expand_lessAPRI WIDGET

Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Novembre 2025

L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo

Di Giovanni Maria Ruggiero, Sara Palmieri, Giovanni Mansueto

Pubblicato il 19 Nov. 2025

L’Orizzonte della Psicoterapia: Cronaca dal 4° Congresso di Terza Generazione

Milano, CityLife Anteo, 16-17 ottobre 2025 – Il 4° Congresso Italiano di Psicoterapie Cognitivo Comportamentali di Terza Generazione ha trasformato la sala Anteo di CityLife in un laboratorio di innovazione clinica, dove metacognizione, mindfulness, acceptance e compassion hanno dialogato con intelligenza artificiale, neuroscienze e psichedelici.

9 simposi, 6 workshop e 3 plenarie in due giorni intensi che hanno confermato la vitalità della comunità italiana di terza generazione: gruppi di ricerca attivi, servizi clinici che producono dati, formatori impegnati. Un ecosistema scientifico-professionale maturo.

Il sottotitolo – “Teorie Processi Procedure” – sintetizza lo spirito della terza generazione: teoria solida, processi di cambiamento identificati empiricamente, procedure evidence-based. Ma l’orizzonte rimane sempre oltre. L’integrazione con l’intelligenza artificiale pone interrogativi etici, la terapia psichedelico-assistita richiede protocolli specialistici, le neuroscienze rischiano riduzionismi biologistici.

L’intelligenza artificiale che ci cambia il cuore (e la mente)

Paul Atkins ha aperto il congresso con una plenaria dal titolo provocatorio: “Prosocial AI: How AI is Reshaping Our Hearts and Minds”. Nessuna celebrazione tecnologica né catastrofismo apocalittico. Ha fatto qualcosa di più difficile: ha aperto una conversazione scientificamente fondata sugli impatti psicologici profondi dell’intelligenza artificiale sul comportamento umano e sulla salute mentale.

La triade dei bisogni psicologici sotto assedio

Atkins ha costruito il ragionamento sui tre bisogni psicologici fondamentali della Self-Determination Theory: competenza, appartenenza, autonomia. L’intelligenza artificiale, nella sua analisi, non minaccia semplicemente questi bisogni – li trasforma in modo subdolo e potenzialmente pericoloso.

  • La competenza illusoria: il primo colpo arriva dritto all’apprendimento. L’intelligenza artificiale può creare illusioni di competenza senza reale sviluppo di abilità. Atkins ha citato uno studio recente illuminante: gli utenti che utilizzavano l’intelligenza artificiale per scrivere comprendevano significativamente meno i propri testi rispetto a chi scriveva autonomamente. La previsione? Facilità a breve termine, erosione della comprensione a lungo termine. Il prezzo nascosto della delega cognitiva. È la sindrome del “GPS mentale”: arriviamo a destinazione, ma non impariamo mai la strada. Traduciamo senza conoscere la lingua. Scriviamo senza padroneggiare la retorica. L’intelligenza artificiale diventa protesi cognitiva permanente, non strumento temporaneo di potenziamento.
  • L’appartenenza sintetica: ancora più inquietante il secondo punto: le relazioni con l’intelligenza artificiale mancano dell’attrito necessario per lo sviluppo di vere competenze sociali. L’algoritmo non ci contraddice, non ci delude, non richiede negoziazione o compromesso. Offre una forma di compagnia perfettamente adattiva, senza il rischio – e quindi senza la crescita – del confronto autentico.
  • Atkins ha riconosciuto i benefici potenziali per alcune popolazioni specifiche (persone con bisogni speciali, ad esempio), ma ha sollevato l’allarme sulla dipendenza emotiva. L’intelligenza artificiale è più attraente per individui soli o ansiosi – precisamente coloro che più avrebbero bisogno di sviluppare competenze relazionali reali. Il rischio? Un circolo vizioso che peggiora l’isolamento invece di alleviarlo.
  • L’autonomia erosa: il terzo pilastro vacilla sotto il peso della “deriva delle preferenze” (preference drift). L’intelligenza artificiale non si limita a rispondere alle nostre scelte – le modella attivamente nel tempo per massimizzare il nostro coinvolgimento. I cicli di feedback creano una spirale in cui perdiamo progressivamente il senso di controllo e di agentività autentica. Le nostre decisioni diventano sempre più predittive, sempre meno libere.

L’intelligenza artificiale come anti-flessibilità psicologica

Il contributo più originale di Atkins è stata la rilettura dell’impatto dell’intelligenza artificiale attraverso la lente della flessibilità psicologica – il costrutto centrale della terapia ACT.

