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Soddisfazione lavorativa e cinismo organizzativo

L’articolo descrive le conseguenze psicosociali delle difficoltà attuali negli ambienti di lavoro, i fattori che determinano la soddisfazione lavorativa e il concetto di cinismo organizzativo.

 

Breve excursus storico

Ai tempi di Taylor (1911), con l’avvento dell’industrializzazione e della catena di montaggio, si era portati a pensare che per il lavoratore la fonte predominante di soddisfazione lavorativa fosse la retribuzione monetaria. Ma fu già con Elton Mayo (1949) che si iniziarono a fare indagini sulle motivazioni sottostanti le soddisfazioni, scoprendo che c’erano anche motivazioni intrinseche per la soddisfazione di un lavoratore, come un buon ambiente lavorativo, buoni rapporti con i colleghi, riconoscimento personale per il proprio lavoro svolto.

Da queste prime indagini, si arriva ai più esaustivi lavori di Locke che ha studiato a fondo la soddisfazione lavorativa dandone questa definizione: [blockquote style=”1″]La soddisfazione lavorativa è un sentimento di piacevolezza che deriva dalla percezione che la propria attività lavorativa è in grado di soddisfare valori personali importanti connessi al lavoro. [/blockquote] Ed i fattori principali sottostanti la soddisfazione lavorativa sono i valori personali connessi al lavoro, l’importanza personale che questi valori assumono per il lavoratore, la percezione e la valutazione individuale del proprio ambiente e contenuto lavorativo, per quanto riguarda le aspettative e le attese che per il singolo assumono. Come afferma la teoria della discrepanza, la soddisfazione è definita in base al grado di discrepanza tra i risultati percepiti e ciò che la persona vuole o che si aspetta di ottenere.

 

Soddisfazione lavorativa e Corporate Social Responsibility

Il modello della Core Self-Evalutation del 1997 definisce quattro componenti che determinano le disposizioni personali nei confronti della soddisfazione lavorativa: autostima, autoefficacia, locus of control e nevroticismo. Questo modello ci vuole indicare che un lavoratore con alti livelli di autostima e di autoefficacia è portato ad avere livelli più alti di soddisfazione lavorativa. Se poi questo lavoratore ha anche un locus of control interno, ebbene sarà ancora più soddisfatto del proprio lavoro, così come se ha livelli bassi di nevroticismo.
Come affermato precedentemente, ci sono anche altri costrutti collegati a quella della soddisfazione lavorativa.

Nel Libro Verde (2001) della UE la Corporate Social Responsibility viene così definita: l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate.

L’esperienza acquisita con gli investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente responsabili suggerisce che le imprese possono aumentare la propria competitività. L’applicazione di norme sociali, ad esempio nel settore della formazione, delle condizioni di lavoro o dei rapporti tra la direzione e il personale, può avere un impatto diretto sulla produttività. Si apre in tal modo una strada che consente di gestire il cambiamento e di conciliare lo sviluppo sociale e una maggiore competitività.

Nell’ambito dell’impresa, la CSR ha riflessi in primo luogo sui dipendenti e riguardano ad esempio gli investimenti nel capitale umano, nella salute e nella sicurezza e nella gestione del cambiamento, mentre le prassi ecologiche responsabili riguardano soprattutto la gestione delle risorse naturali utilizzate nella produzione. Esse aprono una via che consente di gestire il cambiamento e di conciliare lo sviluppo sociale e una maggiore competitività.

Attualmente, una delle maggiori sfide che debbono affrontare le imprese è di attrarre e conservare i lavoratori qualificati. In tale contesto, una serie di misure adeguate potrebbero comprendere l’istruzione e la formazione lungo tutto l’arco della vita, la responsabilizzazione del personale e un miglioramento del circuito d’informazione nell’impresa.
Successivamente troviamo la moralità percepita. Si avrà alta percezione quando la propria azienda viene vista come rispettosa delle norme etiche e morali e, quindi, fa sentire più sicuro e stabile il posto di lavoro. Inoltre, perché sa che ha alle spalle una organizzazione affidabile e rispettosa che, grazie a queste caratteristiche, avrà anche performance migliori.

Naturalmente, come possiamo intuire dal termine “percepita”, questa dimensione morale non è assoluta e uguale per tutti, ma viene percepita in modo parzialmente diverso tra i lavoratori, perciò è difficile avere tra i lavoratori di un’azienda un punto di vista comune sulla moralità aziendale.
Per le aziende è, quindi, importante avere un codice morale, ma altrettanto importante è anche saperlo comunicare ai propri dipendenti dato che in alcuni studi è stato riscontrato che nonostante delle aziende avessero dei codici etici, i lavoratori non ne erano a conoscenza. Cosi, la consapevolezza dei dipendenti del codice etico è probabilmente più importante che l’esistenza o non esistenza del codice di etica stesso.

Un codice etico di un’organizzazione è l’espressione scritta delle sue norme morali e dei valori, e farlo percepire ai propri lavoratori può avere affetti positivi su di loro e può anche contribuire ad innalzare i livelli di condotta morale. Inoltre, nella misura in cui i lavoratori percepiscono i propri valori morali congruenti con quelli dell’azienda, possono anche portare a maggiori livelli di commitment organizzativo.
E proprio il commitment organizzativo è un altro dei concetti fondamentali che si lega alla soddisfazione lavorativa. Una traduzione letterale del termine “commitment” si riferisce a dei comportamenti individuali e/o di gruppo che possono essere definiti nei termini di impegno, senso di responsabilità, senso del dovere verso la propria organizzazione.

In modo più specifico e dettagliato, Mowday parla di forme di identificazione degli individui con l’organizzazione, identificazione con i suoi obiettivi unitamente al desiderio di rimanere a farne parte, identificazione e condivisione degli stessi valori tra lavoratore e organizzazione.
Ultimo, ma non per importanza troviamo il concetto di cittadinanza organizzativa, che indica quei comportamenti e quei gesti del lavoratore che vanno oltre lo specifico ruolo richiesto dall’azienda in cui lavora, utili all’organizzazione che non possono né essere imposti sulla base dei doveri di ruolo né indotti dalla garanzia di una ricompensa contrattuale.

 

Il cinismo organizzativo

Roe e Dean lo descrivono come un atteggiamento che può essere scomposto in tre dimensioni: cognitiva, affettiva e comportamentale. La dimensione cognitiva è espressa attraverso concezioni mentali negative come la convinzione che l’egoismo e la falsità siano al centro della natura umana e, più specificatamente, esprimono seri dubbi sulla sincerità ed onestà della propria organizzazione. La dimensione affettiva del cinismo organizzativo è rappresentata in concettualizzazioni emozionali come frustrazione e disillusione o pessimismo. Infine, la dimensione comportamentale del cinismo viene ben rappresentata dal concetto di “acting out” (agire fuori da noi, “buttare fuori”), agito direttamente o indirettamente con comportamenti ostili e disprezzo delle motivazioni, alienazione, ritiro psicologico e disimpegno, perdita di fiducia nei leader che promuovono il cambiamento, o diffidenza verso persone, gruppi, ideologie, convenzioni sociali e istituzioni.

Per spiegare la formazione del cinismo organizzativo bisogna parlare del contratto psicologico dei lavoratori. Questo contratto indica cosa i lavoratori devono aspettarsi dal proprio lavoro, il loro ruolo nell’organizzazione e come questa dovrebbe trattarlo in modo equo rispetto a tutti gli altri. Purtroppo spesso si verificano eventi come scarsa comunicazione, percezione dei propri manager come incompetenti, spazio limitato o nullo nelle decisioni aziendali, un ruolo ambiguo e un conflitto con la chiara percezione di una giustizia interna caratterizzata da ineguaglianze interne. Tutto questo non fa altro che portare il lavoratore a vedere distrutta ogni forma di contratto psicologico e dare il via al cinismo verso l’organizzazione.

Dati tutti questi elementi possiamo ipotizzare che il cinismo organizzativo possa indurre a insoddisfazione lavorativa e alienazione, diminuzione del commitment e della citizenship verso la propria organizzazione. Naturalmente, tutte queste considerazioni negative incidono sfavorevolmente sia sul lavoratore, che non esprime al meglio il suo potenziale produttivo, che sull’organizzazione, che risentirà necessariamente di tutte queste problematiche sul posto di lavoro.
Inoltre è importante far capire che non tutti i lavoratori percepiscono un evento allo stesso modo, l’evento in sè non ha un significato specifico uguale per tutti, ma viene percepito diversamente da ogni lavoratore.

Dopo tutte queste considerazioni negative bisogna menzionare anche alcune considerazioni positive. Dean ipotizza che i cinici sarebbero portati a criticare più apertamente e frequentemente tutti quei comportamenti dei dirigenti dell’azienda diretti verso scopi personali e quindi contro i principi etici e, ovviamente, contro gli stessi lavoratori. Questa ipotesi è supportata anche da Andersson e Bateman, che hanno scoperto nelle loro ricerche che i cinici sono portati a rifiutare le richieste di comportamenti anti-etici promossi dalla propria organizzazione.
Le conseguenze del cinismo sono riassunte nell’impatto che ha sui costrutti ad esso correlati, come la soddisfazione lavorativa, il commitment organizzativo, l’alienazione al lavoro e la cittadinanza organizzativa.

Concludendo, il cinismo organizzativo è senza dubbio un argomento di crescente interesse per quanto riguarda gli studi nel campo delle organizzazioni, sia per quanto riguarda il lavoratore, perché conoscendo le dinamiche interne a questo fenomeno si possono cercare di sviluppare strategie per ridurre o eliminare del tutto questo fenomeno negativo che impatta sul benessere dell’individuo-lavoratore, sia per l’organizzazione stessa perché avere dei lavoratori cinici porta solo svantaggi in termini di impegno, presenze, identificazione. Tutto ciò si ripercuote inesorabilmente anche sulla performance lavorativa e sulla efficacia ed efficienza dell’organizzazione, aumentandone i costi e diminuendone i profitti.

Pensieri e rimuginio: un pericoloso dispendio di energia per la mente!

Oggi non si ritiene più che pensare tanto sia un esercizio privo di svantaggi. Al contrario, pensare troppo è uno spreco di tempo e di energie, non solo mentali. Una dilapidazione perfino futile e sciocca, nonché dannosa. Gravemente dannosa.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 09/04/2016 

 

Agli psicologi non piace accoppiare mente ed energia. Energia sa di macchine e motori, e macchine e motori minacciano sempre di rubare il mestiere agli psicologi e di consegnarlo nelle mani dei loro supremi avversari, i neuroscienziati.

Un giorno i neuroscienziati spiegheranno tutto!’ Mi disse un collega psicoanalista molto tempo fa, il viso stropicciato nella smorfia dello scontento e del disappunto che ci prende di fronte a qualcosa che è, o almeno sembra, brutalmente più forte di noi, più capace di noi di prendersi il piacere di vincere nel gioco della vita, quel gioco che desideriamo goderci a grappoli e che invece forse sarà dominato da qualcun altro.

E, per uno studioso, il gioco da vincere è la capacità di spiegare, di capire come funziona la mente. Tutte le volte che si parla di energia, la sensazione è che si vada in un luogo in cui gli psicologi hanno poco da dire, un luogo dove c’è il cervello e non la mente. Ci aveva provato il vecchio Freud a fare una psicologia basata sull’energia e sulla scarica dell’energia, e quella non è stata la sua idea migliore. Gli psicologi preferiscono parlare di pensieri, di emozioni e di relazioni.

Vero è che a evitare troppo di parlare di energia si finisce per concepire una mente disincarnata, uno spirito dal carburante inesauribile e incorporeo, e quindi capace di invecchiamento e di decadimento. Una mente che vive una vita di eterna giovinezza, senza infanzia e crescita e che va incontro a una scomparsa improvvisa, la morte, senza prima deperire.

Anche nella sua esistenza ideale la mente è capace di sprecare energie.  Questo la psicologia lo ha sempre pensato, fin dal tempo delle isteriche di Freud, che sembravano gettare al vento energie mentali in comportamenti e sintomi incomprensibili. Quel che è cambiato rispetto al passato è che forse un tempo si temeva che la mente sprecasse energie quando tradiva se stessa, quando non seguiva il precetto di pensare tanto e di pensare rettamente, insomma quando rinunciava a capire il mondo e a comprendere razionalmente e cadeva in preda a forze estranee, le forze dell’istinto e dell’es. Insomma, la spiegazione che Freud dava del fenomeno delle isteriche, donne la cui vita mentale era preda di istinti di cui non si erano liberate.

Oggi la si pensa diversamente. Oggi si diffonde l’idea che la mente sprechi energie quando non è in grado di economizzare i propri pensieri, quando si dedica troppo ad almanaccare, ad analizzare, a lambiccarsi in mille inutili sottigliezze. Rispetto al ritmo tranquillo e regolare dell’ottocento che dava il tempo all’individuo di soffermarsi sui pensieri oziosi, oggi si vive una vita accelerata in cui non c’è spazio per l’ozio. E anche il pensiero ha perso la sua qualità allegramente prodiga e sprecona di se stesso.

Oggi non si ritiene più che pensare tanto sia un esercizio privo di svantaggi. Al contrario, pensare troppo è uno spreco di tempo e di energie, non solo mentali. Una dilapidazione perfino futile e sciocca, nonché dannosa. Gravemente dannosa.

Una serie di disturbi mentali ormai sono teorizzati come frutto di un eccesso di attività mentale, di un dispendio dissennato di energie mentali delle quali sarebbe stato meglio fare economia, come le massaie di una volta. È il famigerato rimuginio, termine che si diffonde sempre di più ed entra nella cultura popolare, quello stato mentale di fissazione su un pensiero. Fissazione che non è più misteriosa e inquietante, come poteva esserlo nella vecchia psicopatologia ottocentesca, in cui un’ideè fixe si poteva impadronire di un uomo abbrutito dalla decadenza e dagli stravizi e trascinarlo nei bassifondi di Parigi a inebriarsi di assenzio. Berlioz ci ha scritto sopra un’intera sinfonia, la Fantastica.

Oggi nulla è più romantico. La ideè fixe del rimuginio moderno, lontana dall’essere romantica, ha dalla sua solo il fascino della stupidità, se di fascino di può parlare. Molti disturbi ormai hanno questo marchio, sono spiegati in questi termini: frutto di un equivoco, di una tendenza a dare troppa importanza a pensieri e idee che non meritano affatto tanta attenzione e concentrazione e che sarebbe preferibile mettere da parte. È il  caso, ad esempio, del disturbo ossessivo-compulsivo.

E così le terapie si stanno adattando a questa nuova tendenza, tendenza che è poi antica perché non tutte le epoche sono state così intellettualistiche come i due ultimi secoli del passato millennio, in cui davvero il pensiero è stato messo al di sopra di tutto. Poche epoche sono state così chattering come l’ottocento e il novecento del vecchio millennio, poche epoche sono state al tempo stesso così cerebrali e così ferocemente impulsive, con masse di uomini impazziti dietro a quelle che erano soprattutto idee, pensieri: fascismo e comunismo prima di tutte, e poi tante altre.

Forse è stato l’avvento della borghesia, la classe discutidora per eccellenza, a scatenare questo fenomeno. E anche un disturbo così apparentemente così privo di pensieri, così emotivo e corporeo come il panico, in realtà sembra frutto di un eccesso di riflessione, di consapevolezza deteriore. La consapevolezza di ogni minimo segnale corporeo che a sua volta scatena mille pensieri che interpretano catastroficamente le sensazioni, con tutto il corredo di timori del panico: impazzire, morire e perdere il controllo. Insomma, oggi anche pensare è una risorsa limitata, da trivellare con prudenza.

Sindrome da Alimentazione Notturna: normali spuntini notturni o disturbo?

La Sindrome da Alimentazione Notturna è stata per la prima volta descritta da Albert Stunkard e definita come: un disturbo caratterizzato da anoressia mattutina con tendenza a saltare la colazione, scarso appetito durante il giorno, iperfagia serale ed insonnia.

 

 

Cos’è la Sindrome da Alimentazione Notturna o Night Eating Syndrome?

La Sindrome da Alimentazione Notturna (in inglese, Night Eating Syndrome – NES –) è stata per la prima volta descritta da Albert Stunkard nel 1955 e definita come: un disturbo caratterizzato da anoressia mattutina con tendenza a saltare la colazione, scarso appetito durante il giorno, iperfagia serale ed insonnia.

La Sindrome da Alimentazione Notturna è un disturbo abbastanza diffuso: si stima una prevalenza dell’1,1-1,5% nella popolazione generale e del 6-16% nei soggetti obesi (Ceru-Bjork, Andersson, Rossner, 2001; Stunkard, Berkowitz, Wadden, Tanrikut, Reiss, Young, 1996). Solo di recente, tuttavia, la Sindrome da Alimentazione Notturna è stata riconosciuta come disturbo autonomo ed inserita nel manuale diagnostico in uso, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders V edition (APA, 2014). La sindrome viene fatta rientrare all’interno della macrocategoria dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione.

I criteri diagnostici proposti sono i seguenti:

  • Ricorrenti episodi di alimentazione notturna che si manifestano mangiando dopo i risvegli dal sonno oppure con l’eccessivo consumo di cibo dopo il pasto serale.
  • Consapevolezza e ricordo di aver mangiato.
  • Il comportamento non è conseguenza di influenze esterne come la modificazione del ciclo sonno-veglia dell’individuo oppure da norme sociali.
  • La persona prova un significativo disagio e/o il suo funzionamento è compromesso .
  • Questa modalità di alimentazione disordinata non è spiegata dal disturbo da binge eating (alimentazione incontrollata) o da altri disturbi, compreso il disturbo da uso di sostanze e non è attribuibile ad un altro disturbo medico o all’effetto di farmaci.

La sindrome da alimentazione notturna si configura, quindi, come un disturbo caratterizzato da frequenti episodi di risveglio notturno durante i quali la persona tende a ricorrere a spuntini, generalmente carboidrati, nella convinzione di non riuscire a riprendere sonno qualora non assuma del cibo. Si stima che coloro i quali ne soffrono tendano ad assumere circa il 25% del fabbisogno calorico giornaliero dopo cena o durante i risvegli notturni (0’Reardon, Ringel, Dinges, 2004).

 

 

A quali disturbi si accompagna?

Sulla base di una review pubblicata nel 2015 da Kucukgoncu, Midura e Tek, la sindrome da alimentazione notturna si presenta frequentemente associata ad altri disturbi psichiatrici, in particolare disturbi alimentari (DA) come il Binge Eating Disorder (BED) o la Bulimia Nervosa (BN). È stata, infatti, stimata una prevalenza della night eating syndrome, fra coloro i quali soffrono di altri disturbi alimentari, che oscilla fra il 5 e il 44% (Stunkard et al., 1996).

La Sindrome da Alimentazione Notturna si differenzia, tuttavia, dagli altri DA sulla base dello specifico pattern alimentare, dalla quantità di calorie assunte durante il giorno e quelle, per contro, assunte durante la notte, dall’assenza di comportamenti compensatori e dalla compromissione del sonno. Nei BED i risvegli notturni con assunzione di cibo possono talvolta essere presenti ma non sono così distintivi e frequenti come nella sindrome da alimentazione notturna . Inoltre, nel BED la quantità di cibo assunta durante le abbuffate è maggiore rispetto a quella assunta durante gli episodi della night eating syndrome (Allison, 2011).

Ricerche condotte su pazienti affetti da Sindrome da Alimentazione Notturna hanno, inoltre, riscontrato un’alta comorbidità con altre psicopatologie, in particolare la depressione ma anche disturbi d’ansia ed abuso di sostanze (Lundgren, Allison, 0’ Reardon, Stunkard, 2008).

