expand_lessAPRI WIDGET

Atteggiamenti nei confronti della consulenza psicologica in pazienti della medicina di base: uno studio esplorativo

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

ATTEGGIAMENTI NEI CONFRONTI DELLA CONSULENZA PSICOLOGICA IN PAZIENTI DELLA MEDICINA DI BASE. UNO STUDIO ESPLORATIVO

Daniele Lagatta

Introduzione

Secondo una recente stima, presentata dall’European Brain Council e l’European College of Neuropsychopharmacology (2011), un terzo degli europei soffre di almeno un disturbo psicopatologico diagnosticato. Ricorrere al solo trattamento farmacologico non è esaustivo nella risoluzione e gestione del paziente e delle problematiche riguardanti la salute.

L’autorevole rivista “Nature” (2012), a tal proposito, ha sottolineato quanto anche l’approccio psicoterapeutico sia quanto mai complementare e valido per la prevenzione e il trattamento di disturbi psicologici in termini di efficacia dei risultati, del loro mantenimento e in particolare per la riduzione dei costi socio-sanitari. Questi risultati presenti in letteratura confermano un cambiamento in corso rispetto al modo in cui sino ad oggi abbiamo concepito il modello di salute e malattia.

A fronte di un cambio di prospettiva a livello internazionale, i Sistemi Sanitari dei diversi Paesi sono chiamati a garantire da un lato, il mantenimento più a lungo possibile dello stato di salute promuovendo stili di vita e condizioni ambientali più sane; dall’altro, una presa in carico individuale delle persone malate finalizzata alla “cura della persona” piuttosto che alla cura della sola malattia come ancora accade in numerose circostanze. La scelta di recuperare, come valore, il concetto di “persona malata” implica un approccio biopsicosociale al paziente (Engel, 1977), in cui l’attenzione deve rivolgersi alle necessità fisico-organiche ed ai bisogni emotivi e psicologici. Ciò legittima l’ingresso della figura dello psicologo e l’attuazione dei suoi molteplici interventi nel contesto delle cure primarie.

La rilevanza, dunque, della comprovata efficacia terapeutica, gli effetti positivi dell’inserimento della figura dello Psicologo nell’ambito della cura primaria, gli ampi risultati raggiunti in alcune realtà sia nazionali che internazionali, hanno dato vita al desiderio di indagare se, anche nel contesto locale, fosse sentito il bisogno di un supporto psicologico nei pazienti all’interno degli studi di medicina generale.

Perdono e neuroscienze: gli effetti benefici sulla salute

Il perdono fa parte di una nuova educazione alla consapevolezza e alla felicità; una strategia evolutiva necessaria per la salute, il benessere e la qualità della vita. È una delle abilità personali e sociali necessaria nella nuova educazione per tutti gli individui e soprattutto nella formazione dei nuovi leader. Il processo del perdono è un allenamento neuronale per sviluppare capacità fondamentali nella sfera personale, relazionale e sociale: trasformare i problemi in risorse, gestire i conflitti, sviluppare l’empatia matura.

Daniel Lumera

Gli studi delle neuroscienze sul perdono

Negli ultimi anni l’interesse sul perdono è cresciuto esponenzialmente, allargandosi dal linguaggio di spiritualità e psicoterapia a quello della scienza e della medicina. Negli ultimi 5 anni si sono moltiplicate le pubblicazioni scientifiche che hanno coinvolto anche studi di neuroscienze e si sono principalmente focalizzati sugli effetti benefici nel sistema circolatorio, immunitario e nervoso. Questo interessamento da parte della scienza ha sottolineato l’importanza di perdonare come strumento fondamentale per la salute e la qualità della vita, non limitandolo più solo all’ambito psicologico e spirituale.

La letteratura mostra chiaramente che il perdono rappresenta una positiva e salutare strategia per superare una condizione di distress anche da un punto di vista neurobiologico.
Identificare le sue correlazioni neurologiche è importante per poter chiarire quali aree del cervello contribuiscono alle funzioni biologiche. La maggior parte degli studi fino a oggi effettuati si sono focalizzati sulle differenti funzioni manuali relazionate al perdono come l’empatia, la self compassion e il processo decisionale (decision making) ma, anche se tutte queste funzioni e processi sono inclusi nell’azione del perdonare, non lo definiscono completamente.

Il perdono è un elevato processo sociale anche dalla prospettiva del cervello. I risultati raccolti mostrano che differenti aree celebrali sono coinvolte nel processo del perdono: il left lateralized network (frontal, temporal and parietal regions, right angular gyrus and the prefrontal and posterior cingulate cortical areas, such as the left ventromedial prefrontal cortex).

Uno dei più recenti studi è quello di Piero Petrini dell’Università di Pisa che ha sviluppato una ricerca sulle aree celebrali coinvolte, studiandole attraverso la risonanza magnetica funzionale. Questa ricerca ci mostra come e dove le aree celebrali sono attivate mentre il processo del perdono ha luogo: la corteccia prefrontale si attiva quando siamo capaci di trasformare le difficoltà in risorse, ridefinendo le esperienze negative in opportunità di crescita, la corteccia parietale inferiore è associata con l’empatia matura, sviluppata nel processo di perdono, il precuneo si attiva quando sperimentiamo l’abilità di cambiare la nostra prospettiva assumendo l’informazione necessaria a superare il conflitto.

Conclusioni

In conclusione, la neuroscienza applicata al perdono ci fornisce alcuni interessanti insights relativi a quello che succede nel cervello quando un individuo perdona. Il processo del perdono coinvolge le regioni cerebrali relative all’empatia, al decision making, all’attenzione, alla memoria e alla cognizione sociale rivelando la sua natura di processo complesso e integrato che in realtà potrebbe riorganizzare l’intera rete cerebrale coinvolta nella coesione sociale, relazioni intime , benessere psicologico e la salute globale.

Terapia della bambola: una terapia non farmacologica per la gestione dei sintomi comportamentali della demenza senile

Per indagare l’efficacia della terapia della bambola, nella ricerca di Pezzati R. e collaboratori (2014) è stata utilizzata come riferimento la teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’ipotesi proposta dai ricercatori è che l’esperienza emozionale della persona esposta a sedute di terapia della bambola attivi i sistemi di accudimento e di esplorazione.

Michela Quaglia, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Introduzione

L’età media della popolazione è aumentata considerevolmente negli ultimi decenni. Il calo delle nascite, associato all’aumento dell’aspettativa di vita, della seconda metà del Novecento ha avuto come conseguenza una notevole crescita del mondo degli anziani. Si prevede che in Europa, in termini assoluti, il loro numero raddoppierà passando da 85 milioni nel 2008 a 151 milioni nel 2060 (European Commission and the Economic Policy Committee, 2009).

In particolare, la popolazione italiana dal 2001 al 2011, ha subito un forte incremento demografico, crescendo di più di due milioni di unità, grazie al miglioramento della speranza e della qualità della vita. In particolare, secondo le stime dell’Istat (Rapporto annuale 2012) se nel 2001 gli ultrasessantacinquenni costituivano circa il 18% della popolazione, oggi raggiungono il 20,3% del totale e nel 2043 oltrepasserano il 32%.
Proprio l’invecchiamento della popolazione è il fenomeno che la società di oggi si trova a fronteggiare: una situazione del tutto nuova rispetto al passato.

Così come sono aumentate le aspettative di vita, sono anche aumentate le possibili cause di disabilità, motivo per il quale la qualità della vita della popolazione anziana e i suoi determinanti costituiscono oggetto di grande interesse da parte dei soggetti sociali e della comunità scientifica. L’invecchiamento è sempre accompagnato da alcuni aspetti comuni come la malattia e il decadimento fisico, psichico e cognitivo. Tra le cause di disabilità si annovera un esponenziale incremento di patologie invalidanti a carattere progressivo quali le demenze: le più diffuse sono la malattia di Alzheimer e la demenza vascolare. Carattere comune di tali patologie è il progressivo e ingravescente calo delle abilità cognitivo-comportamentali che si accompagna, nelle fasi più avanzate, a una totale perdita nell’autonomia delle attività quotidiane e all’aumento dei disturbi comportamentali.

La demenza colpisce una persona su venti di età superiore ai 65 anni e una su cinque di età superiore agli 80: in tutto il mondo ne sono affette circa 35,6 milioni di persone. Si prevede che entro il 2050 questo numero salirà a oltre 115 milioni.
Un recente studio pubblicato su Nature, ha stimato che la popolazione europea affetta da demenza raddoppierà nei prossimi 40 anni passando da un totale di 10 milioni a quasi 19 milioni (Abbot, 2011).

 

Terapie non-farmacologiche e la terapia della bambola

L’aumento della popolazione anziana e dei problemi legati all’invecchiamento ha colto impreparati tanto le famiglie quanto le strutture preposte agli interventi socio-sanitari: la diffusione delle demenze si presenta come un fenomeno sociale drammatico, un fenomeno che incide pesantemente sulla vita del singolo malato e della sua rete familiare.
La limitata efficacia delle terapie farmacologiche e la plasticità del cervello umano sono le ragioni più importanti del crescente interesse per le terapie non farmacologiche che, oltre a rappresentare una valida alternativa all’approccio farmacologico, incrementano di fatto il numero di opzioni terapeutiche.
Alla luce di queste motivazioni, negli ultimi anni, i servizi attivi sul territorio richiedono sempre più la loro attuazione in progetti preventivi, riabilitativi e terapeutici (Cilesi, 2009).

Le terapie non farmacologiche consistono in interventi che agiscono sulla sfera cognitiva, comportamentale, relazionale ed emotiva in pazienti sani (come prevenzione) o con demenza da grado lieve a severo (Cilesi, 2007).
Uno, fra questo tipo di interventi, è la Doll Therapy o Terapia della Bambola: nata in Svezia verso la fine degli anni ‘90 dall’idea di Britt Marie Egedius Jakobsson, psicoterapeuta, che l’aveva pensata per stimolare l’empatia e le emozioni del proprio figlio autistico.
Da allora la bambola “Empathy doll” si è trasformata da semplice giocattolo a strumento terapeutico: grazie alle sue caratteristiche particolari (distribuzione del peso, dimensioni, tessuto morbido, sguardo, capelli sbarazzini, posizione di braccia e gambe, dimensioni e tratti somatici) favorisce l’accudimento attivo da parte dell’anziano con grave decadimento cognitivo e la diminuzione di alcuni disturbi comportamentali, diventando così una risorsa nell’affrontare alcune situazioni problematiche che possono presentarsi durante il decorso della malattia.

 

La terapia della bambola: le ricerche

Per indagare l’efficacia della terapia della bambola, nella ricerca di Pezzati R. e collaboratori (2014) è stata utilizzata come riferimento la teoria dell’attaccamento di Bowlby.
L’ipotesi proposta dai ricercatori è che l’esperienza emozionale della persona esposta a sedute di terapia della bambola, attivi i sistemi di accudimento e di esplorazione. Per verificare questa ipotesi sono stati confrontati un gruppo di pazienti con demenza istituzionalizzati e sottoposti a terapia, con un gruppo di controllo non trattato. Il protocollo sperimentale utilizzato consisteva in 10 sessioni non consecutive, strutturate con l’obiettivo di ricreare una situazione di separazione da una figura conosciuta e l’interazione con l’ambiente, per ricreare parzialmente le fasi prototipiche della “Strange Situation”. Tutte le sessioni sono state videoregistrate e analizzate attraverso una griglia di osservazione. I parametri indagati e valutati erano i seguenti: la dimensione relazionale con l’ambiente, la direzione dello sguardo, i comportamenti di esplorazione e i comportamenti di accudimento.

Dai risultati si è potuto notare che l’applicazione della terapia della bambola abbia promosso e migliorato la dimensione affettiva e relazionale di attaccamento/accudimento e la dimensione attentiva nel comportamento di esplorazione, dei pazienti con una demenza di grado avanzato.
I risultati suggeriscono, quindi, che l’uso della terapia della bambola promuove miglioramenti significativi della capacità di relazione con il mondo circostante.

Altri autori (Braden, Gaspar, 2015) hanno inoltre cercato di valutare l’efficacia di questo trattamento per persone con demenza, che presentano gravi sintomi comportamentali quali: agitazione, confusione, aggressività fisica e verbale, insonnia, apatia, depressione, disinteresse/inattività, wandering, affaccendamento afinalistico…

Tale studio è stato svolto, previa specifica formazione del personale riguardo la corretta somministrazione della bambola terapeutica, in un centro di cura per le demenze senili, ed ha coinvolto 16 donne con Alzheimer da grado moderato a severo.
I risultati dell’applicazione dell’intervento di terapia della bambola sono stati analizzati con un questionario, somministrato agli operatori, diviso in 6 aree di comportamento, osservato prima e dopo il trattamento con la bambola.

I dati fanno emergere una diminuzione statisticamente significativa dei livelli di ansia, aggressività, oppositività, insonnia… e, al contempo, un miglioramento dei livelli di vivacità/attività.
Infine sono migliorate anche le modalità di relazione pre-verbali e non verbali, con una conseguente riattivazione delle relazioni con gli altri ospiti e operatori.
Grazie alla sollecitazione della memoria procedurale, tramite i gesti di cura come la vestizione, il cambio di abiti o ancora attraverso le azioni del cullare o dell’alimentare, sono significativamente migliorate anche le condotte di auto-assistenza e cura personale, messe in atto dalle singole pazienti.

In conclusione, si può vedere come nei vari studi, la terapia della bambola si sia rivelata un intervento non farmacologico di grande valore per la pratica clinica: valido per il miglioramento del benessere della persona e volto a ridurre i disturbi comportamentali e psicologici nei pazienti con demenza.

De gustibus non est disputandum…fino al prossimo ripensamento! Perché i nostri gusti cambiano?

Perché imporsi di cambiare gusto, atto che, alla lettera, appare contro natura? E se volessimo farlo, è possibile? Di fatto desiderare ciò che disprezzavamo è un atto che compiamo continuamente. E allo stesso tempo siamo tremendamente coerenti in alcune preferenze.

Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera, Sabato 19 Marzo 2016

 

A me i carciofi hanno sempre fatto schifo. Da piccolo arrivavano a tavola ripieni. Il ripieno era buono – mia madre in cucina ci sapeva fare – e cercavo di mangiare meno carciofo possibile, limitandomi al cuore morbido. La battaglia era difficile, ho mandato giù parecchie foglie.

Quando uscì Edward mani di forbice non lo vidi. Dal trailer sembrava decadente, melenso. L’ho guardato pochi mesi fa, con i miei figli e la mia fidanzata, promotrice dell’evento. Mi è sembrato bellissimo. Gli orinatoi di Duchamp li vedrei bene al loro posto naturale, nei musei occupano spazio senza merito: l’ho pensato la prima volta che ne ho sentito parlare, non ho cambiato idea. Invece ho sempre adorato le forme linguistiche del Dadaismo – Duchamp era membro della corrente – e quando in una puntata della seconda stagione di Fargo uno dei killer inizia a parlare in ‘surrealese’ ho esultato. Rifiutavo le birre amare, ero tutto per le ambrate belghe, senza confronti. Oggi le trovo troppo dolci e la mia scelta del ristorante è in buona parte condizionata dalla presenza nel menu di una India Pale Ale.

Emanuele Arielli nel suo ‘Farsi piacere. La costruzione del gusto‘ confessa di non amare la musica dodecafonica (sono con lui!) alla quale il suo amico C.R. (sospetto non sia CR7) cerca di iniziarlo. Arielli ci prova, si impegna, ne degusta i bocconi meno indigesti, ne studia la filosofia. In cambio insiste perché C.R. assapori cibi giapponesi che quest’ultimo trova disgustosi (sono col suo amico!). C.R. riesce a ingolosirsi del nattō, fagioli di soia fermentati, decido quindi che se nella vita incontrerò Arielli non andrò al ristorante giapponese con lui, abbiamo altre passioni da condividere. Arielli non arriva ad apprezzare l’atonale, anche se ne riconosce le influenze su Frank Zappa, che gli piace.

Perché imporsi di cambiare gusto, atto che, alla lettera, appare contro natura? E se volessimo farlo, è possibile? Le domande di Arielli sono queste. Se siete di quelli che vanno alla Maldive e si lamentano perché al ristorante non hanno gli spaghetti alla carbonara, smettete di leggere questo articolo e non acquistate il libro. Però, se pensate che il problema del cambiar gusto non vi tocchi, chiedetevi perché non mangiate ancora gli omogeneizzati.

Di fatto, amare cose che ci lasciavano indifferenti, desiderare ciò che disprezzavamo, rigettare quello che prima ci attraeva sono atti che compiamo continuamente. E allo stesso tempo siamo tremendamente coerenti in alcune preferenze. L’ambiente ci influenza: una ragazza conosciuta su un ponte sospeso sull’abisso la troviamo più interessante di una incontrata in un luogo tranquillo: sotto adrenalina, il brivido si lega alla sua immagine. La familiarizzazione e la ripetizione dell’atto ci influenzano: una pubblicità ripetuta ci induce a desiderare una macchina. Esercitarsi duramente alla chitarra può portarci ad amare il pezzo che suoniamo, o almeno a trovarlo interessante, quel brano diventa una seconda natura.

Ancora la domanda: perché decidere di cambiare gusto? Tra i motivi: stabilire o mantenere il contatto con gli altri. Confesso, non senza vergogna, che ai tempi dell’università mettevo i calzini bianchi. Una ragazza che mi piaceva mi disse gentilmente: perché lo fai? Da allora non li ho più indossati e quando Anna Wintour, intervistata da David Letterman, gli fece notare la stessa cosa protestai a voce alta: David, non puoi fare un errore così!

Quindi cambiamo gusto per opportunismo? Basta meno. Aprite l’armadio, guardate la gonna comprata da H&M l’anno scorso. Ricordate come vi sembrava indispensabile? Oggi la osservate con una smorfia impercettibile di disprezzo. Ve la immaginate addosso e vi sentite in imbarazzo. Perché intorno a voi indossano altri colori, altri tagli. I capelli cotonati negli anni ’80 erano belli, ora fanno sorridere.

Il nostro gusto è influenzato dal bisogno di appartenere al gruppo. Quello che ci esclude tende a non piacerci più. E se ci piace in modo inflessibile dobbiamo trovare un gruppo che condivida quella preferenza, il gusto si esercita in una comunità che lo condivide.

Ripeto la domanda: perché volere cambiare gusto? La risposta di Arielli, il cuore di un libro che ho letto in un giorno perché quella scrittura tra cultura pop, ragionamento logico solido e filosofia la trovo appetitosa: perché farsi piacere qualcosa è una pratica di libertà. La forza di svincolarsi da se stessi, oltrepassare i confini del noto, diventare altro per capire chi siamo. E a quel punto lasciare che si staglino i pilastri dell’identità: l’immutabile che ci fa dire ‘io’ quando ci guardiamo allo specchio nei momenti di dubbio. Tentiamo di essere infedeli a noi stessi, ci scopriamo più capaci di riconoscerci.

Aggiungo: alcuni gusti non li possiamo alterare, quelle preferenze che ci definiscono umani: sentirsi amati, ricevere un plauso, incontrare un partner sessuale, appartenere a un gruppo, divertirsi giocando, l’eccitazione dell’esplorare un territorio nuovo. E poi i gusti geneticamente determinati o quelli che si sono stampati nel nostro cervello.

Nessuna pratica ascetica mi porterà mai a gioire al sapore di carciofi e anice, credo che ci siano precise istruzioni in proposito nel mio DNA. Capire come la vita ci scriva addosso dei gusti in modo indelebile è più difficile. So solo che ho provato a portare nel mondo di Trono di Spade la mia amica Patrizia. Fallendo: ‘No, no, draghi, magia, saghe nordiche, sicuramente parlano una lingua piena di Ø e le Ø mi irritano‘.

Mobbing: cause, schemi di ruolo e personaggi coinvolti

Mobbing: Il primo elemento peculiare di una situazione di mobbing è l’esistenza di schemi di ruolo, che si ripropongono sempre: la sceneggiatura ha tre protagonisti principali e nessuna comparsa, ovvero la vittima, il persecutore e gli spettatori. Nessuno dei tre ha un ruolo di primo piano o una maggiore importanza rispetto agli altri due.

 

Nell’antica Grecia una volta all’anno il popolo ateniese sceglieva di mandare a morte uno schiavo per ingraziarsi gli dei. Questo schiavo era chiamato Pharmacos ed era la spugna che assorbiva il male diffuso nel gruppo. Secoli dopo, nel medioevo, con la peste e la sua atmosfera impregnata di angoscia e caccia all’untore, il rito di purificazione veniva assolto da un capro, detto “espiatorio” proprio perché assorbiva su di sé il rischio del contagio. Oggi, queste figure non sono affatto scomparse, anzi sono molto attuali: sono le persone mobbizzate all’interno delle organizzazioni.

 

Il mobbing nel contesto lavorativo

In età adulta il contesto lavorativo costituisce il secondo più importante ambiente di vita dopo quello familiare ed assume sempre più le caratteristiche di uno spazio fondamentale che veicola l’identità ed in cui si strutturano rapporti sociali o, al contrario, forme di disagio e di isolamento. Ogni tanto, nelle organizzazioni, qualcuno, per motivi sempre diversi e complessi, viene messo in mezzo e fatto fuori, così come accadeva a Pharmacos nell’antica Grecia. Questo accade soprattutto in alcuni momenti topici della vita aziendale, quando, per esempio, il gruppo si trova in una condizione interna destabilizzante, di crisi, o di cambiamento.

 

Cause

Le possibili cause di tensione emotiva in un gruppo all’interno di un contesto lavorativo possono essere molteplici: avvicendamenti al vertice, ristrutturazioni, accorpamenti, ecc… Eventi come questi possono avere un effetto perturbante per il gruppo di lavoro, possono creare un’eccessiva tensione che si esprime in un movimento espulsivo ai danni di una persona, la vittima, il mobbizzato che diventa il capro espiatorio di una realtà patologica. Da un punto di vista della psicoanalisi, è interessante notare che con il mobbing vengono messe in gioco delle dinamiche complesse che riguardano il gruppo: il mobbing è come una malattia autoimmune, dove il corpo/gruppo attacca una parte di sé, perché non la riconosce più come propria. Così come il corpo se attacca parti di sé si debilita, allo stesso modo un’azienda, attaccando le proprie risorse si “ammala” e si distrugge. Si tratta evidentemente di una condizione patologica, in cui il bersaglio può essere un diverso, il portatore di una mentalità che si discosta dal pensiero conformistico del gruppo, uno che disturba le regole non scritte dell’organizzazione.

 

Schemi di ruolo

Il primo elemento peculiare di una situazione di mobbing è l’esistenza di schemi di ruolo, che si ripropongono sempre: la sceneggiatura ha tre protagonisti principali e nessuna comparsa, ovvero la vittima, il persecutore e gli spettatori. Nessuno dei tre ha un ruolo di primo piano o una maggiore importanza rispetto agli altri due.
Chiunque può ritrovarsi nel ruolo di vittima, indipendentemente dalla posizione organizzativa, dal carattere o dalla personalità. Sono altri i fattori che determinano il mobbizzato, quali, per esempio, la diversità rispetto alla composizione della popolazione organizzativa e/o la devianza rispetto alla cultura organizzativa dominante.

Il mobber, cioè il persecutore, rappresenta il centro di spinta che innesca il succedersi degli eventi. L’obiettivo del mobber è distruggere lo status sociale della vittima, facendogli perdere la sua influenza, il rispetto degli altri e l’entusiasmo per il proprio lavoro: questo non sarebbe possibile se non ci fosse una platea che assiste, testimoniando quanto sta accadendo, con crescente intensità emotiva. Più si progredisce con il fenomeno del mobbing e più aumenta l’intensità delle tensioni. L’intensità emotiva è visibile soprattutto dall’impatto che la situazione produce sulla vittima: inizialmente ciò che viene percepito è un semplice fastidio che può trasformarsi successivamente in disagio psicosomatico in grado di incidere pesantemente sulla salute del lavoratore.

 

Conclusioni

Gli psichiatri paragonano il mobbing alla tortura ed è, di fatto, una situazione di persecuzione psicologica senza apparente via d’uscita. Emarginazione, assegnazione di compiti dequalificanti, compromissione dell’immagine sociale nei confronti di colleghi e superiori, diffusione di maldicenze, critiche continue, accuse ingiuste, sistematica persecuzione: sono queste le circostanze che contribuiscono a creare quello che nel 1984 lo psicologo tedesco Heinz Leymann ha definito “terrorismo psicologico sul luogo di lavoro”. Il mobbing è un fenomeno poliedrico ed intangibile, che ha il potenziale di causare o contribuire allo sviluppo di molti disturbi psicopatologici, psicosomatici e comportamentali: la depressione e il disturbo d’ansia sono le diagnosi formulate più comunemente, anche se sono frequenti altri inquadramenti diagnostici e precisamente il Disturbo dell’Adattamento e il disturbo Post-Traumatico da Stress.

Lo stress causato dal mobbing crea un forte stato confusionale che disorienta la percezione degli attori, particolarmente della vittima. Il mobbing può avere effetti molto gravi nel caso in cui le vittime siano ignare di essere tali. Tuttavia, nel momento in cui la vittima individua e comprende la vera causa dello stato di mobbing, lo stress permette di trovare le forze e le idee necessarie per affrontare e sconfiggere il mobber, che è il vero malato, molto spesso una personalità psicopatologicamente disturbata.

Studio comportamentale sull’obbedienza di Stanley Milgram – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 6

#6: Studio comportamentale sull’obbedienza di Stanley Milgram (1963)
Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in favore della scienza.

 

Introduzione

Nel 1961 Stanley Milgram lavora alla Yale University e i suoi studi si focalizzano sul tema dell’obbedienza. Nella società in cui vive (non così diversa dalla nostra) sembra essere indispensabile la presenza di un’autorità, dalla quale può sottrarsi solo chi vive in totale isolamento. La riflessione di Milgram parte dalla diffusione dell’ideologia nazista: nel 1933 sono stati uccisi 45 milioni di persone, per volontà di un solo uomo, i cui ordini venivano eseguiti in larga scala.

L’obbedienza viene definita in questi anni come il meccanismo psicologico che collega l’azione individuale a uno scopo politico. La storia recente suggerisce che l’obbedienza può indurre le persone a mettere in atto determinati comportamenti, al di là delle convinzioni etiche, di sentimenti di vicinanza al prossimo o della condotta morale. Charles Percy Snow nel 1961 scrive: [blockquote style=”1″]Quando pensi alla lunga e cupa storia dell’uomo, scopri che sono stati commessi crimini terribili in nome dell’obbedienza, in misura maggiore di quanti ne siano stati commessi in nome della ribellione.[/blockquote]

 

Lo studio di Milgram

A partire da queste premesse, Milgram decide di testare la tendenza dell’uomo all’obbedienza attraverso la somministrazione di scariche elettriche a una vittima. Crea quindi un finto generatore di corrente, con 30 possibili voltaggi, in un range che va da 15 a 450 volt. La vittima è un collaboratore dello studioso, che simula risposte differenti a seconda del voltaggio indotto. Le scosse vengono gradualmente incrementate in intensità su indicazione dello sperimentatore, fino a raggiungere livelli di voltaggio indicati sull’apparecchio come altamente pericolosi. Il momento in cui il soggetto si rifiuta di procedere nel somministrare le scariche elettriche viene definito come atto di disobbedienza e segna il termine dell’esperimento.

A ciascun partecipante viene assegnato un punteggio, sulla base del voltaggio più alto raggiunto prima dell’atto di disobbedienza. L’obiettivo dello studio è identificare e soppesare i fattori rilevanti nel determinare l’obbedienza o meno dei soggetti durante l’esperimento.
Alcune delle variabili manipolate sono: la fonte da cui proviene l’ordine di azionare il generatore, il contenuto e la forma del comando, gli strumenti per l’esecuzione dell’ordine e altro ancora.

Vengono reclutati 40 uomini, dai 20 ai 50 anni, convinti di partecipare a uno studio su memoria e apprendimento, volto a indagare il ruolo della punizione. Una persona fingerà di essere l’insegnante e l’altro lo studente, che riceverà le sanzioni previste. Lo sperimentatore viene interpretato da un 31enne professore di biologia, mentre la vittima è un uomo di 47 anni, contabile, addestrato alla parte.

Ai 40 partecipanti viene detto che la sorte deciderà chi dovrà subire le punizioni: si trovano quindi ad uno ad uno in coppia con il complice contabile, che finge di essere un partecipante alla sperimentazione. Estraggono entrambi un bigliettino da un cappello, e tutti si ritrovano a fare la parte dell’insegnante, mentre il complice estrae sempre il ruolo della vittima. In entrambi i bigliettini era scritto “insegnante”.

In una stanza attigua, il contabile viene fatto posizionare su una finta sedia elettrica, legato al fine di evitare movimenti improvvisi durante le scosse. Infine, vengono posizionati gli elettrodi. Prima di iniziare, il professore di biologia in incognito rassicura i partecipanti: [blockquote style=”1″]Anche se le scosse possono essere estremamente dolorose, non causeranno danni permanenti. [/blockquote]Ai partecipanti viene fatta provare una carica da 45 volt, per consolidare la verosimiglianza dell’apparecchiatura.

I compiti, presentati in ordine crescente di difficoltà, sono relativi all’apprendimento di alcune parole. Prima di azionare il generatore, viene detto ai soggetti di comunicare alla vittima il voltaggio prescelto. Durante la prova, lo sperimentatore istruisce i partecipanti su come partire dando scariche di 15 volt e aumentare gradualmente ad ogni risposta errata.
Al raggiungimento dei 300 volt si sente un colpo provenire dalla stanza dove si trova la vittima. Da questo momento in poi, la vittima non fornirà più alcuna risposta alle domande dei soggetti.

I partecipanti, durante lo studio, chiedono al finto sperimentatore come comportarsi. Per ogni dubbio del soggetto, Milgram ha predisposto un set di risposte da fornire. [blockquote style=”1″]Per favore, vada avanti. L’esperimento richiede che lei vada avanti. È assolutamente necessario che lei proceda. Non ha scelte, deve andare avanti.[/blockquote]

La prima variabile indagata è il livello massimo di voltaggio a cui arrivano i soggetti, a cui si aggiunge una misurazione dei tempi di latenza e della durata delle scosse. I collaboratori di Milgram annotano qualsiasi comportamento dei soggetti durante l’esperimento e al termine della procedura intervistano e somministrano alcune scale ai partecipanti. Insegnante e vittima vengono poi fatti incontrare e si cerca di congedare i partecipanti in un clima sufficientemente sereno.

 

I risultati dello studio

Prima di esporre i risultati, Milgram ci rivela un particolare in più: ha chiesto a 14 insegnanti di psicologia di Yale di predire il comportamento dei soggetti coinvolti nella ricerca. I professori affermano che solo 1.2% delle persone coinvolte avrebbe accettato di condurre l’esperimento fino alla fine, arrivando a innescare la scossa più dolorosa.

Alla fine dell’esperimento, i soggetti affermano di essere consapevoli di aver provocato scosse estremamente dolorose nella vittima (13.42 su una scala da 1 a 14). Alcuni di loro sudano, tremano, balbettano, si mordono le labbra, si lamentano, cominciano a graffiarsi. Quasi tutti ridono, nervosi. Tre di loro hanno delle convulsioni. In un caso l’esperimento deve essere interrotto.

Analizzando la distribuzione degli atti di disobbedienza, Milgram nota che 5 soggetti si fermano al momento di dare una scossa di 300 volt, ovvero quando non ricevono più segnali dalla stanza in cui è la vittima. Altri si fermano leggermente dopo. 26 persone arrivano a somministrare scosse di 450 volt. Le registrazioni effettuate ci permettono di sapere cosa pensa chi si ferma prima della fine dell’esperimento.
[blockquote style=”1″]Penso che stia cercando di comunicare, lo sento picchiare sul pavimento … Non è giusto dare scosse al ragazzo … sono voltaggi estremi. Non credo che sia umano … Oh, non posso continuare, no, non è giusto. È un incubo di esperimento. Quella persona sta soffrendo. Non voglio andare avanti. È una cosa da folli.[/blockquote]

 

Discussione dei risultati

Nel suo articolo Milgram ragiona su due punti: innanzitutto l’estrema tendenza all’obbedienza dimostrata in questa situazione. 26 persone hanno agito contro le proprie regole morali per seguire i dettami dello sperimentatore, fonte autorevole in quel setting, seppur priva di strumenti per far valere i propri dictat. La disobbedienza non sarebbe stata punita, non avrebbe comportato una perdita. E nonostante alla fine molti abbiano espresso perplessità e giudizi negativi rispetto alla procedura, in più della metà l’hanno eseguita.

Un secondo risultato inaspettato è lo straordinario clima di tensione generato durante lo studio. Milgram probabilmente poteva prevedere che la situazione sarebbe stata stressante, ma non si immaginava che i soggetti accettassero di tollerarlo.

Per cercare di capire i risultati dell’esperimento, infine, Milgram identifica alcuni punti che possono aver inciso sui livelli di obbedienza riscontrati.
1. L’autorità e la reputazione dell’istituzione a cui fa capo lo studio (la Yale University).
2. Lo scopo per cui l’azione di obbedienza è necessaria: lo sviluppo di nuove conoscenze sull’apprendimento.
3. La volontarietà della vittima nel sottoporsi alla sperimentazione.
4. La volontarietà del soggetto a partecipare alla ricerca, il che lo rende quasi obbligato a seguire lo sperimentatore, perché lui stesso ha voluto farlo.
5. Alcuni dettagli della procedura, come il fatto che i partecipanti ricevessero il denaro anche solo presentandosi al laboratorio.
6. La casualità dell’attribuzione di ruoli di insegnante/vittima e, quindi, la pari accettazione del rischio.
7. La mancanza di informazione relativa ai limiti del ricercatore, sia rispetto ai metodi adottati che al suo campo d’indagine.
8. La sicurezza di non arrecare danni permanenti.
9. Le risposte fornite dalla vittima, che potevano essere segno di volontà di partecipazione (fino ai 300 volt).
10. La necessità di fornire una risposta allo sperimentatore (continuando con la procedura) o alla vittima (interrompendosi) come unica via d’uscita, senza possibilità per il soggetto di trovare una soluzione accettabile per entrambe le parti.
11. L’autorità scientifica della richiesta dello sperimentatore.
12. La mancanza di tempo per riflettere su una scelta più adeguata.
13. Il conflitto interiore derivante dalla scelta obbligata tra due principi di ordine morale: la volontà di non far del male al prossimo e la tendenza a obbedire all’autorità.

Nel 2012, Haslam e Reicher riprendono lo studio di Milgram assimilandolo al famoso esperimento di Zimbardo ed esplicitando la necessità di indagare come l’autorità giustifichi l’oppressione di altri individui o cosa spinga i soggetti ad attribuire un determinato ruolo all’autorità. Gli studiosi affermano che la tirannia non si impone per l’ignoranza o l’incapacità delle persone, bensì per un’attiva identificazione con una fonte che riesce a spacciare azioni crudeli per gesti virtuosi. Come sia possibile, questo rimane ancora purtroppo un mistero, al quale le ipotesi di Milgram non hanno trovato risposta.

Psicotraumatologia: intervista alla Prof. Ebru Salcioglu, direttrice del Centro di Ricerca e Terapia Comportamentale di Istanbul

State of Mind intervista la Professoressa Associata Ebru Salcioglu, MA, PhD, Direttrice del Centro di Ricerca e Terapia Comportamentale (DABATEM) di Istanbul, Turchia.

Il Professore Associato Ebru Salcioglu è un terapeuta comportamentale e un ricercatore clinico specializzato in psicotraumatologia. Conduce importanti ricerche, che esaminano i meccanismi della traumatizzazione nei sopravvissuti ai terremoti, alle guerre, alla tortura e alla violenza domestica. Insieme al Professor Metin Başoğlu, ha sviluppato il Control-Focused Behavioral Treatment (CFBT) e le sue varianti innovative, una Single-Session CFBT e il Trattamento con Simulatore di Terremoti. Ha personalmente condotto questo intervento a centinaia di sopravvissuti e ha condotto trials clinici per testare l’efficacia e l’efficienza di questi nuovi interventi. Sulla base dei risultati ottenuti da questa ricerca, è stato sviluppato un modello di assistenza sanitaria mentale, per la cura efficace ed economicamente sostenibile dei sopravvissuti a traumi di massa.

 

1. Come Direttore di DABATEM e Principale Investigatore dei programmi di ricerca per rifugiati e richiedenti asilo, potrebbe descrivere il background della sua ricerca?

I conflitti armati, la violenza politica, le persecuzioni e le violazioni dei diritti umani causano sfollamento forzato in tutto il mondo. Secondo l’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) entro la fine del 2014 il numero di sfollati in tutto il mondo ha raggiunto un inedito 59,5 milioni di persone. L’evidenza nella letteratura inerente la salute mentale mostra che circa un terzo dei richiedenti asilo e dei rifugiati soffrono di PTSD (disturbo post traumatico da stress). Le esigenze di salute mentale e di assistenza sanitaria a queste persone rappresentano una seria sfida per tutti i paesi ospitanti. Per intervenire efficientemente si richiedono trattamenti psicologici brevi ed efficaci, che possono essere convenientemente diffusi alle masse, su una base in gran parte di auto-aiuto.

Gli attuali trattamenti per il trauma non sono adatti per tale ampia diffusione e hanno altre carenze nel lavoro interculturale. Il nostro modello di trattamento, CFBT, rappresenta un intervento breve ed efficace che è in gran parte auto-condotto. E’ anche relativamente facile da utilizzare durante l’addestramento dei terapisti alla somministrazione di CFBT. Queste caratteristiche rendono CFBT adatto per la diffusione alle masse. Inoltre, poichè CFBT mira ai target universali del comportamento umano, vale a dire la paura e l’evitamento, è molto adatto per il lavoro cross-culturale. Queste considerazioni ci hanno portato a lanciare un programma di ricerca per adattare CFBT ai richiedenti asilo e ai rifugiati.

 

2. Come potrebbe descrivere il suo programma di ricerca? Quali sono gli scopi?

Dalla nostra ricerca e dalla letteratura in generale, sappiamo che i trattamenti basati sull’ esposizione sono efficaci nel disturbo da stress post-traumatico. Pertanto, non abbiamo sentito il bisogno di testare l’efficacia di CFBT in un ennesimo studio controllato. Inoltre, ci sono molte sfide nel trattamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati che rendono difficile l’esecuzione di uno studio controllato. Prima di tutto, non c’è barriera linguistica tra il terapeuta e il cliente. I terapeuti devono poter contare su un interprete nella fornitura di trattamento – e la maggior parte degli interpreti che lavorano nel campo dei rifugiati non sono interpreti professionisti. In secondo luogo, le circostanze psicosociali ed economiche connesse con l’essere un richiedente asilo o rifugiato in un paese in via di sviluppo pongono ostacoli alla somministrazione del trattamento. Poichè circa il 90% dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Turchia vive in aree urbane piuttosto che nei campi, i terapeuti devono fornire il trattamento per le persone che lottano con il fissaggio dei loro bisogni di base. In terzo luogo, i richiedenti asilo affrontano l’incertezza sul loro futuro. Il processo di determinazione dello status di rifugiato richiede un tempo molto lungo, fino a 5 anni nella maggior parte dei casi, e il riconoscimento non offre una soluzione duratura per i rifugiati in Turchia, come in altri paesi in via di sviluppo. Quarto punto, al momento della registrazione i richiedenti asilo devono risiedere in alcune città e spesso hanno bisogno di percorrere lunghe distanze, per ottenere il trattamento psicologico. Tale lunga distanza di viaggio interferisce con la regolare frequenza degli incontri di terapia. Considerando questi e simili problemi, abbiamo deciso di utilizzare un trial aperto per testare l’efficacia di CFBT in questa popolazione impegnativa. Anche questo progetto ci ha offerto l’opportunità di lavorare al fine di determinare il numero ottimale di sessioni e la durata del trattamento necessario per il recupero dal disturbo da stress post traumatico.

 

3. Qual’era la provenienza dei partecipanti? Che tipo di eventi traumatici avevano subito nel loro paese?

Abbiamo offerto il trattamento a oltre 100 casi. Le analisi ad interim si basano su 60 richiedenti asilo o rifugiati. Di questi il 47% provenivano dalla Repubblica Democratica del Congo, il 18% da altri paesi africani, il 27% dall’Iraq, e l’8% da altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia. Le esperienze traumatiche più comunemente riportate sono relative a testimonianze di atrocità di guerra, esposizione a bombardamenti, violenza sessuale, compreso lo stupro di gruppo, e la tortura.

 

4. Qual era l’esito del trattamento?

Disturbo da stress post traumatico e Depressione sono stati disturbi approfonditi sia con interviste cliniche validate e somministrate da terapeuti sia con scale autosomministrate. Rispettivamente ai due tipi di valutazione, per quanto riguarda il disturbo post traumatico da stress, si è evidenziato l’80% e il 85% di miglioramento sintomatologico. I valori inerenti la valutazione della Depressione erano 91% e 83%. Alla fine del trattamento il 93% dei partecipanti classificava il proprio miglioramento globale come ‘molto’ o ‘molto migliorato’. Ciò corrispondeva ad una riduzione dell’82% dei sintomi del disturbo da stress post-traumatico. Questa percentuale di remissione sintomatologica è stata raggiunta con una media di 6 sessioni nel campione totale. Il numero di sessioni era compreso tra 3 e 12.

 

5. Qual è il trattamento adottato per i sintomi depressivi?

Noi non utilizziamo alcun trattamento specifico per la depressione. In sopravvissuti al trauma con disturbo da stress post traumatico, la depressione è di solito un problema psichiatrico secondario che si sviluppa a causa della mancanza di speranza, generata dagli effetti dei sintomi del disturbo da stress post traumatico. Il successo del trattamento dei sintomi del disturbo da stress post traumatico genera un miglioramento nella depressione.

 

6. Può dirci qualcosa di coloro che non hanno risposto al trattamento?

Solo il 3% dei casi non soddisfaceva i criteri che abbiamo fissato per il miglioramento clinicamente significativo. La mancanza di compliance al trattamento è stata la più importante causa di fallimento del trattamento con CFBT. Noi non crediamo che le circostanze di vita difficili influenzino il trattamento – queste influenzano l’esito di esso solo nella misura in cui ostacolano la partecipazione al trattamento o la conduzione degli esercizi di esposizione. Abbiamo fatto del nostro meglio per cercare di risolvere questi problemi nel corso del nostro lavoro.

 

7. Perchè ritiene che CFBT sia così efficace, in un tempo relativamente breve?

Il trattamento è molto efficace perché inverte i meccanismi di risposta alla traumatizzazione. La paura, che esprime la continua minaccia alla sicurezza, e il senso di impotenza sono i processi causali primari nello stress traumatico e CFBT riduce il senso di impotenza, migliorando il senso di controllo sugli spunti e sui ricordi che rievocano la paura dell’evento traumatico. CFBT raggiunge questo bloccando i comportamenti di evitamento e ponendo i sopravvissuti a confronto con i ricordi traumatici, rievocati e incontrati nella vita di tutti i giorni. Queste procedure si modellano sui naturali processi di recupero, come spiegato dal professor Basoglu, e integrando il trattamento nella vita di ogni giorno si accelera il processo di remissione sintomatologica. Inoltre, riteniamo che i trattamenti si focalizzino sulla tolleranza dell’ansia e sul potenziamento del senso di controllo, piuttosto che sulla riduzione di essa, aspetto che rappresenta un importante cambiamento di paradigma nella consegna degli esercizi di esposizione, esaltando gli effetti del trattamento e della costruzione di resilienza.

 

8. Quali sono le implicazioni dei risultati della tua ricerca clinica con i richiedenti asilo e rifugiati?

Considerando che la maggior parte dei centri di riabilitazione, per sopravvissuti a guerre e torture in tutto il mondo, impiegano un programma di riabilitazione lungo e costoso, spesso della durata di più di un anno, un trattamento psicologico che coinvolga una media di 6 sessioni è abbastanza breve. I risultati attuali sollevano la prospettiva di un possibile trattamento ancora più breve, eventualmente da 1 a 3 sedute. Tale trattamento potrebbe essere efficacemente erogato ai sopravvissuti nei campi profughi in tutto il mondo. Inoltre, CFBT potrebbe essere utile nella riduzione dello stress traumatico in alcuni casi, se condotto esclusivamente con un testo di auto-aiuto.

 

9. Cosa immagina per il futuro della ricerca presso il suo Centro DABATEM?

Ci sono tante domande di ricerca interessanti orientate a sviluppare ulteriormente il nostro modello di assistenza sanitaria mentale per affrontare le esigenze di milioni di persone, che soffrono in tutto il mondo. Vorremmo esaminare l’efficacia di una versione più breve di CFBT (1-2 sedute) in sfollati traumatizzati, che risiedono in aree urbane o nei campi. Ci piacerebbe anche esplorare la possibilità di utilizzare interpreti terapeuti nel trattamento. Data la carenza di professionisti della salute mentale nei paesi in via di sviluppo, che ospitano oltre l’80% della popolazione di rifugiati totale del mondo, l’ausilio di laici come terapeuti dovrebbe facilitare la diffusione del trattamento a chi ha bisogno di cure urgenti. Infine, vorremmo continuare a sviluppare strumenti di auto-aiuto e testare la loro utilità nella cura dei sopravvissuti al trauma di massa.

 

 

Interview with Associate Professor Ebru Salcioglu, MA, PhD, Director of the Istanbul Center for Behavior Research and Therapy (DABATEM) in Turkey.

Associate Professor Ebru Salcioglu is a behavior therapist and a clinical researcher specialized in psychotraumatology. She conducted important research that examined mechanisms of traumatization in survivors of earthquakes, war, torture, and domestic violence. Together with Professor Metin Başoğlu she developed the Control-Focused Behavioral Treatment (CFBT) and its innovative variants, such as Single-Session CFBT and Earthquake Simulation Treatment. She personally delivered these interventions to hundreds of trauma survivors and conducted clinical trials to test the efficacy and effectiveness of these novel interventions. Based on findings produced by this research, a mental healthcare model was developed for effective and cost-effective care of mass trauma survivors.

 

1. As Director of DABATEM and Principal Investigator of a research program for asylum-seekers and refugees, could you describe the background of your research?

Armed conflicts, political violence, persecution, and human rights violations cause forced displacement all around the world. According to the UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) figures, by the end of 2014 the number of forcibly displaced people worldwide reached an unprecedented 59.5 million persons. Evidence in the mental health literature shows that about one third of asylum-seekers and refugees suffer from PTSD (Posttraumatic Stress Disorder). Mental health care needs of these people pose a serious challenge for all host countries. Effective dealing with this problem requires brief and effective psychological treatments that can be cost-effectively disseminated to masses on a largely self-help basis. Current treatments for trauma are not suitable for such wide dissemination and have other shortcomings in cross-cultural work. Our treatment model, CFBT, involves a brief and effective intervention that is largely self-conducted. It is also relatively easy to train therapists in the administration of CFBT. These features make CFBT suitable for dissemination to masses. Also, as CFBT targets universals of human behavior, namely fear and avoidance behaviors, it is highly suitable for cross-cultural work. These considerations led us to launch a research program to adapt CFBT for use in asylum-seekers and refugees.

 

2. How would you describe your research program? What are its goals?

Our research is operational in nature. We know from our research and the literature in general that exposure-based treatments are efficacious in PTSD. Therefore, we did not feel the need to test the efficacy of CFBT in a yet another controlled trial. Also, there are many challenges in treating asylum-seekers and refugees that make it difficult running a controlled study. First of all, there is language barrier between the therapist and clients. Therapists need to rely on an interpreter in the delivery of treatment – and the majority of interpreters working in the refugee field are not professional interpreters. Secondly, psychosocial and economic circumstances associated with being an asylum-seeker or refugee in a developing country setting pose obstacles to treatment delivery. As about 90% of asylum-seekers and refugees in Turkey live in urban areas rather than camps, therapists have to deliver treatment to people who struggle with securing their basic needs. Third, asylum-seekers face uncertainty about their future. The refugee status determination process takes a very long time, up to 5 years in most cases, and recognition does not offer a durable solution for refugees in Turkey, as in other developing countries. Forth, upon registration asylum-seekers are assigned to reside in certain cities and they need to travel long distances to get psychological treatment. Such long-distance travelling interferes with attending regular sessions. Considering these and similar problems, we decided to use an open trial design to test the effectiveness of CFBT in this challenging population. This design also afforded us the opportunity to work towards determining the optimum number of sessions and duration of treatment needed for recovery from PTSD.

 

3. Where the participants were from? What kind of trauma events did they endure in their countries?

We have offered treatment to over 100 cases. The interim analyses were based on 60 asylum-seekers or refugees. Of these 47% were from Democratic Republic of Congo, 18% from other African countries, 27% from Iraq, and 8% from other Middle Eastern and Asian countries. The most commonly reported trauma experiences were witnessing war atrocities, exposure to bombings, sexual violence including gang rape, and torture.

 

4. What was the treatment outcome?

PTSD and depression were assessed with both validated therapist-administered clinical interviews and self-rated measures. There was 80% and 85% improvement in therapist-assessed and self-rated PTSD symptoms, respectively. The respective rates on improvement in depression symptoms were 91% and 83%. At the end of treatment 93% of the participants rated their global improvement as much or very much improved. This corresponded to 82% reduction in PTSD symptoms. This recovery rate was achieved on an average of 6 sessions in the total sample. Number of sessions ranged between 3 and 12.

 

5. What treatment you use to treat symptoms of depression?

We did not employ any specific treatment for depression. In trauma survivors with PTSD, depression is usually a secondary psychiatric problem that develops due to hopelessness generating effects of PTSD symptoms. Successful treatment of PTSD symptoms results in improvement in depression.

 

6. What about those who did not recover?

Only 3% of the cases did not meet the criteria we set for clinically meaningful improvement. Lack of compliance with treatment was the single most important cause of treatment failure with CFBT. We do not believe that difficult life circumstances affect treatment – these affect outcome only to the extent they make treatment attendance or conduct of homework exercises difficult. We did our best to overcome such problems during the course of our work.

 

7. Why do you think CFBT is so effective in a relatively short period of time?

The treatment is very effective because it reverses the mechanisms responsible for traumatization. Fear due to ongoing perceived threat to safety and sense of helplessness are the primary causal processes in traumatic stress and CFBT reduces helplessness by enhancing sense of control over fear-evoking trauma cues and reminders. CFBT achieves this by blocking avoidance behaviors and getting survivors confront trauma reminders as they encounter them in every day life. This procedure models natural recovery processes, as explained by Professor Basoglu, and by integrating treatment into a person’s every day life speeds up recovery process. In addition, we believe treatment’s focus on anxiety tolerance and control rather than its reduction is an important paradigm shift in the delivery of exposure, which enhances treatment effects and has resilience-building effects.

 

8. What are the implications of the findings of your clinical research with asylum-seekers and refugees?

Considering that most rehabilitation centers for war and torture survivors around the world employ a lengthy and costly rehabilitation program, often lasting more than a year, a psychological treatment involving an average of 6 sessions is fairly brief. The present findings raise the prospect of even briefer treatment, possibly involving 1 to 3 sessions. Such a treatment could be effectively delivered to survivors in refugee camps all over the world. Also, CFBT might be helpful in reducing traumatic stress in some cases even when delivered on a solely self-help basis.

 

9. What do you envisage for DABATEM’s future research?

There are so many interesting research questions that are all geared towards developing further our mental healthcare model in addressing the needs of millions of suffering people around the world. We would like to examine the effectiveness of a briefer version of CFBT (1-2 sessions) in traumatized displaced people residing in urban areas or camps. We would also like to explore the feasibility of using interpreters as therapists in treatment. Given the shortage of mental health professionals in developing countries that host over 80% of world’s total refugee population, using lay people as therapists would ease dissemination of treatment to those in need of urgent care. Finally, we would like to continue developing self-help tools and test their usefulness in care of mass trauma survivors.

Le direzioni future della terapia metacognitiva

Applicazioni della terapia metacognitiva a una gamma più ampia di disturbi psicopatologici

Oltre ai disturbi d’ansia e alla depressione, la terapia metacognitiva recentemente e’ stata applicata a diversi altri disturbi e condizioni di di stress psicologico.

Per prima cosa notiamo un allargamento allo spettro psicotico, ad esempio con l’utilizzo della tecnica training attentivo nella schizofrenia (Valmaggia, Bouman, & Schuurman, 2007).  Un trial recente ha verificato l’efficacia di un protocollo completo di terapia metacognitiva a un gruppo di pazienti con diagnosi di schizofrenia, rilevando effetti positivi a livello sintomatologico che si mantengono anche nel follow-up (Morrison et al., 2012). Dunque questi primi dati suggeriscono che la terapia metacognitiva è applicabile in modo efficace anche nella popolazione clinica di pazienti schizofrenici, saranno necessari ulteriori trial con campioni più numerosi per supportare maggiormente queste prime evidenze.

In secondo luogo, altri studi si sono focalizzati sul ruolo delle metacognizioni in un alcuni disturbi quali la sindrome da affaticamento cronico  (Maher-Edwards, Fernie, Murphy, Wells, & Spada, 2011) dimostrando non solo una correlazione positiva tra i sintomi e le credenze metacognitive, ma anche un maggior potere predittivo di queste ultime sui sintomi rispetto ad ansia e depressione.

Sempre nell’area del distress emotivo correlato a patologie somatiche è utile citare l’appiclazione della terapia metacognitiva a soggetti che hanno affrontato e superato patologie gravi: ad esempio il case study di McNicol e colleghi (2013) descrive passo per passo l’andamento di un protocollo di terapia metacognitiva a un caso di distress emotivo persistente in una giovane adulta sopravvissuta a leucemia in adolescenza.

In terzo luogo, in letteratura è evidente un trend importante nello sviluppo sia a livello teorico che clinico del modello e della terapia metacognitiva nelle dipendenze patologiche, quali ad esempio i contributi relatavi all’abuso alcolico e all’addiction in generale (Spada, Caselli, & Wells, 2013; Spada, Caselli,  Nikčević, Wells, 2015).

 

I trend nei costrutti teorici: il mode metacognitivo

A livello teorico nell’ambito dell’approccio metacognitivo, le novita’ emergenti riguardano la concettualizzazione e lo sviluppo del costrutto di prospettive. Secondo Wells (2013) Il mode metacognitivo è simile al concetto beckiano di  distanziamento. Nel contesto della terapia cognitivo-comportamentale Beck (1976) definiva il distanziamento come l’abilita’ di vedere i propri pensieri in modo oggettivo, nel senso di identificarli come fenomeni psicologici.

Anche nel modello metacognitivo, il mode metacognitivo avrebbe come caratteristica centrale il distanziamento che implica anche l’esperire i propri pensieri come distinti dal sè e dalle proprie percezioni. L’individuo che è in grado di passare flessibilmente da una modalità piu automatica (“object mode”, in cui eventi e fenomeni mentali non vengono visti come distinti) al mode metacognitivo avrebbe un alto funzionamento in termini di consapevolezza e regolazione dei propri processi  cognitivi. In tal senso, l’approccio metacognitivo distingue a livello teorico i concetti di:

·       Conoscenza metacognitiva: la conoscenza di che cosa e’ un pensiero, la credenza che i pensieri sono regolabili e non sono dannosi e la conoscenza di strategie per regolarli.

·       Consapevolezza metacognitiva: la capacita’ di riconoscere e focalizzarsi su un pensiero.

·       Distanziamento: la capacita’ di riconoscere un pensiero come un fenomeno mentale oggettivamente distinto dagli eventi.

·       Decentramento cognitivo: la capacita’ di vedere un pensiero come distinto dal se’

·       Controllo esecutivo: la capacita’ di regolare l’attenzione e implementare in modo flessibile le strategie in risposta a un dato pensiero.

Mentre la terapia cognitivo-comportamentale standard mira a modificare gli appraisal dell’individuo in relazione ai diversi trigger emotigeni, il paziente della terapia metacognitiva è invece spinto ad apprendere che è la modalità di pensiero e attentiva ridondante e rigida all’origine della sofferenza emotiva.

 

La metacognizione e l’attaccamento

Altre riflessioni teoriche (Wells, 2013) riguardano i fattori che sottostanno le differenze individuali riscontrabili nella regolazione metacognitiva: perchè per qualcuno sarebbe più semplice far defluire i pensieri e non fissarvisi rigidamente mentre per altri è così scontato sentirsene completamente assorbiti?  Sappiamo ancora poco riguardo le influenze sullo sviluppo delle credenze metacognitive disfunzionali e della sindrome cognitivo-attenzionale.

Dalla rifessione e dall’osservazione clinica sembra che la sindrome cognitiva-attenzionale sia particolarmente rigida e pervasiva in pazienti che hanno esperito traumi precoci, neglect emotivo e pattern di attaccamento insicuri o disorganizzati. La teoria dell’attaccamento asserisce che la relazione di attaccamento con il caregiver sia una fonte di informazione fondamentale per costruire i modelli operativi interni di sè e degli altri.

Similmente e chiaramente riferendosi alla teoria dell’attaccamento, l’approccio metacognitivo ipotizza che la relazione con l’altro significativo possa influenzare la capacità di regolare i propri processi cognitivi. Ad esempio, la mancanza di vicinanza da parte del caregiver in un momento di distress del bambino porterebbe al mantenimento o all’escalation emotiva in un tentativo di ottenere vicinanza e sicurezza; il mantenimento di emozioni a elevata intensità sarebbe legato alla presenza di modalità cognitivo-attentive rigide, persistenti e ripetitive che dunque si vedrebbero rinforzate nella loro funzione. Anche questa area di studi è tuttora in una fase preliminare e ampiamente da sviluppare a livello teorico ed empirico.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Covert o Overt? le due tipologie di narcisismo a confronto

Wink ha identificato due fattori, definiti narcisismo overt e narcisismo covert. Il narcisista overt mostra dirette espressioni di esibizionismo, auto-importanza; il narcisista covert, invece, sembra essere ipersensibile, ansioso, timido e insicuro.

 

Prendendo a prestito il mito greco di Narciso, il termine ‘narcisismo è stato impiegato dalla psicoanalisi per descrivere una condizione patologica. Oggi il termine è utilizzato in riferimento ad una preoccupazione o ad un interesse relativo al Sé che va da un continuum di normalità fino alla patologia.

Sono stati descritti diversi sottotipi di narcisismo a seconda dell’esperienza clinica dei vari autori, Millon (1998) parla per esempio di personalità narcisistica senza scrupoli, appassionata, compensatoria, elitaria, fanatica.

 

Criteri diagnostici del narcisismo

L’approccio diagnostico dimensionale si contrappone a quello categoriale, che è adottato in generale anche dall’ultima versione del DSM V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali).

L’approccio categoriale, anche se utile per la sua praticità, presenta grossi problemi diagnostici per i clinici: se è vero che alcuni fenomeni sono categoriali, i disturbi psicologici si distribuiscono in un continuum, cioè sono dimensionali e non categoriali.

Gli spazi vuoti che rimangono tra una diagnosi categoriale e l’altra sono riempiti da tutti quei pazienti che non riescono a soddisfare i criteri diagnostici previsti dal manuale.

Per il DSM V, i criteri diagnostici del narcisismo patologico sono i seguenti:

  1. Ha un senso grandioso d’importanza (per es., esagera risultati e talenti, si aspetta di essere considerato superiore senza un’adeguata motivazione).
  2. È assorbito da fantasie di successo, potere, fascino e bellezza illimitati, o di amore ideale.
  3. Crede di essere speciale e unico e di poter essere capito solo da, o di dover frequentare, altre persone (o istituzioni) speciali o di classe sociale elevata.
  4. Richiede eccessiva ammirazione.
  5. Ha un senso di diritto (cioè l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di soddisfazione immediata delle proprie aspettative).
  6. Sfrutta i rapporti interpersonali (cioè approfitta delle altre persone per i propri scopi).
  7. Manca di empatia: è incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri.
  8. È spesso invidioso degli altri, crede che gli altri lo invidino.
  9. Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntosi.

Manca completamente in questa diagnosi il cosiddetto aspetto covert del narcisismo.

Secondo Cooper (1998):

Il DSM descrive in modo abbastanza adeguato il tipo overt. Carente a causa dell’omissione di una comprensione psicodinamica della patologia del narcisismo, il DSM non riesce a fornire una descrizione del narcisismo covert. (p. 67).

 

Cosa s’intende per narcisismo overt e covert?

Rosenfeld (1987) ha distinto due forme di patologia narcisistica: i narcisisti ‘a pelle spessa e i narcisisti ‘a pelle sottile. I primi sono arroganti, aggressivi, tendono a distruggere l’oggetto e sopravvivono grazie all’investimento in un sé idealizzato. I narcisisti a pelle sottile, invece, sono vulnerabili, provano vergogna e senso d’inferiorità, cercano approvazione e sono ipersensibili a qualsiasi critica.

Gabbard (1989) individua due tipologie di narcisista, il narcisista inconsapevole (oblivious) e il narcisista ipervigile (hypervigilant). Egli afferma:

I pazienti classificati come ‘narcisistici’ hanno significative differenze nelle caratteristiche interpersonali, che possono essere euristicamente concettualizzate come un continuum di vulnerabilità narcisistica che va dagli individui inconsapevoli e impermeabili a qualsiasi affronto, da un lato, ai pazienti ipervigili, che sperimentano di continuo ferite narcisistiche, dall’altro. I pazienti con disturbo di personalità narcisistico inconsapevole sembrano narcisisticamente invulnerabili poiché escludono le reazioni degli altri dalla propria consapevolezza. Questi individui (…) sono vanagloriosi, arroganti, autocentrati e usano gli altri come spettatori per le proprie performances. La loro armatura caratteriale è impenetrabile e serve a proteggerli da sentimenti d’inferiorità, vulnerabilità e dolore (…) All’estremo opposto del continuum, i pazienti con disturbo di personalità narcisistico ipervigile sono estremamente sensibili alle reazioni altrui e rifuggono perciò dalle luci della ribalta: in un contesto del genere, infatti, il rischio di subire ferite narcisistiche è molto alto. La loro grandiosità è più silenziosa e prende la forma della convinzione di avere il diritto di essere trattati in modo molto speciale rispetto alle altre persone (…)  (p. 112).

Anche Wink (1991) ha identificato due fattori definiti ‘narcisismo overt’ e ‘narcisismo covert’. Egli afferma:

Il contraddittorio senso di autostima narcisistico in combinazione con l’uso della scissione ha portato i ricercatori dinamici (Kernberg 1975, 1986; Kohut, 1977) a postulare la presenza di due forme di narcisismo. Quando è palese, la grandiosità narcisistica conduce a un’espressione diretta di esibizionismo, auto-importanza, e la preoccupazione dell’attenzione e dell’ammirazione da parte degli altri. (…) Allo stesso modo, la concezione di narcisismo fallico di Reich (1949) sottolinea la sicurezza arrogante, palese fiducia in se stessi, e la visualizzazione di evidente superiorità. La seconda forma di narcisismo, il narcisismo covert, è contrassegnato da sentimenti in gran parte inconsci di grandezza che si mostrano come mancanza di fiducia in se stessi e d’iniziativa, sentimenti vaghi di depressione, e l’assenza di gioia nel lavoro (deficienza narcisistica). Il narcisista covert sembra essere ipersensibile, ansioso, timido e insicuro, ma osservato da vicino sorprende con le sue fantasie grandiose (Kernberg, 1986). Inoltre, essi condividono con i narcisisti overt quelle caratteristiche narcisistiche, come sfruttamento e un senso di essere speciali, la cui espressione non dipende dallo stile interpersonale.

Millon (1998) delinea un narcisista elitario e un narcisista compensatorio‘.

Il narcisista elitario è convinto di essere superiore e speciale pur non raggiungendo risultati tangibili mentre il narcisista compensatorio è consapevole di un profondo senso di vuoto che cerca di compensare attraverso l’illusione di un senso di superiorità, provando spesso sensazioni di colpa e vergogna.

Sia la forma overt che covert di narcisismo hanno una serie di elementi in comune tra cui il bisogno di ammirazione, fantasie di grandezza, sfruttamento degli altri, sensazione che tutto sia dovuto, il desiderio di rafforzare la propria autostima attraverso l’ammirazione altrui, tendenza alla manipolazione, arroganza, presunzione, eloquio polemico, trascuratezza dei bisogni degli altri e difficoltà nel controllare gli impulsi.

A proposito di questa tipologia di paziente Lowen (1983) descrive il caso clinico di Richard:

Non c’era niente in lui che facesse pensare a un disturbo narcisistico: non aveva un atteggiamento di superiorità né pareva compreso del suo aspetto. Ma qualcosa dei suoi modi m’indusse ad indagare sull’immagine che aveva di se stesso. Gli chiesi di descriversi e Richard disse: ‘Mi sento forte, energico, in gamba. Mi sento più intelligente e più preparato degli altri, e tutti lo dovrebbero riconoscere. Ma mi tiro indietro. Sono nato per essere in prima fila: sono nato re, superiore a tutti gli altri. La penso così anche per quello che riguarda il sesso. Mi dovrebbe essere offerto, le donne dovrebbero provvedere ai miei bisogni; invece mi comporto all’opposto. Mi tiro indietro’. (p. 27)

Cooper (1998) riferendosi ai due tipi di narcisismo patologico suggerisce le espressioni di overt, per indicare il narcisismo con un Sé grandioso, e covert, per gli individui caratterizzati sentimenti di vulnerabilità e sensibilità. Per quanto riguarda gli individui covert, Cooper afferma (Cooper, Ronningstam, 1992):

Questi individui coltivano la maggior parte delle loro attività narcisistiche in fantasia (la sindrome di Walter Mitty), essendo troppo inibiti per renderle di pubblico dominio. E’ probabile che la loro autopresentazione sia carica di vergogna e modestia e possa apparire profondamente empatica, poiché le altre persone erroneamente interpretano il loro timido e preoccupato desiderio di occuparsi di qualcuno come interesse genuino per gli altri. Incapaci di mantenere relazioni personali durevoli, sono segretamente denigratori, invidiosi delle persone che li circondano, e incapaci di trarre soddisfazione dalle proprie realizzazioni, che a volte sono anche considerevoli (p. 59)

Ancora:

Questi individui arrivano spesso all’attenzione dello psichiatra per un senso di depressione e di morte interiore di cui fanno esperienza in conseguenza del fatto che nulla al mondo riesce a dar loro il brivido della trionfale realizzazione che immaginano sia loro dovuta (p. 64)

Ronningstam (2005) parla di narcisista arrogante enarcisista timido, entrambi presentano problemi di autostima, il primo l’affronta costruendo un senso esagerato di superiorità e crede che tutto gli sia dovuto, inoltre è poco empatico e molto invidioso, mentre il secondo prova una profonda vergogna per le proprie ambizioni ed evita le relazioni sociali a causa di un eccesso di sensibilità al rifiuto.

Kernberg (1998) a proposito dei tratti patologici dei pazienti con Disturbo Narcisistico di personalità, dice:

Questi pazienti sono emotivamente superficiali, specialmente nelle relazioni interpersonali, e sentimenti di grandiosità si alternano a sentimenti d’insicurezza o inferiorità, dando l’impressione che essi si sentano o superiori o del tutto privi di valore (…) (p. 40)

Concludiamo questa breve panoramica su queste due tipologie di narcisismo con le parole di Cooper, il quale afferma che tuttavia non vi è una distinzione netta tra le due tipologie di narcisista, poiché è raro trovare tipi puri che appartengono al gruppo overt o covert, sovente nella clinica si osservano entrambe le tipologie.

La Chiesa Cattolica, tra condanne e apologie

Sulla Chiesa Cattolica è già stato scritto tutto e troppo, e quel che si dice e si ripete, il bene e il male, si ripresenta in un eterno ritorno che sembra non stancarsi mai di se stesso.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 26/03/2016

 

Sulla Chiesa Cattolica è già stato scritto tutto e troppo e, parafrasando Montanelli, tutto è inedito, anche quello che è stato già stato stampato. Non ci si stanca di ripetere, di rileggere e di ristampare quello che abbiamo già letto, detto e stampato e ripetuto più e più volte, in un’infinita ingordigia. E quel che si dice e si ripete, il bene e il male, si ripresenta in un eterno ritorno che sembra non stancarsi mai di se stesso.

Vi è una pubblicistica contraria che risale alle eresie medievali, si rinforza con il luteranesimo e il calvinismo e poi si stabilizza -nei paesi protestanti- in una rappresentazione rinascimentale e barocca della corruzione della Chiesa, schiava del potere e dimentica di ogni missione evangelica, eppure capace di coltivare bellezza e arte. Il prete cattolico vestito di nero diventa un’icona del male per il puritanesimo anglo-sassone e questo si riflette nella letteratura popolare ottocentesca, dapprima in Inghilterra e poi oltremare, in America. L’immigrazione irlandese, la prima con cui fanno i conti gli americani, accentua questa visione negativa.

A metà del secolo scorso, fino a poco prima della secolarizzazione degli anni ‘60, assistiamo a un’oscillazione che in qualche modo corrisponde all’assimilazione degli irlandesi nel tessuto della classe dominante americana. Spencer Tracy, l’attore di Hollywood che conosciamo soprattutto per ‘Indovina chi viene a cena?‘, ebbe ruoli da prete cattolico come eroe positivo in vari film, e fu la prima volta su un mezzo di comunicazione di massa in un paese prevalentemente protestante. Fu padre Tim Mullin nel 1936 in ‘San Francisco‘, fu padre Edward J. Flanagan in ‘La città dei ragazzi‘ (1938) –e vinse l’Oscar- e nel sequel ‘Gli uomini della città dei ragazzi’ (1941) e fu padre Matthew Doonan nel 1961 per ‘Il diavolo alle 4‘.

