expand_lessAPRI WIDGET

Udire le voci: malattia o malessere? E cos’è la “Recovery”?

Secondo l' approccio della recovery udire le voci non è una malattia, ma un'esperienza dotata di senso per chi la vive e integrabile nella sua vita.

Di Roberta Casadio

Pubblicato il 19 Set. 2014

Aggiornato il 30 Set. 2014 12:22

 

 

 Secondo l’ approccio della recovery, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali,tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

L’approccio dei professionisti della salute mentale all’esperienza dell’udire le voci (con in termine “voci” si intende qualsiasi esperienza o percezione inusuale: voci interiori, compagni invisibili, la voce della coscienza, spiriti, angeli, demoni, la voce di Dio, personalità scisse, allucinazioni visive etc.) è ancora, troppo spesso, stigmatizzante e, di fatto, iatrogeno poiché sentire le voci è considerato ipso facto uno dei sintomi cardinali delle psicosi.

In molti Paesi del mondo occidentale, una persona che ode le voci viene immediatamente vista come qualcuno che ha un problema psichiatrico tipicamente identificato come schizofrenia. Altri aspetti significativi di tale esperienza non vengono quasi mai presi in considerazione poiché la priorità è data al sopprimere il sintomo di malattia prima ancora di comprenderlo.

Tuttavia, nella storia dell’umanità, l’udire le voci è ampiamente riscontrabile sin dalle più antiche civiltà. Il primo famoso uditore di voci è stato Socrate (469-399 aC) che riferiva di udire la voce di un demone al quale tuttavia conferiva una valenza positiva. Altri famosi uditori di voci sono stati Maometto, Gesù, San Paolo, Giovanna d’Arco, William Blake, Virginia Woolf, ed il compositore Robert Schumann. In alcune società orientali l’udire le voci viene ancora tutt’oggi considerato come un’esperienza relativamente normale e spesso apprezzata in senso positivo.

Da circa vent’anni è emersa a livello mondiale una prospettiva nuova, adottata da professionisti della salute mentale e dagli uditori di voci stessi, denominata “Recovery”. Secondo tale approccio, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, i fenomeni inusuali non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona.

Seguendo questa prospettiva si cerca di uscire dalla dicotomia malattia/guarigione ponendosi invece in un’ottica di Recovery, ovvero di percorso di riappropriazione della propria vita.

 

Il termine Recovery non possiede un esatto equivalente nella lingua italiana e non è semplicemente traducibile con il termine guarigione, ma piuttosto con forme verbali riflessive quali ad esempio con il termine “riappropriarsi”. A differenza della parola “guarire”, quest’ultima implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine. Con il termine Recovery non ci si riferisce infatti ad una situazione di ritorno al prima della malattia.

Secondo Anthony (1993) esistono diversi tipi di guarigione:

  •  guarigione clinica che consiste nella remissione sintomatologica;
  • guarigione sociale che consiste in un ritorno al funzionamento sociale e lavorativo dell’individuo;

  • guarigione personale che consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita;

Sebbene il termine Recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.

Anthony descrive il Recovery come:

a deeply personal, unique process of changing one’s attitudes, values, feelings, goals, skills and/or roles. It is a way of living a satisfying, hopeful, and contributing life even with limitations caused by the illness. Recovery involves the development of new meaning and purpose in one’s life as one grows beyond the catastrophic effects of mental illness”.

Tuttavia, questo processo non riguarda solo persone affette da una “malattia” ma tutti. Ognuno può fare i conti con la sua personale “malattia”, ovvero la sua rigidità di pensiero, la tendenza a delegare agli altri la soluzione dei problemi, la difficoltà a credere che i sogni si possano realizzare, etc. Si può quindi asserire che ognuno può fare il proprio percorso di Recovery e che non esiste un percorso uguale all’altro o soluzioni migliori a priori poiché siamo tutti diversi e ugualmente importanti.

 

Per quanto riguarda gli uditori di voci, esistono testimonianze di persone che si sono riprese dalla sofferenza causata dall’udire le voci (Romme et al., 2011). Queste persone hanno superato gli atteggiamenti sociali e psichiatrici invalidanti e hanno combattuto duramente, anche con se stesse, per poter accettare e trovare un senso alle voci e hanno cambiato il loro rapporto con esse per poter finalmente rivendicare il diritto alla propria vita.

