La diagnosi di tumore di un genitore: comunicazione e coinvolgimento dei figli nell’adattamento
Non sempre siamo in grado di prevedere e avere il controllo su ciò che ci accade. Vi sono infatti eventi di vita, come ad esempio ricevere una diagnosi di tumore, che quando arrivano stravolgono la nostra quotidianità e quella di chi ci sta vicino in maniera così violenta, repentina e impetuosa da destabilizzarci e far improvvisamente crollare ogni certezza. A qualsiasi età, ricevere una diagnosi di tumore si configura come un evento doloroso, traumatico e stressante con ripercussioni sulla qualità di vita dell’intero nucleo familiare, figli compresi. Il cancro, come una “malattia familiare”, (Chesler, 1993) può implicare una ridefinizione dei ruoli genitoriali e una ristrutturazione delle routine familiari (Alexander et al., 2019). Da un giorno all’altro, al genitore malato può essere richiesto di trovare un nuovo equilibrio fisico e psichico tra impegni quotidiani, lavoro, cura dei figli, terapie, visite mediche e ospedalizzazioni (Möller et al., 2014). Tuttavia, durante il decorso della malattia, la realizzazione di tali attività può risentire della cosiddetta fatigue correlata al tumore (FCT), espressione utilizzata in ambito clinico per fare riferimento alla sensazione soggettiva e persistente di stanchezza, esperita dai pazienti oncologici come uno dei sintomi più significativi associati al tumore e al suo trattamento (Botta et al., 2022).
Secondo la teoria dell’adattamento cognitivo elaborata da Taylor (1983), una delle prime reazioni suscitate dalla diagnosi oncologica può essere la ricerca, da parte dell’individuo, di un significato alla domanda “perché è capitato proprio a me?” (Bonichini et al., 2019). Tuttavia, oltre ai vissuti di sofferenza e di dolore, in un genitore la diagnosi di tumore può dare luogo a una serie di interrogativi che a loro volta possono diventare un’ulteriore fonte di stress: chi si occuperà dei miei figli quando non ci sarò più? Come continuare ad esercitare il mio ruolo di madre o di padre nonostante la malattia? Come trovare le parole giuste per comunicare ai miei figli che ho un tumore?
Per un genitore, cercare di dare una risposta a queste domande può rivelarsi un compito arduo e doloroso (Bonichini et al., 2019). Nel genitore con malattia oncologica, infatti, l’istinto di protezione congiuntamente ai vissuti di colpa, di inadeguatezza e di impotenza, possono portare alla decisione di non comunicare ai figli il proprio stato di salute, facendoli così sentire esclusi dalle questioni genitoriali e da quanto accade all’interno del nucleo familiare (Wray et al., 2024). Tuttavia, tenere all’oscuro i figli dalla diagnosi può avere ripercussioni negative sul benessere psicologico del minore. Durante l’infanzia il rischio principale è che i bambini, in assenza di informazioni e di una risposta alle loro domande, si formino fantasie erronee circa ciò che sta accadendo al genitore. Un esempio di interpretazione sbagliata che il bambino potrebbe attribuire alle frequenti assenze del genitore, dovute in realtà a visite mediche o ospedalizzazioni, può essere “il papà/la mamma non sta con me perché sono cattivo”, favorendo così l’insorgenza di sensi di colpa. A tale proposito, la letteratura psicologica sottolinea l’importanza, utilizzando un linguaggio appropriato all’età, di comunicare e condividere con i figli la diagnosi di tumore, le informazioni mediche inerenti alle cure e alla prognosi della malattia. Nello specifico, per quanto concerne la comunicazione della diagnosi di tumore, con i bambini può essere utile ricorrere all’utilizzo di metafore o di materiale ludico, mentre con gli adolescenti è preferibile adottare una comunicazione più diretta (Bonichini et al., 2019).
Al contrario, quando all’interno del nucleo familiare la comunicazione è assente o disfunzionale, i figli, in particolare le femmine, sono esposti a un maggior rischio di sviluppare sintomi da stress post traumatico e una serie di problematiche psicologiche, come vedremo in seguito (Gazendam-Donofrio et al., 2009).
Le ripercussioni della malattia oncologica del genitore sul benessere psicologico del bambino
Il 22.4% dei pazienti oncologici ha un’età compresa tra i 21 e i 55 anni (Shah et al., 2017) e circa il 7-14% ha figli di età inferiore a 18 anni (Wuensch et al., 2022). A tale proposito, il dato messo in evidenza da Shah e colleghi è piuttosto impressionante: nel mondo sono circa 2.85 milioni i bambini e gli adolescenti di età inferiore a 18 anni con un genitore malato di tumore (Shah et al., 2017).
