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Theatre of resistance: Terzo modulo – 12-16 Maggio a Milano

SESSIONE DI LAVORO CON BEN RIVERS SUL PLAYBACK THEATRE

Condotto da BEN RIVERS

12 – 13 – 14 – 15 – 16 Maggio, dalle 9:00 alle 17:00

Casa della Carità, via Brambilla 8 (MM2 CRESCENZAGO) Milano

 

Il modulo che viene qui presentato fa parte di un progetto più ampio, strutturato in tre moduli pratici e proposto da Psychologists for Human Rights con il supporto della Casa della Carità. Il percorso è dedicato al rapporto tra Trauma – Narrazione – Resilienza e Resistenza non violenta e si concentra sull’uso del teatro- narrazione come strumento che fortifica la resilienza, rigenera comunità e nutre la resistenza culturale. E’ la comunità stessa, infatti, che permette di ridare un senso agli eventi attraverso pratiche di cura collettiva, come il teatro-narrazione che crea spazi protetti dove le persone possono condividere storie riconciliandosi con se stessi, abbattendo eventuali barriere socio-ecologiche e creando reti tra gli individui. E’ così che la comunità partecipa al racconto autobiografico e le singole identità diventano più forti perché arricchite dall’identità collettiva.

Paolini dice: “Come si fa a diventare popolo? Chi sono i tuoi avi, i tuoi antenati? Come fai a non essere ‘gente’ anonima identità fittizia ad uso e consumo? Si può diventare popolo assumendo su di sé le storie del popolo.”

 

 

BEN RIVERS è professionista specializzato nell’uso del teatro terapeutico e partecipato come strumento di mobilitazione per la comunità, attivismo culturale e reazione al trauma collettivo. Playback Theatre Trainer accreditato dal Centre for Playback Theatre di NewYork ha operato, e continua ad operare, in comunità colpite da oppressioni strutturali e violenze politiche. E’ membro fondatore dell’iniziativa FREEDOM BUS e co-fondatore della scuola araba del Playback Theatre di Beirut.

 

La pratica del PLAYBACK THEATRE, formulata per la prima volta negli anni settanta da Jhonatan Fox, oggi è usata in più di 60 paesi come strumento per promuovere la RICOSTRUZIONE DI COMUNITA’, il DIALOGO tra parti e la RISPOSTA A UN TRAUMA COLLETTIVO. La pratica di un profondo ascolto, la generazione di risposte solidali e creative, rendono il processo innescato dal Playback Theatre uno strumento prezioso nella stimolazione di resilienza.

 

Una COMUNITA’ si incontra in un luogo reso accogliente, strutturato secondo una disposizione rituale di oggetti e strumenti. Qualcuno inizia a raccontare una storia, o un momento della propria vita. Sceglie gli ATTORI per rappresentare i differenti ruoli, e poi guarda la sua storia immediatamente ricreata e offerta attraverso una coerente formalizzazione teatrale: una IMPROVVISAZIONE originale resa possibile da una speciale collaborazione tra i performer (attori musicista e conduttore) e il pubblico. LA REALTA’ CULTURALE ED EMOTIVA DI UNA COMUNITA’ PRENDE FORMA, ATTRAVERSO LE VICENDE DEI SUOI PORTAVOCE, i narratori disponibili a raccontare le proprie storie.

 

IL WORKSHOP intende:

/ Offrire ai partecipanti STRUMENTI BASE del Playback Theatre subito utili alla PRATICA, stimolando e rafforzando le abilità necessarie a trasformare STORIE VERE in IMPROVVISAZIONI scenicamente ricche e metaforicamente pregnanti.

/ Consentire ai partecipanti di DECLINARE tali strumenti nell’ambito di iniziative che promuovono una COSCIENZA CRITICA e un CAMBIAMENTO SOCIO-POLITICO.

/ Esplorare i principi di un’azione teatrale che contiene TEMI come l’AVVERSITA’, il DISAGIO e il TRAUMA.

 

Le CANDIDATURE per partecipare al laboratorio sono aperte. Sono richieste competenze base in ambito teatrale o formazione accademica nell’ambito della mediazione culturale e l’intervento nelle zone di conflitto.

 

Il COSTO del modulo è di 350 euro. Sono previste agevolazioni per gli studenti universitari e per i team. Il ricavato finanzierà il prossimo Summer Camp promosso da Psychologists for Human Rights.

 

Per informazioni e iscrizioni

[email protected]

 

Chiara Zanetti 328 91111855

Azzurra Spirito 389 9939685

 

Playback Theatre: workshop 12 - 16 maggio BROCHURE FRONTE Playback Theatre: workshop 12 - 16 maggio BROCHURE RETRO

DECADIMENTO COGNITIVO E MALATTIE CARDIOVASCOLARI: QUALI RAPPORTI?

Martedì 19 aprile 2016, ore 16.30 presso l’Ordine dei Medici e Odontoiatri di Como – Via Masia 30

Si terrà martedì 19 aprile alle 16.30, presso la sede dell’Ordine dei Medici di Como, l’incontro “Cambia il tuo modo di vivere: decadimento cognitivo e malattie cardiovascolari. Quali rapporti?” organizzato dalla sezione di Como dell’Associazione Mogli Medici Italiani (AMMI) con il patrocinio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Como. Interverranno la dottoressa Rosanna Jemoli, cardiologa, e il dottor Marco Arnaboldi, neurologo e Direttore del reparto di Neurologia dell’Ospedale S. Anna di Como.

Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di mortalità e di ripetuti ricoveri ospedalieri nella popolazione anziana dopo i 65 anni, mentre il deterioramento cognitivo è la prima causa di invalidità. Queste due patologie condividono nel loro sviluppo fattori di rischio comuni, come l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito, e posso essere strettamente collegate: studi clinici e di popolazione dimostrano che nei soggetti con età superiore ai 65 anni il decadimento cognitivo si aggira al 10 – 20% della popolazione, percentuale che sale anche a più del 30% nei cardiopatici.

Il deficit cognitivo interferisce sia con le modalità di cura che con la prognosi della cardiopatia e una sua identificazione consentirebbe un miglior inquadramento del paziente e l’adozione di appropriate modalità di assistenza. Durante l’incontro verranno quindi analizzati i fattori di rischio comuni, i rapporti tra le due patologie e la possibilità di un riconoscimento precoce.

 

 

 

L’incontro è gratuito e aperto a tutti.

Per informazioni:

Rosanna Scaravelli – 338 3287517

Tucci Salati – 339 6811883

 

Ufficio Stampa Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Como

ELLECISTUDIO

Tel. + 39.031.301037 – +39 333.1639705

[email protected] – www.ellecistudio.it

 

I tentativi di suicidio in adolescenza: fattori di rischio e vulnerabilità psicologiche associate

Suicidio in adolescenza: Le particolari caratteristiche dell’adolescenza fanno sì che questo periodo della vita, connotato da una peculiare vulnerabilità psicologica, sia particolarmente a rischio di disturbi psichici ma anche di profonde sofferenze e turbamenti emotivi. Tutto ciò provoca un’elevata incidenza di tentativi di suicidio in adolescenza, alcuni dei quali purtroppo ad esito fatale, senza neppure la possibilità d’identificarne motivi plausibili. E’ certo comunque che si rintracciano nel loro determinismo fattori psicologici, individuali e contestuali, più o meno tra loro connessi, i quali supportano momenti predisponenti e scatenanti.

Michela Grandori, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Aspetti epidemiologici dei tentativi di suicidio in adolescenza

L’argomento relativo ai tentativi di suicidio in adolescenza è quanto mai complesso e controverso. Sebbene tra i principali obiettivi della ricerca sul suicidio in adolescenza vi sia quello di individuare una stima attendibile del fenomeno, tale rilevazione risulta assai problematica data la tendenza a sottostimare l’incidenza del suicidio dovuta, da un lato, ad un atteggiamento di negazione e minimizzazione del problema, dall’altro, a differenze nelle procedure di registrazione dei suicidi nei diversi presidi sanitari: frequentemente, infatti, i tentati suicidi vengono registrati come incidenti ma capita anche che all’interno di molti casi di morte violenta risulti assai difficile discriminare la volontarietà dall’accidentalità del fatto. Per tale motivo i dati epidemiologici in merito all’aumento e alla diffusione del fenomeno negli ultimi anni sono contrastanti. Ci si trova di fronte ad un quadro caleidoscopico e frammentario con un incremento significativo negli ultimi anni, nelle classi di età più basse, tanto da poter collocare il suicidio come terza causa di morte per la popolazione fra i 15 e i 24 anni (Maggiolini et al., 2013; Schwarzenberg, 2002; Vanni, 2009).

Le particolari caratteristiche dell’adolescenza fanno sì che questo periodo della vita, connotato da una peculiare vulnerabilità psicologica, sia particolarmente a rischio di disturbi psichici ma anche di profonde sofferenze e turbamenti emotivi. Tutto ciò provoca un’elevata incidenza di tentativi di suicidio in adolescenza, alcuni dei quali purtroppo ad esito fatale, senza neppure la possibilità d’identificarne motivi plausibili. E’ certo comunque che si rintracciano nel loro determinismo fattori psicologici, individuali e contestuali, più o meno tra loro connessi, i quali supportano momenti predisponenti e scatenanti. Il passaggio all’atto può assumere significati del tutto diversi, la cui conoscenza può permettere di prevenire eventuali recidive, soprattutto se la presa in carico del giovane che tenta il suicidio è adeguata, paziente ed attenta e consente di fargli superare le difficoltà, le conflittualità e i disagi psicologici che compromettono quell’esistenza da cui vuole scappare (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

 

Fattori di rischio del suicidio in adolescenza

I fattori di rischio individuali che hanno mostrato la correlazione più alta con il suicidio in adolescenza sono:

1- Una storia pregressa di comportamento suicidale o parasuicidale.
Il tentativo di suicidio, generalmente, giunge al termine di un percorso lineare: in un primo momento si struttura un’ideazione di morte in cui il pensiero è rivolto frequentemente alla morte che è spesso ritenuta come l’unica possibile soluzione per affrontare l’impasse in cui il soggetto si trova; in un secondo momento può strutturarsi un’intenzionalità suicidaria, cioè l’adolescente può iniziare ad immaginare di darsi la morte che desidera; infine, il pensiero di morte e l’ideazione suicidale si possono associare alla costruzione di un vero e proprio progetto suicidale, quando viene definito un modo di agire per procurarsi la morte: vengono decisi gli strumenti, i tempi e le modalità. Il gesto suicidale segue la fase della progettazione e ne rappresenta il superamento ma solo un ristretto numero di adolescenti con ideazione e progettualità suicidale passa realmente a mettere in atto un progetto suicidale. Questa sottocategoria di soggetti è ad altissimo rischio di ripetizione di un tale comportamento: la possibilità che il passaggio all’atto venga ripetuto è decisamente elevata, fino al 50% nei successivi 2 anni. Un tentativo di suicidio, quindi, deve essere preso estremamente sul serio perché presenta un elevato rischio di ripetizione (Maggiolini et al., 2013; Vanni, 2009).

2- La presenza di disturbi psichici non riconosciuti o non trattati.
Per quanto riguarda i disturbi psichici, la depressione ha un ruolo significativo nel tentativo di suicidio in adolescenza: i dati empirici rilevano un’associazione tra alcuni sintomi depressivi, quali l’instabilità emotiva, il ritiro e la perdita della speranza, e l’emergere di comportamenti suicidari.

Tuttavia, sebbene la depressione sia lo stato affettivo che più si accompagna alla messa in atto di gesti suicidari, non tutti gli adolescenti che mettono in atto tentativi di suicidio sono depressi. Inoltre, tra i disturbi psichici emerge una relazione significativa anche tra l’abuso di sostanze e il suicidio in adolescenza: gli adolescenti che portano a termine un tentativo di suicidio dichiarano un utilizzo di alcol, droghe o un mix di entrambi più frequentemente, di almeno 4 volte, rispetto agli adolescenti che mettono in atto tentativi di suicidio non letali. Il contemporaneo consumo di alcool e droghe possono aumentare l’impulsività e l’aggressività e distorcere la percezione della realtà (Maggiolini et al., 2013; Vanni, 2009).
Si ritiene, comunque, che non sempre dietro un tentato suicidio in adolescenza siano presenti disturbi psichici conclamati quanto, piuttosto, organizzazioni sub-patologiche di personalità con difficoltà di mentalizzazione, tendenza all’impulsività, disperazione, insufficiente controllo, disregolazione affettiva, strategie di coping inefficaci e scarsa capacità di problem solving, elevati livelli di rabbia e tendenza al perfezionismo (Blumenthal et al., 1990; Boergers et al., 1998; Dori et al., 1999; Kashden et al., 1993; Witte et al., 2007).

Per quanto riguarda i fattori di rischio ambientali, bassi livelli di coesione, elevata conflittualità ed insoddisfazione all’interno della relazione genitori-adolescente sono elementi riscontrati frequentemente nelle famiglie degli adolescenti che tentano o completano il suicidio. La disarmonia e la disintegrazione familiare giocano un ruolo estremamente importante perché rendono l’adolescente privo di un contesto di riferimento solido e significativo che gli è ancora necessario. Anche i life events sono associati al rischio giovanile: in particolare, la morte di un genitore o una perdita significativa all’interno di una famiglia aumentano notevolmente il rischio di comportamenti suicidari. Stress di tipo interpersonale legati all’ambito familiare per i soggetti più giovani o a relazioni affettive significative per gli adolescenti più grandi, sono frequentemente riscontrati nei soggetti che compiono suicidio in adolescenza (Maggiolini et al., 2013; Vanni, 2009).

 

Le diverse condotte suicidarie in adolescenza

Se il suicidio e il tentativo di suicidio hanno, come eventi, una fisionomia ben definita ed un significato univoco – quello di togliersi la vita – essi sono, invece, dal punto di vista psicologico, eventi assai complessi sia nella fenomenologia che nelle dinamiche. E’ quindi più corretto parlare di condotte suicidarie.

Da un punto di vista fenomenologico, possiamo distinguere varie condotte suicidarie:
– Il suicidio riuscito che non pone evidentemente problemi semiologici né terapeutici; rimane invece del tutto aperto il problema dei veri motivi che lo hanno determinato, motivi che possono essere inferiti solo a posteriori e in via del tutto ipotetica, ripercorrendo le vicende e i processi che possono essere stati alla base ed utilizzando come fonte informativa le persone più o meno significative dell’ambiente e/o coloro che vi hanno assistito o che lo hanno scoperto. Sull’attendibilità di tali fonti bisogna, peraltro, andare molto cauti in quanto i processi di negazione e di trasformazione del significato e dei motivi dell’atto suicidario in sé e degli eventi e dei processi affettivi e relazionali che lo hanno preceduto, sono spesso estremamente imponenti.

– Il tentativo di suicidio che è un suicidio mancato perché, nonostante fosse presente un’effettiva volontà suicidaria, esso non si è concluso con la morte per una serie di motivi solo in parte casuali. Vale la pena di ricordare che la differenza tra il suicidio e il tentativo di suicidio può, dal punto di vista psicologico, essere molto sfumata in quanto molti tentativi di suicidio restano tali e non diventano suicidi riusciti, vuoi per l’alea del caso – alea in cui giocano peraltro anche dinamiche sia del soggetto che dell’ambiente – vuoi per l’attuale grande diffusione e perfezionamento dei mezzi di rianimazione.

– Le velleità suicidarie che sono tentativi di suicidio appena abbozzati, come il taglio superficiale delle vene, l’assunzione di farmaci in qualità e quantità sicuramente non mortale, certi comportamenti autolesivi sempre sul piano fisico, etc… Tali condotte vengono spesso confuse con i tentativi di suicidio veri e propri ma possono essere anche sottovalutati e non considerati nel loro significato di segnali di pericolo, talora con confusione protettiva nei confronti di un vero e proprio suicidio o tentato suicidio.

– I tentativi di suicidio reiterati, che finiscono con il configurare delle condotte suicidarie croniche e che diventano, per certi aspetti “uno stile di vita”, stile che inizia spesso nell’adolescenza o post-adolescenza.

– I cosiddetti equivalenti suicidari, nella forma di incidenti gravi e ripetuti, esposizione frequente a rischi importanti, particolari condotte in cui la posta in gioco è la vita e nelle quali è sempre presente e determinante una sfida onnipotente; infine, l’assunzione di droghe pesanti in quantità e con modalità tali da comportare un rilevante e immediato rischio di morte (Senise, 1989).

L’idea di potersi o volersi suicidare è un’esperienza emotiva assai frequente, soprattutto in certe fasi della vita segnate da importanti crisi evolutive. Tale esperienza costituisce un elemento rappresentazionale ed affettivo probabilmente connaturato ad una larga quota di esseri umani ed è connesso alla capacità di accettare l’idea dell’ineluttabilità della propria futura morte. Tale capacità costituisce un momento evolutivo importante nel corso del processo adolescenziale in quanto segnala, da un lato, l’affrancamento dalle infantili fantasie di onnipotenza e di immortalità (e quindi l’accettazione dei limiti posti dalla realtà della vita, in primo luogo quelli temporali), ma costituisce anche, dall’altro lato, l’affermazione del proprio Sé in quanto sede unica delle proprie libertà decisionali ed una genuina e attiva accettazione della vita attraverso la rappresentazione mentale della possibilità del suo contrario (Pandolfi, 2000; Senise; 1989).

 

Il suicidio in adolescenza come evento processuale

Il tentativo di suicidio, pur nella sua assai differente fenomenologia e gravità, è sempre l’ultima fase e l’atto conclusivo e manifesto di un complesso insieme di processi, fantasie, desideri e vissuti tra loro differenti ed anche contraddittori, comunque esistenti e in azione già da tempo, sia pure con differenti livelli di consapevolezza. Cosicché quella che spesso viene definita come un’azione improvvisa, incomprensibile ed inconsulta, è tale solo in apparenza o, meglio, per quanto concerne la messa in atto; ma ha, invece, in quanto processo, una sua storia più o meno lunga e tortuosa i cui percorsi si celano nella soggettività dell’adolescente che tenta il suicidio.

Il tentato suicidio, dunque, non è mai un evento puntiforme nell’esistenza di una persona, ma un evento processuale con un “prima” e un “dopo”, determinato sia dalla realtà psichica interna, sia dalle vicende relazionali esterne della micro e macro società in cui l’adolescente vive (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

L’adolescente è di per sé vulnerabile sul piano psicologico, in particolare per quanto concerne l’integrazione dei vari aspetti del Sé, la regolazione dell’autostima, la tolleranza alla frustrazione, la capacità di mediare gli impulsi e di avere una realistica rappresentazione delle conseguenze delle proprie azioni. Non deve, dunque, stupire che l’adolescenza costituisca un periodo di minore resistenza di fronte ad eventi relazionali e sociali di per sé magari non gravi o, addirittura, banali. Tali eventi, infatti, assumono per alcuni di questi soggetti valenze e significati nettamente ed intollerabilmente traumatici, soprattutto se si vanno a sommare gli uni agli altri in un lasso di tempo troppo breve e/o in un ambiente che non ne facilita la corretta metabolizzazione emotiva. Questo tipo di considerazione spiega i non infrequenti errori di comprensione e di valutazione, cui seguono ovviamente errori nell’approccio terapeutico e nella profilassi delle recidive, di quei casi di tentato suicidio in adolescenza nei quali la causa sociale o relazionale più prossima o immediata, quale può essere un insuccesso scolastico o sentimentale, viene presa per la “causa”, unica e vera responsabile dell’evento, invece di essere considerata nel suo giusto valore di causa scatenante ultima, in quanto ha agito su di un soggetto la cui coesione e solidità psico-affettiva erano già in condizione di notevole, anche se misconosciuta, precarietà.