In aggiunta, insonnia e disturbi del sonno possono precedere tale sindrome. D’altra parte la Sindrome da Alimentazione Notturna può essere, essa stessa, causa o trigger di difficoltà del sonno. La letteratura presente sull’argomento ha, infatti, evidenziato la frequente presenza, in coloro che ne soffrono, di difficoltà nel prendere sonno o nel mantenerlo associata ad una bassa efficacia e qualità del sonno stesso (Kucukgoncu, Tek, Bestepe, Musket, Guloksuz, 2014; Rogers, Dinges, Allison, 2006).

La Sindrome da Alimentazione Notturna si configura, infine, quale possibile fattore di rischio per l’obesità, il diabete mellito ed altri disturbi metabolici ed endocrini.

Sindrome da Alimentazione Notturna: a quale trattamento ricorrere?

Dal punto di vista farmacologico, una buona efficacia nella riduzione dei sintomi della Sindrome da Alimentazione Notturna è stata ottenuta mediante il ricorso agli SSRIs ovvero agli inibitori selettivi del reuptake della serotonina. Il sistema serotoninergico é, infatti, coinvolto nella regolazione dell’appetito, dell’assunzione di cibo e dei ritmi circadiani. È stato pertanto ipotizzato che tale sistema possa giocare un ruolo nella psicopatologia della night eating syndrome (0’ Reardon, Stunkard, Allison, 2004; Stunkard, Allison, Lundgren, 2006; Allison, Ahima, O’Reardon, 2005).

Dal punto di vista psicoterapeutico, la CBT si è dimostrata efficace nel trattamento di molti disturbi psichiatrici, inclusa la depressione, i disturbi alimentari e l’insonnia, ingredienti della Sindrome da Alimentazione Notturna.

La CBT per la Sindrome da Alimentazione Notturna combina interventi comportamentali con tecniche cognitive standard ed elementi della CBT per il trattamento dell’insonnia (CBT-I).

Nel 2012, Allison, Lundgren e Stunkard hanno proposto un protocollo specifico per il trattamento della night eating syndrome, riadattando quello già presente per il trattamento del Binge Eating Disorder e per la perdita di peso. Esso si articola in tre fasi (Berner, Allison, 2013):

  1. La prima fase prevede la costruzione di una buona alleanza terapeutica, il ricorso ad un intervento psicoeducazionale sulla Sindrome da Alimentazione Incontrollata e l’impostazione dell’automonitoraggio, da effettuare a casa, dei comportamenti alimentari problematici. Tale monitoraggio include anche le caratteristiche sonno: orario in cui si va a letto e in cui ci si addormenta, tempo e durata dei risvegli notturni, orario del risveglio mattutino. Per ogni episodio specifico che il paziente porta in terapia viene quindi condotta un’accurata chain analyses finalizzata ad identificare i target cognitivi e comportamentali dell’intervento terapeutico. Parallelamente è possibile avvalersi di ausili prettamente comportamentali finalizzati al raggiungimento di un maggiore controllo dei comportamenti problematici: ad esempio, il ricorso a post-it da collocare sul frigo, in bagno o sulle porte e finalizzati a ricordare alla persona le intenzioni formulate durante la giornata; la collocazione di “ostacoli” lungo il percorso che dal letto conduce alla cucina; la rimozione del cibo dalla vista o il suo inserimento in un armadietto e così via. Viene, inoltre, impostato l’obiettivo di controllare il peso.
  2. Nella seconda fase del trattamento, il clinico ed il paziente collaborano per l’identificazione dei patterns tematici che saranno target dell’intervento. Viene quindi effettuato un intervento di disputing sulle credenze disfunzionali precedentemente identificate e ci si avvale di esperimenti comportamentali di controllo dello stimolo. Ancora, viene impostato un programma alimentare strutturato: vengono strutturati i pasti principali e gli spuntini da effettuare durante la giornata e regolarizzati gli orari. Se la persona affetta da sindrome da alimentazione notturna soffre anche di depressione o disturbi d’ansia, questi vengono trattati in questa fase centrale del trattamento. In aggiunta, vengono introdotti eventuali programmi di rilassamento muscolare progressivo o di respirazione profonda diaframmatica. Viene, in parallelo, migliorata l’igiene del sonno e aggiunta l’attività fisica.
  3. Nella terza ed ultima fase, viene fatto il punto del lavoro svolto insieme con focus sui progressi raggiunti e sull’incremento del senso di auto-efficacia. Inoltre, obiettivo centrale di questa fase diviene la prevenzione delle ricadute.

Sono state proposte, inoltre, delle strategie di auto-aiuto a cui la persona può ricorrere in autonomia. A tale proposito Riccardo Dalle Grave (2004) propone alcuni utilissimi punti riassuntivi:

  1. Strutturare i pasti durante il giorno: pianificare un’alimentazione che preveda una colazione, un pranzo, una merenda e una cena regolari, in modo tale da assumere più calorie nella prima parte della giornata. È fondamentale anche eliminare il caffè e le bevande contenenti caffeina e non assumere alcolici prima di andare a dormire, dal momento che tutte queste sostanze possono disturbare il sonno.
  2. Cercare di non avere delle giornate troppo stressanti: lo stress sembra essere uno dei più importanti fattori implicati nell’alimentazione notturna. Una buona strategia per ridurre lo stress è quella di adottare uno stile di vita attivo. Può essere utile imparare qualche esercizio di rilassamento.
  3. Migliorare l’igiene del sonno: cercare di rilassarsi prima di andare a dormire, fare degli esercizi di rilassamento, di stretching o leggere un buon libro. Cercare di non lavorare la sera dopo cena. Non usare il computer (che può aumentare la tensione). Non andare a letto fino a che non ci si senta sonnolenti.
  4. Non sforzarsi troppo per addormentarsi. Cercare di avere delle aspettative realistiche sul sonno: accettare di avere due o tre risvegli per notte, non dare troppa importanza al sonno e non drammatizzare se durante la notte non si è dormito a sufficienza. Imparare a tollerare gli effetti di un sonno disturbato.
  5. Ridurre gli stimoli alimentari che favoriscono l’alimentazione notturna: per esempio non tenere in casa cibi ipercalorici e ricchi di grassi.
  6. Ridurre gli stimoli non alimentari che favoriscono l’alimentazione notturna: la noia, gli intrattenimenti passivi (es. guardare la televisione). Piuttosto, programmare delle serate in compagnia o con intrattenimenti attivi (leggere un libro, andare al cinema, chiacchierare con la famiglia, ecc).
  7. Gestire il rischio: identificare il rischio, cercare la risoluzione dei problemi.
  8. Ristrutturare i pensieri disfunzionali che favoriscono l’alimentazione notturna.
  9. Ristrutturare i pensieri disfunzionali che seguono all’alimentazione notturna.

Il trattamento CBT per la sindrome da alimentazione notturna ha indubbiamente dei vantaggi ma presenta anche dei limiti. Gli studi di efficacia disponibili dimostrano una riduzione del ricorso al cibo durante i risvegli notturni, ma non dopo cena, nelle ore serali (Allison, 2012). Nonostante ciò, si è riscontrato, inoltre, un miglioramento dei sintomi depressivi e, quando presente, una riduzione degli effetti della comorbidità psichiatrica. È necessario condurre ulteriori studi futuri al fine di confrontare l’efficacia della CBT con altri trattamenti e strategie.

Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) – Introduzione alla Psicologia

Uno dei test più utilizzati in ambito clinico e forense: il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI). Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory è realizzato per diagnosticare i problemi sociali, di personalità e comportamentali nei pazienti psichiatrici. Questo test fornisce informazioni utilizzabili per la diagnosi e il trattamento del paziente, per lo screening in ambito lavorativo, per le perizie psichiatriche, in ambito di consulenza familiare e matrimoniale, e in ambito militare.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI): Storia

Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory ( MMPI ) è stato costruito, come suggerisce il titolo, presso l’Università del Minnesota, durante la Seconda Guerra Mondiale. L’ MMPI è stato sviluppato in più fasi, di cui la prima riguarda solo ed esclusivamente l’identificazione e la diagnosi dei disturbi psichiatrici, successivamente sono state aggiunte scale riguardanti anche il funzionamento generale. Alla costruzione del test hanno partecipato psicologi e psichiatri, in un momento in cui si stava verificando una crisi nell’ambito della salute mentale dovuta al cercare di rendere scientifica la diagnosi psichiatrica. Chiaramente, per poter ottenere diagnosi oggettivamente riproducibili era necessario costruire un test che fosse in grado di rilevare realisticamente la presenza di patologia psichiatrica.

Così, nacque l’ MMPI, misura tipicamente per adulti atta a stimare la psicopatologia e a rilevare le diverse strutture di personalità.

Nel 1937, Starke R. Hathaway, psicologo clinico, e J. Charnley McKinley, neuropsichiatra, hanno sviluppato un primo strumento diagnostico che fosse utile alla pratica clinica e in grado di individuare la gravità della patologia psichiatrica presentata da un soggetto. Questo nuovo test prese spunto da questionari già esistenti sulla personalità, principalmente di tipo proiettivo organizzati su stimoli non strutturati a cui il soggetto risponde proiettando le caratteristiche del proprio funzionamento psicologico (es. il test di Rorschach), considerati troppo influenzabili da parte dello sperimentatore e quindi non in grado di fornire misure oggettive. Per questo i due autori decisero di adottare un approccio empirico da cui partire per costruire scale in grado di rilevare una vasta gamma di psicopatologia psichiatrica (Hathaway & McKinley, 1942). Col passare del tempo, il test è stato sottoposto a diverse revisioni fino a raggiungere una versione piuttosto completa alla fine degli anni ’50. Di conseguenza, l’ MMPI è diventato la misura oggettiva più utilizzata della personalità e della psicopatologia in generale, sia in ambito clinico sia di ricerca.

Hathaway & McKinley partirono dalla elicitazione di circa mille affermazioni (item) riguardanti una vasta fetta di psicopatologia, che sottomisero a un gruppo di pazienti con diversi disturbi clinici, tra cui ipocondria, depressione, isteria, paranoia, ansia, rabbia, etc., afferenti all’Ospedale dell’Università del Minnesota, che costituirono il gruppo sperimentale, e a un gruppo di soggetti appartenenti alla popolazione generale, gruppo di controllo. Lo scopo era individuare gli item più selettivi e discriminativi della presenza di psicopatologia.
Si ottenne, in questo modo, una prima versione del test composta da 504 item divisi in 10 sotto-scale cliniche e 3 di validità che permettevano di controllare le risposte attribuite dai soggetti.

Le risposte sono rilevate attraverso una scala dicotomica del tipo “Vero-Falso” che porta a ottenere, quantitativamente, dei profili psicopatologici relativi al soggetto che si sottopone al test. La scelta di questo formato di risposta è dettato dall’esigenza di limitare la presenza di elementi non quantificabili e oggettivamente rilevabili. Quindi, l’ MMPI consente di ottenere una descrizione clinica globale del paziente e i punteggi ottenuti possono essere interpretati in maniera multi-assiale ovvero confrontando più parametri contemporaneamente. Inoltre, è un test altamente discriminante tra soggetti affetti da patologia e sani e, chiaramente si tratta di un test standardizzato e con un sistema di controllo di risposte tra i più accurati.

Esistono diverse versioni del test, perché negli anni è stato revisionato più volte eliminando item vecchi e riformulando altri più adeguati alla cultura vigente.
Dalla prima versione dell’ MMPI si è passati all’ MMPI-1 costituito da 506 item, poi si ebbe una versione ridotta (MMPI-1 forma ridotta) a 357 item, fino alla versione attualmente in uso, l’ MMPI-2 formata da 567 item.
Successivamente, nel 1996 un gruppo di studiosi presieduto da Butcher, dell’università del Minnesota, revisionarono l’ MMPI, ottenendo una nuova versione. In Italia l’adattamento e la taratura è stata affidata a Pancheri e Sirigatti e pubblicata da Giunti O.S. nel 1995. Il campione utilizzato per la standardizzazione italiana è di 1375 soggetti divisi in 403 maschi e 972 femmine.

La nuova versione del test prese il nome di MMPI-2 e manteneva la struttura di base del test precedente, 3 scale di validità, risposta dicotomica, e 10 scale di base, a cui si aggiunsero le scale supplementari e di contenuto. Il numero totale di item che formavano il test era di 567.

Struttura del test MMPI-2

Ci occuperemo di analizzare nel dettaglio solo l’ MMPI-2 perché più completo e mantiene la struttura di base presente in tutte le versioni precedenti di MMPI, ovvero scale di contenuto e scale di base.

Dalla somministrazione del test si ottengono degli psicogrammi o profili di funzionamento del paziente che permettono di individuare un funzionamento generale e clinico del soggetto.
Il test è composto da 3 scale di validità, più 3 aggiunte successivamente e 10 cliniche di base.

Le scale di validità sono:
– scala L, lie, menzogna, costruita per rilevare il tentativo di attribuire risposte fasulle, ingraziandosi, in qualche modo, lo sperimentatore;
– scala K, correction, permette di riadattare correggendo i punteggi delle altre scale o può indicare a livello psicopatologico la difesa, evitamento di qualcosa;
– scala F, infrequency, infrequenza, simulazione, è in grado di rilevare la presenza di risposte atipiche.

Queste scale riguardano la validità del test e, dunque, valori fuori norma indicano l’inutilizzabilità dei dati presenti nel questionario. Possono, inoltre, avere anche un valore clinico interpretabile unitamente agli altri parametri presenti all’interno del test (schemi di diamond o per assi).
In questa versione del test sono state introdotte altre tre scale di controllo:
Back F, VRIN, e TRIN, tutte scale in grado di rilevare risposte non pertinenti, inconsistenti e incoerenti date al test. Inoltre, è stata inserita anche una scala?, Non so, che indica gli item a cui non si è data una risposta. Quindi, punteggi elevati in queste scale rendono non valido il test.

I protocolli con 30 o più elementi omessi devono essere considerati non validi e non interpretabili.
Le scale cliniche o di base sono
1. scala Hs, ipocondria
2. scala D, depressione
3. scala Hy, isteria
4. scala Pd, deviazione psicopatica
5. scala Mf, mascolinità/femminilità, maschi/femmine
6. scala Pa, paranoia
7. scala Pt, psicastenia
8. scala Sc, schizofrenia
9. scala Ma, ipomania
10. scala Si, introversione sociale
Fondamentalmente, con l’ MMPI 2 si indagano tre aree: l’area nevrotica formata dalle scale Hs, D ed Hy, l’area sociopatica, Pd ed Mf, e l’area psicotica composta da Pa, Pt ed Sc.

Le 15 scale di contenuto approfondiscono diversi aspetti della personalità e insieme a quelle cliniche permettono di valutare il grado di presenza nelle varie patologie dei singoli sintomi.

1. Scala ANX, Ansia
2. Scala FRS, Paure
3. Scala OBS, Ossessività
4. Scala DEP, Depressione
5. Scala HEA, Preoccupazioni per la salute
6. Scala BIZ, Ideazione bizzarra
7. Scala ANG, Rabbia
8. Scala CYN, Cinismo
9. Scala ASP, Comportamenti antisociali
10. Scala TPA, Tipo “A”
11. Scala LSE, Bassa autostima
12. Scala SOD, Disagio sociale
13. Scala FAM, Problemi familiari
14. Scala WRK, Difficoltà sul lavoro
15. Scala TRT, Difficoltà di trattamento

La 15 Scale supplementari approfondiscono temi propri alle scale di base e sono definite anche speciali perché in grado di identificare un quadro più specifico utilizzabile al meglio per l’individuazione del trattamento terapeutico:
scala A, indica la presenza di ansia
scala R, Repressione, sottomissione o convenzionalità
Scala Es, trarre vantaggio dal trattamento psicoterapeutico
Scala MAC-R, presenza di dipendenza da sostanza
Scala O-H, Ostilità ipercontrollata o frustrazione
Scala Do, tendenza a essere Leader
Scala Re, Responsabilità sociale
Scala Mt, Disadattamento scolastico degli studenti
Scala Gm, percezione del ruolo sessuale maschile
Scala Gf, percezione del ruolo sessuale femminile
Scala Pk, presenza di Stress post-traumatico
Ps: la scala Ps, Stress post-traumatico, indica la presenza di sintomi collegabili ad un disturbo da stress post-traumatico
MDS: la scala MDS, disagio coniugale, indica la presenza di contrasti di rilievo nella relazione di coppia
APS: la scala APS, Tossicodipendenza potenziale, indica la potenzialità di sviluppare dipendenza da sostanze
AAS: la scala AAS, Tossicodipendenza ammessa.

Inoltre, sono state introdotte nel tempo ulteriori scale, riferendosi a gruppi di disturbi specifici. Queste, rivestono particolare importanza nell’interpretazione del profilo e sono le sottoscale di Harris e Lingoes:

D1 depressione soggettiva
D2 rallentamento psicomotorio
D3 disfunzioni fisiche
D4 inefficienza mentale
D5 rimuginio
Hy1 negazione di ansia sociale
Hy2 bisogno d’affetto
Hy3 stanchezza-malessere
Hy4 disagio somatico
Hy5 inibizione dell’aggressività
Pd1 contrasti familiari
Pd2 problemi con l’autorità
Pd3 imperturbabilità sociale
Pd4 Alienazione sociale
Pd5 autoalienazione
Pa1 idee persecutorie
Pa2 suscettibilità
Pa3 ingenuità
Sc1 alienazione sociale
Sc2 alienazione emozionale
Sc3 perdita controllo dell’Io, cognitiva
Sc4 perdita conativa
Sc5 perdita mancanza d’inibizione
Sc6 esperienze sensoriali bizzarre
Ma1 amoralità
Ma2 accellerazione psicomotoria
Ma3 impertubabilità
Ma4 ipertrofia dell’Io

e le sottoscale di Hostetler et al.:

Si1, timidezza
Si2, evitamento sociale
Si3 alienazione personale e sociale.

Queste sotto-scale consentono di discriminare quali variabili psicologiche determinano l’innalzamento delle scale cliniche di base

Altre versioni dell’ MMPI

Esiste una versione specifica per la valutazione degli adolescenti: l’ MMPI-A, dove A corrisponde ad adolescenti di età compresa tra i 14 e i 18 anni. L’ MMPI-A è composto da 478 item e include le stesse 13 scale dell’ MMPI-2, scale di base e di controllo, le scale fattoriali di Ansia e Depressione, le scale di Mac-R per l’Alcolismo, Tossicodipendenza potenziale e Ammissione di tossicodipendenza e 14 scale di contenuto. Il tempo di somministrazione è di circa 50’ e la somministrazione può essere individuale e collettiva.

Il calcolo dei punteggi

Generalmente, chi totalizza punteggi alti all’ MMPI mostra la presenza di problemi psichici; i punteggi medi indicano un adattamento alla patologia considerata e i punteggi bassi suggeriscono l’assenza di patologia.

Le scale devono essere interpretate in un’ottica multiassile e alla luce dell’ individuazione di un profilo generale ottenibile dal soggetti, perché considerate singolarmente potrebbero indurre in false interpretazioni dovute al fatto che le categorie diagnostiche risentono, ancora in qualche modo, nonostante le molte revisioni, di una visione kraepeliniana di patologia mentale. Per questo, è preferibile attribuire alle scale cliniche una numerazione convenzionale senza entrare nello specifico della patologia. Questa modalità di codifica è il CODE-TYPE che prende spunto dal metodo di Welsh, secondo cui per delineare i tratti salienti di personalità è sufficiente identificare le scale a cui si sono ottenuti punteggi alti, rispettando la seguente numerazione:
Hs (1) D (2) Hy (3) Pd (4) Mf (5) Pa (6) Pt (7) Sc(8) Ma (9) Si (0)

Il MMPI- 2 può essere somministrato a soggetti al di sopra dei 18 anni, che abbiano acquisito un livello culturale tale da permettere loro di rispondere al questionario. Dal totale ottenuto al test si ricava un punteggio grezzo, che deve essere trasformato in punti T (standardizzati, trasformazione lineare dei dati) per essere interpretato. Esistono punteggi diversi divisi per sesso, ma in ogni caso il punteggio medio totalizzabile è 50 con deviazione standard pari a 10. Punteggi T uguali o superiori a 65, che corrispondono al 92° percentile per scale cliniche e per le scale di contenuto, indicano la presenza di patologia.

