Il decorso del disturbo nei casi di psicosi è fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio psicotico.
Annalisa D’Errico – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre
Resta comunque ancora molta strada da fare. Anche se gli antipsicotici di seconda generazione riescono finalmente a colpire il cuore biologico della malattia, non potranno però mai trovare al paziente un lavoro o degli amici: nessuna molecola sarà mai così potente da donargli magicamente la capacità di sviluppare d’un colpo rapporti sociali normali. Questa è una prerogativa che spetterà sempre all’uomo: al medico, al familiare e, da oggi in poi, anche al malato stesso (L’Enciclopedia – Dizionario Medico, Roma, La biblioteca di Repubblica, 2004, pag. 1178)
Cosa s’intende con il termine psicosi ed esordio psicotico?
Il termine psicosi indica una vasta gamma di disturbi psichiatrici che si manifestano con severi sintomi di varia natura, in cui l’individuo sperimenta una distorsione o una perdita di contatto con la realtà, ossia un’incapacità di distinguere il proprio mondo interiore dalla realtà esterna. La psicosi può essere intesa come un cambiamento radicale che ha effetti sconvolgenti sul sé causando il deragliamento, l’interruzione o la paralisi della traiettoria di sviluppo della persona.
I disturbi psicotici hanno un’età di insorgenza compresa tra i 14 e i 35 anni, si manifestano con sintomi positivi (inizialmente dispercezioni, fino a franchi deliri ed allucinazioni) e negativi (ritiro sociale, apatia, rallentamento, appiattimento emotivo). In sintesi, comprendono disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, bizzarrie comportamentali, disturbi affettivi e marcato calo del funzionamento (APA, 2013). Inoltre, possono essere presenti altri sintomi quali deflessione dell’umore, ansia, disturbi del sonno, disturbi dell’attenzione, della concentrazione e della memoria che comportano spesso scarsa prestazione scolastica o lavorativa. I principali disturbi psicotici o forme di psicosi sono: Schizofrenia, Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo e Disturbo psicotico breve.
L’esordio psicotico (FEP – First Episode Psychosis) avviene in genere prima dei 30 anni, l’insorgenza in età adolescenziale, con esordio prima dei 18 anni, è stimata del 18% (Davi, 2014). Si presenta come un evento apparentemente improvviso ma in realtà è preceduto da fasi prodromiche (della durata media di cinque anni), durante le quali avvengono una serie di cambiamenti e anomalie psicologiche e comportamentali (Larson et al, 2010; Heiden& Hafner, 2000). L’esordio psicotico può comportare la riduzione dei movimenti verso l’autonomia dalla famiglia e inibire la formazione dell’identità e la padronanza di sé.
L’importanza della presa in carico precoce degli esordi psicotici
Come precedentemente sottolineato, diverse ricerche svolte durante gli anni ‘90, hanno mostrato come fosse possibile rintracciare nella storia di vita di pazienti psicotici una serie di segnali e sintomi predittivi dello sviluppo patologico, la cui presenza in ragazzi giovani determina uno Stato Mentale a Rischio (ARMS – At Risk Mental State) (McGorry& Singh, 1995; Yung et al, 1996). L’intervento precoce e tempestivo nei confronti di questi casi può avere effetti positivi sul decorso stesso della patologia, ritardando o prevenendo il primo episodio psicotico (Cozzi, 2017).
Diventa quindi fondamentale effettuare una corretta raccolta anamnestica volta a individuare i fattori di rischio che possono avere un ruolo nello sviluppo della psicosi. E’ stata riscontrata una frequente comorbidità dell’abuso di sostanze nei giovani, in particolare di sesso maschile, con recente esordio psicotico; si è ipotizzato che la tendenza ad usare droghe sia un tentativo di mitigare i sintomi psicotici negativi, la depressione o il disagio derivante dalle conseguenze del disturbo. Nonostante il sollievo soggettivo che può portare, l’abuso di sostanze ha spesso effetti deleteri sulla psicosi: peggiora la sintomatologia, aumenta le ricadute ed i conseguenti ricoveri ripetuti e incrementa la violenza e i suicidi (Smith e Hucker,1994). Il periodo in cui si manifestano i primi sintomi senza essere adeguatamente trattati è definito DUP (Duration of Untreated Psychosis), la sua durata è una variabile importante nella prognosi del disturbo, in particolare per quanto riguarda la remissione dei sintomi positivi (Norman, Lewis & Marshall, 2005).