Queste considerazioni valgono per le condotte suicidarie di tutte le età, ma in modo del tutto particolare per quelle che si verificano in età adolescenziale. E’ probabile che questi errori di valutazione siano anche determinati dall’inconsapevole desiderio dell’ambiente, soprattutto familiare, di restare ad un livello di spiegazione superficiale che esima dal prendere atto di condizioni di problematicità, sofferenza e difficoltà personali e relazionali fino ad allora presenti ma ignorate. Se questo tipo di reazione e di condotta è comprensibile, anche se certamente negativa, da parte dell’ambiente familiare, non lo è per quanto concerne le figure professionali che a qualsiasi titolo sono chiamate ad occuparsi del suicidio in adolescenza (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

 

Le vulnerabilità psicologiche dell’adolescente

Abbiamo parlato della generale vulnerabilità psicologica dell’adolescente la quale, quando supera certi livelli, lo espone tra le altre forme di psicopatologia anche al rischio suicidario. Le tre caratteristiche dell’adolescente che meritano un’attenzione particolare sono:

1- La difficoltà per certi adolescenti, e per taluni l’impossibilità, di tollerare i sentimenti di solitudine e di “separatedness” che accompagnano il processo di separazione dalle figure parentali e di individuazione della propria nuova identità.
Tale processo, considerato l’asse portante dell’iter adolescenziale, è sempre problematico ma per alcuni soggetti si rivela particolarmente ostico e doloroso in quanto è prevalentemente impregnato dal sentimento di perdita desolante dell’identità infantile e dell’appoggio delle figure significative del passato, senza che tale vissuto sia sufficientemente controbilanciato dal sentimento di acquisizione della propria nuova identità e libertà, delle proprie personali capacità e responsabilità. La depressione che accompagna il processo di sviluppo adolescenziale aumenta in certi casi a dismisura, soprattutto per quanto concerne il sentimento di scarsa stima di Sé, il vissuto di inadeguatezza ai nuovi compiti, la sensazione di essere fatalmente perdente rispetto agli altri, adulti e coetanei; relativamente a questi ultimi l’adolescente potenziale suicida ha spesso la sensazione di essere rimasto irrimediabilmente indietro. Si trova così isolato in un mondo vissuto come inospitale, estraneo o addirittura minaccioso, impossibilitato a tornare al proprio passato ed incapace di approdare ad un futuro nel quale si sente, per motivi interni ed esterni, respinto; si sente incapace, soprattutto, di integrare le rappresentazioni di Sé nel passato, nel presente e nel futuro (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

2- Il fisiologico bisogno di sfidare, che è anche una difesa dalla depressività di cui si è detto sopra.
Si tratta di un bisogno accompagnato dalla tendenza ad agire impulsivamente senza considerare le conseguenze delle proprie azioni. Questa seconda importante caratteristica concorre ad esporre l’adolescente al rischio suicidario, come confermato anche da un interessante studio condotto da Witte e collaboratori su un campione di oltre 10.000 adolescenti. Lo studio ha confermato, infatti, che un adolescente che si suicida è caratterizzato da elevati livelli di impulsività, sia che tale atto abbia evidenti caratteristiche di impulsività (il cosiddetto tentativo di suicidio “impulsivo”), sia che compia tale gesto dopo una lunga pianificazione e senza quelle caratteristiche che lo farebbero ritenere impulsivo, quali l’azione sotto forte stress e la mancanza di premeditazione (Migliarese et al., 2012; Pandolfi, 2000; Senise, 1989; Witte et al., 2007).

3- L’attacco distruttivo al proprio corpo, che è la terza caratteristica che ha un particolare rilievo nei tentativi di suicidio in adolescenza.
Il rapporto dell’adolescente con il proprio corpo è notoriamente problematico per una serie di motivi di cui i più significativi sembrano i seguenti: il corpo con le sue trasformazioni è per l’adolescente la prova più evidente dell’inevitabilità del cambiamento cui egli è soggetto; il corpo, inoltre, è la fonte di nuovi stimoli e di appetenze sessuali la cui intensità, imperiosità ed incontrollabilità erano fino ad allora sconosciute. Per questi motivi il proprio corpo è spesso vissuto dall’adolescente a tratti come un corpo estraneo, sconosciuto, incontrollabile, non veramente appartenente al proprio Sé psichico, nucleo fondante dell’identità. E’ noto, infatti, quanto spesso gli adolescenti provino preoccupazione per il proprio corpo, ma anche insoddisfazione e vergogna, sentimenti la cui drammaticità è spesso misconosciuta agli adulti. Nel suicidio, il corpo diventa contemporaneamente il nemico o la vergogna da eliminare, la vittima da sacrificare, l’impaccio di cui liberarsi e l’esecuzione della sentenza di morte (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

Nell’ambito della paradossale contraddittorietà di molte condotte suicidarie va in primo luogo considerato che queste, nonostante abbiano lo scopo di spezzare ogni legame del soggetto con l’ambiente, contengono anche delle profonde valenze relazionali. Il suicidio, atto solitario per eccellenza, è però sempre anche rivolto mentalmente a qualcuno in particolare o “agli altri” in generale. Può trattarsi di un messaggio di stampo aggressivo che contiene protesta, ribellione, vendetta, ricatto; può essere un grido di aiuto, un tentativo illusorio di riunirsi a una persona amata e perduta, un mezzo altrettanto illusorio per restare sempre nella mente di qualcuno, spesso come fonte di colpa e di rimpianto. Queste idee, questi scopi, sono per lo più compresenti e compenetrati tra loro ad un livello emotivo profondo, anche se ciascuno di essi può agire con differente intensità. Cosicché la pretesa di cogliere il motivo unico di un tentato suicidio è destinata a fallire perché non tiene conto della complessità ed ambiguità della natura umana, mentre pare più corretto parlare di una motivazione privilegiata rispetto alle altre.

Va inoltre aggiunto che, nonostante la condotta suicidaria sia caratterizzata da una grande distruttività, spesso chi tenta il suicidio lo fa perché rifiuta questa vita attuale che gli appare insoddisfacente in grado estremo, o addirittura intollerabile, ma non rigetta la vita in generale; anzi, più o meno consapevolmente, aspira e confida in una vita migliore o perfetta, esente da difficoltà, conflitti e perdite. Infatti, una fantasia molto importante nel promuovere il suicidio è quella per cui la morte così ottenuta non è volta tanto alla distruzione di se stessi, quanto alla speranza, se non alla certezza inconscia, di poter per questa via trovare o ritrovare una condizione di pace e di quiete durature e perfette. Accanto a questa fantasia vediamo però spesso in opera anche un altro desiderio altrettanto illusorio, e cioè che mediante la morte si realizzi un momento di magica onnipotenza e il trionfo di Sé sulle necessarie limitazioni della vita e della realtà. Relativamente vicina a queste fantasie vi è quella secondo cui la morte ottenuta con il suicidio ha lo scopo di preservare la parte migliore di Sé.

Un altro importante meccanismo presente in molti casi di suicidio è il bisogno di trasformare in azione attiva ciò che dovrà essere subìto passivamente, anche se in un futuro lontano, vale a dire la morte stessa.

Altra importante e complessa fantasia, che merita di essere citata in quanto presente in molti processi suicidari adolescenziali, è quella di essere comunque salvati dalla morte. Questa aspettativa magica ed onnipotente, frequente molto più di quanto non si pensi, è qualcosa di diverso dal suicidio come estremo grido di aiuto e mezzo per essere finalmente percepiti nella propria sofferenza, disperazione ed abbandono. Si tratta di un paradosso spesso testimoniato dal fatto che l’adolescente lancia segnali premonitori del suo intento, segnali utilizzati come mezzo comunicativo ma distruttivo per manifestare la propria sofferenza e il proprio dolore. Questi comportamenti presentano una valenza relazionale da non trascurare. E’ fondamentale che l’ambiente relazionale sia empatico e non sottovaluti e annulli, con il disconoscimento e la negazione, il grido d’aiuto sotteso a tali messaggi, ma cerchi di decifrarne il senso e di comportarsi di conseguenza.

Come si vede è assai pericoloso sul piano clinico definire sbrigativamente certi suicidi come “dimostrativi”, definizione che comporta spesso una negazione banalizzante della condotta suicidaria, percepita solo nella sua dimensione falsa e ricattatoria. Basta riflettere sul fatto che se un adolescente deve ricorrere a questo tipo di dimostrazione per riuscire a comunicare la propria sofferenza/aggressività ciò già significa che non è in grado di utilizzare mezzi più evoluti e meno distruttivi (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

 

La prevenzione del suicidio in adolescenza

Da quanto si è detto relativamente al carattere processuale delle vicende che portano un adolescente a tentare il suicidio, si deduce che è possibile effettuare una certa prevenzione del medesimo.

Una prima misura è sicuramente quella di prendere sul serio i propositi suicidari espressi dagli adolescenti invece che annullarli con il disconoscimento della sofferenza e disperazione che li sottende, ovvero mediante la banalizzazione o, peggio ancora, la ridicolizzazione. Queste reazioni sono per lo più determinate dal sentimento di impotenza e di inadeguatezza, di rabbia e di paura che gli adulti provano di fronte ad un adolescente che tenta il suicidio. Ma, come si può comprendere, si tratta di una reazione del tutto disfunzionale. Prendere sul serio il proposito suicidario di un adolescente, però, non significa nemmeno drammatizzare la situazione oltre misura cadendo in una condizione di continuo allarme o permettendo che si instauri un clima più o meno ricattatorio. Quanto più un adolescente sente di essere capito e rispettato nella sua difficoltà e nel suo proposito suicidario, quanto più sente di poter parlare sul serio di sé e della sua sensazione di trovarsi in un vicolo cieco, tanto più è possibile che non metta in atto il suo proposito ed accetti di essere aiutato a cercare e trovare in sé e nell’ambiente risorse e soluzioni alternative e soprattutto non distruttive.

Una seconda misura, in termini di prevenzione del suicidio e tentato suicidio in adolescenza, è quella di rendersi conto di quando e quanto un adolescente cominci a sentirsi e a rendersi via via sempre più isolato dai propri coetanei e dall’ambiente, ad abbandonare in modo progressivo interessi, progetti e speranze, ad avere di sé un’immagine insoddisfacente e deteriorata, a subire frustrazioni, perdite ed insuccessi senza essere in grado di reagirvi attivamente (Pandolfi, 2000; Senise, 1989).

 

La terapia dopo il tentativo il suicidio in adolescenza

Per quanto riguarda il trattamento dell’adolescente che ha tentato il suicidio, è necessario sottolineare che le cure mediche devono essere considerate solo il primo passo. Non basta, infatti, far tornare a vivere una persona che ha cercato di morire, ma è necessario metterla in condizione di desiderare di vivere anziché di morire. Diventa pertanto essenziale effettuare una serie di colloqui psicologici con l’adolescente, i quali devono essere condotti con una tecnica idonea e soprattutto con una posizione emotiva da parte del professionista che escluda, da un lato, attitudini pietistiche e consolatorio-rassicuranti e, dall’altro, atteggiamenti recriminatori ed accusatori. E’ sempre auspicabile poter parlare con l’adolescente in modo aperto e diretto del suo atto, non colludendo con i frequenti tentativi di negazione e di banalizzazione del significato dell’evento. Anche qui, prendere sul serio non significa drammatizzare ma, piuttosto, aiutare il giovane che ha cercato di morire a rendersi conto dei desideri più o meno inconsapevoli che lo hanno spinto a compiere il tentativo e dell’illusorietà di tali desideri, diventando capace di quell’esame di realtà che gli ha fatto clamorosamente difetto nell’esecuzione del suo tentativo. Si tratta, inoltre, di metterlo in condizione di cercare mezzi meno fallimentari per far fronte alle sue difficoltà interne ed esterne e trovare possibilità comunicative e relazionali con se stesso e con l’ambiente più sane ed efficaci in termini di attivo ed intelligente adattamento alla vita (Senise, 1989).

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) presenta alcune caratteristiche che la rendono particolarmente utile nel trattamento degli adolescenti che hanno tentato il suicidio. In primo luogo, la parte cognitiva della CBT comprende molte tecniche per affrontare le cognizioni negative come la hopelessness, che si riferisce alla convinzione dell’individuo di non avere speranza e di non poterne avere in futuro: gli eventi sono assolutamente negativi ed egli non è in grado di fare nulla per modificare la situazione e per risolvere i propri problemi. In secondo luogo, la componente comportamentale della CBT comprende alcune tecniche che possono essere impiegate per aiutare l’adolescente a superare le problematiche sociali e personali che di solito si associano all’autolesionismo in questi gruppi di età. Tecniche quali il problem solving interpersonale e la facilitazione della comunicazione sono parte integrante di molti programmi CBT. In terzo luogo, le terapie cognitivo-comportamentali costituiscono un trattamento efficace per quei disturbi psichiatrici che sono strettamente associati con l’autolesionismo deliberato, quali la depressione.

Tuttavia, nonostante la terapia cognitivo-comportamentale rappresenti una forma molto promettente di intervento, sono necessari trial randomizzati più ampi per stabilire se questo intervento riduca effettivamente il rischio di recidive (Harrington et al., 2002; Oliverio Ferraris et al., 2009; Rainone et al., 2004).

La natura dell’amore, l’esperimento di H. Harlow – I grandi esperimenti di psicologia

#7: La natura dell’amore di H. Harlow (1958). Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

L’amore e gli studi sull’attaccamento tra madre e figlio

L’amore è uno stato meraviglioso, profondo, tenero e gratificante. A causa della sua natura intima e personale viene considerato come un argomento poco adatto alla ricerca sperimentale. Ma, qualunque siano i nostri sentimenti, la nostra missione come psicologi è quella di analizzare tutti gli aspetti del comportamento umano e animale, nelle varie sfaccettature che lo compongono. Per quanto riguarda l’amore e l’affetto, gli psicologi hanno fallito in questa missione.

Queste sono le prime parole scritte da Harlow in una pubblicazione che rimane ancora oggi pilastro portante degli studi sull’attaccamento. Alla fine degli anni ‘50, psicologi e sociologi concordavano su un principio fondamentale: alcuni dei bisogni primari (fame, sete, dolore) venivano soddisfatti dal legame con la madre e da ciò, attraverso un meccanismo d’apprendimento, derivavano amore e affetto.

L’esperimento di Harlow

Questa spiegazione convince Harry Harlow solo in parte: perché questo legame rimane, spesso profondo e intatto, anche quando la madre cessa di essere la risposta ai bisogni del piccolo? Per analizzare un meccanismo così complesso, afferma Harlow, non è possibile testare un campione di neonati, in quanto le loro capacità motorie si affinano molto tempo dopo la nascita, pertanto la loro osservazione diventa complicata. Per questo motivo, Harlow sceglie di descrivere il comportamento dei macachi, autonomi nel movimenti già a 2-10 giorni di vita e con segnali di vicinanza affettiva simili a quelli della nostra specie (allattamento, ricerca del contatto, prossimità fisica). Nel giro di tre anni, più di 60 piccoli di macaco vengono separati dalla madre a 6-12 ore dalla nascita e allevati con latte artificiale contenente sostanze nutritive adeguate per essere osservati e studiati.

La prima osservazione annotata da Harlow descrive come i piccoli vengano immediatamente attratti dai pezzi di stoffa messi nelle gabbie per renderle più confortevoli. Quando i panni vengono rimossi per essere lavati, i macachi protestano, si arrabbiano e diventano violenti. Inoltre, se nella gabbia viene riposto un oggetto, anche solo un cono di rete metallica, questi cuccioli crescono meglio rispetto a quelli che vivono in una gabbia vuota. Di fronte a questi dati, lo studioso opta per costruire una madre surrogato, con un’anima di legno ricoperta da un panno caldo, riposta nella gabbia del piccolo 24 ore su 24.

Dal nostro punto di vista, abbiamo progettato mamme scimmia migliori, nonostante questa posizione non sia universalmente condivisa dai papà scimmia.

Questa mamma non è sola, ma nella gabbia viene riposta una sagoma del tutto identica, solo non ricoperta con il panno. In alcuni casi, quest’ultima è dotata di un meccanismo per nutrire il piccolo, in altri è la “mamma morbida” ad avere anche questa funzione. Ebbene, qualunque sia la mamma capace di dare il latte, i piccoli tendono a stare con la “mamma morbida”, calda e accogliente e, se necessario, si spostano verso l’altra figura solo il tempo necessario a nutrirsi.

esperimento di Harlow

Le osservazioni

Questa è per Harlow una scoperta sensazionale, che va oltre tutto ciò che è stato detto fino a quel momento a proposito del legame madre – bambino. Non c’entra nulla il soddisfacimento della fame e della sete. Sono altre le variabili in gioco. La vera funzione dell’allattamento, afferma Harlow, è quello di assicurare un contatto continuo e intimo con la madre, allo scopo di garantire sicurezza in momenti di paura o pericolo. Spaventando i piccoli macachi con un giocattolo, essi si rivolgono sempre alla mamma ricoperta con il panno morbido, senza considerare la fonte di nutrimento. Anche l’esplorazione subisce notevoli cambiamenti a seconda della presenza o meno della madre surrogata nello spazio: quando c’è, i macachi si muovono liberamente tornando talvolta verso la madre. Se al contrario è assente, i piccoli si mostrano impauriti, restano accovacciati e iniziano a dondolare. Harlow sottopone ai macachi allevati con madri surrogate numerose altre prove, che riconfermano i dati già esposti.

Conclusioni

L’esperimento ha una forte valenza all’interno degli studi sull’attaccamento e non solo. Se da una parte mette in crisi le teorie ritenute valide all’epoca, dall’altra manifesta ricadute anche a livello socioeconomico, che Harlow identifica e descrive in conclusione al suo lavoro. Non è più verità assoluta che le madri, dopo aver partorito, debbano stare a casa dal lavoro a occuparsi dei figli. Gli uomini hanno le stesse caratteristiche necessarie a creare il legame di cui ha bisogno il neonato, perché non si tratta più di bisogno di allattamento. Addirittura potrebbe esistere un futuro, afferma Harlow, in cui allattare diventa un lusso, destinato a chi può permettersi di non lavorare.

Ma qualunque sia il corso della storia, è confortante sapere che siamo ora in contatto con la vera natura dell’amore.

Musica e Psiche: la follia dei grandi musicisti

La musica non cura. Eccita, placa, risveglia, ti porta in un mondo che non pensavi, ti spalanca gli occhi a quel tramonto di cui non hai mai davvero visto i colori.  Ma non è una medicina.

Di Giancarlo Dimaggio, parti del seguente articolo sono pubblicate su Il Corriere della Sera

 

La musica non cura. Eccita, placa, risveglia, ti porta in un mondo che non pensavi, ti spalanca gli occhi a quel tramonto di cui non hai mai davvero visto i colori, in un pomeriggio di aprile che non hai mai vissuto dove l’ombra dell’olmo si poggiava su un muro di pietra che era lì da millenni a parlare di ninfe, onde e vigne.

Ravviva, intristisce, sballa, diverte, fa tutte queste cose. Ma non è una medicina. I musicisti non la assumono per guarire e se lo fanno non funziona. Altrimenti Layne Stanley, cantante degli Alice in Chains, non sarebbe morto di speedball, Amy Winehouse terrebbe ancora concerti, Syd Barrett non sarebbe impazzito. E James Hetfield non si sarebbe scolato più vodka di un gruppo di mafiosi russi nell’ora di ricreazione, fino quasi a distruggere se stesso e i Metallica, complice Lars Ulrich. Poi decisero di fare una terapia di gruppo.

Allora i musicisti sono matti di una follia che resiste alla melodia? Matti in un modo speciale, di una malattia che ne alimenta la creatività e li tormenta?

Non lo so. Le loro storie sono interessanti.

Robert Schumann, due anni prima di morire, arrivò a comporre sotto l’influenza degli spiriti che gli parlavano. L’opera è le ‘Variazioni Geister’ (degli spettri), a suo dire dettate dai fantasmi. Tentò il suicidio pochi giorni dopo gettandosi nel Reno. Si salvò, chiese di essere internato in manicomio dove morì in solitudine. Per tutta la vita soffrì di intensa depressione, alternata a fasi di esaltazione. Gli spettri che gli parlavano erano allucinazioni uditive.

Tim e Jeff Buckley. Se il Reno ha rifiutato Schumann, quasi due secoli dopo il Mississipi si è preso Jeff Buckley. In una sera di Maggio si tuffò per nuotare. Non riemerse più, forse risucchiato da un gorgo creato da un battello. Aveva 31 anni. Il padre Tim non era arrivato a quell’età, ne aveva 28 quando eroina e alcool se lo presero. Desiderio inconscio del figlio di ricongiungersi al padre che non aveva praticamente mai conosciuto? Una speculazione possibile, valida quanto l’idea che sia stato semplicemente vittima di un incidente. Se fosse vissuto più a lungo, avrebbe scritto un altro brano bello quanto ‘Grace’?

James Hetfield beveva come un dannato. Vodka a fiumi. Era carico di rabbia. Può avere influito sulla sua personalità che i genitori, a causa della fede nel Cristianesimo scientista, fossero concordi nel fatto che la madre, malata di cancro, rifiutasse le cure? Mise su insieme a Lars Ulrich i Metallica. Insieme li stavano distruggendo per i loro conflitti caratteriali. Nel documentario ‘Some Kind of Monster’, imperdibile, si vede tutto. Bisogno di controllo, due ego potentissimi che si fronteggiano titanicamente. Un terapeuta che li aiuta a sistemare le cose e poi commette degli errori. I Metallica sono ancora sul palco.

Syd Barrett. La storia è nota. Abusa di LSD. Gli acidi possono indurre psicosi. La mente di Syd se ne va. Era predisposto alla follia? C’è chi ha ipotizzato che soffrisse da sempre di sindrome di Asperger, una forma più lieve di autismo. Gli acidi causarono una rottura nella sua mente e l’isolamento, a cui gli Asperger sono predisposti perché non hanno una reale comprensione della vita interiore degli altri, prese il sopravvento. Che sia stato Asperger o psicosi indotta da psicofarmaci, ipotesi che a me comunque appare più plausibile, importa poco. Quello che rimane è il racconto di Nick Mason in ‘Inside Out’, la sua versione della storia dei Pink Floyd: il 5 giugno 1975 un uomo grasso e pelato entrò negli Abbey Road Studios, dove i suoi ex compagni registravano ‘Wish You Were Here’, aveva una borsa da spesa di plastica in mano e un’espressione vacua. Chi soffre di schizofrenia appare così. Gilmour gli chiese cosa facesse nella vita. Syd rispose che aveva da comprare sempre braciole di maiale perché tendevano a finire.

Elliott Smith. Guardate ‘Will Hunting-Genio Ribelle’. La sua ‘Angeles’ accompagna la scena d’amore più toccante del film. Un pezzo che trasmette calma, calore e nostalgia. Mi chiedo quale animo avesse bisogno di scrivere un brano così avvolgente, pacificante. Smith era depresso, abusava di alcool e droghe e nessun tentativo di disintossicazione riuscì. ‘Miss Misery’, da Will Hunting, fu candidata all’Oscar nel 1997, gli fu preferita Céline Dion. Nel 2001 era convinto di essere seguito da un furgone bianco e che i tipi della casa discografica avessero fatto irruzione nella sua casa. Nel 2003 morirà con due pugnalate al petto, evento rubricato come suicidio. Forse spinto dagli stessi spettri che parlavano a Schumann?

Forse c’è una componente genetica sottostante al rapporto tra musica e follia, il DNA della creatività ha parentele con quello di schizofrenia e disturbo bipolare, ma c’è tanto da investigare per affermarlo con certezza. I rapporti possono essere di altri tipi. Suonare e comporre possono essere un lenitivo per personalità disposte alla sofferenza. E questo non è specifico della musica e dell’arte. Quanti riescono a trovare sollievo solo nelle loro attività preferite? Cucinare, fare sport, intagliare il legno.

Oppure: lo stile di vita del musicista espone a instabilità, uso di sostanze e stress che anche in presenza di minime vulnerabilità minano l’equilibro psichico? È possibile. Io faccio spesso lezione di psicoterapia, tutto il weekend, in passato anche per tre weekend di fila. Dissi agli amici: ‘Ho scoperto perché i musicisti si drogano! Ho parlato per due giorni a venti persone e sono distrutto. Vi immaginate andare in tour, quattro concerti a settimana, prove, viaggio e tremila, diecimila persone che urlano? Minimo mandi giù sei birre e una tequila!

Altra possibilità: il bisogno di ammirazione che ti porta ad andare sul palco per chiedere al pubblico chi sei. Qui c’è una patologia della personalità, vero, ma… è specifica dei musicisti? O degli attori, dei manager, degli stilisti? O è lo stesso carattere di chi, non importa che lavoro faccia, si rode in silenzio, covando angoscia e rancore perché nessuno va a stanarlo dicendogli che è unico ed eccezionale?

E infine la più classica: soffri, e gli vuoi dare un senso. Hai talento: componi. Gli altri ascolteranno i tuoi tormenti trasformati in arte, non sarai solo. Tutte possibili spiegazioni del legame tra musica e sofferenza psichica, niente di saldamente scientifico che ci dica innanzitutto se tale legame esista davvero.

Eppure in fondo la patografia è un esercizio che non mi interessa, da psicoterapeuta la scanso, mi sembra di guardare in TV l’analisi retrospettiva dell’ultimo killer finito in prima pagina. Mi interessa invece molto la vita degli artisti, quando è scritta in prima persona, soprattutto se con penna felice. James Rhodes ha pubblicato ‘Le Variazioni del dolore’. Non lo avete tra le mani? Avete letto ‘Open’ di Agassi? Non aspettate, sono della stessa categoria, solo che Rhodes condisce con salsa Palahniuk (mister Fight Club). Rhodes colpisce duro, sporco, mira sotto la cintura. La sua vita: oggi un talento mondiale del pianoforte classico. Ieri, un bambino sodomizzato per anni, a partire dai sei, dal suo insegnante di boxe a scuola. Siete disgustati? Io sì, ma succede e l’ultima cosa da fare è girarci intorno. L’ha pagata cara. Si è strafatto di qualsiasi cosa, ha bevuto oltre ogni limite, frequentato gli alcoolisti anonimi, ha amato, torturato chi gli stava accanto, sofferto d’insonnia, non necessariamente in quest’ordine. Si è tagliato con le lamette per provare piacere – pratica cara a molti adolescenti malati: sconsiglio, quando guarite le vostre cicatrici vi faranno schifo, non sono fighe per niente. Trova persone che gli vogliono bene, credono in lui.

A Verona un italiano scopre che da piccolo James ci sapeva fare, gli chiede di suonare. Resta ammirato, lo obbliga a prendere lezioni col miglior maestro che ci sia, Edo: urla, incoraggiamenti, disciplina, il suo talento prende forma. Dà concerti. Piace. Poi riprende a darla vinta ai suoi demoni. Ancora ricoveri, lamette, poi va fuori di testa di brutto, lo ricoverano a forza, tenta maldestramente di impiccarsi. Prende per i fondelli i terapeuti per anni, finché non capisce che non era una genialata. Superato l’abisso, conosce Denis che gli chiede di suonargli la ‘Ciaccona’ di Bach/Busoni. Tu farai un disco, è l’inizio della rinascita. Non sarà un percorso lineare, non lo è a tutt’oggi. Cammina in compagnia degli spiriti affini che omaggia in ogni capitolo. Schumann che sentiva le voci degli spettri e le trasportava in musica. Schubert, bruttino e rancoroso morto giovane, Ravel mammone asessuato.

Io un paziente come Rhodes l’ho visto. Bassista rock, sniffava eroina, cocaina e beveva. Diceva mezza parola a seduta. Dopo mesi mi confessò: sono stato abusato da un pedofilo. Chi lo ha saputo mi ha abbandonato e temo che pensino che diventerò pedofilo anche io. Ci sono voluti anni, ma il dolore è sgorgato fuori, ora non si droga più, tiene concerti, turni su turni in sala d’incisione, la fidanzata lo ama.

Still Alice e il morbo di Alzheimer (2014) – Cinema & Psicologia

Il morbo di Alzheimer fa parte delle demenze neurodegenerative primarie ed è caratterizzato dalla comparsa di deficit di memoria a carattere ingravescente, a cui, successivamente, si aggiungono deficit di altri domini cognitivi (attenzione, prassia, abilità esecutive, ecc.) sino alla conversione a stadio di demenza conclamata.

[blockquote style=”1″]Se pensiamo di fare qualcosa, forse è il caso di farla subito![/blockquote]

Still Alice è un film del 2014, regia e sceneggiatura sono curate da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, tra gli interpreti: Julianne Moore, che grazie all’ eccellente interpretazione vince l’oscar come miglior attrice, Alec Baldwin, Kristen Stewart, Kate Bosworth.

Alice Howland ha cinquanta anni è moglie e madre di tre figli è una professoressa di linguistica alla Columbia University di New York, è felice, intelligente, colta ed affermata. Dopo diversi vuoti di memoria e momenti di smarrimento, Alice decide di farsi visitare da un neurologo e scopre di avere una forma precoce di Alzheimer.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Il morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer fa parte delle demenze neurodegenerative primarie ed è caratterizzato dalla comparsa di deficit di memoria a carattere ingravescente, a cui, successivamente, si aggiungono deficit di altri domini cognitivi (attenzione, prassia, abilità esecutive, ecc.) sino alla conversione a stadio di demenza conclamata. Ci si può ammalare di Alzheimer in modalità primaria o può insorgere secondariamente per una predisposizione genetica associata a specifiche mutazioni (per es., gene precursore della β-amiloide, gene della presenilina 1 e 2) (Michael S. Gazzaniga ,Richard B. Ivry, George R. Mangun).

La progressione del morbo di Alzheimer è inesorabile. Gli esperti hanno sviluppato delle “tappe” per descrivere come le abilità di una persona cambino, rispetto alla loro normale funzionalità.

Le fasi degenerative del morbo di Alzheimer

Questo quadro, caratterizzato da sette fasi, si fonda su un sistema sviluppato da Barry Reisberg, M.D., direttore clinico del Dementia Research Center (Centro di Ricerca sull’Invecchiamento e la Demenza) della New York University School of Medicine:

Fase 1: Funzionalità normale
La persona non soffre di problemi di memoria. La visita effettuata presso un medico non mostra alcuna prova di sintomi di demenza.

Fase 2: Declino cognitivo molto lieve (è possibile che si tratti di normali cambiamenti legati all’età o dei primi segnali del morbo di Alzheimer)
La persona potrebbe segnalare la sensazione di avere vuoti di memoria – dimenticando parole familiari o la posizione di oggetti di uso quotidiano. Tuttavia, nessun sintomo di demenza può essere rilevato nel corso di una visita medica oppure da amici, familiari o colleghi di lavoro.

Fase 3: Declino cognitivo lieve. Un lieve declino cognitivo (il morbo di Alzheimer in fase precoce può essere diagnosticato con questi sintomi in alcune, ma non in tutte le persone).
Amici, familiari o colleghi di lavoro iniziano a notare delle difficoltà. Nel corso di una visita medica accurata, i medici possono essere in grado di rilevare problemi di memoria o di concentrazione. Le difficoltà più comuni di cui alla fase 3 includono:
-Evidenti difficoltà a trovare la parola o il nome giusto
-Problemi a ricordare i nomi quando vengono presentate nuove persone
-Difficoltà notevolmente maggiori nello svolgere dei compiti in contesti sociali o di lavoro
-Dimenticare cose appena lette
-Perdere o non trovare un oggetto di valore
-Aumento dei problemi di programmazione o organizzazione

Fase 4: Declino cognitivo moderato (morbo di Alzheimer lieve o in fase precoce)
A questo punto, una visita medica accurata dovrebbe poter rilevare chiari sintomi in diversi ambiti:
-Dimenticanza di recenti eventi
-Compromissione della capacità di eseguire calcoli aritmetici mentali impegnativi – ad esempio, il contare a ritroso da 100 di sette in sette
-Maggiore difficoltà a svolgere compiti complessi, quali, ad esempio, la pianificazione della cena per gli ospiti, il pagamento delle bollette o la gestione delle finanze
-Dimenticanza della propria storia personale
-Carattere sempre più lunatico o riservato, soprattutto in occasione di situazioni socialmente o mentalmente impegnative.

Fase 5 : Declino cognitivo moderatamente grave (morbo di Alzheimer moderato o in stadio intermedio)
Le lacune nella memoria e nel pensare diventano evidenti, e le persone cominciano ad avere bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, chi è affetto dal morbo di Alzheimer potrebbe:
-Non essere in grado di ricordare il proprio indirizzo o numero di telefono oppure la scuola superiore o l’università presso la quale si è laureato
-Confondersi sul luogo in cui si trova o sul giorno attuale
-Avere problemi con l’esecuzione di calcoli aritmetici mentali meno impegnativi – ad esempio, il contare a ritroso da 40 di quattro in quattro, oppure da 20 di due in due
-Avere bisogno di aiuto per scegliere un abbigliamento adeguato per la stagione o per l’occasione
-Ricordare ancora particolari significativi su se stessi e la loro famiglia
-Non necessitare ancora di assistenza per mangiare o andare in bagno.

Fase 6 : Declino cognitivo grave (morbo di Alzheimer moderatamente grave o in fase media)
La memoria continua a peggiorare, possono aver luogo cambiamenti di personalità; le persone hanno bisogno di notevole aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, tali individui potrebbero:
-Perdere la consapevolezza delle esperienze più recenti e di ciò che li circonda
-Ricordare il proprio nome, ma avere difficoltà a ricordare la propria storia personale
-Distinguere i volti noti e non noti, ma avere difficoltà a ricordare il nome di un coniuge o di una persona che l’assiste
-Avere bisogno di aiuto per vestirsi correttamente e, in caso di mancato controllo, compiere errori quali indossare il pigiama sopra i vestiti da giorno o indossare scarpe sul piede sbagliato
-Vivere l’esperienza di grandi cambiamenti nei modelli di sonno – dormire durante il giorno e diventare irrequieto di notte
-Avere bisogno di aiuto nel gestire certi dettagli dell’igiene personale (ad esempio, tirare lo sciacquone, pulirsi con la carta igienica o smaltirla correttamente)
-Avere problemi sempre più frequenti nel controllare la vescica o l’intestino
-Vivere l’esperienza di notevoli cambiamenti di personalità e di comportamento, tra cui la sospettosità e le fissazioni (come credere che la persona che l’assiste sia un’imbrogliona) oppure comportamenti incontrollabili o ripetitivi, come torcersi le mani o fare a pezzetti i fazzoletti di carta             – Tendere a vagare o perdersi

Fase 7: Declino cognitivo molto grave (morbo di Alzheimer grave o in fase avanzata)
Nella fase finale di questa malattia, la persona perde la capacità di rispondere al suo ambiente, di portare avanti una conversazione e, in seguito, di controllare i movimenti. L’individuo può ancora utilizzare parole o frasi.
In questa fase, è necessario molto aiuto nella cura personale quotidiana, tra cui mangiare o andare in bagno. Possono andare perdute le capacità di sorridere, di sedersi senza supporto e di sorreggere la propria testa. I riflessi diventano anomali. I muscoli diventano rigidi. La deglutizione diventa compromessa.

Il morbo di Alzheimer vissuto da Alice

Alice conosce il cervello, sa a cosa va incontro. Crede di saperlo. Una scena in particolare mi ha decisamente colpito. Questa scena sottolinea in modo delicato e struggente come si possa arrivare a non essere più coscienti e padroni di ciò che eravamo e la totale inconsapevolezza, nonostante gli studi accademici (forse la scelta di una protagonista con tali competenze non è casuale) di ciò a cui ti porta realmente la malattia.
Crea, in effetti, dei test di memoria, legati alla sua vita che ripete ogni giorno, che in qualche modo le danno l’indice della progressione della malattia.

Nel momento in cui non riuscirà a rispondere più a determinate domande decide che dovrà uccidersi. Crea una cartellina nel computer con tutte le istruzioni. Un video di Alice che parla ad Alice, “se mi sto dicendo di fare questa cosa” pensa, “sicuramente dovrò fidarmi di me e del fatto che ormai sono diretta all’inesorabile irrimediabile fine”. Calcola tutto, ma non si rende conto che non riuscendo più a rispondere a quelle determinate domande, essendo avanzata troppo la malattia non potrà comprendere appieno ciò che l’altra Alice le sta dicendo di fare, tenterà di assecondare le istruzioni, se ne dimenticherà, ci riproverà, lo scorderà, non riuscirà ad avere quella padronanza e quella consapevolezza nell’interrompere la propria vita giunta ad un cammino dove rimane solo una strada buia. Così mi ha fatto immaginare cosa possa essere la progressione di questo morbo, un cammino in cui mano mano che si va avanti si avanza verso il buio e ci si ritrova immersi nel niente. Chi ero? Chi sono? Queste domande alla fine non ci saranno neanche più.

Conclusioni

Il film romanza in modo leggero ma allo stesso tempo toccante questo tema e dà spunto a riflessioni che vanno oltre la sola malattia e chi ne è afflitto, osserva chi abbiamo intorno e il loro modo di rispondere a questa tragedia, ci fa sentire impotenti e sottolinea quanto bisognerebbe apprezzare anche la più piccola azione quotidiana che in modo scontato facciamo.
Quando si spegne il cuore, finisce la nostra occasione, l’occasione di ridere, progettare, ricordare, osservare, apprezzare il sole che scalda il viso, una bella canzone, l’occasione di avere un’altra occasione, quando si spegne la mente, si continua a respirare inconsapevoli del fatto che di occasioni non ne avremo più.

Tumore al seno: nuove relazioni per il recupero dell’immagine corporea

Stabilire una nuova relazione intima dopo il tumore al seno ha il potere di creare un ambiente psicologicamente terapeutico per la donna.

 

L’immagine corporea

È Schilder a coniare, nel 1935, l’espressione immagine corporea, definendola come [blockquote style=”1″]L’immagine del nostro corpo che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il corpo appare a noi stessi [/blockquote](Schilder, 1935). Si tratta del primo tentativo di integrare l’aspetto fisiologico e neurologico relativo allo schema corporeo con l’aspetto più psicologico: la rappresentazione del corpo non è più quella descritta dall’anatomia, bensì risulta dall’esperienza dell’individuo nella sua interazione con l’ambiente. Nel 1988, Slade definisce l’immagine corporea come [blockquote style=”1″]L’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alla singole parti del nostro corpo[/blockquote] vale a dire la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo.

Slade descrive l’immagine corporea come costituita da quattro componenti che comprendono la persona nella sua globalità:
1. componente affettiva (sentimenti esperiti verso il proprio corpo)
2. componente cognitiva (pensieri, credenze, conoscenze relative al proprio corpo)
3. componente comportamentale (alimentazione, attività fisica)
4. componente percettiva (come vengono visualizzate taglia e forma del proprio corpo).

L’immagine corporea riflette dunque una percezione personale diretta e un’auto-valutazione del proprio aspetto fisico, per cui pensieri e sentimenti negativi riferiti al proprio corpo indicano un disturbo dell’immagine corporea e conducono ad un’insoddisfazione con se stessi (Stokes & Frederick-Recascino, 2003).

Per le donne, l’immagine corporea è una parte del concetto di Sé che include sentimenti di femminilità e di bellezza (Carver et al., 1998; Cohen et al., 1998; Hopwood, 1993; Mock, 1993; White, 2000), compiacendosi del proprio corpo come simbolo di espressione sociale (Cohen et al., 1998). Il modo in cui una donna vive il proprio corpo è altamente soggettivo: è un prodotto delle sue percezioni, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti riguardo la taglia, la capacità e la funzione del corpo (Cohen et al., 1998; White, 2000). Le donne spesso si focalizzano sulla valutazione e sull’investimento connessi alla propria immagine corporea, pertanto una diagnosi di tumore al seno può esacerbare questa tendenza (Lazarus, 1991), con ripercussioni negative sull’autostima e, più in generale, sulla qualità della vita.

 

Tumore al seno: aspetti psicologici della diagnosi e del trattamento

La diagnosi e il trattamento del tumore al seno causano un forte distress nella donna. [blockquote style=”1″]Il distress è una spiacevole esperienza emotiva di natura psicologica, sociale e/o spirituale che si estende lungo un continuum che va da normali sentimenti di vulnerabilità, tristezza e paura, a problemi invalidanti quali depressione, ansia, panico, isolamento sociale e crisi spirituali[/blockquote] (Holland, 1998).

Pertanto, assume una rilevanza cruciale la cura dello stato emozionale della persona affetta da tumore al seno e del suo contesto di appartenenza. Infatti, sebbene il cancro al seno sia una diagnosi individuale, si verifica in un ampio contesto interpersonale, andando a toccare le relazioni intime. Il tumore al seno colpisce l’abilità di coping della coppia riguardo i cambiamenti connessi alla malattia, con un incremento delle disfunzioni sessuali e l’insorgenza di difficoltà di comunicazione, perdita della fertilità, paura della morte e di un futuro incerto. Molte donne sono preoccupate della reazione del proprio partner alla diagnosi e hanno paura di essere abbandonate. Glantz e colleghi hanno studiato il tasso di separazione in coppie in cui uno dei due partner ha ricevuto una diagnosi oncologica grave: i risultati mostrano che i pazienti oncologici non vanno incontro a separazione e divorzio in misura maggiore della popolazione generale, anche se nello stesso studio si evidenzia l’esistenza di una forte disparità tra maschi e femmine (il 93% delle separazioni nel gruppo oncologico avviene quando la persona colpita è la donna; il 20,8% delle relazioni termina con una separazione o un divorzio quando è la donna ad essere colpita, mentre quando è l’uomo ad essere colpito la percentuale si riduce al 2,9%). Molte delle ricerche sull’impatto del tumore al seno sulle relazioni ha considerato lo stato coniugale come criterio di inclusione, escludendo quindi le coppie non sposate e le donne che al momento della diagnosi erano impegnate con un uomo: queste donne affrontano difficoltà più grandi rispetto alle donne sposate.