Attualmente, esistono sistemi automatizzati per il calcolo del punteggio, tra cui il più noto è il “Panda” che consente una immediata individuazione del profilo e una pronta interpretazione dei risultati.
Il test si interpreta tenendo conto dello psicogramma totale ottenuto dal soggetto e non rispetto alle singole scale. Quindi, è necessario valutare il profilo nel suo insieme, giungendo a una corretta interpretazione dei risultati solo comparando il valore delle varie scale cliniche e di controllo.

In ogni caso, esistono molti testi redatti per riuscire a stilare e interpretare i punteggi ottenuti all’ MMPI. La ricchezza dei contenuti clinici rilevabile rende questo test un ottimo strumento in grado di rilevare problematiche psicologiche ed effettuare inquadramenti personologici utilizzabili in diversi ambiti.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Psicologia dei consumi: Made in Italy Vs Made in China, come cambiano le diverse percezioni dei brand in base al Paese d’origine

La domanda principale alla quale cerca di rispondere la psicologia dei consumi è: come si determina l’intenzione di acquistare un certo prodotto o servizio, in relazione alle caratteristiche del consumatore, dell’oggetto in questione, al contesto attuale e alle scelte passate?

 

Psicologia dei consumi: cos’è?

Il comportamento di consumo per definizione, riguarda tutte le decisioni sottostanti all’acquisto dei prodotti, indispensabili o superflui che siano. In letteratura sono presenti numerosi riferimenti agli atteggiamenti come precursori del comportamento, Allport (1935) ad esempio, definisce l’atteggiamento come uno stato mentale, organizzato grazie all’esperienza, che esercita un’influenza sulle risposte dell’individuo nei confronti di tutti gli oggetti e le situazioni con cui è in relazione.

Inoltre anche Thurstone (1931), nel suo modello a una componente, descrive l’atteggiamento come un sentimento o un valutazione verso un determinato oggetto, persona o evento. Per comprendere a fondo il comportamento di consumo è bene quindi tenere conto dell’atteggiamento, che concorre all’espressione della posizione del consumatore nei confronti di un prodotto, in modo relativamente durevole.

 

 

I meccanismi alla base del comportamento di consumo

Come abbiamo visto prima, il modo in cui vengono elaborate le informazioni, è direttamente collegato alla formazione della struttura dell’atteggiamento.

La psicologia del consumatore sottolinea la necessità di comprendere le caratteristiche di colui che decide, le motivazioni sottostanti alla decisione e il modo in cui le varie opzioni di scelta vengono raffigurate dagli individui. Le motivazioni sono un precursore importante del comportamento e sono descrivibili come un input, una spinta, un sentimento molto forte, quasi viscerale che ci spinge a fare qualcosa.

Il consumatore, agisce selezionando il prodotto che riesca a soddisfare le sue richieste ed esigenze, perciò raccoglie informazioni da fonti tradizionali (prezzo) o da fonti emozionali (cambiamenti dell’arousal che dipendono dall’oggetto) e le unisce alle sensazioni come la vista, l’olfatto o il tatto. La domanda principale alla quale cerca di rispondere la psicologia del consumo è perciò: come si determina l’intenzione di acquistare un certo prodotto o servizio, in relazione alle caratteristiche del consumatore, dell’oggetto in questione, al contesto attuale e alle scelte passate?

Quando una persona percepisce una certa differenza tra la sua condizione attuale e una condizione potenzialmente migliore, inizia la ricerca di informazioni per riuscire a trovarsi nella seconda. Il primo step per l’attivazione di un processo decisionale, è proprio l’identificazione di un problema.

Un esempio pratico è dato da alcune campagne pubblicitarie, che basano le loro strategie proprio sull’induzione di dubbi nei consumatori, su ciò che possiedono e su ciò che potrebbero possedere per migliorare la loro situazione attuale.

I consumatori sempre più spesso però, sono esposti ad informazioni riduttive relative al prodotto che potrebbero scegliere di acquistare. Ed è proprio in questi casi che ci si trova davanti ad una scelta: si può scegliere di effettuare un’analisi più accurata degli attributi relativi al prodotto, oppure scegliere di dedurre le informazioni mancanti e/o incomplete, basandosi su conoscenze precedentemente registrate in memoria. Tuttavia, è chiaro che le inferenze Memory-Based sono più facili da recuperare rispetto alla ricerca di ulteriori informazioni sul prodotto.

Inoltre seguendo l’approccio basato sulla teoria della Dissonanza Cognitiva (Festinger, 1962), è stato dimostrato che la maggior parte dei consumatori sceglie di ignorare volontariamente le informazioni incomplete, invece di interessarsi e chiedere più informazioni. Secondo Kardes, Posvac e Cronely (2004) ad esempio, i consumatori preferiscono tralasciare le proprietà non direttamente osservabili di un prodotto, anche se sono utili alla valutazione. Le inferenze sono quindi basate sull’utilizzo di altre informazioni per dedurre quelle mancanti e rispecchiano una valutazione soggettiva degli attributi sui quali i consumatori non hanno a disposizione informazioni esplicite.

 

In che modo le caratteristiche del prodotto attirano la nostra attenzione?

L’attenzione del soggetto, può essere definita come la concentrazione dell’attività mentale su un determinato oggetto reale o concettuale: una sorta di filtro che controlla la quantità e la natura dell’informazione ricevuta dal soggetto (Cortini, 2005). Le funzioni principali di questo filtro sono di proteggere l’individuo da un eccessivo carico di informazioni e di aiutarlo nel processo decisionale, selezionando l’informazione che presenta a priori un interesse per risolvere i suoi problemi.

Secondo la Teoria dell’Integrazione delle Caratteristiche (Tresiman e Gelade, 1980), una volta ottenute le informazioni necessarie per formulare il giudizio su un dato prodotto, avviene la valutazione delle qualità primarie: colore, movimento, curvature linee e design che sono automatiche e facilmente individuabili.

Successivamente avviene l’integrazione con le caratteristiche che vengono dedotte con meccanismi cognitivi, che associano il prodotto ad esperienze passate, ad emozioni o all’immagine che l’individuo ha del paese di provenienza del prodotto stesso. Il valore affettivo, viene determinato da componenti non tangibili riferite all’oggetto, che affiorano più o meno spontaneamente. La formazione di inferenze circa un prodotto, dipende da diversi fattori: il livello di competenza posseduto dall’ individuo, relativa a quella data categoria di prodotti per esempio, potrebbe influenzarne e veicolarne l’acquisto.

L’interpretazione degli stimoli e dei dati provenienti dall’esterno, non avviene solo con la semplice ricezione delle stimolazioni dall’ambiente, al contrario viene integrata con le informazioni soggettive, che dipendono strettamente dal soggetto e dalle sue percezioni.

 

 

Quali sono le caratteristiche rilevanti del prodotto che influenzano i nostri acquisti?

La valutazione delle alternative non è mai assoluta, ma dipende strettamente dai molteplici rapporti che si instaurano tra le opzioni e dalle caratteristiche possedute dall’oggetto. Un prodotto è costituito da un insieme di segnali informativi, come la sua forma, il materiale di cui è fatto, il colore e il design etc.

Inoltre i prodotti che esaltano le caratteristiche legate alla qualità del processo produttivo (Es. la sostenibilità) saranno intesi come prodotti fabbricati in modo responsabile e saranno certamente percepiti più positivamente.
Al momento dell’acquisto, il prezzo sembra essere molto importante per la valutazione e viene usato dai consumatori per dedurre l’affidabilità di un oggetto ed una serie di altre informazioni.

L’impatto visivo è utilizzato dai soggetti nel processo di consumo per formare inferenze circa la qualità: la cura del design infatti, potrebbe indicare che dietro la lavorazione dell’oggetto è stato svolto un lavoro da parte di esperti del settore. La familiarità del prodotto, si riferisce a quanto la persona percepisce l’oggetto in questione come conosciuto e quindi controllabile. Quest’ultima caratteristica assume gioca un ruolo importante: tenendo conto del fatto che gli individui tendono ad attribuire un giudizio prevalentemente negativo a ciò che non conoscono, essi sono suscettibili ad essere più negativi nel giudicare oggetti con cui non hanno familiarità.

L’immagine del paese d’origine riguarda la percezione del paese da cui proviene un prodotto, concepita dai consumatori in base alle loro percezioni precedenti e alle loro inferenze sulla produzione, sulla commercializzazione e sull’idea di forza o debolezza del paese stesso. La spiegazione teorica del perché il paese d’origine influenza le valutazioni di un determinato prodotto e consequenzialmente il comportamento di consumo e acquisto, è da attribuirsi soprattutto al processo decisionale del consumatore come ‘processo cognitivo’ (Bloemer et al., 2009). Secondo questa prospettiva, un prodotto è costituito da un insieme di segnali di informazione, tradizionalmente denominati: caratteristiche ascritte all’oggetto. Tuttavia, queste caratteristiche provengono anche da aspetti esterni al prodotto, quali la reputazione, il brand, il prezzo, la marca, e il paese d’origine (Liefeld, 1993).

 

 

Il ‘Made in’ come caratteristica ascritta all’oggetto di consumo

Tra gli avvenimenti che hanno esercitato maggiore influenza sui fenomeni di consumo della popolazione, il processo di globalizzazione ha certamente facilitato le dinamiche di distribuzione in tutto il mondo fino ad estendersi alla rete internet, che permette ai consumatori di acquistare prodotti che appartengono ad altre culture.

Gli effetti del Paese d’origine di un prodotto, sono stati analizzati con l’utilizzo di varie metodologie che hanno esaminato diverse categorie di prodotti e paesi di origine e la conclusione generale che emerge da quasi 50 anni di ricerca su questo argomento è che il paese d’origine, effettivamente, influisca sulle valutazioni del prodotto (Bilkey e Nes, 1982; Peterson e Jolibert, 1995; Pharr 2005; Verlegh e Steenkamp, 1999).

La formazione di atteggiamenti ed i consequenziali comportamenti di consumo, sono quindi influenzati dall’associazione di un prodotto, alle caratteristiche salienti e spesso stereotipate del paese da cui proviene. Alcune associazioni e percezioni sul paese d’origine prendono forma ad esempio, attraverso caratteristiche come l’ortografia o la pronuncia del marchio (Leclerc et al., 1994). Quando la Ferrero decise di mettere in commercio la crema di nocciole che tutti conosciamo come ‘Nutella’, il nome che gli venne dato non fu lasciato al caso. La scelta della parola Nut (che in inglese significa proprio nocciola) fu giustificata dall’obiettivo di estendere le vendite del prodotto anche all’estero, mentre l’utilizzo del suffisso –ella venne scelto perché ricordasse le sue origini italiane, da sempre associate all’alta qualità dei prodotti gastronomici.

Quando gli attributi associati ad un paese sono percepiti in maniera positiva, le conseguenze che derivano dall’associazione faranno in modo che il prodotto acquisirà quegli stessi attributi positivi, influenzando positivamente le intenzioni d’acquisto.

Il discorso vale anche per la dimensione negativa: se il Paese d’origine è considerato povero o poco eccellente nella produzione di un determinato bene o servizio, sarà in grado di attivare inferenze negative, che porteranno ad adottare un atteggiamento meno propenso al giudizio positivo, abbassando così la probabilità di acquisto e consumo del prodotto.

Non tutti i beni o i servizi però, presentano dei riferimenti espliciti al paese da cui provengono e non tutti i consumatori sono a conoscenza delle informazioni che potrebbero rendere un paese più o meno eccellente nella produzione di un dato prodotto.

Balabanis e Diamantopoulos nel 2008, cominciarono a tal proposito, ad esaminare sia il grado di conoscenza dei consumatori circa l’origine nazionale dei brand (quali e quante caratteristiche conoscono i consumatori del paese produttore di un oggetto), sia l’influenza esercitata dagli attributi dell’oggetto riferiti al Paese d’origine, nel processo di formazione dell’atteggiamento che avviene nella mente dei consumatori.

Usunier (2006, p. 62) fa notare che il Country of Origin (COO), tendenzialmente è considerato come il paese che i consumatori associano ad un prodotto o ad un brand, senza preoccuparsi troppo di verificare il luogo in cui è effettivamente avvenuta la produzione.

Un attributo saliente come l’impatto visivo, riferito alla presenza dell’etichetta che informa il consumatore sul luogo di provenienza, potrebbe essere utilizzato dai consumatori per formare inferenze sulla sostenibilità e il processo di fabbricazione di un prodotto. Molti di noi potrebbero pensare che uno Smartphone prodotto in Cina, sia stato fabbricato da operai in condizioni di lavoro non del tutto sicure o con materiali poco sostenibili, a causa dei numerosi stereotipi esistenti sui prodotti cinesi. La Cina infatti è spesso il bersaglio di critiche dei media internazionali in termini di problemi di qualità e di sicurezza del prodotto (Enderwick, 2009; Li e Tang, 2009).

È facile a questo punto associare una scarsa qualità al prodotto, in relazione all’idea negativa che si ha del paese di produzione, o viceversa, essere del tutto propensi all’acquisto e al consumo di un oggetto, perché si è a conoscenza dell’eccellenza del suo Paese di produzione. Il marchio Made in Italy ad esempio, è considerato un prodotto pregiato ad alto indice di affidabilità. Come cita il sito ufficiale del Made in Italy:

Il Made in Italy dalla moda alle calzature, dall’arredamento alle invenzioni e alle scoperte scientifiche, da sempre ci distingue nel mondo.

È una legittima aspettativa dei Produttori Italiani, veder valorizzata la propria creatività e capacità manifatturiera. L’Italianità del marchio rilasciato contribuisce all’immediato riconoscimento del prodotto che se ne fregia e lo eleva in termini di qualità oltre che di immagine generale. Tuttavia, bisogna ricordare sempre, che il rapporto è molto ambiguo e differisce da consumatore a consumatore (Houston, Gruber e Schlegelmilch, 2014).

La conoscenza delle modalità di attribuzione e delle inferenze effettuate dai consumatori nei riguardi di uno specifico prodotto è importante per le aziende, al fine di capire come i loro prodotti vengono percepiti.

Troviamo implicazioni della Psicologia del Consumo nella pratica del Marketing Internazionale, nella Brand Extension , nelle manovre strategiche attuate dalle aziende proprio perché indaga e sottolinea le intenzioni d’acquisto, fornendo una spiegazione sul come si determinano le scelte e le relative motivazioni. E’ facile dedurre quindi che questi aspetti riguardino direttamente gli interessi dell’azienda, nonché il suo sviluppo. Conoscere come il consumatore valuta il prodotto e in base a quali meccanismi fonda le sue scelte d’acquisto, può essere considerato il punto di partenza per una strategia di Marketing funzionale. In base alle valutazioni dei consumatori è possibile dedurre quali sono gli aspetti del prodotto su cui vengono basate le valutazioni positive e che quindi devono essere tenute sotto controllo.

La valutazione è implicata nel processo cognitivo decisionale del consumatore e diviene in questo senso, d’importante interesse per la gestione di mercato di un determinato prodotto, riducendo potenzialmente i rischi di fallimento della strategia di posizionamento del prodotto stesso.

Flessibilità psicologica: come l’amore dà senso alla sofferenza – Steven Hayes

Acceptance and Commitment Therapy (ACT): La Flessibilità psicologica e come l’amore dà senso alla sofferenza

Steven C. Hayes – TEDx University of Nevada (Traduzione di Emanuele Rossi)
Cosa possiamo fare per migliorare di fronte al dolore e alla sofferenza nelle nostre vite? Più di mille studi suggeriscono che gran parte delle risposte riguarda l’apprendimento della flessibilità psicologica. Steven C. Hayes è uno dei ricercatori che per primi identificarono questo processo e lo concretizzarono sotto forma di un noto approccio di accettazione e di mindfulness chiamato Acceptance and Commitment Therapy.
In questo emozionante discorso, Hayes racchiude l’essenza della flessibilità psicologica in poche frasi di facile comprensione. Conduce gli spettatori attraverso uno straziante viaggio all’interno del suo disturbo di panico, nel momento preciso della sua esistenza in cui fece la scelta che gli cambiò la vita: io non fuggirò da me.
Hayes dimostra come fare questa scelta ci permetta di entrare in contatto con il nostro senso profondo di significato e di scopo, sostenendo che l’adozione di un atteggiamento amorevole verso la propria sofferenza consente di portare amore e partecipazione nel mondo.

Genogramma di carriera: analisi del rapporto tra dinamiche familiari e percorso professionale

L’uso e l’ utilità del genogramma in ambito clinico sono ampiamente documentati ma non tutti conoscono in modo approfondito il valore del genogramma di carriera nell’ambito del processo di orientamento professionale.

 

Il genogramma è uno strumento introdotto nel repertorio dello psicologo nel 1980 da Murray Bowen. Si tratta di un diagramma che organizza le informazioni sul ciclo vitale del nucleo circa i legami, gli eventi, e le separazioni della famiglia attraverso due o tre generazioni (Mc Goldrick, Gerson, 1985). Il suo uso e la sua utilità in ambito clinico sono ampiamente documentati ma non tutti conoscono in modo approfondito il valore che esso assume durante il processo d’orientamento professionale.

 

 

Il genogramma di carriera

Il genogramma di carriera è una procedura di valutazione qualitativa utilizzata nella fase di raccolta dati dell’orientamento professionale. Secondo Dagley (1984) il genogramma permette di inquadrare il cliente all’interno del suo retaggio culturale, psicologico ed economico e di effettuare dei nessi tra tali dinamiche e le problematiche del cliente. Esso consente, infatti, di analizzare sia la visione del mondo del cliente (definita da Fouad e Bingham come il quadro di riferimento attraverso il quale uno vive l’esperienza. È il fondamento di valori, atteggiamenti e relazioni) sia le sue risorse e gli ostacoli personali e ambientali.

Il genogramma di carriera permette di osservare i conflitti che possono prodursi tra l’ambito familiare e quello lavorativo e, dunque, danneggiare entrambi i ruoli implicati.

Si tratta, inoltre, di uno strumento d’elezione nell’orientamento con clienti appartenenti a minoranze culturali perché consente di approfondire il loro retaggio etnico e razziale e comprendere l’influenza che l’identità razziale può aver esercitato su quella lavorativa.

Un altro uso significativo del genogramma è quello relativo ai problemi coniugali legati a difficoltà lavorative. Nelle situazioni appena citate ci sarà un cambiamento nelle domande che il consulente dovrà porre, le quali saranno più specifiche e focalizzate sull’aspetto razziale, nel primo caso, e sulla relazione coniugale nel secondo.

 

 

Procedura di utilizzo del genogramma

Il genogramma si configura, quindi, come uno strumento profondamente versatile ed efficace con la maggior parte dei clienti con cui il consulente lavora.

