitivo che detiene temporaneamente le informazioni. Ci sono molti componenti della memoria di lavoro, ma nello studio i ricercatori hanno scoperto che la memoria di lavoro verbale, le informazioni relative a lettere e parole, sono migliorate dopo aver giocato a Pokémon Go. Lo studio non ha mostrato un miglioramento in tutti i componenti della memoria di lavoro, ma ha indicato che la funzione della memoria di lavoro verbale è flessibile e aumentata come risultato del gioco. Quindi, dopo aver giocato per lunghi periodi di tempo, potresti notare un miglioramento nel modo in cui ricordi le informazioni verbali, per non parlare del fatto che potresti anche sentirti più felice di conseguenza. Originariamente era stato ipotizzato che giocare a Pokémon Go potesse portare a una maggiore empatia, derivante da una maggiore interazione sociale e da una connessione più frequente con estranei (Jungselius, B. et al., 2015), tuttavia ciò non è stato evidenziato dal presente studio. Una possibilità per la mancanza di risposte empatiche in questo gioco potrebbe essere dovuta alla natura fantasiosa dei suoi personaggi, lontani dall’aspetto originale in cui i personaggi erano basati su animali (Webster, A. 2016). Il realismo negli ambienti di gioco modera gli effetti che il gioco ha sul giocatore, sia nell’aggressività che nel comportamento prosociale (Krcmar, M., Farrar, K. M., & McGloin, R. 2011). Pertanto, questa mancanza di realismo potrebbe aver contribuito all’incapacità dei giocatori di adottare le prospettive degli altri giocatori o di dimostrare empatia. I risultati dello studio suggeriscono che Pokémon Go non facilita quindi l’empatia ma può migliorare l’umore. Questa scoperta ha importanti implicazioni per gli individui che lottano contro l’ansia e la depressione.

L’utilità di Pokémon Go tuttavia non si ferma qui. Un ulteriore esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dal C.S. Mott Children’s Hospital negli Stati Uniti. In questo ospedale pediatrico del Michigan, Pokémon GO viene utilizzato come strumento terapeutico. Bambini con una vasta gamma di condizioni mediche differenti (malati di cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc ..) hanno l’opportunità di usufruire di Pokémon GO, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti. L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volta a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a questo videogioco di tipo free-to-play essi possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente. Il movimento, dice un membro del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli. (Lazzeri, M. 2017)

Sempre riguardo ai videogiochi, a livello internazionale le aziende che investono nel campo dei videogiochi o nei dispositivi hardware a loro connessi in campo sanitario sono molteplici. Facendo una ricerca su Pubmed Central con una parola chiave come Wii per esempio, si nota subito come la stessa compaia in diversi studi che trattano aspetti come la riabilitazione fisica e cognitivo-comportamentale. Tra i tanti esempi presenti troviamo (Pensieri, C. 2013):

  • EbaViR (Easy Balance Virtual Rehabilitation) – EbaVir (Gil-Gomez, J. A., Lloréns, R., Alcaniz, M., & Colomer, C. 2011) è un sistema basato sulla tecnologia della Wii Balance Board Nintendo. È stato progettato dai terapisti clinici per migliorare, attraverso esercizi motivazionali e adattivi, l’equilibrio in piedi e la postura dei pazienti con ABI (ovvero con lesioni celebrali acquisite). Il sistema EbaVIR non utilizza nessun software commerciale. Gli esercizi sono stati programmati con l’ausilio di un programma per la creazione di applicazioni 2D e 3D ed è stato progettato con l’aiuto di specialisti clinici della riabilitazione dell’equilibrio. Il sistema è stato sviluppato con il fine ultimo di ottenere un sistema valido per il recupero dell’equilibrio dei pazienti. Inoltre esso mirava sia alla realizzazione di un sistema che rafforzasse la motivazione dei pazienti durante il processo riabilitativo sia alla creazione di un sistema che fornisse ai terapisti dei dati oggettivi sull’evoluzione dei pazienti.
  • Wii Sports – Nella popolazione anziana la depressione subsindromica è molto diffusa. Essa è associata a una notevole sofferenza, disabilità funzionale, maggiore utilizzo di costosi servizi sanitari e una maggiore mortalità. In uno studio (Rosenberg D, et al. 2010) dove sono stati campionati 22 individui (di età compresa tra 63 a 94 anni) e 19 di essi hanno completato le 12 settimane di studio con il gioco Wii Sports (contenente cinque giochi: tennis, bowling, baseball, golf e pugilato). I partecipanti hanno giocato alla Wii nella loro struttura residenziale o nel loro centro anziani per 35 minuti in tre sedute settimanali. L’indagine pilota di 12 settimane con questi videogiochi ha suggerito un alto tasso di adesione (84%), con un significativo miglioramento dei sintomi depressivi, del funzionamento cognitivo e senza grandi eventi avversi.

 

Come as you are (2017) di Emily Nagoski – Recensione

Attraverso una narrazione fluida e ironica, il volume Come as you are ci accompagna nella scoperta di come funziona la sessualità femminile.

 

Sentirsi sbagliati. Anzi, in particolare sentirsi sbagliate. Nella mia esperienza di terapeuta sessuale credo sia il tema più ricorrente. Portato soprattutto dalle donne, in varie declinazioni.

Provare troppo poco desiderio, provarne troppo, avere difficoltà a raggiungere l’orgasmo, sentirsi da meno perché non si raggiunge l’orgasmo durante il coito, eccitarsi solo in risposta all’iniziativa sessuale dell’altro, sentirsi a disagio nel proprio corpo: sono solo alcune delle ragioni per cui le donne si sentono sbagliate, diverse, non funzionanti.

Il libro di Emily Nagoski è un libro per tutte loro. Anzi, è un libro per tutte noi.

Frutto del suo lavoro di educatrice sessuale, del suo incontro con le donne, con i loro dubbi e le loro domande, il volume è una raccolta di risposte che intreccia conoscenze scientifiche e storie femminili in modo chiaro ed evocativo.

A partire da solide nozioni scientifiche sull’anatomia e sul funzionamento sessuale, l’autrice prende in esame i più diffusi (e clamorosamente errati) modelli culturali sulla sessualità femminile, considerata da sempre una variante ‘light’ di quella maschile.

Questi modelli culturali hanno influenzato negativamente la vita e la sessualità di molte donne, facendole sentire sbagliate ogni volta che il loro funzionamento si discostava da quello standard maschile.

In opposizione alla comune tendenza a considerare la sessualità come comportamento, Emily Nagoski prende in esame i processi biologici, psicologici e sociali che ne stanno alla base, dimostrando come queste donne non siano uomini che funzionano male o in modo strano: sono donne. Con un normale funzionamento.

Le stesse parti, organizzate in maniera diversa.

Dal punto di vista anatomico, infatti, ogni parte dei genitali maschili ha il suo omologo nei genitali femminili. Nel feto i genitali sono uguali fino alla settima settimana di gestazione, poi si differenziano in maschili e femminili. Le parti omologhe sono parti che si sono sviluppate da tessuti fetali equivalenti: per esempio il clitoride (e non la vagina) dal punto di vista anatomico è omologo del pene, ed è dunque l’organo genitale con più terminazioni nervose e che produce, se stimolato nel modo giusto e nel giusto contesto, sensazioni di piacere più intense.

Se non provocano dolore, tendenzialmente tutti i genitali sono sani e normali, indipendentemente dalle differenze di forma, colore e dimensione.

E lo stesso vale per il loro funzionamento.

Attraverso una narrazione fluida e ironica, l’autrice ci accompagna nella scoperta di come funziona la sessualità femminile e di come dunque ogni donna può muoversi nella direzione di una vita sessuale più appagante e libera da condizionamenti e sofferenze.

Un concetto fondamentale per capire la risposta sessuale è il modello del duplice controllo. Il nostro cervello influenza la risposta sessuale attraverso due meccanismi: un ‘acceleratore’ (il sistema nervoso simpatico) che ci attiva in riposta a stimoli sessualmente rilevanti, e un ‘freno’ (il sistema nervoso parasimpatico) che risponde a potenziali minacce spegnendo l’attivazione. Entrambi sono fortemente condizionati dall’apprendimento, perciò le nostre esperienze, compresa la cultura familiare e sociale in cui siamo immersi, influenza il modo in cui si attivano i nostri freni e il nostro acceleratore. Per quanto ci siano statisticamente delle differenze di genere (gli uomini hanno tendenzialmente un acceleratore più sensibile e le donne freni più sensibili), le differenze all’interno di ciascun gruppo sono maggiori di quelle fra i due gruppi, per cui la sensibilità specifica di acceleratore e freni è diversa da una persona all’altra.

Ogni donna e più in generale ogni individuo ha la sua ‘personalità sessuale’, come la definisce l’autrice, composta da un personale e unico equilibrio tra questi due meccanismi, frutto della sua dotazione genetica e delle sue esperienze (compresa l’influenza culturale).

Tutta la vasta gamma di disturbi del funzionamento sessuale può essere letta come squilibrio (in un senso o nell’altro) tra freni e acceleratore.

Questi due meccanismi interagiscono con gli altri sistemi motivazionali del cervello, soprattutto con la risposta da stress.

Da un punto di vista evolutivo, non avrebbe senso fermarsi ad accoppiarsi nel bel mezzo dell’attacco di un leone. È invece più vantaggioso che, in caso di pericolo, il nostro cervello inibisca ogni sistema motivazionale che non sia utile alla sopravvivenza immediata e rimandi a tempi migliori il soddisfacimento di altri sistemi, compreso quello sessuale.

Ma, a differenza di quello che accade agli altri animali, il cervello umano attribuisce significati che vanno oltre la mera biologia e anche oltre la realtà concreta: cosa succede, dunque, se, in virtù dei condizionamenti culturali o di esperienze avverse, è il sesso a fare la parte del leone?

È il caso, ad esempio, dell’ansia da prestazione: la paura di non funzionare adeguatamente tira il freno, inducendo una risposta di allarme.

Nel caso di esperienze sessuali traumatiche, invece, il cervello impara a considerare gli stimoli sessualmente rilevanti come minacce, attivando il sistema di difesa.

Il modo in cui il nostro cervello percepisce e interpreta una sensazione dipende, dunque, dal contesto, inteso non solo come contesto fisico, ma anche (e forse soprattutto) come contesto emotivo e culturale.

La risposta sessuale femminile, inoltre, è più sensibile di quella maschile al contesto.

Purtroppo, evidenzia l’autrice, la nostra cultura non è per nulla favorevole alla costruzione di una sana e appagante vita sessuale: i messaggi che riceviamo sono contraddittori, distorti e tendono a bollare come sbagliato tutto ciò che non si conforma alla cultura dominante del momento. In questo modo è continuamente alimentato il senso d’inadeguatezza e il sesso è spesso associato a sensazioni di disgusto, anche nei confronti del proprio corpo.

Detto questo, in attesa che una rivoluzione culturale cambi il contesto in cui viviamo, Emily Nagoski invita e accompagna le lettrici (ed eventuali coraggiosi lettori!) a coltivare una vita sessuale più appagante anche all’interno di un mondo sfavorevole.

Prendendo in esame le più diffuse false credenze sulla risposta sessuale e smontandole una a una, servendosi efficacemente di solidi dati scientifici, l’autrice mostra, anche con l’aiuto di pratiche schede di lavoro, come alimentare il desiderio, come far crescere l’eccitazione e lasciarsi andare all’esperienza dell’orgasmo accrescendo il godimento e la soddisfazione rispetto alla propria vita sessuale. A fare da cornice a tutto questo una semplice ma fondamentale considerazione: siamo tutte diverse e siamo tutte normali.

Ciò che maggiormente influenza la sessualità è, infatti, il modo in cui ci sentiamo rispetto ad essa.

Se ci sentiamo sbagliate perché il modo in cui funzioniamo è diverso da ciò che ci è sempre stato proposto come normale o giusto, o da ciò che vediamo negli altri, allora vivremo male ogni aspetto della nostra vita sessuale, attivando i freni e alimentando un circolo vizioso di difficoltà e autoflagellazione.

È questo che Emily Nagoski, con prosa ironica e scorrevole, ma allo stesso tempo con rigore scientifico, cerca di trasmettere nel suo volume: coltivare il non giudizio, la compassione amorevole verso se stesse, accettandoci per quello che siamo, imparare a fidarsi del proprio corpo e dei suoi segnali.

Per riprendere un’efficace metafora dell’autrice, dobbiamo imparare a rinunciare alla mappa, ovvero a quanto la nostra cultura ci ha sempre insegnato sul sesso, e a conoscere e fidarci del territorio, ovvero il nostro corpo, le nostre emozioni e sensazioni.

A volte questo comporta un processo doloroso, una sorta di lutto per ciò che non siamo e avremmo voluto essere, o per ciò che non abbiamo e avremmo voluto avere, ma solo dandoci il permesso di essere quelle che siamo e di sentire quello che sentiamo, possiamo cambiare quei processi che ci bloccano e rilasciare i freni, imparando nel contempo a spingere sul giusto acceleratore e vivere appieno la nostra vita sessuale.

Solo se riusciremo ad accoglierla così com’è, in tutti i suoi aspetti e le sue particolarità, senza giudicarla e senza forzature, anche se non è come avremmo voluto o come ci saremmo aspettate, allora potremo sentirci normali e creare le condizioni affinché la nostra sessualità si esprima al massimo del suo potenziale e diventi davvero appagante.

Per migliorare la propria vita sessuale, dunque, è importante imparare a riconoscere i contesti che aiutano il cervello a percepire il mondo in modo da favorire il rilascio dei freni e la pressione sull’acceleratore.

 

La Terapia dell’Avventura nel Disturbo Borderline di Personalità

Mendo‐Cullell e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare la risposta alla Terapia dell’Avventura rispetto al trattamento basato sulla terapia cognitivo-comportamentale in pazienti con disturbo borderline di personalità.

 

Cos’è la Terapia dell’Avventura

Per far fronte agli alti tassi di disagio familiare, sociale psicologico o di vera e propria disabilita tra bambini, adolescenti, giovani adulti e anziani, recentemente è stata ideata la Terapia dell’avventura (AT), una terapia decisamente innovativa, nata negli Stati Uniti ma rapidamente diffusa anche in Europa. È una forma di terapia esperienziale che coinvolge vari tipi di attività all’aria aperta e sembra essere particolarmente efficace per elevare il benessere, implementare l’autostima, l’autonomia e le capacità relazionali (Russel et al., 2017). La Terapia dell’Avventura offre strumenti di prevenzione, intervento precoce e trattamento per persone con problemi comportamentali, psicologici e psicosociali: i partecipanti apprendono importanti abilità e lezioni di vita da utilizzare nella loro quotidianità tra cui la cooperazione con gli altri, il lavoro di gruppo e il superamento dei propri limiti e delle proprie paure. Diversi risultati in letteratura hanno valutato l’efficacia della Terapia dell’Avventura su una grande varietà di popolazioni, trovando che la Terapia dell’Avventura porti a molti miglioramenti psicologici, comportamentali, emotivi e interpersonali che vengono mantenuti a lungo termine. I benefici sono stati osservati su giovani a rischio, pazienti con malattie croniche, cancro, disturbi comportamentali, abuso di sostanze, danni cerebrali acquisiti, disturbi d’ansia, difficoltà di comunicazione, bambini con disturbi dello spettro autistico e disturbi psicotici (Bryson et al., 2013; Girard & Dubé, 2017). Quasi tutti i programmi di terapia dell’avventura sono basati sul Outward Bound Process Model (Walsh e Golins, 1976) che è una forma di apprendimento esperienziale e prevede che ciascun partecipante, collocato in un gruppo di pari, esegua alcuni compiti specifici di problem solving progettati in modo tale da portarlo fuori dalla sua zona di comfort e creare uno stato di disagio. Da queste esperienze, risolvendo la situazione, i pazienti sviluppano abilità di adattamento, capiscono le conseguenze delle proprie azioni e sperimentano il controllo (Gass & Russell, 2012).