Le ricerche ed evidenze scientifiche hanno portato dunque allo sviluppo di nuovi ed efficienti approcci e modelli di riconoscimento ed intervento, focalizzati sulle fasi prodromiche del disturbo, approcci che vengono definiti Interventi Precoci (EarlyIntervention). Si è assistito sempre più ad una visione ottimistica riguardo agli esiti nel trattamento delle psicosi. Le ragioni si possono riconoscere in due aspetti: nello sviluppo di farmaci antipsicotici di nuova generazione che hanno dimostrato una maggiore efficacia e minori effetti collaterali e nella consapevolezza che un intervento nelle fasi precoci della malattia potesse garantire una migliore qualità di vita al paziente ed ai suoi familiari e una prognosi maggiormente favorevole.
Un intervento precoce efficace dovrebbe essere (Malla e Norman, 2001) tempestivo, adattato a persone giovani che spesso vivono con le loro famiglie e che non hanno familiarità con i servizi e avere i seguenti obiettivi (Spencer, Birchwood, &McGovern, 2001): ridurre il tempo di DUP, accelerare il processo di guarigione attraverso efficaci interventi biopiscosociali, ridurre l’impatto negativo della psicosi sull’individuo e massimizzare il funzionamento sociale e lavorativo, prevenire le ricadute e la resistenza al trattamento farmacologico.
Situazione italiana: Programma 2000 e programma strategico GET UP
La letteratura internazionale e l’esperienza clinica hanno evidenziato come il decorso del disturbo, che presenta un’elevata variabilità in termini prognostici, sia fortemente condizionato dalla tempestività della presa in carico e dall’adeguatezza degli interventi integrati attuati nei primi due anni successivi all’esordio.
La prima e pionieristica esperienza organica di prevenzione secondaria delle psicosi nata in Italia è rappresentata dal “Programma 2000®”, programma di individuazione e intervento precoce all’esordio di patologie mentali che, dopo un iter burocratico e di definizione organizzativa e concettuale iniziato nel 1997 da un’idea di Angelo Cocchi e Anna Meneghelli, ha avviato l’attività sul campo nel 1999 come iniziativa sperimentale regionale, attuata dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Anche alla luce dei risultati ottenuti il Programma è stato reiterato a partire dal gennaio 2002, rendendo possibile un assetto più esteso e più articolato. Attualmente ha sede operativa presso il Centro Psicosociale di via Livigno 3 a Milano, DSM Psichiatria 2.
Il Programma 2000® nasce come una possibile risposta preventiva di fronte alle usuali abitudini terapeutiche prevalentemente riparative, ed ha come destinatari giovani al primo episodio psicotico, o comunque al primo contatto con il Servizio e con una durata della psicosi non trattata (DUP) inferiore a 2 anni, e giovani considerati, per una combinazione di fattori e di evidenti segnali, ad alto rischio di psicosi.
Nell’ambito del “Programma 2000®” sono stati condotti, in un quadro di stretti collegamenti e collaborazioni internazionali, alcuni filoni di ricerca strategici, oltre ad aver sviluppato nel tempo un preciso e personalizzato modello di cura e intervento nelle psicosi all’esordio riconosciuto e valorizzato in ambito nazionale e internazionale. Un esempio di come l’esperienza e la competenza maturate in questo campo dall’équipe clinica di Programma 2000® ha potuto coinvolgere la partecipazione di docenti, esercitatori e supervisori all’interno della grande ricerca nazionale denominata Programma Strategico GET UP (Genetics, Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis), finanziato dal ministero Della Salute nell’ambito della Ricerca sanitaria finalizzata nazionale e promosso dall’università di Verona che si fonda sull’attuazione precoce di specifici interventi farmacologici e psicosociali, inclusivi di una psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale per il paziente, di un intervento psicoeducativo con le famiglie e di un’organizzazione dell’assistenza secondo il modello del case management che coinvolga tutte le figure professionali del dipartimento. Consta di 4 progetti e si pone l’obiettivo di testare l’efficacia di interventi innovativi per soggetti all’esordio di psicosi e per le loro famiglie, attuato in 115 centri di salute mentale dislocati tra Veneto, Emilia Romagna, le provincie di Bolzano, Firenze e Milano. Gli operatori che hanno ricevuto la formazione agli interventi specifici hanno acquisito competenze organizzative e cliniche che hanno modificato le pratiche attuate nei servizi. Sono entrati inoltre a far parte del programma dai 400 agli 800 soggetti all’esordio psicotico, che sono stati valutati al baseline e con un follow-up a breve termine in cui è stato raccolto DNA e materiale biologico che, con alcuni dati clinici d’esordio, ha costituito una biobanca di notevole importanza per l’identificazione di marcatori evolutivi.