Holmberg e colleghi hanno scoperto che, quando la causa della separazione è il cancro al seno, la rottura solitamente avviene nelle prime fasi del trattamento, lasciando queste donne con risorse materiali e sociali inferiori in un periodo per loro così vulnerabile. Sette donne su quindici riferiscono come la diagnosi di tumore al seno abbia agito come un “grilletto” che ha portato alla fine delle loro relazioni (Kurowecki e Fergus , 2014): l’uomo si è progressivamente distanziato dalla donna e dal suo cancro al seno, fino a non avere più rapporti sessuali con lei. Un elevato numero di donne ha raccontato di essere stato rifiutato dal partner al momento della diagnosi, lasciando loro sentimenti di vulnerabilità e paura dinanzi alla possibilità di avere nuove relazioni (Gluhoski, Siegel, & Gorey, 1998). L’abbandono e il rifiuto da parte di una persona emotivamente significativa in un momento così delicato, genera nella donna insicurezza e rassegnazione all’idea di rimanere single per sempre, con un impatto fortemente negativo sull’autostima:
“Onestamente, ho pensato di essere un oggetto rotto. Ho creduto che non ci fosse più niente di buono in me e che non ne valesse la pena di avere una relazione, perché se la persona che apparentemente diceva di amarmi non vuole stare con me, non vuole impegnarsi con me… perché dovrebbe farlo qualcuno che non mi conosce, che non mi ama ancora… perché qualcuno dovrebbe amarmi?”(Julia, 34)

Si evince pertanto come il tumore al seno rappresenti un evento doppiamente traumatico nella vita di una donna, poiché le lesioni non sono soltanto a livello fisico, ma anche psicologico. Il distress accompagna la donna lungo tutto il periodo che va dal momento in cui la donna scopre di avere il cancro al seno fino al momento in cui si sottopone al trattamento.

Il trattamento comporta una serie di interventi di durata estesa: di solito si inizia con un intervento chirurgico, seguito da una terapia coadiuvante che può includere una combinazione di chemioterapia, radioterapia e trattamento ormonale (Aebi, Davidson, Gruber, & Castiglione, 2010). Questi trattamenti, da soli o combinati, possono produrre diversi effetti. La chirurgia comporta una perdita parziale o totale di uno o di entrambi i seni, con possibile presenza di seni asimmetrici (e il possibile utilizzo di protesi artificiali), di cicatrici estese e alterazioni delle sensazioni al seno e/o alla mammella (Andersen & Johnson, 1994; Kadela-Collins et al., 2011; Swenson et al., 2002; Vadivelu et al., 2008;). La perdita del seno è intrinsecamente connessa al senso di identità, al senso del Sé e alla sessualità della donna: circa un terzo delle donne – soprattutto giovani – sopravvissute al tumore al seno sperimenta distress direttamente legato all’immagine corporea disturbata dopo il trattamento (Scott, Halford, & Ward, 2004). Nonostante dal punto di vista medico la donna stia bene, dal punto di vista psicologico vive cambiamenti negativi nella percezione individuale della propria immagine corporea. “Dopo la mia mastectomia, lui non mi ha mai toccata, non ha mai voluto avere rapporti con me e tutto il resto. Penso che mi abbia fatto star peggio con me stessa. Inoltre, dopo avergli chiesto: Non mi trovi più attraente? Lui mi ha risposto con un secco rifiuto” (Mary, 53)

Gli antecedenti socioculturali che considerano il seno come un oggetto e, più in generale, il corpo femminile come un oggetto socialmente costruito per essere guardato e giudicato (Fredrickson & Roberts, 1997), probabilmente influenzano in maniera forte il pensiero femminile. Il vedersi come un potenziale partner maschile porta la donna a provare disgusto per il proprio corpo segnato dalle cicatrici, in accordo con quanto sostenuto dalla teoria dell’oggettificazione del corpo (Fredrickson & Roberts, 1997). Pertanto, la ricostruzione del seno può rappresentare un vantaggio, poiché aiuterebbe la donna a mantenere la sua sessualità attiva e funzionale, oltre a renderle una stabilità psicologica. Rosenberg e colleghi hanno eseguito uno studio longitudinale per valutare l’interesse per l’immagine corporea in 419 donne sopravvissute al tumore al seno: il gruppo di donne sottoposte a mastectomia parziale ha totalizzato il punteggio più basso, indice di un interesse significativamente più basso per la propria immagine corporea, rispetto alle donne sottoposte a mastectomia con o senza ricostruzione del seno. Il punteggio più elevato è stato rilevato nel gruppo di donne sottoposte unicamente a mastectomia, punteggio significativamente più elevato rispetto al gruppo di donne sottoposte a mastectomia con ricostruzione del seno. Di conseguenza, le donne sottoposte a mastectomia totale sono più a rischio di sviluppare un’immagine corporea disturbata.

La chemioterapia provoca perdita dei capelli, variazione di peso, decolorazione delle unghie e della pelle, menopausa precoce. La perdita dei capelli viene descritta come un evento traumatizzante e stressante che determina cambiamenti nella percezione del senso di Sé e nell’autostima, oltre ad essere un visibile promemoria della malattia (Richer & Ezer, 2002). La menopausa ha effetti vasomotori (vampate), genito-urinari (secchezza vaginale), cardiovascolari (patologie coronariche) e sullo scheletro (osteoporosi), causando problemi nella sfera sessuale (dispareunia, disfunzioni sessuali, disturbi del desiderio) e un aumento del distress psicologico, poiché la donna non è più fertile e non può più avere figli. Molte donne si sentono profondamente inadeguate e indesiderate, specialmente all’inizio della chemioterapia: di solito è in questo momento che si conclude la vita sessuale della maggior parte delle coppie, in primo luogo perché la donna non vuole “avvelenare” il partner condividendo le sostanze chimiche tossiche presenti nel suo corpo, viceversa perché è il partner stesso ad allontanarsi (Kurowecki & Fergus, 2014). I problemi sessuali persistono anni dopo la diagnosi di cancro al seno (Ganz et al., 2002).

La radioterapia, da sola o in combinazione con la chemioterapia, può causare reazioni della pelle e compromissione del colorito cutaneo.
Le donne sottoposte a trattamento ormonale, possono avere difficoltà legate all’aumento di peso e alle vampate.
Gluhoski e colleghi rilevano come le donne siano pessimiste riguardo al trovare e accettare nuovi partner e in particolare riguardo al loro aprirsi e raccontare la loro storia di tumore al seno; hanno paura di essere rifiutate, si sentono sessualmente indesiderate, evitate nelle relazioni sessuali e isolate. Kurowecki e Fergus hanno indagato l’esperienza di 15 donne di stabilire una nuova relazione dopo la diagnosi e il trattamento del cancro al seno. L’ipotesi di partenza era infatti quella di ristabilire l’immagine corporea e l’autostima delle donne attraverso la creazione di una nuova relazione intima. L’articolo scientifico nel quale i due Autori descrivono il loro studio si intitola “Wearing my heart on my chest”, frase scelta dalle donne che hanno preso parte allo studio e che sta ad indicare la profonda vulnerabilità emotiva vissuta nel rivelare ad un nuovo partner la storia di cancro e le cicatrici fisiche. Sebbene spetti alla donna decidere quando e come rivelare la sua storia, generalmente è necessaria la presenza di una persona psicologicamente affidabile, ossia un nuovo partner che abbia un atteggiamento di accettazione, di cura e di attenzione al momento della rivelazione (Kurowecki & Fergus, 2014). Questo naturalmente per evitare che la donna subisca un’ulteriore esperienza negativa. Per questi motivi, la frequentazione di un nuovo partner consisterà in una serie di test in cui la donna piano piano potrà rivelare ciò che le è accaduto e al tempo stesso potrà testare la “resistenza” del nuovo partner e la sicurezza della relazione. Secondo i due Autori, la creazione di una relazione intima con un nuovo partner avviene mediante un processo costituito da una serie di fasi: 1) Perdita e recupero dell’immagine corporea e dell’autostima; 2) Salto nel buio: appuntamento e obbligo di svelarsi; 3) Recupero del Sé attraverso una nuova relazione.

 

Perdita e recupero dell’immagine corporea e dell’autostima: riconoscersi in un corpo cambiato

Prima di poter recuperare la propria autostima, è essenziale apprendere delle strategie per poter accettare nuovamente il proprio corpo. Molte donne sostengono che la ricostruzione dell’immagine corporea è un processo graduale: “Ci vorrà del tempo prima che io riesca a guardarmi allo specchio affermando che ok, questo è il mio corpo.” Ricostruire l’immagine corporea esige l’accettazione del corpo cambiato, piuttosto che lo sforzo di recuperare il corpo di un tempo. Alcune donne sostengono che, nonostante tutti i sacrifici, non saranno mai veramente libere dal tumore al seno, poiché le cicatrici rappresentano un promemoria per loro e per i loro partner: “Ogni giorno, quando ti fai la doccia e ti vesti, non sei più una donna completa”.

In generale, le donne riportano di dover venire a patti con l’impatto psicologico ed emotivo della diagnosi e il bisogno di incorporare il tumore al seno nel loro senso del Sé. Si tratta di una graduale trasformazione che si verifica mediante un processo di accomodamento del cancro nello schema di Sé, accompagnato da un senso di lutto per ciò che è stato, seguito da un’accettazione di ciò che è adesso e di cosa sarà in futuro (Kurowecki e Fergus, 2014). Anne, per esempio, parla del profondo senso di perdita di chi era abituata ad essere e della sua lotta per trovare di nuovo se stessa:

“Dopo aver attraversato il mio tumore al seno, ho ritrovato una mia vecchia foto e mi sono chiesta: “Chi è la ragazza in quella foto? Non so chi è lei… perché tu hai perso così tanto? Non sto parlando solo del seno, tu hai perso tutto: ho perso quella ragazza amorevole, divertente e spensierata. Il mio intero essere è davvero molto diverso da ciò che ero. Oggi posso guardare questa foto e dire che sono ok. Quella persona adesso è ben integrata in me, giusto? Questa è la mia vita e il mio percorso”.

Sebbene alcune donne sentano che le loro priorità e i loro valori sono cambiati a causa dell’aver sfiorato la morte, altre sentono di essere capaci di rimanere fedeli a se stesse. Diverse donne riferiscono di aver ottenuto un senso di empowerment, di forza e di indipendenza come risultato dell’aver affrontato il tumore al seno solo con le proprie forze: “Impari quanto puoi prendere e quanto puoi essere forte. È così, non direi che è un processo di costruzione del carattere, bensì di identificazione del carattere perché suppongo di aver avuto questa forza dentro di me per tutto il tempo senza esserne a conoscenza”. Il significato dell’immagine corporea nella vita di una donna è stato messo in risalto nello studio di Pikler e Winterowd: le donne con la migliore percezione della propria immagine corporea, sono le donne che hanno riportato più elevati livelli di fiducia in sé nell’affrontare il cancro al seno e che nel concreto lo hanno fronteggiato in maniera migliore (Pikler & Winterowd, 2003).

 

Salto nel buio: appuntamento e obbligo di svelarsi

Ci sono donne che iniziano una nuova relazione immediatamente dopo aver ricevuto la diagnosi di cancro al seno, altre invece aspettano fino alla conclusione del trattamento. Alcune donne parlano di un periodo durante il quale non hanno preso minimamente in considerazione nemmeno l’idea di avere un appuntamento con un nuovo partner, poiché ancora dovevano fare i conti con la loro diagnosi, con il loro corpo cambiato o addirittura con una precedente rottura. Appena la donna si sente più sicura, inizia a pensare più attivamente ad un appuntamento, valutando i pro e i contro, preparandosi a compiere il salto nel buio e a correre il rischio di aprirsi di nuovo con qualcuno. Parte della sfida include il bisogno di convincersi di essere ancora attraenti e desiderabili:
“Tutti questi dubbi e queste paure esplodono nella tua mente: Perché qualcuno dovrebbe desiderare di stare con me? E poi ti dici: Oh, perché tu sei una bella persona. È una sorta di litigio con te stesso in cui fai avanti e indietro fra pensieri positivi e negativi. Perché è così facile far sentire se stessi come qualcosa che non è più buono ormai…”.

Anche se la maggior parte delle donne ha mantenuto un atteggiamento positivo circa la possibilità di incontrare qualcuno, tutte hanno aspettative precise sul tipo di uomo che si aspettano di incontrare: un uomo che riesce a fronteggiare il cancro, la perdita del seno o le cicatrici, un uomo più anziano, “che ha le priorità al posto giusto”, un uomo che ha avuto passate esperienze con il cancro. Oppure qualcuno che lotta con i propri sentimenti di inferiorità, qualcuno che ha “una sorta di problemi medici” con se stesso o che non si basa su standard fisici convenzionali. Paradossalmente, le donne affermano di essere molto severe sulla personalità e preparate a rifiutare una persona che le tratta eccezionalmente bene. Le donne che hanno scelto di incontrare i loro partner online, hanno provato un più elevato senso di controllo e di sicurezza; al contrario, le donne che hanno incontrato i loro partner spesso non si sono sentite pronte per una nuova relazione; tuttavia, i rapporti che sono inizialmente nati come un’amicizia, hanno creato un ambiente innocuo che ha concesso alla donna il tempo di superare le sue riserve.

 

Rivelare la storia di tumore al seno

Dopo aver incontrato il nuovo potenziale partner, si pone il problema per la donna di quando e come svelare la sua storia, vincendo la paura e l’aspettativa di essere rifiutata. Molte donne sostengono che la rivelazione verbale deve avvenire preferibilmente prima della rivelazione fisica, una sorta di “avvertimento” scaturito da un obbligo morale nei confronti dell’uomo. Aprirsi completamente è fondamentale per prevenire un dolore più grande ad entrambi, perché l’uomo in questo modo può scegliere di vivere o meno con l’intero “pacchetto” che la donna porta con sé. Prepararsi una lettera scritta per poi leggerla, potrebbe essere una soluzione per diminuire l’ansia al momento della rivelazione. La rivelazione verbale è il primo test che viene fatto al nuovo partner, per stabilire il carattere dell’uomo e il suo grado di accettazione della donna e della sua storia di tumore al seno. Se l’uomo supera questo test, la relazione può andare avanti fino ad arrivare al livello fisico; se fallisce, la relazione termina. Le donne durante queste conversazioni sono ipervigilanti alla reazione dell’uomo: osservano l’espressione facciale, il comportamento verbale e non verbale per dedurre il tipo di carattere che l’uomo ha e per poter testare la sicurezza della relazione. Ogni reazione dell’uomo ad ogni rivelazione detterà l’ulteriore sviluppo della nuova relazione. Quindi è molto importante che l’uomo dimostri interesse verso la storia della donna, ponendole domande sulla sua esperienza e su ciò che ha provato: questo atteggiamento esprime un interesse genuino per la donna come persona e fornisce ad entrambi aiuto e rassicurazione.

 

L’intimità come ultimo test

La maggior parte delle donne è più attenta e protettiva verso il proprio corpo e, di conseguenza, è più selettiva nella scelta della persona a cui mostrare le proprie cicatrici. Le donne riferiscono di aver paura di essere ferite da un uomo che mostra un qualsiasi grado di repulsione nei loro confronti e salvaguardano se stesse da un possibile rifiuto consentendo solo all’uomo che ha superato il test della rivelazione verbale di procedere all’ultimo test: l’intimità. Non solo la rivelazione della storia di tumore al seno dovrebbe avvenire prima della rivelazione fisica, ma la rivelazione verbale dovrebbe includere una descrizione delle cicatrici. Questo è necessario, in parte per lo stesso obbligo morale di cui parlavamo precedentemente, ma soprattutto come modo per costruire la fiducia nel rapporto. La maggior parte delle donne prepara gradualmente l’uomo, spiegandogli ciò che accade durante il trattamento, la ricostruzione del seno, le cicatrici, mostrando le protesi prima delle cicatrici o, in alternativa, rivelando le cicatrici un po’ per volta.

Quando giunge il momento dell’intimità, le donne provano ansia e inizialmente hanno bisogno di nascondere le loro cicatrici, preferendo tenere le luci basse nella stanza e il seno coperto. Molti uomini si sono dimostrati ricettivi e aperti al momento della rivelazione verbale, fisica o di entrambe: hanno mostrato un interesse genuino per la storia di tumore al seno ponendo domande, piuttosto che ritirandosi. Molti uomini inoltre hanno mostrato una sorprendente mancanza di interesse per la storia di cancro, ripetendo più e più volte che non importava: “Che differenza fa? Sei tu la persona, non il tuo seno”. Altre donne hanno riferito di aver “caricato” i loro partner di troppe informazioni sulle loro cicatrici e che, una volta rivelate, “non sono così male come le descrivevi”. Queste donne si sono rese conto di come gli uomini non pensino così tanto ai loro corpi sfigurati, cosa che invece loro fanno. Il tipo di uomo che hanno incontrato è considerato speciale e noncurante del parere degli altri, pertanto se la donna esce senza parrucca a loro non importa: è il prototipo di uomo che descrivevano in precedenza e che si auguravano di incontrare.

 

Recupero del Sé attraverso una nuova relazione

Attraverso le varie fasi del processo di costruzione di una nuova relazione, queste donne sono giunte ad avere una relazione migliore, più forte e più profonda con i loro nuovi partners: “Siamo connessi ad un livello più profondo, un livello più profondo del semplice amore… comprende il rispetto per tutto, per ciò che dici, per ciò che non dici, per ciò che senti e per ciò che desideri per il futuro”. Il successo delle nuove relazioni instaurate da queste donne è dato anche dal fatto che i loro uomini sono stati capaci di accettare incondizionatamente il ruolo del cancro come una parte inevitabile della loro vita di coppia. Sebbene con il tempo il tumore al seno diventi parte del background della coppia, ci sono dei momenti nella relazione in cui si torna a parlarne, ovvero quando la donna deve fare le visite di controllo. L’ansia e la paura di una recidiva influenzano la vita di coppia: se la relazione è percepita come poco sicura, la donna non condividerà questi sentimenti, mentre se la relazione è solida non avrà problemi a farlo.

 

L’accettazione di lui è un ponte per l’auto-accettazione di lei

“Lui è semplicemente perfetto. Non perfetto, lui è perfetto per me… mi offre ciò di cui ho bisogno e mi accetta per chi sono, mi accetta per il passato che ho attraversato e mi accetta per il futuro che abbiamo insieme (anche se) non sappiamo come andranno le cose” (Julia, 34)
Piuttosto che mostrare pietà per la donna a causa di ciò che ha passato, l’uomo generalmente la ammira per il suo spirito combattivo. Anzi, diversi uomini hanno dimostrato un amore per la loro donna non malgrado il tumore al seno ma in virtù di esso:
“Mi accompagnò alla macchina e mi disse che aveva visto il nastro rosa e che aveva pensato che questa ragazza o 1) aveva avuto il cancro al seno 2) qualcuno di molto vicino a lei aveva avuto il cancro al seno. Non appena pensò a queste cose, gli piacqui ancora di più” (Julia,34)
Sebbene esistano alcune eccezioni, la maggior parte dei partners ha abbracciato amorevolmente il lato del corpo segnato dalle cicatrici, proprio come hanno fatto con il lato non sfregiato.

“Lui ha tracciato con la sua mano il contorno della cicatrice più estesa, quella più profonda… non lo preoccupa affatto. È così amorevole e premuroso”.
Queste dimostrazioni, sia verbali sia fisiche, di totale e piena accettazione della parte segnata dal tumore al seno, è una sorpresa abbastanza inaspettata ma piacevole che aiuta la donna a ristabilire e rinnovare la fiducia e l’auto-accettazione:
“Il modo in cui pensavo e il modo in cui vedevo me stessa sono cambiati… tu non ti senti bella e vuoi nascondere il tuo corpo… con la reazione del mio uomo tutto è totalmente cambiato e… tu inizi a sentire di non essere poi così male. E se a lui non importa come io appaio sotto i miei vestiti, allora io non devo preoccuparmi. Perché lui mi ama per ciò che sono, non per ciò che appaio” (Alice, 42)

Nei casi in cui l’uomo, per varie ragioni, non ha mostrato una piena e incondizionata accettazione, la donna è stata di conseguenza meno in grado di accettare se stessa. Questo senso di conforto e sicurezza all’interno del rapporto è legato anche alla capacità della donna di fidarsi del fatto che il suo uomo abbia realmente capito le implicazioni della storia di cancro, che lui sappia in che situazione è entrato e che lui non sia cieco dinanzi alla possibilità di una recidiva.

Stabilire una nuova relazione intima dopo il tumore al seno ha quindi il potere di creare un ambiente psicologicamente terapeutico per la donna. L’esperienza vissuta dalle donne dello studio di Kurowecki e Fergus ha avuto la capacità di accelerare il processo di recupero dell’autostima, persa a causa delle cicatrici fisiche ed emotive lasciate dal cancro al seno. Il processo di coping individuale della donna è iniziato con un attacco all’immagine corporea e all’autostima: gradualmente, attraverso una serie di test a cui ha sottoposto il nuovo partner, è diventato un processo condiviso della nuova coppia. Questo processo ha consentito alla donna di integrare nel proprio Sé l’esperienza traumatica, favorendo l’auto-accettazione.