La Terapia dell’Avventura per il Disturbo Borderline di Personalità

Il disturbo borderline di personalità (DBP) colpisce tra lo 0,7 e il 2,0%  della popolazione ed è caratterizzato da grandi difficoltà di adattamento che condizionano diversi settori della vita di chi ne soffre. I tratti di personalità disfunzionali presenti nei pazienti borderline includono principalmente elevati livelli di instabilità emotiva, instabilità e ipersensibilità nei rapporti interpersonali, difficoltà nel controllo degli impulsi, instabilità nell’immagine di sé, estreme fluttuazioni dell’umore e bassa tolleranza alla frustrazione. Tali tratti disfunzionali causano rigidità comportamentale e grandi problemi nella costruzione di relazioni sane e stabili (APA, 2013). L’applicazione della Terapia dell’Avventura prevede che i pazienti con DBP vengano messi di fronte alle loro difficoltà in modo da far emergere i tratti disfunzionali; tramite il confronto con gli altri sulle difficoltà e la gestione adattiva dei loro comportamenti disfunzionali guidata da terapeuti, i partecipanti potrebbero trarre grandi vantaggi e sviluppare nuove abilità da utilizzare nella vita quotidiana. È molto probabile quindi che la Terapia dell’Avventura possa essere utile anche per questo disturbo. Poiché non esistevano risultati in letteratura che valutassero l’efficacia della Terapia dell’Avventura sul disturbo borderline, Mendo‐Cullell e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare la risposta alla Terapia dell’Avventura rispetto al trattamento basato sulla terapia cognitivo-comportamentale in pazienti con DBP. In particolare gli autori volevano verificare gli effetti a breve termine dell’AT in pazienti con diagnosi di BPD, sia dal punto di vista clinico e psicosociale, sia in termini di salute fisica e qualità della vita.

Uno studio sulla Terapia dell’Avventura applicata al BPD

Sono stati inclusi nello studio 20 pazienti con diagnosi DBP, appartenenti al Programma Specifico di Ospedalizzazione Parziale (PHSP) del Day Hospital Psichiatrico per Adulti di un ospedale, 10 dei quali sono stati inseriti in un gruppo di Terapia dell’Avventura mentre i rimanenti 10 sono stati inseriti in un gruppo di terapia convenzionale cognitivo-comportamentale (treatment as usual-TAU). Ciascuna sessione di Terapia dell’Avventura prevedeva diverse attività fisiche tra cui giochi di problem-solving, slackline, arrampicata e trekking, con l’obiettivo di attivare, attraverso esercizi esperienziali, i pattern disadattativi abituali delle persone borderline in situazioni di alta intensità emotiva. Ogni sessione prevedeva inoltre un’attività fisica che provocava disregolazione emotiva e richiedeva cooperazione con i compagni. Le attività di lavoro permettevano di elaborare le difficoltà nella sfera interpersonale, nella regolazione emotiva e nella tolleranza all’angoscia. Entrambi i gruppi sono stati valutati pre e post trattamento e per ciascun paziente sono stati somministrati i seguenti questionari: Beck Hopelessness Scale (Beck et al., 1974) per valutare le aspettative negative sul futuro; la Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 2015) per l’autostima; il State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger et al., 1999) per la valutazione dell’ansia; il Plutchik Impulsivity Scale (Plutchik & Van Praag, 1989) per verificare la frequenza dei comportamenti impulsivi. Successivamente ai soggetti è stato somministrato il World Health Organization Disability Assessment Schedule (WHODAS 2.0; WHO, 2015) per le difficoltà funzionali che il paziente ha identificato nei 30 giorni immediatamente precedenti il test e, infine, il World Health Organization Quality of Life, versione abbreviata (WHOQOL-BREF; WHO, 1996) per valutare la qualità della vita.

I risultati mostrano che i parametri studiati hanno subito dei miglioramenti soprattutto dopo la Terapia dell’Avventura. In particolare nel gruppo Terapia dell’Avventura sono state riscontrate in primo luogo abitudini di vita più sane, con un notevole aumento della frequenza dell’esercizio fisico e un miglioramento di alcuni parametri fisici. Inoltre i pazienti che hanno fatto Terapia dell’Avventura mostrano una migliore percezione della qualità della vita e una diminuzione delle difficoltà funzionali e nell’instaurare relazioni sociali. Anche i valori dell’ansia sembrano diminuiti dopo la Terapia dell’Avventura mentre l’autostima, sebbene sia aumentata in entrambi i gruppi, sembra essere migliorata maggiormente nel gruppo TAU. I risultati confermano quindi una possibile applicazione della Terapia dell’Avventura per i pazienti con disturbo borderline in quanto sono state osservate abitudini di vita più sane, una maggiore funzionalità e una più alta qualità della vita. Sarebbero necessarie però ulteriori ricerche in questo campo per confermare i risultati ottenuti e verificarne l’efficacia nel tempo (Mendo‐Cullell et al., 2021).

 

La guerra in Ucraina e l’intervento delle società europee di terapia cognitivo-comportamentale

La guerra scoppiata ormai da alcune settimane in Ucraina ha coinvolto ovviamente anche il mondo psicologico e le diverse società nazionali afferenti all’EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) sono state coinvolte in modi diversi. 

 

L’EABCT stessa ha prodotto un comunicato pubblicato sulla sua pagina web, di forte condanna all’azione militare. Si può leggere sul sito dell’associazione un comunicato che inizia così:

L’Associazione Europea per le Terapie Comportamentali e Cognitive protesta contro la violazione del diritto internazionale prodotta dell’invasione ingiustificata dell’Ucraina, nazione sovrana, da parte delle truppe russe. Come professionisti della salute mentale sappiamo dell’impatto della guerra sulla salute mentale e sul benessere degli individui e della società nel presente e per le generazioni a venire. Tutto ciò dovrebbe essere impedito attraverso la cessazione delle ostilità e dal ripristino della pace”.

Tra le società nazionali, la più coinvolta è ovviamente la società ucraina, Ukrainian Association of Cognitive and Behavioural Therapy (UACBT). La sua presidente, Valentyna Parobii, in fuga dalla nazione, ha diffuso un video il 27 febbraio scorso, su 5 punti chiave a proposito della guerra in Ucraina. Può essere visto qui:

Tra le pagine social dell’UACBT, è ben aggiornata la pagina Facebook, che riporta diverse iniziative, anche online prodotte in questi giorni.

Anche le associazioni nazionali russe fanno parte dell’EABCT. Ve ne sono due e una di queste, l’ACBP (Association for Cognitive and Behavioral Psychotherapy) segnala la contrarietà all’intervento armato attraverso il suo gruppo Facebook in un comunicato del presidente Dmitrii Kovpak. È in lingua russa, ma il traduttore automatico del social network ne permette una comprensione ragionevole.

La European Society for Traumatic Stress Studies (ESTSS) ha fornito raccomandazioni su cosa possono fare i professionisti della salute mentale per in supporto all’Ucraina, che sono reperibili a questo link.

Inoltre la società polacca, molto coinvolta nell’assistenza ai profughi provenienti dall’Ucraina, è particolarmente attiva e sta lavorando in modi diversi l’assistenza a chi fugge dal conflitto: attraverso la traduzione di materiali di supporto psicologico per i profughi e sta raccogliendo disponibilità di terapeuti volontari per l’assistenza i profughi. È possibile aderire compilando questo modulo online.

Magari il nostro contributo non sarà necessario, ma per chi volesse mettersi a disposizione, avendo le competenze necessarie e la conoscenza linguistica, può essere un buon modo per rendersi utili in questi momenti così difficili.

 

Il profilo psicologico di Vladimir Putin 

La brutale invasione dell’Ucraina per mano di Vladimir Putin riporta a galla in noi quelle grandi domande quali, “Perché la guerra?” o, ancora, “Come può un uomo – Putin – compiere azioni così ripugnanti come uccisioni sanguinose ed ingiustificate?”.

 

Introduzione

A queste domande difficilmente riusciremo a trovare una risposta quantomeno soddisfacente, ma la psicoanalisi e la psicologia, articolata nelle sue aree teorico-applicative, hanno provato a dare un proprio personale contributo a questi interrogativi. Alla prima domanda (tra l’altro titolo di un famoso carteggio tra Einstein e Freud) potremmo rispondere riprendendo la famosa concezione psicoanalitica freudiana che postula come nell’animo umano convivano due tipi di pulsioni innate: una di vita – Eros – che orienta gli uomini alla conservazione ed alla riproduzione, ed una di morte – Thanatos – che si manifesta invece in tendenze autodistruttive, di cui la guerra è esempio emblematico.

Alla seconda è possibile cercare di rispondere attingendo alla scienza della personalità, tenendo presente che per capire a fondo il comportamento di una persona – anche se è faticoso – bisogna essere in grado di abbracciare la complessità, comprendendo che un individuo è il frutto di un’interazione tra determinanti genetiche ed ambientali tra cui fattori culturali e sociali (la mentalità di Putin del resto rappresenta il tentativo della Russia, dopo il crollo dell’Urss – 1989 – di resistere all’occidentalizzazione).

Concentrandoci però sull’aspetto personologico di Vladimir Putin, una ricerca del 2018 ha provato a delineare il profilo di personalità del presidente della Federazione Russa: il metodo utilizzato nel seguente lavoro è stato ideato dal ricercatore Aubrey Immelman ed è plasmato sul modello di personalità di Theodore Millon, uno degli artefici del formato multiassiale del DSM, nonché fondatore del Journal of Personality Disorders. Egli definisce la personalità come l’insieme di tratti intrinseci e pervasivi che emergono da una complicata matrice di disposizioni biologiche e di apprendimenti esperienziali che, in definitiva, comprendono il valore distintivo dell’individuo di percepire, sentire, pensare, adattarsi e comportarsi (Millon, 1996, p. 4).

La teoria di Millon e la metanalisi psicodiagnostica

In sintesi, il modello di Millon offre un continuum tra normalità e psicopatologia: i disordini di personalità sono semplicemente delle distorsioni patologiche dei normali prototipi o stili di personalità. Questa mancanza di una linea netta tra normale e patologico ha delle importanti implicazioni nell’assessment di personalità politica sviluppato da Immelman, in quanto migliora la capacità predittiva del metodo anticipando così, con precisione teoretica, le strategie di coping di un leader di fronte alle avversità, nonché il probabile decorso di un crollo catastrofico nel suo funzionamento adattivo (per una review comprensiva di tale modello si rimanda a Immelman, 1993a; 1998).

La procedura di assessment utilizzata – chiamata metanalisi psicodiagnostica – consta di tre parti: una prima fase dove sono stati estratti dall’open-source intelligence dati psicobiografici del presidente Putin rilevanti dal punto di vista psicodiagnostico, una seconda fase di sintesi dei dati raccolti attraverso il Milion Inventory of Diagnostic Criteria (MIDC; Immelman, 2012), strumento di assessment psicologico costituito da 170-item e 12 scale corrispondenti a pattern di personalità che fornisce 34 classificazioni personologiche (20 normali , 14 maladattive) congruenti con l’Asse II del DSM-IV; un’ultima fase inferenziale dove il profilo di personalità prodotto dal MIDC viene quindi valutato seguendo le linee guida interpretative fornite dalla teoria di Millon.

Putin, in primo luogo, è risultato avere dei punteggi decisamente alti (ma adattivi) nelle scale “Dominante/controllante” (una misura di aggressività o ostilità), “Ambizioso/egoista” (una misura di narcisismo), “Coscienzioso/diligente” e, secondariamente, anche nelle scale “Schivo/Riservato” (introverso), “Intrepido/Avventuroso” (assumersi il rischio) e “Diffidenza/Sospettosità” (Fig.1).

 

Vladimir Putin ipotesi sul suo profilo psicologico e personologico Fig 1

Fig.1: Configurazione di personalità di Vladimir Putin

Qual è il profilo di personalità di Putin delineato dalla valutazione?

Sembrerebbe emergere, dunque, una personalità dominante a cui piace esercitare il potere ed intimidire gli altri, evocando obbedienza e rispetto; un carattere competitivo, tenace e non sentimentale. Un leader efficace sebbene, in certe occasioni, possa essere intransigente, testardo, coercitivo.

Personalità ambiziosa, audace, competitiva e sicura di sé. La sua tendenza ad assumere facilmente ruoli di leadership è dovuta al possedimento di forti doti persuasive e al suo saper agire con fermezza e decisione. Si aspetta che gli altri riconoscano le sue qualità speciali, ma tende a mancare di reciprocità e, spesso, agisce soltanto perché pensa di avere il diritto di farlo.

Personalità coscienziosa, può essere descritto come una persona operosa, organizzata, affidabile, prudente e rispettosa delle tradizioni e dell’autorità. È formale ed inflessibile nelle sue relazioni interpersonali.

L’interpretazione del profilo di Putin deve anche tenere conto di altre caratteristiche secondarie: personalità riservata, fredda e distaccata, fatica a sviluppare forti legami con altre persone e raramente esprime agli altri i suoi sentimenti/pensieri. Persona calma e rilassata, metodico nel lavoro, non si fa distrarre facilmente da ciò che accade intorno a lui. Ha una scarsa capacità di riconoscere i bisogni ed i sentimenti altrui, pertanto viene visto come insensibile, poco spontaneo.

Personalità audace e avventurosa, individualista, regolato dal proprio codice interno, agisce nel modo che egli ritiene più opportuno senza preoccuparsi degli effetti delle sue azioni. È disposto ad assumersi le responsabilità delle conseguenze ma, per farlo, può oscurare la verità o violare la legge e le convenzioni sociali stabilite. Mostra un forte bisogno di autonomia ed autodeterminazione e tende ad essere scettico sulle motivazioni addotte dalle altre persone.

Personalità diffidente, ha una forte inclinazione nel voler leggere le persone e le situazioni intorno a lui e si trova totalmente a suo agio con situazioni ambigue, secondi fini e distorsioni della verità.

I punti di forza della sua personalità in politica sono il suo atteggiamento dominante e la sua assertività; mentre i suoi principali difetti sono la sua intransigenza, la mancanza di empatia e di flessibilità cognitiva.

Possiamo concludere che, con la sua particolare configurazione di personalità, Putin possa essere caratterizzato come un esecutore ostile espansionista con un orientamento al ruolo di politica estera che può essere descritto come introversione deliberativa ad alto dominio.

 

Vladimir Putin ipotesi sul suo profilo psicologico e personologico - imm 2

L’inquietudine adolescenziale nell’era Covid-19

Il Covid ha privato gli adolescenti di esperienze fondamentali per la crescita proprio in un momento del ciclo di vita in cui è pressante la spinta verso l’autonomia ed il bisogno di appartenenza, confronto e rispecchiamento con l’Altro.