Per loro guarire ha significato comprendere che le loro voci non erano un segno di pazzia, bensì una reazione a determinati problemi di vita che prima non si sapeva come affrontare. Tali persone hanno riscontrato il fatto che le voci parlano dei problemi che la persona non ha risolto e che pertanto le voci hanno un senso. Ne deriva che il processo di Recovery per gli uditori di voci riguarda quindi l’accettazione delle voci, il cambiamento del rapporto con esse ed il fronteggiamento dei problemi della propria vita.

Circa il 70% di uditori di voci afferma che le voci si riferiscono a traumi e altre situazioni dove la persona ha esperito un forte senso di impotenza. In accordo con ciò recenti ricerche dimostrano che i sintomi considerati indicativi di psicosi sono correlati agli abusi e alla trascuratezza subiti nell’infanzia almeno quanto molti altri problemi di salute mentale e che questa relazione è di fatto causale, con un effetto dose dipendente (Bloom, 2003).

Da quanto detto finora, emerge chiaramente che guarire per un uditore di voci non significa liberarsi delle voci, tanto meno cancellarle o sopprimerle, come invece troppo spesso imposto dalle tradizionali cure psichiatriche che seguono un modello medico-centrico di malattia mentale. Diversamente, nel processo di recovery di un uditore di voci, viene incoraggiata la possibilità di sperimentarsi e la ricerca di connessioni tra le voci, le emozioni e fatti accaduti nella vita (Read, 2005).

Spesso l’ansia, le sensazioni di impotenza, il senso di colpa che il soggetto esperisce nel suo rapporto con le voci, sono una metafora della relazione di potere esistente nelle situazioni traumatiche e nelle situazioni in cui non era possibile esprimere ciò che la persona sentiva veramente. Il punto di svolta è spesso rappresentato nel cambiamento nel rapporto con le voci laddove la persona è in grado di riappropriarsi delle proprie esperienze ed emozioni e da vero protagonista della sua vita passa dal ruolo passivo di vittima a quello di vincitore del proprio disagio mentale (Coleman and Smith, 2011).

Ron Coleman è un noto uditore di voci che è guarito dal suo disturbo causato dalle voci. Nel suo libro “Guarire dal male mentale” (2007) egli descrive la sua storia ed il suo personale percorso di recovery rilevandone quattro elementi chiave:

  1. Coinvolgere gli altri, perché si ha bisogno di indicazioni, speranza, sostegno e rapporti amicali. Lui è infatti grato tutt’oggi a coloro che hanno sostenuto la speranza per lui quando ancora lui non poteva o meglio non riusciva a farlo.

  2. Lavorare sulle quattro auto: autostima, auto-fiducia, auto-consapevolezza, auto-accettazione.

  3. Fare delle scelte ovvero diventare responsabili di sé e delle proprie decisioni nonché trovare uno scopo nella vita.

  4. Assumere il possesso, ovvero riappropriarsi della propria esperienza di vita e dei propri diritti nei confronti degli altri e delle proprie voci.

Egli asserisce che guarire significa riprendersi la vita in mano e per farlo si devono compiere delle scelte ed imparare a fronteggiare le conseguenze sia sociali che emotive dei problemi originari. Questo implica una presa di responsabilità della persona in questione, per agire e per muoversi verso l’incertezza del cambiamento. Aggiunge anche che il Recovery non è un viaggio che si compie da soli ma che al contrario c’è bisogno di relazioni profonde e di fiducia, contatti caldi e umani per non sentire che si è soli. Spesso il supporto di un gruppo di auto mutuo aiuto, una buona relazione con il medico di riferimento e un sostegno psicoterapico sono di grande aiuto per intraprendere un percorso così profondo ed importante.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Parlare con le voci: esplorare il significato delle voci che le persone sentono

 

BIBLIOGRAFIA:

Si parla di:
Categorie
SCRITTO DA
Roberta Casadio
Roberta Casadio

Psicologa clinica e specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale, Recovery worker

Tutti gli articoli
ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel