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Mai dire Mindfulness – Il nuovo singolo (con video) di Psicantria

“Mai dire mindfullness” è il regalo di Pasqua che la band Psicantria dedica ai propri fan e che ha dato in esclusiva a State of mind. La canzone racconta esperienze di mindfullness, ovviamente con la consueta ironia psicantrica.

Il video di animazione è stato realizzato da Riccardo Calabrese. Per ulteriori info sull’acquisto del brano sui negozi digitali e altre attività di Psicantria si rimanda al sito www.psicantria.it

 

 

Against empathy: Perchè l’empatia è dannosa per le nostre scelte

Paul Bloom , psicologo e professore a Yale, sostiene che l’empatia sia qualcosa di dannoso. Ci è stato insegnato che mettersi nei panni degli altri sviluppa la compassione ma secondo il Prof. Bloom l’empatia ci rende ciechi rispetto alle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni. In questa intervista animata del The Atlantic, Bloom argomenta la sua tesi secondo la quale dovremmo poter fare a meno dell’empatia.

 

L’argomento è sicuramente controverso, ma la tesi di Paul Bloom, per quanto provocatoria possa sembrare, fornisce un utile spunto di riflessione che potremmo riassumere in un affermazione:

L’empatia, se non è mediata da un ragionamento consapevole, può portare ad azioni impulsive e figlie dell’emotività, dalle conseguenze spesso nefaste.

D’altro canto la storia ci fornisce moltissimi esempi di come la ragione, quando non temperata dall’empatia possa portare a conseguenze terribili (pensiamo alle dittature e ai genocidi del secolo scorso).

Ragione e compassione devono necessariamente restare legate tra loro al fine di scongiurare azioni inumane o ha ragione Paul Bloom e gli altri accademici che si schierano a sfavore del meccanismo empatico come ispiratore delle nostre azioni?
Voi cosa ne pensate?

 

VIDEO: Paul Bloom lectures “Against Empathy”

 

La prevenzione del sovrappeso e dell’obesità infantile: è sufficiente occuparsi dello stile di vita?

Prevenzione della obesità infantile: I paradigmi attuali in tema di prevenzione della obesità infantile, sembrano operare una riduzione della complessità delle condizioni di sovrappeso ed obesità infantile e di sottostimare le variabili emotive e relazionali implicate nella regolazione dei comportamenti alimentari e del peso.

Introduzione

In Italia, secondo i risultati riferiti all’anno 2006 del progetto “Okkio alla Salute” del Ministero della Salute, eseguito dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha previsto un monitoraggio nei bambini tra i 6 e gli 11 anni, il 23,6% del campione è risultato essere in sovrappeso e il 12,3% obeso con una maggiore prevalenza nei maschi rispetto alle femmine e nelle aree meridionali rispetto a quelle settentrionali (con punte del 50% di sovrappeso ed obesità in Campania). Gli ultimi dati disponibili del medesimo progetto, riferiti al 2012, sono in linea con i riscontri precedenti: una percentuale pari al 22,2% di bambini risulterebbe essere in sovrappeso ed un 10,6% obeso, con percentuali più alte nelle regioni del Centro e del Sud, con una leggera diminuzione rispetto a quanto rilevato nelle precedenti raccolte.

I principali programmi di prevenzione della obesità infantile a livello internazionale (“EU Action plan on childhood obesity”) e nazionale (“Guadagnare Salute- Rendere facili le scelte salutari”, promosso dal Ministero della Salute nel 2007) risultano incentrati sulla promozione di stili di vita sani come strategia per ridurre l’incidenza di malattie croniche e di importanza epidemiologica. Tra le strategie indicate ritroviamo, ad esempio: seguire un’alimentazione corretta, svolgere attività fisica regolare, non fumare, limitare il consumo di alcool.

 

Prevenzione della obesità infantile: è sufficiente modificare lo stile di vita?

Tuttavia, i paradigmi attuali in tema di prevenzione della obesità infantile, sembrano operare una riduzione della complessità delle condizioni di sovrappeso ed obesità infantile e di sottostimare le variabili emotive e relazionali implicate nella regolazione dei comportamenti alimentari e del peso.

A supporto di questa visione, un recente studio empirico (Citarelli G., Di Trani M., Solano L., articolo in stampa sulla Rivista Eating&Weight Disorders) condotto con 25 bambini in sovrappeso o obesi con età compresa tra gli 8 ed i 12 anni, nessuno dei quali presentava patologie che potessero avere una qualche influenza sul peso, ed i relativi genitori, ha mostrato una correlazione lineare significativa tra il livello di alessitimia dei bambini, misurata con il “Questionario italiano per l’Alessitimia in età evolutiva” (Di Trani et al., 2009) ed il loro peso, misurato attraverso il BMI. In altri termini, maggiore era la Difficoltà ad identificare le proprie emozioni ed a differenziarle dalle sensazioni corporee, la Difficoltà a descrivere le emozioni ed il Pensiero orientato all’esterno (i tre indicatori che definiscono operativamente il costrutto dell’ Alessitimia) e maggiore era il loro peso. Ciò probabilmente era dettato da una probabile maggiore tendenza a ricorrere al cibo quale strumento di regolazione affettiva esterno in mancanza di altri strumenti/modalità più adattive. Si riscontrava infatti, come ad una maggiore Difficoltà di identificazione delle proprie emozioni corrispondesse una maggiore tendenza ad adottare uno stile di comportamento alimentare di tipo emozionale (rilevata con il “Dutch Eating Behaviour Questionnaire”, nella versione italiana curata da Dakanalis et al., 2013).

