Il disturbo dissociativo dell’identità tra realtà e stereotipi mediatici
Il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID) è uno dei disturbi mentali più affascinanti e fraintesi. La sua rappresentazione nei media è stata popolare sin dagli anni ’80, quando film come “Psycho” di Alfred Hitchcock e, più tardi, “Fight Club” di David Fincher hanno introdotto al grande pubblico l’idea della dissociazione come un fenomeno psicotico. Nel cinema e nelle serie TV, i protagonisti con disturbo dissociativo dell’identità sono spesso raffigurati come individui pericolosi, con identità che cambiano bruscamente e senza alcun controllo cosciente. Questo stereotipo è diventato un trope comune, una sorta di cliché, con personaggi che non solo sviluppano una personalità completamente diversa da quella originale, ma diventano anche spietati, violenti e imprevedibili.
Un esempio emblematico di questa distorsione si trova nel film “Split” di M. Night Shyamalan (2016), dove un uomo affetto da disturbo dissociativo dell’identità assume più di 20 personalità, alcune delle quali particolarmente aggressive. Sebbene il film sia stato apprezzato da molti per la sua intensità, è stato anche ampiamente criticato per aver rappresentato il disturbo dissociativo dell’identità in modo irrealistico, perpetuando il mito che le persone con disturbi dissociativi siano pericolose.
Ma quanto c’è di vero in queste rappresentazioni? E, soprattutto, cosa vive davvero una persona con disturbo dissociativo dell’identità?
Dietro la spettacolarizzazione della finzione, c’è una realtà delicata e complessa, fatta di sfumature e di un costante lavoro per riconquistare un senso d’identità e benessere.
La maggior parte delle persone con disturbo dissociativo dell’identità non è violenta, e le personalità dissociate non sono sempre così drammatiche o estreme come quelle presentate nel film (Webermann e Brand, 2017).
La sensazionalizzazione del disturbo nei media non fa che aumentare lo stigma verso i pazienti, che spesso si sentono fraintesi e isolati, e contribuisce a ridurre la comprensione del disturbo a un “caso eccezionale”, invece di trattarlo come una condizione psicologica trattabile, non così rara e legata a esperienze traumatiche.
Il disturbo dissociativo dell’identità, infatti, non è semplicemente una “frammentazione” della mente, ma un disturbo complesso e radicato nei traumi infantili, legato alla difficoltà di sviluppare un senso unitario del sé in seguito a esperienze devastanti.
Trauma infantile e origini del disturbo dissociativo dell’identità
Il disturbo dissociativo dell’identità è oggi considerato un disturbo dello sviluppo post-traumatico. Gli studi mostrano che nei pazienti con disturbo dissociativo dell’identità si riscontrano tassi più elevati di abusi e traumi infantili rispetto a qualsiasi altro gruppo diagnostico (Putnam, 1997; Loewenstein, 2018).
A partire dagli anni ’80, la ricerca sui disturbi dissociativi (DD) ha portato a importanti progressi nello sviluppo di strumenti affidabili per valutare i sintomi dissociativi in tutte le fasce d’età, dai bambini agli adulti. Grazie a questi strumenti, è stato possibile identificare la presenza di disturbi dissociativi in contesti internazionali e interculturali, dimostrando che il fenomeno è diffuso in Paesi di ogni continente, inclusi Stati Uniti, Canada, Europa, Asia, Oceania e America Latina (Loewenstein, 2018).
La relazione fra trauma e dissociazione è emersa con chiarezza da numerosi studi, che hanno rilevato una forte correlazione tra punteggi elevati di dissociazione o diagnosi di disturbi dissociativi e l’esposizione a traumi gravi o cronici (Loewenstein et al., 2017). I traumi esaminati includono maltrattamenti e abbandono infantile, abusi sessuali e fisici, così come esperienze di guerra, come combattimenti, prigionia, genocidi e dislocamenti. Anche torture, stupri, incidenti, disastri naturali e procedure mediche dolorose ripetute sono stati associati allo sviluppo di sintomi dissociativi (Van der Hart, Nijenhuis, and Steele, 2006; Granqvist et al., 2017).