Il Disturbo d’ansia per la salute (ipocondria) e la Terapia Metacognitiva

Oggi inizia a Milano il terzo congresso internazionale di Terapia Metacognitiva organizzato da MCT Institute e da Studi Cognitivi. Sono passati tre anni dall’evento precedente, di cui abbiamo scritto proprio qui su State of Mind. E ci sono alcune novità degne di nota.

 

Innanzitutto, il congresso varca i confini inglesi e per la prima volta entra in Europa continentale proprio in Italia. La scelta di Milano nasce sia dalla collaborazione scientifica e culturale con il gruppo di ricerca di Studi Cognitivi, sia dall’esigenza di diffondere la Terapia Metacognitiva in territorio dove è ancora relativamente poco conosciuta.

La seconda novità riguarda il profumo che si respira scorrendo le pagine del programma. La sensazione principale è che la ricerca su teoria e terapia metacognitiva abbia oltrepassato un gradino evolutivo e, in qualche modo, stia diventando adulta. Tre anni fa il congresso era pieno di entusiasmo per i primi forti dati di efficacia nel trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione. Oggi questa efficacia è molto più consolidata, da numerosi studi, da trial indipendenti, da meta-analisi. Adesso è il momento di guardare a sfide più audaci, come i primi confronti tra terapia metacognitiva ed EMDR nel trattamento dei disturbi da stress post-traumatico.

 

I workshop precongressuali

La giornata che anticipa l’avvio del congresso e che storicamente è dedicata a workshop clinici, traccia la misura di questa evoluzione con la presentazione di nuovi modelli di trattamento metacognitivo sviluppati da diversi ricercatori e terapeuti. Alcuni esempi sono il Disturbo d’Ansia per la Salute, il trattamento dello stress associato a malattie fisiche e disturbi associati a traumi complessi. A questi si aggiungono nuove modalità di fornire interventi metacognitivi come il primo protocollo di terapia metacognitiva di gruppo per il trattamento di disturbi depressivi resistenti alla terapia farmacologica.

Molti degli interventi che abbiamo avuto modo di ascoltare sottolineano una giusta cautela, poiché nonostante i dati incoraggianti, la terapia metacognitiva è ancora all’inizio del suo sviluppo e necessità di ulteriori supporti empirici. Tuttavia è costantemente sottolineato il significativo cambio di paradigma scientifico, anche nella prospettiva con cui si osserva l’esperienza interna cognitiva ed emotiva dei pazienti.

 

Terapia metacognitiva e ipocondria (o disturbo d’ansia per la salute)

Un esempio chiaro di questo spostamento emerge dalle parole di Robin Bailey, nel suo workshop sul trattamento metacognitivo del Disturbo d’Ansia per la Salute. L’ipocondria nei modelli cognitivo comportamentali è stata sempre associata a un problema di interpretazione catastrofica di sintomi fisici, vale a dire temere che una sensazione di disagio (es. un giramento di testa o un improvviso fastidio al braccio o al petto) rappresenti un segno di grave malattia. A tutti gli esseri umani, ricorda Bailey, capita di fare interpretazioni catastrofiche, di tanto in tanto. Il pensiero “e se fosse un segno d’infarto?” può emergere spontaneamente e può suscitare anche una certa paura, almeno per un momento in ciascuno di noi. Quindi la vera domanda nucleare è: “Cosa discrimina una ‘normale’ interpretazione catastrofica, che poi si spegne e non disturba la vita dell’individuo, da una interpretazione catastrofica che attiva un livello d’ansia tanto persistente da produrre un disturbo psicologico?”

La terapia metacognitiva ri-concettualizza l’ansia per la salute come un problema di regolazione e controllo del rimuginio circa i sintomi corporei e le relative interpretazioni catastrofiche. Le cosiddette meta-credenze, per esempio la convinzione che rimuginare possa essere utile per prevenire e identificare in tempo segnali precoci di malattia, rappresentano un fattore di rischio primari (Bailey & Wells, 2013, 2014, 2015;). L’effetto deleterio delle interpretazioni catastrofiche dipenderebbe dalla presenza di tali meta-credenze implicite e dal conseguente rimuginio. In sintesi, non conta tanto quante interpretazioni catastrofiche sorgono nella mente, ma come si reagisce e si risponde a queste interpretazioni catastrofiche.

Questo è solo l’inizio, vedremo in questi giorni quali altri campi la terapia metacognitiva è ormai pronta ad esplorare.

 

SUL CONGRESSO:

La casa: luogo di protezione o di disamore?

La casa non dà solo protezione, ma anche amore e calore. E quando questo manca si ha tristezza e depressione. È la condizione del disamore, in cui l’ambiente protettivo è presente e non è contrastato il bisogno esplorativo del soggetto, ma il tutto è fornito in un’atmosfera di deprivazione emotiva, il cosiddetto neglect, di affettività distante e non calorosa e in cui i contatti corporei sono rari e impacciati.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 2/04/2016 

 

Nella casa viviamo e facciamo economia, è amministrazione e cura delle cose domestiche; in casa familiarizziamo con l’ordine e in quest’ordine, nei casi migliori, troviamo una base sicura indispensabile per le più ardite esplorazioni. Con un tetto sopra la testa cresciamo e impariamo quella fiducia in noi stessi che ci rende capaci di varcare l’uscio e di portarci la casa e la sicurezza nel cuore, lasciando alle spalle il nido. Senza una casa che ci abbia accuditi non possediamo questa sicurezza che ci rende forti. Diventiamo invece vulnerabili alle offese del mondo. Per questo i rifugiati fuggono da una casa matrigna e cercano altrove quella sicurezza che non hanno trovato nella loro terra.

Gli psicologi, nel loro gergo non sempre amichevole, chiamano questa debolezza del cuore “vulnerabilità emotiva”, in lingua barbara emotional vulnerability. E questa vulnerabilità si cristallizza in una visione di sé indebolita e ferita, facile al tremore e al panico. Il disturbo da panico è proprio il malanno di chi non ha questa zona confortevole del sentire interiormente che da qualche parte c’è una casa che ci aspetta accogliente, un luogo protetto in cui la sicurezza personale sia garantita e in cui siano presenti genitori in grado di fornire nutrimento e accudimento. Priva di questo, la persona si sente vulnerabile e non protetta fisicamente. È possibile che questa debolezza sia legata a reali esperienze traumatiche, un clima in cui la persona ha vissuto i genitori e/o le esperienze di vita come pericolose e in cui ha provato un vero senso di minaccia al senso di sicurezza, come accade a chi proviene da zone di guerra oppure ha provato sulla sua pelle la violenza in famiglia. La minaccia al bisogno di sicurezza e protezione ed esperienze emotive di pericolo di vita estreme e insostenibili, di fronte alle quali l’individuo è impotente, può portare a provare stati terrificanti di panico e paura paralizzante, il cosiddetto freezing.

La casa non dà solo protezione, ma anche amore e calore. E quando questo manca si ha tristezza e depressione. È la condizione del disamore, in cui l’ambiente protettivo è presente e non è contrastato il bisogno esplorativo del soggetto, ma il tutto è fornito in un’atmosfera di deprivazione emotiva, il cosiddetto neglect, di affettività distante e non calorosa e in cui i contatti corporei sono rari e impacciati. Può dipendere –ma non necessariamente- da un’esperienza di genitori “freddi” ed emotivamente troppo distaccati. La persona si vede e si sente non amata, triste e vuota.

In altri casi, invece c’è protezione e calore, si cresce in un ambiente personale sufficientemente sicuro, caldo, accogliente e rassicurante, ma manca un terzo elemento, anch’esso importante. Ed è l’incoraggiamento a esplorare, a uscire di casa, a sentirsi al sicuro anche fuori. I genitori sono stati presenti, protettivi e accoglienti ma non hanno offerto modelli per affrontare il mondo perché troppo ansiosi e iperprotettivi. Ricerche sulle storie familiari hanno messo in luce la possibilità di una trasmissione dell’ansia per passaggio esplicito d’informazioni (“non uscire, fuori è pericoloso!”) o indirettamente, con il brutto esempio di un atteggiamento sempre allarmato e timoroso di uscire di casa ed esplorare il mondo.

Infine, vi è un quarto caso, in cui l’ambiente accudente e protettivo è presente e le funzioni esplorative non sono state contrastate ed è perfino presente un certo calore affettivo. Tuttavia, è anche presente uno stile gravemente criticante, controllante e oppressivo in cui i valori di autocontrollo morale sono trasmessi e vissuti in maniera oppressiva, colpevolizzante e punitiva. La persona ha una percezione diretta dei genitori come critici e frustranti oppure l’ha ricevuta indirettamente attraverso l’obbligo di adesione a norme morali rigide e tende a giudicarsi incompetente, inferiore, stupida, umiliata, indegna moralmente e colpevole.

La casa ha dunque le sue pene e le sue gioie, anche psicologiche. O soprattutto psicologiche: essa può essere prigione o conforto, fonte di forza o debolezza, principio di libertà o di oppressione, insegnamento di spirito critico o di sottomissione. Se siamo fortunati, la casa è una benedizione di cui non si è mai abbastanza riconoscenti. Altrimenti, meglio dimenticarla e tentare di cavarsela senza, o meglio cercare di crearne una migliore altrove.

Cyber pedofilia: una minaccia virtuale ma reale, a partire dai Social Network

Prescindendo nella seguente riflessione dalle ripercussioni cognitive, emotive, sociali e culturali dell’inserire in Rete foto dei propri figli durante l’infanzia e la prima adolescenza, consideriamo il rischio principale per la sicurezza dei bambini online: la cyber pedofilia.

 

 

Bambini e ragazzi nell’era digitale

Se nei primi anni Duemila, in parallelo alla diffusione domestica di Internet, la problematica era oggetto di disquisizioni mediatiche e dell’allarmismo dei mass media, adesso dando per assodata la diffusione capillare del mezzo – pensiamo ad esempio agli smartphone e a come hanno rivoluzionato il nostro connetterci, ora istantaneo e accessibile in qualunque luogo e a qualsiasi ora, al di là della locazione fisica del modem – questo dibattito sembra passato in secondo piano.

Indubbio è il cambiamento generazionale. Sembra un luogo comune ma i bambini di oggi sono diversi dai bambini di ieri, più avvezzi a manipolare i sistemi informatici in modo inferenziale e senza passare per libretti di istruzione, così come più informati e precoci rispetto alla sfera della sessualità: non è un caso dunque che nell’ultimo decennio, anche l’età dei bambini target per episodi di cyber pedofilia sembri essersi abbassata.

In ogni caso il pericolo non è da sottovalutare per i ragazzi tra gli undici e i quattordici anni in poi, già dotati (a seconda delle regole delle specifiche piattaforme sociali) di account e alter-ego virtuali, sebbene la situazione di maggiore rischio riguardi le generazioni ancora più giovani, che non sperimentano (nella maggior parte dei casi) accesso diretto alla Rete. E allora come fanno a cadere nel pericolo cyber pedofilia?

 

 

Come si cade nella trappola della cyber pedofilia

Il discorso è molto semplice: sono gli adulti stessi a creare, senza volerlo, i presupposti affinché la Rete della cyber pedofilia raggiunga la quiete della nostra condotta online di fratelli, zii, genitori, nonni, baby sitter, maestri di scuola, educatori. Come? Quello che per noi è un semplice gesto di condivisione di un contenuto video o foto, per esibire l’immagine di una famiglia socialmente desiderabile o richiamare l’attenzione di parenti e amici lontani sul proprio quotidiano, per il cyber pedofilo è, come si è soliti dire in gergo popolare, ‘manna dal cielo’.

Molte volte la condotta criminale si esaurisce nello scaricare di nascosto immagini e file video dalle community e dai Social (non è reato se tali contenuti non sono protetti da specifiche impostazioni a tutela della privacy) per poi pubblicarle su siti dedicati allo scambio o alla vendita di tale materiale. Secondo una stima di Australia’s new Children’s eSafety (2015), i cyber pedofili sono atti a dowloadare e postare altrove scatti agli occhi del resto della popolazione alquanto innocenti di bambini al mare, nella vasca da bagno, immortalati svestiti o semi-svestiti.

 

Cyber-pedofilia: il ruolo delle condotte genitoriali

Il pericolo più grande per i bambini di oggi, dunque, ancora prima della cyber pedofilia, è l’irresponsabilità insita nella condotta degli adulti di riferimento quando si tratta di vivere la virtualità in modo diligente e tutelante l’intimità di chi è chiamato in causa senza poter nemmeno ancora scegliere.

Negli ultimi mesi ad esempio, si è parlato molto criticamente delle catene di Sant’Antonio, spesso regionali ma anche nazionali, che sui Social portano mamme e papà a condividere su nomination scatti dell’infanzia dei figli.

La Polizia Postale è intervenuta celermente a proposito, richiamando alla prudenza rispetto al fenomeno di febbrile condivisione, invitando gli adulti a riflettere su una questione molto semplice: che fine faranno quelle foto?

Ulteriori problematiche sorgono quando il livello di condivisione-vendita del materiale pedo-pornografico online non è più sufficiente a sedare la ricerca parafiliaca del pedofilo: è in questo assetto psichico che dal godimento scopico, il soggetto passa all’atto ricercando attraverso il cyber-spazio un oggetto concreto.

 

 

Analisi psicologica del cyber-pedofilo

Molte sono le teorie psicologiche e psicodinamiche volte a spiegare tale parafilia: problematiche edipiche, idealizzazione materna, vittimizzazione da parte di un soggetto che è stato a sua volta vittimizzato e dunque identificazione con l’aggressore. Il primo passo per capire qualcosa del funzionamento mentale del pedofilo, tuttavia, è considerare che la sessualità adulto-genitale non è stata raggiunta nella storia psicosessuale individuale.

L’intimità con un altro adulto, eterosessuale o omosessuale, provocherebbe nel pedofilo una quota di terrore ingestibile, soverchiante: la pulsione deve essere deviata su una meta più accessibile in quanto avvertita come meno minacciosa. Il bambino, come idealizzazione dell’innocenza perduta, come oggetto passivo e certamente innocuo.

La Rete ha offerto al pedofilo un mezzo per muoversi nella società, spiando in casa del prossimo senza essere visti. Da una stima del programma OLDPEPSY (On Line Dectected Pedophilia Psychology), giunto anche in Italia, risulta ad esempio che nel nostro paese il maggior numero di episodi di cyber pedofilia si concentri in Lazio e in Lombardia, che l’età media sia compresa dei pedofili tra i venticinque e i trent’anni, che il livello di istruzione di tali individui sia medio-alto.

Con i filtri assai blandi con cui Facebook e altri Social Network permettono di stringere amicizia ed accedere ai contenuti privati tra utenti, se non siamo diffidenti o al contrario ingenuamente ottimisti sulla tecno-mediazione nei rapporti interpersonali e sulla condotta del genere umano in senso lato, è possibile che la minaccia cyber pedofilia sia più vicina di quanto si pensi. Da lì, risalire ad informazioni personali sulla famiglia dell’utente online, al seguirne gli spostamenti offline il passo è breve.

 

 

Cyber pedofilia: il grooming

Quando invece il cyber pedofilo cerca contatto online direttamente con il bambino-adolescente dotato di un proprio profilo, utilizza una strategia denominata Grooming (verbo con varie traduzioni tra cui ‘disporre’, richiamando ad un’asimmetria relazionale di potere tra adescatore e vittima, dove il primo tesse il tessuto emotivo per preparare l’abuso da agire) dalle sfaccettature variegate seppur con alcune caratteristiche comuni e ripetute.

Trasversalmente al sito in cui si verifica, il Grooming necessita una funzione di Chat (messaggistica sincronica, istantanea) per poter innescare un contatto interattivo e dinamico con la vittima di cyber pedofilia. Viene ad instaurarsi, in un tempo che può variare da poche ore a settimane, un rapporto di fiducia: il malintenzionato può utilizzare una foto profilo non corrispondente al proprio aspetto (il poster di un idolo delle teen-agers, il personaggio di un cartone animato, la foto di un coetaneo, ecc.), promettere oggetti concreti desiderati dalla vittima, richiedere l’invio di foto particolari, richiedere descrizioni fisiche e sull’abbigliamento indossato, fino alla fatidica domanda: sei in casa da solo/a?.

No, non stiamo parlando di un film thriller, come il drammatico Trust (2010) ma di una possibile minaccia che spesso viene dai più ignorata o sottovalutata. Internet sembra infatti, involontariamente, aver offerto una nuova casa per la mente anche a soggetti che presentano questo genere di parafilia: la possibilità di trovarsi per lo scambio di contenuti ha fatto si che, tra gli anni Novanta ed oggi, i cyber pedofili si unissero in siti e piattaforme molto potenti dal punto di vista di affiliazione e costituzione identitaria.

 

 

Gli esiti dell’utilizzo della rete da parte dei cyber pedofili

Su Internet il pedofilo incontra un minor grado di controllo e vigilanza sui suoi agiti rispetto alle situazioni ad interazione sociale diretta e può addirittura, anonimamente, promuovere la propria ideologia in opposizione ad una società interpretata come eccessivamente moralista e sessuofobica, repressiva per i bambini e i ragazzi. Su siti di cyber pedofilia compaiono sconvolgenti testimonianze ed interviste a favore del movimento cyber pedofilo, laddove in un gioco medieval-carnevalesco di stravolgimento del mondo, i cyber pedofili sarebbero invece dalla parte dei bambini, per liberarli da costumi culturali eccessivamente oppressivi dal punto di vista sessuale.

Allucinante, vero? Il trasloco, parziale, dell’umanità online, ha creato anche questo e le potenziali riflessioni a proposito sono innumerevoli.

Occorre però ricordare che la lotta alla cyber pedofilia è combattuta assiduamente e con tenacia dalle forze dell’ordine. L’ostacolo è spesso rappresentato dai siti stessi, auto-alimentatisi fino a divenire colossi di tutela legale per i cyber pedofili, come nel caso NAMBLA (North America Men and Boy Love Association): le quote di iscrizione raccolte, dalle cifre decisamente alte, hanno mobilitato veri e propri patrimoni indirizzati alla tutela legale dei contribuenti.

 

Cosa fare per proteggere i più piccoli?

Cosa si può fare, allora, se il fenomeno cyber pedofilia è in sedimentazione ed evoluzione, guadagnando spazio all’interno della Rete?

La parola chiave, apparentemente banale è responsabilizzazione, su due livelli:

  • un primo livello pragmatico, inerente l’informazione e l’utilizzo da parte degli adulti di software e sistemi operativi impostati appositamente per la protezione dei minori;
  • un secondo livello di maturazione della consapevolezza dei rischi reali su Internet, che non si sono affatto minimizzati con la diffusione capillare del mezzo, tutt’altro! Occorre dunque tornare a ricalcare un limite che sembra essere sbiadito e di cui numerosi psicologi e psicoanalisti parlano: quello che può derivare solo dal ripristino di una funzione genitoriale autorevole (non autoritaria) capace di prendere per mano le generazioni precedenti e fare da guida, per districarsi nelle cyber-trame della Rete, a volte stupefacenti, altre volte, come nel caso della cyber pedofilia, altamente pericolose.

Epilessia e impatto sulla qualità della vita

Negli anni sono emersi numerosi fattori di rilievo per meglio comprendere i fenomeni interconnessi con la patologia epilettica, specialmente per quanto riguarda le conseguenze sulla qualità della vita (QOL) della persona con epilessia.

 

Ricerche sull’epilessia: la qualità della vita

Nel corso degli anni è stato prodotto un enorme numero di ricerche sui correlati psicologici dell’epilessia. Esistono numerose riviste scientifiche che raccolgono le voci dei ricercatori impegnati in tutto il mondo su questo fronte, come Epilepsy & Behavior, Epilepsia, Epilepsy Research, Seizure, Journal of Neurology. Negli anni sono emersi numerosi fattori di rilievo per meglio comprendere i fenomeni interconnessi con la patologia epilettica, specialmente per quanto riguarda le conseguenze sulla qualità della vita (QOL) della persona con epilessia, per esempio lo stigma, l’adattamento, i correlati psicopatologici e comportamentali, il coping, le reazioni dei familiari, le relazioni sociali, le aspettative future, gli effetti delle crisi sull’identità personale.

 

La qualità della vita nell’epilessia

Le crisi epilettiche si manifestano prevalentemente all’improvviso, anche se con il tempo diventa possibile prevederne l’insorgenza in determinate condizioni, durano da pochi secondi a parecchi minuti e possono comportare un conseguente disorientamento a carico della sfera fisica e cognitiva. A complicare questa situazione, i sintomi ictali tipicamente si manifestano come una emozione di improvvisa paura, all’inizio o durante un attacco epilettico, e senza alcun riferimento ad una causa precedente identificabile.

L’anticipazione di questi sintomi ictali genera stati d’ansia nei pazienti. Si possono sviluppare sintomi correlati all’epilessia, come irritabilità, depressione, e riduzione della funzione cognitiva, oltre alle convulsioni. Questi sintomi psicologici possono perdurare nel tempo a seconda delle condizioni socio-ambientali. Di conseguenza, la qualità della vita relativa alla salute misurata nel paziente può essere significativamente più bassa rispetto a quella della popolazione generale (Baker et al., 2002).

Somministrando il questionario Medical Outcomes Study (MOS) 36-Item Short-Form Health Survey (SF36) ad un ampio campione, è emerso che i punteggi sulla qualità della vita di pazienti con epilessia sono significativamente più bassi rispetto ai soggetti sani, allo stesso modo, in confronto con pazienti con altre malattie croniche, i punteggi nella maggior parte dei domini sono stati inferiori, ad eccezione del Funzionamento Fisico (Physical Role Functioning), Vitalità (Vitality), e Percezione della Salute Generale (General Health Perceptions) (Liou H.H. et al., 2005).

Come riportato da Hermann et al. (Hermann et al., 2007), rispetto ai pazienti con diagnosi di diabete mellito, i pazienti con epilessia avevano punteggi significativamente più bassi sulla Salute Mentale e nelle Funzione Emotive, con una correlazione positiva tra la durata delle crisi, la loro intensità, e il grado di sintomi mentali che un individuo poteva avere. Le convulsioni possono influire anche sulla capacità di un individuo di partecipare pienamente nella società. Pazienti con epilessia tendono ad essere sotto-occupati o disoccupati e ad avere un tasso di matrimoni inferiore (Kubota H. et al., 2010).

Gli aspetti fisici, psicologici e sociali potenzialmente impattano sulla HRQOL dei pazienti con epilessia. Pertanto, lo scopo del trattamento dell’epilessia non è solo la sicura ed efficace eradicazione delle crisi, ma anche il miglioramento della QOL dei pazienti in un contesto sociale e psicologico. Infine è noto che i farmaci impiegati per ridurre le crisi epilettiche alterino d’altro canto e in varia misura anche alcune normali funzioni fisiche e mentali.

 

Qualità della vita nei minori con epilessia

Molti studi sull’epilessia in età evolutiva e in adolescenza si propongono di mettere in luce la misura del suo impatto sul regolare sviluppo psico-sociale del paziente. I bambini con epilessia percepiscono di avere uno scarso controllo sul proprio comportamento. Le caratteristiche di imprevedibilità e incontrollabilità di questa malattia esporrebbero il soggetto in età evolutiva ad un senso di ineluttabilità, di inadeguatezza con conseguente sviluppo di scarsa autostima, isolamento sociale e problemi di comportamento (Austin et al., 2006). Le difficoltà nel gestire la malattia e nell’affrontare inutili pregiudizi non devono compromettere l’immagine di sé che si sta sviluppando, né ostacolare l’autonomia che si deve gradualmente guadagnare dalla propria famiglia.

A tal fine si deve migliorare la qualità della vita del paziente con epilessia, una minima parte degli studi in materia saranno qui esposti per creare un quadro degli aspetti coinvolti nella sindrome epilettica. Inoltre come ha evidenziato un’indagine presentata dalla Lega Italiana contro l’Epilessia, anche quando i pazienti sono generalmente soddisfatti della loro QOL e le terapie assicurano loro un adeguato controllo delle scariche, essi devono scontrarsi con i pregiudizi e le incomprensioni che circondano questa sindrome. Vari autori affermano che la qualità della vita e l’autostima tra i giovani con epilessia può essere ampiamente migliorata lavorando per ridurre lo stigma o l’ansia stessa di incorrere in esso.

Una ricerca condotta sui bambini ha trovato che anche quando le crisi sono ben controllate, i bambini epilettici sono a rischio di sviluppare problemi di tipo emotivo e comportamentale (Prassouli et al., 2008). Chi soffre di epilessia, infatti, vive l’esperienza di sentirsi diverso dall’altro, in quanto mancante di una salute “normale”. Questo fatto potrebbe mettere un bambino con epilessia in una posizione di insuccesso, con atteggiamenti passivi e sottomessi nell’adattarsi alle richieste dell’ambiente, provando spesso senso di inferiorità, timidezza, bassa autostima.

La vergogna e la paura del rifiuto con la conseguente bassa fiducia in sé possono altresì generare un disturbo del comportamento (immaturità affettiva, bassa tolleranza alle frustrazioni, impulsività, ipercinesi) o forme depressive. In adolescenza, in particolare si potrebbero presentare: pensiero di annullamento e morte; angoscia nella relazione; condotte contrarie e/o aggressive, disturbo di personalità.

Tali conclusioni coincidono anche con l’indagine dell’ International Bureau of Epilepsy (IBE) del 2007, che giunge a collegare il notevole impatto emotivo della malattia ai conseguenti comportamenti di negazione della stessa, specialmente in ambito scolastico, dove ai compagni di classe il 36% dei partecipanti della ricerca affermava di aver tenuto nascosto di essere epilettici, per timore di essere trattati in modo diverso o stigmatizzati, oppure perché non ritenuto necessario che gli altri sapessero.

Mentre le famiglie possono assumere comportamenti di iperprotezione che limitano l’autonomia del figlio con epilessia, oppure di negazione o rifiuto della malattia con conseguente assunzione del senso di colpa da parte del figlio che sottovaluta le proprie capacità.

Certi riguardi adottati dai tutori e dagli educatori di bambini epilettici possono favorire l’assunzione di comportamenti di isolamento e di difficoltà relazionali, reazioni depressive o aggressive (A.C. Modi, 2009). Per esempio il silenzio, il tener segreta l’epilessia, come qualsiasi condizione che va a limitare determinati aspetti della libertà personale, peggiora solo le cose da un punto di vista psicologico. La consapevolezza del bambino, quindi l’essere al corrente di che cosa significa il disturbo di cui soffre, è fondamentale per permettergli di gestirla al meglio. L’informazione, secondo alcuni ricercatori, sarebbe una strategia per poter essere accettati più facilmente, evitando che venga assegnato o assunto su di sé un marchio (stigma).

Il rischio di suicidi nella popolazione con epilessia purtroppo è alto, e i problemi emozionali sperimentati nei casi più gravi sono collegati a doppio filo con le strategie di evitamento, ritiro sociale, e comportamenti introversi. L’uso di farmaci per l’umore può essere valutato con cura ma un controllo periodico per i sintomi più rischiosi, l’offerta di assistenza per superare lo stress emotivo delle crisi può aiutare a prevenire problemi seri che influiscono sul successo dei bambini e degli adolescenti nella vita quotidiana (Ekinci et al., 2009).

Altri aspetti psicologici assumono rilievo per il benessere psicologico della persona con epilessia ed influenzano la capacità di gestire al meglio la propria vita con le crisi epilettiche. In un prossimo articolo esporrò gli aspetti psicosociali coinvolti nel benessere psicologico dei pazienti con epilessia.

Lo stile di attaccamento materno e la sua influenza sullo sviluppo dei disturbi psichici nel puerperio

Diversi studi (Murray e al., 1996; Hoffman e al., 1991) sono stati condotti sulla possibile relazione tra la presenza di disturbi psichici nel post-partum e lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa nei confronti della figura materna. Pochi invece si sono occupati dell’influenza che lo stile di attaccamento materno può avere rispetto allo sviluppo di disturbi nel puerperio. Questo articolo si propone appunto di riportare studi che hanno indagato se lo stile di attaccamento materno può costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi nel puerperio.

Open school Marianna Palermo, STUDI COGNITIVI MILANO

 

I disturbi psichici del puerperio

Il puerperio, ossia il periodo immediatamente successivo al parto, è una delle fasi più critiche della donna. La letteratura ha evidenziato che soprattutto le primipare appaiono molto vulnerabili e necessitano di un adeguato supporto emotivo da parte del partner, della madre, di altri parenti e di esperti per l’accudimento del piccolo, l’allattamento e il riconoscimento dei segnali di benessere e malessere del bambino (Della Vedova e al., 2008). Il rientro a casa, la precoce relazione col bambino, l’allattamento e l’adattamento ai ritmi biologici del piccolo sono i principali vissuti del puerperio. La neo-mamma può temere di fallire nel suo compito e questo può procurarle ansia o talvolta uno stato depressivo. Per questo è possibile che insorgano disturbi psichici ai quali si presta sempre maggiore attenzione nell’ambito della prevenzione e del trattamento (Bellantuono e al., 2007).

Secondo il DSM-5, i disturbi psichici “con esordio nel peri-partum” insorgono generalmente entro le 4 settimane dal parto. La letteratura classifica questi disturbi in 3 categorie principali: Maternity Blues, Depressione post-partum e Psicosi puerperale (Robinson, Stewart, 1986).
Se si stabilisse un continuum tra questi disturbi emotivi ad un estremo si potrebbe collocare il Maternity Blues e al polo opposto la Psicosi post-partum, disturbo psichiatrico grave e raro (Cooper, Murray, 1998). I sintomi caratteristici della psicosi sono deliri, allucinazioni, brusche oscillazioni dell’umore, disturbi del comportamento (Bellantuono e al., 2007). La madre può manifestare un rifiuto totale nei confronti del piccolo e per la maggior parte del giorno si mostra triste e apatica. Sono molto alti i rischi di suicidio e infanticidio e generalmente è richiesta l’ospedalizzazione e il trattamento psicofarmacologico (Soifer, 1985).

La Depressione post-partum può insorgere anche in gravidanza e varia in base alla gravità e alla durata. I sintomi più frequenti sono: tristezza, sentimenti di colpa o di autosvalutazione eccessivi o inappropriati, ansia, pensieri sulla morte, difficoltà di concentrazione, alterazioni del sonno e dell’appetito e astenia (Cooper, Murray, 1998). In molti casi i sintomi d’ansia possono associarsi per comorbidità ai sintomi depressivi (Bellantuono e al., 2007). La depressione presenta una prevalenza compresa tra il 5 e il 20% (Yonkers e al, 2001). L’esordio è previsto entro i primi 3 mesi dal parto e la durata media del disturbo è di alcuni mesi, ma talvolta i sintomi possono persistere fino ai 2 anni. Le cause della depressione sono molteplici. In molti casi i sintomi si possono ricondurre a fattori di tipo ormonale, ma altre cause possono essere di natura emotiva: il cambiamento fisico e della concezione di sé, la sensazione di perdita della libertà e della propria identità sono aspetti che caratterizzano la donna nel post-partum. Ad essi si aggiungono fattori pratici o di natura sociale, tra cui l’alterazione del ritmo sonno-veglia, la relazione insoddisfacente col coniuge o la mancanza di supporto sociale, la disoccupazione o altri eventuali fattori stressanti. Anche la presenza di depressione o di ansia durante le gravidanza o problematiche presenti nel bambino possono comportare sintomi depressivi nel post-partum.

Il Maternity Blues è invece il disturbo emotivo più lieve e transitorio che ricorre nella prima settimana dopo il parto (Murata e al., 1998). La prevalenza varia dal 50 all’85% ed è caratterizzato da tendenza al pianto, irritabilità, labilità dell’umore, problemi di concentrazione, disturbi del ritmo sonno-veglia e tristezza. Sebbene questo disturbo sia generalmente considerato una conseguenza fisiologica del parto, nel 20% dei casi evolve in un Episodio Depressivo Maggiore.

 

La teoria dell’attaccamento

[blockquote style=”1″]La maggior parte degli esseri umani desidera avere dei bambini e desidera anche che i propri figli crescano sani, felici e fiduciosi di sé[/blockquote] (Bowlby, 1988). Tuttavia essere genitori non è affatto semplice in quanto richiede del tempo e un impegno notevoli: il bambino, soprattutto quando è molto piccolo, necessita di una serie di attenzioni che devono essergli garantite in primis dalla madre con la quale il neonato da subito stabilisce un rapporto privilegiato definito legame di attaccamento. La madre diventa una figura di attaccamento alla quale rivolgersi in caso di necessità e di pericolo e dalla quale il bambino si sente rassicurato e protetto. La neo-mamma infatti dovrà cercare di proporsi come “madre sufficientemente buona” e fornire al piccolo le cure materne necessarie per sopravvivere. Secondo Winnicott (1965) non esiste il bambino in sè ma esso è strettamente legato alla madre e la “preoccupazione materna primaria” è proprio quella di fornire al piccolo un ambiente di sostegno e protezione, il cosiddetto ambiente di “holding”.

Secondo Bowlby, la madre dovrebbe costituire una base sicura, dalla quale il bambino deve poter partire per esplorare il mondo esterno e alla quale tornare per essere nutrito e rassicurato in caso di pericolo, malattia o stanchezza. Una caratteristica che favorisce l’instaurarsi di una relazione di attaccamento è la sensibilità materna, che indica la capacità della madre di cogliere i segnali del piccolo e di rispondervi in maniera adeguata e tempestiva (Cassidy, Shaver, 2002). Questo legame non caratterizza solo l’infanzia ma persiste nell’adolescenza e nell’età adulta e indirettamente influenza anche le successive relazioni dell’individuo. È importante evidenziare che il comportamento genitoriale dipende da schemi comportamentali predefiniti, che tendono ad essere stabili nel tempo e che si sono formati durante l’infanzia: in base alle cure e al sostegno che la neo-mamma ha ricevuto dai suoi genitori durante l’infanzia, sarà portata a proteggere il piccolo e a rispondere sensibilmente ai suoi segnali.

Il legame di attaccamento svolge una funzione sia biologica che psicologica, in quanto garantisce al piccolo sia la sopravvivenza che la protezione e questo ruolo viene ricoperto per l’intero ciclo di vita. È possibile distinguere il “legame di attaccamento” dal “comportamento di attaccamento”, in quanto il primo è un legame affettivo che si instaura con una figura più forte e più saggia, il secondo è un comportamento messo in atto dal bambino o dall’adulto per assicurarsi la prossimità fisica alla figura di attaccamento. I comportamenti di attaccamento vengono poi organizzati in un “sistema comportamentale di attaccamento”: il bambino in base al contesto in cui si trova e ai segnali che riceve dall’esterno, adatta la sua risposta scegliendo il comportamento più adeguato in quella situazione (Cassidy, Shaver, 2002).

Secondo Bowlby, l’individuo, in base alle esperienze vissute durante l’infanzia e al tipo di relazione che ha instaurato con la madre, si costruisce delle rappresentazioni mentali che guidano le sue esperienze e le sue relazioni successive. Questi schemi sono definiti “modelli operativi interni” e consistono in rappresentazioni mentali relative al sé e alle figure di attaccamento, che consentono all’individuo di fare previsioni sulle successive esperienze relazionali vissute in contesti nuovi e con persone nuove (Simonelli, Calvo, 2002). I modelli operativi interni non sono statici ma indicano un processo dinamico. L’individuo durante l’infanzia si costruisce un modello della figura di attaccamento e un modello complementare di se stesso, oltre ad una rappresentazione della relazione vera e propria. Al modello di un genitore responsivo e sensibile, si affianca il modello complementare di sé come persona efficiente e degna di cure e affetto. Questi modelli consentono all’individuo di crearsi delle aspettative sulle esperienze future e sul comportamento proprio e altrui. Gli schemi possono tuttavia subire dei continui aggiornamenti nel caso in cui si verifichino dei cambiamenti nell’ambiente circostante o un processo di maturazione dell’individuo.

Inoltre, è importante ricordare che i “modelli operativi interni” sono alla base della trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento (Cassibba, 2003). Un genitore si relaziona col proprio figlio ricordando le sue esperienze passate e riattualizzandone e questo porta il bambino a sviluppare lo stesso legame di attaccamento del genitore. Le rappresentazioni mentali della madre influiscono sul grado di sensibilità che questa manifesterà nei confronti del figlio. Il bambino, a sua volta, stabilirà con la madre una relazione di attaccamento in base alle cure ricevute e al modo in cui l’adulto narra le proprie esperienze di attaccamento e comunica i propri stati affettivi (Benoit, Parker, 1994; Fonagy, Steele, 1991; Ward, Carlson, 1995).

 

Attaccamento materno e disturbi psichici del puerperio

Per quanto concerne l’ attaccamento materno invece finora si annoverano pochi studi, tra cui quello di Nagata e al. (2000). Nella ricerca è stata attestata una correlazione tra l’insicurezza dell’attaccamento materno nel post-partum e lo sviluppo del Maternity Blues. La scala utilizzata in questo studio consta di 2 sottoscale, una che valuta l’attaccamento materno verso il bambino e l’altra che misura l’ansia esperita dalla madre nei confronti del bambino. Sono state riscontrate significative correlazioni tra le 2 subscale e il Maternity Blues.

La ricerca inoltre ha valutato le correlazioni esistenti tra i sintomi depressivi e l’attaccamento adulto. Pesonen e al. nel 2004 hanno condotto uno studio per testare le associazioni tra i sintomi depressivi dei genitori, lo stile di attaccamento adulto e la percezione del temperamento del bambino. I risultati hanno evidenziato che i sintomi depressivi e un attaccamento insicuro distanziante o preoccupato si associano ad una percezione del temperamento del bambino meno positiva. Altri studi hanno confermato che le madri depresse rispetto al gruppo di controllo giudicano i loro figli più vulnerabili (Field e al., 1996) e stressati (Frankel e Harmon, 1996). Lo stile di attaccamento adulto, dunque, è un costrutto psicologico che correla sia con la sintomatologia depressiva (Bifulco, Moran, Ball, Bernazzani, 2002; Carnelley, Pietromonaco, Jaffe, 1994; Reinecke, Rogers, 2001) sia con la percezione negativa del temperamento del bambino (Pesonen, Raikkonnen, Keltikangas-Jarvinen, Strandberg, Jarvenpaa, 2003; Priel, Besser, 2000; Scher, Mayseless, 1997). Dunque l’attaccamento insicuro può essere un fattore di vulnerabilità per l’insorgenza e la persistenza di sintomi depressivi (Carnelley e al., 1994; Whiffen, Kallos-Lilly e MacDonald, 2001).

La ricerca ha inoltre messo in evidenza gli effetti che la sicurezza dell’attaccamento ha invece sulla qualità e sulla stabilità delle relazioni (Feeney, 1999): uno stile di attaccamento sicuro predice un buon funzionamento individuale e di coppia e un maggiore adattamento dei partner alla genitorialità.

Rholes e al. (2001) in uno studio longitudinale si sono soffermati sulle implicazioni che può avere lo stile di attaccamento materno di tipo preoccupato e hanno rilevato un declino della soddisfazione coniugale soprattutto nei casi in cui le neo-mamme percepiscono i loro partner come inadeguati e insufficienti nel fornire aiuto e sostegno emotivo. Correlazioni significative tra l’attaccamento insicuro e la depressione post-natale sono state riscontrate anche in uno studio di Meredith e Noller (2003). Le donne che esperivano sintomi depressivi presentavano più frequentemente un attaccamento preoccupato rispetto alle altre madri. Tuttavia questo studio presenta numerosi limiti: hanno partecipato alla ricerca solo le neo-mamme e non i partner e non sono state effettuate delle comparazioni con un gruppo di donne sposate senza figli.

Feeney e al. (2003) invece hanno valutato le relazioni esistenti tra attaccamento insicuro, depressione e grado di soddisfazione coniugale ipotizzando uno studio più preciso che comprendeva nel campione coppie senza figli, entrambi i partner e tutte le coppie hanno partecipato alla ricerca nel secondo trimestre di gravidanza, 6 settimane prima e 6 mesi dopo il parto. I risultati hanno messo in rilievo una maggiore instabilità dell’attaccamento nel periodo di transizione alla genitorialità e soprattutto hanno evidenziato che l’attaccamento insicuro può innescare la depressione in donne che non presentano sintomi depressivi nel periodo prenatale. Ulteriori analisi hanno palesato che la relazione tra attaccamento e depressione è influenzata dal sostegno emotivo offerto dal partner.

Infine è stata attestata l’influenza che la depressione materna ha sulla soddisfazione coniugale: i sintomi depressivi spesso si associano ad un isolamento sociale che ha un impatto negativo sulla qualità della relazione di coppia (Mauthner, 1998).

 

Conclusioni: l’attaccamento materno insicuro come fattore di vulnerabilità

In conclusione, dalla letteratura risulta come lo stile di attaccamento materno insicuro nelle neo-mamme possa costituire un fattore di vulnerabilità per l’esordio di disturbi psichici in gravidanza e specialmente nel post-partum. La presenza di sintomi depressivi e dell’attaccamento materno insicuro può inoltre avere degli effetti rispetto alla percezione del temperamento del bambino e alla soddisfazione coniugale.

Questo dimostra come raccogliere informazioni anche sulla storia di vita e sulle relazioni di attaccamento delle mamme durante la gravidanza o nel post-partum può essere un importante passo per prevenire o riconoscere tempestivamente eventuali rischi rispetto allo sviluppo di sintomi depressivi e di relazioni insicure tra madri e bambini.

