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Siamo davvero il paese più antieuropeo d’Europa?

Rispetto al passato, l'Italia, insieme ad altri Paesi europei, manifesta un minore senso di appartenenza all'Europa - Psicologia politica

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 01 Ott. 2015

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 20/09/2015

Un tempo gli italiani erano filoeuropei, spesso in testa nella classifica dell’amore verso l’Europa nei sondaggi. Oggi siamo sotto la media.

Secondo l’Eurobarometro del luglio 2015 il 38% degli italiani ha un’opinione positiva dell’Europa, contro il 41% della media europea (vedi pagina 9 del documento). Per la verità ci sono molti paesi ancor meno filoeuropei di noi: naturalmente Grecia (solo 25% ha un’opinione positiva dell’Europa), Cipro e Inghilterra sono in prima linea tra gli euroscettici, e si sapeva. Inatteso il malumore degli austriaci: di loro solo il 29% ha un’opinione positiva dell’Europa! È strano soprattutto guardando al 45% di tedeschi filoeuropei. Cosa diamine accadrà sul confine austro-germanico? Infine anche Finlandia, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Spagna sono altrettanto o più irritati di noi con l’Europa.

Insomma, siamo nel gruppo antieuropeo, ma non siamo il paese più antieuropeo. E siamo nella media del malumore mediterraneo, anzi sulla costa sud del continente siamo i meno scontenti. L’Austria e non noi, semmai, merita l’etichetta di regina dell’anti-Europa. Una percentuale di opinioni positive bassissima. La più bassa, esclusa la Grecia. Inoltre l’Austria è l’unico paese nordico anti-europeo, insieme alla Finlandia. Che però ha un’attenuante: è l’unico paese scandinavo ad aver adottato l’euro, e da allora le sue prestazioni economiche sono le peggiori della Scandinavia. Differente la posizione dell’Austria: insieme a Germania e Olanda fa parte dei paesi che più hanno tratto beneficio dall’ introduzione dell’euro. E infatti Germania e Olanda sono nel gruppo filoeuropeo, entrambe con oltre il 40% di opinioni positive. L’Austria invece no. Sarà vero –come si dice in giro- che sono antipatici gli austriaci.

Insomma, sentire di appartenere all’ Europa non è facile e non è un problema solo italiano. In un certo senso, sentirsi europei è perfino un po’ un ossimoro. La Comunità Europea nasce dal fallimento dei nazionalismi, dalla crisi e dal discredito del sentimento di appartenenza nazionale. L’Europa sorge col bisogno storico di superare il sentimento di appartenenza. Però, la Comunità Europea –come ogni organismo sociale e politico- richiede ai suoi cittadini un minimo di pedaggio sentimentale, un appartenere a essa. Un appartenere che si nutre della negazione dell’appartenere. Se non proprio un ossimoro, nemmeno un percorso lineare.
Intendiamoci, la vita è confusione e non sono certo le contraddizioni logiche che impediscono alle organizzazioni umane di vivere e svilupparsi. Le contraddizioni però gettano sabbia negli ingranaggi e rallentano la corsa. Fatto sta che l’identità della Comunità Europea cresce indecisa nella sua doppia natura di organismo sovranazionale che non chiede ai suoi associati alcun particolare sentimento di appartenenza e di soggetto politico forte e ambizioso che chiede ai suoi cittadini uno sforzo d’identificazione e appartenenza.

Lasciamo ad altri il compito di trovare la difficile quadratura di questo cerchio e cerchiamo di capire perché questo sentimento di appartenenza è così importante per l’animo umano. Cosa cercano gli individui nell’appartenere? Perché non basta un contratto sociale, un calcolo di convenienza comunitaria? L’appartenere a un gruppo, a una cultura, ancor peggio a un popolo, sono quelle vecchie cose di pessimo gusto giustamente disconosciute dal nostro tempo. Troppi massacri del secolo scorso sono avvenuti in nome dei nazionalismi. Nella sua forma estrema –non c’è nemmeno bisogno di dire quale: il nazismo- il bisogno di appartenenza si è mostrato nella forma più bestiale e distruttiva.

Una lunga penitenza è giusta e meritata. Tuttavia i bisogni si ripresentano in forma camuffata quando sono negati. Roy F. Baumeister è stato colui che ha dedicato gli sforzi scientifici di una vita a studiare l’appartenenza come bisogno universale, funzione dotata di aspetti affettivi da non disprezzare (Baumeister, Leary, 1995). Il bisogno di appartenenza è componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Noi moderni non nutriamo pregiudizi contro la socializzazione. Anzi, la favoriamo.

Socializzazione tuttavia significa non solo apertura, ma anche ricerca di somiglianze, di conferme, di similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale. Le persone cercano nel contatto non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi. Brewer (1991) ha dimostrato che il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise. Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro apparizioni.

Nel processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali, la vita sociale è andata incontro a un doppio processo di diminuzione e al tempo stesso d’intensificazione del senso di appartenenza. Accanto allo stile di vita individualistico e secolarizzato cresce anche il grado di coinvolgimento in forme di associazione neo-identitarie. Alla realizzazione di sé nel lavoro e all’evasione edonistica si unisce il bisogno di perseguire obiettivi nei quali l’individuo si senta risolto in identità più collettive e comunitarie, sia pure nei limiti di una mentalità individualistica.

L’Europa, come grande narrazione di tipo culturale e identitario, potrebbe rispondere a questo bisogno. E potrebbe farlo accogliendo in sé tutte queste contraddizioni, queste richieste un po’ caotiche di soddisfare contemporaneamente il bisogno di conferme identitarie e di trascesa dell’angustia della cultura in cui si è nati. Tuttavia, questa acrobazia l’Europa la chiede non solo a noi europei, ma anche a chi essa accoglie, come sta accadendo in questi giorni. Per Mark Sedgwick (2011) questo ennesimo ossimoro identitario dell’Europa, accogliere il diverso per renderlo uguale, genera non pochi problemi. In passato ci si è illusi che il processo di secolarizzazione potesse, per virtù sua propria, eliminare i conflitti religiosi e culturali riducendoli a problemi economici, risolvibili sull’arena del mercato senza utilizzare la violenza se non quella sublimata della concorrenza economica.

Tirando le somme, la speranza è che questo accompagnarsi reciproco di secolarizzazione e rinnovato bisogno di appartenenza possa generare una felice dialettica tra libertà liberale e conservatorismo comunitario. L’Europa vivrà se riuscirà a elaborare una nuova sintesi.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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