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Terapia cognitivo-comportamentale e Schizofrenia: un protocollo per il trattamento dei sintomi psicotici

La CBT per la schizofrenia è incentrata sull’individuazione di credenze ed emozioni riguardanti i sintomi positivi e negativi

Di Daniele Saccenti

Pubblicato il 20 Giu. 2023

L’approccio CBT per la schizofrenia è incentrato sull’individuazione di credenze ed emozioni riguardanti i sintomi positivi e negativi che caratterizzano la malattia e sulla rivalutazione dei pensieri associati a questi ultimi (Fei et al., 2021).

CBT e schizofrenia

 La CBT per la schizofrenia prevede un percorso a step che comprende: la formazione dell’alleanza terapeutica, la condivisione della formulazione del caso, il questioning dei significati associati ai sintomi psicotici e la prevenzione delle ricadute. Fermo restando che il trattamento d’elezione rimane quello farmacologico, gli esiti di revisioni e meta-analisi sull’efficacia della CBT in pazienti con diagnosi di schizofrenia sono incoraggianti. Rispetto ai controlli, coloro che vengono trattati con CBT e antipsicotici mostrano una minor gravità dei sintomi positivi e negativi, un aumento dell’insight e una migliore aderenza al trattamento farmacologico (Jauhar et al., 2014). Forse è proprio in quest’ultimo aspetto che risiede il valore aggiunto della CBT, data la presenza di moduli ad hoc volti a decatastrofizzare le convinzioni che il paziente presenta rispetto all’etichetta diagnostica e alla farmacoterapia.

Elementi teorici di base della terapia cognitivo-comportamentale

L’assunto centrale della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) prevede che le modalità con cui gli individui valutano e forniscono un senso agli eventi di cui essi fanno esperienza (ovvero i loro pensieri o le loro credenze) influenzino in maniera inevitabile le emozioni e i comportamenti di quest’ultimi (Ellis, 1957; Beck, 1975). La CBT sostiene, ad esempio, che persone affette da disturbi affettivi come la depressione unipolare vedano sé stesse, il futuro o il mondo che le circonda in modo estremamente negativo, distorto, cupo e catastrofico (Beck, 1967); il che porta le persone a provare un intenso stato di malessere emotivo e ad emettere una serie di comportamenti che finiscono per rafforzare e mantenere vivi questi pensieri. Si consideri una persona depressa che mentre cerca di prepararsi per andare al lavoro si rovescia il caffè sulla camicia appena indossata e pensa tra sé e sé: “Tipico di me, sono proprio una persona inutile. Combino sempre pasticci, tanto vale smettere subito prima di peggiorare ulteriormente la situazione”. Ciò fa sì che l’individuo si senta ancora più triste di quanto non lo sia già al momento dell’incidente e che torni a letto, rafforzando così la convinzione di essere una persona inutile. Tuttavia, attraverso l’impiego di strategie cognitive e comportamentali, gli individui possono essere aiutati a prendere coscienza delle proprie credenze disfunzionali, a metterle in discussione e a sostituirle con pensieri più funzionali, riducendo così la sofferenza emotiva ad essi legata e promuovendo parallelamente l’emissione di comportamenti maggiormente adattivi (David et al., 2018).

Un protocollo cognitivo-comportamentale per la schizofrenia

Nel corso degli anni la CBT si è dimostrata efficace nel trattamento di molteplici condizioni psicopatologiche, tra cui la depressione maggiore, i disturbi d’ansia, il disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo da stress post-traumatico (Hofmann et al., 2012). Meno chiaro è invece il quadro riguardante gli effetti di questa forma di psicoterapia sui sintomi lamentati dai pazienti psicotici. Al momento, l’approccio CBT per la schizofrenia è incentrato sull’individuazione di credenze ed emozioni riguardanti i sintomi positivi (per esempio, deliri o allucinazioni) e negativi (per esempio, apatia, anedonia, e asocialità) che caratterizzano la malattia e sulla rivalutazione dei pensieri associati a quest’ultimi (Fei et al., 2021).

