Sentire le voci: la teoria del cervello rotto
I just do what the little voices tell me to do
Voci minacciose, voci imperative, voci che commentano o che mettono in guardia… nella propria testa. Nella cultura occidentale sentire le voci è di solito considerato sintomo di patologia, spesso associato a disturbi mentali come schizofrenia o psicosi. Una diagnosi di questo tipo è gestita principalmente con una terapia farmacologica che include antipsicotici per ridurre frequenza e intensità delle voci e farmaci antidepressivi e ansiolitici per gestire sintomi secondari di depressione e ansia. Inoltre è associata a un forte stigma sociale: chi sente le voci può essere percepito come “ matto” o pericoloso e quindi tenuto a distanza. Infine suggerisce al paziente che non può fare affidamento sulle proprie percezioni e pensieri (allucinazioni e deliri): il cervello è rotto e a volte nemmeno i farmaci sono in grado di aggiustarlo definitivamente.
TI communities: una narrazione pericolosa
Negli anni 2000, con la diffusione di internet e in seguito dei social, si è assistito al diffondersi del fenomeno delle Targeted Individual community (TI community), gruppi di persone che sentono le voci o delirano, condividono apertamente le loro esperienze come perseguitati high-tech o stalkerizzati, rinforzandosi a vicenda l’idea di essere realmente perseguitati da qualcuno: vittime di esperimenti in cui hanno subito l’impianto di microchip nel cervello, controllati dai servizi segreti o da altre organizzazioni misteriose, vessati da carnefici che mirano a dipingerli come pazzi agli occhi degli altri per screditarli.
Si potrebbe pensare che sia proprio l’estremo riduttivismo dell’approccio medico tradizionale, che vede la psicosi come il sintomo di un ingranaggio rotto, una delle cause che spinge alcuni pazienti tra le braccia del complottismo. Dopotutto, se l’alternativa è che il tuo cervello non funzioni, la narrazione TI, cioè che non c’è nulla che non va nella tua mente, ma sei realmente vittima di gang stalking, è molto più allettante e rassicurante. Questa narrazione, infatti, regala speranza, restituisce un senso all’angosciante esperienza vissuta, offre un senso di comunità, condivisione e appartenenza (“non sei solo”) e un obiettivo comune da raggiungere: puoi unirti ad altri TI in un movimento globale per smascherare i tuoi aggressori e sconfiggerli.
Narrazioni alternative
Esistono interpretazioni alternative della psicosi che rimandano a un significato altro dei sintomi, che non considerano sentire le voci, avere credenze insolite o vivere episodi dissociativi manifestazioni di un cervello difettoso.
Per esempio, secondo la prospettiva psicologica la psicosi è una risposta protettiva a eventi dolorosi o a esperienze traumatiche. La prospettiva sociale, invece, considera la psicosi come lo specchio di una società danneggiata: la follia è la risposta sana a un mondo folle.
Per la prospettiva spirituale la psicosi rappresenta una crisi spirituale, segno precursore di un potente cambiamento interiore che più che l’intervento di uno psichiatra richiederebbe una guida religiosa.
Un’ulteriore narrazione alternativa trova spazio all’interno del movimento delle neurodiversità: sentire le voci sarebbe semplicemente un modo diverso di elaborare le informazioni sul mondo.
Ma questi sono solo alcuni degli approcci alternativi alla prospettiva medico-psichiatrica occidentale tradizionale.
Cosa hanno in comune queste prospettive? Restituiscono un senso, un significato all’esperienza estrema vissuta.
Dare un senso alle voci
Sentire le voci non è sempre sinonimo di patologia. Sono infatti diverse le occasioni in cui si può manifestare questo fenomeno, che non hanno a che fare con disturbi mentali, come situazioni di deprivazione del sonno, anomalie neurologiche, stati di veglia alterata (es. le allucinazioni ipnogogiche provate quando si è sul punto di addormentarsi), pratiche spirituali.
Tuttavia, anche quando si è in presenza di disturbi psichiatrici come schizofrenia, depressione grave, disturbo bipolare o disturbo da stress post-traumatico, un approccio che non si limiti alla somministrazione farmacologica, ma che tenga in considerazione l’esperienza soggettiva del paziente ed esplori il significato che le voci hanno per lui, può aiutarlo a dare un senso all’esperienza e a integrarla all’interno della propria vita quotidiana, rendendola così meno angosciante.