 

L’adolescenza è una fase del ciclo di vita delicata, complessa ed affascinante che, in quanto tale, merita un’attenzione specifica, si tratta di un’epoca della vita umana caratterizzata da incertezza e instabilità psichica, corporea e relazionale (Lancini M, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, 2020). La pandemia, il lockdown, la didattica a distanza, hanno stravolto la quotidianità di ciascuno creando in molti adolescenti un vero e proprio blocco nel percorso di realizzazione dei compiti evolutivi. Come dichiarato da Claudio Mencacci nel corso di un’intervista rilasciata il 27 gennaio 2022 a Il Sole 24 ore:

Con la pandemia un’allarmante percentuale di giovanissimi sta manifestando i segni di un disagio mentale. I tassi di depressione e ansia che si registrano sono direttamente correlati alle restrizioni: si impennano cioè quando viene impedita la socialità, quando si deve tornare alla didattica a distanza, quando non si possono coltivare le relazioni con i coetanei che in adolescenza sono indispensabili.

Il contesto scolastico in adolescenza

Se pensiamo alla scuola non solo come luogo di trasmissione di informazioni ma come vero e proprio ‘contenitore’ emotivo e sociale, luogo di crescita e di confronto, ponte tra famiglia e società, comprendiamo come i ragazzi siano stati privati per lungo tempo di esperienze fondamentali per la crescita proprio in un momento del ciclo di vita in cui è pressante la spinta verso l’autonomia ed il bisogno di appartenenza, confronto e rispecchiamento con l’Altro; durante la DAD i ragazzi si sono trovati chiusi in casa, confinati nelle loro camere, a tu per tu con le loro paure ed angosce, costretti a relazionarsi col mondo attraverso uno schermo.

Le ricerche condotte nel corso dell’ultimo anno sullo stato di salute mentale di bambini ed adolescenti mettono in mostra uno stato di emergenza sul quale non è possibile pensare di continuare a chiudere gli occhi, si rende necessaria piuttosto una immediata presa di consapevolezza da parte di tutta la società. I ragazzi attraverso i loro comportamenti (pensiamo al notevole aumento dei casi di suicidio, autolesionismo, disturbi alimentari, ansia, depressione) stanno comunicando con forza il loro malessere, il loro smarrimento, la loro solitudine, il senso di impotenza nei confronti di un futuro incerto, vissuto come privo di progettualità e mete da raggiungere. Si tratta di ragazzi che sentono di star male ma che non riescono a dare un nome alle sensazioni che provano, falliscono nel tentativo di comprendere gli intensi vissuti emotivi da cui si sentono sopraffatti, motivo per cui, probabilmente, ad oggi assistiamo ad un notevole aumento dei comportamenti aggressivi: le emozioni non comprese vengono agite, il sintomo segnala il disagio, comunica il dolore e la sofferenza individuale. Spesso il sintomo rappresenta anche una prima forma di cura messa in atto per mitigare un dolore vissuto come insopportabile (Lancini M, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, 2020). Molti ragazzi manifestano difficoltà che in poco tempo riescono a superare, ma tanti altri stanno mostrando di non avere le risorse interne per riuscire a fronteggiare situazioni di crisi. La pandemia ha indebolito psicologicamente molti adolescenti slatentizzando fragilità mentali che fino ad oggi non si erano mai manifestate o andando ad aggravare problemi preesistenti.

È necessario che questi temi vengano portati sempre più in primo piano e sottoposti all’attenzione di tutti affinché, con urgenza, vengano messi in atto interventi efficaci e concreti che vedano tutte le istituzioni impegnate in una presa in carico globale degli adolescenti, appare chiaro quanto la salute mentale abbia un ruolo prioritario e non più accessorio rispetto alla salute fisica.

 

Mental Health Apps e Digital Therapy

Le Mental Health Apps intervengono con metodologie basate sulla psicoeducazione, la meditazione e l’assesment per migliorare gli stati d’ansia, stress e depressione.

 

La Digital Mental Health

Era il gennaio del 2020 e l’Organizzazione Mondiale della Sanità annunciava l’emergenza sanitaria di interesse internazionale da COVID-19. Oggi, dopo esattamente 2 anni, la pandemia ha ridisegnato completamente le nostre abitudini e tra queste l’uso (e l’abuso) delle nuove tecnologie digitali ci ha portato a ricercare modalità di comunicazione impersonali e ibride per superare l’isolamento sociale e l’emergenza sanitaria. Una necessità che nasce dal nostro bisogno di confronto e di rapporti umani che alimentano gli stili d’interazione, le strutture sociali e le strategie di socialità-adattiva.

Pc e Smartphones sono diventati i nuovi oggetti transizionali (Winnicott, 1951), estensioni della nostra mente. La finestra sul mondo che ci permette di osservare e cercare oltre i limiti della fisicità. Ed è proprio questa nuova predisposizione che rende anche la salute mentale sempre più ‘smartphone’.

Il settore della Digital Mental Health è in forte crescita e ricercatori e professionisti stanno lavorando da quasi dieci anni sui benefici e le criticità di questi nuovi strumenti sanitari. Numerose e ancora inevase sono le domande, i dubbi e le perplessità sulla loro efficacia  e adeguatezza, sul futuro della diagnosi e del sostegno psicologico self-made (Firth et Al, 2017).

Oggi sono due gli ambiti in via di sviluppo: le Mental Health Apps, che sono ‘applicazioni benessere’ self-help per migliorare condizioni di ansia e depressione attraverso tecniche motivazionali e di meditazione del tipo ‘intervention app’ (di supporto o trattamento) o di ‘mood tracking/assessment’ (Wasil et Al, 2019); e la Digital Therapy (DTx), che riguarda strumenti progettati per curare disturbi con interventi farmaco-sostitutivi che richiedono alti standard di sicurezza ed efficacia da rispettare.

La Digital Therapy

Tra queste ultime l’America fa da pioniera con l’approvazione della prima DTx da parte della Food Drug Administration (FDA) già nel 2017, alla quale sono seguite terapie digitali per la diagnosi e il trattamento di ADHD (il video-gioco EndeavoRx ), il deterioramento cognitivo, i disturbi del sonno e da abuso di sostanze. Un mercato che secondo il fondo Rock Health muove 2,4 miliardi di dollari di finanziamenti tra le società di salute comportamentale digitale.

Sempre in America uno studio randomizzato controllato sulla DTx Daylight per la preoccupazione e l’ansia, ha rilevato che il 71% degli utenti ha ottenuto la remissione del disturbo d’ansia generalizzata, rispetto al 33% di quelli in un gruppo di controllo (Carl, JR, et al.,2020).

In Europa invece sono la Gran Bretagna e la Germania a fare da apripista e mentre l’Italia paga un ritardo digitale e l’assenza di normativa in materia, la Germania invece si dimostra la prima ad approvare dispositivi terapeutici digitali per disturbi del sonno e depressione, tra i quali troviamo rispettivamente Somnio e Velibra.

Queste nuove opportunità di intervento sono di base cognitivo-comportamentale e hanno come obiettivo quello di modificare gli schemi di comportamento disfunzionali che non permettono al paziente di applicare strategie quotidiane adeguate ed efficaci, con la possibilità di alleggerire il carico nelle strutture sanitarie e affiancare la figura dello specialista con un approccio integrato di prevenzione, riabilitazione, monitoraggio e valutazione del percorso terapeutico. Di contro, gli alti costi per una realizzazione capillare delle Dtx e la richiesta di prescrizione medica per molte di loro riducono notevolmente le promettenti potenzialità e il numero di professionisti abilitati a farne uso.

Le Mental Health Apps

Anche il settore delle Mental Health Apps si sta affermando tra gli users: una ricerca di Deloitte sulla Digital (Consumer) Evolution, presentata lo scorso 18 gennaio, stima una spesa a livello globale per le Mental Health App (MH-App) che raggiungerà quasi i 500 milioni di dollari per il 2022. Un risultato importante che si aggiunge alle già numerose versioni gratuite di MH-App per il benessere mentale e lo stile di vita interiore. Si tratta di App che intervengono in prevalenza con metodologie basate sulla psicoeducazione, la meditazione e l’assesment per migliorare gli stati d’ansia, stress e depressione (Wasil et Al, 2019). Questi disturbi, in forte crescita soprattutto tra le fasce più giovani (Chen et Al. 2020), sono il risultato di difficoltà relazionali causate dall’isolamento forzato e il distanziamento sociale. Il fenomeno interessa anche le fasce più anziane: uno studio della Warren Alpert Medical School of Brown University, Providence, Rhode Island ha valutato 15 App, economiche e accessibili, di formazione e orientamento per la terza età durante la fase pandemica e i risultati hanno dimostrato una riduzione del senso di solitudine e un miglioramento della salute e dell’indipendenza personale (Banskota et Al. 2020).

Il monitoraggio delle Mental Health Apps e della Digital Therapy

Sono nate anche App che monitorano le Mental Health Apps e le Digital Therapy: Stephen Schueller, PhD e professore associato di scienze psicologiche e informatica presso l’Università della California ha creato un sito per i consumatori, One Mind Psyber Guide, che aiuta a trovare strumenti validi ed efficaci basati sull’esperienza dell’utente, su prove evidenced-based, sicurezza e privacy, fornisce un punteggio di credibilità per le App e un giudizio clinico sul loro sviluppo relativamente a disturbi d’ansia, stress, PTSD e DOC.

Un altro esempio è l’App Evaluation Model di iniziativa dell’American Psychiatric Association, progettata per aiutare consumatori e clinici nella scelta di App appropriate, con una sezione validity-check rivolta agli esperti.

Il tema ha interessato le maggiori riviste scientifiche, da Lancet Digital Health a Nature Digital Medicine, con l’evidenza che nei prossimi anni ci troveremo ad affrontare gli effetti di queste nuove modalità relazionali e di approccio alla cura. Ancora non possiamo dire con certezza se si tratterà di Digital Placebo Effect (Tourus. J. et Al., 2016) o di sistemi di intervento integrati, efficaci e curativi a favore anche delle fasce economicamente più svantaggiate. Certo è che la nuova figura del paziente-consumatore richiederà, oltre all’evidenza scientifica, comportamenti di promozione e tecniche di intervento per un uso responsabile e consapevole a favore del benessere personale e collettivo.

 

Gli antecedenti del suicidio nei giovani

Il suicidio è considerato un grande problema di salute pubblica; è causato da aspetti psicologici, sociali, economici, biologici e culturali (Barrio, 2007).

 

Il suicidio colpisce tutte le fasce d’età e, sebbene nel mondo le statistiche durante l’infanzia siano più basse, recentemente sono aumentate, provocando scalpore per la tragicità dell’evento. Talvolta accade che i bambini non abbiano strategie adattive sufficienti per far fronte ad alcune situazioni stressanti: diversi studi dimostrano infatti che nel periodo di transizione tra la tarda infanzia e l’adolescenza avvengano vari cambiamenti interni ed esterni che hanno un impatto sulla capacità emotiva, fisica e mentale di colui che li vive (Unicef, 1999). Per tale ragione, in tutto il mondo il suicidio è molto comune tra i giovani ed è la terza causa di morte sia per le ragazze che per i ragazzi tra i 15 e i 19 anni (WHO, 2019). Da molti anni, in molti paesi, i tassi di suicidio nei bambini e nei giovani sono in aumento: uno studio epidemiologico condotto in 101 paesi tra il 2000 e il 2009 ha rilevato che il 14,7% dei suicidi si è verificato in bambini tra i 10 e i 14 anni di età (Kõlves & De Leo, 2015); nel  2018 le registrazioni di decessi per suicidio dell’Office for National Statistics (ONS) mostrano un aumento del 22% in un anno del tasso di suicidio nei giovani sotto i 25 anni. Anche in Europa il suicidio sembra essere la seconda causa di morte tra i giovani, dopo gli incidenti stradali. Circa 1.200 ragazzi all’anno, nella fascia di età 10 – 19 anni, si tolgono la vita.

I segnali d’allarme per il suicidio

Oltre ai tassi del suicidio, anche i tassi di autolesionismo sono in aumento, specialmente tra le ragazze e tra coloro che hanno meno di 20 anni. Questo dato è importante in quanto l’autolesionismo costituisce uno dei fattori di rischio per un successivo suicidio. È interessante notare come per le ragazze l’aumento sia iniziato più tardi (2013 rispetto a 2010 per gli uomini) ma sia raddoppiato molto rapidamente (entro il 2018); sembra infatti che tale aumento coincida con l’impatto dei social media e con la crescente domanda di servizi di salute mentale per bambini e adolescenti (Lennon, 2018).

Nonostante i membri della famiglia riferiscano che la morte di un ragazzo spesso avvenga ‘di punto in bianco’ e senza alcun tipo di preavviso, la maggior parte degli studi che si sono occupati di analizzare i suicidi individuali riportano la presenza di alcuni segnali d’allarme tra cui l’autolesionismo, l’espressione di ideazione suicidaria e un recente contatto con i servizi (Björkenstam et al., 2017). Sembrerebbe quindi che coloro che non danno nessuna indicazione di un intento suicidario siano una minoranza. Generalmente diversi fattori interagiscono prima che i pensieri suicidari si trasformino in un comportamento suicidario: spesso esiste un disturbo psichico sottostante e un evento stressante che scatena il comportamento. I problemi più comuni sono la depressione, l’ansia e il disturbo da stress post traumatico; tra gli adolescenti anche il disturbo da uso di alcol o sostanze e uno scarso controllo degli impulsi (Driver, & Thomas, 2018).

Uno studio sugli antecedenti del suicidio

Nel 2020 uno studio di Rodway e colleghi ha tentato di esaminare gli antecedenti del suicidio nei giovani che potrebbero aver contribuito al recente aumento. In particolare i ricercatori volevano riportare i numeri ed esaminare gli antecedenti del suicidio da parte di giovani tra i 10 e i 19 anni; esplorare le differenze di genere in queste caratteristiche e descrivere i contatti con i servizi o le agenzie specializzate. Inoltre gli autori volevano esaminare alcuni particolari sottogruppi tra cui i bambini affidati alle autorità locali, gli LGBT e i giovani che avevano subito un lutto. Per i dati necessari hanno raccolto tutte le indagini degli organismi ufficiali del Regno Unito tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2016. I rapporti delle inchieste sui giovani morti per suicidio contengono molte informazioni tra cui le testimonianze di famiglie, amici e professionisti, riguardo a episodi stressanti che il giovane stava vivendo prima di suicidarsi. Le informazioni sugli antecedenti sono state estratte da udienze o fascicoli dell’inchiesta del tribunale o rapporti di morte della polizia; revisioni di casi ottenute dalla National Society for the Prevention of Cruelty to Children national case review repository; rapporti della giustizia penale; dati della National Confidential Inquiry into Suicide and Safety in Mental Health (NCISH) e, infine, rapporti di incidenti gravi del Servizio Sanitario Nazionale (NHS). Sono stati quindi inclusi nello studio 595 soggetti su cui era registrato almeno un rapporto e si sono svolte diverse analisi statistiche per esaminare le associazioni tra genere, sottogruppo e altre caratteristiche. I risultati mostrano che tra i quasi 200 suicidi l’anno nel Regno Unito tra il 2014 e il 2016, il 71% erano maschi e l’età più frequente risulta essere l’adolescenza (tra i 17 e i 19 anni). Inoltre sembrerebbe che i principali antecedenti comuni nelle ragazze siano: malattie mentali familiari, violenza domestica, abusi, lutti dei genitori, bullismo, autolesionismo, assistere a violenza domestica, lutti (compreso il suicidio) e possibili pressioni scolastiche. Per i ragazzi i principali antecedenti sono invece l’abuso di droga e i problemi sul posto di lavoro. I metodi più comunemente utilizzati dai giovani per suicidarsi sono risultati l’impiccagione/strangolamento, lesioni multiple (e.g. il salto dall’alto e le morti in ferrovia) e l’auto-avvelenamento. Infine è emerso che molti dei giovani inclusi nello studio appartenevano ai sottogruppi analizzati (LGBT, bambini assistiti e bambini che avevano subito un lutto) e molti antecedenti del suicidio sono risultati più comuni in questi ultimi: l’autolesionismo, l’abuso, il bullismo e l’ideazione suicidaria, per esempio, erano più frequenti nel gruppo LGBT.