La procedura prevede tre step principali:

  1. Nella prima fase si esplicita lo scopo della procedura, dicendo al cliente che il compito servirà per analizzare le dinamiche familiari a cui è stato esposto durante la sua vita, ma anche le barriere che possono aver influenzato il suo percorso ed i ruoli da lui assunti e gestiti. L’esplicitazione dello scopo consente al cliente di comprendere l’utilità del compito effettuato, stimolando anche un maggiore impegno;
  2. Nella seconda fase si istruisce il cliente sulla costruzione del diagramma spiegandogli quali simboli utilizzare e come organizzare le relazioni (nella figura è possibile osservare come il cliente deve rappresentare le informazioni graficamente);
  3. Nella terza fase avviene l’analisi del genogramma, durante la quale si esamina l’esperienza di vita del cliente all’interno della sua famiglia. Durante questa fase è possibile utilizzare delle domande generiche oppure altre più mirate che richiedono al cliente un approccio esplorativo. Per quanto concerne le prime è possibile chiederle/gli ‘Come descriverebbe la famiglia nella quale è cresciuto?‘ oppure ‘Che rapporti ci sono fra la sua famiglia e suo marito/ sua moglie?‘. Dagley (1984) propone delle domande che stimolerebbero, nel cliente, uno sforzo cognitivo attivo, come ‘Quali sono i valori dominanti della sua famiglia d’origine?‘ o ‘Quali regole d’interazione e barriere relazionali della famiglia si sono tramandate da una generazione all’altra?’. Con l’uso di queste domande si rende il cliente partecipe del lavoro d’interpretazione del genogramma e capace di guardare la sua situazione da differenti prospettive. Infine viene effettuato un resoconto in cui si riassumono i dati emersi e si usano le ipotesi provvisorie formatesi per la risoluzione della problematica del cliente.

Molta attenzione deve essere rivolta all’esecuzione del genogramma e, in particolare, alle espressioni del cliente, ai toni e alle parole utilizzate poiché tali dettagli potrebbero costituire degli indizi utili per l’approfondimento di aree significative della sua esperienza. Inoltre durante l’analisi è di fondamentale importanza notare la presenza (o l’assenza) di dettagli e particolari poiché, ad esempio, l’incapacità di ricordare la data di nascita dei genitori oppure, al contrario, la capacità di riportare alla memoria anche quella dei nonni o degli zii, potrebbe rivelare la necessità di eseguire un’indagine accurata del suo rapporto con queste figure.

 

Genogramma di carriera: analisi del rapporto tra dinamiche familiari e percorso professionale - ESEMPIO
Esempio di genogramma

 

 

Esempi di influenza genitoriale nella carriera

L’emblema dell’influenza genitoriale sulla carriera del cliente è costituito da quelle situazioni in cui quest’ultimo prosegue l’attività di famiglia, magari piegando le proprie aspirazioni alle richieste ambientali e, dunque, deformando la propria personalità in funzione di un fine comune.

Un altro caso che il consulente può incontrare in orientamento è quello in cui la cliente appartiene ad una famiglia in cui le donne non hanno mai intrapreso una carriera professionale.

In situazioni del genere risulta facile comprendere come le dinamiche familiari possono ostacolare la realizzazione professionale creando un conflitto profondo e dannoso sia per l’ambito familiare sia per quello professionale.

 

 

Genogramma di carriera e alleanza di lavoro

Sebbene l’uso del genogramma potrebbe essere vissuto, da alcuni clienti, come troppo invasivo, un ruolo fondamentale è ricoperto dalle competenze e dalle capacità comunicative dell’operatore che lo esegue. Infatti, se utilizzato in modo consapevole e professionale, il genogramma di carriera andrebbe addirittura a favorire lo sviluppo di quella particolare relazione tra cliente e consulente definita alleanza di lavoro, croce e delizia di ogni intervento psicologico, a cui la maggior parte delle persone attribuisce il merito dei risultati ottenuti.

In conclusione, mediante un’analisi delle tradizioni familiari, è possibile comprendere come alcuni tratti di personalità e determinate preferenze potrebbero risentire dell’influenza familiare, producendo vari effetti sulla gestione della carriera. Risulta, infatti, fondamentale l’uso di un approccio olistico che promuova una maggiore comprensione e consapevolezza di sé da parte del cliente in una prospettiva di empowerment.

Emergenza bullismo: lo psicologo deve intervenire a scuola

COMUNICATO STAMPA – SELLINI (AUPI):  EMERGENZA BULLISMO, LO PSICOLOGO DEVE INTERVENIRE A SCUOLA

 

L’associazione unitaria psicologi italiani commenta i dati diffusi in questi giorni dalla Federazione Italiana Società di Psicologia (Fisp)

ROMA 8 APRILE 2016 – A gennaio 2016 una ragazzina di 12 anni di Pordenone ha tentato di uccidersi lanciandosi dalla finestra di casa: Era ossessionata dai bulli che a scuola, quotidianamente, la prendevano in giro, invitandola ad ammazzarsi. Dopo qualche giorno abbiamo appreso della storia di un altro adolescente che si è sottoposto a una dieta che avrebbe potuto ucciderlo: voleva dimagrire a tutti i costi per non ascoltare più le parole dei compagni che ridevano per il suo peso. Poi c’è il caso di un bimbo di nove anni della provincia di Reggio Calabria: gli altri allievi gli gettavano lo zainetto nella spazzatura, gli sputavano addosso e lo picchiavano. La madre, disperata, ha deciso di denunciare la scuola per la mancata sorveglianza.

Esiste per gli psicologi una vera e propria emergenza bullismo che può essere contrastato a partire dall’intervento a scuola. “La figura dello psicologo all’interno dei contesti scolastici appare fondamentale, per individuare in maniera tempestiva i disagi prima che possano favorire lo sviluppo di sindromi psicologiche” dice Mario Sellini, segretario generale di AUPI, l’associazione unitaria degli psicologi italiani. Da Nord a Sud il rischio è altissimo. “Sarebbe necessaria la predisposizione di un programma di prevenzione del bullismo a scuola, attraverso la valutazione del disagio giovanile e dei fattori di rischio individuali, familiari e ambientali, che potrebbero generare comportamenti violenti. L’introduzione della figura dello psicologo nel contesto scolastico, potrebbe contribuire alla promozione delle risorse e delle potenzialità dei ragazzi in una fase delicata come quella dello sviluppo”.

In questi giorni è stato diffuso uno studio della Federazione Italiana Società di Psicologia (Fisp), presieduta da Vito Tummino e i dati raccolti vanno proprio in questa direzione. Per gli studiosi il contributo dello psicologo a scuola è un argomento da affrontare immediatamente, soprattutto in merito al bullismo. Secondo indagini Istat sui comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi, nel 2014, più del 50 per cento degli 11/17enni è stata vittima di un episodio offensivo, irrispettoso e/o violento da parte di coetanei. Gli atti violenti consistono in offese, parolacce e insulti (12,1%), derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare (6,3%), diffamazione (5,1%), esclusione per le proprie opinioni (4,7%) e in vere e proprie aggressioni fisiche (3,8%).

Tra i ragazzi che utilizzano il cellulare o internet il 5,9% denuncia di avere subito ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network. E in questo caso, infatti, il fenomeno, reso possibile dalla diffusione delle nuove tecnologie fra i più giovani, prende il nome di “Cyber” bullismo. “Nei casi di bullismo – conclude Sellini – l’ambiente scolastico diviene il palcoscenico sul quale il bullo può mostrare tutta la sua aggressività a scapito dei compagni percepiti come più deboli. Mentre il soggetto vessato ha difficoltà a concentrarsi per l’ansia e per i traumi provati. I sintomi del malessere sono molteplici e diversi e possono causare problemi anche in futuro, con altre sintomatologie di natura psicologica. È opportuno intervenire e fermare questo fenomeno prima che sia troppo tardi”.

Il Desiderio nella Terapia Metacognitiva Interpersonale

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto del rapporto con l’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

 

Dovremmo rendere conto di tutto quello che diciamo e scriviamo, parola per parola

Primo Levi

 

Uno dei bersagli terapeutici della terapia metacognitiva interpersonale è lo schema interpersonale, una struttura intrapsichica che organizza l’esperienza e il comportamento.

Lo schema è un ricordo generalizzato di come sono stati accolti i propri desideri nel passato, di quale grado di soddisfacimento hanno goduto e, nello stesso tempo, è un’aspettativa interiorizzata, una configurazione cognitivo-affettiva a carattere previsionale… che guida l’azione. (Dimaggio et al., 2013, pag. 15).

E’ espresso nei racconti del paziente con espressioni del tipo ‘Io desidero‘, ‘Io voglio’.

Questa struttura plasma i processi intersoggettivi e questi a loro volta, quando si ripetono, sono interiorizzati creando un ciclo interpersonale.

 

 

Il desiderio e gli schemi interpersonali

La struttura dello schema interpersonale parte dal desiderio del soggetto che si attiva in termini procedurali condizionali (se…allora…) segue la risposta dell’altro, la reazione del sé alla risposta dell’altro e la rappresentazione di sé in un processo circolare che può dare vita a schemi interpersonali patogeni.

Un esempio può chiarire meglio: desidero essere riconosciuta e amata così come vorrei (wish); se l’altro mi riconosce e mi ama così come desidero allora mi sento accudita e posso ritenere di aver trovato la persona con la quale vivere una relazione significativa e costruire un progetto di vita (se… allora…); l’altro non riesce a rispondere alle mie eccessive aspettative di accudimento (risposta dell’altro); avverto tristezza e senso di abbandono (reazione del sé alla risposta dell’altro); sono sbagliata, non amabile (rappresentazione del sé).

 

Intervento terapeutico: bisogna accogliere il desiderio del paziente?

L’intervento terapeutico ha come obiettivo, attraverso la rievocazione di memorie autobiografiche, di identificare gli elementi dell’esperienza soggettiva per ricostruire lo schema e arrivare a comprendere le ricorrenze del modo di relazionarsi che generano frustrazione e disagio. La promozione del cambiamento avviene attraverso la differenziazione e il lavoro sulle altre componenti della metacognizione al fine di costruire una visione più integrata del sé (Dimaggio et al., 2013).

Pur condividendo l’impostazione del modello epistemologico, occorre chiedersi se partire dal desiderio del paziente possa essere utile al cambiamento o piuttosto essere addirittura di ostacolo al processo terapeutico.

Vi è una sostanziale differenza, infatti, tra desiderio e bisogno.

Il desiderio rompe l’unità tra soggetto desiderante e oggetto desiderato e impone un dominio del desiderato mai appagato. Il desiderare si trasforma in una costrizione che impone una continua soddisfazione, mai pienamente realizzabile.

Molte ricerche (Lorenzini, Scarinci, 2013) hanno messo bene in evidenza come il benessere non sia vincolato alla soddisfazione dei desideri, ma piuttosto a una visione eudemonica in cui alcuni bisogni fondamentali siano appagati. Considerando i sistemi motivazionali interpersonali a base innata, e facendo riferimento all’esempio sopra esposto, la paziente non riuscirebbe mai a sentirsi paga in una relazione se continuasse ad aspettarsi di essere accudita esattamente come vorrebbe e quindi sarà necessario, parallelamente alla soddisfazione del suo bisogno, non del suo desiderio, che riesca a imparare a tollerare una qualche frustrazione.

Nella storia evolutiva di ogni individuo l’identità e quindi l’integrazione e la coerenza del sé nasce da esperienze in cui la tolleranza alla frustrazione è conditio sine qua non di un buon adattamento a ciò che ci propone la realtà, spesso matrigna e poco propensa a rispondere alle nostre attese.

L’Io desiderante, viceversa, ha una sua inconsistenza legata alla pretesa di possedere e dominare in una condizione umana di finitudine che impone limiti.

Alcune ricerche hanno evidenziato come spesso le immagini positive maladattive compaiono proprio quando è presente la ricerca di soddisfazione di un desiderio (May et al., 2004, 2010). Alcuni approcci non a caso considerano l’accettazione e il distanziamento (detached) come strumenti terapeutici d’elezione nel trattamento di vari disturbi.

Uno degli obiettivi del modello della Self-Regulatory Executive Function (S-REF), ad esempio, è proprio quello di ridurre la discrepanza tra stati del sé desiderati e attuali. In condizioni adattive, l’attività della S-REF ha durata limitata, ma il desiderio, perché inappagabile, può prolungarne l’attivazione dando origine alla sindrome cognitiva-attentiva (CAS). L’attenzione selettiva, il rimuginio, la ruminazione, la memoria selettiva costituiscono forme di pensiero ripetitivo e perseverante che unitamente a comportamenti autoregolatori maladattivi e strategie di coping disfunzionali generano disagio (Wells, 2012).

Pensare che solo se l’altro si sintonizzerà perfettamente sui miei desideri, potrò sentirmi sicura di non essere abbandonata equivale ad avviare un ciclo interpersonale disfunzionale che porterà prima o poi all’abbandono. In sostanza la discrepanza tra ciò che desidero e ciò che è porta a sperimentare una mancanza – quindi a desiderare – che attiva stati emotivi negativi intensi, oltre a credenze metacognitive maladattive che tendono a rafforzare la dipendenza dalla soddisfazione del desiderio, con conseguente peggioramento degli stati emotivi e un aumento della probabilità di riprodurre comportamenti disfunzionali a scopo autoregolatorio.

 

 

La trappola dei nostri desideri

Spesso non riusciamo a distanziarci dai nostri stati mentali, non li lasciamo andare e venire, ma restiamo intrappolati in essi, soprattutto quando vogliamo piegare la realtà ai nostri desideri. Non riusciamo a considerare i nostri stati interni come eventi, semplicemente pensieri o emozioni, piuttosto siamo propensi a combatterli o ad allontanarli, così facendo mantenendoli e rendendoli disfunzionali.

La mancanza dell’oggetto cui è rivolta l’appetizione spinge l’essere nel territorio delle possibilità, la cui realizzazione, però, non è mai né seriamente progettata né realmente attesa (Heidegger, 1927) perché quel ricordo generalizzato di come sono stati accolti i propri desideri nel passato, cui o non è stata data risposta o è stato sempre risposto (troppo di buono o troppo poco di buono), lascia una memoria di eterna insoddisfazione.

Il desiderio, infatti, come sostiene Freud (1899) è legato alle tracce mnestiche che riproducono fantasie di appagamento. La dimensione desiderante s’inscrive in una proiezione dell’avvenire che tende a evitare la frustrazione e a ottenere gratificazione.

Il desiderio ha la necessità di confrontarsi con il principio di realtà per trasformarsi in bisogno da soddisfare con modalità che tengano conto di ciò che è fattibile. Altrimenti, esigendo un riconoscimento assoluto cercherà di imporsi senza tener conto dell’Altro, e della dimensione propria che è domanda di riconoscimento dell’Altro.

Quando il bambino piange perché desideroso di ricevere cibo, la madre interpreta la sua domanda e risponde al bisogno di essere sentito, compreso e riconosciuto, di essere accudito e questa relazione tra sé e altro costituisce la dimensione interpersonale della coscienza (Liotti, 1994).

La categoria che discrimina tra desiderio e bisogno è la necessità, ma ciò di cui necessita l’uomo e di cui non può fare a meno è la relazione che dà senso e significato. Infatti, la condizione essenziale dell’esistere, presuppone che siano soddisfatti i bisogni primari, altrimenti non vi sarebbe esistenza (Montefoschi, 1977). Il bisogno si crea perciò all’interno di un rapporto possibile d’intersoggettività che propone una condizione di libertà nel cogliere le possibilità che le situazioni concrete mettono a disposizione per la sua soddisfazione.

E’ necessario che il paziente riesca a distinguere, quindi, il desiderio dal bisogno e i bisogni indotti (falsi bisogni) dai bisogni che riguardano l’essere, quelli di autorealizzazione, distinguendoli da quelli dell’avere, possesso, avidità, potere, affermazione (Fromm, 1976) che possono manifestarsi in forme e contesti diversi.

D’altra parte assistiamo a un forte incremento della prevalenza dei disturbi di personalità che vengono diagnosticati nella sezione terza del DSM5 (2013) in termini di funzionamento della personalità al livello del Sé, (identità, autodirezionalità) e al livello interpersonale (empatia e intimità) e relativamente a tratti patologici su 5 domini (Affettività negativa vs Stabilità Emotiva; Disinibizione vs Coscienziosità; Psicoticismo vs Lucidità mentale; Distacco vs Estroversione; Antagonismo vs Disponibilità) che danno vita a 25 tratti o dimensioni.

Rispetto a queste dimensioni non possiamo tacere l’influenza che la cultura dominante esercita, una cultura liquida che rivendica la piena libertà di appagare desideri. La personalità di base definita come costellazione delle caratteristiche congeniali con la gamma totale delle istituzioni di una cultura si costruisce all’interno di un universo simbolico segnato da relazioni Io-Oggetto in cui è difficile incontrare l’Altro.

Basterebbe elencare alcuni criteri diagnostici dei disturbi di personalità (sfruttamento interpersonale, cioè, si approfitta degli altri per i propri scopi; manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione; un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi d’iper-idealizzazione e svalutazione; disonestà, come indicato dal mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri ripetutamente, per profitto o per piacere personale; eccessiva dedizione al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amicizie…) per rendersi conto che l’incremento della loro prevalenza ha radici fondate nel regno seducente dell’effimero che produce desiderio e una piena libertà individuale di ricerca del piacere. Ogni forma di legame è spezzata e negativa, frammentazione e dispersione punteggiano identità precarie e fluttuanti (Bauman, 2006; 2007).

L’abito che indossa l’uomo moderno si è trasformato: da pellegrino in cammino insieme con gli altri verso una meta a turista che consuma velocemente il mondo attraente, fino a divenire vagabondo costretto continuamente a lasciare il proprio mondo inospitale.

Un modello terapeutico, peraltro molto apprezzato e le cui procedure affinate nel tempo sono accurate e rigorose, che pone grande attenzione alla cura della relazione terapeutica, ritenuta a ragione un asse portante del trattamento dei disturbi di personalità, crediamo non possa non tenere in considerazione queste notazioni che potrebbero portare maggiore chiarezza e un’evoluzione, anche se minimale, del modello.

Il rispetto dell’etica e della morale in ambito manageriale nella società moderna

Etica aziendale e manageriale: i disastrosi eventi legati al tracollo delle economie globali e i gravissimi scandali finanziari che hanno caratterizzato l’inizio del nuovo millennio ci indicano che, in futuro, chi guiderà le imprese dovrà saperle dirigere non solo in modo efficace ed efficiente, ma anche e soprattutto in modo etico. Le errate scelte strategiche, dettate dal solo obiettivo di ottenere il maggior profitto possibile, hanno evidenziato che sarà necessario concentrarsi con sempre maggiore forza sulla necessità di regole etiche nella conduzione del business.

 

L’etica negli affari e nelle professioni

All’inizio degli anni Settanta, negli Stati Uniti, si sviluppò un dibattito che aveva come oggetto l’etica applicata: si cominciò, cioè, a discutere di etica degli affari e di etica delle professioni con l’intento di applicare i principi etici generali a situazioni concrete.
Il termine etica, che deriva dal greco antico ἔθος (èthos), cioè “comportamento”, “costume”,”consuetudine”, fu introdotto da Aristotele per designare le sue trattazioni di filosofia della pratica ed indica quella parte della filosofia che si occupa del comportamento umano. Partendo dalla concezione platonica per cui il Bene è ciò che viene perseguito da ogni persona, Aristotele cercò di mettere a punto una definizione della relazione tra il Bene Assoluto ed il Bene per l’uomo, cercando di rispondere alla domanda: che cos’è il Bene?

 

L’etica secondo Aristotele

Per Aristotele l’animo dell’uomo ha in sé due componenti, una irrazionale, che egli definisce “desiderio” ed una razionale dalla quale prendono forma le virtù dell’uomo, la saggezza e la sapienza. L’uomo è chiamato a realizzare se stesso, agendo secondo virtù nella ricerca della felicità, vero Bene dell’uomo. Agire secondo saggezza, illuminati dalla razionalità è, secondo Aristotele, condizione necessaria per arrivare a condurre una vita moralmente giusta e tendente alla felicità.

