Gravidanza e disturbi alimentari: impatti sullo sviluppo del bambino e sulla relazione madre-figlio
Il periodo della gravidanza rappresenta un momento particolarmente delicato per le donne con disturbi del comportamento alimentare (DCA) e i loro bambini. L’impatto di un disturbo alimentare materno può tradursi in difficoltà a livello cognitivo, psicologico, sociale, relazionale e alimentare nel nascituro. Il periodo perinatale rappresenta un momento cruciale per intervenire, poiché le prime interazioni madre-bambino possono influire sul benessere e sul futuro sviluppo del bambino e comportare il rischio di manifestazione di un disturbo alimentare.
Sebbene la gravidanza sia per molte donne un momento di gioia e liberazione dalle pressioni socioculturali di magrezza e bellezza, può risultare difficile per coloro che, invece, soffrono di un disturbo alimentare, dal momento che i cambiamenti fisici e l’aumento di peso possono generare ansia, insoddisfazione e ipercriticismo, trasformando la dolce attesa in un’esperienza ‘agrodolce’. Un disturbo alimentare può influire non solo sull’assetto psicofisico e identitario materno, ma anche sui primi scambi emotivi con il bambino, con conseguenze sulla stabilità e la qualità della relazione primaria (Zanetti & Tenconi, 2016). La letteratura in merito all’impatto che un disturbo alimentare materno può avere sui figli durante la prima infanzia è in espansione ed evidenzia come gli effetti sui bambini si possano riscontrare a livello cognitivo, psicologico, sociale, relazionale e alimentare nel corso dello sviluppo (Martini et al., 2020).
Le conseguenze di un disturbo alimentare perinatale materno sullo sviluppo del bambino
La letteratura sui disturbi alimentari perinatali mette in luce che, in compresenza della canonica sintomatologia tipica di questo quadro psicopatologico, possano presentarsi anche sintomi a carattere ansioso e/o depressivo nella madre e uno scarso attaccamento perinatale (Fogarty et al., 2018). Per quanto concerne la presenza di sintomi depressivi, è stato ipotizzato che possano essere una conseguenza delle preoccupazioni materne riguardo l’alimentazione, il peso e i cambiamenti corporei del periodo perinatale. Tale quadro psicologico potrebbe influenzare negativamente la qualità della relazione madre-bambino. Infatti, vi sono alcune evidenze che sottolineano come le madri depresse mostrino meno vicinanza, calore e disponibilità emotiva verso il bambino almeno durante tutto il primo anno di vita (Martini, Taborelli, Easter, Bye, Eisler, Schmidt & Micali, 2023).
Gli alti livelli di ansia e di depressione materna, a cui sono esposti fin dalla nascita i figli di donne con disturbi alimentari, possono impattare sui momenti di gioco, rendendo la madre potenzialmente meno coinvolta nell’interazione o meno responsiva e sensibile ai bisogni e ai segnali del figlio. Nella relazione diadica può occorrere un’inversione dei ruoli, per cui il bambino è chiamato a ricoprire la funzione accudente nei confronti della madre. Tendenzialmente, le madri con un disturbo alimentare sono più inclini a definire ‘difficile’ il temperamento del proprio figlio e a percepire in modo più intenso le emozioni negative, tra cui tristezza, irascibilità, tendenza al pianto e irrequietezza (Martini et al., 2020). Tale percezione del bambino potrebbe influenzare il proprio sentirsi ed essere madre e, di conseguenza, gli scambi relazionali, di accudimento e, come ultimo, lo sviluppo del bambino (Martini et al., 2023).