Conclusioni

In conclusione esistono diversi antecedenti al suicidio nei giovani che sono importanti per un approccio di prevenzione che include politiche antibullismo nelle scuole e sul posto di lavoro, sostegno per le famiglie in lutto, servizi di salute mentale che offrono accesso urgente, valutazioni psicosociali dopo episodi di autolesionismo. Sarebbero necessarie inoltre particolari attenzioni per alcune minoranze: supporto per l’alloggio e la salute mentale per i bambini assistiti e attività mirate all’inclusione sociale e alla diversità nel gruppo LGBQ. Anche le piattaforme social possono infine avere un ruolo nel fenomeno del suicidio tra i giovani, prevenendolo con la riduzione dell’accessibilità delle informazioni sui metodi di suicidio, ma anche amplificandolo attraverso l’apprendimento sociale, in particolare per i giovani che sono più vulnerabili ad essere influenzati (Rodway et al., 2020).

 

Il concetto di bisogno nella ricerca in psicologia. Prima parte: dalla sete ai bisogni umani fondamentali

Bisogno… un termine problematico, di grande interesse per molte discipline scientifiche, sociali e non sociali.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di contributi sull’argomento che verranno pubblicati nelle prossime settimane

 

Il significato della parola ‘bisogno’ nella vita quotidiana

Sentire il bisogno di avere qualcosa, di fare qualcosa, di sentire qualcosa. Soddisfare un proprio bisogno. Sentire il bisogno di dire la propria, di esprimersi. Per le menti più filosofiche: il bisogno di vivere.

Queste e altre espressioni si presentano nel nostro quotidiano continuamente. Tutti diamo per scontato il significato di ‘aver bisogno di’, ma temo pochi siano in grado di definire chiaramente cosa voglia dire per noi un’espressione del genere. Come anche credo sia difficile trovare un significato di essa che valga per tutti.

Per trovare un primo punto di condivisione può aiutarci una fonte autorevole come l’Enciclopedia Treccani (cfr. Treccani Online). Qui il termine ‘bisogno’ denota in generale uno ‘stato o l’espressione della mancanza di qualche cosa’. Ma non può bastarci questa definizione, manca il termine referenziale: che cosa ‘manca’? E poi, non è vero che il significato di questa parola può avere accezioni molto più specifiche e, soprattutto, relative alla particolare angolatura della disciplina che la esamina? Ad esempio, in economia un bisogno è sempre in relazione alla quantità (limitata) dei beni economici in circolazione in grado di soddisfarlo (Palmerio, 2015). In sociologia e antropologia, un bisogno è qualcosa di legato alla particolare istituzione che ne permette o ne agevola il soddisfacimento (Malinowski, 1944). In biologia, la parola possiede un’accezione relativa ai ‘mattoni della vita’: stato di deprivazione di nutrienti, molecole, energia e simili (cfr. Sadava, Hillis, Heller, & Hacker, 2019).

Bisogno‘… un termine problematico, di grande interesse per molte discipline scientifiche, sociali e non sociali. Tutte, indistintamente, in un modo o nell’altro considerano il bisogno come ciò che muove la persona verso il soddisfacimento del bisogno stesso, in virtù di una sua posizione privilegiata nel mondo fenomenico dell’individuo.

Dalla sete ai bisogni umani fondamentali

È una splendida, calda giornata estiva e ho sete: sento il bisogno di bere qualcosa. Circostanza ben nota a chiunque, dove entrano in gioco processi e strutture che fanno di noi ciò che siamo come organismo, individui singoli e partecipanti alla società.

Dal punto di vista biologico, l’organismo, con lo stimolo della sete, segnala la presenza di un’eccessiva concentrazione di sali (sete osmotica) o di un basso volume di liquidi a livello extracellulare (sete ipovolemica). Possiamo anche stringere il campo e scendere fino a considerare le interazioni a livello molecolare (sistema renina-angiotensina), come anche salire ed allargarlo, considerando sistemi (ad esempio il sistema nervoso ed endocrino) organi (ad esempio i reni) e apparati (ad esempio l’apparato urinario e quello digerente), coinvolti nella regolazione omeostatica del bilancio idrico corporeo (Breedlove, Rosenzweig & Watson, 2007).

Dal punto di vista psicologico, la sete può essere considerata come la rappresentazione di uno scopo (bere liquidi), che ci muove (comportamento) verso l’obiettivo di procurarci da bere, considerato in quel momento come prioritario rispetto a molti altri (anche se non tutti, a seconda delle circostanze). La sete ha quindi un ruolo motivazionale: attiva pensieri (voglio bere), comportamenti (cerco da bere), sentimenti consci (urgenza di bere) in linea con la soddisfazione del bisogno (scopo).

A livello di comportamento sociale, infine, tenteremo di procurarci da bere in modi si presume socialmente accettabili: andremo in un bar e chiederemo un bicchier d’acqua, o ne compreremo una bottiglietta; ci accosteremo ad una fontanella; se incapaci di muoverci chiederemo aiuto a qualcuno etc.

Nonostante le conseguenze a livello sociale e individuale, il valore della sete è, prima di tutto, di essere funzionale alla sopravvivenza dell’organismo per mezzo dell’attivazione di altri processi connotati da una certa urgenza, a diversi livelli: se si può sopravvivere anche qualche settimana senza mangiare, non così senza bere. E ciò non vale solo per l’uomo: mantenere il bilancio idrico e di sali è uno scopo rilevante per tutti gli organismi. E l’individuo si attiva appena possibile per rispondere a queste esigenze.

Nell’uomo essa è, quindi, una delle espressioni di una classe più ampia di bisogni miranti all’autoconservazione che, secondo la celeberrima rappresentazione dei bisogni di base dell’uomo secondo Maslow (1943), possono essere compresi sotto l’etichetta di ‘bisogni fisiologici’. Ma l’essere umano non è solo biologia e sopravvivenza, il discorso può essere espanso argomentando a favore dell’esistenza di una struttura di bisogni di base, nella quale (secondo Maslow) il soddisfacimento dei bisogni ai livelli inferiori è il prerequisito per il soddisfacimento di quelli ai livelli superiori (per l’autore, in ordine: bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima di sé, di attualizzazione di sé). La logica di fondo è che la natura umana abbia una sua specificità espressa dai bisogni che tutte le persone presentano, e che essa vada oltre la mera ricerca dell’autoconservazione.

Indipendentemente dalle critiche rivolte a queste idee, la questione dei bisogni fondamentali dell’uomo è stata oggetto di interesse sistematico di molte discipline, tra le quali l’antropologia, la filosofia, l’economia e la psicologia. Ciò permette di riflettere sul fatto che, in ultima istanza, la questione di quali siano i bisogni fondamentali dell’uomo sia anche una questione di cosa lo distingua dalle altre specie animali. Le differenze sono solo di costituzione fisica o anche psicologica? Sono solo quantitative o anche qualitative? Quali sono le cose basilari che gli individui universalmente vogliono? Queste domande coprono forse la totalità dell’esperienza quotidiana dei singoli individui, dei gruppi e della società tutta.

Nel prossimo contributo si porrà l’accento sulla natura dei bisogni, si presenteranno alcune delle diverse teorizzazioni dei bisogni umani fondamentali che la ricerca in psicologia ha cercato di validare nel corso del tempo e si fornirà una chiave concettuale con la quale metterle a confronto.

 

Narcisismo, public self consciousness e metacognitizioni: come appaio, cosa penso – PARTECIPA ALLA RICERCA

Pincus (2009) propone un modello multidimensionale del narcisismo patologico che considera le espressioni ‘overt’ (manifeste) e ‘covert’ (nascoste) di due dimensioni principali del narcisismo patologico: la grandiosità e la vulnerabilità.

 

La consapevolezza di sé è un concetto centrale in numerosi e divergenti approcci allo studio del comportamento e dello stile di vita delle persone. Nella psicoanalisi, ad esempio, l’aumento dell’autoconsapevolezza è considerata sia uno strumento per il trattamento, che un obiettivo di cura. L’esplorazione dell’attenzione rivolta alle diverse componenti del sé permette alle persone di riconoscere i propri pensieri, le proprie fragilità e le motivazioni più profonde, rendendo più consapevoli di ciò che si pensa nel pubblico e nel privato (Fenigstein et al., 1975).

Alcune persone pensano costantemente a come appaiono agli occhi degli altri, scrutinando il proprio comportamento e rimuginando sui propri pensieri, fino a diventare ossessive (Fenigstein et al., 1975).

Altre tendono a distanziarsi così tanto dalla consapevolezza del sé da non comprendere cosa li spinga a comportarsi in un determinato modo o come vengono considerati dagli altri (Fenigstein et al., 1975). La tendenza costante a dirigere l’attenzione verso aspetti di sé intimi o socialmente condivisi viene definita ‘Self Consciousness’ che, a sua volta, viene distinta in ‘Public Self-Consciousness’ e ‘Private Self-Consciousness’ (Fenigstein et al., 1975). Per ‘Public Self-Consciousness’ si intende la tendenza a dirigere l’attenzione sugli aspetti di sé che riguardano l’esposizione pubblica, quindi le impressioni che arrivano agli occhi degli altri (es: focus su come mi comporto, sulle qualità espressive, sui manierismi, sulle mie particolarità), mentre per ‘Private Self-Consciousness’ si fa riferimento alla focalizzazione sugli aspetti ‘privati’ del sé (es. aspirazioni, valori e sentimenti) (Scheier & Carver,1985).

La focalizzazione su di sé si può considerare una caratteristica centrale del Disturbo Narcisistico di Personalità, in quanto la tendenza principale di chi soffre di questo disturbo di personalità è di dirigere il focus attentivo sulle proprie abilità, nonché su come si appare agli occhi degli altri (Castonguay & Oltmanns,2016, p.379). I criteri categoriali legati al Disturbo Narcisistico di Personalità (APA,2013) risultano essere fortemente incentrati sulle caratteristiche grandiose del disturbo, oscurando componenti psicopatologiche rilevanti per il lavoro clinico (Fossati & Borroni, 2018, p.129). I pazienti narcisisti solitamente decidono di intraprendere un percorso di psicoterapia nel momento in cui emergono degli aspetti di vulnerabilità che si celano dietro a sintomi depressivi, ansiosi, idee svalutanti e talvolta all’ideazione suicidaria (Fossati & Borroni, 2018, p.129). A fronte di queste riflessioni, Pincus (2009) propone un modello multidimensionale del narcisismo patologico che considera le espressioni ‘overt’ (manifeste) e ‘covert’ (nascoste) di due dimensioni principali del narcisismo patologico: la grandiosità e la vulnerabilità. La grandiosità si caratterizza per la presenza di credenze al servizio del sé (self serving) e strategie maladattive di affermazione del sé (self-enhancement), mentre la vulnerabilità può essere tradotta in un’esperienza di rabbia, invidia, aggressione ed impulsività collegabile a sentimenti di inaiutabilità (helplessness), bassa autostima, vergogna, ritiro sociale, senso di vuoto e tendenze suicidarie (Fossati & Borroni, 2018, p.130).

Nel progetto di ricerca proposto, nato nel laboratorio Metacognitivo dell’Università Sigmund Freud di Milano, l’obiettivo è di indagare se esiste un’associazione fra Public Self Consciousness (PSC) e vulnerabilità narcisistica e se la tendenza alla Public Self Consciousness è associabile a determinate credenze metacognitive. Ad oggi esiste un solo studio che indaga l’impatto delle metacognizioni sui disturbi di personalità. I pazienti con una diagnosi di disturbo di personalità hanno riportato punteggi significativi rispetto alla presenza di ruminazione e preoccupazione (worry), così come per i livelli di depressione e di ansia (Spada et al., 2021). Metacognizioni e pensiero negativo ripetitivo possono giocare un ruolo significativo nella gravità del disagio legato allo sviluppo ed al decorso dei disturbi di personalità (Spada et al., 2021). Rispetto al Disturbo Narcisistico di Personalità risulta innovativo comprendere il ruolo che le metacognizioni possono avere rispetto alle due dimensioni proposte da Pincus e colleghi (2009), partendo dall’indagare quanto la dimensione di vulnerabilità possa risultare influenzata dalla tendenza alla Public Self Consciousness.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

CLICCA QUI 9998

Dialogo sul lavoro e la felicità (2021) di Iacci e Galimberti – Recensione

Umberto Galimberti e Paolo Iacci insieme scrivono il testo Dialogo sul lavoro e la felicità, un dialogo attorno ad alcuni concetti relativi all’attuale contesto produttivo.

 

Nello scenario politico, economico e tecnologico attuale l’uomo perde la posizione centrale, arretra e assume una posizione subalterna, diventa pedina di meccanismi automatici in cui efficienza e produttività emergono come valori della tecnica. L’uomo è diventato il funzionario di apparati tecnici; la tecnica non è più al servizio dell’uomo. Nel grigiore di questo panorama, dove può collocarsi la parte irrazionale dell’uomo? Parte che è formata da dolore, fantasia, sogno, amore, ecc. Dove può così inserirsi la felicità?

Nel libro Dialogo sul lavoro e la felicità viene trattato il concetto della felicità sul posto di lavoro, dell’amore verso il proprio lavoro. Il testo assume la forma di dialogo tra i due autori, i quali presentano le loro risposte a domande sulla realtà lavorativa; rispetto all’amore verso il proprio lavoro Iacci si chiede cosa sia il lavoro, se felicità o maledizione. Risponde sostenendo che è una verità che poche persone arrivano a conoscere e rappresenta per approssimazione la felicità sulla terra.

Galimberti sostiene che il lavoro gli permette di stare nel principio di realtà, costrutto psicologico che consente di distinguere i reali problemi da quelli fittizi.

Inoltre, sostiene che ritornare alle origini del pensiero greco, soprattutto a quelle argomentazioni riconosciute e insegnamenti consolidati, potrebbe essere la via, o una di esse, per coniugare lavoro e felicità.

Ahimè, è difficile farlo! Ma provarci agevola la condizione di non vivere avvolti dall’ansia da prestazione.

Eppure, non solo ansia! Anche i concetti di angoscia e paura vengono collegati al nostro discorso. Il concetto di paura è raccontato prendendo in prestito il coronavirus; essendo un oggetto indeterminato non possiamo parlare di paura, come se fosse un leone che ci insegue, bensì di angoscia. Questo concetto subentra di fronte alla sensazione di impotenza e solitudine davanti a qualcosa di indeterminato.

Così sono l’angoscia per il futuro lavorativo e l’incertezza economica, elementi tipici dei vissuti attuali dei giovani.

Grazie al lavoro degli autori, al di là di questo possiamo indagare cosa potrebbe essere l’infelicità nel lavoro.