Riabilitazione e Recovery: dalla malattia alla persona
La Disabilità è da dove partiamo, la Recovery è la nostra destinazione e la Riabilitazione la strada che percorriamo (Liberman, 2008)
Oltre all’individuazione dei fattori potenzialmente predittivi della possibilità di un esordio psicotico, come abbiamo fin qui visto, è diventato fondamentale anche l’aspetto riabilitativo ed il recupero in giovani che hanno avuto almeno un esordio psicotico. La riabilitazione psichiatrica è quell’insieme di interventi mirati a migliorare il funzionamento di persone con disabilità psichiche, in modo di essere in grado di svolgere un ruolo con successo e soddisfazione nell’ambiente di vita scelto con il minor sostegno continuativo possibile (Anthony, Farkas, Cohen, Gagne, 2002).
Un altro termine che ha preso piede da qualche anno e sul quale ci si concentra è quello di recovery, dal verbo inglese to recover che significa riaversi, riprendersi, recuperarsi, indica il percorso o processo che si compie nel superamento della psicosi. Il termine non significa necessariamente guarigione clinica, ma enfatizza il viaggio compiuto da ciascuno nel costruirsi una vita al di là della malattia. A differenza della parola “guarire”, recovery implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di viaggio che non ha una vera e propria fine; non si tratta dunque di un esito coincidente al ritorno alla condizione precedente al problema, quanto più di un percorso volto alla attivazione di risorse che permettono al soggetto di vivere in maniera piena la sua vita (Coleman, 1999).
Condurre una vita produttiva e soddisfacente anche in presenza delle limitazioni imposte dalla malattia mentale. È lo sviluppo, personale e unico, di nuovi significati e propositi man mano che le persone evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale (Anthony, 1993)
Esistono diversi tipi di recovery (Anthony, 1993):
- Recovery clinico (criteri oggettivi e misurabili): consiste nella remissione prolungata dei sintomi che costituiscono la diagnosi, presenti ad un livello subclinico per frequenza ed intensità; riduzione delle ospedalizzazioni e delle recidive; aderenza terapeutica.
- Recovery funzionale/sociale (criteri oggettivi e misurabili): coinvolgimento a tempo pieno o parziale in un’attività che presuppone l’esercizio di un ruolo valido – come il lavoro o la scuola – che sia costruttiva e appropriata all’età. Una vita parzialmente o totalmente indipendente dalla supervisione da parte della famiglia o dei servizi, in modo che l’individuo sia responsabile per le esigenze quotidiane nella gestione del denaro, dei beni personali, dei famaci, degli appuntamenti nel fare la spesa e preparare da mangiare. Buoni rapporti con i familiari. Attività ricreative in luoghi e contesti normali in cui è richiesto il rispetto di regole. Relazioni soddisfacenti con i pari, caratterizzate dal curare in modo attivo le amicizie più strette e il mantenere una rete sociale di conoscenti.
- Recovery personale (criteri soggettivi e oggettivi in parte misurabili): consiste nella crescita personale e nella riappropriazione delle proprie esperienze di vita, una speranza realistica per un futuro migliore che deriva dal fronteggiare i sintomi e la disabilità in maniera attiva, recuperando un senso di sé positivo. Empowerment che deriva dal successo nel raggiungere i propri obiettivi, dalla partecipazione al trattamento e dal trovare per sé nuovi ruoli soddisfacenti e socialmente validi. Si focalizza sul processo attivo di costruzione di un’esperienza di vita significativa, così come definita dalle persone stesse.
Sebbene il termine recovery comprenda aspetti appartenenti a tutte e tre queste categorie, esso implica in primo luogo un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del potere e del controllo della propria vita al di là della remissione sintomatologica.
Dal punto di vista pratico è fondamentale nel recovery agire tempestivamente su più livelli:
- Biologico: assumere regolarmente la terapia, fare attività fisica all’aperto, controllare la propria dieta, evitare l’assunzione di alcool e droghe.
- Psicologico: instaurare un’alleanza e un dialogo continuo con un operatore del Centro di Salute Mentale (psichiatra, infermiere, psicologo, assistente sociale o tecnico della riabilitazione) poichè conosce questo disturbo e sa come aiutare nell’affrontare i pensieri e le difficoltà che accompagnano la psicosi.
- Sociale: riprendere gli studi, cercare un lavoro con l’aiuto dei tecnici della riabilitazione, riallacciare i rapporti con gli amici o risperimentarsi al più presto in nuove occasioni di incontro e svago. L’interruzione di alcuni di questi passaggi può rallentare la ripresa o favorire una ricaduta.