Tutto questo sfociò nella presidenza Kennedy, cattolico irlandese, e nella popolarità di papa Giovanni XXIII, il primo papa non odiato dai protestanti dai tempi di Lutero. Anni dopo Reagan e Giovanni Paolo II avrebbero rinnovato questa strana alleanza tra l’Imperatore statunitense, stavolta non cattolico, e il Papa.

Poi c’è stato un altro rivolgimento di nuovo in negativo con gli scandali della pedofilia dei preti, e il cattolicesimo ha ripreso il suo ruolo di vilain. Che lo scandalo fosse sessuale confermava le vecchie diffidenze puritane.

Accanto a questa pubblicistica negativa di marca protestante e alle sue oscillazioni, vi è poi un’apologetica che parla a favore della Chiesa Cattolica. Un’apologetica tutta particolare, che punta più sul paradosso che sull’elogio incondizionato e che fa acrobaticamente aggio sui difetti popolarmente attribuiti alla Chiesa Cattolica per farne delle opere buone.

È una sotterranea vena catto-dandy che si ritrova sia nel Chesterton che scrisse ‘Perché sono cattolico?‘ o –in termini più sobri e dimessi- nel Manzoni delle ‘Osservazioni sulla morale cattolica‘, un’apologetica che elogia le contraddizioni e che non nasconde gli aspetti deprecabili del cattolicesimo, anzi additandoli come prova di una santità che vuole incarnarsi nel mondo e non distaccarsi da esso. Il rischio di gesuitismo deteriore e di lassismo morale è dietro l’angolo, ma vi è anche grandezza in questo argomentare, che è poi quello della parabola del fariseo e del pubblicano, in cui il vero credente è colui che è immerso nel peccato e ne è consapevole piuttosto che il fariseo soddisfatto della sua moralità cristallina. E –con buona pace di Lutero- il protestantesimo è a rischio di fariseismo; un fariseismo della fede.

La secolarizzazione occidentale, naturalmente, è ormai lontana anni luce da queste avventure e disavventure della fede cristiana, cattolica o protestante che sia, e stende su esse lo sguardo che si riserva ai residui bislacchi di tempi passati. Preferisce inclinarsi a forme di spiritualità interiore, più attente al benessere soggettivo che ad agire sul mondo.

Il successo crescente del buddismo e della sua forma più operativa, la mindfulness, è un segnale. È vero che la mindfulness, nelle sue accezioni migliori, non è un distacco dai propri pensieri e tanto meno dal mondo ma è consapevolezza. E tuttavia una sensazione di distacco un po’ facile permane legata alle manifestazioni più popolari e naif del buddismo e della mindfulness.

È vero: il buddismo più sofisticato non predica il distacco dal mondo, eppure al tempo stesso nemmeno ha una visione della storia umana come evoluzione dotata di senso. Questa rimane una peculiarità del cristianesimo, peculiarità che non vuole più presentarsi come superiorità, ma che nemmeno possiamo nascondercela in una notte della conoscenza in cui tutti i gatti sono neri e tutte le tradizioni umane, religiose o filosofiche che siano, sono uguali.

Molti autori hanno descritto la capacità del cristianesimo di incarnarsi nella storia e di avere una particolare sensibilità per la rappresentazione realistica delle cose, dalla pittura alla letteratura. Questa nozione che un tempo era patrimonio comune e sapere scontato per chiunque ambisse a considerarsi una persona di cultura, oggi è minacciato da una forma decaduta di egualitarismo culturale in cui tutti saperi sono irenicamente uniformi e tutti, in fondo, dicono la stessa cosa dalla notte dei tempi.

Il critico letterario ebreo Erich Auerbach non ebbe difficoltà ad ammettere questa peculiarità della tradizione cristiana –la sensibilità per la storia e per il realismo nella rappresentazione dei moti umani- e a dedicare a questa sensibilità un libro splendido, ovvero ‘Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale‘. Libro scritto a Istanbul dove Auerbach era fuggito, perseguitato dalla Germania nazista. Un tempo si poteva essere ebrei in fuga da Hitler e comunque comprendere una grandezza del cristianesimo e, di riflesso, della Chiesa Cattolica. Non è detto che non si possa fare anche oggi, in un tempo in cui la Chiesa ancora una volta si incarna nella storia andando a cercarsi un papa gesuita e sudamericano e tentando ancora una volta di morire e risorgere.

Di questa capacità di non distaccarci e di incarnarci nel tempo e nella storia abbiamo ancora bisogno, in un momento in cui forte è la tentazione di fuggire e di isolarci. Anche la psicologia moderna, in fondo, mostra un simile doppio movimento –tra buddismo e cattolicismo?- di ricoperta delle tecniche di meditazione orientale e di ricoperta della carne e del corpo nelle terapie motorie ed esperienziali.

Ti amo e ti temo: il paradosso dell’amore al tempo dell’individualismo di Carlo Rosso (2015) – Recensione

Ti amo e ti temo, ultimo libro scritto dallo psichiatra e sessuologo Carlo Rosso affronta in modo approfondito, filosofico e psicologico il tema dell’innamoramento e del suo trasformarsi (solo a certe condizioni) nell’amore duraturo.

Tante sono le citazioni e i pareri autorevoli che si intrecciano all’interno del saggio, da Lacan a Freud, da Alberoni e Francois Jullien e altrettanti numerosi i riferimenti ad opere, miti e romanzi. Dalla storia di Tristano e Isotta a Flaubert e Bukowski e non solo, numerosi anche esempi di storie “comuni”, quelle narrate dai pazienti dell’autore e da lui riproposte. L’autore stesso, fornisce una propria interpretazione dell’innamoramento e del successivo amore duraturo.

 

La passione amorosa nella fase iniziale del rapporto

La prima parte del saggio tratta proprio il concetto di passione amorosa, per dirla con le parole dell’autore, si tratta di quell’esperienza così totalizzante che spezza la trama della nostra esistenza e svuota di significato i contenuti della nostra vita antecedenti alla sua accensione. La passione amorosa è la sensazione di un nuovo me, è un processo che permette di entrare in contatto con parti di noi soffocate, ci fa sentire diversi, rigenerati e migliori. L’amore passionale è anche idealizzazione, proiezione sull’Altro di ciò che io vorrei essere e non sono e di ciò che mi illudo di poter diventare attraverso la fusione con l’innamorato, tipica della fase passionale. Non ci innamoriamo dell’Altro in quanto tale, ma del nostro ideale proiettato sull’Altro! Al tempo stesso non ci innamoriamo per caso ma ci innamoriamo di chi “odora di familiare” ovvero ha alcune caratteristiche che ci ricordano, anche inconsciamente, alcuni tratti caratteriali o dinamiche relazionali tipiche della nostra famiglia d’origine.

Ma è anche possibile che l’Altro non sia solo un copione latente di un oggetto perduto nell’infanzia, ma sia anche oggetto di desiderio intrinseco, figlio delle nostre attitudini e istinti naturali. C’è inoltre un tempo per la passione amorosa: non ci innamoriamo quando siamo felici e appagati della nostra vita, ci innamoriamo nel momento in cui viviamo una condizione apatica, sub-depressiva e poco vitale. Ma come sottolinea l’autore, ci rendiamo conto di tutto ciò solo a posteriori, quando siamo innamorati. Il motore della passione amorosa è il dubbio e l’elemento costitutivo l’attesa, la sessualità invece sarebbe al servizio dell’innamoramento usata per il suo fine, ovvero quello di possedere in modo esclusivo il corpo e i pensieri dell’amato.

 

La fine dell’idealizzazione dell’altro e l’amore duraturo

Ma la passione amorosa, questo bruciare insieme, questo desiderio mai appagato di possedere l’Altro, di unirsi all’Altro e di diventare l’Altro, ha vita breve. Si tratta di mesi o pochi anni, a quel punto crolla l’idealizzazione dell’Altro che non è più quell’essere perfetto e semidivino ma diventa ai nostri occhi una persona “umana”, altro da noi, con il corollario dei suoi difetti che nella fase precedente erano posti in secondo piano. A questo punto la relazione può prendere due strade: può interrompersi, oppure può inaugurarsi una nuova fase che l’autore nel libro chiama amore duraturo. Se l’amore passionale è la relazione con l’ideale di noi stessi che proiettiamo sull’Altro, l’amore duraturo è la relazione con l’Altro, in quanto essere a se stante da noi, con la sua unicità, con caratteristiche e desideri propri. Se nell’amore passionale amiamo nell’Altro l’ideale di noi stessi, nell’amore duraturo amiamo l’Altro in quanto essere diverso da noi con i suoi pregi, le sue debolezze e i suoi difetti. Ecco che l’ebrezza dei primi tempi viene sostituita dalla sicurezza e dalla stabilità.

Ma attenzione, perché se da un lato queste sono le componenti alla base dell’amore duraturo, troppa sicurezza diventa la tomba della sessualità! Come possiamo trovare eccitante un partner che si è trasformato in un porto sicuro, stabile e a parer nostro perfettamente prevedibile? Il segreto è proprio qui, nella capacità di giocare sul filo sottile di intimità e vicinanza, estraneità e lontananza. Solo se siamo sufficientemente “maturi” e pronti per andare oltre il nostro individualismo e al tempo stesso preservarlo siamo in grado di vivere un amore duraturo. Per questo l’autore specifica che l’amore non è per tutti, a differenza dell’innamoramento che è molto più frequente. Paradossalmente siamo in grado di vivere un amore duraturo solo nel momento in cui, pur ricercando la certezza e la stabilità, siamo pronti a tollerare un futuro di coppia indeterminato.

L’amore duraturo è quell’equilibrio molto delicato che si pone tra i due estremi: la ricerca spasmodica dell’ebrezza dell’innamoramento, dove la passione è alle stelle ma manca la reciprocità e la stabilità e l’eccessiva ricerca di sicurezza e stabilità che porta alla morte della passione e dell’attrazione erotica.

Come sottolinea l’autore nella parte finale, ciò che fa male all’amore duraturo sono i pregiudizi sull’amore: il fatto che debba essere puro e non ambivalente, qualcosa di paradisiaco e privo di aggressività, quasi una continuazione dell’innamoramento, qualcosa che abbiamo dentro e non richiede sforzo e costruzione reciproca.

[blockquote style=”1″]È nell’amore che dobbiamo andare oltre noi stessi, oltre il nostro individualismo. La relazione d’amore, quindi, è anche sostenuta da un’intenzione, un ragionamento, e non solo da un sentimento e dalle sensazioni. La decisione di amare qualcuno solitamente precede l’impegno ad amarlo.[/blockquote]

La diagnosi della bulimia – Magrezza non è bellezza: i disturbi alimentari

Diagnosi della bulimia: L’abbuffata è definita non solo dalla quantità eccessiva di cibo, ma anche dalla sensazione soggettiva di perdita di controllo e dalla durata circoscritta che consente di individuare l’abbuffata come un episodio discreto.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La diagnosi della bulimia (Nr. 8)

 

Diagnosi della bulimia: i criteri diagnostici del DSM

I criteri diagnostici per formulare la diagnosi della bulimia nervosa nella quarta edizione del DSM (1994) sono:
a) Ricorrenti abbuffate. Un’abbuffata presenta le seguenti caratteristiche: 1) mangiare in un periodo di tempo definito (ad esempio, due ore) una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili; 2) sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (ad esempio, non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando).
b) Ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, enteroclismi o altri farmaci, digiuno o esercizio fisico eccessivo.
c) Le abbuffate e le condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte alla settimana, per tre mesi.
d) I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei.
e) L’alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa. Può essere con o senza condotte di eliminazione (come per esempio, vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

La prima formulazione della diagnosi della bulimia, come abbiamo visto nell’articolo precedente, si deve a Gerald Russell nel 1979. Allora i criteri erano solo tre ma già molto vicini all’enunciazione definitiva: urgenza intrattabile ad alimentarsi eccessivamente, condotte compensatorie e timore patologico di ingrassare. In Russell mancava ancora il concetto di abbuffata, comportamento non facile da definire e da distinguere dall’alimentazione eccessiva. L’abbuffata è definita non solo dalla quantità eccessiva di cibo, ma anche dalla sensazione soggettiva di perdita di controllo e dalla durata circoscritta che consente di individuare l’abbuffata come un episodio discreto.

Trovare un accordo sul concetto di quantità di cibo eccessivo è altrettanto difficile. Per alcuni essa è definita dal giudizio soggettivo dell’abbuffatore di aver mangiato più di quanto sia permesso. Per altri è preferibile un criterio più oggettivo: dal momento che è effettivamente possibile individuare la quantità di cibo ragionevolmente sufficiente per nutrirsi, allo stesso modo è possibile valutare se un certo episodio alimentare è stato invece caratterizzato dall’ingestione di una quantità eccessiva di cibo. Basta chiedere al paziente di elencare il cibo mangiato in un determinata circostanza per accertare se si sia trattato di un’abbuffata o meno, evitando così dubbi oziosamente relativistici sul concetto di alimentazione soggettivamente eccessiva.

A questo criterio abbastanza oggettivo, si accompagna uno stato d’animo soggettivo: la sensazione di perdita di controllo, ovvero la sensazione di non potersi fermare, di non poter decidere se e che cosa mangiare e di essere in preda a una voracità insensata. Il tono dell’umore è ansioso, autocolpevolizzante e disforico.

La diagnosi della bulimia non specifica il numero minimo di abbuffate al di sotto del quale il disturbo non è diagnosticabile. Questa lacuna può rappresentare un rischio, ma si tratterebbe di un rischio accettabile. Il criterio che era stato proposto, e cioè almeno due abbuffate settimanali, si è rivelato rigido e arbitrario. Persone con meno di due abbuffate settimanali esistono e nondimeno risultano essere clinicamente bulimiche. Indicare un livello minimo sarebbe indubbiamente utile, ma non si è ancora raggiunto un consenso su dove fissare l’asticella.

 

Il timore di ingrassare

Il timore di ingrassare accomuna la bulimia all’anoressia nervosa. Nella formulazione del DSM è enunciato in forma più anodina, poiché si legge che i livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso corporei. Ma il significato rimane quello della paura di ingrassare. Questo timore è presente anche nelle donne non disturbate, ma non nella forma intensa e pervasiva del disturbo alimentare, della bulimia e dell’anoressia nervose. Intensità e pervasività spingono anoressiche e bulimiche a posporre tutto, gloria e soddisfazioni nei più svariati campi, dall’affettivo al lavorativo, a questa irrazionale ricerca di magrezza. Ma è proprio questo rovesciamento di valori che ci fa intravvedere la radice psicologica del disturbo alimentare.

La magrezza è uno strumento attraverso il quale le pazienti riescono allo stesso tempo a evitare e a giocare in un campo più ristretto e controllabile il gioco della vita, il gioco della ricerca e della realizzazione di sé nei vari ambiti in cui le nostre ambizioni e le circostanze ci sfidano, a cominciare dall’amore e dal lavoro. Di fronte alla complessità della sfida, le pazienti con disturbi alimentari si ritraggono impaurite e concentrano tutte le loro energie sul controllo dell’aspetto corporeo e dell’alimentazione. Così l’aspetto corporeo, da mezzo che utilizziamo per vivere, comunicare, presentarci al mondo, diventa uno scopo, un fine in sé.

 

Diagnosi della bulimia: i 2 sottogruppi diagnostici

Anche la bulimia, come l’anoressia, presenta due sottogruppi distinti dall’uso o meno delle condotte di eliminazione (vomito autoindotto o abuso di lassativi o diuretici). Il secondo sottogruppo non ne fa uso, e queste pazienti tentano di controllare il peso attraverso l’esercizio fisico o mangiando poco o addirittura digiunando. Come si vede questo sottogruppo, insieme all’anoressia di tipo 2 (quella con abbuffate/condotte di eliminazione), costituisce una categoria-ponte tra anoressia e bulimia, tanto da sollevare il dibattito su anoressia e bulimia come continuum o come due entità discrete. È un tema su cui torneremo.

 

I disturbi alimentari atipici

Passiamo ora a considerare brevemente i cosiddetti “disturbi alimentari atipici”, in cui non tutti i criteri diagnostici sono rispettati. Non si tratta però solo di forme residuali. In alcuni casi siamo di fronte a entità cliniche dotate di una loro connotazione particolare.

Per disturbi alimentari non altrimenti specificati (DA-NAS) si intendono tutti i casi in cui il paziente rispetta solo alcuni dei criteri diagnostici per l’anoressia o la bulimia. Ma i Disturbi alimentari non altrimenti specificati rappresentano anche la diagnosi più frequente. Ben il 50% dei soggetti affetti da disturbi alimentari che si presentano in trattamento appartiene alla categoria residuale. Non si tratta, naturalmente, di una categoria omogenea. Presenta vari sottogruppi, almeno tre. Il primo sottogruppo è quello dell’anoressia e della bulimia sottosoglia, ovvero di chiari casi che vanno molto vicini a soddisfare i criteri diagnostici ma che non li rispettano in pieno. Si tratta di casi che solo convenzionalmente sono Disturbi alimentari non altrimenti specificati, ma che in realtà sono casi di anoressia e/o bulimia e in quanto tali vanno trattati.