Senza aprire un discorso che esula dalla recensione, secondo Galimberti l’attuale società è regolata dalle regole del mercato che si fondano sulla competizione e sulla prestazione. L’obiettivo diventa il profitto e con esse l’impossibilità per i lavoratori di esprimere il proprio sé.

Una ulteriore analisi ci porta a comprendere che la tecnica rappresenta la capacità di raggiungere il massimo degli scopi utilizzando al minimo i mezzi. Si genera di conseguenza la sensazione trasversale di infelicità, di insoddisfazione; essa si può vedere raffigurata sui volti delle persone.

Come uscirne? Per esempio ‘destinare a noi stessi il nostro lavoro e dedicare il nostro tempo alle relazioni affettive e a tutto ciò che ci rende più liberi e umani’.

Così inizia il libro, scritto da Umberto Galimberti, filosofo, accademico e psicanalista e Paolo Iacci, consulente di direzione e docente universitario di Gestione delle risorse umane. Insieme scrivono un testo inserito nel dialogo attorno ad alcuni concetti relativi all’attuale contesto produttivo.

Il loro contributo è stato un tentativo! Nello specifico, investigare il modo in cui la felicità possa diventare parte integrante del lavoro.

Come hanno fatto? Col metodo filosofico. Offrendo ai lettori degli stimoli senza alcuna verità inconfutabile.

Galimberti è un autore noto e padre di molti scritti i cui contenuti rappresentano il suo pensiero e gli anni di studio; manuali per addetti ai lavori, alcuni con linguaggio difficile da comprendere, linguaggio che in questo testo presenta invece una prosa scorrevole e intuitiva. Coinvolti in una atmosfera ricca di spunti originali per nuove riflessioni, si presta ad una lettura estremamente piacevole.

Egli si è sempre dichiarato appartenente alla cultura greca antica, sistema fonte di saggezza. In esso la felicità è parte naturale della vita dell’uomo.

Tra i costrutti delineati dagli autori vi sono l’Età del paradosso e l’Età della tecnica. La prima rappresenta la condizione di antinomia che caratterizza l’odierna situazione delle persone, mentre il secondo concetto abbraccia l’universo dei mezzi tecnologici e la capacità di farli funzionare.

Galimberti espone i temi che lo contraddistinguono; tra essi la grecità, la scuola contemporanea, la tecnica, l’identità costruita, la bellezza e l’educazione e l’anima.

Iacci porta il Mito di Procuste e della Sindrome di Procuste; sindrome che, secondo l’autore, è presente nelle organizzazioni lavorative attuali. Successivamente espone un’interessante e attuale visione operativa; ovvero le modalità in cui le aziende vengono spronate a coltivare la propria anima, la propria identità.

La lettura conduce ad alcuni concetti relativi a teorie del passato, esse ci vengono in aiuto. Nel testo sono così riportati autori ben conosciuti. Tra le teorizzazioni ho trovato interessanti, e riporto come esempio, la distinzione tra tre modi di sviluppare il concetto di etica. Le argomentazioni sono utili ai lettori per riflettere sui fenomeni che hanno trasformato il costrutto della tecnica: da mezzo è diventata fine, mettendo l’uomo nella posizione di essere sempre più estraniato dal prodotto del suo lavoro.

La prima di esse è la morale cristiana.

L’ordine giuridico europeo si basa su questa morale. Essa è la morale dell’intenzione, mentre alla tecnica interessano gli effetti delle azioni dell’uomo: la bomba atomica diversamente dalle motivazioni che hanno spinto gli scienziati a dedicarsi alla ricerca.

Il discorso prosegue con la morale di Kant. In essa l’assunto tratta l’uomo sempre come un fine, mai come un mezzo. È fondata sulla ragione, laica e per tutte le persone. Oggigiorno, nello scenario delle problematiche relative alla salvaguardia dell’ambiente, l’analisi conduce a porsi la domanda se la salute della biosfera risulta essere un fine o piuttosto un mezzo al servizio dell’umanità.

L’etica sviluppata da Max Weber termina il discorso. Secondo tale morale, l’uomo è in prima linea responsabile degli effetti delle proprie azioni, almeno fino a quando gli effetti sono prevedibili. Infatti, spesso la tecnica non sempre produce effetti prevedibili. Per esempio, un ricercatore che studia il genoma si pone come obiettivo la conoscenza sempre più approfondita del funzionamento del DNA. Questo è il suo fine. Ma non sempre si giunge a scoprire qualcosa che possa essere di interesse per l’umanità, come per esempio una nuova cura contro il cancro.

Approfondendo l’analisi, ‘oggi siamo in grado di fare al di là della nostra capacità di prevedere e se la tecnica procede e si sviluppa al di là della nostra capacità di prevedere significa che non la controlliamo. Il problema allora non è più cosa possiamo fare con la tecnica, ma cosa la tecnica può fare di noi‘.

Il lavoro non ha più una funzione di sostentamento economico o di riscatto sociale. Esso sempre meno viene collegato alla felicità, la quale è ‘possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro‘.

Emerge l’idea di inserire nei luoghi di lavoro aspetti di educazione sentimentale, iniziativa che, se prenderà concretezza, potrebbe essere il veicolo che conduce il sistema al di fuori dal paradigma attuale. Esso prevede sia il ‘comando e controllo’ sia l’uso pervasivo della utilità perpetua; elementi entrambi caratterizzati dall’assenza di emozioni dove si delinea un luogo in cui gli operatori sono schiavi di un lavoro senza passioni.

Nel libro non si legge solo la critica all’attuale contesto lavorativo e produttivo, ma anche una speranza. Vi sono spunti per progettare un nuovo futuro. Esso potrebbe partire da ciò che siamo e dalla situazione che stiamo vivendo col fine di realizzare negli anni prossimi una situazione maggiormente desiderabile in termini di gradimento.

 

Il cane come catalizzatore sociale e come cura per la depressione

Dato che la terapia assistita con i cani (DAT) fornisce dei risultati misti in letteratura a proposito di ansia e depressione, Ambrosi e colleghi (2018) hanno cercato di verificare la sua efficacia sugli anziani istituzionalizzati.

 

La terapia assistita con gli animali per la depressione

Thakur e Blazer (2008, come citato da Ambrosi et al., 2018) hanno osservato come la depressione maggiore rappresenti una realtà clinica accompagnata spesso da altri disturbi, come condizioni mediche multiple riguardanti il dolore fisico. Esiste una correlazione positiva tra la terapia assistita con gli animali (AAT) e il benessere fisico di pazienti, in particolare di coloro che soffrono di disturbi cardiovascolari (Cole et al., 2007). La terapia con gli animali, o pet therapy, svolge un ruolo fondamentale nel rafforzare la relazione tra paziente e terapeuta. Kawamura e colleghi (2007) hanno osservato come l’AAT correli positivamente con miglioramenti mentali ed emotivi, in quanto permette un aumento di emozioni positive. Nel 2015, il Ministero della Salute Italiana ha determinato che la terapia assistita con i cani (DAT) è un intervento clinico utile per trattare i disturbi della ‘sfera cognitiva, emotiva, relazionale e neuropsichico-motoria’, attualmente svolta basandosi su un piano di trattamento rigoroso, composto da obiettivi che vengono raggiunti grazie al cane adatto e selezionato rigorosamente per il paziente. Il compito del cane è quello di motivare la persona al raggiungimento dei suoi obiettivi, fungendo così da catalizzatore sociale (Ambrosi et al., 2018).

Mentre Stasi e colleghi (2004) hanno mostrato come i pazienti inclusi in un gruppo di trattamento DAT presentassero una diminuzione dei sintomi depressivi e una variabilità della pressione sanguigna, Phelps e colleghi (2008) non hanno trovato alcuna significatività tra la presenza di cani, riduzione della sintomatologia depressiva o miglioramento dello stato d’animo del paziente.

La terapia assistita con i cani tra gli anziani

Dato che la terapia assistita con i cani (DAT) fornisce dei risultati misti in letteratura a proposito di ansia e depressione, Ambrosi e colleghi (2018) hanno cercato di verificare la sua efficacia sugli anziani istituzionalizzati. Lo studio è stato condotto presso una struttura di assistenza, accreditata dal servizio per gli anziani nel Nord Italia, da marzo a settembre 2017. Il campione è composto da 31 soggetti, tra cui 17 selezionati casualmente e appartenenti al gruppo di trattamento e 14 appartenenti al gruppo di controllo.

I partecipanti hanno un’età compresa tra i 65 e i 90 anni, vivono nell’istituto da almeno due anni, mostrano elevati punteggi (5 o più) nella Geriatric Depression Scale (GDS-15; Sheikh et al., 1986, come citato in Ambrosi et al., 2018) e mostrano interesse nel voler interagire con i cani. Sono state escluse dallo studio le persone allergiche agli animali (Ambrosi et al., 2018). Dal punto di vista psicodiagnostico, sono stati somministrati i seguenti test: la Generalized Anxiety Disorder 7 (GAD-7; Spitzer et al., 2006), la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Watson et al., 1988) e l’Illness Perception Questionnaire-Revised (IPQ-R; Moss-Morris et al., 2002), utili per valutare i livelli base della depressione, dell’affettività, dell’umore e della percezione della sintomatologia esperita. Il Satisfaction Questionnaire and Numeric Pain Rating Scale (NPRS; Williamson & Hoggart, 2005) è stato utilizzato per valutare i livelli di dolore, mentre la batteria dei test che include IPQ-R (Moss-Morris et al., 2002, come citato in Ambrosi et al., 2018) attualmente include anche delle sottoscale della percezione della malattia lungo il corso del tempo, della coerenza della malattia e delle rappresentazioni emotive (Fortune et al., 2000; Ambrosi et al., 2018).

Mentre alcuni studi mostrano come la percezione della malattia sia correlata al tono dell’umore (Scharloo et al., 2000) e alla conformità al trattamento, altri mostrano come la coerenza della consapevolezza della propria condizione sia inversamente correlata a convinzioni pessimistiche sulla linea temporale e sulle conseguenze della malattia, nonché a rappresentazioni emotive negative (Ambrosi et al., 2018). Dato che il pessimismo spesso interferisce con il trattamento e con gli esiti positivi della terapia, si pensa che la DAT sia una possibile soluzione grazie al rapporto empatico che si crea tra animale e persona. In questo studio, le sessioni di DAT sono state svolte una volta a settimana, per mezz’ora, per 10 settimane: le figure coinvolte sono il paziente del gruppo sperimentale, il cane, l’osservatore (un volontario formato dal servizio civile) e il conduttore; l’osservatore ha il compito di osservare i comportamenti verbali, cioè i vocalizzi e le interazioni verbali che il paziente ha con il cane o con il conduttore, e quelli non verbali, cioè le carezze, i giochi o il dare del cibo all’animale.

La riduzione della depressione con la terapia assistita con i cani

Il tipo di interazione è stata registrata ogni due minuti e, alla fine, è stato calcolato il numero totale delle interazioni durante ciascuna sessione-categoria e sono state divise per i due minuti dell’intervallo temporale (Ambrosi et al., 2018). I risultati ottenuti mostrano come vi sia una diminuzione statisticamente significativa del punteggio della Geriatric Depression Scale, nella PANAS vi è stata una moderata diminuzione, mentre non vi sono differenze nella Generalized Anxiety Disorder 7 e nella NPRS. Il questionario per valutare la percezione della malattia lungo il corso del tempo ha mostrato una dimensione dell’effetto clinicamente rilevante (Ambrosi et al., 2018).

Tali risultati suggeriscono come la terapia assistita con i cani sia utile per ridurre la depressione e i sintomi associati, in quanto la figura del cane ricopre il ruolo di facilitatore nelle interazioni sociali. Nello specifico, vi è stato un aumento di interazioni con il conduttore, insieme ad emozioni positive esperite da parte degli anziani istituzionalizzati. In futuro, ulteriori studi su tale argomento potrebbero suggerire come la DAT sia idonea al mantenimento di un senso continuativo di spazio e tempo, quindi ad una coerenza identitaria che viene preservata nonostante i cambiamenti che si affrontano nella terza età (Ambrosi et al., 2018).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il sesto episodio è dedicato al Perfezionismo

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la sesta puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Roberta Stoppa. Si parlerà di Perfezionismo, ovvero la rigida ostinazione sul fatto che qualsiasi cosa debba essere impeccabile, perfetta e senza errori o difetti, incluse le prestazioni proprie e altrui. Cosa si nasconde dietro al perfezionismo? Scopritelo nel sesto episodio.

Dove ascoltare il sesto episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il sesto episodio su:

 

Lo strappo nel mantello di Superman e la scheggia nel martello di Thor

Gioco di ruolo e psicoterapia: attraverso la meccanica di gioco ‘Powered by the Apocalipse’ il fallimento diventa un valore, e rende una storia ricca e significativa.

 

L’idea di fallimento

Fin da piccoli abbiamo apprezzato il potere mellifluo della vincita, della capacità di superare i nostri limiti e raggiungere con gioia, vette stellate.

La vittoria è, da sempre, uno dei motivatori più grandi per l’uomo. Siamo competitivi e territoriali per natura, e non c’è davvero nulla di male in questo. Il pensiero di come aumentare le nostre probabilità di successo all’infinito, è uno dei punti cardini della vita, in ogni sistema capitalistico che si rispetti.

‘Yes we can, don’t give up!’ è il nostro motto, e siamo tutti d’accordo nel dire che è una soddisfazione enorme, quando riesce.

Ognuno di noi, in cuor suo, non resta indifferente a frasi motivazionali di questo tipo.

Nell’immaginario comune, inevitabilmente, la vincita e il successo si associano a motivazione, impegno, tenacia e all’essere un ‘vero guerriero’. Anche quando si parla di malattie fisiche, siamo inclini a parlare di guerrieri e vincitori: ‘ha lottato contro il cancro come un vero guerriero!’.

Il fallimento, invece, tende ad essere associato alla mancanza di motivazione, al ‘non avere voglia’ all’essere uno scansafatiche che non merita menzione o autostima positiva. Cresciamo pensando che se ci impegniamo sempre al massimo, non potremo mai fallire….ma che succede se, nonostante tutti i nostri sforzi, il nostro impegno, le nostre preghiere, la nostra determinazione e la nostra fiducia in noi stessi, falliamo comunque?

Che succede se, per quanto ci impegniamo, ci sentiamo completamente a terra, spezzati, senza energie, e la sola idea di non mollare ci strappa un pianto sconsolato, perché non riusciamo neanche a sollevarci in piedi?

Che succede se le carte che ci ha affidato il Destino, sono veramente pessime, e non permettono neanche di iniziare una partita, figurarsi vincerla?

Che succede se mentre siamo al pieno delle nostre energie, lanciati felici verso un traguardo ormai all’orizzonte, finiamo a terra duramente e più che doloranti non riusciamo neanche a muovere un dito, osservando sconsolati e furiosi quelli che ci superano allegri? Si tratta del momento in cui si è ‘bocconi’ (Brown 2016).

La dura realtà, è che la vita è composta, per la maggior parte, di fenomeni sui quali non abbiamo alcun controllo: malattie, lutti, sconvolgimenti finanziari e politici, altri esseri umani, famiglie problematiche sono solo alcuni esempi di tutto ciò che non ci è dato controllare.