Aristotele è il primo ad avere indagato in maniera dettagliata la filosofia etica e i capisaldi della sua analisi filosofica rappresenteranno la base di tutto il pensiero etico successivo; parlare di etica significa infatti rifarsi ad un lungo ed impegnativo dibattito sulla giustizia delle azioni e allo studio su cosa sia bene e cosa sia male. Il dibattito è certamente lungo, ma il tema è assolutamente attuale: quanto gli scandali finanziari che hanno caratterizzato l’inizio di questo XXI secolo sono legati alle cattive pratiche ed ai comportamenti gestionali non etici adottati dalle posizioni manageriali?

 

L’etica in ambito manageriale

Come insieme di individui orientati al raggiungimento di obiettivi comuni, ogni azienda ha in sé un’etica che è il risultato dell’insieme dei comportamenti degli individui che la compongono e l’unico soggetto in grado di rendere l’etica un fattore di valore per l’azienda è l’uomo.
E’ importante tenere in considerazione le questioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa; in altre parole, ciascuna azienda, nell’atto di prendere decisioni, deve considerare la propria responsabilità sociale. In letteratura la responsabilità sociale d’impresa è definita in vari modi, ma in generale, è considerata come quell’insieme “di pratiche d’impresa finalizzate ad avere un impatto positivo sulla società e non solo sulle finanze dell’impresa stessa” (Institute for Global Ethics).

Il management di un’azienda non può non avere un comportamento etico e responsabile. Etica per il manager vorrà dire rispetto della morale, dei principi di giustizia ed onestà, della qualità della vita nei confronti di tutti gli interlocutori dell’azienda. Chi guida un’impresa non può ignorare l’etica, ma anche la stessa responsabilità sociale che ne deriva; il manager che dimostra di avere un alto senso dell’etica ispirerà i suoi collaboratori a comportarsi nella stessa maniera ed attrarrà, a sua volta, persone che condividono gli stessi valori. Rispettare l’etica in ambito aziendale significa avere un rapporto corretto e trasparente con i collaboratori, i superiori, i colleghi, i clienti ed i fornitori.

Gli ultimi anni sono stati costellati da numerosi esempi di managers corrotti ed avidi, che hanno barattato etica e funzione sociale per meri fini commerciali, concentrati più sulla costruzione di imperi personali piuttosto che sul successo dell’impresa: tutto ciò impone una riflessione sull’ urgenza etica e sulla corretta gestione del potere e del governo d’impresa. Secondo la filosofia aristotelica, gli individui dovrebbero essere orgogliosi delle proprie azioni ed è difficile esserlo se queste sono usate per sfruttare o opprimere gli altri; analogamente un buon manager non dovrebbe rinunciare ad agire in maniera etica.

Una scarsa attenzione all’etica, infatti, renderebbe la figura del manager non credibile, visto che sarebbe quanto mai debole: come si possono mantenere rapporti corretti e leali con i collaboratori e con la clientela senza avere il dovuto rispetto nei loro confronti con una condotta ineccepibile? Come si possono mantenere rapporti onesti con i soci se si agisce con l’intenzione di ingannarli, per esempio inserendo nei bilanci informazioni non rispondenti al vero, solo per conseguire un ingiusto profitto personale?

Disturbo da Accumulo: Vietati gli sprechi!

Chi soffre di disturbo da accumulo evita di parlarne e talvolta si isola socialmente, impedendo a persone estranee o addirittura ai familiari stretti di entrare in casa o nei luoghi in cui appaiono evidenti le conseguenze dell’accumulo.

Ivana Bernardotti – OPEN SCHOOL Psicoterapia Clinica e Ricerca

 

Introduzione

Quando pensiamo al Distrurbo da Accumulo ci vengono facilmente in mente persone ai margini della società, estreme nei comportamenti problematici. Si pensi al programma trasmesso in Italia su Real Time ‘Sepolti in casa’. In realtà, i comportamenti di accumulo si riscontrano in una varietà di disturbi neuropsichiatrici, fra cui il comportamento ossessivo-compulsivo, la schizofrenia e la demenza. Si tratta quindi di sintomi piuttosto diffusi.

Per il solo Disturbo da Accumulo, la prevalenza è stata stimata intorno al 2-5%. Tale dato tende a subire un incremento di più del 6% col trascorrere del tempo, in soggetti di età superiore ai 55 anni (Iervolino et al., 2009; Mueller, Mitchell, Crosby, Glaesmer, % de Zwann, 2009; Samuel set al. 2008). È possibile che tali numeri risultino, addirittura, sottostimati a causa della bassa consapevolezza di chi ne soffre e dagli alti livelli di vergogna ed imbarazzo che accompagnano il disturbo (Ale, Arnold,Whiteside, & Storch, 2014). Chi ne soffre evita, infatti, di parlarne e talvolta si isola socialmente, impedendo a persone estranee o addirittura ai familiari stretti di entrare in casa o nei luoghi in cui appaiono evidenti le conseguenze dell’accumulo.

Il Disturbo da Accumulo è un disturbo progressivo. L’età di esordio tende a collocarsi intorno all’infanzia o all’adolescenza (APA, 2013; Ayers at al., 2010). I sintomi non sembrano, inizialmente, causare particolare compromissione nel funzionamento generale o marcato disagio, ma tendono a divenire problematici più tardi nel corso dell’esistenza, in genere intorno ai 40-50 anni. L’età media di coloro che richiedono un trattamento si colloca, infatti, intorno ai 50 anni (Samuels et al., 2008). È stato stimato che, in assenza di trattamento, i sintomi tendono progressivamente a peggiorare per ogni decade che passa (Ayers, Saxena, Golshan, Wetherell, 2010).

 

Cos’è il Disturbo da Accumulo?

Il Disturbo da Accumulo o Disposofobia può essere definito come un quadro caratterizzato dalla tendenza ad acquisire un gran numero di oggetti e dal fallimento nel liberarsene, con difficoltà nel mantenerli in ordine (Frost et al., 2015). La difficoltà nel liberarsi degli oggetti indica qualsiasi forma di smaltimento fra cui buttare via, vendere, dare via o riciclare (APA, 2013).

Questa tendenza ad accumulare oggetti, appartenente di scarso valore, limita fortemente l’uso degli spazi domestici e conduce a livelli significativi di disagio e compromissione del funzionamento quotidiano, tanto in coloro che ne soffrono quanto nei loro familiari.

Il Disturbo da Accumulo si manifesta frequentemente con scarsa consapevolezza da parte di chi ne soffre e, a differenza del Disturbo Ossessivo-Compusivo, i sintomi risultano talvolta egosintonici. Chi ne soffre può chiaramente sentirsi disturbato dagli esiti dell’accumulo, in assenza tuttavia della capacità di identificare la causa del disagio percepito nella propria difficoltà nel liberarsi di oggetti privi di valore o nell’acquisirne di nuovi in maniera eccessiva. Emerge, al contrario, la frequente tendenza ad attribuire la propria sofferenza a cause esterne, quali limitazioni di spazio o difficoltà nell’organizzazione dello stesso.

Ma cosa si tende ad accumulare? Oggetti comunemente accumulati e conservati possono includere giornali, tazzine da caffè, statue, decorazioni o oggetti da collezione (Frost & Gross, 1993).

 

Come viene diagnosticato il Disturbo da Accumulo?

Il Disturbo da Accumulo é stato recentemente riconosciuto nella 5° edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders quale categoria diagnostica a sé e disturbo autonomo (APA, 2013); risulta inserito all’interno della macrocategoria dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi e Disturbi correlati. Nella precedente versione del manuale diagnostico, i comportamenti da accumulo erano formalmente riconosciuti unicamente quali sintomi all’interno del disturbo ossessivo-compulsivo, a sua volta inserito fra i Disturbi d’Ansia.

Secondo l’attuale concettualizzazione il Disturbo da Accumulo è caratterizzato da:

  • a. Persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale.
  • b. Questa difficoltà è dovuta a un bisogno percepito di conservare gli oggetti e al disagio associato al gettarli via.
  • c. La difficoltà di gettare via i propri beni produce un accumulo che congestiona e ingombra gli spazi vitali e ne compromette sostanzialmente l’uso previsto. Se gli spazi vitali sono sgombri, è solo grazie all’intervento di terze parti (per es. familiari, addetti alle pulizie, autorità).
  • d. L’accumulo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (incluso il mantenimento di un ambiente sicuro per sé e per gli altri).
  • e. L’accumulo non è attribuibile a un’altra condizione medica.
  • f. L’accumulo non è meglio giustificato dai sintomi di un altro disturbo mentale.

Il DSM-V include, inoltre, la specificazione della condizione ‘Con acquisizione eccessiva‘ se la difficoltà nel liberarsi degli oggetti si accompagna ad una acquisizione eccessiva, e prevede una differenziazione fra diverse condizioni di insight: ‘buono‘ se l’individuo riconosce che convinzioni e comportamenti associati all’accumulo sono eccessivi e problematici, ‘scarso‘ se tali comportamenti non vengono percepiti come problematici e ‘delirante‘ se il paziente appare assolutamente sicuro e certo delle proprie convinzioni e dei propri comportamenti che non sono riconosciuti come problematici, nonostante vi sia prova del contrario.

Sempre secondo il DSM-V, coloro i quali soffrono di Disturbo da Accumulo conservano i propri beni in maniera intenzionale. Tale criterio differenzia il Disturbo da Accumulo da altre forme psicopatologiche in cui è presente un accumulo passivo o in cui viene a mancare il disagio sperimentato a fronte dell’eliminazione dei propri oggetti (ad es. in alcune forme di demenza).

Il 75% di coloro i quali soffrono di Disturbo da Accumulo presentano altri disturbi mentali in comorbidità (APA, 2013). Circa il 20% degli individui con accumulo patologico soddisfa anche i criteri per il disturbo ossessivo-compulsivo. Ancora, il disturbo risulta frequentemente associato a disturbi depressivi (più del 50% dei casi), disturbi d’ansia (soprattutto fobia sociale e disturbo d’ansia generalizzato) e ADHD (Fullana et al., 2013; Hall, Tolin, Frost & Steketee, 2013; Ivanov et al., 2013), in particolare nel sottotipo disattento.

Studi condotti in ambito neuropsicologico e elettrofisiologico hanno, a tale proposito, evidenziato come in soggetti affetti da Disturbo da Accumulo siano presenti deficit di categorizzazione, memoria di lavoro, decision making, attenzione e processamento degli errori. Sembrerebbero, quindi, essere deficitarie soprattutto le funzioni esecutive (Mackin et al., 2011).

Il Disturbo da Accumulo appare associato, non esclusivamente ad altri disturbi mentali, ma anche ad una maggior incidenza di problemi fisici e di salute: diabete, apnee notturne, artriti, disturbi ematici e cardiovascolari risultano frequenti in coloro che soffrono di accumulo patologico. È stato ipotizzato che tali complicanze mediche potrebbero essere legate alla scarsa cura di sé e alla bassa tendenza, da parte di coloro che ne soffrono, a richiedere visite mediche e specialistiche. (Ayers, 2014).

L’accumulo genera, inoltre, disordine, talvolta scarsa igiene, esposizione a rischi e difficoltà di movimento all’interno degli spazi domestici. A tale proposito, famoso è il caso dei fratelli Collyer di New York che negli anni ’40 furono rinvenuti nella loro casa a 12 piani e che morirono l’uno sepolto schiacciato sotto grandi quantità di oggetti e l’altro, paralizzato, per la fame.

 

Quali motivazioni spingono a mettere in atto comportamenti di accumulo patologici?

Uno studio condotto da Frost e collaboratori nel 2015 ha tentato di stabilire quali siano le principali motivazioni che spingono una persona ad accumulare in modo patologico oggetti privi di valore apparente.

Da un’attenta analisi della letteratura sull’argomento, gli autori hanno individuato quattro motivazioni che più frequentemente vengono riportate da coloro che soffrono di Disturbo da Accumulo:

  1. Attaccamento emotivo agli oggetti
  2. Preoccupazione ed evitamento degli sprechi
  3. Motivazioni estetiche
  4. Contenuto informativo dell’oggetto (come quotidiani, riviste etc.)

Sulla base dei risultati, i soggetti con Disturbo da Accumulo riportano tutte e quattro le motivazioni con maggiore frequenza rispetto al gruppo di controllo. Tuttavia, queste tendono a diversificarsi a seconda che si tratti di acquisizione o conservazione problematica. In generale, la preoccupazione per gli sprechi sembra guidare entrambi i comportamenti di accumulo in misura maggiore rispetto alle altre motivazioni. A tale proposito, pazienti con Disturbo da Accumulo riportano punteggi maggiori in termini di coscienza ambientale rispetto alla popolazione generale (Frost et al., 1995).

Nello specifico, nell’acquisizione di nuovi oggetti, oltre alla preoccupazione per gli sprechi, sembrano giocare un ruolo rilevante anche le motivazioni estetiche; per quanto riguarda la tendenza a non gettare via, risultano importanti anche il desiderio di conservare informazioni e l’attaccamento emotivo agli oggetti.

La possibilità di differenziare il problema in termini di acquisizione eccessiva di oggetti o tendenza alla conservazione e la comprensione delle diverse motivazioni sottese nel singolo individuo possono risultare utili informazioni per la scelta e la conduzione di un’adeguata terapia.

 

Quali sono i fattori di rischio?

Secondo il DSM-V, i principali fattori di rischio per il Disturbo da Accumulo includono:

  • Fattori temperamentali, dal momento che l’indecisione e le difficoltà in termini di decision making sembrano essere una caratteristica di coloro che soffrono di Disturbo da Accumulo e dei loro parenti di primo grado.
  • Traumi e fattori di vita stressanti: la presenza di eventi traumatici nella vita di questi soggetti è risultata associata all’esordio dei comportamenti da accumulo e all’incremento della gravità sintomatologica (Landau et al., 2011). Risulta, quindi, utile in corso di trattamento, effettuare anche un’approfondita valutazione della storia di vita e traumatica.
  • Fattori genetici: circa il 50% dei pazienti con Disturbo da Accumulo ha almeno un parente di primo grado che mette in atto comportamenti problematici di accumulo.

 

Quale trattamento psicoterapico?

Generalmente coloro i quali soffrono di Disturbo da Accumulo richiedono un trattamento a causa della presenza di disturbi in comorbidità (Tolin et al., 2008) e non direttamente per i comportamenti di accumulo; la richiesta risulta pertanto poco tempestiva per cui, quando arrivano in terapia, tali sintomi risultano spesso già piuttosto gravi e cronicizzati (Ayers et al., 2010; McGuire et al., 2013).

Sulla base di un recente articolo pubblicato da Kress et al. (2016), che mira a fare il punto della situazione in termini di diagnosi e trattamento del Disturbo da Accumulo, la terapia cognitivo-comportamentale è considerata il trattamento d’elezione.

Studi precendenti che hanno esplorato l’efficacia della CBT per pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, hanno riscontrato che la presenza di sintomi di accumulo risultava un consistente predittore di drop-out, scarsi risultati terapeutici e minimi guadagni clinici se confrontata con l’assenza di tali comportamenti (Mataix-Cols et al., 2002; Steketee & Frost, 2003). Questi risultati hanno condotto alla messa a punto di protocolli specifici per il trattamento del Disturbo da Accumulo, con particolare attenzione alle credenze tipiche di questi pazienti e ai comportamenti correlati all’accumulo, al disagio emotivo, all’evitamento ad esso connesso e al potenziale deficit di processamento delle informazioni (Steketee, Frost, 2007; Tolin et al., 2007).

L’attuale trattamento cognitivo-comportamentale del Disturbo da Accumulo si focalizza principalmente sulla riduzione dei sintomi in tre macro aree: la disorganizzazione, la difficoltà nel liberarsi e nel gettare via gli oggetti personali e la tendenza ad acquisirne in eccesso.

Nello specifico, il trattamento si avvale di:

  • Skill training finalizzato a rinforzare le capacità di problem-solving, decision making e di organizzazione;
  • Esposizione graduale, immaginativa ed in vivo, agli stimoli stressanti (Esposizione con evitamento della risposta, ERP), ovvero non comprare e buttare oggetti;
  • Ristrutturazione cognitiva delle credenze irrazionali correlate ai comportamenti di accumulo.

In aggiunta, la bassa consapevolezza frequentemente associata al Disturbo da Accumulo ha portato ad ipotizzare l’utilità di avvalersi, in aggiunta ai già citati interventi, di tecniche motivazionali e dell’ausilio di visite domiciliari (Stekenee et al., 2010).

Gli interventi motivazionali si pongono come obiettivo la riduzione dell’ambivalenza di fronte alla scelta di intraprendere o meno un trattamento, aiutando il paziente ad individuare le aree di maggiore compromissione a causa dei comportamenti di accumulo e che vorrebbero ridurre (ad es. la compromissione sociale legata all’impossibilità di invitare a casa familiari o amici o i problemi economici legati all’acquisizione compulsiva). In merito alle visite domiciliari, Steketee e Frost (2007) hanno messo a punto uno specifico protocollo, della durata di 26 settimane, che prevede visite al domicilio e sul luogo di lavoro da parte di operatori sociali.

In uno studio qualitativo volto ad indagare la soddisfazione di clinici e pazienti circa il trattamento per il Disturbo da Accumulo con la CBT, i pazienti hanno riferito di aver trovato efficaci soprattutto le visite domiciliari in supporto agli obiettivi concordati, la pianificazione del trattamento e la generalizzazione degli esercizi di esposizione (Ayers, Bratiotis, Saxena, Wetherell, 2012).

Ancora, più di recente sono stati proposti gruppi di stampo comportamentale condotti da pari insieme agli operatori sociali. L’obiettivo è la riduzione dello stigma associato al Disturbo da Accumulo e la possibilità di fornire un maggiore supporto ai pazienti rispetto ai gruppi condotti unicamente da operatori della salute mentale (Frost, Ruby, Shuer, 2012).

In Italia, nel 2015 il gruppo clinico di Claudia Perdighe e Francesco Mancini ha pubblicato un manuale volto ad illustrare caratteristiche e trattamento cognitivo-comportamentale del Disturbo da Accumulo.

Forum 2016 delle Scuole di Psicoterapia – Milano, 21 e 22 Maggio 2016

Forum 2016 delle Scuole di Psicoterapia

Milano, 21 e 22 Maggio 2016 – Dalle 9.30 alle 18.30

Presso SIAM – Via Santa Marta 18

 

Due giornate in cui le scuole di psicoterapia con sede nella regione Lombardia si presenteranno agli studenti di psicologia, ai neo-iscritti e a tutti coloro che sono interessati a intraprendere una formazione specialistica in psicoterapia. Un’occasione unica per orientarsi nel variegato mondo della formazione in psicoterapia.

 

Il tema della qualità, dell’orientamento e dell’attenzione alla formazione post-lauream è una delle priorità dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL). Per informare e orientare gli studenti di psicologia, gli iscritti e tutti gli interessati su queste tematiche, OPL organizza il Forum 2016 delle Scuole di Psicoterapia con sede nella Regione Lombardia. L’iniziativa si articolerà in due giornate – 21 maggio 2016 dalle ore 9:30 alle 18:30, e 22 maggio 2016 dalle ore 9:30 alle 15:30 – presso la SIAM (Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri), un luogo con un forte valore simbolico con sede a Milano, in via Santa Marta 18.

Nel corso delle due giornate, quarantacinque Scuole di diverso orientamento avranno l’opportunità di illustrare il loro approccio con una presentazione di taglio clinico-esperienziale, volta a esemplificare il metodo formativo seguito dalla Scuola. In particolare, ogni sessione della durata di 45 minuti si articolerà in tre presentazioni in parallelo, tenute in aule diverse dell’edificio. Il calendario dettagliato degli interventi verrà pubblicato alcune settimane prima dell’evento sul sito di OPL.