In particolare, Turkington e colleghi (2004) hanno delineato già da tempo un protocollo che il terapeuta è chiamato a seguire durante la somministrazione del trattamento. Quest’ultimo inizia solitamente con la formazione di una solida alleanza terapeutica, ovvero un reciproco accordo sugli obiettivi del cambiamento e sui compiti necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi di legami che mantengono la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico (Bordin, 1979). In secondo luogo, è opportuno che il terapeuta ponga enfasi sulla normalizzazione delle esperienze psicotiche. Una prassi è quella di esaminare la comparsa di esperienze insolite (per esempio, l’udire delle voci), allo scopo di eliminare le interpretazioni catastrofiche in merito al significato di queste ultime. Tali spiegazioni normalizzanti vengono poi rafforzate attraverso degli homework, che includono la lettura di dispense nelle quali vengono descritti vari fenomeni, per esempio la relazione tra privazione di sonno e allucinazioni uditive (Oswald, 1974). Gli interventi del terapeuta si basano peraltro sulla formulazione del caso (Ruggiero et al., 2021), ovvero sulla comprensione e sulla condivisione del problema del paziente, del razionale del trattamento e delle strategie tese a risolverlo. Molta importanza viene attribuita specialmente alla comprensione dell’insorgenza dei sintomi psicotici e alle ragioni del loro mantenimento. Ciò viene fatto riferendosi al modello di vulnerabilità allo stress (stress vulnerability model; Zubin & Sprin, 1977), il quale enfatizza l’idea che tutti noi possiamo sperimentare prima o poi dei sintomi psicotici qualora venissimo sottoposti a livelli sufficienti di stress. Tuttavia, a causa delle nostre vulnerabilità genetiche, fisiologiche, psicologiche e sociali, la nostra vulnerabilità a un esaurimento psicotico varia notevolmente.

 Durante la fase centrale, l’intervento bersaglia principalmente allucinazioni, deliri e altri disturbi del pensiero. Nel pezzo sui deliri, per esempio, è consigliato iniziare con tecniche superficiali, come il peripheral questioning, ovvero una tecnica in cui la persona viene interrogata sulle specificità delle sue convinzioni deliranti per capire come è arrivata alle sue conclusioni. L’idea è quella di cercare eventuali lacune nel sistema delirante del paziente che potrebbero fornire al terapeuta una via d’accesso per scalfire la convinzione che il paziente ha nelle sue credenze. Da lì, si possono impiegare dei compiti comportamentali allo scopo di favorire la generazione di spiegazioni alternative.

Il protocollo CBT per la schizofrenia si conclude di norma con lo sviluppo di un chiaro programma di prevenzione delle ricadute e di un relativo piano d’azione da attuare in situazioni di difficoltà. Ciononostante, per mantenere i benefici del trattamento nel lungo termine, è probabile che siano necessarie delle sessioni di richiamo (Drury et al., 2000).

Considerazioni sul trattamento integrato: il valore aggiunto della CBT

Fermo restando che il trattamento d’elezione rimane quello farmacologico, gli esiti di revisioni e meta-analisi sull’efficacia della CBT in pazienti con diagnosi di schizofrenia sono incoraggianti. Rispetto ai controlli, coloro che erano stati trattati con CBT e antipsicotici mostravano una minor gravità dei sintomi positivi e negativi, un aumento dell’insight e una migliore aderenza al trattamento farmacologico (Pilling, et al., 2000; Rector & Beck, 2001; Jauhar et al., 2014). Forse è proprio in quest’ultimo aspetto che risiede il valore aggiunto della CBT. Pensieri come “Non sono una persona da pillole” o “Sono impazzito del tutto, nessuna compressa può più aiutarmi” vengono riconosciuti e affrontati durante le sedute di psicoterapia e pian piano sostituiti con credenze maggiormente funzionali che contribuiscono in maniera significativa alla regolarizzazione dell’assunzione della terapia farmacologica. Inoltre, la psicoterapia prevede uno spazio dedicato all’esame delle convinzioni che il paziente presenta rispetto all’etichetta diagnostica con lo scopo di decatastrofizzare i pensieri del paziente. Ciò può essere fatto riferendo all’individuo le informazioni più ottimistiche pubblicate di recente nelle riviste scientifiche sul decorso della malattia. Il lavoro della CBT per migliorare l’aderenza ai farmaci nasce proprio da queste sessioni che cercano di comprendere e rimodellare la formulazione individuale della schizofrenia elaborata dal paziente (Turkington & Siddle, 2000).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Beck, A.T. (1967). Depression. New York: Harper and Row.
  • Beck, A. T. (1975). Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. New York: International Universities Press.
  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260.
  • David, D., Cotet, C., Matu, S., Mogoase, C., & Stefan, S. (2018). 50 years of rational-emotive and cognitive-behavioral therapy: A systematic review and meta-analysis. Journal of clinical psychology, 74(3), 304–318.
  • Drury, V., Birchwood, M., & Cochrane, R. (2000). Cognitive therapy and recovery from acute psychosis: a controlled trial. 3. Five-year follow-up. The British journal of psychiatry : the journal of mental science, 177, 8–14.
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  • Oswald, I. (1974). Sleep. Harmondsworth: Penguin.
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