Come precedentemente esposto, un disturbo alimentare materno è un fattore di rischio per la qualità della relazione madre-bambino; tuttavia, la letteratura mostra come possano influire anche altri fattori come il temperamento e il genere del bambino e, infine, le difficoltà nell’alimentazione e nella nutrizione di quest’ultimo. In particolare, l’ambiente intrauterino delle madri affette dal disturbo alimentare sembra giocare un ruolo essenziale nel determinare le differenze nel temperamento individuale. Infatti, livelli elevati di ansia e cortisolo in gravidanza possono predire un’aumentata risposta allo stress, indotta da una maggior presenza dell’ormone nel bambino che, quindi, spiegherebbe le complicanze successive relative allo sviluppo cognitivo e socio-emotivo del piccolo. Come possibili fattori che possono facilitare lo sviluppo di un temperamento infantile ‘difficile’ altri autori suggeriscono, invece, le eventuali complicanze al parto oppure l’immaturità neonatale (Martini et al., 2023). Nonostante sembri che il temperamento sia una tendenza biologica insita in ogni bambino, anche il contesto genetico, ambientale e sociale nel quale rientrano aspetti comuni del profilo dei disturbi alimentari, come la spinta sociale al perfezionismo e al raggiungimento del successo in ambito educativo, sembrano ricoprire un ruolo importante nel determinare un temperamento difficile (Martini et al., 2020).
Nello studio di Martini e colleghi è stata riscontrata una correlazione positiva tra il disturbo alimentare in gravidanza, la presenza di ansia e alti livelli di affettività negativa della madre e una minore estroversione nei bambini tra il primo e il secondo anno di vita. Una possibile motivazione per spiegare questa relazione riguarda il fatto che l’apprensione verso il cibo, il peso e la forma corporea ricoprono un’ampia porzione della giornata della madre, tanto da inficiare la sua disponibilità e responsività. Questo processo favorirebbe l’espressione di paura, frustrazione e tristezza del bambino in risposta all’atteggiamento materno (Martini et al., 2023).
Quindi, le prime interazioni e i primi contatti fisici tra neonato e caregiver possano rappresentare la base del funzionamento psicoemotivo e relazionale individuale, il quale, quando patologico, può condurre allo sviluppo di un disturbo alimentare. Una figura di attaccamento intrusiva e controllante utilizza modalità di contatto differenti che possono invadere lo spazio personale del bambino, creare confusione nel codificare i segnali di vicinanza e lontananza e compromettere la capacità dell’infante di differenziare il sé dagli altri. Quando i genitori non permettono ai figli di essere sé stessi, di esprimere e costruire il proprio sé e il proprio potenziale, si può creare una ferita profonda. Questo dolore si traduce in un conflitto tra il desiderio sia di mantenere una coerenza e una continuità del sé, sia una vicinanza e una relazione con il caregiver, il che porta a esperire inadeguatezza nelle interazioni e rinunciare a una parte autentica di sé stessi per salvaguardare un senso di sicurezza. Quando appaiono frequenti le assenze di sintonizzazione emotiva nei primi tre anni di vita del bambino, si può assistere a una diminuzione nello sviluppo di funzioni di regolazione emotiva. Lo stile ansioso-ambivalente della donna con disturbo alimentare può determinare una ridotta capacità del bambino di rispondere al proprio senso di fame o di sazietà, per cui egli tende a nutrirsi rispondendo alle richieste pressanti della madre in cambio di approvazione e conforto, che utilizza come mezzi per contrastare la paura dell’abbandono e l’ambivalenza della propria figura di attaccamento (Pellegrini et al., 2021).
La relazione con il bambino viene regolata e instaurata anche grazie all’alimentazione (Watson et al., 2014); infatti, il peso del neonato alla nascita dipende dall’alimentazione della madre, dal peso precedente la gravidanza e dalla quantità di peso acquisita durante la gestazione. Alla luce di questi fatti, alcuni autori hanno indicato come un aumento eccessivo di peso della madre durante la gravidanza rispetto alle raccomandazioni mediche accresce il rischio per il neonato di pesare più di 4 chilogrammi al momento della nascita (Santangeli, Sattar & Huda, 2015).
I cluster dei disturbi alimentari e la relazione madre-bambino
La letteratura evidenzia che le madri che soffrono di anoressia nervosa presentano un attaccamento nei confronti del bambino che tende ad essere di tipo evitante, poiché determina ritiro e diffidenza. I figli di madri con anoressia, che subiscono una deprivazione alimentare, presentano una severa riduzione del peso e dell’altezza rispetto alle normali misure per la specifica età. Invece, in caso di bulimia nervosa prevale il tipo ansioso che genera insicurezza in ambito relazionale e timore dell’abbandono (Behar & Arancibia, 2014).