Parallelamente, per l’intera durata delle due giornate, le Scuole predisporranno ciascuna un proprio “banchetto” nell’ampio cortile dell’edificio, in cui segretari ed ex allievi forniranno informazioni pratico/organizzative e ogni altro materiale utile per orientare gli interessati (opuscoli, libri ecc.).

La partecipazione all’evento è libera e gratuita. Per garantire l’accesso a tutti, è consigliabile prenotarsi all’indirizzo [email protected]

Il Forum rappresenta un’importante iniziativa di orientamento per gli studenti di psicologia e per tutti coloro che sono interessati a intraprendere una formazione specialistica in psicoterapia, sulla scia di altre iniziative strategiche di OPL in quest’ambito: fra tutte, il Portale dedicato alle Scuole di Psicoterapia sul sito web di OPL, le Giornate di formazione post-universitaria organizzate in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca, e la creazione di un tavolo permanente di discussione e confronto attivo sulla qualità della formazione post-lauream nella Regione Lombardia.

OPL crede fermamente nell’importanza di moltiplicare gli spazi e le occasioni di discussione e confronto sulla qualità della formazione post-lauream nella Regione Lombardia: un obiettivo che persegue con iniziative concrete, tese al miglioramento globale dell’offerta delle Scuole di Psicoterapia e del livello di preparazione e competenza dei futuri psicoterapeuti.

 

Ingresso libero. Per garantire l’accesso a tutti, è consigliabile tuttavia prenotarsi all’indirizzo e-mail: [email protected]

Per maggiori informazioni vai sul sito: www.opl.it

Di seguito il calendario dell’evento:

 

 

I nuovi webinars organizzati dall’Ordine Psicologi Lombardia – Aprile, Maggio, Giugno 2016

Martedì 19 aprile dalle 20.30 alle 22.00

 

webinar OPL - bottini immagine corporea

 

Alterazioni dell’immagine corporea: la prospettiva neuropsicologica

La rappresentazione del corpo deriva dall’integrazione di stimoli sensoriali, visivi e vestibolari e i suoi aspetti dinamici sono determinati dal continuo aggiornamento motorio. Possediamo conoscenze semantiche del nostro corpo nonché un’implicita conoscenza delle relazioni spaziali che intercorrono tra i suoi vari segmenti. La consapevolezza corporea è essenzialmente caratterizzata dal concetto di appartenenza o ownership che modula e dirige continuamente il nostro comportamento nell’ambiente e le nostre relazioni sociali.

In definitiva la rappresentazione del corpo dipende da numerosi componenti implicite ed esplicite esplorabili attraverso la neuropsicologia e i cui correlati neurofisiologici sono stati in parte studiati con le tecniche di neuroimaging. E’ interessante l’osservazione di soggetti con diverse lesioni cerebrali emisferiche destre e sinistre che causano alterazioni differenti di tale rappresentazione talora con sorprendenti dissociazioni comportamentali.

Relatrice: Dott.ssa G. Bottini

Gabriella Bottini è Responsabile del ‘Laboratorio di Neuropsicologia Cognitiva’ dell’ Azienda Ospedaliera Ca’ Granda Niguarda a Milano, Professore Ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica all’università di Pavia, Honorary Senior Lecturer presso l’Institute of Neurology di Londra, autrice di decine di articoli pubblicati su riviste internazionali peer-reviewed.

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 19 aprile alle 20.15 presso la sede dell’Ordine in Corso BUenos Aires 75 a Milano, o alle 20.30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

 

 

 

Martedì 17 maggio dalle 20.30 alle 22.00

 

webinar OPL- greco psicosi adolescenza

 

Terapia del break down e dell’esordio psicotico in adolescenza

Scopo della presentazione è l’illustrazione dei possibili percorsi che, a partire da situazioni traumatiche dell’infanzia (spesso misconosciute o sottovalutate dall’ambiente), conducono alle condizioni che favoriscono il break down evolutivo in adolescenza. Tali condizioni predispongono le basi per organizzazioni patologiche della personalità finalizzate a fronteggiare la sofferenza psichica, la quale a sua volta indebolisce le risorse a disposizione del giovane per affrontare il periodo di crisi fisiologica. Sarà mostrato come questi percorsi creino i presupporti per l’insorgenza della psicosi.

L’ipotesi del lavoro sottesa, riguarda la significatività del legame che intercorre tra la provvisorietà delle organizzazioni patologiche in adolescenza, e la possibilità di cogliere terapeuticamente le aree di rifugio psichico, le relative fantasie inconsce e le condizioni traumatiche del passato. In assenza della comprensione e della trasformazione delle complesse dinamiche intrapsichiche del giovane, l’organizzazione patologica è destinata a stabilizzare il suo funzionamento provocando il blocco dello sviluppo psichico e una ripetitività del funzionamento mentale che facilita l’evoluzione della psicosi in età adulta.

Attraverso la presentazione di alcuni casi clinici, saranno descritte le condizioni che sostengono la psicopatologia del giovane e le relative dinamiche familiari, nonché le modalità di cura utilizzate per l’uscita dalla crisi psicotica.

Relatore: Dott. V. Greco

Vincenzo Greco è psicologo e psicoterapeuta individuale e familiare. Psicoanalista Associato SPI e IPA. Docente presso la Scuola di Psicoterapia Area G di Milano, CoResponsabile Settore Formativo Ellisse – Psicoterapia e Psicoanalisi di Brescia

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 17 maggio alle 20.15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

 

 

Mercoledì 25 maggio dalle 21.00 alle 22.30 

 

webinar La depressione quel che la serotonina non spiega

 

La depressione: quel che la serotonina non spiega

La depressione, diventata negli anni Novanta oggetto privilegiato della psichiatria biologica e dei trattamenti farmacologici, sta tornando nelle mani degli psicoterapeuti.

A partire dall’inizio del nuovo Millennio negli Stati Uniti sono stati pubblicati un numero crescente di volumi e di articoli che mettono radicalmente in questione sia l’interpretazione biologica della depressione, sia l’efficacia dei farmaci per questa psicopatologia. I farmaci serotoninergici sono stati messi sotto accusa: di poco o affatto superiori al placebo, non solo non sembrano proteggere i pazienti da eventuali suicidi ma ne possono essere causa.

Dopo aver fatto qualche cenno a questi sviluppi recenti della letteratura, Valeria Ugazio avanzerà la tesi che la depressione cronica si sviluppi in un contesto familiare caratterizzato da un particolare modo di organizzare i significati, definito ‘semantica dell’appartenenza‘, contraddistinto emozioni definite. Le posizioni del paziente e degli altri membri della famiglia entro questa semantica saranno descritte e illustrate con esempi clinici.

Saranno inoltre esaminati gli eventi e le fasi del ciclo di vita individuale e familiare in cui più le persone con un’organizzazione propensa alla depressione sviluppano una patologia conclamata. Valeria Ugazio cercherà di spiegare anche perché così tanti scienziati e artisti siano affetti da disturbi depressivi.

Relatrice: Dott.ssa V. Ugazio

Valeria Ugazio è psicoterapeuta. Svolge la propria attività terapeutica e formativa a Milano dove dirige l’European Institute of Systemic-relational Therapies, che ha fondato nel 1999. È inoltre professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Le dinamiche familiari sono al centro dei suoi interessi. La teoria delle polarità semantiche familiari e i modelli di interpretazione dei disturbi fobici, ossessivi, alimentari e dell’umore che Ugazio ha elaborato si basano sulla premessa che anche gli aspetti più soggettivi dell’esperienza individuale siano costruiti nel dialogo.

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 25 maggio alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.45).

 

 

Martedì 7 giugno dalle 20.30 alle 22.00

 

webinar OPL - piazzalunga psicoanalisi relazione

 

La relazione in psicanalisi: significati e ricadute cliniche

La relazione è l’elemento principe che accomuna tutti gli interventi terapeutici. Pur nelle profonde differenze teoriche dei vari modelli di riferimento, è inevitabile che la psicoterapia si svolga tra due o più individui che si incontrano. Ma non è sempre stato così chiaro. L’assunzione del concetto di relazione ha rappresentato per la psicoanalisi un nuovo paradigma, permettendo, di fatto, di superare la concezione della psicoanalisi classica che vedeva la mente come una dimensione intrapsichica isolata in grado di esistere al di là di qualsiasi relazione. Come ci ricorda Minolli nel suo testo Psicoanalisi della Relazione: “trent’anni fa, in psicoanalisi, interazione era parola sporca; intersoggettività parola assente. Soggettività aveva senso oscuro e teoria della soggettività senso improbabile. […] Sapevamo che il connubio tra psicoanalisi e relazione era come l’acqua con l’olio”.

E poi cosa è cambiato? Cosa ha aperto la porta nella stanza di analisi alla relazione? L’ambito relazionale in psicoanalisi copre un ampio numero di contributi, spesso non totalmente equiparabili. Questa varietà porta a chiedersi cosa vuol dire per la clinica psicoanaliticamente orientata pensare alla relazione e alla relazione come interazione.

Definire la relazione come interazione è qualcosa che va oltre il suo significato, e che delinea anche un modo di vedere il mondo, di guardare l’uomo e quindi la terapia e l’analisi. Proveremo a rispondere a queste e altre domande nel Webinar ‘La relazione in psicanalisi: significati e ricadute cliniche’.

Relatore: Dott.ssa F. Piazzalunga

Francesca Piazzalunga è psicologa e psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe) e dell’International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS). Insegna Psicopatologia e Diagnostica clinica presso la Scuola di Specializzazione in psicoterapia ad indirizzo ‘Psicoanalisi della relazione’ di Milano. Si occupa da anni di psiconcologia esercitando presso la Divisione di Oncologia Medica dell’Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano. Con M. Rossi Monti è co-autrice di Macchine e ‘deliri bizzarri’. Psicopatologia dei disturbi dei confini dell’Io, Fioriti 2009. Per la collana ‘Psicopatologia‘ di Franco Angeli ha recentemente pubblicato Psicoanalisi e neuroscienze di fronte alla schizofrenia in ‘Psicoanalisi e schizofrenia. Un quadro in divenire‘, Franco Angeli, 2016 approfondendo l’approccio clinico della psicoanalisi relazionale a confronto con l’area della cronicità.

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 7 giugno alle 20.15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

 

 

Martedì 21 giugno dalle 20.30 alle 22.00

 

webinar OPL - salamino adozioni kintsugi

 

La ‘Kintsugi Alternative’: un approccio costruzionista al lavoro con le adozioni

Permeata da un paradigma epistemologico imperniato sulla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969) la prospettiva terapeutica sull’adozione muove sovente dal concetto di ‘primal wound’ (Verrier, 1994) per definire l’incontro tra un piccolo essere umano, ferito dall’abbandono, e due adulti a loro volta messi in scacco dall’infertilità.

Di conseguenza, la logica dell’intervento terapeutico è sostanzialmente riparativa, ossia traducibile con il lavoro sulle ferite di bambini e adulti, nel tentativo di lenire il dolore e minimizzare il danno.

Obiettivo di questo webinar è esplorare alternative terapeutiche che, muovendo da un paradigma costruzionista, si orientino verso la costruzione di nuove possibilità piuttosto che verso il contenimento del danno.

L’enfasi sulle present narratives, piuttosto che sulle past narratives, mira a restituire agentività alle famiglie, rinforzando i legami e il senso di legittimazione.

In Giappone, l’arte millenaria del Kintsugi consiste nel trasformare un oggetto rotto in qualcosa di nuovo e prezioso. Piuttosto che minimizzare la ferita dell’oggetto, le sue linee di frattura, cercando di renderle invisibili, l’arte del Kintsugi rende tali fratture evidenti e preziose. Il mio lavoro con le adozioni muove dalle stesse premesse, utilizzando la semantica e l’intreccio dei significati reciproci per riuscire laddove la biologia non può arrivare, generando la possibilità di una appartenenza reciproca.

Relatore: Dott. F. Salamino

Ferdinando Salamino è psicologo e psicoterapeuta sistemico relazionale e PhD in Psicologia Clinica. E’ Senior Lecturer in Psychology e Course Leader MSc Counselling With Children and Young People presso la University of Northampton UK e terapeuta didatta presso l’European Institute of Systemic-relational Therapies.

La sua attività clinica e scientifica ha sempre avuto il proprio centro di gravità nella complessa interazione reciproca tra significato, identità e costruzione del legame familiare.

In qualità di terapeuta sistemico con formazione costruzionista, ha sempre guardato alle famiglie come luoghi di risorse e possibilità, piuttosto che di danni e costrizioni. Con l’evolvere del suo lavoro, ha trovato questo punto di vista particolarmente utile e produttivo nell’approccio al tema dell’adozione. L’enigma terapeutico rappresentato dalle famiglie adottive, in bilico tra segreto e legittimazione, tra abbandono e appartenenza, ha rappresentato un profondo punto di svolta del suo pensiero clinico, orientandolo verso la costruzione di un modello di intervento fondato sul presente, piuttosto che sul passato.

Come partecipare:

Vi aspettiamo il 21 giugno alle 20.15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

 

 

 

Teoria cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione: evidenze scientifiche

La teoria transdiagnostica, sviluppata presso l’università di Oxford (Cooper & Fairburn, 2011; Fairburn, Cooper, e Shafran, 2003), considera i disturbi dell’alimentazione come un’unica categoria diagnostica, piuttosto che disturbi separati, e mantenuti da meccanismi comuni.

 

La teoria cognitivo comportamentale transdiagnostica dei disturbi alimentari

La teoria sostiene che l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del controllo dell’alimentazione è la psicopatologia specifica e centrale dei disturbi dell’alimentazione. Mentre le persone si valutano generalmente in base alla percezione delle loro prestazioni in una varietà di domini della loro vita (per es. relazioni interpersonali, scuola, lavoro, sport, abilità intellettuali e genitoriali, ecc.), quelle affette da disturbi dell’alimentazione si valutano in modo esclusivo o predominante in base al controllo che riescono a esercitare sul peso o sulla forma del corpo o sull’alimentazione (spesso su tutte e tre le caratteristiche).

L’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del controllo dell’alimentazione è di primaria importanza nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione: la maggior parte delle altre caratteristiche cliniche deriva, infatti, direttamente o indirettamente da essa. Per esempio, i comportamenti di controllo del peso estremi (dieta ferrea, esercizio fisico eccessivo e compulsivo, vomito autoindotto, uso improprio di lassativi o di diuretici, check ed evitamento del corpo, sensazione di essere grassi) e perseguire il raggiungimento e il mantenimento di un grave sottopeso sono comprensibili se una persona crede che il controllo dell’alimentazione, del peso e della forma del corpo siano di estrema importanza per giudicare il suo valore. L’unico comportamento non strettamente legato a questo schema di autovalutazione disfunzionale è l’abbuffata. Presente in un sottogruppo di persone affette da disturbi dell’alimentazione, sembra essere la conseguenza del tentativo di restringere in modo ferreo l’alimentazione o, in taluni casi, di modulare eventi ed emozioni associati all’ allentamento del controllo dell’alimentazione che si verifica quando sono usati comportamenti di compenso (per es. vomito autoindotto, uso improprio di lassativi e diuretici) dopo gli episodi bulimici.

 

I fattori di mantenimento dei disturbi alimentari

Le varie manifestazioni cliniche dei disturbi dell’alimentazione a loro volta mantengono in uno stato di continua attivazione lo stato mentale del disturbo dell’alimentazione e assieme ad esso formano i cosiddetti meccanismi di mantenimento interni o specifici (perché sono presenti solo in questi disturbi).

La teoria transdiagnostica propone che in un sottogruppo di pazienti siano presenti uno o più dei seguenti meccanismi di mantenimento esterni o non specifici (perché sono presenti anche in altre problematiche psicologiche): (i) perfezionismo clinico; (ii) bassa autostima nucleare; (iii) difficoltà interpersonali e (iv) intolleranza alle emozioni. I fattori di mantenimento esterni, se presenti, interagiscono con quelli interni nel perpetuare il disturbo dell’alimentazione attraverso vari meccanismi (Figura).

teoria transdiagnostica dei disturbi alimentari

Figura. La teoria transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione.

I box grigi rappresentano i meccanismi di mantenimento esterni. “Vita” è l’abbreviazione di difficoltà interpersonali. “Intolleranza alle emozioni” è stata successivamente inclusa nei meccanismi di mantenimento interni. (Adattata da Fairburn, Cooper and Shafran, 2003).

 

Evidenze che supportano la teoria transdiagnostica

La teoria transdiagnostica dei disturbi dell’alimentazione è supportata da numerose evidenze derivate da due linee di ricerca: (i) studi descrittivi, comparativi e sperimentali delle caratteristiche cliniche di questi pazienti (Grilo, 2013; Shafran, Lee, Cooper, Palmer, & Fairburn, 2007; Shafran, Lee, Payne, & Fairburn, 2007; Watson, Raykos, Street, Fursland, & Nathan, 2011); (ii) studi cross-sectional che hanno valutato il modello transdiagnostico in campioni di pazienti che hanno richiesto un trattamento e in campioni della collettività usando modelli di equazioni strutturali.

 

Studi sulle caratteristiche cliniche dei pazienti

Nei pazienti con bulimia nervosa è stata dimostrata: (i) la relazione tra eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo e cambiamenti della restrizione dietetica cognitiva e delle abbuffate nel corso del tempo (Fairburn, Stice, et al., 2003); (ii) l’associazione tra abbuffate e restrizione calorica auto-riferita (Zunker et al., 2011); (iii) l’associazione tra aumento della preoccupazione per il peso e incremento della frequenza del vomito autoindotto e della restrizione dietetica (Spangler, Baldwin, & Agras, 2004); (iv) la mediazione della riduzione della restrizione dietetica durante il trattamento e la riduzione delle abbuffate (Wilson, Fairburn, Agras, Walsh, & Kraemer, 2002).
In campione transdiagnostico di pazienti con bulimia nervosa e anoressia nervosa è stata dimostrata l’esistenza di una relazione reciproca tra eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, restrizione dietetica ed esercizio fisico eccessivo e compulsivo (Tabri et al., 2015).

 

Studi cross-sectional che hanno usato i modelli di equazioni strutturali

I risultati di uno studio che ha confrontato la teoria cognitivo comportamentale originale con la versione migliorata (includendo anche dei fattori di mantenimento aggiuntivi) in pazienti con bulimia nervosa e forme atipiche del disturbo, supportano entrambi i modelli teorici, ma la versione migliorata spiega una più grande porzione della varianza (Lampard, Byrne, McLean, & Fursland, 2011).

I risultati di due studi eseguiti su campioni transdiagnostici, uno su pazienti inviati per un trattamento intensivo in un centro di cura di terzo livello (Lampard, Tasca, Balfour, & Bissada, 2013) e uno che ha confrontato i modelli originale e migliorato in pazienti inviati in alcuni centri specialistici italiani (Dakanalis, Carrà, et al., 2014), hanno fornito supporto alla teoria, sebbene il grado di supporto sia diverso per i vari gruppi diagnostici e per alcune relazioni testate dai modelli strutturali; inoltre la restrizione dietetica è stata trovata associata solo indirettamente con le abbuffate. Infine, altri due studi sulla collettività hanno fornito supporto alla teoria (Dakanalis, Timko, Clerici, Zanetti, & Riva, 2014; Hoiles, Egan, & Kane, 2012).

Prozac: una nuova cura per la sindrome premestruale?

Il trattamento con il Prozac delle donne che soffrono di Sindrome Premestruale (SPM)  determina l’abbassamento di vari disturbi quali ansia, aggressività e disforia.