Secondo l’approccio del recovery, quindi, radicalmente diverso da quello proposto dalla medicina tradizionale occidentale, fenomeni inusuali, tra cui udire le voci, non vengono considerati come un sintomo di malattia o di perdita di contatto con la realtà, ma come esperienze significative e reali per chi le vive e quindi dotate di senso ed integrabili nella vita della persona (Casadio, 2014).
Nel mese di marzo 2012, l’amministrazione dei servizi per l’abuso di sostanze e la salute mentale (SAMHSA) ha annunciato una definizione aggiornata di “recupero” dai disturbi mentali. Definiscono la recovery come “un processo di cambiamento attraverso il quale gli individui migliorano la loro salute e benessere, vivono una vita autodiretta e si sforzano di raggiungere il loro pieno potenziale”. Sulla base della visione del recupero come diritto, la cura della salute mentale orientata al recovery è concettualizzata come una collaborazione tra utenti del servizio e fornitori che deve essere guidata dalla visione del tipo di vita che una persona vorrebbe condurre.
Servizi di salute mentale orientati al recovery
In passato, la diagnosi di una grave malattia mentale, come può essere la psicosi, era associata ad una vita di disabilità (Frese, Knight, & Saks, 2009). I trattamenti per la malattia mentale erano focalizzati principalmente sull’uso di farmaci per ridurre i sintomi, con disabilità a lungo termine sia attesa che accertata (Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, 2003). Gli utenti del servizio, i membri della famiglia ed i professionisti della salute mentale hanno sostenuto una visione più ampia di recupero che non si limitava al sollievo dai sintomi, ma che includeva un ripristino dei vari domini per i quali la maggior parte delle persone riteneva importante la propria salute mentale e il proprio benessere. Tali domini includevano sicurezza e alloggi a prezzi accessibili, occupazione significativa, sostegno tra pari/sociale/familiare, sviluppo personale e arricchimento e impegno con la comunità, attività e organizzazioni. Approcci precoci alla cura della salute mentale o non avevano riconosciuto l’importanza di questi domini del tutto, o non erano riusciti ad affrontarli efficacemente.
L’aumento delle evidenze scientifiche per l’implementazione di pratiche e sistemi orientati al recovery ha portato ad un maggior riconoscimento e consenso (Compagni et al., 2007). Tuttavia, è necessario identificare con maggiore chiarezza il contributo che i servizi di salute mentale possono dare in questo senso (Slade et al., 2011) e come queste pratiche possano essere integrate comportando un cambiamento all’interno dei sistemi di cura dei Paesi anziché rimanere realtà singole ed isolate che non si contaminano.
Il paradigma del recovery propone un riorientamento ed una trasformazione delle politiche di salute mentale, in grado di dialogare con il modello di psichiatria inaugurato in Italia con la legge 180 e allo stesso tempo in grado di promuovere una modalità di trattamento multidisciplinare, flessibile, personalizzata che fa affidamento ridotto sui farmaci e include la partecipazione dell’utente e della sua famiglia, enfatizzando il ruolo del contesto e riducendo pratiche coercitive e di ricovero ospedaliero. Lo scopo dei professionisti è quello di dotare la persona di risorse, informazioni, abilità, reti sociali e supporti per gestire la loro condizione e per aiutarli ad accedere alle risorse di cui ritengono di avere bisogno per vivere le loro vite. Ciò implica una relazione tra i professionisti e le persone che essi servono radicalmente diversa da quelle tradizionale in termini di potere e dipendenza (Casadio, 2016).
Questo significa che i servizi di salute mentale devono essere molto più interessati al benessere e alla salute complessiva della persona e devono fornire supporti per dare la possibilità alle persone di funzionare come cittadini nella loro comunità.
Ci sono diversi modi in cui il sistema di cure può supportare la ripresa di persone affette da disagio mentale e questo avviene promuovendo relazioni, benessere e offrendo trattamenti che migliorino le possibilità di inclusione sociale (Slade, 2009).