Relativamente all’impatto che la diagnosi di tumore di un genitore può avere sulla qualità di vita dei figli, diversi studi si sono occupati di esaminare il ruolo che il tono dell’umore e il distress del genitore vengono ad assumere rispetto al rischio per i figli di sviluppare sintomi internalizzanti quali ansia e depressione (Stafford et al., 2021). In particolare, è stato osservato come l’umore depresso del genitore malato si associ ad un aumentato rischio per i figli di psicopatologie, tant’è che i figli di pazienti oncologici sembrano essere esposti a un maggior rischio rispetto ai coetanei di sviluppare problemi emotivi o comportamentali (Osborn, 2007; Wuensch et al., 2022). Avere un genitore malato di tumore può costituire, infatti, una fonte di stress importante per i figli: all’incertezza legata all’esito delle terapie, alla paura di poter perdere il genitore e alle frequenti ospedalizzazioni, i figli possono reagire sviluppando sintomi ansiosi e depressivi, sintomi regressivi (come enuresi notturna) e sintomi esternalizzanti quali aggressività e problemi comportamentali (Möller et al., 2014).
Alcuni studi individuano nella prognosi e nella durata della malattia due fattori che possono influenzare i livelli di stress esperiti dai figli: maggiore è la durata della malattia e più sfavorevole è la prognosi, maggiore sarà il rischio per i figli di sperimentare livelli di stress elevati (Thastum et al., 2009). Un dato interessante è emerso da uno studio condotto da Egberts e colleghi (2022), volto a esaminare la gravità dei sintomi del disturbo post traumatico da stress nei figli di pazienti oncologici. In particolare, lo studio ha visto coinvolti 175 bambini e adolescenti di età compresa tra i 6 e i 20 anni, 90 genitori malati di tumore e 71 genitori sani. In linea con la letteratura psicologica attuale, i risultati ottenuti evidenziano come ben il 27% dei bambini e adolescenti con un genitore oncologico abbia riportato sintomi del disturbo post traumatico da stress (Egberts et al., 2022).
Tra le variabili che, invece, nei figli di pazienti oncologici possono fungere da fattori di protezione rispetto all’insorgenza di sintomi internalizzanti ed esternalizzanti è possibile individuare l’adozione di strategie di coping e un buon funzionamento familiare (Faccio et al., 2018). In particolare, con l’espressione “strategie di coping” (Lazarus & Folkman, 1984), si fa riferimento all’insieme di strategie cognitivo-comportamentali che le persone mettono in atto per far fronte a situazioni soggettivamente percepite come dolorose, problematiche e stressanti (Lazarus et al., 1984). Secondo Lazarus e Folkman le strategie di coping possono essere focalizzate sul problema (problem-focused coping) o centrate sulle emozioni (emotional-focused coping). Le prime si configurano come un tentativo da parte dell’individuo di gestire o agire sull’evento che provoca stress o dolore, in ambito oncologico, ad esempio, ricercando attivamente informazioni inerenti alla diagnosi e al trattamento. Le strategie di coping centrate sulle emozioni, invece, si manifestano come tentativo di regolare l’impatto emozionale dell’evento stressante. Inoltre, in letteratura le strategie di coping vengono comunemente suddivise in termini di dicotomia approccio/evitamento (Greer et al., 2020).
Quando un evento negativo è percepito come non controllabile è più frequente che le persone mettano in atto strategie di coping di evitamento, come ad esempio la distrazione o la negazione della propria condizione di malattia. Tuttavia, l’adozione di tali strategie può associarsi a maggiori livelli di ansia, stress e depressione (Bonichini et al., 2019). Esempi di strategie di approccio sono, invece, la ricerca e il mantenimento del supporto sociale o l’utilizzo di tecniche di rilassamento (Gingerich et al., 2019).
Inoltre, si è osservato come variabili quali una comunicazione aperta e un’espressione condivisa delle emozioni all’interno del nucleo familiare siano associate a un maggiore benessere e a un miglior funzionamento sia nei bambini che negli adolescenti (Osborn, 2007).
L’ importanza di coinvolgere i figli negli interventi di psicoeducazione in ambito oncologico
Dal momento che, come accennato, il tumore può essere considerato una malattia familiare (Chesler, 1993), nella pratica clinica risulta evidente l’importanza di coinvolgere il paziente oncologico e il suo nucleo familiare, inclusi i figli, in interventi di psicoeducazione (Stafford et al., 2021). È fondamentale, infatti, che fin dalla diagnosi i professionisti della salute promuovano una presa in carico globale del sistema familiare lungo l’intero iter diagnostico e terapeutico del paziente, sostenendo quest’ultimo nella condivisione dei propri vissuti di malattia (Wray et al., 2024). A tale proposito, gli interventi di psicoeducazione forniscono gradualmente al paziente e alla sua famiglia le informazioni e le abilità pratiche necessarie a una migliore comprensione dell’andamento della malattia e degli effetti collaterali delle terapie. Inoltre, gli interventi di psicoeducazione possono configurarsi come uno spazio di ascolto e di riflessione condivisa in cui, con il supporto di un’équipe multidisciplinare costituita da medici, psicologi e infermieri etc., anche i figli possono dare voce liberamente ai propri vissuti e alle proprie emozioni. Geertz e colleghi (2023) hanno osservato come con bambini e adolescenti possa rivelarsi utile prevedere interventi che coinvolgano anche il gruppo dei pari. In particolare, gli autori mettono in evidenza come i bambini e gli adolescenti traggano dal gruppo dei pari benefici relativamente al processo di accettazione della malattia, all’adozione di strategie di coping efficaci e al miglioramento della qualità di vita (Geertz et al., 2023).