WAIS: Wechsler Adult Intelligence Scale – Introduzione alla psicologia

La Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) è stata pubblicata per la prima volta da Wechsler, che si riferì all’intelligenza in termini di performance e non di capacità. Scopo dei suoi test non era misurare la quantità di intelligenza posseduta, ma le capacità prestazionali dei soggetti in determinate aree specifiche. 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO  

La Wechsler Adult Intelligence Scale: introduzione

Siamo giunti al terzo appuntamento sull’ intelligenza. Dopo averla definita, passato in rassegna le diverse teorie ed enucleato la teoria delle intelligenze multiple, oggi, in ultima analisi, parleremo del test più utilizzato per valutare il quoziente intellettivo: la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS).

La Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) è stata pubblicata per la prima volta da Wechsler, psicologo clinico del Bellevue Hospital, intorno alla metà dello scorso secolo, poiché insoddisfatto dal test maggiormente utilizzato all’epoca, la scala Stanford-Binet.

Wechsler era dubbioso circa la reale validità della Standford-Binet, in quanto formata da troppe prove da svolgere in un determinato tempo, restituiva un concetto unico di intelligenza e, soprattutto, era stato costruito su bambini quindi non adattabile alle performance degli adulti. Di conseguenza era necessario un nuovo reattivo psicometrico costruito su adulti e che si riferisse alla teoria secondo la quale l’intelligenza è formata da diverse abilità o capacità.

Wechsler considerava l’intelligenza come costituita da specifiche competenze che possono essere studiate singolarmente e, quindi, valutate. L’intelligenza generale, in soldoni, è composta da vari elementi specifici che unitamente definiscono un valore generale, globale, finale di funzionamento intellettivo.

Wechsler per la prima volta si riferì all’intelligenza in termini di performance e non di capacità. Per questo lo scopo dei suoi test non era misurare la quantità di intelligenza posseduta, ma le capacità prestazionali dei soggetti in determinate aree specifiche. Insomma, la cosa importante è avere prestazioni ottimali, poiché capire quanto si è intelligenti è molto difficile. Quindi, studiare le performance è un buon indice da cui inferire la variabile latente intelligenza.

 

La Wechsler Adult Intelligence Scale: Storia

Partendo dalle critiche alla scala Standford-Binet e concentrandosi su queste nuove assunzioni in termini di intelligenza, Wechsler sviluppò una prima versione di un nuovo test di intelligenza: la Wechsler-Bellevue Intelligence Scale.

Questo test fu pubblicato nel 1939, ed è stato costruito per valutare specificamente le prestazioni intellettive degli adulti. Era costituito da molte scale volte a misurare in termini qualitativi e quantitativi le diverse funzioni cognitive, tutte ugualmente importanti per ottenere la capacità di performance totale posseduta da un soggetto.

Un altro concetto innovativo inserto da Wechsler nel suo test era di avere a un punteggio specifico per scala. Quindi, il soggetto non completava item sempre più complessi che riguardavano individui aventi un’età maggiore della propria, come faceva Binet per inferire l’esatta età mentale di un soggetto, ma un unico punteggio totale corrispondente alla sua prestazione. Così facendo, si otteneva un punteggio parziale a ogni compito e uno complessivo derivante dalla loro somma. Inoltre, grazie ai singoli punteggi era possibile individuare immediatamente l’area in cui una persona mostra performance migliori rispetto alle altre.

Wechsler inserì nel suo test, oltre alle scale che andavano a misurare le abilità verbali, già presenti nella Stanford- Binet, le scale di performance in grado di rilevare le abilità non verbali. In questo caso all’esaminato era richiesto di completare figure, riprodurre simboli, etc. anziché rispondere solo a delle domande, quindi lo scopo era capire come praticamente applicava delle capacità cognitive.

Grazie all’inserimento delle scale di performance è stato possibile superare i bias causati dalla lingua, dalla cultura e dell’educazione. Infatti, queste scale fornivano una visione diversa dell’intelligenza basata più sulla prestazione che dalla cultura di riferimento.

 

Wechsler Adult Intelligence Scale: WAIS

Nel 1955, dopo aver accuratamente rivisto la scala Wechsler-Bellevue, Wechsler pubblica la prima versione della Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) e, solo, dopo la sua morte, nel 1981, tale scala è stata revisionata eliminando e ripulendo item ormai obsoleti e non idonei alla cultura vigente (WAIS -R). Successivamente, nel 1997, è pubblicata la WAIS -III e nel 2008 la WAIS -IV, versione attualmente in uso.

La prima versione della WAIS era formata da 11 sotto-scale diverse: 6 abilità cognitive di tipo verbale e 5 abilità cognitive di natura visiva, spaziale e manipolativa. In questo modo si ottenevano due punteggi, un QI di tipo verbale, derivante dalla somma dei punteggi ottenuti alle scale verbali, e uno di performance, derivante dalle scale non verbali; dalla media di questi due indici si ottiene il Quoziente Intellettivo Totale. Le differenze riscontrabili tra gli individi nel Quoziente Intellettivo (QI) dipendono da caratteristiche genetiche e culturali, che influenzano notevolmente le prestazioni in compiti di natura cognitiva.

 

La WAIS -R

La WAIS -R rappresenta la versione rivista della WAIS della quale circa l’80% degli item sono stati riadattati e modificati.

È stato migliorato anche l’ordine di presentazione degli item, che si susseguono in maniera alternata tra verbali e non verbali allo scopo di mantenete alta l’attenzione del soggetto a cui è somministrata. Questo test, oltre a permettere di individuare il QI, è utilizzato anche in ambito psicodiagnostico, poiché è in grado di restituire informazioni sul funzionamento cognitivo ed emotivo della persona, a completamento delle informazioni psicopatologiche già in possesso da parte del clinico.

Esattamente come per la WAIS, la WAIS -R consta di 11 sotto-scale o subtest, di cui 6 compongono la parte Verbale (Informazione, Comprensione, Ragionamento aritmetico, Analogie, Memoria di cifre e Vocabolario) e 5 quella di Performance (Associazione simboli a numeri, Completamento di figure, Disegno con i cubi, Riordinamento di storie figurate e Ricostruzione di oggetti); insieme, gli 11 subtest formano la Scala Totale di funzionamento globale del soggetto.

 

 

La WAIS IV

La WAIS IV rappresenta l’ultima versione della WAIS. Rispetto alla WAIS -R sono stati inseriti nuovi 6 subset.

In generale, la WAIS -IV è formata da 15 subtest, 10 fondamentali e 5 supplementari, somministrabili all’occorrenza per approfondire situazioni specifiche in cui è necessaria un’ulteriore indagine.

Esistono 4 diverse dimensioni indagate tramite la WAIS IV:

Comprensione verbale, formata dai seguenti subset:

  • Somiglianze,
  •  Vocabolario,
  •  Informazione
  • Comprensione (supplementare).

Ragionamento visuo-percettivo, costituito da:

  • Disegno con i cubi,
  • Ragionamento con le matrici,
  • Puzzle,
  • Confronto di pesi (solo 16-69 anni; supplementare)
  • Completamento di figure (supplementare).

Memoria di lavoro, composto dai seguenti subset:

  • Memoria di cifre,
  • Ragionamento aritmetico
  • Riordinamento di lettere e numeri (solo 16-69 anni; supplementare).

Velocità di elaborazione, in cui sono presenti i seguenti subset:

  • Ricerca di simboli,
  • Cifrario
  • Cancellazione (solo 16-69 anni; supplementare).

In questo modo, la WAIS IV è in grado di fornire una misura del funzionamento intellettivo generale, attraverso la valutazione di 4 abilità diverse, superando in un certo qual modo la dicotomia tra QI Verbale e QI di Performance. È possibile somministrarla a soggetti con età compresa tra i 16 anni e i 69 anni, 11 mesi e 30 giorni, e il punteggio per questo sarà suddiviso in 9 fasce di età diverse calcolabili in base all’età presentata dal soggetto al momento della somministrazione.

 

 

La WAIS versione per bambini: la WISC

La WISC è uno strumento che permette di individuare le abilità intellettuali dei bambini di età compresa tra i 6 ai 16 anni e 11 mesi. Originariamente, la WISC era una versione adattata ai bambini del test di Wechsler-Belleview . La maggior parte delle scale della WISC sono simili a quelle presenti nella WAIS -R e di conseguenza anche la presentazione degli item avviene in maniera alternata, per controllare le risposte attribuite dai soggetti al test.

Inoltre, il Digit Span, il test dei Labirinti e test della ricerca del simbolo sono facoltativi nella WISC e possono essere sostituiti, in caso di handicap da parte di chi si sottopone al test, da una scala verbale aggiuntiva.

Anche in questo caso il test si divide in una parte verbale formata dai seguenti subset (prove):

  • Informazione
  • Somiglianze
  • Ragionamento aritmetico
  • Vocabolario
  • Comprensione
  • Memoria di cifre

E una parte di performance:

  • Completamento di figure
  • Cifrario
  • Riordinamento di storie figurate
  • Disegno con i cubi
  • Ricostruzione di oggetti
  • Ricerca di simboli
  • Labirinti (opzionale)

Come per la WAIS, anche in questo caso il QI è dato dalla media dei punteggi ottenuti nelle diverse aree del test. La WISC è utilizzata sia in ambito psicologico, per rilevare le capacità cognitive o i ritardi, che neuropsichiatrico grazie a una valutazione qualitativa che permette di individuare aree deficitarie di sviluppo. Per la somministrazione non sono richieste particolari abilità di scrittura e lettura.

 

 

La WAIS versione scolastica: la WPPSI-R

Wechsler ideò anche la scala primaria di intelligenza per i bambini in età prescolare, la Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence (WPPSI), somministrabile a bambini dai 3 agli 8 anni.

Il WPPSI è stato introdotto nel 1967 come un adattamento del WISC e un’alternativa alla Stanford-Binet. Come per la WISC, i subtest della WPPSI sono somministrati in ordine (verbale-Performance) . I sutest presenti sono:

  1. Scale verbali: cultura generale, vocabolario, aritmetica, somiglianza, comprensione generale di frasi;
  2. Scale di performance: casa degli animali, Completamento di figure; Labirinti, Design geometrica, e disegno a blocchi.

Anche in questo caso il punteggio è calcolato esattamente come per le altre scale.

 

 

Attribuzione di punteggio

Dalle scale di Wechsler, come detto più volte, è possibile ricavare punteggi separati per aree di performance o verbali, divisi secondo le 4 aree principali di intelligenza e un punteggio totale. Quest’ultimo, media dei punteggi ottenuti nelle diverse aree, deve essere confronto con i punteggi conseguiti dai soggetti aventi la stessa età e su cui sono state individuate le norme da cui deriva la standardizzazione del test. Per la prima volta un test gode di punteggi standardizzati, uguali, per tutti, aventi media pari a 100 e Deviazione Standard pari a 15. Quindi, i punteggi standard si dispongono lungo una curva a campana o di Gauss e permettono di individuare posizioni stabilite a priori. Di conseguenza si può determinare un range di funzionamento medio o deviante da esso (range della media varia da 85-115). Per concludere, il test è composto da tabelle di riferimento divise per fasce d’età cui poter confrontare il punteggio ottenuto e capire se è positivo o patologico, ovvero presenza di difficoltà di apprendimento da parte del soggetto sia in generale sia in aree specifiche.

 

 

Applicazione della WAIS

La WAIS è uno strumento utile per la valutazione del funzionamento cognitivo globale di un individuo. È in grado di rilevare sia funzionamenti nella norma sia deficitari, evidenziando delle disabilità intellettive e cognitive.

Inoltre, una valutazione qualitativa della WAIS consente l’utilizzo della stessa anche in ambito psicodiagnostico da cui è possibile evincere sia deficit riguardanti la sfera dei disturbi ansiosi sia di personalità. I risultati servono come guida nella pianificazione del trattamento e nell’inquadramento diagnostico grazie alle preziose sfaccettature cliniche in grado di rilevare.

La WAIS, inoltre, è ampiamente utilizzata per individuare il funzionamento intellettivo in contesti scolastici, per valutare specifici deficit cognitivi che potrebbero determinare uno scarso rendimento e per predire un futuro profitto scolastico.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Tra malati e stress: test psicologici obbligatori e periodici, con presidi fissi negli ospedali

COMUNICATO STAMPA ASSOCIAZIONE UNITARIA PSICOLOGI ITALIANI

 

Tra malati e stress: test psicologici obbligatori e periodici, con presidi fissi negli ospedali

ROMA 1 APRILE 2016 –

“Chi lavora in corsia svolge un compito molto delicato. Da un lato deve gestire le emergenze e dall’altro deve supportare i malati e i familiari, cercando di mantenere sempre la calma. È chiaro che lo stress a cui sono sottoposti i medici e gli infermieri è quotidiano e spesso è anche scarsamente considerato. In alcuni luoghi di lavoro i test psicologici devono essere obbligatori e periodici”.

Le parole del segretario generale dell’Associazione unitaria psicologi italiani, Mario Sellini, arrivano dopo l’arresto a Piombino dell’infermiera professionale Fausta Bonino, accusata di avere ucciso 13 persone che erano ricoverate nell’ospedale in cui prestava servizio. Ai malcapitati, secondo l’accusa, l’infermiera avrebbe somministrato delle “bombe” di eparina, provocando la morte lenta e silenziosa dei pazienti.  Dalle indagini risulta inoltre che l’infermiera ha avuto problemi di depressione, alcol e uso di psicofarmaci che, secondo i carabinieri, potrebbero essere collegati con quei delitti.

“E, in realtà, se tali circostanze verranno accertate dai magistrati possiamo dire che le condizioni psicologiche della donna – spiega Sellini – l’hanno certamente portata a compiere quegli insani gesti. Abbiamo accolto – dice ancora il presidente Aupi – l’invito della Federazione dei Collegi degli Infermieri che ha denunciato l’assenza di controlli psicologici, chiedendo aiuto. Noi siamo disponibili ad un dialogo, anche con il governo, affinchè si trovi una soluzione. Chiediamo che ci si attivi affinchè venga istituito un presidio di psicologi all’interno degli ospedali non solo per i malati ma anche per chi lavora sotto stress, nella gestione quotidiana delle emergenze. Siamo stanchi di arrivare quando è ormai troppo tardi. Da anni insistiamo sulla prevenzione poiché sappiamo che i sintomi di alcuni disturbi mentali, se individuati per tempo, possono essere attenuati. Nel caso specifico di Piombino, che non ha giustificazioni, se ci fossero stati prima adeguati controlli probabilmente il numero delle vittime sarebbe stato inferiore o nullo. L’infermiera sarebbe stata aiutata per tempo, anche nello svolgimento del suo lavoro quotidiano. È il momento in cui anche in Italia si dia alla nostra professione un ruolo centrale nella società che, come vediamo ogni giorno, è cambiata e va interpretata con gli strumenti giusti. Ringraziamo ancora una volta il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, per aver istituito presso il Ministero il tavolo tecnico della psicologia, in cui partecipiamo insieme all’Ordine nazionale degli Psicologi, dimostrando così, profonda sensibilità su certi temi. Alla prossima riunione parleremo anche delle emergenze in corsia e delle richieste di aiuto che arrivano a noi psicologi e a cui vogliamo rispondere adeguatamente”.

 

Per Informazioni:

Ufficio Stampa Aupi

Angela Corica – 333 9892161

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: non solo anoressia e bulimia

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: Nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), pubblicata dall’Associazione degli Psichiatri Americani (APA), vengono descritti (anche) i Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Oltre alle conosciute Anoressia e Bulimia nervose, sono presenti altri disturbi alimentari, provenienti dalle classificazioni dedicate all’infanzia, quali Pica, Disturbo da ruminazione e Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Anche il Disturbo da binge-eating entra a far parte dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione.

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione nell’infanzia

Tra questi, il primo ad essere descritto nel DSM-5 è la Pica, la cui caratteristica fondamentale consiste nella “persistente ingestione di una o più sostanze senza contenuto alimentare non commestibili” (ad esempio, stoffa, metallo o ghiaccio) per un periodo uguale o superiore a 1 mese. La Pica esordisce comunemente in età infantile e più raramente negli adulti. I bambini colpiti presentano uno sviluppo pressoché normale mentre in età adulta risulta maggiormente associata a disabilità intellettiva o altri disturbi mentali.

Successivamente, il DSM-5 descrive il Disturbo da ruminazione, caratterizzato da ripetuto rigurgito di cibo (successivamente rimasticato, ringoiato o sputato) per un periodo uguale o superiore a 1 mese e non attribuibile a un problema gastrointestinale o a un’altra condizione medica.

Proviene dalle classificazioni dedicate all’infanzia anche il Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, che si manifesta attraverso la “persistente incapacità di soddisfare le appropriate necessità nutrizionali e/o energetiche”. Gli individui si alimentano ad esempio con un numero limitato di cibi “preferiti”, quali pasta, dolci e patatine. Il DSM-5 precisa che tale comportamento alimentare non deve risultare associato a mancata disponibilità di cibo o a pratiche culturali (ad esempio, digiuno religioso).

 

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: l’anoressia nervosa

Il quarto Disturbo della nutrizione e dell’alimentazione descritto è l’Anoressia nervosa, presente anche nella precedente edizione del DSM. Vengono confermati i criteri diagnostici riguardanti la restrizione nell’assunzione di calorie ed il peso corporeo significativamente basso; l’intensa paura di ingrassare; l’alterazione della rappresentazione mentale del proprio corpo, la quale porta ad una costante sensazione di essere sovrappeso. A differenza della precedente edizione del DSM, l’amenorrea (assenza di mestruazioni) non rappresenta più fondamentale per porre diagnosi di Anoressia nervosa.

 

 

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: la bulimia nervosa

Altro conosciuto Disturbo della nutrizione e dell’alimentazione è la Bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate e inappropriate condotte compensatorie, almeno 1 volta alla settimana per 3 mesi. Il DSM-5 definisce un episodio di abbuffata come l’ingestione di una quantità di cibo significativamente superiore a quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo ed in circostanze simili, caratterizzato dalla sensazione di perdere il controllo durante l’abbuffata. Le “inappropriate condotte compensatorie”, utilizzate per prevenire l’aumento di peso a seguito di un episodio di abbuffata, consistono ad esempio nel vomito autoindotto; abuso di farmaci (quali lassativi e diuretici); digiuno o attività fisica eccessiva. Criterio diagnostico comune all’Anoressia nervosa, l’eccessiva influenza del peso e della forma corporei sui livelli di autostima dell’individuo.

 

Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: il binge eating disorder

Entrato a far parte dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione solo nel DSM-5, il Disturbo da Binge-eating è caratterizzato da abbuffate almeno 1 volta alla settimana per 3 mesi, senza inappropriate condotte di compensazione. Un’altra differenza con la Bulimia nervosa è rappresentata dal minore interesse mostrato nei confronti del peso e della forma del corpo.

Altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione

Nel DSM-5 sono presenti altresì Disturbi della nutrizione o dell’alimentazione con altra specificazione, caratterizzati dal non soddisfare pienamente i criteri diagnostici dei disturbi precedentemente descritti. Tra i quali: Anoressia nervosa atipica (l’individuo presenta un peso corporeo uguale o superiore alla norma); Bulimia nervosa e Disturbo da binge-eating a bassa frequenza e/o di durata limitata (inferiore a 1 volta alla settimana e/o a 3 mesi); Disturbo da condotta di eliminazione (caratterizzato da ricorrenti e inappropriate condotte di eliminazione in assenza di abbuffate); Sindrome da alimentazione notturna (eccessivo consumo di cibo dopo il pasto serale oppure durante la notte).

Infine, il DSM-5 contiene i Disturbi della nutrizione o dell’alimentazione senza specificazione, caratterizzati anch’essi dal non soddisfare pienamente i criteri diagnostici dei disturbi precedentemente descritti. In questo caso, tuttavia, il clinico decide di non specificarne la ragione, ad esempio a causa di insufficienti informazioni per porre una diagnosi più specifica.

Movimenti filosofici e alimentazione: quando l’attenzione al cibo diventa ortoressia

Negli ultimi anni si sente sempre più spesso parlare di alimentazione scorretta e cibi dannosi, ma anche e soprattutto di pratiche alimentari alternative. In particolare, si assiste alla diffusione di diverse correnti di pensiero che, inscritte in vere e proprie filosofie di vita, promuovono uno specifico stile alimentare.