Angela De Figlio, Ginevra Di Matteo 

 

Introduzione

Novità in campo scientifico dimostrano come il principale meccanismo d’azione dell’ antidepressivo più venduto al mondo, intervenga sul mal funzionamento dei neurosteroidi. Nelle donne con sindrome premestruale in fase luteinica del ciclo, si rilevano basse concentrazioni del neurosteroide allopregnenolone, che normalmente esplica effetti sedativi ed ansiolitici, ma che in caso di ridotta produzione causa malessere e alterazione dell’ umore. In seguito a tale scoperta, viene proposta la somministrazione del Prozac a basse dosi ‘non serotonina-sensibili’, in modo da ridurre i pericolosi effetti collaterali, pur agendo in egual modo sui tratti tipici della sindrome premestruale e dalla sua forma più grave (il Disturbo Disforico Premestruale o DPMD) quali aggressività e rabbia.

La sindrome premestruale: sintomatologia

Molte donne in età fertile, durante il periodo mestruale sperimentano una sofferenza sia fisica che psichica, caratterizzata da un insieme di disturbi di variabile entità. Disturbi che non comportano un indebolimento funzionale, ma che sono minimamente dolorosi sono definiti ‘sintomi premestruali minori’, mentre ben più seria e invalidante è la condizione oramai nota a tutti come Sindrome Premestruale (SPM).

Essa si riferisce ad una vasta gamma di sintomi particolarmente fastidiosi e dolorosi, che in genere si manifestano da 5 a 11 giorni circa dall’inizio del ciclo mestruale mensile in una donna e i più comuni sono i seguenti: emicrania, gonfiore e pesantezza addominale, disturbi articolari e muscolari, astenia, aumento dell’appetito, difficoltà di concentrazione, alterazione dell’umore, irritabilità, ostilità, aggressività.
Nonostante la variabilità di questi disturbi da donna a donna, la gravità della condizione si definisce principalmente in base al grado di interferenza con le attività quotidiane, lavorative e relazionali. La forma più severa di sindrome premestruale, ovvero il Disturbo Premestruale Disforico (DPMD), è attualmente riconosciuta come una vera e propria condizione patologica, diagnosticabile secondo precisi criteri del Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali nella quinta versione. L’inclusione all’interno del DSM-5, è stata supportata dall’ ‘esplosione’ della ricerca negli ultimi 20 anni, che ha convalidato l’esistenza di gravi sintomi, tra cui i più rilevanti sono instabilità emotiva, irritabilità e rabbia, nella fase luteinica del ciclo mestruale (fase che inizia a seguito dell’ovulazione) (Epperson et all, 2012).

Un interessante studio di recentissima pubblicazione (Ducasse et all., 2016), ha sottolineato proprio l’associazione tra il tratto della rabbia con la sindrome premestruale e il disturbo premestruale disforico.

Lo studio

Campione di studio:

Sono state coinvolte 232 donne ospedalizzate per tentato suicidio , di età media di 33.80 anni (range 18.05- 53.55). Nello specifico, il 50% di esse soffriva di sindrome premestruale (grave o no; n= 166), tra queste pazienti con sindrome premestruale il 44,7% (n=51) soffriva di disturbo premestruale disforico.

Scopo dello studio:

L’obiettivo era quello di valutare la relazione tra le dimensioni di personalità coinvolte in maniera più specifica nella vulnerabilità suicidaria e la presenza di sindrome premestruale o di disturbo premestruale disforico, in quanto si è osservato un rischio maggiore nella messa in atto di comportamenti autolesionistici, nelle donne affette da queste due patologie rispetto a quelle senza (le prime sono 2 o 3 volte più propense a riportare nel corso della loro vita ideazione, pianificazione, tentativi concreti di suicidio, indipendentemente dalla compresenza di disturbi psichiatrici).

Metodo utilizzato per lo studio:

Per effettuare la valutazione, gli autori dello studio hanno creato un algoritmo dalla versione abbreviata del PAF (Premenstrual Assessment Form). Si tratta di un questionario autosomministrato con 33 items, che identifica il cambiamento dell’umore, il comportamento e lo stato fisico durante il periodo premestruale (da 1 a 14 giorni prima dell’inizio delle mestruazioni), a cui sono state sottoposte le donne del campione. La diagnosi di sindrome premestruale veniva effettuata con riferimento al cut- off clinico di 115, per cui, punteggi pari o superiori a tale valore erano indicativi della presenza di sintomi di moderata o severa entità.

Si è poi proceduto con la presa in esame dell’associazione tra fattori di personalità (impulsività, aggressività, ostilità, instabilità emotiva, mancanza di aiuto, labilità affettiva e rabbia) coinvolti nella vulnerabilità suicidaria e i disturbi premestruali, tramite il controllo dei fattori ‘confondenti’ quali: covariabili demografiche (età, stato civile, presente occupazione, controllo ormonale delle nascite con uso di contraccettivi) e comorbilità psichiatriche (depressione maggiore, disturbo bipolare, disturbo d’ansia, disturbo da uso di sostanze /alcolici e uso di tabacco, violenza o gravità dei tentativi di suicidio).

Risultati e Conclusioni:

I dati emersi suggeriscono che le donne con sindrome premestruale e disturbo premestruale disforico sono più suscettibili di presentare molti dei tratti di personalità sopracitati, rispetto alle donne senza disturbi. La frequenza di sindrome premestruale e di disturbo premestruale disforico nelle donne che hanno tentato il suicidio è stata stimata del 50% per la prima condizione e del 23% per quanto riguarda la seconda.

Le conclusioni dello studio sono sintetizzabili innanzitutto, nella individuazione di un pattern di personalità di tipo impulsivo- aggressivo e una chiara disregolazione emotiva riscontrati nelle donne con sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale, indipendentemente dal tempo del ciclo mestruale. Inoltre, interessante è stato anche rilevare come il tratto della rabbia sia rimasto fortemente associato ad entrambe le condizioni, in modo indipendente da tutti gli altri tratti di personalità presi in esame; per cui più alto è il livello di rabbia e maggiore è il rischio di soffrire di sindrome premestruale e di disturbo premestruale disforico.

Tuttavia, quella appena descritta non costituisce l’unica evidenza sperimentale rispetto al riconoscimento del tratto della rabbia, quale fondamentale elemento personologico associato alla sindrome premestruale. Infatti, è possibile citare un ulteriore studio scientifico condotto da Liu e collaboratori nel 2015, i quali hanno dimostrato una diminuzione dei livelli di GABA (acido gamma amino butirrico, che agisce come principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello) nella regione della corteccia cingolata anteriore (CCA) e della corteccia prefrontale mediale (CPFm) in donne con disturbo premestruale disforico, associati ad alti livelli di rabbia. In tal modo si è evidenziato il ruolo giocato dal sistema del GABA, la cui disregolazione nell’attività cerebrale, in donne con sindrome premestruale e disturbo premestruale disforico, sembra sia coinvolta nel comportamento suicida.

Anche la serotonina, com’è stato ampiamente descritto in varie ricerche, sembra sia coinvolta sia nei succitati disturbi che nel comportamento suicidario. Saunders e Hawton (2006), a tal proposito, suggeriscono che alte concentrazioni di serotonina, presenti nella fase in cui solitamente si ha una bassa produzione di estrogeni nel ciclo mestruale (fase luteinica), possano accrescere la probabilità di agire un comportamento suicida. Si ritiene infatti, che ci sia un’associazione, peraltro ben documentata, tra suicidio e sistema serotoninergico mediato dal discontrollo dell’aggressività, quest’ultima espressione comportamentale della rabbia. Nella sindrome premestruale la terapia di prima scelta è comunemente riconosciuta nella somministrazione di SSRI, farmaci antidepressivi ad oggi i più usati.

In realtà, dobbiamo ad un grande ricercatore nonché neuropsichiatra italiano, il professor Graziano Pinna, la scoperta del reale meccanismo di azione di questi farmaci, che prima si riteneva agissero semplicemente incrementando la serotonina a livello cerebrale. La novità apportata dagli esperimenti condotti dal Professor Pinna, in collaborazione con altrettanti luminari quali Alessandro Guidotti ed Erminio Costa, operanti nel Department of Psychiatry presso la University of Illinois di Chicago, riguarda non tanto l’effetto dei farmaci SSRI sulla serotonina, considerato come meccanismo secondario, bensì la stimolazione, in seguito all’assunzione di tali molecole, della produzione di neurosteroidi (ormoni fondamentali per alcune funzioni cerebrali), riconosciuto come meccanismo d’azione principale.

Proprio nelle donne con sindrome premestruale e disturbo premestruale disforico, infatti, si sono individuati nella fase luteinica livelli bassi di allopregnenolone, un neurosteroide presente nel sangue e nel cervello dagli effetti ansiolitici e calmanti. Per tale ragione, si è pensato di proporre l’uso del Prozac, in quanto antidepressivo SSRI più diffuso nella pratica clinica, assunto a basse dosi per garantire una produzione continua di questo steroide nel cervello, che normalmente tende a diminuire verso la fine del ciclo mestruale, periodo in cui si verificano i sintomi della sindrome premestruale. L’enorme vantaggio che ne deriverebbe dalla somministrazione del Prozac a bassi dosaggi, descritto dal Professor Pinna, consiste in una stimolazione selettiva dei neurosteroidi da parte di tale farmaco, senza determinare effetto alcuno su altri neurotrasmettitori come la serotonina, riducendo in tal modo la comparsa degli effetti collaterali associati all’assunzione di questa classe di farmaci, da qui il suggerimento per il nuovo nome di SBSS (selective brain steroidogenic stimulants- stimolanti selettivi della steroidogenesi).

E’, dunque, comprensibile ritenere che tale scoperta possa avere un forte impatto sociale, considerando che circa l’80% delle donne hanno bruschi cambiamenti d’umore durante la fase finale del ciclo, oltre a consentire la progettazione, in un prossimo futuro, di farmaci per trattare ansia, disordini affettivi, dell’umore, disforia, aggressività e depressione associati al periodo mestruale.

Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia di Jung e Pauli – Recensione

L’epistolario tra un grande psicologo e un grande fisico legati dalla comune fede nel valore euristico universale della psicologia analitica.

Furono Freud e Einstein gli autori dello scambio di lettere più famoso del Novecento tra uno psicologo e un fisico. Si tratta tuttavia di lettere singole, concepite fin dall’origine per la pubblicazione. L’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale in seno alla Società delle Nazioni intendeva promuovere il dialogo epistolare tra esponenti di spicco della cultura mondiale con l’intento di renderne pubblico il contenuto. Einstein, una volta contattato, propose il nome del padre della psicoanalisi. Ne risultarono le due lettere (una di Einstein e una di Freud) note in italiano con il titolo “Perché la guerra?”. Freud vi ha modo di ribadire la sua teoria della pulsione di morte e di ammonire l’umanità sui rischi dell’autodistruzione (Einstein e Freud, 1932). Il rapporto tra Freud e Einstein fu amichevole ma non condusse a rilevanti reciproche influenze. Freud, anzi, scherzando con Ernest Jones ebbe modo di affermare che la reciproca cordialità era dovuta anche al fatto che Einstein capisse di psicologia quanto Freud capiva di fisica – ovvero nulla (Jones, 1957, p. 162).

 

L’epistolario tra Jung e Pauli

Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli rivestono probabilmente un’importanza relativamente minore di Freud e Einstein nelle rispettive discipline, per quanto si tratti di figure comunque di assoluto rilievo. Il loro epistolario, d’altra parte, riveste un’importanza storica notevolissima, testimoniando una profonda reciproca influenza umana e teorica, protrattasi nell’arco di un lunghissimo periodo (1930-1958). Più di settanta lettere sono raccolte nell’edizione curata da Carl Alfred Meier (fisico e psicologo analista) e appena tradotta in italiano per Moretti e Vitali: vari indizi lasciano supporre che altre lettere siano andate perdute.

Nel 1930 Pauli affrontò un’analisi junghiana breve quanto proficua in un momento di crisi. Decise nondimeno di incontrare periodicamente in persona lo stesso Jung fra il 1932 e il 1934. A partire dalla prima analisi, Pauli produsse centinaia di sogni, molti dei quali sono riprodotti (anonimamente) in sequenza in una delle opere più note di quello che si potrebbe definire il “secondo Jung”, ovvero Psicologia e alchimia. Com’è noto, infatti, la maggior parte delle innovazioni teoriche rilevanti della psicologia analitica risale al periodo 1913-1921, ovvero dal momento del distacco da Freud alla pubblicazione di Tipi psicologici.

La produzione successiva di Jung è dedicata ad approfondire i temi legati all’esistenza dell’inconscio collettivo. Una serie di scritti apparsi a partire dagli anni trenta del Novecento si concentra in particolare sul simbolismo dell’alchimia, che costituisce a parere di Jung un tentativo inconsapevole di illustrare la profonda trasformazione spirituale necessaria all’umanità. In questo senso la ricerca di cambiare la materia vile in oro esprimerebbe una metafora di ciò che Jung chiama il processo di individuazione, ovvero il percorso che porta l’essere umano a conoscere la propria vera natura. Non sarebbe privo di significato, da questo punto di vista, il motto alchemico spesse volte ripetuto: “aurum nostrum non est aurum vulgi” (il nostro oro non è quello del volgo). I sogni di Pauli costituiscono, ad avviso di Jung, una testimonianza particolarmente significativa di come gli archetipi dell’inconscio collettivo trovino espressione nel mondo onirico, variando singoli elementi eppure riproponendo simbolismi assai simili attraverso lo spazio e il tempo. La circostanza che attraverso l’alchimia lo studio della materia riconducesse allo studio della psiche affascina Pauli, che si propone di contribuire come fisico al rinnovarsi di un simile scambio. La psicologia analitica diviene così, per Jung e Pauli, una sorta di equivalente moderno dell’alchimia.

 

Il rapporto tra Jung e Pauli, un rapporto tra mondo psichico e mondo fisico

Pauli, all’inizio del carteggio, pur essendo uno scienziato già noto, si rapporta a Jung come a una figura paterna (Jung del resto era di venticinque anni più anziano). Le sue considerazioni riflettono un’accettazione convinta della psicologia analitica junghiana. Nelle primissime lettere emergono sia alcuni problemi nevrotici già affrontati e risolti nel percorso analitico (come la fobia delle vespe), sia alcune ipotesi interpretative su di sé e sul rapporto con la compagna nelle quali Pauli adotta una terminologia specificamente junghiana (Animus, Ombra etc.). Tuttavia, fin da subito il più giovane fisico si dimostra tutt’altro che passivo di fronte alle interpretazioni junghiane del proprio universo onirico: per esempio propone delle chiavi di lettura diverse da quelle junghiane proprio per i sogni destinati alla pubblicazione.

Jung, da parte sua, considera l’incontro con Pauli un’occasione fondamentale per mettere alla prova nel dialogo con un illustre esponente delle scienze hard alcune delle proprie ipotesi più speculative sulla natura della mente e sul rapporto tra mondo psichico e mondo fisico. Va rilevato, da questo punto di vista, che l’atteggiamento di Jung è molto cauto, nelle opere edite, a proposito della natura degli archetipi dell’inconscio collettivo. Lo psicologo svizzero sembra oscillare tra l’idea che l’essere umano possa ereditare dei contenuti appartenenti all’esperienza umana primordiale e l’idea che ereditaria sia soltanto la potenzialità di tali contenuti. Come Freud, Jung sembra attratto dalle ipotesi lamarckiane ma cauto di fronte alle stringenti riserve opposte dai biologi evoluzionisti.

Pauli però si mostra molto incline a sostenere Jung anche istituendo paralleli tra la psicologia analitica e la fisica teorica (p. es. pp. 60-61). Trovando in uno scienziato un interlucutore così vicino alle proprie posizioni Jung si mostra pronto a sviluppare una sorta di metafisica psicologica universale. Si prenda in considerazione questo passo: [blockquote style=”1″]In generale ci si immagina l’inconscio come un dato di fatto psichico di un individuo. L’autoraffigurazione elaborata dall’inconscio a partire dalla sua struttura centrale non si accorda tuttavia con questa versione, bensì tutto indica che la struttura centrale dell’inconscio collettivo non può essere fissata spazialmente, ma si configura come esistente dappertutto, in modo sempre identico a se stessa, che deve essere pensata come aspaziale e quindi, se proiettata nello spazio, deve trovarsi ovunque nello spazio[/blockquote] (Jung a Pauli, 14/10/1935, p. 63).

Jung e Pauli condivisero anche la convinzione che i fenomeni parapsicologici fossero reali (all’epoca, del resto, le dimostrazioni di Rhine venivano da molti considerate scientificamente solide). Pauli, per esempio, considerava non casuale il fatto che assai spesso le apparecchiature destinate a esperimenti di fisica applicata; ancora oggi, del resto, la circostanza che esperimenti falliscano a causa di un guasto tecnico in presenza di un fisico teorico viene scherzosamente chiamata un esempio di «effetto Pauli». Jung ipotizzò l’esistenza di legami «significativi a-causali» tra fenomeni, per spiegare l’esistenza di nessi razionalmente inspiegabili ma comunque reali. L’effetto Pauli non costituiva altro che un esempio di tali nessi, che Jung definiva sincronistici. Fu proprio Pauli a insistere perché Jung organizzasse i propri pensieri sulla sincronicità in un testo (Jung a Pauli, 22 giugno 1949, p. 89), che vide infine la luce nell’unica pubblicazione che Jung e Pauli firmarono insieme: Naturerklärung und Psyche (Spiegazione della natura e psiche; Pauli e Jung, 1952). I due saggi che componevano il libro originale sono stati tradotti in italiano ma separatamente: lo scritto di Jung nel volume 8 delle Opere (Jung, 1952) e quello di Pauli nella raccolta Psiche e natura (Pauli, 1952).

 

L’edizione italiana del volume

L’editore italiano ha opportunamente affidato la cura del volume a un fisico teorico (Antonio Sparzani) e una psicologa analista (Anna Panepucci). La traduzione è arricchita da una serie di appendici che comprendono in effetti anche lessici dei termini fisici e dei termini psicologici (limitati ma comunque utili). Si tratta dunque di un’edizione migliorata rispetto alla prima italiana (Il Melangolo, 1999) peraltro da tempo esaurita.

Quando Cenerentola disse di no: l’assertività al femminile

Essere assertivi significa essere in grado di esprimere i propri bisogni ed i propri sentimenti all’interno dello spazio condiviso delle relazioni, rispettando i bisogni ed i diritti degli altri; significa essere capaci di intessere rapporti autentici all’interno dei quali esprimere liberamente i propri punti di vista, senza sentirsi in dovere di compiacere gli altri a tutti i costi; comunicare apertamente le proprie emozioni, anche le più complesse, come, ad esempio, il disaccordo, senza per questo, sperimentare, successivamente, sensi di colpa.

 

La favola di Cenerentola

[blockquote style=”1″]Purtroppo viviamo in una società, che sviluppa varie forme di finzione, che scoraggia la sincerità a favore della falsità. All’interno di tutto ciò alle donne viene dato il compito doppiamente difficile di partecipare abilmente a questi giochi sociali e, allo stesso tempo, di dover fingere un’assenza di bisogni spirituali.[/blockquote] Arnold M. Lazarus.

Quando Cenerentola disse di NO accaddero fatti meravigliosi: la zucca mutò in carrozza, i topolini diventarono splendidi destrieri, gli stracci sporchi di cenere e consumati da un estenuante sacrificio si trasformarono in un abito magnifico e, per finire, le scarpette di cristallo! Poi, l’essenziale comparsa del Principe Azzurro che salvò Cenerentola dalla malvagità di matrigna e sorellastre prendendola con sé e portandola (forse, rinchiudendola…) nel suo bel castello! Il seguito della storia di Cenerentola viene solitamente liquidato in poco più di due parole: “E vissero felici e contenti… The End.” , di più non è dato sapere.