Il mito degli eroi infallibili sta tramontando da tempo, tanto nella narrativa quanto nella filmografia: sembra si stia comprendendo l’utilità non solo della frustrazione, ma del fallimento vero e proprio sia nell’evoluzione della storia, che nella consapevolezza dell’eroe stesso, che diventa sempre più umano: film e serie come Watchmen (2009), Hanckok (2008) e The boys (2019) esasperano proprio la fallibilità del supereroe, rispetto al gold standard del passato.

La verità è che visti i canoni sociali, il fallimento ci fa sentire fragili e vulnerabili, oltre che passibili di abbandono, per non aver rispettato le aspettative desiderate. A nessuno piace sentirsi vulnerabili: non esiste eroe invincibile che ami la vulnerabilità, che abbia il coraggio di immergersi nel fango fino ai gomiti e alle ginocchia, credendo che non ci sia più nulla da fare. E così, tentando di affrontare il profondo malessere legato a fallimento e vulnerabilità conseguenti, la soluzione più a portata di mano sembra l’evitamento esperienziale: evitiamo tutto ciò che rischia di metterci in una situazione di fallimento, vulnerabilità e fragilità (Hayes, Strosahl, Wilson 1999). Nel film distopico Equilibrium (2002), osserviamo una società che ha trovato nella soppressione delle emozioni, la soluzione al problema della violenza sociale: ma poiché non è possibile sopprimere selettivamente solo alcune emozioni, ciò che risulta è un’umanità sterile, grigia e falsata, profondamente infelice e facile alle dipendenze dai rinforzi facili.

Ma se invece fosse proprio il fallimento a mandare, non solo avanti la storia, ma a renderla anche ricca e significativa? Nei giochi di ruolo è ciò che può accadere utilizzando il ‘Powered by the Apocalypse’ (PbtA), una meccanica utilizzata da alcuni anni nel gioco di ruolo (Baker & Baker 2010).

Ma andiamo con ordine, e vediamo cos’è un gioco di ruolo e in che modo potrebbe interagire con la psicoterapia.

Il gioco di ruolo

Un gioco di ruolo, abbreviato spesso in GDR o RPG (dall’inglese role-playing game), è un gioco dove i giocatori assumono il ruolo di uno o più personaggi e tramite la conversazione e lo scambio dialettico creano uno spazio immaginato, dove avvengono fatti ed eventi fittizi, in un’ambientazione narrativa che può ispirarsi a un romanzo, a un film o a un’altra fonte creativa, storica, realistica come nella vita reale o di pura invenzione. Le regole di un gioco di ruolo indicano come, quando e in che misura, ciascun giocatore può influenzare lo spazio immaginato, e raccontato generalmente (ma non in modo esclusivo) da un giocatore che assume il ruolo di game master o narratore, il quale conduce la seduta di gioco, crea l’ambientazione e prepara un canovaccio della storia. Propone ai giocatori le situazioni in cui si trovano i loro personaggi, chiede loro cosa intendono fare. I giocatori dichiarano le azioni che compiono i loro personaggi, descrivendole o recitandole. Il dungeon master decide quindi il risultato di queste azioni, in coerenza con l’ambientazione e le regole del gioco, e con il tiro di dadi con diverso numero di facce (Kim, 2007). I partecipanti al gioco, creano un personaggio (pg, o ‘personaggio giocante’), definito dalle caratteristiche scelte dai diversi manuali di gioco, dando loro vita come in un film dove sono essi stessi a definire il loro copione.

Esistono molti tipi di gioco di ruolo, a seconda delle regole di gioco o delle tipologie di ambientazione utilizzata (fantasy, medievale, futuristico, realistico, horror, solo per citarne alcune), ma in tutti è di fatto possibile diventare qualcun altro e calarsi in una realtà alternativa in cui si parla e si agisce, come se lo si fosse. E nel far questo non si è da soli, ma generalmente all’interno di un ‘party’, cioè altri giocatori tra i quali vige un accordo non scritto: collaborare e ‘fare gruppo’ per portare a termine una missione comune: ciò che è ‘mortale’ per il singolo giocatore, è invece assolutamente affrontabile da un gruppo. In questo senso anche il discorso di successo/fallimento è condiviso. Un po’ come accade nello psicodramma, ogni giocatore, attraverso azioni ed emozioni esperite dal suo personaggio, ha modo di affrontare le proprie. Capita più che di frequente, di imbattersi in giocatori di ruolo che nel racconto della loro esperienza di gioco, evidenziano risoluzioni di conflitti esistenziali, superamento di fobie sociali e un aiuto a vari livelli del processo di crescita (Moreno, 1985). Il gioco di ruolo crea una ‘sandbox’, una palestra ‘sicura’ per provare interazioni di cui non ci sentiamo confidenti nella vita reale: è la concezione base presente in tutti i giochi, dell’importanza della sana cooperazione.

Il fallimento nel gioco di ruolo

Il gioco di ruolo più famoso è sicuramente Dungeons&Dragons (Gygax, Arneson 1974), e tipicamente successo e fallimento sono chiaramente denotati dal valore dei dadi. Ma, come dicevamo inizialmente, dal 2010 esiste un’altra meccanica di gioco che ha stravolto questo panorama in molti modi molto positivi, il PbtA e l’idea di ‘fallire progredendo’ (fail forward), cioè creare un fallimento parziale che smuove la trama, o quantomeno rende le cose più interessanti.

La peculiarità del meccanismo, è nell’apertura e nella flessibilità: ciò che normalmente verrebbe considerato fallimento, porta alla scoperta di strategie creative alternative. E’ possibile, infatti, iniziare a giocare già sapendo che si fallirà, o che un fallimento critico sarà il punto più alto della narrazione, che si potranno ottenere benefici importanti se si attraverserà una sconfitta e che addirittura rinunciare alla propria divinità, può acquistare un valore inestimabile.

Il fallimento non è più, quindi, una scomoda verità da celare dietro muri impenetrabili di vergogna, ma un punto di partenza per affrontare, e dare valore, al viaggio stesso.

Il gioco di ruolo e la psicoterapia

Nella mia attività clinica sto sperimentando da tempo i benefici nell’applicare strategie provenienti dal mondo fantasy e del gioco di ruolo, in terapia (Migliore, 2016). Si tende spesso ad utilizzare il gioco solo con bambini, o al massimo con adolescenti, ma nella mia esperienza anche l’adulto può beneficiare dei medesimi strumenti: in particolare l’utilizzo di giochi che si basano sulla strategia PbtA con fail forward, potrebbero rivelarsi utili nell’intervento su un circolo vizioso di fallimento-evitamento, di questo tipo (Fig. 1):

Gioco di ruolo e psicoterapia riscoprire il valore del fallimento Fig 1

Fig. 1: il circolo vizioso fallimento-evitamento

La sperimentazione tramite il gioco di ruolo in psicoterapia, offre così diversi spunti per mettersi alla prova con leggerezza e in un ambiente controllato; ciò permette, da una parte, di osservare le proprie dinamiche problematiche all’opera, e dall’altra offre delle strategie di interpretazione alternativa della realtà. Se il fallimento diventa un punto di partenza consapevole, invece che una meta indesiderata e condannata, si ha la possibilità di spezzare il circolo vizioso in partenza, ampliando l’interpretazione del fallimento stesso e includendolo all’interno di una vita ricca e significativa.

 

L’infosfera: come internet ci rende più ignoranti

Internet ci apre a sterminate praterie di informazioni, ma ci mette anche davanti alla nostra limitata capacità computazionale, che ci indurrà ad abbandonare sempre più l’uso del pensiero critico.

 

Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e indecisione (Bertrand Russel).

Ogni qualvolta apriamo il computer o il telefonino ci appaiono informazioni o riferimenti riguardanti le nostre recenti ricerche effettuate su internet; che si tratti di ricette gastronomiche, dati economici o di indirizzo sociale o politico, non fa alcuna differenza.

Ci sembra normale, quasi ovvio, e lo riteniamo molto utile perché ci fornisce velocemente indicazioni e riferimenti su quanto consideriamo interessante; inoltre quando constatiamo che altre persone la pensano come noi, hanno i nostri stessi interessi o convinzioni, ne traiamo un piacevole senso di conforto, un solido senso di appartenenza; le nostre idee ci appaiono confermate e sostenute nella loro esattezza dalle ampie condivisioni.

Non ci soffermiamo mai a considerare che tale risultato è falsato dalle modalità utilizzate dai motori di ricerca, che non si limitano a fornire informazioni, ma le vagliano per noi, selezionando quelle che appaiono coerenti con il nostro profilo e definendo un nostro personale universo di immagini e notizie.

Internet e la selezione di informazioni

I sofisticati algoritmi che operano sui motori di ricerca dei social si sostituiscono al funzionamento dell’attenzione selettiva, che naturalmente opera in ogni individuo, creando un meccanismo retroattivo molto pericoloso.

Le persone normalmente sono portate ad operare una selezione sui dati sensoriali provenienti dall’ambiente in modo da dedicare la computazione solo a quelli che sembrano rivestire una certa importanza per il soggetto. Scegliamo cioè, quasi sempre inconsapevolmente, di elaborare solo i dati che riteniamo utili alle nostre necessità. In sintesi le nostre ipotesi, le nostre aspettative su come debba essere la realtà, condizionano la ‘scelta’ delle informazioni che ricercheremo e che assumeremo come valide.

Lasciare quindi che qualcun altro analizzi e scelga per noi le informazioni di cui abbiamo bisogno, selezionando intenzionalmente quelle coerenti con le nostre previsioni, ci porta inevitabilmente ad un restringimento dei nostri interessi che si incanaleranno su argomenti predefiniti, sempre più coerenti ed integrati, che si vedranno così sistematicamente rinforzati evitando l’esperienza formativa del confronto con opinioni ed interessi diversi dai nostri, portandoci ad assumere una visione rigida ed univoca della ‘verità’.

La realtà che costruiamo diventa allora ipersoggettiva, in quanto continuamente rafforzata dalle opinioni di persone che la pensano come noi, dominata dal bias di conferma, la distorsione cognitiva che ci porta inconsciamente a dare più rilevanza alle opinioni che rispecchiano le nostre, risultando nella sua visione complessiva deprivata delle alternative o delle molteplici variabili, consegnandoci una visione del mondo più limitata ed impoverita.

Inoltre a causa dell’effetto del bias dell’ancoraggio, che rende difficilissima la revisione di un giudizio intuitivo, resteremo condizionati dalla valutazione iniziale anche nel caso in cui le informazioni raccolte o disponibili non siano congruenti con le idee di partenza; esse saranno allora scartate oppure interpretate in modo da sostenere o rafforzare i nostri preconcetti, coinvolgendo in questo complesso meccanismo auto confermativo anche la memoria, che tenderà a recuperare in modo selettivo solo i dati e le esperienze fra loro congruenti.

Il risultato finale sarà il sistematico abbandono dello schema ipotetico, con il quale sviluppiamo modelli interpretativi della realtà a favore del modello della certezza, che esclude per definizione l’esistenza di alternative; ritenendo di aver raggiunto la sicura conoscenza di un fatto oggettivo, non avremmo più ragione di dubitarne.

L’orientamento di varie ricerche nell’ambito della psicologia sociale sembra infatti suggerire che la radicalizzazione su alcuni temi centrali nell’opinione pubblica si basi prevalentemente su meccanismi centrati sul riconoscimento identitario piuttosto che sull’analisi e la sistematizzazione coerente delle informazioni disponibili. Assistiamo di fatto all’abbandono dello scetticismo metodologico, cardine del pensiero scientifico, per una deriva ideologica alla cui base il ‘so’ viene sostituito dal ‘voglio’, dove l’esigenza pratica giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita ma come postulato che determina inevitabilmente l’esito del giudizio finale.

Questo induce la nefasta tendenza a confondere i fatti con le opinioni, portandoci ad abbandonare la capacità di analisi critica su quanto ci viene proposto e sulle alternative possibili, appellandoci ad un realismo ingenuo che, nel ritenere i nostri sensi in grado di percepire gli oggetti e gli eventi direttamente come sono senza alcun processo interpretativo e valutativo interposto, fornisce una solida base per molti dei nostri bias cognitivi.

I problemi legati ad internet e alla disponibilità di informazioni

Ma allora perché l’accesso a una gran mole di informazioni determinerebbe un problema?

Per comprendere appieno il senso di questa premessa dobbiamo conoscere, almeno genericamente, il funzionamento della nostra mente.

La psicologia sperimentale ha oramai da molto tempo suggerito l’esistenza di due diversi livelli di conoscenza, sviluppatisi gradualmente nel lungo percorso dell’evoluzione umana; il primo livello è quello tacito, formatosi quando l’individuo era sprovvisto della capacità verbale del linguaggio e del pensiero complesso, dotato solo delle prime strutture di consapevolezza si è strutturato per rispondere velocemente ai problemi di adattamento con l’ambiente, utilizzando schemi prevalentemente visivi o iconici, abituandosi a confrontare il flusso dei dati in entrata con i modelli rappresentativi interni basati sulle pregresse esperienze. I suoi processamenti sono condizionati dalle necessità imposte dai suoi limiti iniziali, la scarsa capacità computazionale ha indotto il sistema ad utilizzare delle comparazioni visive, molto più rapide delle successive descrizioni verbali, che hanno anche il vantaggio di poter essere utilizzate con il minimo sforzo psichico, ed in modo automatico, senza dover utilizzare cioè la coscienza, che nella forma attuale ancora non si era sviluppata o era presente in modo embrionale.

Ecco quindi che questa struttura piuttosto rozza si è trovata a ricercare la soluzione di problemi complessi e fondamentali per la sopravvivenza e ha quindi sviluppato una serie di euristiche, regole generali predefinite, veloci ed automatiche, che potessero fornire costantemente degli schemi di adattamento comportamentale; quelli che oggi nel loro significato disfunzionale definiamo bias mentali.

Il secondo livello di conoscenza, quello cosiddetto analitico, rappresenta al contrario il livello più sofisticato dell’evoluzione; esso dispone della coscienza secondaria, quella che ci caratterizza, del pensiero astratto e fondamentalmente del linguaggio.

Ecco quindi che le informazioni che ci giungono dall’ambiente sono processabili in modo diverso mediante il linguaggio che consente l’esecuzione consapevole di ragionamenti sequenziali, finalizzati, permettendoci una enorme complessità computazionale rispetto a quella espressa inizialmente e consentendo un’elaborazione della realtà sganciata dalla sua immediatezza con l’esperienza.

Sebbene i due sistemi operino sostanzialmente in modo differente, mantenendo la loro specificità, essi risultano funzionalmente interconnessi, consentendo in linea generale una integrazione tra i diversi modelli rappresentativi; i processamenti taciti, essendosi formati per primi, costituiscono il livello gerarchicamente superiore di elaborazione delle informazioni, essi rappresentano e definiscono gli elementi prototipici delle strutture cognitive, fornendo con le loro regole la base dell’impianto concettuale che orienta e condiziona il sistema analitico.

Ecco quindi che il cervello analogico continua ad operare, determinando i nostri comportamenti o le nostre decisioni, spesso in modo molto utile ed efficace, utilizzando regole veloci sebbene, proprio per questa caratteristica, grossolane ed imprecise, che richiedono pochissimo dispendio psichico e prevalentemente in modo tacito, senza cioè che essi siano percepiti dalla coscienza.

Avendo assunto il compito di controllare costantemente se le situazioni che viviamo debbano essere considerate positive o pericolose, il suo obiettivo primario è quello di fornirci nel più breve tempo possibile una risposta comportamentale.