 

Il vegetarianismo e il veganismo

L’esempio più noto è quello del vegetarianismo, una scelta alimentare caratterizzata dall’esclusione delle carni di qualsiasi animale e che può avere alla base motivazioni etiche, principi religiosi, attenzione all’ambiente e alla salute. All’interno di questa pratica si distinguono poi delle sottocategorie, come il veganismo, il crudismo vegano e il fruttarismo. Hanno in comune l’esclusione di alcuni alimenti dalla dieta alimentare, differenziandosi però nella scelta di quali includere e quali no: il veganismo rifiuta qualsiasi forma di sfruttamento animale, dunque non comprende nella dieta alimentare né la carne, né i prodotti di origine animale; il crudismo vegano aggiunge al veganismo la limitazione ai soli cibi crudi, o cotti al di sotto dei 42°, perché più ecologici, più sani e più facilmente digeribili; il fruttarismo, invece, prevede un’alimentazione di sola frutta (dolce, ortaggio e grassa).

Quest’ultimo stile alimentare è associato, ancora più frequentemente dei precedenti, ad una vera e propria filosofia di vita connessa con un ritorno alle origini, una maggiore attenzione alle richieste del corpo e la valorizzazione dell’istintualità. Quelle citate sono pratiche oggigiorno del tutto riconosciute e socialmente accettate, sempre più supportate da studi che ne dimostrano la sostenibilità.

Ciò su cui ci si intende soffermare è la possibilità che dietro a stili alimentari legittimati dal contesto socio-culturale si possano nascondere situazioni che esulano da uno stile di vita consapevole e che piuttosto riguardano un rapporto problematico con il cibo. Si intende qui proporre una riflessione sulla linea sottile esistente tra una scelta sana e un utilizzo “punitivo” del cibo. Ci si chiede, dunque, se stili alimentari restrittivi possano essere lo specchio per allodole di disturbi del comportamento alimentare.

 

L’ortoressia

Uno tra questi, ad esempio, è l’ortoressia, termine comparso per la prima volta nel 1997 e utilizzato negli ultimi anni dagli esperti dell’alimentazione per segnalare un’attenzione eccessiva rispetto al consumo di cibi sani e naturali. A rendere problematico tale atteggiamento sono le caratteristiche ossessive di ruminazione mentale sul cibo e di ricerca, selezione e consumo degli alimenti. È una patologia inclusa nel DSM-5 nel “Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo” e rimanda ad uno stile di vita che ruota completamente e persistentemente intorno ad una corretta alimentazione, tanto da influenzare la quotidianità dell’individuo. La focalizzazione è sulla qualità del cibo, sulle norme di controllo, con conseguente evitamento di tutte quelle situazioni sociali che non lo consentono. Così accade che una pratica alimentare salutista finisca per avere esiti problematici come l’isolamento sociale o la carenza nutrizionale.

Dunque, come è possibile discriminare una filosofia di vita da un disturbo del comportamento alimentare, quale l’ortoressia? A rendere difficile questa distinzione è la sovrapposizione, parziale o totale, degli aspetti fenomenici e direttamente osservabili, poiché una scelta accurata e selettiva degli alimenti può avere a che fare con l’adesione ad alcune pratiche culturali, ma può anche riguardare un rapporto di dipendenza dal cibo.

Esistono indicatori per cogliere la differenza? L’utilizzo dell’etichetta ortoressia, adatto più che altro nella comunicazione tra professionisti, non deve indurre a credere che sia possibile fare generalizzazioni. Infatti, la complessità di ciascun individuo non può essere ricondotta a criteri standardizzati né ridotta alla descrizione di un sintomo. È comunque possibile fare riferimento a criteri psicologici che consentano di cogliere i campanelli d’allarme di uno stile alimentare patologico. Nel caso specifico, alla base dell’ortoressia può esserci la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute, talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: la paura assume le caratteristiche di un’ossessione per il cibo, il quale perde spesso la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.

A ciò si associa un allontanamento dalla dimensione del piacere che viene sostituita da quella del sollievo, possibile grazie alla rigidità delle regole e all’accuratezza della pianificazione alimentare. Comportamenti di questo tipo necessitano di una particolare attenzione agli ingredienti di ciascun cibo, di un’ispezione dettagliata delle etichette. Interviene inoltre una componente psicologica importante: entro una simbolizzazione del contesto del tipo “buono-cattivo”, gli alimenti non conosciuti o non accettati vengono vissuti come cattivi e in quanto tali minacciosi. Così, chi soffre di ortoressia arriva a privarsi di qualsiasi situazione sociale che possa ostacolare la conoscenza dei cibi e la ricerca di un’alimentazione sana e, sostanzialmente, quella che sembrerebbe una scelta finisce per diventare una gabbia, una torre di controllo e di rinuncia al confronto e allo scambio, a garanzia della propria sicurezza.

 

Altri movimenti filosofici associati all’alimentazione: il breatharianismo e il sungazing

È bene evidenziare che non soltanto l’attenzione al cibo sano può avere alla base un disturbo del comportamento alimentare. Esistono infatti altre pratiche, sempre più condivise, che possono nascondere un disturbo pur non avendo nulla a che fare con una dimensione patologica. È il caso, ad esempio, del breatharianismo (o respirarianesimo), una pratica collegata all’ascetismo orientale e secondo la quale è possibile nutrirsi di solo “prana”, una specie di nettare prodotto dalla respirazione che consente di apportare al corpo le necessarie energie senza bisogno di mangiare e, in alcuni casi, di bere.

Ancora, chi pratica sungazing (o HRM) riferisce la possibilità di nutrirsi esclusivamente di “sole”, attraverso l’osservazione diretta di quest’ultimo. Entrambe le pratiche prevedono il digiuno o una forte limitazione nell’assunzione di cibo e liquidi. Le conseguenze fisiche correlate possono essere la disidratazione, la perdita di peso e, nelle donne, l’amenorrea, condizioni riscontrabili anche nell’anoressia nervosa. Si potrebbe affermare che queste pratiche si differenziano dall’ultima perché rimandano ad uno specifico movimento filosofico, eppure anche l’anoressia viene vissuta come tale da chi ne soffre. Nei blog Pro-Ana, infatti, si parla di “Ana” come di una dottrina, una filosofia attorno alla quale ruota la propria vita, e vengono proposti dieci comandamenti da rispettare, perché Ana non è solo il diminutivo di anoressia, ma anche una dea da venerare. Dunque l’adesione ad una filosofia non sembra essere un discriminante.

Ma, allora, i breathariani e i sungazers soffrono di anoressia? In generale, è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una invece patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”?

Se si pensa alla patologia secondo un modello dimensionale è impossibile parlare di normalità, dunque è impossibile discriminare in modo dicotomico sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono e, in altre parole, un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità. Ecco allora che la stessa pratica alimentare può essere sana o patologica: la differenza starà nella modalità con cui viene messa in atto, nel significato che le si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali se colti in tempo.

Nei disturbi del comportamento alimentare il cibo viene infatti utilizzato per comunicare un disagio difficile da esprimere altrimenti e in questo senso la riflessione proposta non ha il fine di demonizzare alcune pratiche alimentari piuttosto che altre, ma quello di accendere una luce sulla possibilità che alcuni disagi possano trovare nascondiglio e rifugio dietro un’appartenenza culturale legittimante e al tempo stesso rassicurante.

Mobbing sul lavoro: una guida pratica al riconoscimento del problema

Il mobbing sul lavoro è un’aggressione psicologica e morale, reiterata nel tempo da parte di più aggressori, i quali agiscono nei confronti della vittima con l’intento di nuocere alla salute della stessa.

 

Cosa si intende per Mobbing?

Il termine mobbing deriva dal verbo inglese ‘to mob’ che significa assediare, attaccare. In letteratura esistono numerosi riferimenti al mobbing sul lavoro come situazione in cui è presente una vera e propria forma di aggressione psicologica e morale sul lavoro, esercitata e reiterata nel tempo, più o meno intenzionalmente, da uno o più aggressori verso un singolo, per mezzo di azioni negative volte a spingere la persona nella condizione di non potersi difendere e al suo isolamento ed espulsione dal contesto socioproduttivo (Depolo, 2003).

Il mobbing è quindi un’aggressione piscologica e morale, reiterata nel tempo da parte di più aggressori, i quali agiscono nei confronti della vittima con l’intento di nuocere alla salute della stessa; quest’ultima è la definizione più comune che Heinz Leymann, psicologo e psichiatra svedese, che nel 1984 ha deciso di descrivere nel dettaglio, elencando alcune condizioni che non possono mancare per parlare di mobbing:

  1. Un’aggressione
  2. Protratta nel tempo
  3. Che tende ad aumentare d’intensità
  4. Associata alla percezione dell’impossibilità di difendersi
  5. L’effettiva intenzione dell’aggressore di vessare col proprio comportamento e con le proprie azioni la vittima, con il preciso scopo di estrometterla dalla realtà sociale e lavorativa.

 

Mobbing e comportamenti vessatori: come riconoscerli

Una delle ultime indagini sul lavoro in Europa svolta dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (EUROFOUND), che risale al 2012, segnala che il 14% dei lavoratori europei è stato vittima di comportamenti vessatorio al lavoro.

Tuttavia, è difficile definire un comportamento vessatorio isolandolo dal contesto lavorativo in cui viene messo in atto, ed è proprio per questo motivo che è importante sottolineare che molti dei comportamenti definiti ‘vessatori‘, sono tali perché fanno parte di un disegno più grande, che ha l’obiettivo di ledere la vittima del mobbing sul lavoro. Il demansionamento, compiti al di sopra o al di sotto delle competenze, l’isolamento sociale, attacchi alla vita privata o un’informazione non pervenuta in tempo, se presi singolarmente, possono infatti essere classificati come comportamenti non eccessivamente allarmanti all’interno di un contesto lavorativo. Il problema sorge nel momento in cui le azioni vanno a costituire un pezzo del puzzle volto al danneggiamento intenzionale di un individuo.

Durata e frequenza inoltre, hanno un ruolo molto importante. Indicativamente, Leymann ha fissato 6 mesi minimi di soglia per potersi riferire al fenomeno. Per quanto riguarda la frequenza delle vessazioni è importante individuarne la sistematicità, nonostante non sia possibile fissare un indice di occorrenza ben preciso. L’esistenza di parametri per la descrizione del mobbing sul lavoro, non basta per la comprensione del fenomeno nella sua interezza. Esistono infatti in letteratura, diversi tipi di condizioni che differiscono per l’intenzionalità del mobbing. La prima tipologia viene descritta come ‘mobbing emotivo‘, ovvero dettato da un conflitto interpersonale non adeguatamente gestito, che degenera fino a diventare mobbing vero e proprio e che si distingue dal ‘mobbing predatorio‘ nel quale invece non vi è la presenza esplicita di un conflitto (Guglielmi, 2015). Ma quanti di noi hanno già sentito parlare di vessazioni messe in atto dal management? La terza categoria infatti viene definita ‘mobbing strategico‘, ovvero la situazione in cui le azioni vessatorie sono attuate intenzionalmente ed in maniera pianificata da parte della direzione aziendale con la precisa intenzione di estromettere una o più persone dal contesto lavorativo (Guglielmi, 2015).

 

Il mobbing sul lavoro: un problema “fantasmatico” per la legge italiana

Il mobbing sul lavoro appartiene ad una categoria di fenomeni, probabilmente esistenti da sempre, ma da poco tempo concettualizzato in maniera concreta.

Non ci sono dubbi che negli ultimi anni si siano moltiplicate le vicende che richiamano la parola mobbing, tuttavia mentre in diversi Pesi d’Europa (Scandinavia e Germania in testa) sono presenti delle leggi per arginarlo e prevenirlo. in Italia non è mai stata fatta alcuna normativa nazionale. I casi concreti di mobbing sul lavoro, quando arrivano in tribunale vengono fatti rientrare nelle leggi contro la discriminazione o in altri articoli, come quelli sul danno biologico o morale o quello che obbliga il datore di lavoro a garantire l’integrità psicofisica dei dipendenti (Decreto Legislativo n. 81/2008).

 

Jobs Act e Demansionamento

Mi piace lavorare‘ (2003) è il titolo di un film italiano nel quale Nicoletta Braschi, interpreta il ruolo di Anna, dipendente di una azienda italiana che ben presto viene rilevata da una grande multinazionale straniera.

Il film racconta di come la giovane donna venga costretta a svolgere mansioni via via più lontane da quello che era il suo ruolo iniziale in azienda. Per cominciare Anna viene demansionata, ovvero passa da segretaria di terzo livello a semplice addetta alle fotocopie, per poi essere trasferita in magazzino insieme agli operai. Il caso di Anna, descritto molto realisticamente nel film di Francesca Comencini, rappresenta dunque un chiaro esempio di mobbing sul lavoro strategico, dove il demansionamento sembra avere un ruolo centrale nel determinare una situazione di disagio per la vittima.

Gli unici casi in cui il lavoratore aveva qualche speranza in più di vincere in tribunale, infatti, erano quelli legati alla violazione dell’articolo 2103 del codice civile, secondo il quale il lavoratore non può essere costretto a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto. Tuttavia questo principio è stato appena cambiato nel Jobs Act: adesso il demansionamento è legalizzato, seppur solo di un livello, a parità di salario e in caso di riorganizzazione aziendale. Il lavoratore quindi, può essere spostato a ‘mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime svolte‘, mentre prima si faceva riferimento a ‘mansioni equivalenti‘, mettendo così il lavoratore nelle condizioni di essere spostato da un lavoro che sa fare da anni a qualsiasi altro, purché rientri nello stesso livello di inquadramento contrattuale.

Un’importante azione preventiva però, resta la formazione, attraverso la quale è possibile incrementare la consapevolezza e la conoscenza degli insidiosi problemi nei quali, potrebbero incorrere sia i lavoratori che le organizzazioni.

Linee guida e buone prassi per la psicoterapia: che fare?

Alcune settimane fa è stato approvato alla Camera un testo di riforma della legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario che potrebbe avere significative ripercussioni per la pratica psicoterapeutica in Italia. È soprattutto l’articolo 6, articolo che regolamenta la responsabilità professionale penale e civile del professionista sanitario, che potrebbe avere queste ricadute.

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

L’articolo indica che il professionista che, nello svolgimento della propria attività, danneggi la persona assistita non sarebbe incolpabile quando siano state rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida così come definite e pubblicate ai sensi di legge.

La domanda diventa: quali sono in Italia le buone prassi e le linee guida nel trattamento dei disturbi psicopatologici?

Allo stato attuale queste non esistono ufficialmente, quantomento per ciò che riguarda i trattamenti psicologici. L’ultima pubblicazione al riguardo, con l’egida del Ministero della salute, è l’edizione italiana di Clinical Evidence del 2008.

Tuttavia lo stesso articolo 6 assicura che il Ministero della salute emanerà le linee guida entro due anni dall’approvazione della legge attenendosi a quelle indicate dalle società scientifiche e dagli istituti di ricerca accreditati.

Il movimento cognitivo comportamentale clinico in Italia dovrebbe avere molto da dire su questo argomento. Le società scientifiche e gli enti rappresentativi, come la SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva), l’AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva) e la Consulta delle scuole di terapia cognitiva e comportamentale. Questi organi sociali possono contribuire a definire le buone prassi e le linee guida per il trattamento dei disturbi psicopatologici, presentarle in un documento ufficiale al Ministero della salute ed essere interlocutori scientificamente autorevoli nella costruzione delle linee guida che saranno prossimamente emanate dal Ministero. Questa posizione, che è quasi un’esortazione, può essere condivisa da molti.

Da molti ma non da tutti, tuttavia. Alcuni raccomandano un atteggiamento più prudente. Non si tratta di una posizione ufficiale sostenuta esplicitamente da determinati esponenti dell’ambiente italiano del cognitivismo clinico. Si tratta semmai di timori diffusi, che si esprimono in dichiarazioni informali. Il timore sarebbe che la definizione di linee guida di buona pratica costringerebbe la psicoterapia in un modello medico che la violenterebbe e la snaturerebbe. Inoltre, data la natura difficilmente formalizzabile della psicoterapia, il rischio di esporre i psicoterapeuti alle rappresaglie legali di pazienti sarebbe non piccolo. Dietro l’angolo ci sarebbe la possibilità di abbandonare la posizione garantista della responsabilità extracontrattuale “neminem laedere” che obbliga il soggetto che ritiene di aver ricevuto un danno all’onere della prova. Ovvero prima che ognuno di noi debba difendersi da una accusa tocca a chi ci accusa provarne la veridicità.

Tuttavia forse non è il caso di allarmarsi. Sulla colpa grave, nel 1972 una sentenza della Corte di cassazione civile aveva stabilito che:

“L’imperizia dovuta a colpa grave consiste nella totale difformità del metodo o tecnica scelti, dalle conoscenze acquisite alla scienza e pratica mediche, “sia per l’approvazione delle autorità scientifiche o per la consolidata sperimentazione”. Le conoscenze acquisite dalla scienza medica devono costituire il “necessario corredo culturale e professionale del medico”.

Tuttavia, il professionista ha una libertà di scelta tra le terapie e i metodi che la scienza offre. La legge ritiene che non si siano gli estremi della colpa grave, nel caso che il medico abbia scelto, in alternativa, un rimedio che, pur essendo giudicato dal mondo scientifico non in maniera univoca, non sia però da questo scartato.

 

Questi timori sono comprensibili e non sono infondati. Lo psicoterapeuta è un operatore geloso della propria indipendenza professionale e di una certa esclusività del suo rapporto con il paziente. Il rischio di ingabbiare in un sarcofago la psicoterapia non è implausibile.

Tuttavia questi timori non sembrano sfociare in una proposta chiara, ma restano allo stato di dichiarazioni non ufficiali, riducendosi in sterili mugugni. Sembra quasi che questa posizione raccomandi una posizione di attesa e di non collaborazione, nella speranza che la bolla si sgonfi e tutto si areni in linee guida in fondo inefficaci, se non generiche.

Altri ancora suggeriscono che le linee guida siano state già definite in sedi differenti dal Ministero e funzionano bene, nei loro limiti. Ad esempio, qualcosa del genere sarebbe presente nel documento 14/131/CR08b/C8 della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, contenente una Proposta di Accordo Stato-Regioni sulla definizione dei percorsi di cura da attivare nei pazienti schizofrenici, i disturbi dell’umore e i disturbi gravi di dipartimenti di salute mentale per i disturbi personalità.

Il che è in parte vero. Ma quel che nel documento colpisce è che mentre per la farmacologia procedure decisionali, tempistiche, dosaggi e procedure sono precise e dettagliate e rivelano un’elevata competenza del legislatore, della psicoterapia si parla in maniera frettolosa e generica. Compaiono una vaga prescrizione alla psicoterapia laddove serva e un paio di fuggevoli ammissioni di superiorità della psicoterapia cognitiva nel trattamento di certi disturbi di area ansiosa.

Questa genericità può essere in parte frutto solo dell’informata saggezza di un legislatore che -dopo aver a lungo studiato e meditato- non si vuole abbandonare a facili certezze. Oppure può riflettere la scarsa informazione del legislatore italiano verso la psicoterapia, soprattutto cognitiva. La sanità psichiatrica italiana, si sa, punta sulla farmacologia e sulla biologia e della psicoterapia nulla o poco sa.

Come si vede, siamo molto lontani da prescrizioni rigide e restrittive, in grado di ammanettare la pratica clinica e i psicoterapeuti.

Un dato a favore della strategie attendista è quello che fa notare che i tempi sono ancora lunghi. Il disegno di legge è ora al Senato, in attesa di ricevere i pareri di diverse Commissioni. Nei prossimi mesi, dopo le audizioni informali e i pareri delle Commissioni verranno apportate modifiche al testo approvato. Questo richiederà una nuova lettura alla Camera. Una volta approvata, la legge prevede che entro sei mesi il Ministero della salute istituisca e regolamenti con apposito decreto l’elenco delle Società scientifiche che contribuiranno all’elaborazione delle buone pratiche clinico-assistenziali e alle linee guida. Il tutto non avverrà in tempi brevi.

Davanti a questo scenario prolungato nel tempo una strategia prudentemente attendista potrebbe essere in parte corretta. E in parte no. Possiamo solo paventare mille timori davanti ai quali sarebbe meglio tacere? Perché non pensare anche ad attrezzarsi di fronte all’incremento delle regole di aderenza alle procedure, incremento che innegabilmente è parte di quella modernità scientifica a cui la terapia cognitivo-comportamentale spesso si richiama?

Una possibile roadmap per attrezzarsi a fornire il proprio contributo alla futura richiesta di parere tecnico da parte del ministero dovrebbe comprendere la prosecuzione dell’opera di formazione e di aggiornamento sulla responsabilità professionale, sulle buone pratiche cliniche e sulle Linee guida diagnostiche, terapeutiche e riabilitative; la promozione, la diffusione e l’applicazione, delle Linee guida più valide già esistenti; la costituzione di gruppi di lavoro per l’elaborazione di Linee guida relative all’utilizzo dei trattamenti psicoterapeutici comportamentali e cognitivi nei diversi disturbi e/o ambiti assistenziali. Facendo questo ci si potrà proporre come interlocutori competenti del Ministero.

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