Infine, si stima che i bambini nati da madri obese abbiano più probabilità di sviluppare questo disturbo alimentare. L’obesità materna si è vista essere associata non solamente all’obesità infantile, ma anche a bassi punteggi nel quoziente intellettivo del bambino. Tuttavia, rilevare accuratamente le abilità cognitive risulta complicato a causa della molteplicità di fattori influenti come il contesto familiare, le caratteristiche materne e infantili e un ambiente intrauterino sfavorevole caratterizzato da iperglicemia. Inoltre, la macrosomia è nota per essere associata al diabete in gravidanza, e dato che l’obesità e la gravidanza conferiscono uno stato di resistenza all’insulina nella madre, non sorprende che le donne obese abbiano una probabilità quattro volte maggiore di sviluppare diabete gestazionale. In particolare, è stato scoperto che la macrosomia fetale aumenta linearmente con l’aumento dei livelli di glucosio materno. Nonostante le evidenze riportate, si necessitano ulteriori approfondimenti rispetto al fattore riguardante l’ambiente intrauterino. Una possibile spiegazione enfatizza il fatto che i figli di madri obese, nutriti con alimenti ad alto contenuto di grassi, presentano nel cervello alti livelli di molecole infiammatorie e cambiamenti neuronali a livello dell’ippocampo, quali una diminuzione nel numero e nella lunghezza dei dendriti (Santangeli, Sattar & Huda, 2015).
L’importanza dell’intervento precoce
Per una madre con un disturbo alimentare, la gravidanza e il postpartum possono essere fonte di forte vulnerabilità, dal momento che possono richiedere un intervento volto a implementare alcune strategie per la cura e il miglioramento dei comportamenti disfunzionali e per la gestione degli aspetti connessi all’accudimento e alla genitorialità, affinché la madre possa mostrare comportamenti protettivi e salutari nei confronti del bambino (Fogarty et al., 2018).
Il disturbo alimentare dei genitori può avere un impatto anche sullo sviluppo delle pratiche alimentari dei figli e sulle interazioni familiari intorno alla tematica del cibo. Per questo motivo, nello studio di Sadeh-Sharvit e colleghi (2020) gli autori hanno elaborato strumenti di intervento per la coppia e la famiglia, tra cui il ‘Parent-Based Prevention’ (PBP), in riferimento ai disturbi alimentari. Si tratta di un intervento focalizzato sul migliorare le capacità genitoriali e la comunicazione di coppia, con l’obiettivo di diminuire i potenziali rischi a cui il bambino può incorrere. Lo strumento si estende anche al bambino e ai membri del nucleo familiare più esteso, e a sua volta ai conseguenti effetti sulla coppia e sul ruolo genitoriale. Complessivamente, il PBP permette di ottenere una visione genitoriale positiva del bambino, e riduce i sintomi materni restrittivi, controllanti e pressanti riguardo le pratiche alimentari del figlio (Sadeh-Sharvit et al., 2020).
In conclusione, il periodo della gravidanza rappresenta un momento delicato che può, da una parte, elicitare comportamenti disfunzionali a livello alimentare e, dall’altra, indurre al cambiamento e alla cura del disturbo a causa della prevalente preoccupazione verso il benessere del bambino (Sebastiani et al., 2020). Il periodo perinatale è stato spesso identificato come un momento di grande rischio per le donne con disturbi alimentari e i loro bambini, e la letteratura evidenzia come gli effetti sui bambini si possano riscontrare a livello cognitivo, psicologico, relazionale, sociale e alimentare. Pertanto, è importante che tali quadri sintomatologici vengano intercettati e trattati quanto prima, possibilmente già dalla gravidanza, per il benessere psicologico della donna e del bambino, ma anche del contesto relazionale di coppia e familiare.