  • Accettazione vs evitamento: lintelligenza artificiale viene troppo spesso utilizzata per evitare emozioni difficili piuttosto che elaborarle. Un clic, un prompt, e la difficoltà viene delegata. Ma l’evitamento esperienziale resta evitamento, anche quando viene mediato da un algoritmo sofisticato.
  • Defusione vs fusione cognitiva: Atkins ha introdotto un’immagine memorabile: l’intelligenza artificiale come “motore di fusione”. I pensieri generati dall’algoritmo rischiano di essere sovra-identificati con il nostro sé autentico. Il “gemello digitale” – quella versione di noi costruita dai nostri dati – può diventare più reale del sé contestuale, generando una forma inedita di rigidità identitaria.
  • Momento presente vs disconnessione: i dispositivi IA possono disconnetterci dal contesto qui-e-ora. La notifica che interrompe, il prompt che distrae, l’algoritmo che media ogni esperienza. La presenza diventa impossibile quando siamo costantemente altrove.
  • Sé come contesto vs sovra-identificazione digitale: il rischio finale: perdere il senso del sé come prospettiva fluida, sostituendolo con una versione cristallizzata e algoritmica di noi stessi. Chi siamo quando siamo i nostri dati?

L’urgenza clinica

La conclusione di Atkins è stata un appello diretto ai clinici presenti: dobbiamo diventare consapevoli di questi impatti e aiutare i clienti a utilizzare l’intelligenza artificiale in modo flessibile, senza che questo comprometta il loro impegno nel mondo reale. Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di sviluppare una literacy critica – comprendere non solo come usare l’intelligenza artificiale, ma come non farsi usare da essa.

La discussione seguita alla plenaria è stata vivace. Qualcuno ha obiettato che questi rischi esistevano già con altre tecnologie (televisione, social media). Atkins ha risposto che la differenza qualitativa sta nella personalizzazione adattiva: l’intelligenza artificiale impara da noi, ci modella, ci riflette in modi che nessun medium precedente ha mai fatto.

Il tema è stato ripreso nel secondo giorno da Buattini e colleghi, che nel simposio sulle innovazioni digitali hanno presentato evidenze preliminari sull’integrazione dell’intelligenza artificiale nella pratica clinica contemporanea. Promesse, paradossi, dati ancora acerbi ma già significativi. Non si tratta solo di adottare nuovi strumenti, ma di comprendere come questi strumenti ci cambiano – come terapeuti e come esseri umani.

Kelly Wilson e il crogiolo delle domande: quando il Sé diventa verbo

Se Paul Atkins ci ha mostrato i rischi dell’identità digitale, Kelly Wilson ci ha riportato all’essenza più profonda della questione identitaria nella terapia ACT. La sua plenaria – “Focus on Self and Identity: An Acceptance and Commitment Therapy Perspective” – è stata un viaggio filosofico, clinico e profondamente personale nel cuore della costruzione del Sé.

La storia che trasforma la teoria

Wilson ha fatto qualcosa di raro e coraggioso: ha condiviso la propria storia di trasformazione. Dalla dipendenza e dall’ospedalizzazione al recupero, agli studi accademici, fino a diventare uno dei fondatori dell’ACT. Non come esibizione autobiografica, ma come dimostrazione incarnata del concetto che stava per esplorare: il Sé come processo, non come entità fissa.

I punti di svolta della sua trasformazione sono stati: il lavoro con persone con disabilità intellettiva che gli ha dato uno scopo; il mentoring accademico che ha costruito ponti tra comportamentismo e fenomenologia; l’apprendimento a leggere le proprie risposte e comportamenti momento per momento.

Non si diventa “una persona diversa”. Si apprende un repertorio più ampio di modi di essere, si allarga lo spazio delle possibilità. Il Sé come verbo, non come sostantivo.

Le radici comportamentali del Sé come contesto

Wilson ha radicato la sua analisi negli scritti di B.F. Skinner del 1945 sugli eventi privati e sulla conoscenza di sé socialmente mediata. Una prospettiva spesso fraintesa: il comportamentismo non nega l’esperienza soggettiva, la spiega come repertorio plasmato dalle interazioni sociali.

Fin dall’infanzia, siamo immersi in quello che Wilson chiama il “crogiolo di domande” (*crucible of questions*) – quell’array persistente, ricco e complesso di domande che solo noi possiamo rispondere dalla prospettiva in prima persona. “Hai fame?” “Cosa senti?” “Ti fa male?” “Di cosa hai paura?”

Questo ambiente interrogativo persistente plasma la nostra capacità di parlare delle nostre esperienze interne, di assumere la prospettiva degli altri, di discriminare funzionalmente le nostre risposte. Il Sé non è dato – è costruito attraverso questo processo sociale di interrogazione e risposta.