Il secondo sottogruppo comprende soggetti con criteri diagnostici appartenenti sia alla bulimia che all’anoressia, ma che non soddisfano in pieno alcuna diagnosi. Ci si può trovare di fronte a una sorta di anoressia sottosoglia di tipo II (quella con abbuffate/condotte di eliminazione) o a bulimie sottosoglia con tratti anoressici, che cioè richiamano la bulimia di tipo II, quella senza condotte di eliminazione ma con episodi di alimentazione restrittiva ed esercizio fisico eccessivo. Il livello di gravità è molto variabile, si va da casi quasi conclamati a casi lievi. Ancora una volta si tratta di una categoria-ponte tra anoressia e bulimia che richiama il tema del continuum.

Il terzo sottogruppo è costituito dal cosiddetto “disturbo da alimentazione incontrollata” (in inglese binge-eating disorder). Sebbene sia un Disturbo alimentare non altrimenti specificato, questo disturbo costituisce quasi una categoria a sé e nella quarta edizione del DSM è stato inserito tra le possibili diagnosi indipendenti in fase di studio. È un disturbo definito da ricorrenti abbuffate non seguite da condotte di eliminazione o di controllo del peso di alcun tipo. L’assenza di controllo del peso sbilancia questo disturbo tutto sul versante dell’impulsività alimentare, rendendolo in qualche modo diverso, forse persino molto diverso, dagli altri disturbi alimentari.

All’interno dei Disturbi alimentari non altrimenti specificati sono definibili altre due possibilità diagnostiche, sebbene non nominate nel DSM. La prima è il cosiddetto “disturbo da eliminazione” (in inglese, purging disorder) ma i più lo considerano una forma di bulimia sottosoglia. L’assenza di abbuffate lo differenza solo in parte dalla bulimia e non determina significative differenze cliniche e terapeutiche. La seconda è il “disturbo da alimentazione notturna”(in inglese, night eating syndrome). Si tratta anche qui di una variante della bulimia o del disturbo da alimentazione incontrollata. Anche in questo caso non si determinano vere e proprie differenze in termini clinici e terapeutici e/o prognostici.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Adolescenti autistici: quali le risorse, i problemi e le sfide?

Scopo di questo articolo è la sensibilizzazione sull’ autismo, con particolare attenzione agli adolescenti autistici, dando così importanza alla fascia d’età più difficile nell’arco dello sviluppo di ogni individuo.

Irene Consolini – OPEN SCHOOL Studi cognitivi Bolzano 

Una patologia eterogenea: autismo o autismi?

I disturbi dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder, ASD) hanno esordio nei primi anni di vita e sono caratterizzati clinicamente da compromissioni qualitative delle interazioni sociali, della comunicazione e da un repertorio limitato, stereotipato e ripetitivo di interessi e attività (Venuti, 2012).

Oltre a queste caratteristiche di base, sono comuni una serie di altri problemi di comportamentali come: ansia, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione, problemi di attenzione, collera, aggressività e autolesionismo.

Leo Kanner (1943) e Hans Asperger (1944) sono stati i primi ad utilizzare il termine autismo (dal greco autos, cioè io stesso) nell’ambito della psicopatologia dello sviluppo, rifacendosi a Eugen Bleuer che, nel 1911, definì con questo termine un sintomo e una modalità comportamentale caratteristica della schizofrenia e indicante la perdita di contatto con la realtà e con la polarizzazione di tutta l’attività mentale sul mondo interiore.

Nonostante siano passati più di 70 anni dall’individuazione delle caratteristiche tipiche dell’ autismo da parte di Leo Kanner (1943) sono presenti ancora delle incertezze riguardo a questo disturbo. Come riportato anche da Dawson (2008), durante i tre decenni passati, le concettualizzazioni dei disturbi dello spettro autistico sono cambiate drammaticamente.

In passato l’ autismo era considerato come un disturbo estremamente sfavorevole, ora, i rapidi progressi nel campo delle neuroscienze, della psicopatologia, della neurobiologia, della genetica e dell’analisi del comportamento applicata, hanno contribuito a dare un’impronta meno negativa a tale disturbo. Ciò ha permesso che, le persone affette da disturbi dello spettro autistico fossero maggiormente seguite ed aiutate, consentendo un miglioramento della qualità della loro vita (Dawson, 2008). Nonostante non si possa guarire dall’ autismo, è possibile riscontrare che alcuni soggetti, nel corso del tempo, non manifestano più quella tipologia comportamentale che li conduce alla diagnosi, oppure che nell’ambito dello spettro autistico diminuisce nel tempo la gravità della sintomatologia (Venuti, 2011).

Per comprendere meglio questa psicopatologia, di seguito sarà elencata una sintesi dei criteri diagnostici del DSM-5 per l’ autismo. Il Disturbo dello Spettro Autistico deve soddisfare i criteri A, B, C e D (APA, 2014):

  • A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello sviluppo;
  • B. Pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti e ripetitivi;
  • C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare completamente manifesti finché le esigenze sociali non oltrepassano il limite delle capacità).
  • D. L´insieme dei sintomi deve limitare e compromettere il funzionamento quotidiano.

Il DSM-5 definisce inoltre 3 livelli di gravità, secondo cui è necessario un supporto (livello 1), che può essere anche significativo (livello 2) o molto significativo (livello 3).

Nel DSM-5 si passa quindi ad una visione a spettro, in modo da incentivare e diversificare la ricerca di sottogruppi specifici senza il bias delle etichette diagnostiche.

Ma è bene precisare che i soggetti che, con il DSM-IV TR avrebbero ricevuto una diagnosi di disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (DPS-NAS) non rientrerebbero nei disturbi dello spettro autistico secondo la classificazione diagnostica del DSM-5. Questi soggetti, come anche le persone con una sindrome di Asperger, talvolta, non presentano problematiche nelle relazioni sociali a livello base, ma emergono delle difficoltà quando giunge il momento di instaurare delle interazioni più complesse.

I disturbi dello spettro autistico non hanno una maggiore epidemiologia in luoghi geografici o etnie ma presentano una prevalenza di genere: i maschi sono colpiti maggiormente rispetto alle femmine, con un rapporto di 4:1. Le stime degli Stati Uniti (nel 2012) indicano una prevalenza di un bambino con disturbo dello spettro autistico su 88. In Italia non vi sono delle stime di prevalenza a livello nazionale ma dati su sistemi informativi regionali. In Piemonte, per esempio i casi sono circa 1:270. La maggiore definizione dei criteri di diagnosi con procedure standardizzate, implica un incremento dei casi di autismo negli ultimi anni e una conseguente discordanza nelle stime di prevalenza.

Nei disturbi dello spettro autistico il livello di intelligenza o il ritardo mentale del soggetto costituiscono un aspetto importante per improntare un adeguato intervento terapeutico. Oltre al calcolo generale del quoziente di intelligenza è necessario analizzare il profilo cognitivo del soggetto, valutandone tutti i processi cognitivi e l’omogeneità o la disomogeneità dei punteggi delle varie aree indagate. Il livello di funzionamento cognitivo nei soggetti con ASD viene spesso suddiviso in basso funzionamento se il QI è inferiore a 70 e alto funzionamento se il QI è superiore a 70.

 

Le interazioni con gli individui

Le persone con autismo tendono ad assumere un atteggiamento mentale di chiusura in se stesse e a dirigere verso l’esterno un’attenzione unitaria se non addirittura monolitica (monotropismo). Essere monotropici in un mondo politropico – vale a dire in un mondo in cui le persone utilizzano molteplici canali di comunicazione, affrontano compiti molto diversi tra loro e possono dividere la loro attenzione tra più interessi diversi – può dare origine a numerosi problemi (Lawson, 2005).

Nonostante la loro chiusura e il loro apparente disinteresse per le persone che li circondano, i soggetti con autismo mostrano un grande bisogno di stare con gli altri, che però deve essere soddisfatto in maniera strutturata e adeguata. L’ autismo non può essere adattato alle condizioni della normale socialità. E’ semmai il mondo che deve adattarsi a tale modo di essere, rispettarne le singolari caratteristiche, l’enigmatica e paradossale richiesta che rivolge. L’interazione delle persone con autismo richiede contesti adatti (Ballerini et al., 2006).

Forse è difficile pensare che molti dei conflitti interni e dei problemi degli adolescenti autistici sono, in fondo, fatti della stessa pasta di quelli di tutti gli adolescenti (Venuti, 2012). Così, anche gli adolescenti autistici, come tutti gli adolescenti, hanno la necessità di staccarsi dal nucleo famigliare, pur avendolo come riferimento, avere delle amicizie e dei luoghi in cui si possa divertire e coltivare i propri interessi.

Il supporto da fornire ad adolescenti autistici dovrebbe tradursi in un aiuto a costruire e utilizzare gli appigli necessari per scalare la difficile ma affascinante parete della crescita (la stessa dei loro coetanei), facendoli arrivare più in alto possibile (Venuti, 2012).

 

La sessualità vista dagli adolescenti autistici

Tutti noi apparteniamo a un genere sessuale, a prescindere dalle nostra abilità, disabilità, patologie. La sessualità fa parte della vita di ognuno di noi, comprende la sfera biologica, psicologica, sociale, emozionale e dei valori di ciascuno di noi. La sessualità inizia da noi e si estende alle nostre relazioni con gli altri (Lawson, 2005).

E’ difficile per la società interpretare la sessualità espressa dagli adolescenti autistici, perché non sono in possesso degli strumenti giusti per far in modo che sia compresa da tutti gli individui.

Come ogni coetaneo, anche gli adolescenti autistici, devono imparare a gestire i propri sentimenti in modo raffinato, inibendone alcuni, temporeggiando su altri, moderando la propria impulsività, esprimendo qualcosa senza sbilanciarsi troppo (Vianello, 2004)

Al pari di molte altre abilità e conoscenze, anche quelle relative alla sfera affettiva e della sessualità devono essere apprese in modo sistematico dagli adolescenti autistici, ossia apprese in modo individualizzato, strutturato e basandosi su strategie educative concrete, che riducano il più possibile l’utilizzo del linguaggio verbale.

Al contrario possono essere di grande utilità i supporti visivi, come fotografie, illustrazioni, video (AA.VV., Erickson, 2015). Le modalità dell’educazione devono essere adeguate non all’età anagrafica ma allo sviluppo reale delle persone (non va dimenticato che quelle con disturbi autistici presentano spesso ritardi nello sviluppo), ai loro interessi, alle loro motivazioni e ai loro specifici bisogni (Lawson, 2005). Secondo l’Americal Psychological Association (APA), l’ adolescenza è il periodo che sostanzialmente copre l’intervallo di tempo che intercorre tra i 10 e i 18 anni d’età. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) suggerisce di estendere il range fino ad includere i 20 anni (Albiero, 2012). Questo range non può essere considerato per ragazzi e adolescenti autistici, in quanto molte tappe delle sviluppo possono non essere rispettate.

Oltre ad essere vergognosa, la sessualità nella disabilità viene trattata non come una espressione legittima bensì come un comportamento problematico, senza considerare che l’aspetto problematico è quello legato al sistema di regole sociali in cui la persona con difficoltà severe è immersa, su cui nessuno è stato in grado di passarle le corrette informazioni (Reynolds, 2014).

Il compito delle famiglie e dei servizi specialistici si estrinseca in tal senso. In primis devono preparare gli individui adolescenti autistici ai cambiamenti fisiologici che avverranno nel loro corpo. Inoltre va insegnato loro il discernimento tra sfera pubblica e privata, e di come determinate azioni come l’autostimolazione del genitali siano da attuare unicamente in una condizione di intimità che si può riscontrare solo in un contesto intimo e privato. La difficoltà di relazione, di empatia nei confronti di altri soggetti, di comprensione della situazione può condurre ad una inadeguata comprensione di ciò che è pubblico è ciò che è strettamente privato, ciò potrebbe esitare, in alcuni soggetti nel compiere atti di masturbazione in contesti non adeguati.

Offrire alle ragazze e donne autistiche le conoscenze sulla sessualità e le opportunità di crearsi delle amicizie e migliorare il più possibile la comunicazione e le abilità sociali ridurrà la probabilità che subiscano abusi o sfruttamento sessuale (Reynolds, 2014). Indipendentemente da ciò che i genitori possano aspettarsi, le adolescenti autistiche con difficoltà severe andranno educate alla comprensione del suo ciclo mestruale che si ripeterà con cadenza mensile, andrà formata sull’educazione sessuale e sulle malattie sessualmente trasmissibili.

 

Adolescenti autistici: la sfida delle famiglie

In passato vi era l’erronea concezione che l’ autismo fosse causato dall’inadeguatezza delle cure parentali e dalla freddezza affettiva delle madri. In La fortezza vuota, Bruno Bettheleim (1967) definì le madri degli autistici madri frigorifero e i bambini simili a fortezze vuote, concetto ampiamente superato.

I bambini con disturbi dello spettro autistico pongono spesso notevoli sfide comportamentali per i loro genitori e gli altri membri della famiglia (McConachie & Diggle, 2006). Infatti, quando a un bambino viene diagnosticato un disturbo dello spettro autistico è indispensabile un intervento sull’ambiente familiare: tutta la situazione necessita di un’adeguata ristrutturazione e ricomposizione. Impartire adeguate competenze ai genitori è un modo per ampliare la qualità e la disponibilità di servizi per i bambini e adolescenti autistici.

L’inclusione dei genitori come fornitori di trattamento per i propri figli è ormai considerato una componente essenziale dell’intervento nell’autismo (National Research Council, 2001, citato da Vismara et al., 2009). L’importanza del ruolo dei genitori come collaboratori e mediatori nell’interazione è stato introdotto da Eric Shopler nel 1960, il quale ha dimostrato che i genitori che mostrano livelli più elevati di sincronizzazione e risposte contingenti durante l’interazione hanno bambini con disturbi dello spettro autistico che sviluppano capacità comunicative superiori (Dawson, 2008).

Anche ricerche condotte negli ultimi decenni nell’ambito della psicologia dello sviluppo e della psicopatologia hanno evidenziato il ruolo centrale delle relazioni genitoriali nello sviluppo del bambino (Venuti, 2012) e l’importanza della qualità dell’interazione con i genitori per lo sviluppo psichico dei figli.

I programmi di intervento mediati dai genitori sono raccomandati nei bambini con disturbi dello spettro autistico ma anche nei casi di adolescenti autistici, poichè sono interventi che possono migliorare la comunicazione sociale e i comportamenti problema, aiutare le famiglie a interagire con i loro figli, promuovere lo sviluppo e l’incremento della soddisfazione dei genitori, del loro empowerment e benessere emotivo (LG ISS, 2011).

Gli interventi in cui si lavora sull’interazione tra i genitori e i figli con un disturbo dello spettro autistico consentono ai genitori di avere un supporto costante e favoriscono la modifica delle modalità di approccio relazionale da parte dei genitori, in linea con le caratteristiche “atipiche” del figlio, per convivere e rapportarsi con lui.

Lo scopo non è quello di impartire al genitore delle nuove tecniche per come relazionarsi con il figlio ma piuttosto di ampliare le capacità e che già egli possiede. In questo senso, una delle funzioni principali del terapeuta è quella di mostrare al genitore, attraverso la propria interazione con il bambino, le modalità che hanno successo e quelle destinate al fallimento (Venuti, 2012). Inoltre, i genitori che si pongono come fornitori dell’intervento ai propri figli spesso riferiscono ridotti sentimenti di depressione, stress, un maggior senso di responsabilizzazione e ottimismo circa la propria capacità di influenzare lo sviluppo del loro bambino (Vismara et al., 2009).

Gianluca Nicoletti, padre di Tommy, nel suo romanzo Una notte ho sognato che parlavi, racconta le difficoltà quotidiane di essere genitore di un ragazzo autistico:

Eppure i padri e le madri fanno di tutto per avere quell’individuo speciale sempre addosso, sono terrorizzati dall’idea di doversene separare, è come se fosse per loro un figlio e un fratello siamese allo stesso tempo. L’autistico diventa così la clausola indissolubile di un contratto fatale, da noi mai lucidamente sottoscritto, ma che che ci impone di dovercelo tenere accanto per ogni istante della vita.

Quando il figlio inizia a crescere, hanno origine nei genitori tutte le paure relative a cosa succederà quando loro non ci saranno più. Immaginare il proprio figlio con autismo, adulto, autonomo, in grado di condurre una vita normale e indipendente non è certo facile per una genitore; si tratta di un obiettivo che il genitore si immagina spesso come irraggiungibile, se non puramente utopistico (AA.VV., Erickson, 2015).

La particolare pervasività della triade sintomatologica e l’andamento cronico del quadro patologico determinano abitualmente nell’età adulta condizioni di disabilità, con gravi limitazione nelle autonomie e nella vita sociale. Attualmente un’altissima percentuale (dal 60 al 90%) di bambini con autismo diventano adulti non autosufficienti, e continuano ad avere bisogno di cure per tutta la vita (AA.VV., Erickson, 2015).

Considerando la limitazione delle autonomie e il bisogno di continua assistenza per gli adolescenti autistici a basso funzionamento, è importante che le famiglie si attivino fin da subito per capire cosa sia meglio per lui e per il suo futuro. Per alcune famiglie possono essere delle enormi conquiste anche solo il raggiungimento delle autonomie di base (alimentazione autonoma, l’igiene personale ecc..), altre possono vedere impossibile un’occupazione lavorativa per il figlio, a causa dell’assenza di linguaggio, della disabilità intellettiva, delle eccessive stereotipie o o rituali ossessivi.