Per rendere più efficace il suo operato tende ad evitare ogni sorta di dubbi o di incertezza, che impedirebbero o ritarderebbero l’emissione del comportamento agito: per ognuno di noi nelle situazioni di emergenza è più utile reagire prontamente, senza esitazioni o tentennamenti piuttosto che dedicarci ad una attenta analisi situazionale.

È quindi con questo armamentario piuttosto abborracciato di euristiche automatiche ed imprecise, poco inclini all’uso di procedure analitiche, che siamo chiamati ad affrontare e gestire la smisurata massa di informazioni oggi disponibili, scontrandoci inevitabilmente con l’incapacità di processarle ed integrarle per ricavare una migliore comprensione dei fenomeni valutati.

Dopo millenni di lenta accumulazione infatti, la conoscenza umana è entrata in una epoca di crescita esponenziale e rapidissima.

Oggi viviamo in un mondo dove la maggior parte delle informazioni risale a meno di 15 anni fa. Nell’ambito scientifico le conoscenze tendono a raddoppiare nel giro di soli otto anni, uguale accelerazione ha subito la nostra vita quotidiana, viaggiamo sempre di più, cambiamo casa e città, veniamo a contatto con molte più persone, al supermercato ci troviamo davanti ad un gamma di scelte che erano impensabili pochi anni fa.

I dati sono sconcertanti, nel 2014 l’umanità ha generato ogni due giorni una quantità di dati superiore a quella complessivamente prodotta dal genere umano dalla sua comparsa sulla terra fino al 2003.

Si stima che nel 2011 un americano medio fosse esposto quotidianamente ad una quantità di informazioni cinque volte superiore a quella a cui era esposto nel 1986.

Ogni giorno processiamo 34 gigabyte equivalenti a 100.000 parole, per fare un esempio è come leggere Guerra e pace di Tolstoy in 4 giorni; e tutto ciò a fronte di una capacità della mente cosciente di processare informazioni che è stata stimata dal neuroscienziato Daniel Levitin in circa 120 bit al secondo.

Considerando che quando una persona ci parla abbiamo bisogno di elaborare 60 bit al secondo appare evidente che al massimo siamo in grado di comprendere soltanto due persone che ci parlano contemporaneamente e poi ci troveremmo costretti ad escludere qualunque altra fonte di informazione.

Risulta evidente che la nostra capacità di elaborare l’informazione rischia probabilmente di diventare sempre più insufficiente e inadeguata a gestire il sovraccarico di cambiamenti, scelte, novità della vita moderna. Sempre più spesso ci troveremo nella condizione di non essere in grado di fronteggiare un ambiente così articolato e complesso; quando i dati che il nostro cervello deve processare simultaneamente diventano troppi, l’unico modo per uscirne è quello di prendere delle scorciatoie, specialmente se il nostro cervello tacito è già predisposto a farlo.

Internet e la nostra capacità di elaborare le informazioni

Quindi se da una parte il complesso mondo della rete e dei social ci apre sterminate praterie di informazioni, ci mette anche davanti alla nostra limitata capacità computazionale che ci indurrà ad abbandonare sempre più l’uso del pensiero critico, rinunciando alla possibilità di raggiungere un giudizio attraverso i processi mentali di   discernimento, analisi, valutazione delle fonti e della loro attendibilità, confondendo i nostri interessi e desideri con la realtà oggettivabile.

Non possiamo arrenderci a questa tendenza, la posta in gioco è molto alta e non riguarda soltanto la nostra personale capacità di elaborare le informazioni per costruire un migliore adattamento alla realtà, essa riguarda la società nel suo complesso, determinando gli orientamenti che saranno assunti rispetto a temi di grande rilevanza.

Non stiamo parlando di eventi futuribili, quanto temuto sta già accadendo: nel 2004 alcune ricerche empiriche dell’università di Oslo rilevarono che tra il 1970 e il 1993 l’effetto Flynn era diminuito (lo studio di James Flynn del 1987 ha dimostrato che il quoziente intellettivo nelle nazioni sviluppate era costantemente aumentato nei precedenti 25 anni da una generazione all’altra in modo significativo).

Ma il dato più preoccupante è che a partire dagli anni 2000 è stata registrata una inversione di tendenza chiamata Effetto Flynn capovolto: dal 2004 il rallentamento si è trasformato in una costante diminuzione. Insomma pare che stiamo diventando sempre più stupidi.

Una delle cause accertate dell’abbassamento del QI è l’impoverimento del linguaggio, l’incapacità di elaborare e formulare pensieri complessi, l’aumento dell’analfabetismo funzionale, la degradazione delle facoltà emotive e relazionali.

Sebbene le cause di questo depauperamento non siano ancora tutte individuate, appare evidente la tendenza in atto: oggi ad occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati è prevalentemente la tecnologia, che sta riducendo l’intelligenza umana a svolgere un ruolo ausiliario sempre più ininfluente.

Ecco cosa scrive il neurobiologo Laurent Alexandre: ‘laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti di informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta’.

L’unico modo per opporci a questa deriva che mette in pericolo i principi stressi della democrazia e della condivisione sociale è quella di ribaltare la tendenza facendo leva sulla nostra parte più funzionale, investendo la maggior parte delle nostre risorse sulla formazione cognitiva delle persone.

Nel 1999 gli esperimenti di Dunning – Kruger sulla distorsione cognitiva, a causa della quale individui poco esperti e competenti tendevano a sopravvalutare le proprie abilità considerandosi a torto esperti in materia, (questo perché se non si hanno un minimo di competenze in un certo ambito non si riesce a fare una stima realistica delle proprie prestazioni e dei propri limiti) hanno avuto come corollario che i risultati potevano cambiare modificando un fattore. Gli studenti più incompetenti si attribuivano una valutazione più veritiera a seguito di una seppur minima introduzione alla materia o alla competenza analizzata, questo restituiva loro la capacità di poter valutare le proprie conoscenze e di sviluppare conseguentemente una valutazione più oggettiva.

Dobbiamo quindi invertire la tendenza scegliendo la complessità e praticandola in tutte le sue forme anche se sembra complicata, soprattutto se è complicata, non dobbiamo accettare di divenire troppo stupidi per vivere liberi.

Parafrasando Christophe Clavè: Non c’è libertà senza il pensiero della libertà e non c’è democrazia senza il pensiero della democrazia.

ll terapeuta sotto pressione (2021) di Christopher J. Muran e Catherine F. Eubanks – Recensione

ll terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica: un lavoro benvenuto che chiarisce una serie di problemi connessi con la realizzazione di quella psicoterapia integrata che molti invocano, aiutando a evitare le secche di un generico, ecumenico e irenico eclettismo che rischia di deteriorare il livello della pratica clinica.

 

Il libro ll terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica di Christopher J. Muran e Catherine F. Eubanks pubblicato nel 2021 da Cortina è la traduzione italiana di Therapist performance under pressure. Un lavoro benvenuto che chiarisce una serie di problemi connessi con la realizzazione di quella psicoterapia integrata che molti invocano, aiutando a evitare le secche di un generico, ecumenico e irenico eclettismo che rischia di deteriorare il livello della pratica clinica. Nel Terapeuta sotto Pressione Muran e Eubanks proseguono e allargano il concetto di rottura e riparazione già elaborato precedentemente da Safran e dallo stesso Muran, collegandolo a una serie di dati provenienti dallo studio delle emozioni e della relazione in modelli i più disparati, dalla psicoanalisi al cognitivismo passando attraverso le neuroscienze e senza dimenticare gli orientamenti umanistici.

Si potrebbe temere un eclettismo teorico che abbiamo già visto in molti altri modelli oscillanti tra il funzionalismo metacognitivo e l’interpersonalismo dinamico ma Muran e Eubanks schivano il rischio fornendo procedure di accertamento delle crisi relazionali, le rotture, e tecniche di gestione delle stesse crisi, le riparazioni. Per questa strada accettano la sfida dell’efficacia e soprattutto della maggiore efficacia, non accontentandosi dell’anti-progressivo verdetto del Dodo, verdetto che in alcune sue possibili implicazioni minaccia di ridurre la psicoterapia a una disciplina che non contempla di migliorare nel tempo. Al contrario, Muran e Eubanks esprimono apertamente l’ipotesi, fornendo alcune conferme empiriche che gli esiti psicoterapeutici migliori siano quelli che seguono a episodi di rotture e riparazione, mentre psicoterapie prive di episodi simili avrebbero risultati meno significativi.

Considero questa ipotesi di Muran e Eubanks una svolta importante perché pone fine a molti equivoci, primo tra i quali lo status di quello che può finalmente iniziare a chiamarsi il paradigma relazionale in psicoterapia. Status che finora si era sempre presentato con diplomatica ambiguità, mai chiaramente dichiarandosi come orientamento a sé stante e onestamente in concorrenza con gli altri e quindi intenzionato a dimostrare la propria prevalenza scientifica. Si presentava semmai come una prospettiva integrata più che un orientamento, diffusa come un fattore comune in tutti gli orientamenti, ma mai davvero indipendente, e che combinava fonti cliniche e scientifiche disparate e in quanto tale utilizzabile all’interno degli altri orientamenti come una sorta di ingrediente universale che dava sapore a tutto senza però tentare di estromettere nessuno dalla scena. In tal modo la prospettiva relazionale si presenta non come un modello scientifico da testare ed eventualmente da adottare come quello vero, ma come una buona pratica utilizzabile all’interno degli orientamenti classici per migliorarne l’applicabilità concreta ed eventualmente essere usato in situazioni di emergenza con pazienti particolarmente impegnativi. In un certo senso, una tecnica nel vero senso della parola (malgrado la diffidenza che alcuni appassionati di relazione nutrono verso la tecnica), ovvero una pratica che non implica una teoria da essa distinta.

Muran e Eubanks, invece, fornendo procedure concrete di applicazione del loro approccio relazionale e, inoltre, proponendo esplicitamente (con conferme empiriche, beninteso, sebbene non ancora conclusive) che la loro strada fornisce quell’incremento di efficacia che ormai manca da decenni alla psicoterapia e che questo benedetto incremento passi attraverso lo studio delle crisi relazionali e le loro riparazioni, sembrano assumersi la responsabilità scientifica della loro proposta: un orientamento relazionale specifico di psicoterapia e non una generica prospettiva, un orientamento che non si appoggi solo a variabili di tipo neuro-scientifico come la conoscenza incarnata, ma definisca operativamente e confermi variabili intermedie che diano conto non solo del funzionamento mentale, ma anche della disfunzionalità clinica e del funzionamento della terapia.

Questo doppio merito, concretezza operativa e chiarezza teorica, che evita la confusione tra una prospettiva relazionale onnipresente in tutti gli altri orientamenti e che tende a confondersi con i fattori comuni presenti in tutte le terapie, non implica che il libro di Muran e Eubanks sia utile solo a chi legittimamente creda a questo nuovo orientamento terapeutico e nella sua autonomia e specificità di modello relazionale indipendente. Il libro è utile anche a chi continua a seguire le strade degli altri modelli, quelli cognitivi, psicodinamici e umanistico esperienziali. È utile perché effettivamente il libro propone a tutti noi clinici una serie di procedure e di tecniche che, anche per il terapeuta che non aderisce al paradigma relazionale, possono essere utili per gestire le crisi relazionali in terapia secondo modalità clinicamente convincenti e interessanti.

È vero che, come ammettono gli stessi Muran ed Eubanks, in alcuni orientamenti, come ad esempio quello cognitivo, la crisi relazionale è gestibile applicando interventi di contenimento relazionale di tipo validante e accogliente e al tempo stesso attendista mentre il modello di Muran e Safran richiede esplicitamente che la crisi sia sempre espressa, accertata e trattata apertamente nei suoi termini interpersonali e non solo di eventuale disaccordo sugli obiettivi o sui mezzi terapeutici.

Anche questo passaggio contribuisce a chiarire la posizione di Muran ed Eubanks, rendendola molto più leggibile rispetto a quella delle varie prospettive relazionali che, al contrario, tendono a stirare o comprimere l’intervento relazionale a fisarmonica, rendendolo ora onnicomprensivo e ora estremamente focalizzato. Al contrario Muran ed Eubanks sembrano optare per la focalizzazione operativamente chiara sulla relazione come riflessione congiunta ed esplicita tra terapeuta e paziente, delle dinamiche interpersonali come strada maestra del miglioramento terapeutico. Il che però, vale la pena ripeterlo, non rende questo libro inutilizzabile per chi non ritiene che questa strada maestra passi per un percorso relazionale. Quella strada può essere percorsa in circostanze eccezionali anche da chi preferisce altri sentieri nei casi in cui il paziente o la terapia lo richiedano: è verissimo che possono esserci pazienti con i quali la psicoterapia si arena per motivi squisitamente relazionali tra paziente e terapeuta, per una rottura interpersonale. In questi casi imparare la lezione di Muran ed Eubanks può essere utile per tentare di superare l’intoppo.

 

Non si può ottenere sempre ciò che si vuole: il ruolo degli obiettivi nel cambiamento della personalità

Un recente quadro teorico sul cambiamento intenzionale dei tratti di personalità (Hennecke et al., 2014) suggerisce che le persone possono assegnare diversa importanza (cioè desiderabilità del cambiamento) e fattibilità (cioè aspettativa di successo) ai loro obiettivi di cambiamento. Ma è sempre sufficiente a cambiare veramente?

 

La maggior parte degli adulti desidera migliorare o correggere in una certa misura alcuni aspetti dei propri tratti personologici. Basandosi su idee radicate nella psicologia dello sviluppo, gli psicologi della personalità hanno recentemente iniziato a concentrarsi su obiettivi espliciti e deliberati per modificare i tratti Big Five (apertura, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e stabilità emotiva). Sia la psicologia della personalità sia quella dello sviluppo asseriscono che gli obiettivi danno direzione, struttura e significato alla vita delle persone, diventando quindi fattori importanti nel modo in cui ognuno modella attivamente il proprio sviluppo. Di conseguenza, lo sviluppo della personalità nel corso della vita può anche riflettere la ricerca intenzionale di tratti di personalità che a loro volta potrebbero essere funzionali a gestire con successo le transizioni di vita o a soddisfare i ruoli sociali.

Importanza e fattibilità degli obiettivi

Un recente quadro teorico sullo sviluppo volitivo della personalità (Hennecke et al., 2014) suggerisce che le persone possono assegnare diversa importanza (cioè desiderabilità del cambiamento) e fattibilità (cioè aspettativa di successo) ai loro obiettivi di cambiamento. Sia l’importanza che la fattibilità dell’obiettivo dovrebbero influenzare lo sforzo e il raggiungimento dell’obiettivo stesso. In particolare, una maggiore importanza degli obiettivi di cambiamento può essere associata a un maggiore impegno e a maggiori sforzi per implementare i cambiamenti comportamentali. Una maggiore fattibilità può riflettere una maggiore capacità percepita e comportare una maggiore motivazione per l’attuazione efficace dell’obiettivo; quindi, gli obiettivi fattibili dovrebbero essere seguiti da azioni specifiche, legate all’obiettivo, che possono infine condensarsi in effettivi cambiamenti dei tratti di personalità.

È possibile cambiare intenzionalmente i tratti di personalità?