Il Sé come repertorio emergente

L’insight centrale è radicale nella sua semplicità: il Sé è un repertorio di risposte che emerge dall’interazione con l’ambiente sociale, in particolare dall’ambiente di domande. Non è un’entità nascosta dentro di noi che deve essere “scoperta”. È qualcosa che facciamo, che performiamo, che sviluppiamo attraverso il vivere.

La ricchezza, l’ampiezza e la persistenza delle domande che incontriamo impattano direttamente sulla flessibilità e ricchezza del nostro senso di identità. Un ambiente interrogativo povero produce un Sé povero. Un ambiente interrogativo ricco e vario produce possibilità più ampie di essere.

Le implicazioni cliniche: curiosità indivisa e espansione del mondo

Wilson ha portato questi concetti direttamente nella stanza della terapia. Il rischio per i clinici? Restringere il concetto di sé dei clienti concentrandosi esclusivamente sui problemi. “Parlami della tua ansia.” “Quando ti senti depresso?” “Cosa ti spaventa?”

Domande necessarie, certo. Ma se sono le uniche domande che facciamo, contribuiamo a costruire un’identità organizzata attorno alla patologia. Il cliente diventa “una persona ansiosa”, “una persona depressa” – un sostantivo problematico invece di un verbo in espansione.

La proposta di Wilson è l’esercizio di quella che chiama “curiosità indivisa” (*undivided curiosity*) – un interesse genuino per l’intera gamma di esperienze, valori, interessi, possibilità del cliente. Ampliare l’ambiente di domande significa aiutare i clienti a abitare un mondo più ricco, con più modi di essere e comportarsi.

Le esperienze trasformative

La terapia, nella visione di Wilson, non mira solo a ridurre i sintomi (anche se può farlo). Mira a espandere i mondi dei clienti, a esporlo a una gamma più ampia di domande. Questo può significare incoraggiare l’esplorazione di nuovi contesti, nuove relazioni, nuove attività – permettere al mondo di porre una serie più ampia di domande alla persona.

La crescita personale implica il coraggio di entrare in nuovi ambienti che sfidano ed espandono il proprio senso di identità. Ogni nuovo contesto è un nuovo crogiolo di domande. Ogni nuova relazione è un nuovo specchio che ci riflette in modi che non avevamo anticipato.

Il dialogo con la flessibilità psicologica

Il workshop di Miselli – “I processi della flessibilità in vivo: leggere nel momento presente le interazioni attraverso l’esagono ACT” – ha tradotto queste idee in pratica clinica concreta, mostrando come l’esagono della flessibilità psicologica possa diventare una mappa per orientarsi nella complessità del qui e ora terapeutico. Ogni vertice dell’esagono è un invito a una domanda diversa, a un modo diverso di essere presente.

Mentre Deledda, nel suo workshop “L’ACT per ritrovare una direzione nel mare dell’incertezza”, ha offerto strumenti concreti per aiutare i pazienti a navigare in tempi di crisi identitaria e valoriale. Quando non sappiamo più chi siamo, possiamo sempre chiederci: quali domande sono ancora disposto a farmi? Quali nuovi ambienti sono disposto ad esplorare?

Un ponte tra Atkins e Wilson

È impossibile non notare la risonanza tra le due plenarie. Atkins ci avverte: l’intelligenza artificiale rischia di creare “gemelli digitali” che cristallizzano l’identità, ambienti di domande artificiali che ci riflettono in modi prevedibili e rassicuranti ma sempre più angusti.

Wilson ci ricorda: l’identità è sempre stata socialmente costruita, mediata da domande poste dall’ambiente. La sfida non è nuova. Ciò che è nuovo è la potenza e l’adattività degli ambienti digitali – così potenti che rischiano di diventare l’unico crogiolo in cui plasmiamo il nostro Sé.

Il Sé nel dialogo tra neuroscienze e clinica

Il simposio di Maffei ha orchestrato un dialogo tra prospettive neuropsicodinamiche (Scalabrini), traiettorie evolutive della psicopatologia (Cavicchioli) e sincronia intersoggettiva (Lucarini Angeletti). Il Sé come processo dinamico che si riorganizza nella relazione terapeutica.

Lynch, psichedelici e lutto

Lynch ha presentato la Radically Open DBT per disturbi da overcontrol – sofferenza nell’iper-controllo, rigidità perfezionistica, isolamento. Un approccio che insegna l’apertura radicale.

Il simposio di Zucchi ha esplorato la terapia psichedelico-assistita: quando l’esketamina viene integrata in percorsi di terza generazione. Manzotti su sogni e allucinazioni (MOI), Prevedini su processi ACT e stati non ordinari di coscienza, Damiani su neuroplasticità, Schiena sul gruppo post-esperienza psichedelica. Tono scientifico, prudente, esplorativo.