Un ruolo cruciale è svolto dal trauma precoce e cumulativo, soprattutto quando associato a una patologia dell’attaccamento nella prima infanzia. In particolare, l’attaccamento disorganizzato si è rivelato un predittore significativo di punteggi elevati di dissociazione in età adulta e di una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo dissociativo. Studi retrospettivi, prospettici e condotti su scala internazionale hanno confermato che la gravità e la cronicità del trauma sono fattori determinanti nell’insorgenza dei disturbi dissociativi (Sar, 2011; Loewenstein, 2018). Questi risultati sottolineano l’importanza di interventi precoci e mirati, capaci di mitigare l’impatto della dissociazione e di offrire un supporto efficace alle persone colpite da traumi complessi.
Bambini che vivono queste esperienze si trovano in una situazione di insicurezza e di pericolo costanti, che interrompe il processo naturale di formazione di una personalità coerente e stabile, portando alla nascita di parti separate, ognuna delle quali può avere un ruolo specifico e affrontare diverse situazioni traumatiche o emotivamente difficili.
Queste parti, lungi dall’essere “persone diverse”, costituiscono un unico complesso mentale. Il disturbo dissociativo dell’identità dunque non è un vetro rotto, ma un complesso puzzle psicologico non assemblato.
La teoria della dissociazione strutturare di Ellert Nijenhui
La teoria della dissociazione strutturale sviluppata da Ellert Nijenhuis, Onno van der Hart e Kathy Steele rimane fondamentale nella comprensione dei disturbi dissociativi (van der Hart et al., 2006). Questa teoria descrive la dissociazione come un meccanismo che separa la psiche in parti orientate alla vita quotidiana (Apparently Normal Parts, o ANP) e parti orientate al trauma (Emotional Parts, o EP), in condizioni in cui è impossibile integrare in una sintesi coerente esperienze emotive antitetiche. La mente, di fronte a traumi intensi, si scinde dunque in strutture distinte: le parti “apparentemente normali” permettono appunto di portare avanti i compiti della vita quotidiana, senza l’intrusione e l’interferenza di ricordi, pensieri e sensazioni legati alle esperienze traumatiche, conservate invece nelle parti orientate al trauma. La separazione è funzionale alla sopravvivenza nel contesto traumatico, ma, nel lungo periodo, questa frammentazione compromette la qualità della vita e il conflitto interno può risultare estenuante, traducendosi in un’identità discontinua e in difficoltà nel livello di consapevolezza delle proprie azioni. Questo è spesso accompagnato da alterazioni di memoria, emozioni, percezioni, comportamento e perfino del funzionamento motorio. Le parti orientate al trauma intrudono nella coscienza sotto forma di voci o pensieri intrusivi, un senso di estraneità verso il proprio corpo o le proprie azioni, episodi di depersonalizzazione o derealizzazione, e sintomi neurologici intermittenti. Lo stress naturalmente tende ad aggravare queste manifestazioni, rendendole più evidenti.
Negli ultimi anni, la ricerca ha approfondito il modello della dissociazione strutturale, fornendo dati e teorie innovative che ne confermano la validità. Studi recenti hanno evidenziato che la dissociazione non si limita a dividere l’identità in modo statico, ma è un processo dinamico e adattivo, che si riattiva o si riduce a seconda dei livelli di stress. Secondo ricerche di Holmes e Brown (2020), la dissociazione funziona come un sistema a “gradi di separazione”, che si intensifica in risposta a situazioni percepite come minacciose e si attenua in ambienti sicuri. Questo modello di flessibilità può contribuire a migliorare i trattamenti, rendendo i percorsi terapeutici più personalizzati e focalizzati sulle esigenze del paziente.
La teoria della dissociazione strutturale aiuta a comprendere come il disturbo dissociativo dell’identità si sviluppi in risposta a traumi gravi e ripetuti, spesso vissuti durante l’infanzia. Negli ultimi anni, la letteratura ha mostrato quanto sia diffuso questo fenomeno, con studi epidemiologici che stimano che circa il 1-3% della popolazione mondiale abbia un disturbo dissociativo clinicamente significativo (Sar, 2011). Circa il 9-10% dei pazienti psichiatrici presenta sintomi di disturbo dissociativo dell’identità, mentre disturbi dissociativi più lievi sono riscontrabili fino al 15-20% della popolazione che ha subito traumi significativi, come violenza domestica, abusi o eventi bellici (Sar, 2011).