Lo studio di Lücke et al. (2020) ha esaminato le associazioni tra gli obiettivi di cambiamento della personalità e le successive esperienze, nonché i cambiamenti dei tratti in adulti giovani e anziani nel corso di due anni. In linea con il quadro teorico summenzionato (Hennecke et al., 2014), i ricercatori si sono concentrati sul ruolo dell’importanza e della fattibilità degli obiettivi.

In questo studio sono stati coinvolti 382 partecipanti, reclutati tramite volantini, annunci sul giornale, social network e mailing list.

Le misurazioni rispetto alla personalità sono state raccolte in quattro momenti diversi: autunno del 2015 (T1), primavera del 2016 (T2), autunno del 2016 (T3), autunno del 2017 (T4). Nella prima fascia temporale (T1) è stato chiesto ai partecipanti di presentarsi in laboratorio per valutare i propri obiettivi di cambiamento rispetto ai tratti di personalità, dichiarando inoltre quanto li percepissero fattibili. Anche nella seconda fase (T2) i partecipanti sono stati convocati in laboratorio per rispondere ai questionari, mentre per la terza e quarta fase (T3 e T4) i partecipanti erano liberi di rispondere online, in quanto si riteneva avessero avuto modo di familiarizzare con gli strumenti.

Per raccogliere giornalmente i dati, sono stati assegnati ai partecipanti dei diari giornalieri (D). In questo modo è stato possibile valutare lo sviluppo temporale dei tratti di personalità.

Ogni sera (h18) i partecipanti ricevevano una email con link personalizzati per rispondere a delle domande caricate su SoSci Survey. Per raccogliere informazioni sui tratti di personalità è stato utilizzato il Big Five Inventory (BFI; John & Srivastava, 1999; Lang et al., 2001), somministrato all’inizio di ogni slot temporale (T1,T2,T3,T4).

In T1, T2 e T3 sono stati raccolti gli obiettivi di cambiamento dei tratti di personalità di ogni partecipante grazie alla versione breve del Change Goals BFI (C-BFI; Hudson & Roberts, 2014). Un esempio di item di questa scala, prendendo in considerazione l’estroversione, è ‘Vorrei essere aperto, socievole’ (Hudson & Roberts, 2014; Quintus et al., 2017). Gli items sono stati valutati su una scala a 5 punti in cui 1 significava ‘molto meno di quanto lo sia ora’, 3 ‘non vorrei cambiare questo tratto’ e 5 ‘molto più di quanto lo sia ora’. Per ogni obiettivo ai partecipanti era chiesto di dichiarare quanto fosse fattibile e flessibile su una scala da 1 a 5. Per quanto riguarda i diari giornalieri, è stato chiesto ai partecipanti di riportare l’esperienza più significativa della giornata, riportando alcuni esempi. Successivamente i partecipanti hanno valutato la situazione ed il loro comportamento. Per queste valutazioni è stato utilizzato il DIAMONDS S8-I questionnaire (Rauthmann et al., 2014) che indaga le dimensioni di intenzionalità che possono essere: intellettive, legate al dovere, legate alla socialità, alla negatività o all’avversione.

Obiettivi e raggiungimento del cambiamento

Il presente studio può essere considerato come uno dei primi ad esaminare empiricamente quanto sia rilevante saper attribuire il giusto peso ai propri obiettivi e alla fattibilità nello sviluppo volitivo della personalità. Contrariamente alle aspettative e ai quadri teorici di riferimento (Hennecke et al., 2014), i risultati emersi dallo studio mostrano che le persone con obiettivi di cambiamento molto pronunciati non tendono a manifestare cambiamenti rilevanti dei tratti nei due anni successivi. Ciò significa che gli obiettivi di cambiamento maggiormente volitivi non sono necessariamente associati al cambiamento di tratti più pronunciati.

Sono state avanzate diverse ipotesi, tutte ugualmente valide, che possono spiegare il motivo per cui gli obiettivi di cambiamento non si convertono in effettivi cambiamenti di tratti. Innanzitutto, gli obiettivi di cambiamento più sentiti sembrano riferirsi più frequentemente a una manifestazione più contenuta degli attuali tratti personologici (Hudson & Roberts, 2014; Quintus et al., 2017). Quest’ultimi possono rappresentare un ostacolo importante per le persone che vogliono implementare con successo il cambiamento prefissato. Ad esempio, le persone con alti livelli di introversione potrebbero non essere in grado di comportarsi in modo più estroverso perché potrebbero non avere accesso a situazioni rilevanti per il tratto in questione o al repertorio comportamentale per raggiungere con successo i loro obiettivi di cambiamento (Jacques-Hamilton et al., 2019; Robinson et al., 2015).

Inoltre, il principale elemento costitutivo dello sviluppo della personalità sembrerebbe essere legato ai comportamenti selezionati/attuati (Back et al., 2011; Dweck, 2017; Geukes et al., 2017; Hennecke et al., 2014; Roberts, 2017; Roberts & Jackson, 2008 ; Wrzus & Roberts, 2017). Ciò è in linea con i dati emersi secondo cui gli obiettivi di cambiamento non si sono manifestati in cambiamenti dei tratti a lungo termine. Anche se le persone percepissero alcuni obiettivi di cambiamento fattibili, questi potrebbero essere inaspettatamente difficili da incrementare in situazioni o comportamenti quotidiani perché i soggetti potrebbero non sapere quali siano le situazioni effettivamente rilevanti per aumentare uno specifico tratto (Baranski et al., 2017). Pertanto, si potrebbe dedurre che gli obiettivi di cambiamento valutati dal Change Goals BFI (C-BFI) non si traducono in cambiamenti reali, in assenza di piani specifici su come implementare i propri obiettivi.

In conclusione, l’importanza e la fattibilità degli obiettivi di cambiamento potrebbero rappresentare delle pre condizioni necessarie ma non sufficienti per un cambiamento effettivo della personalità.

Arte e Psicologia come espressione dell’anima: da Oskar Kokoschka, Egon Schiele a Messerschmidt

Obiettivo di questo articolo è quello di individuare e rappresentare con un’ottica multidirezionale la molteplicità delle relazioni esistenti tra psiche ed arte.

 

La rappresentazione della psiche nell’arte

Vedremo infatti come l’esperienza creativa faccia parte della normale facoltà di relazionarsi di ciascuno di noi, ma come la comprensione di un’opera d’arte richieda necessariamente una conoscenza delle proprie emozioni, da un lato, e della capacità di contestualizzare la storia dell’artista e del suo tempo, dall’altro.

L’analisi verrà svolta anche attraverso l’approfondimento di alcuni aspetti relativi alle opere di tre autori significativi. I primi due sono Oskar Kokoschka ed Egon Schiele, che portano il loro contributo nell’ambito del periodo della Rivoluzione Viennese, agli inizi del XX secolo. Il terzo artista trattato è Franz Xaver Messerschmidt, scultore tedesco vissuto nella seconda metà del diciottesimo secolo, autore di una serie di busti denominati “teste di carattere” nei quali rappresenta con straordinaria efficacia il proprio disagio psichico.

Vista l’estrema lunghezza dell’articolo stesso, qui presenteremo un breve riassunto. Per approfondire il tutto, si può cliccare su questo link per avere una visione più completa dell’articolo stesso.

Psiche ed arte

Gli studi di Freud, seppur parziali e sempre ricondotti alla conferma delle proprie teorie, furono rivoluzionari e portarono ad un arricchimento reciproco di arte e psicoanalisi. Lo studio della maternità precoce di Leonardo, infatti, diventa precursore dell’esplorazione della relazione preedipica madre-figlio, uno dei temi centrali del dibattito psicoanalitico del tempo.

Anche andando indietro nel tempo è peraltro evidente come i grandi pensatori del passato analizzano in modo distintivo e sottile i componenti delle loro definizioni teoriche di arte, stabilendo relazioni complesse con altre discipline quali la filosofia della mente, l’epistemologia e l’ontologia.

Le teorie generali sulla bellezza e sull’arte esplorate da filosofi e pensatori del passato possono essere sinteticamente raggruppate in tre macrocategorie. La prima include le filosofie che concepiscono l’arte come una forma di conoscenza, sia in termini negativi (Platone), sia in termini positivi (Schopenhauer, Hegel, Croce). La seconda categoria include le filosofie che concepiscono l’arte come una forma di liberazione o di espressione (Kant, Nietzsche, Marcuse). La terza categoria, invece, include le filosofie che rappresentano la bellezza come una via per accedere ad uno strato profondo della realtà.

In ogni caso l’impulso artistico permea tutto il corso della storia, come una risorsa per accedere a maggiori e più complesse conoscenze di se stessi e della realtà. Ciò sin dalla primitiva arte della grotta del Paleolitico, alla introduzione della prospettiva del Rinascimento e fino alla rottura delle regole classiche sovvertite dagli artisti della modernità.

O come creatori o come fruitori, l’arte rimane sempre presente come veicolo per esprimere i nostri pensieri e desideri più intimi e come mezzo attraverso il quale possiamo entrare in relazioni uniche con realtà ed emozioni.

La Secessione Austriaca e le opere di Oskar Kokoschka ed Egon Schiele

Il movimento della Secessione Viennese fu uno dei più prolifici della storia culturale europea. Numerosi artisti viennesi, agli inizi del XX secolo costituirono delle avanguardie che determinarono un radicale cambiamento nello stile e nel modo di concepire l’arte, segnando un solco indelebile col passato.

Questo movimento aspirava alla rinascita delle arti e dei mestieri, per realizzare opere che rispondessero al concetto di opera d’arte totale.

L’imitazione del passato non era più percepita come adeguata in un contesto di svolta, da cui la necessità di trovare uno stile che fosse espressione del proprio tempo e che consentisse di rappresentare l’ansia di modernità. Ciò in contrapposizione al gusto storicista e tradizionalista, al naturalismo borghese ed al perbenismo che facevano parte della cultura del tempo.

I giovani artisti rivoluzionari perseguivano con estrema meticolosità l’obiettivo del coinvolgimento dell’intera società nella fruizione dell’arte, senza più alcuna distinzione tra ricchi e poveri. Dal momento che per i Secessionisti l’arte rappresentava una sorta di religione in grado di rinnovare il mondo, il loro approccio doveva essere totale e questo fu il vero aspetto rivoluzionario ed il nuovo trait d’union tra arte e psiche.

In tale conteso di fermento artistico, psicologico e sociale l’elaborato si sofferma su due artisti dagli aspetti innovativi dirompenti: Oskar Kokoschka ed Egon Schiele.

Kokoschka maturò il proprio linguaggio artistico, come detto, nella Vienna di inizio Novecento, grande punto di incontro di culture in cui l’arte penetrava il quotidiano, facendosi protagonista di una stagione di scandali e rinnovamenti.

L’artista ricevette in tale contesto il soprannome di Grande Selvaggio, per il suo netto allontanamento dal decoro secessionista, sostituito da una carica estetica espressionista e simbolica che lo pone in diretto contatto con le sue più intime pulsioni. Si mostra capace, tra i primi, a tradurre graficamente espressioni emotive crude e dirette, come libido e angoscia. Tutte le massime espressioni di turbamenti interiori in grado di disgregare qualsiasi forma di armonia non per distruggere la realtà psichica, ma per esaltarla nella sua umanità. Deforma e distorce figure, occhi e visi, con lo scopo di rivelare, esasperando, la psiche dei soggetti.

Egon Schiele fu un’altra figura dirompente emersa con la Secessione Viennese. Il suo lavoro spicca per l’intensità, la sessualità grezza e per i numerosi autoritratti, inclusi gli autoritratti nudi. Le forme del corpo contorte e i tratti espressivi misero l’autore in stretto contatto con la forma umana, ma anche con la sessualità. Il collegamento con tratti della psiche si realizza attraverso quelle che si potrebbero chiamare distorsioni figurative che prevedevano allungamenti, figure emaciate e di colore malaticcio, deformi e dalla sessualità esplicita in sostituzione degli ideali convenzionali più asettici di bellezza estetica.

Forte fu per Schiele il collegamento tra emozioni profonde e rappresentazione artistica. Egli usò il corpo umano come mezzo per rappresentare drammaticamente le esperienze interiori. I corpi erano contorti, distorti, resi sgradevoli per rappresentare il disagio del mondo interiore e degli stati d’animo ad esso riferibili. L’artista è spesso solitario protagonista di opere ispirate al sesso. Le pulsioni sessuali, del resto, erano considerate da Freud come quelle che hanno a cuore la sorte dell’organismo per poter trovare uno spazio sicuro e vitale. Le pulsioni dell’Io spingono alla morte, mentre quelle dell’Eros al continuamento della vita. Schiele viene ricordato come colui che, più di chiunque altro, è riuscito a portare questa dualità nell’arte.

Franz Xavier Messerschmidt e le “smorfie demoniache”

I rapporti tra arte e psiche trovano uno dei più eclatanti ed efficaci momenti di realizzazione nelle opere e nella personalità di Franz Xavier Messerscmidt, uno dei più originali scultori della seconda metà del diciottesimo secolo.

L’attenzione suscitata dall’autore probabilmente deriva dall’originalità delle sue opere, dei busti di autoritratto che sintetizzano in modo straordinariamente efficace l’arte del suo tempo e la propria personalità, fatta di psicopatologia e di sofferenza, trasmettendo al fruitore stati d’animo e tormenti dell’anima di immediata comprensione.

Le opere giovanili di Messerschmidt si possono ben collocare nel processo di evoluzione stilistica del momento storico in cui l’artista è vissuto; tuttavia, tale considerazione non è assolutamente valida per le sue creazioni più famose: i busti fisiognomici o teste di carattere.

Tali opere, realizzate al termine della sua carriera e vita, sono busti di autoritratto nei quali l’artista attraverso delle smorfie rappresenta in modo dirimente ed impetuoso la propria condizione psicotica.

Messerschmidt non era per nulla in sintonia col proprio tempo, ma nemmeno avulso da esso. L’opera dell’artista è unica poiché solleva interrogativi insoluti tra opera d’arte e creatore. L’artista, infatti, si libera della presenza del demone che lo affligge grazie alla realizzazione dell’opera attraverso la quale vengono resi tangibili i propri impulsi inconsci. Il busto è una sorta di esorcismo contro il male che affligge lo scultore.

Eppure, viste puramente dal punto di vista dello stile e dell’esecuzione, le famose teste di carattere non mostrano segni di anormalità, realizzate con tecnica sopraffina e con materiali ben levigati. L’artista in questo connubio tra arte e psiche dimostrava di mantenere la propria maestria tecnica e con essa il controllo delle sue risorse coscienti, senza mai cadere nell’incoerenza o nel vuoto: l’arte come cura.

Il tentativo di questo articolo è stato quello di rappresentare l’estrema varietà e complessità delle relazioni tra arte e psiche. L’osservazione più estrema è stata indubbiamente quella delle opere di Franz Xavier Messerschmidt.

Venendo in contatto con tali sculture per la prima volta durante il corso di Psicologia dell’arte, ho immediatamente percepito come si realizzasse in modo straordinariamente efficace il processo di comunicazione tra artista, opera d’arte e autore.

Il coinvolgimento emotivo è stato tale che, oltre a farmi avventurare nella predisposizione di una tesi che ha toccato temi storici ed artistici a me fino ad oggi poco noti, mi ha portato ad acquistare cinque repliche fedeli di teste di carattere di Messerschmidt realizzate da un artigiano tedesco ed ora posizionate nel salotto di casa.

 

Per leggere l’articolo completo >> CLICCA QUI

 

cancel