Maffei ha condotto un workshop sulla dialettica in psicoterapia: il movimento tra opposti come pratica clinica quotidiana.

Il simposio di Moderato sul lutto è stato particolarmente toccante: Moderato e Di Caro sul dolore della perdita, Zucchi sulla morte attraverso l’ACT, Napolitano sul lutto come processo trasformativo.

InTherapy e casi clinici

Il simposio di Piron ha mostrato flessibilità nel rigore: casi di depressione, distimia, funzionamenti evitanti con formulazione LIBET come bussola. Votadoro, Poli e Cau hanno dimostrato la teoria come strumento vivo: ogni paziente una sfida unica

Altri contributi significativi

  • Età evolutiva: il simposio di Pergolizzi ha mostrato che la terza generazione si applica anche ai giovani: Campanini su PANS affrontato con ACT, Rubbino su self-compassion nella Schema Therapy con bambini, Scaini sulle cognizioni di rabbia negli adolescenti, Maffei sulla DBT-A.
  • Metacognizione: Caselli ha presentato la Terapia Metacognitiva per il DOC: sfidare le credenze metacognitive anziché i contenuti ossessivi. Nel simposio digitale ha mostrato l’efficacia CBT in disturbi emozionali con e senza disturbi di personalità.
  • Linguaggi: Lo Savio ha esplorato potere e pericolo del linguaggio: la Matrice ACT dalla terapia alla supervisione, “Sleepers” sul vuoto identitario, viaggio nei valori attraverso musica, dialogo interno come autoconsapevolezza.
  • Approcci consolidati: Cheli sul Protocollo Unificato Transdiagnostico. Sassaroli e Ruggiero sulla formulazione condivisa: costruire mappe scientifiche ma comprensibili.
  • Interventi multilivello: Maffini ha coordinato un simposio su cambiamenti sistemici: EFT per regolazione somatica (Bassanini), nicchie biologiche e terapeutiche (Maffini), prospettiva FAP sul trauma (Manduchi).

Le Core Clinical Skills della Terza Onda

Ruggiero e Presti, discussi da Anchisi, hanno articolato cinque questioni ponendole a Sassaroli, Caselli, Oppo, Zucchi, Dell’Orco e Schweiger: quali competenze definiscono lo psicoterapeuta nell’era della terza onda?

  • Prima questione: evoluzione della competenza dagli approcci disorder-specific ai modelli transdiagnostici. I protocolli offrono struttura, ma la realtà clinica richiede flessibilità.
  • Seconda questione: come conciliare processi comuni con specificità di Schema Therapy, DBT, ACT, MCT, FAP? Le risposte variegate hanno mostrato vitalità.
  • Terza questione: quali competenze per integrare strumenti digitali senza perdere contatto umano? Serve literacy digitale.
  • Quarta questione: come monitorare processi momento per momento?
  • Quinta questione: come si formano concretamente queste competenze?

È emerso un profilo a tre strati. Competenze CBT classiche restano essenziali: formulazione, analisi funzionale, psicoeducazione, esposizione, ristrutturazione. La terza onda le inquadra diversamente. Competenze processuali trasversali: flessibilità psicologica, consapevolezza metacognitiva, validazione, defusione. Competenze relazionali: curiosità genuina, compassione attiva, capacità di stare con il disagio, autenticità.

L’interazione col pubblico ha rivelato: la competenza più impegnativa è gestire complessità senza protocolli rigidi. Gli strumenti di monitoraggio mostrano varietà ma poca standardizzazione.

Anchisi ha posto domande scomode: come evitiamo etichette vuote? Come misuriamo competenze in supervisione? Dove sono gli standard minimi?

La sintesi: le core skills richiedono integrazione di rigore metodologico e flessibilità processuale, competenza tecnica e presenza umana. Equilibrio delicato che si apprende nel fare. La terza onda ha aggiunto responsabilità processuale, relazionale, riflessiva. Il carico è aumentato.

La tavola rotonda conclusiva

La tavola rotonda finale – Sassaroli, Maffei, Moderato, Corbellini, Bucci – ha posto domande scomode: “Si fa presto a dire un orizzonte. Tra dire e fare…” È facile parlare di integrazione, nuove frontiere, dialogo tra discipline. Ma nella pratica quotidiana? Nella formazione? La tavola rotonda ha avuto il merito di chiudere non con facili entusiasmi, ma con domande aperte, dubbi metodologici, inviti alla prudenza scientifica.

CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Ottobre 2025

L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo

cancel