Temple Grandin, professoressa alla Colorado State University, nota per la sua attività di progettista di attrezzature per il bestiame, è una donna autistica che ha descritto se stessa nel suo famoso libro Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica. Temple riferisce che quando qualcuno le parla lei traduce immediatamente le parole in immagini:

Le parole sono come una seconda lingua per me. Io traduco le parole, sia pronunciate sia scritte, in filmati a colori, completi di suono, che scorrono come una videocassetta nella mia mente. […] Uno dei più grandi misteri dell’autismo è la straordinaria capacità della maggior parte delle persone autistiche di eccellere nelle abilità visuospaziali, fornendo invece prestazioni estremamente scadenti nelle abilità verbali.

Un ragazzo autistico può apparire strano nella società, alcuni suoi comportamenti ossessivi possono risultare bizzarri agli occhi degli altri. Ma, l’estrema selettività degli interessi e le loro abilità così particolari (manie per i calendari e gli orari, capacità di catalogazione superiori alla media, ottima memoria visiva con attenzione ai dettagli, abilità musicali, abilità matematiche, interesse per le specie di animali) andrebbero valorizzate per far si che possano diventare un’occupazione per loro. E’ fondamentale guardare nella prospettiva di un Progetto di vita adulta, uscendo dagli stereotipi di figlio-malato e figlio-bambini, e non vedendo la famiglia di origine come l’unico luogo e l’unica risorsa per la vita futura del figlio (AA.VV., Erickson, 2015).

E’ importante accogliere le stereotipie e gli interessi ristretti degli adolescenti autistici e trattarli come delle opportunità di aggancio, dei ponti. Spesso gli interessi degli adolescenti autistici sono astrusi e lontani dalla realtà (sapere a memoria l’elenco telefonico, o contare gli stuzzicadenti nei contenitori), ma in alcuni casi, tuttavia, vi troviamo elementi che ci permettono di condividere molte cose. Si tratta poi di cercare di ampliare il campo di interesse, nel senso di arricchirlo o farlo diventare il più possibile reciproco, interattivo o condiviso (Venuti, 2012).

 

2 aprile: Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo

Il 2 aprile si celebra la Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo (World Autism Awareness Day), sancita dalle Nazioni Unite con la risoluzione 62/139 del 18 dicembre 2007. L’obiettivo è la sensibilizzazione su questa patologia dello sviluppo, che essendo così eterogenea e con molte differenze individuali, suscita a molte persone innumerevoli interrogativi. Questo evento vorrebbe stimolare il miglioramento dei servizi rivolti alle persone con un disturbo dello spettro autistico e promuoverne la ricerca.

La limitata conoscenza dei meccanismi biologici che causano i disturbi dello spettro autistico, è alla base della difficoltà di trovare una terapia mirata che possa intervenire sulle sue cause biologiche. La mancanza di una terapia specifica allarga il fronte degli interventi proposti alle famiglie: è per questo che la verifica scientifica degli interventi disponibili deve rappresentare l’impegno di tutti, affinché le persone con autismo e le loro famiglie ricevano una risposta sociosanitaria basata sul principio di appropriatezza e della massima efficacia possibile (Istituto Superiore di Sanità, 2011).

Dalla scuola al terzo settore le famiglie denunciano la carenza di professionalità in grado di prendersi carico delle persone con autismo, e quindi il mancato rispetto del diritto ad avere pari opportunità educativa e opportunità di sviluppo professionale. La limitata disponibilità di percorsi integrati tra il servizio sanitario, le scuole e le associazioni che operano nel sociale, determina una frammentazione degli interventi con una conseguente diminuzione della loro efficacia.

Un maggiore investimento in età prescolare e scolare dovrebbe essere messo in atto per migliorare l’esito di questi disturbi, ma un’attenzione all’intero arco della vita è necessario. In particolare il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e dall’adolescenza all’età adulta rappresentano altrettanti nodi cruciali per la presa in carico, nell’obiettivo di non disperdere il capitale abilitativo conquistato nelle fasi precoci della vita. La coerenza degli interventi e la loro continuità sono nella maggior parte dei casi a carico della famiglia, un carico che tocca aspetti sociali, psicologici ed economici.

‘Mi importa di te’ – dice il cervello morale degli autistici: un nuovo studio scardina uno stereotipo comune sull’autismo

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Secondo uno studio della SISSA, in collaborazione con l’Università di Vienna, il tratto autistico nelle situazioni di dilemma morale è associato a una risposta empatica simile a quella della popolazione normale. 

 

Gli autistici sono freddi e non provano empatia. Si? Non è vero. È uno stereotipo duro a morire, ma la realtà, quando viene analizzata attraverso la lente della scienza, appare diversa. Secondo uno studio della SISSA in collaborazione con l’Università di Vienna il tratto autistico nelle situazioni di dilemma morale è associato a una risposta empatica simile a quella della popolazione normale.

Il falso mito sulla freddezza degli autistici è probabilmente dovuto all’alessitimia, un tratto subclinico spesso associato all’autismo, ma distinto e presente anche nelle persone “normali”, che provoca l’incapacità di riconoscere le emozioni degli altri e le proprie. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

Secondo le ‘Families against autistic shooters’ (famiglie contro gli aggressori a mano armata autistici) gli autistici ‘sono macchine per uccidere fredde e calcolatrici che non hanno a cuore la vita umana’. Questa associazione nasce nell’isteria collettiva provocata dall’ennesima sparatoria di massa in una scuola americana, compiuta in questo caso specifico da un ragazzo di 26 anni nell’ottobre dell’anno scorso, che, come è stato dichiarato successivamente, era affetto da disturbo autistico.

Lo stigma sociale verso le persone autistiche è ancora molto forte nella società, spesso questi individui vengono descritti come freddi, asociali, disinteressati agli altri, e questo non fa che peggiorare la loro condizione di isolamento.

Ma è proprio vero che chi è affetto da autismo non ha a cuore la sofferenza degli altri?

Secondo i nostri studi è vero proprio il contrario: il tratto autistico è associato a una riposta empatica normale verso gli altri e a una tendenza più forte della media a evitare di fare male agli altri – spiega Indrajeet Patil, ricercatore della SISSA e primo autore di una ricerca appena pubblicata su Scientific Reports – Lo stereotipo, sbagliato, è probabilmente dovuto a un altro tratto caratteristico, che si trova spesso nella popolazione autistica, ma talvolta anche in quella sana, ossia l’alessitimia.

L’autismo è un disturbo neuropsichiatrico a spettro ampissimo, che accomuna individui con gradi diversissimi nelle abilità cognitive (si va delle persone con forte ritardo a quelle con intelligenza superiore alla media), i cui criteri diagnostici sono mutati nel corso dei decenni (diventando via via più specifici). L’alessitimia invece è un tratto subclinico (non una malattia, cioè), presente nella popolazione normale e anche negli autistici (in questi ultimi con un’incidenza di circa il 50%) e si manifesta con una mancanza di comprensione delle emozioni proprie e altrui.

A lungo le manifestazioni dell’alessitimia nei pazienti sono state confuse con i sintomi autistici, ma oggi sappiamo che vanno distinte – spiega Giorgia Silani, neuroscienziata ex-SISSA che ora lavora all’Università di Vienna, che ha coordinato la ricerca – Nell’alessitimia la comprensione delle emozioni è ridotta. Nell’autismo invece sappiamo che quello che è deficitario è la teoria della mente, cioè la capacità di attribuire agli altri pensieri e stati mentali.

 

Dilemmi morali

Nello studio, Patil, Silani e colleghi hanno sottoposto alcune persone autistiche ad alto funzionamento (con un QI elevato) a dei dilemmi morali. Un dilemma morale è una situazione ipotetica in cui il protagonista deve prendere una decisione che potrà salvare la vita di qualcuno, sacrificando quella di altri individui.

Nel classico dilemma morale si deve decidere se compiere volontariamente un’azione che provoca la morte di una persona, salvando però un numero consistente di altre, o non fare nulla, non uccidendo deliberatamente ma finendo per provocare la morte delle altre. Un atteggiamento razionale puro prevede la scelta dell’azione volontaria (utilitaristica), ma un atteggiamento empatico impedisce alla maggior parte delle persone di scegliere di uccidere volontariamente. Negli esperimenti di Patil e Silani erano cruciali i dilemmi morali personali.

Nella ricerca sono state utilizzate tecniche avanzate di modellizzazione statistica per dissociare gli effetti dei tratti autistici e alessitimici e osservare in che modo sono in relazione con i giudizi morali. I risultati hanno mostrato che l’alessitimia è associata a scelte di tipo utilitaristico dovuta alla ridotta risposta empatica, mentre il tratto autistico è legato a una forte opposizione alla scelta utilitaristica, dovuta a un aumento dello stress a livello personale.

L’autismo è associato a un forte stress emotivo in risposta a queste situazioni per cui l’individuo tende a evitare di compiere azioni dannose – spiega Patil.

Gli autori concordano sul fatto che bisogna affinare gli strumenti per individuare e distinguere l’alessitimia dal disturbo autistico. Il loro lavoro, aggiungono, è solo il primo passo nel tentativo di definire un modello che spieghi il complesso rapporto fra vari tratti di personalità mutualmente dipendenti, che aprirà nuove strade per la ricerca futura.

 

Intelligenze Multiple – Introduzione alla Psicologia

Gardner, partendo da studi eseguiti su bambini dotati da diversi capacità intellettive, riesce a desumere l’esistenza di differenti aspetti legati all’intelligenza: la teoria che ne deriva sarà definita, dallo stesso Gardner, teoria delle Intelligenze multiple.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO  

 

Intelligenze multiple: introduzione

La scorsa settimana si è parlato del concetto di intelligenza e di come poterla misurare attraverso diversi reattivi psicometrici. Alla fine, si è giunti alla conclusione che non esiste una definizione unitaria d’intelligenza, ma due teorie generali: la prima in cui si attesta l’esistenza di un unico fattore e la seconda che individua più forme di intelligenza, principalmente di tipo logico matematico.

Più tardi, esattamente nel 1983, Gardner, ricercatore di Harvard, sosteneva che l’intelligenza non fosse un costrutto quantificabile e raggruppabile numericamente, ma è composta da diversi fattori indipendenti tra loro.

Quindi, nel periodo di massimo splendore della psicometria e del comportamentismo, si scoprì che la mente, tabula rasa, poteva essere addestrata all’apprendimento di nuove abilità.

Per questo era possibile acquisire nuove capacità grazie alla presenza di diverse forme di intelligenza. Si tratta di diversi domini di abilità specifiche per specifiche funzioni cognitive.

 

 

La teorie delle intelligenze multiple

Gardner criticando le teorie vigenti, perché considerate riduttive e statiche, e partendo da studi eseguiti su bambini dotati da diversi capacità intellettive, riesce a desumere l’esistenza di differenti aspetti legati all’intelligenza. Tali risultati furono confermati da ricerche eseguite su pazienti con ictus a cui mancavano delle funzioni cognitive, e, di conseguenza, hanno permesso di formulare un concetto molto più ricco di intelligenza. Partendo da questo presupposto si ottenne una forma di intelligenza composta da ben sette abilità intellettive. La teoria che ne deriva sarà, dunque, definita dallo stesso Gardner teoria delle Intelligenze multiple.

La teorie delle intelligenze multiple è stata inserita nel libro ‘Frames of the Mind’, scritto nel 1983 e conosciuto in Italia come ‘Formae mentis’, in cui si sosteneva l’esistenza di diverse forme di intelligenza in aggiunta a quelle già conosciute.

Secondo Gardner, i test usati per misurare l’intelligenza sono volti a rilevare soltanto due tipi di intelligenza: quella linguistica e quella logico-matematica, ma esistono in aggiunta altre cinque forme di intelligenza:

  • l’intelligenza spaziale;
  • l’intelligenza sociale;
  • l’intelligenza introspettiva;
  • l’intelligenza corporeo cinestetica;
  • l’intelligenza musicale.

Gardner sostenne che il contesto socio-culturale dell’epoca, che si stava diffondendo in occidente, abbia dato maggiore peso scientifico solo alle intelligenze linguistico-verbale e logico-matematica, trascurando volutamente le altre, più diffuse in culture diverse.

Col tempo, dunque, successe che l’informatizzazione permise di evolvere in nuove forme di apprendimento aventi come prodotto finale la diffusione di software, di hardware, di forme di ingegneria, tutti figli dell’intelligenza spaziale, a cui si affianca quella logica. Inoltre, si valorizzarono le capacità introspettive che consentono una migliore collaborazione gruppale, peculiarità delle menti molto plastiche e creative.

La stimolazione e lo sviluppo di nuove forme di capacità intellettive legate alle diverse forme di intelligenza permetterebbe di avere delle menti capaci di apprendere a 360° atte ad acquisire molte competenze aggiuntive rispetto a quelle richieste in passato.

La staticità mansionale sia in ambito lavorativo sia culturale non premetteva affatto alla mente di evolversi e di sperimentare nuove forme di intelligenza, ma restituiva una statica forma di apprendimento globale.

 

 

La teoria delle intelligenze multiple: le diverse intelligenze

L’intelligenza logica-matematica e linguistica erano stati largamente studiate dagli psicometristi e continuavano a essere sviluppate durante le ore di insegnamento scolastico. Le altre tre forme di intelligenza, cinestetica, musicale e spaziale, erano associate alle arti e mestieri, mentre le ultime due, intra e inter- personale, erano state definite dallo stesso Gardner intelligenze personali o emotive (Gardner 1983).

Osserviamo nel dettaglio in cosa consistono:

  • L’intelligenza linguistica, è la capacità di apprendere e riprodurre il linguaggio, usandolo in maniera appropriata per esprimersi verbalmente e in forma scritta.
  • Intelligenza logico-matematica, consiste nella capacità di analizzare i problemi in modo logico, eseguire operazioni matematiche, e indagare le questioni scientificamente, grazie al pensiero logico e deduttivo.
  • Intelligenza musicale: coinvolge l’abilità di comporre, riconoscere e riprodurre modelli musicali, toni e ritmi.
  • Intelligenza corporeo-cinestetica: quella degli atleti, danzatori, preparatori atletici, è l’abilità di utilizzare il proprio corpo o parti di esso per risolvere i problemi attraverso il coordinamento dei movimenti del corpo.
  • Intelligenza spaziale: consta nel riconoscere e utilizzare lo spazio e le aree a esso correlate.
  • Intelligenza interpersonale: è la capacità di comprendere le intenzioni, le motivazioni e i desideri delle altre persone, permettendo in questo modo di lavorare efficacemente anche in gruppo.
  • L’intelligenza intrapersonale: consiste nell’essere consci dei propri sentimenti e di saperli esprimere senza farsi sopraffare. È, dunque, l’abilità di capire se stessi, individuando le proprie paure e motivazioni. Lo scopo è utilizzare queste informazioni per svolgere una vita volta al raggiungimento di scopi specifici.

Queste forme di intelligenza spesso sono utilizzate contemporaneamente e si completano a vicenda per riuscire a raggiungere maggiore successo e per risolvere efficacemente i problemi.

In sostanza, secondo Gardner lo scopo dell’essere umano è capire come utilizzare al meglio queste intelligenze per raggiungere un maggiore benessere individuale e in situazioni di gruppo.

 

 

La teorie delle intelligenze multiple: esistono altre forme di intelligenza?

Ricerche successive eseguite dallo stesso Gardner e dei suoi colleghi hanno evidenziato l’esistenza di altre possibili intelligenze aggiuntive: naturalistica, spirituale e esistenziale, e morale, ma solo la prima potrebbe essere aggiunta alle sette.

Nel dettaglio:

  • l’Intelligenza naturalistica, permette agli esseri umani di riconoscere, classificare e individuare alcune caratteristiche dell’ambiente. Tale abilità consente di interagire con il mondo fino a rendere proprie alcune caratteristiche.
  • l’intelligenza spirituale, che riguarda le abilità di entrare in contatto con ciò che concerne il proprio spirito e le capacità di prendersene cura.
  • Intelligenza esistenziale, capacità umana di riflettere sulla propria esistenza, compresa la vita e la morte. È alla base del pensiero filosofico, ed è legata alla capacità di usare e coordinare le diverse forme di intelligenza
  • In fine, l’intelligenza morale è quella parte dell’intelligenza legata alla sfera della moralità intesa in termini di regole e atteggiamenti morali.

 

 

Le intelligenze multiple e le sue applicazioni

Chiaramente, la teoria delle intelligenze multiple non è stata prontamente accettata all’interno della psicologia accademica. Tuttavia, ha avuto riscontri da molti educatori che l’hanno applicata in diversi insegnamenti scolastici.

Secondo, quanto sostenuto da Gardner, è molto difficile sviluppare tutte queste forme di intelligenza in ambito scolastico, ma la cosa importante è sapere della loro esistenza e prendere questa teoria come guida alla formazione. Altrimenti, significherebbe supportare contemporaneamente sette tipi di insegnamenti diversi, ottenendo un risultato non garantito.

Tutte le intelligenze sono necessarie per vivere bene la vita, ma possono essere implementate attraverso programmi specifici effettuabili con piccoli laboratori creativi che non eliminano tempo alle principali attività formative, ma stimolano la creatività e la plasticità cerebrale.

A tutt’oggi la scuola italiana, nello specifico, adotta un modello in cui si valorizzano prevalentemente le forme di intelligenza logico-matematica e linguistica. Il risultato è quello di esaltare gli alunni più dotati di ragionamento logico e di abilità linguistiche a discapito di coloro che possiedono forme di intelligenza diverse, ma non meno importati delle altre perché permetterebbero di avere una maggiore connessione con la realtà e maggiore competenza dei propri stati interni.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Smartphone e internet: coperta di Linus dei nostri tempi

Internet o lo smartphone mostrano una loro capacità di ridurre le emozioni negative nel breve termine; attenzione però, che questo comportamento sembra avere la stessa funzione delle condotte di evitamento. Evitare qualcosa che ci mette ansia, infatti, sicuramente ci dà un sollievo immediato, ma nel lungo termine non ci consente di trovare strategie più funzionali per gestire la componente emotiva, così come non ci permette di conoscere l’emozione disturbante e di imparare a gestirla in modo utile.