La sottodiagnosi del disturbo dissociativo dell’identità
Dati recenti mostrano che il disturbo dissociativo dell’identità è spesso sottodiagnosticato: molte persone che convivono con sintomi dissociativi non ricevono una diagnosi accurata e finiscono per ricevere trattamenti generici per disturbi d’ansia, depressione o altri problemi psichiatrici. Studi riguardanti il Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS), uno degli strumenti diagnostici più completi, rivelano che in media una persona con disturbo dissociativo dell’identità impiega dai 7 ai 12 anni per ricevere una diagnosi corretta, con un impatto enorme sulla qualità della vita e sul decorso del disturbo (Loewenstein et al., 2017)
Questo rende tale disturbo non solo una questione clinica, ma anche una sfida di salute pubblica, poiché molti pazienti non ricevono diagnosi adeguate e, di conseguenza, soffrono per decenni senza una cura mirata. La mancanza di riconoscimento di questi disturbi non comporta solo costi umani, ma anche spese sanitarie elevate per ricoveri e trattamenti che potrebbero essere evitati con una diagnosi precoce e accurata.
Riconoscere il disturbo dissociativo dell’identità è invece essenziale per interrompere il ciclo di malessere che molti pazienti sperimentano per anni, spesso senza una diagnosi corretta. Troppi pazienti ricevono trattamenti che non riescono ad alleviare la loro sofferenza, e questo porta spesso a demoralizzazione, autolesionismo e tentativi di suicidio. In molti casi, la diagnosi corretta giunge solo dopo una lunga serie di ricoveri e terapie inefficaci, con etichette come “cronici” o “resistenti al trattamento” che creano ulteriore stigma.
Quali trattamenti per il disturbo dissociativo dell’identità?
Gli studi sui trattamenti specifici per il disturbo dissociativo dell’identità mostrano, tuttavia, che un percorso terapeutico mirato può ridurre sensibilmente i comportamenti suicidari, l’autolesionismo, le ospedalizzazioni e migliorare il benessere generale dei pazienti (Steele, Boon, van der Hart, 2017). I trattamenti includono spesso un approccio fasico, in cui si lavora inizialmente sulla stabilizzazione e sulla sicurezza del paziente, prima di affrontare in profondità i ricordi traumatici e i processi dissociativi (Fisher, 2017).
Negli ultimi anni, gli approcci terapeutici per il disturbo dissociativo dell’identità hanno integrato nuove tecniche, con un aumento dell’uso di strumenti basati sulla neurobiologia del trauma. Il modello di Bessel van der Kolk (2014), che evidenzia come il trauma sia “incorporato” anche a livello fisiologico, ha aperto la strada a terapie focalizzate sul corpo. Van der Kolk ha sostenuto che, poiché le esperienze traumatiche si radicano profondamente nel corpo e nel sistema nervoso, trattamenti come la terapia EMDR, la terapia sensomotoria e la mindfulness somatica possono essere fondamentali per ridurre i sintomi dissociativi.
Studi recenti hanno dimostrato che il lavoro terapeutico orientato alla neuroplasticità – come la ristrutturazione dei circuiti neuronali che si attivano durante le esperienze traumatiche – migliora l’integrazione delle parti dissociate (Frewen e Lanius, 2015). La scoperta di queste connessioni tra dissociazione e cambiamenti nella struttura cerebrale ha portato a nuovi protocolli di intervento, in cui l’attenzione non è solo sul passato traumatico, ma anche su un percorso di riabilitazione delle strutture cerebrali.
Ogni programma di formazione per professionisti della salute mentale dovrebbe includere risorse dedicate alla comprensione del trauma e della dissociazione, perché il riconoscimento del disturbo dissociativo dell’identità rappresenta una sfida che richiede conoscenze specifiche. Investire nella formazione e nella sensibilizzazione permetterà di identificare i pazienti con disturbo dissociativo dell’identità e altri disturbi dissociativi più tempestivamente, con trattamenti più efficaci e meno frammentati.
Comprendere il trauma e la resilienza umana diventa dunque un imperativo per la salute individuale e pubblica, e il disturbo dissociativo dell’identità rappresenta un capitolo complesso e importante di questa sfida.
I pazienti con disturbo dissociativo dell’identità non sono “persone multiple” in senso spettacolare, ma persone reali che vivono in una realtà frammentata a causa di esperienze traumatiche. Un’educazione accurata, un impegno alla diagnosi precoce e un’attenzione maggiore alla rappresentazione mediatica possono fare molto per migliorare la qualità della vita dei pazienti e la comprensione della dissociazione.
La strada verso un mondo più inclusivo, in cui il disturbo dissociativo dell’identità e altri disturbi dissociativi siano compresi senza stigma e curati con compassione e competenza, passa per una consapevolezza collettiva, fatta di educazione, ricerca e impegno a livello sanitario e sociale.