Gli obiettivi dei «servizi di salute mentale orientati al recovery» sono pertanto diversi dagli obiettivi dei «servizi tradizionali di trattamento e di cura». Passaggio: da uno staff che è sentito lontano, perchè considerato in una posizione di “esperto” che ha una “autorità”, a qualcuno che si comporta più come un “personal coach o trainer”, mettendo a disposizione le proprie abilità e conoscenze professionali, mentre nel contempo impara dagli utenti e conferisce loro un valore, che è esperto attraverso l’esperienza (Robert & Wolfson, 2004). Poichè gli individui con malattia mentale possono condurre vite relativamente normali e realizzate anche se sono vulnerabili alle ricadute e devono essere seguiti per un tempo indefinito, i servizi devono diventare, da un posto dove gli utenti ricevono assistenza e trattamento, a posti che li dotano di strumenti per gestire se stessi e per costruire le loro vite dove e come desiderano farlo. Tali servizi tendono ad andare oltre la tradizionale assistenza clinica per aiutare la persona con malattia mentale a reinserirsi nel tessuto sociale, incorporando nel concetto di guarigione gli esiti raggiunti nelle dimensioni della qualità di vita, del lavoro, dell’abitazione, dell’amicizia e della vita sociale (Appleby, 2007).
I principi dei servizi di salute mentale orientati al recovery dovrebbero essere:
- Unicità dell’individuo
- Scelte individuali e indipendenti
- Diritti e atteggiamento proattivo
- Dignità e rispetto
- Comunicazione e partnership con i Servizi
- Continua valutazione e misurazione della pratica clinica orientata alla recovery
(Herefordshire partnership NHS Foundation Trust «Recovery Principles in the UK)
Soprattutto nei paesi anglosassoni, negli ultimi 30 anni una serie di fattori concomitanti hanno determinato la nascita e lo sviluppo del “Recovery Movement” che si articola in diversi criteri tra cui: la deistituzionalizzazione e l’integrazione nella vita comunitaria, il desiderio degli utenti psichiatrici di avere maggior controllo sul proprio destino, il crescente movimento per i diritti umani, la disponibilità di psicofarmaci meglio tollerati.
In sintesi, nella pratica orientata al Recovery (Davidson et al., 2009) i criteri da considerare sono:
- Primarietà della partecipazione
- Favorire l’accesso e il coinvolgimento
- Garantire la continuità della cura
- Utilizzare una valutazione basata sui punti di forza
- Offrire una pianificazione individualizzata del percorso di Recovery
- Fungere da “guida per il Recovery”
- Conoscere e sviluppare l’inclusione comunitaria
- Identificare e affrontare le barriere al Recovery
Ogni servizio o trattamento o intervento o supporto deve essere valutato in questi termini: quanto aiuta il paziente a raggiungere i suoi obiettivi di guarigione?
È possibile misurare il recovery?
Grazie ad un maggior riconoscimento del concetto di recovery nel trattamento della malattia mentale, si è dato via alla progettazione di diversi strumenti per valutare sia il recovery personale che l’orientamento in questa direzione dei servizi sanitari. Infatti, la necessità di orientare i servizi di salute mentale verso il recupero personale richiede l’utilizzo di misure che consentano di valutare sia il processo di recupero individuale degli utenti sia quanto un particolare programma, agenzia o sistema nel suo insieme sia efficace nel promuovere tale recupero (White, 2006).
In letteratura si trovano diverse review che hanno cercato di fare una rassegna dei principali strumenti utilizzati attualmente. Al riguardo, nonostante l’esistenza di definizioni comunemente accettate, la variabilità relativa alla concettualizzazione di un processo tanto soggettivo, complesso e multidimensionale come il recupero personale ostacola la creazione e selezione di misure oggettive per la sua valutazione. Inoltre, c’è una grande variabilità per quanto riguarda le dimensioni utilizzate dagli attuali strumenti valutativi.
Uno strumento ad oggi utilizzato per la maggiore è il RAS (Recovery Assessment Scale) che misura il recovery personale. I fattori psicologici indagati sono:
- Fiducia in sé stessi e speranza
- Disponibilità a chiedere aiuto
- Orientamento ad obiettivi ed al successo
- Fiducia negli altri
- Non sentirsi dominati dai sintomi
Il RKI (Recovery Knowledge Inventory) (Bedregal et al. 2006) valuta le attitudini e le conoscenze dei professionisti della salute mentale riguardo al recovery. Le aree valutate sono:
- Ruoli e responsabilità nel Recovery
- Non linearità del processo di Recovery
- I ruoli della autodefinizione e dei pari nel Recovery
- Aspettative rispetto al Recovery
Possiamo concludere evidenziando come sia necessario specificare, unificare e chiarire il concetto ed il modello di recovery. Questo è l’unico modo per raggiungere il consenso sui domini che lo compongono; ciò consentirà a sua volta di selezionare gli strumenti più appropriati per valutare tale concetto. Nello stesso modo, se gli elementi che contribuiscono al processo di recovery sono compresi e specificati, sarà possibile scegliere gli strumenti che servono per valutare i servizi di salute mentale e, quindi, sarà possibile migliorare il processo e l’approccio attuato nei confronti della persona.