Siamo sicuri che sia andata proprio così?
Perché, Cenerentola, trova così difficile dire di No? Cosa crede, cosa pensa di sé? Cosa prova? E perché solo a quel punto della sua triste storia, fatta di perdite, abusi e soprusi, trova il coraggio di ribellarsi alle imposizioni ed ai divieti delle perfide donne e di sfidare il destino? Perché, Cenerentola, arriva a credere che possa essere riscattata da una vita triste ed insoddisfacente solo dalla provvidenziale apparizione di questa variabile interveniente esterna, tal Azzurro Principe?

Assertività: tutti ne parlano, ma in pochi la conoscono…

 

L’assertività

Essere assertivi significa essere in grado di esprimere i propri bisogni ed i propri sentimenti all’interno dello spazio condiviso delle relazioni, rispettando i bisogni ed i diritti degli altri; significa essere capaci di intessere rapporti autentici all’interno dei quali esprimere liberamente i propri punti di vista, senza sentirsi in dovere di compiacere gli altri a tutti i costi; comunicare apertamente le proprie emozioni, anche le più complesse, come, ad esempio, il disaccordo, senza per questo, sperimentare, successivamente, sensi di colpa.

Per vivere in piena armonia con le altre persone e con se stessi, è indispensabile avere piena consapevolezza del proprio valore personale, avere una buona autostima, avere chiara coscienza della propria dignità di essere umano.

 

L’assertività delle donne nella società contemporanea

Le donne assertive, rarissime mosche bianche, risultano solitamente scomode perché spiazzano: dicono quello che pensano, sono sicure di sé, non si lasciano ferire, non mutano idea rispetto al proprio valore personale; hanno perfettamente chiari i propri diritti e le proprie esigenze e si muovono nel rispetto dei diritti e dei bisogni degli altri. Sono capaci di affermare la propria identità, i propri principi; sono efficaci quando si tratta di trovare spazio e tempo adeguati per l’espressione delle proprie emozioni, dei propri desideri, di ciò che sentono nel profondo; affrontano la paura di comunicare un No che probabilmente avrà un prezzo da pagare, che implicherà il rischio di risultare impopolari, il rischio di piacere di meno o, addirittura, non piacere affatto.

Nella nostra cultura, purtroppo, è da sempre consuetudine educare le femmine ad assumere un atteggiamento oblativo, ad essere sempre perfette e graziose, a compiacere, mettendo sempre in primo piano la soddisfazione dei bisogni degli altri, a votarsi al sacrificio personale in nome della famiglia, dei figli, del lavoro…

In un mondo in cui sembra che femminile debba per forza far rima con servile e sacrificabile; in cui le donne sono state abituate a chiedere, esprimere meno, pochissimo, in termini di bisogni, esigenze, emozioni, e ad avere meno, in termini di diritti, di lavoro, denaro, opportunità sembra altrettanto scontata l’enorme fatica di una donna, abituata ad essere passiva, a concepire la possibilità di esprimere assertivamente ciò che prova (disaccordo, tristezza, paura, rabbia), di comunicare le proprie esigenze, di dire quel No (sempre nel rispetto dei diritti e dei bisogni altrui) che potrebbe dispiacere qualcun altro.

Pensiamo, nello specifico, ad una giovane donna e madre, agli inizi di una faticosa carriera lavorativa, sulla quale abbia già investito tanto, che decida di non allattare al seno il proprio figlio e rientrare a lavoro entro breve tempo: non è difficile immaginare le critiche subite, asprissime; la disapprovazione ed il disprezzo da parte delle altre, superdonne, e di una abbondante fetta della comunità in cui vive. Probabilmente il costo di questa decisione, quando non sostenuta da una chiara coscienza del proprio valore personale, delle proprie esigenze, dei propri diritti di donna, di essere umano e della propria identità, sarà il tormento derivante dalla credenza indotta di essere una cattiva madre, un’egoista, ed il logorio dei sensi di colpa instillati da un ambiente a cui, per il suo NO, la donna smette di piacere e risulta una nota stonata.

Il sistema a cui appartiene, vuole che la donna, in quanto tale, debba imprescindibilmente prestarsi a compiere i sacrifici più estremi, smettere di sentirsi, smettere di essere, non pensare di esprimere i propri diritti, desideri e la propria volontà, in questo caso specifico, quella di non allattare al seno e di riprendere, velocemente, a curare la propria realtà professionale. La domanda di molti è stata: Perché ha deciso di mettere al mondo un figlio se poi vuol continuare a fare la donna in carriera? Sembra che non conti il fatto che il figlio, questa donna, come tutte le altre, non lo abbia fatto da sola, ma sia stato un progetto condiviso con un’altra persona, un padre, che però è un uomo e, grazie a questo, gli è riconosciuto il diritto di non distrarsi dalle proprie ambizioni, dalla propria realizzazione personale e professionale.

È assai comune che le donne, una volta diventate madri, siano poco tutelate soprattutto dal punto di vista lavorativo; capi e colleghi diventano, solitamente, molto poco tolleranti nei confronti di una madre le cui esigenze sono notevolmente cambiate. Alle donne, troppo spesso, non vengono concesse sfumature: siate tutte uguali! Desiderate ciò che è stabilito e giusto per gli altri! Non si esca fuori dal coro, pena il giudizio e l’allontanamento: adeguati o sei fuori. Dopo il concepimento, il più delle volte, viene accordata alle donne una sola possibilità, ovvero riconoscersi ed essere riconosciute nel ruolo di madre, perché, opinione comune vuole che una donna non sia più credibile in altri ruoli; un figlio è una distrazione troppo grande, una madre diventa un elemento inaffidabile, un terno al lotto, una bomba ad orologeria, di cui è meglio cercare di disfarsi… Cara donna, adegua, dunque, le tue esigenze al figlio (che hai già partorito con incommensurabile dolore e rischiando la vita) ed alla famiglia: la tua vita, d’ora in poi, saranno loro; in futuro, quando non avranno più bisogno di te, al costo di sacrifici inimmaginabili, forse, potrai tornare a pensare a te stessa ed alla tua professione ma, adesso, non sei più utile altrove…

Per alcune donne, scegliere di dedicarsi completamente alla famiglia, di accompagnare i propri figli durante la crescita, è una scelta voluta, sentita nel profondo del cuore, nella quale trovano piena realizzazione. Per altre donne, no. Il loro desiderio è, piuttosto, quello di trovare un giusto compromesso fra il ruolo abnegante di madre e gli altri ruoli, altre identità; sentono che, questa, è la cosa più giusta per il loro benessere. La tetta non è sempre garanzia d’amore né un biberon sfibra o riduce il bene profondo nutrito per i figli e la famiglia e, poi: meglio un biberon messo a disposizione con desiderio ed affetto o un capezzolo messo in bocca a malincuore?!

Purtroppo, però, la mancanza di assertività non permette ad una donna di comunicare, di trovare il modo per esprimere al compagno, ai familiari, o al datore di lavoro, ai colleghi che le proprie necessità sono cambiate, che ha il diritto di continuare a curare la propria professione e di continuare a contare sulla propria autonomia economica e che per questo ha bisogno e diritto al sostegno e ad una maggiore collaborazione. Piuttosto, la tendenza delle donne, in questi casi, è quella di assumere un atteggiamento remissivo, preferendo non rischiare, non esporsi, non esprimersi, sopportando, accontentandosi, adeguandosi, rinunciando-si…

Molte donne, come Cenerentola, imparano a vivere per la felicità altrui, senza mai porre limiti alle richieste degli altri, della società, e questo, spesso, accade per anni, qualche volta, per una vita intera. I capelli, giorno dopo giorno, vengono seccati dalla cenere, lo sguardo si spegne e le mani, la schiena, la vita appaiono logorate dal costante tentativo di tenere tutto sempre in ordine, unito, funzionante ed apparentemente perfetto; la mente non ha più spazio per l’immaginazione, per il desiderio di realizzazione personale, per l’ambizione; il cuore piccolo, troppo spesso pieno solo di una passiva speranza e della ferma credenza che solo l’arrivo di qualcuno, dal di fuori di loro stesse, possa salvarle, possa consentire loro di stare meglio.

Le donne anassertive non nutrono fiducia nei loro confronti, né nei loro pensieri, o nelle loro decisioni; non sono mai sicure, non si percepiscono forti né efficaci; non si sentono competenti e non credono in una loro personale capacità di apportare cambiamento; non si sentono mai veramente protagoniste della propria vita (non lo sono…), vivono la vita che qualcun altro ha pensato per loro e finiscono per non sapere più chi sono. Poi, all’improvviso, il dramma di non riconoscersi e di sentirsi soffocare dalla angoscia di una vita non voluta; il peso di quei sì, quasi mai sentiti, diventa insopportabile ed esplode la rabbia, incontenibile, assieme a tante altre fortissime emozioni. In queste occasioni incerte, dove la lucidità viene meno, vengono spesso prese le decisioni più improbabili e compiuti i celebri passi più lunghi della gamba, come Cenerentola che pensa di aver trovato la sua unica via d’uscita, la sua salvezza nel principe Azzurro ma, in realtà, di nuovo, affida la sua vita a qualcun altro, decide di salire con i suoi sogni, le sue speranze e il suo stesso corpo sul cavallo bianco e si aggrappa tenacemente al principe Azzurro, che la porta con sé in un castello che potrà facilmente, ancora una volta, trasformarsi in una gabbia stretta e soffocante.

Purtroppo, nella realtà, i comportamenti avventati, impulsivi, non ponderati, le esplosioni improvvise raramente si concludono con un “visse felice e contenta…”, ma il più delle volte, si tratta di imprese funamboliche destinate a fallire, di guizzi di falsa audacia, tentativi vacillanti, atteggiamenti che perdono mordente nel giro di poco tempo: una caduta nel vuoto; e cadere male, quasi sempre, fa male…

L’assertività, in sostanza, si declina nella capacità di svincolarsi dalla tendenza (purtroppo tipica di molte donne), di porsi in maniera sottomessa all’interno delle relazioni, nell’essere in grado di riuscire finalmente a dire NO quando è quello che si desidera; nella capacità di scegliere per se stessi senza delegare ad altri; nel non farsi tormentare dai sensi di colpa quando le proprie decisioni non sono condivise. Questo affrancamento dalla mancanza di assertività non deve tradursi nella volontà di affermarsi con aggressività o insolenza, cercando di prevaricare l’altro a tutti i costi; l’obiettivo non è quello di diventare cattive, o di trasformarsi in [blockquote style=”1″]galline da combattimento…, ma …diventare donne battagliere, che vogliono e sanno imporsi, amanti della vita: niente di più, ma anche niente di meno.[/blockquote] (Ute Ehrardt)

Generalmente, tutti, per imparare a scrivere fluentemente, abbiamo impiegato anni; ciò dovrebbe far riflettere sul fatto che se una persona ha funzionato per tanto tempo in un determinato modo e seguendo determinati schemi non può improvvisamente cambiare, ma deve essere disposta ad esercitarsi, a mettersi in gioco con criterio, ad avere il coraggio di provare e rischiare responsabilmente. È necessario imparare a sentire le proprie emozioni, a mettere in atto tanti tentativi, piccoli passi per ottenere dei cambiamenti concreti e duraturi. Questo comporta anche concedersi la possibilità di fallire e di tollerare i propri fallimenti, soprattutto, all’inizio di un cambiamento così importante come quello verso l’assertività.

Potrebbe essere un buon inizio riconoscere le proprie difficoltà, comprendere, ad esempio, in quali circostanze si funziona in maniera non assertiva; cosa ci accade in quelle situazioni? Cosa proviamo? Quali pensieri ci passano per la mente che non ci aiutano e ci impediscono di essere assertive? Quale potrebbe essere un pensiero più utile ai nostri scopi, che possa aiutarci concretamente a mettere in atto un comportamento più funzionale al nostro benessere? È indispensabile essere maggiormente presenti a se stesse per riuscire a porre le basi per il cambiamento. Pensarsi, volersi bene, riconoscersi come persone detentrici di diritti e con i propri bisogni da imparare ad esprimere chiaramente; accettare le critiche senza farsi travolgere; accettare il rischio di risultare meno popolari e meno piacevoli e, nonostante questo, continuare ad amarsi, andare avanti e ad avere una buona stima di sé.

Rinunciare ad esprimere le proprie emozioni, i propri desideri e i propri diritti, al cospetto dei desideri e dei bisogni degli altri, implica il pagamento di un prezzo inestimabile: perdere il senso di sé.

Flessibilità al lavoro: tra rischio e protezione

Per flessibilità lavorativa si intende infatti la capacità del lavoratore di gestire in maniera autonoma la propria carriera, pronto a non rimanere al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma piuttosto dimostrando di poter mutare più volte, nel corso della propria vita, la propria posizione lavorativa e/o il proprio datore di lavoro.

 

La flessibilità è la capacità di un materiale di subire una forza modificando la propria forma e mantenendo la capacità di ritornare allo stato originario.

Questa definizione esprime due concetti chiave:
1- La capacità di resistere a una forza modificando la propria forma, proprio come fanno i rami degli alberi quando tira un forte vento;
2- La capacità di ripristinare la forma originaria, una volta cessata la forza.

Detto in questi termini, sembrerebbe una qualità altamente desiderabile. Idealmente parlando, il comportamento umano dovrebbe essere così: in grado di adattarsi al mutare delle circostanze senza farsi spezzare. Nel mondo del lavoro, oggi più che mai, sembra sia una componente indispensabile per chiunque desideri sopravvivere a una realtà in perenne mutamento. Per flessibilità lavorativa si intende infatti la capacità del lavoratore di gestire in maniera autonoma la propria carriera, pronto a non rimanere al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma piuttosto dimostrando di poter mutare più volte, nel corso della propria vita, la propria posizione lavorativa e/o il proprio datore di lavoro. In un’ottica evolutiva e di accrescimento, la flessibilità lavorativa dovrebbe prevedere un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e di conseguenza del livello occupazionale raggiunto, sia per quanto riguarda il versante economico, sia per quanto riguarda quello delle competenze professionali. In senso più lato, la flessibilità interessa anche i lavoratori con un contratto a tempo indeterminato: in questo caso la flessibilità è intesa in termini di orario, sede di lavoro e mansione, con cambiamenti auspicabilmente migliorativi.

Flessibilità lavorativa e identità personale percepita

Sempre più spesso i lavoratori si rivolgono ai servizi territoriali di Orientamento Professionale e Placement per la percezione di non avere (abbastanza) flessibilità e col bisogno di imparare a essere più flessibili. Aiutare questi clienti significa trovare insieme le strategie per modellare quelle rigidità che non permettono di adattarsi alla realtà lavorativa e ai cambiamenti che il proprio contesto di lavoro sta subendo (Gysbers et al., 2001). La domanda sorge spontanea: è possibile imparare a essere flessibili? E, nel caso in cui la risposta fosse affermativa, qual è il prezzo da pagare, in termini di identità personale e senso di sé?

L’identità personale è la capacità dell’individuo di avere consapevolezza del permanere costante del proprio Io attraverso il tempo e le diverse esperienze che hanno segnato la sua vita fino al momento presente. Tutti noi diremmo di avere almeno un’idea di chi siamo. Questa idea è il concetto di sé, ovvero una rappresentazione cognitiva di se stessi che dà coerenza e significato all’esperienza, organizzando le esperienze passate e aiutandoci a riconoscere e interpretare gli stimoli rilevanti del nostro ambiente sociale.
Un prerequisito importante per un senso di Sé continuo è la memoria: per esperire una continuità del Sé, è necessario che io ricordi oggi ciò che ho fatto e provato ieri e che domani ricordi le esperienze e i comportamenti importanti di oggi e di ieri. E non solo: il senso di continuità del Sé si estende anche al futuro. L’uomo ha infatti la capacità di prevedere Sé possibili o futuri lungo un percorso temporale attraverso il quale diventare ciò che potenzialmente può essere.

Imparare ad essere flessibili

Cerchiamo adesso di rispondere alla prima domanda: è possibile imparare a essere flessibili?
Sono in molti a farlo, a optare per la Boundaryless Career (Arthur & Rousseau, 1996; Cortini et al., 2011), una carriera senza confini capace di portare l’uomo a potenziare le proprie capacità e a realizzare se stesso. Più che possibile, è spesso necessario, per ammorbidire quell’eccessiva rigidità caratteriale che spesso genera problematiche nel contesto lavorativo e interpersonale, impedendo di modellare le proprie conoscenze e competenze a seconda della realtà lavorativa che ci si trova ad affrontare.

Ma a che costo? La flessibilità lavorativa è in grado di proteggere l’individuo in un mondo lavorativo che premia chi quotidianamente è disposto ad assumersi dei rischi (Sennett, 2002), primo fra tutti il rischio di cambiare (mansione, lavoro, città, stato…). Ma fino a che punto è lecito essere flessibili? Qualunque sia il contesto ambientale (lavorativo e non), la personalità non può perdere quel nocciolo duro d’identità che la caratterizza: la flessibilità si scontra con il carattere della persona che, come scrive Galimberti (1999), è la [blockquote style=”1″]configurazione relativamente permanente di un individuo a cui ricondurre gli aspetti abituali e tipici del suo comportamento che appaiono tra loro integrati sia nel senso intrapsichico che in quello interpersonale. [/blockquote]

Il significato del termine inglese character “indole, natura, qualità morali” denota chiaramente la componente etica della parola. Il carattere è qualcosa che si costruisce nel mondo, con l’esperienza, e trova espressione in quei valori di fedeltà e impegno reciproco che si traducono nel tentativo di raggiungere obiettivi a lungo termine.

I rischi della flessibilità lavorativa

Ma come è possibile perseguire obiettivi a lungo termine in un contesto lavorativo che ruota attorno al breve periodo? Come si può mantenere fedeltà e impegno reciproco all’interno di aziende che subiscono costantemente processi di destrutturazione e ristrutturazione?
Sembra che le qualità richieste dal mondo del lavoro, flessibilità, adattabilità, assunzione di rischi, e quelle richieste dalla morale (in altre parole dal carattere), fedeltà e impegno reciproco, non siano le stesse, con conseguenze in termini di rischio identitario: il senso di sé ha bisogno di stabilità e coerenza, di linearità, e nessuna di queste caratteristiche si addice all’attuale mercato del lavoro, dove imprevedibilità e insicurezza fanno da padrone.

Come può una persona sviluppare una narrazione della propria vita, come può raccontarsi, se la sua esistenza è composta di episodi e frammenti? Ecco quindi che la flessibilità, di per sé qualcosa di auspicabile, indice di maturità e di employability, diventa un rischio (Sennett, 2002). Sperimentare il tempo scollegato al lavoro mette a rischio la capacità dell’uomo di trasformare le proprie esperienze in narrazioni continue. Una concezione dell’uomo come “una canna sbattuta dal vento” è pericolosa: l’essere umano ha una sua stabilità e forma al di là dell’ambiente che non deve essere spezzata.

Infine un altro rischio insito nell’estrema flessibilità che il mondo del lavoro oggi sembra imporci riguarda la minaccia al senso di identità sociale. Essa è definita come quella parte del concetto di sé di una persona che deriva dalla consapevolezza di essere parte di un gruppo sociale, insieme al significato valutativo ed emotivo associato a tale appartenenza (Tajfel e Turner, 1979, in Hewstone et al., 2008).

Essere flessibili comporta inevitabilmente sacrifici sul piano relazionale e ostacola la capacità innata dell’individuo di creare legami. Penso alla volpe di Antoine De Saint-Exupéry. Se quel giorno, invece del piccolo Principe, avesse trovato un giovane Proteo, intento a realizzare il mito dell’uomo che si fa da solo, flessibile e determinato a realizzare se stesso a ogni costo, sarebbe riuscita a convincerlo a farsi addomesticare?

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe.
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.
“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe.

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