 

L’utilizzo di internet nella società moderna: le ambivalenze

L’utilizzo degli smartphone è un fenomeno che ha interessato molto tutti noi negli ultimi anni. Accolti con euforia e entusiasmo per le crescenti possibilità che ci hanno offerto, siamo velocemente arrivati al “porta sempre tutto con te ovunque”, tecnicamente possibile grazie ai vari sistemi di cloud computing e all’utilizzo di driver a cui poter accedere sempre in remoto da qualunque punto del mondo. Come fosse una parabola (nel senso della geometria ma anche nell’altro), pian piano abbiamo iniziato a preoccuparci, perché si sa che dare troppe possibilità aumenta il rischio di rovinarsi con le proprie mani.

Allora, dopo un periodo di esaltazione per la facoltà di essere sempre connessi al lavoro e ai social, siamo arrivati alla preoccupazione e all’angoscia esistenziale che ci fa chiedere dove andremo a finire, quando saliamo in metropolitana o in treno e vediamo una massa di persone che fissano schermi e interagiscono con tutti tranne che con chi hanno di fianco. I ragionamenti in questo senso si sono spinti molto oltre, è diventato scontato dire che se i telefonini ci hanno cambiato la vita, gli smartphone e i tablet di più. Le reazioni vanno dai negozi che espongono cartelli simpatici nel tentativo di scoraggiare le connessioni wifi, a studiare come l’utilizzo del cellulare influisca sulla nostra postura.

Di contro, però, la psicologia ha in parte tratto beneficio da questo fenomeno di massa, per esempio con lo sviluppo di app che consentono di valutare online alcuni aspetti interessanti per il lavoro clinico, da poter poi approfondire in seduta (si vedano, ad esempio, i diari alimentari sotto forma di app che si possono utilizzare per la terapia dei disturbi alimentari, così come il diario dell’umore utile all’interno di problematiche di tipo depressivo).

Poi c’è il discorso delle relazioni via etere: siamo tutti spaventati dal proliferare di app e siti che consentono di entrare (e rimanere) in contatto con persone che neanche si sono mai viste, per il rischio che questo danneggi in qualche modo le relazioni vere, ad personam, fatte di incontri, scontri e contatti. C’è addirittura una patologia che si chiama Hikikomori, definita e diffusa in Giappone, in cui i giovani nipponici si auto-escludono dal contesto sociale sia ristretto che allargato, come forma di ribellione verso l’intero apparato sociale; in questo caso, le interazioni via internet diventano addirittura le uniche possibili (e consentite) dalla propria stanza, rifugio e allo stesso tempo prigione di questi ragazzi. Spaventati dalle possibilità che la rete ci offre, soprattutto in termini relazionali, siamo tutti abbastanza preoccupati che quelle platoniche divengano per alcune persone in difficoltà le uniche relazioni possibili.

Però, attenzione. Per chi ha difficoltà a relazionarsi nel modo canonico, passare “attraverso” i vari device non può essere una via di mezzo? Un’esposizione per gradi? Allora, può anche essere utile in senso terapeutico, come passaggio intermedio verso l’interazione faccia a faccia.
Come al solito, quindi, il punto non è lo strumento ma l’uso che se ne fa, che può variare su un’ampia gamma, dal “disastroso” al “miracoloso”.

 

L’utilizzo di internet e il rapporto con le emozioni di ansia e depressione: gli studi

Uno studio uscito a gennaio 2016 su Computers in Human Behavior (Panova & Lleras, 2016) ha chiarito meglio il rapporto tra l’utilizzo di internet e di device portatili e i problemi psicologici. I ricercatori hanno svolto due studi separati. Nel primo, hanno chiesto a 318 studenti (metà maschi e metà femmine) di compilare una serie di questionari self-report sull’utilizzo di internet, l’utilizzo del cellulare, il livello di dipendenza da internet e lo stato emotivo (ansia e depressione). Il fattore cruciale sembra essere il motivo per cui si agisce: la tendenza a utilizzare internet e il cellulare come forma di evitamento dalle difficoltà emotive correla in modo positivo con i livelli di ansia e depressione, mentre lo stesso non si può dire della tendenza a utilizzare questi strumenti per togliersi dalla noia. In altre parole, l’abitudine a navigare o a utilizzare lo smartphone per evitare di rimanere in compagnia di emozioni negative o di pensieri disturbanti, in realtà facilmente si accompagna ad ansia e depressione (emozioni disturbanti, appunto). Decidere invece di usare gli stessi strumenti per evadere dalla noia non ha nessuna particolare ricaduta in termini di emozioni negative.

Nel secondo studio, gli autori hanno utilizzato una procedura sperimentale per valutare se e in che misura fare appello a internet e ai device mobili riducesse la percezione di ansia nel breve e nel medio termine. Si sono detti “se davvero le persone si rivolgono a questi strumenti in momenti di difficoltà per trovare una forma di sollievo, forse avere la possibilità di accedervi in situazioni di ansia può dare benefici nel breve termine, che a loro volta possono ciclicamente mantenere la tendenza delle persone a farvi ricorso quando sono in difficoltà”. Per testare questa ipotesi, hanno reclutato 84 studenti e li hanno sottoposti a un compito finalizzato ad aumentare la loro ansia: è stato chiesto loro di scrivere una breve pagina su una consegna specifica, dicendo loro che quanto prodotto sarebbe poi stato valutato da due professori, i quali in seguito avrebbero interrogato il soggetto. Dopo aver svolto il compito ansiogeno per 5 minuti, i partecipanti erano lasciati soli ad attendere per 10 minuti. I soggetti erano precedentemente stati divisi in 3 gruppi: durante questi 10 minuti il gruppo A non aveva alcun accesso a nulla, il gruppo B poteva utilizzare il proprio smartphone e il gruppo C poteva utilizzare solo un computer non connesso alla rete, con cui era possibile giocare. Prima e dopo la stesura del compito e al termine dei 10 minuti di attesa tutti i soggetti hanno compilato un test che valutava l’ansia percepita in quello specifico momento.

Cosa dicono i dati? I partecipanti del gruppo B hanno mostrato un minor innalzamento dell’ansia a seguito della condizione sperimentale: nonostante non ci fossero differenze nel livello di ansia percepita prima dei 5 minuti di compito, i soggetti che avevano potuto tenere con loro il cellulare sembravano rispondere in modo meno intenso alla condizione sperimentale. È come se il fatto di poter avere il proprio telefonino funzionasse da coperta di linus, moderando il livello di ansia suscitata dal compito. Attenzione però, che se invece osserviamo quanto l’ansia sia diminuita dopo i 10 minuti passati nelle 3 condizioni, vediamo che non si notano differenze nei 3 gruppi. In altre parole, per tutti e 3 i gruppi si è rilevato un andamento sovrapponibile nella dinamica di ansia: aumento dopo i 5 minuti di stress e diminuzione dopo i 10 minuti nelle 3 condizioni. Il fatto di poter utilizzare il proprio smartphone non ha portato a una diminuzione più importante del livello di ansia rispetto alle altre due condizioni.

Conclusioni

Questo dato è molto interessante e ci dice che il fatto di avere a disposizione il proprio smartphone ha una specie di effetto protettivo nei confronti dell’ansia per tutto l’arco della procedura: non aiuta i soggetti a calmarsi di più una volta che lo stress è innescato, ma addirittura diminuisce il potere ansiogeno del compito. Se leggessimo la cosa a rovescio, però, potremmo anche dire che essere privati del proprio smartphone rende le persone più vulnerabili agli stressor ambientali, e questa spiegazione si sposa abbastanza con il costrutto di nomofobia, che descrive una vera e propria sindrome di ansia da separazione dal proprio smartphone.

Sembra quindi che i risultati “scagionino” l’utilizzo di strumenti come internet o lo smartphone, mostrando una loro capacità di ridurre le emozioni negative nel breve termine; attenzione però, che questo comportamento sembra avere la stessa funzione delle condotte di evitamento. Evitare qualcosa che ci mette ansia, infatti, sicuramente ci dà un sollievo immediato, ma nel lungo termine non ci consente di trovare strategie più funzionali per gestire la componente emotiva, così come non ci permette di conoscere l’emozione disturbante e di imparare a gestirla in modo utile. Mettere via il cellulare non sembra essere la soluzione ultima, ma imparare a stare fermi nell’emozione disturbante può essere un buon inizio.

La selezione del Personale nell’era digitale

La rapida diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha prodotto un profondo cambiamento non solo negli stili di vita quotidiana, ma anche nei modelli di organizzazione aziendale e nella gestione delle Risorse Umane, in particolare nei processi di ricerca e selezione del Personale. 

 

Come i mezzi digitali influenzano la selezione del personale

Oggi, infatti, la selezione del Personale non passa più solo attraverso la lettura dei curricula, i test e i colloqui, ma anche e soprattutto attraverso tutti i mezzi digitali, compresi i social network, da Facebook, a Twitter , a Linkedin. Il modo in cui socializziamo e gestiamo la nostra rete rappresenta un banco di prova, un indicatore di quello che sappiamo fare e potremmo fare in grande per l’azienda. E allora può succedere anche che un candidato idoneo sotto tutti gli aspetti venga scartato perché non ha abbastanza contatti sui Social.

E’ bene tenere presente che stiamo attraversando una rivoluzione: è cambiato il modo di fare ricerca e selezione del Personale e sono cambiate le necessità delle aziende, perché oggi la vita di tutti viene amplificata dal mondo online. E nessuno può pensare di contare solo sul vecchio foglio di carta per ottenere un lavoro. E’ dunque molto importante essere presenti sul mercato del lavoro virtuale e sfruttare le opportunità che gli strumenti digitali come social network, app, blog, forum ci offrono, ma ritengo essere cosa molto difficile riuscire a sintetizzare in modo corretto i vari aspetti della personalità del singolo candidato solo sulla base delle tracce che lascia sui propri profili sociali.

Da qualche tempo, gira sulla rete un video demenziale, ma per certi versi emblematico, riguardante il rapporto tra i colloqui di lavoro ed i Google Glass. In questo video, infatti, si simula un colloquio conoscitivo tra un dirigente ed una candidata durante il quale, il selezionatore cerca online informazioni sulla persona che ha di fronte e, contemporaneamente, verifica all’istante la veridicità di ciò che l’interlocutrice dice durante il colloquio.
Uno scenario che mi fa pensare un po’ al Grande Fratello, il dittatore dello stato totalitario chiamato Oceania, immaginato da Orwell nel romanzo 1984 (Nineteen Eighty-Four), che esercita un controllo fisico e mentale su ogni individuo, sfruttando i mezzi di comunicazione per una propaganda incessante e a senso unico.

Questo per dire che è importante che chi fruisce di un’informazione debba farlo con un atteggiamento critico, non accettando pigramente come vera qualunque cosa legga (anche sui social), ma sapendo distinguere quando l’informazione è genuina e quando invece potrebbe essere parziale.
È necessario, sia da parte dei selezionatori sia da parte dei candidati, un uso consapevole delle tecnologie digitali per evitare i rischi, legali ed extralegali, connessi. Per i primi la questione più spinosa riguarda la raccolta di informazioni, che potrebbe essere operata in violazione della normativa sulla privacy o dell’art. 8 Statuto dei Lavoratori, che vieta le indagini su opinioni personali e fatti non attinenti l’attitudine professionale.

Per i secondi, il problema è rappresentato dalla cosiddetta “digital reputation” che può attirare, ma anche allontanare i potenziali datori di lavoro. I social network si rivelano efficienti nel momento in cui si riescono a creare dialoghi intelligenti con i potenziali candidati, cioè quando forniscono ai selezionatori quella dimensione conversazionale assente invece nei siti-bacheca tradizionali. Le conversazioni online mirate richiamano selettivamente i migliori talenti: si tratta dunque di una forma economicamente vantaggiosa di selezione naturale.

Tuttavia, saper usare la tecnologia più avanzata non sarà mai sufficiente se chi gestisce la selezione del Personale non saprà usare l’umano dove serve. Ci sono infatti momenti cruciali nel processo di selezione in cui è fondamentale fare delle verifiche e quindi, a mio avviso, i mezzi digitali non sono alternativi, ma vanno considerati in un’ottica di approccio integrato. Fondamentale è uno studio approfondito da effettuare sui singoli individui per accertarne e valutarne le capacità, le competenze, le attitudini e gli interessi in modo da prevedere una performance di successo all’interno del contesto di lavoro. Sono fermamente convinta che il colloquio rimanga ancora oggi il momento fondamentale per valutare il set di competenze di una persona, ovvero l’insieme delle capacità psicologiche e comportamentali e delle conoscenze tecniche e teoriche. Il colloquio di selezione, infatti, è caratterizzato non solo da una struttura, ma anche da dinamiche psicologiche e relazionali che nessuna tecnologia, da sola, potrà mai gestire.

 

Conclusioni

Riconosco l’importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che hanno portato ad un ampliamento e ad un miglioramento delle possibilità di comunicazione, superando le barriere ed i vincoli di tempo e spazio, aumentando la velocità e diminuendo i costi, ma rigetto un uso eccessivo della rete, che, come è ormai assodato, può portare progressivamente delle difficoltà, soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla sua esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla Rete (Jamison, 2000).

 

Madri pentite e coppie “childfree”: la nuova corrente dell’ anti-genitorialità!

Il conflitto tra l’amare immensamente i propri figli ma volere la vita di prima, rivela la difficoltà ad accettare una nuova condizione di vita in cui i figli rappresentano una linea di confine tra il prima e il dopo.

 

Diventare genitori. Oppure no. Essere genitori o non poterlo essere. Essere genitori “diversi” (arcobaleno, single,ecc..)
Il tema della maternità e della genitorialità viene ormai affrontato in tutte le sue sfaccettature. Così mentre si infiamma il dibattito sul diritto di essere genitori e sui mezzi per poter realizzare questo desiderio, si sta rinforzando l’idea che ci sia un altro diritto: quello di non esserlo. E addirittura scegliere di non esserlo senza sentirsi in colpa o diversi. Ma ancora di più nelle ultime settimane si è acceso un dibattito intorno a un libro che racconta del “pentimento” di alcune madri.

Pentirsi di essere madri

Qualche anno fa era uscito un libro di una psicanalista francese, Corinne Maier, madre di due figli che aveva scritto “No kids. Quaranta ragioni per non avere figli”. Il libro avevo suscitato scalpore e polemiche perché demonizzava le “gioie” della maternità, nel tentativo di essere più realista su quello che effettivamente comporta la maternità. Dall’America è arrivata la moda di creare spazi no kids nei locali pubblici o di limitare l’accesso ai bambini dopo una certa ora o, ancora, offerte di compagnie aeree per chi non viaggia coi bambini.

La sociologa israeliana Orna Donath lo scorso anno ha pubblicato un saggio “Regretting motherhood”. L’autrice ha intervistato 23 donne, mamme di uno/due/tre figli, che avevano in comune la caratteristica di essersi pentite di aver avuto dei figli. Nel libro si mettono in risalto le pressioni culturali e sociali che possono contribuire alla scelta della genitorialità, ma soprattutto ne emerge un atteggiamento ambivalente nei confronti dei loro figli: [blockquote style=”1″]Se tornassi indietro non metterei al mondo dei figli, ma li amo immensamente. [/blockquote]

Il conflitto tra le gioie e i dolori della genitorialità

Il conflitto tra l’amare immensamente i propri figli ma volere la vita di prima, rivela la difficoltà ad accettare una nuova condizione di vita in cui i figli rappresentano una linea di confine tra il prima e il dopo. Un aspetto che però viene messo in luce da Donath è l’elemento culturale: in Israele avere i figli è un atto dovuto da parte della donna e averne solo uno non rende una famiglia degna di tale nome. Soprattutto, fatto il primo se ne possono fare anche altri “tanto la vita è rovinata lo stesso”.

Uno studio del 2011 aveva già dimostrato che avere figli non aumenta la felicità, anzi. Soprattutto chi ha bambini piccoli ha un decremento nella qualità di vita da cui si riprende con la crescita dei figli. Solo quando i figli escono di casa si ha un maggiore senso di benessere rispetto a chi non ha avuto figli.

In questi dibattiti c’è il tentativo di portare la genitorialità e la maternità dall’essere una condizione mitizzata (la sofferenza e lo stigma sociale con cui vivono persone e coppie che non possono avere figli ha alimentato in parte il mito della maternità/genitorialità) a una condizione di vita con i pro e i contro. Come tutte le scelte allora ci si può pentire, ma a differenza di un acquisto o di un lavoro o di una relazione, non si può sciogliere o rimandare al mittente.

Il principio di base è errato: essere genitori non equivale a felicità. Equivale a una condizione di vita diversa in cui sono contemplati fatica, dolore, tristezza, rabbia, gioia, sorpresa…ovvero tutto ciò che la vita può offrire. Avere un figlio cambia completamente la prospettiva di vita: c’è un prima e c’è un dopo. Ciò non significa che sia stato meglio prima o sarà meglio dopo. E’ diverso.
Non è, dunque, la condizione di essere o non essere genitore a fornirci la garanzia di una vita migliore ma il modo in cui comunque la si vive.

 

cancel