Lo studio ha, inoltre, rilevato come le Difficoltà di Regolazione Affettiva dei genitori (misurate con la TAS 20, Bressi et al., 1996) avessero delle connessioni con il BMI dei propri figli. Nello specifico l’innalzamento del BMI dei figli in sovrappeso o obesi risultava correlato in modo lineare con il Pensiero orientato all’esterno dei padri, ossia con la loro difficoltà ad orientarsi verso il mondo interno e ad attribuire valore alle emozioni ed ai sentimenti, ed alla Difficoltà delle madri a riconoscere le proprie emozioni e sentimenti.

 

Prevenzione della obesità infantile: l’importanza della regolazione emotiva

Ferma restante la non generalizzabilità dei risultati, ciò che sembra rilevante è la possibilità che il sovrappeso e l’obesità possano essere la risultante anche di un deficit di regolazione emozionale che ha le sue origini, nonché, ipotizziamo, le sue fonti di mantenimento, nella famiglia e nelle modalità di gestione delle emozioni privilegiate da quest’ultima. Stando a questa ipotesi, che necessiterebbe sicuramente di ulteriori approfondimenti, ciò che sembra fondamentale è occuparsi di costruire quelle competenze che attengono alla sfera emotiva che possano promuovere un comportamento alimentare sano. Insegnare, ad esempio, ad identificare correttamente le proprie emozioni, aumentare la consapevolezza nel discernere le emozioni dalla fame, apprendere modalità di regolazione emozionale sane ed adattive attraverso la progettazione di programmi tarati sull’età dei bambini/preadolescenti e che tengano conto degli aspetti evolutivi e dinamici delle loro competenze emotive ed includere i genitori ci sembrano delle possibili strade che possano integrare le azioni che promuovono uno stile di vita sano.

L’alternativa è proseguire in un’ottica prescrittivo- normativa eludendo il rapporto soggettivo delle persone col cibo, le componenti emotive e relazionali come se lo stile di vita fosse qualcosa di indipendente dalla persona e che necessita di una semplicistica riconduzione ad una norma per sempre e per tutti valida.

Intervista a Claudio Longhi, professore, regista e direttore del Progetto Carissimi Padri

La Redazione di State of Mind ha intervistato il Professore e Regista Claudio Longhi, direttore del Progetto ‘Carissimi Padri’ promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT.

Claudio Longhi è professore ordinario all’Università di Bologna, Dipartimento delle Arti, Coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Discipline della Musica e del Teatro. Dopo il Progetto ‘Il Ratto d’Europa’ (2012-2013) sta portando avanti il Progetto ‘Carissimi Padri’, pensato in occasione del centenario della Grande Guerra e della morte di Renato Serra.

Il Progetto è iniziato a Modena nel 2014, proseguito a Cesena e ora sta facendo tappa a Firenze. Attraverso numerose iniziative si sta sviluppando un’esperienza di Teatro Partecipato/ante, che permette alla popolazione di conoscere da vicino le premesse storiche e di riflettere sugli effetti traumatici della guerra. Un progetto di divulgazione di cultura e di riscoperta del teatro come luogo in cui la città si incontra.

 

1. Il Progetto indaga gli anni che portarono l’Europa a una guerra, con conseguenze drammatiche in tutto il mondo. Perché il titolo ‘Carissimi Padri’?

Il titolo è tratto dalla citazione alla Lettera al padre di Kafka, testo steso nel 1919, in cui l’autore critica aspramente, partendo dal suo caso, quella generazione di padri che, di fatto, cento anni fa mandarono in guerra i propri figli con grande leggerezza e incoscienza. Furono così dei padri ‘Carissimi’, amati e temuti alla follia da quei figli; nonché dei padri effettivamente costosi, vuoi per le vite sacrificate al conflitto vuoi per l’impatto economico devastante che la Grande Guerra ebbe sull’Europa.

2. Il Progetto si sviluppa raccogliendo diverse testimonianze dell’epoca e dislocando in diverse parti della città gli incontri aperti al pubblico. Perché questa scelta?

Sia ERT e il Teatro della Toscana che hanno prodotto il progetto sia io e il gruppo di lavoro di Carissimi Padri siamo convinti dalla funzione del teatro come crocevia della città: luogo d’incontro per riflettere sul futuro che ci aspetta. Il progetto nasce dal desiderio di rimettere la comunità al centro della pratica scenica, ma per fare ciò il teatro deve anzitutto dislocarsi nella città, ovvero uscire dai suoi spazi, per ritornare infine ad essere il luogo in cui far confluire il tutto: il progetto così si sviluppa in diverse parti della città, che si ritrovano successivamente in teatro.

 

3. Gli attori che Lei guida (Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Menea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e la fisarmonicista Olimpia Greco) coinvolgono la città: sono presenti in laboratori teatrali scolastici, dalle elementari alle superiori, all’interno di comunità psichiatriche, nei carceri, tra i mercati e le biblioteche. Un forte impegno alla divulgazione di un contenuto storico complesso. Come si è sviluppata questa idea?

L’idea è maturata nel tempo, attraverso diverse esperienze. Come assistente di Luca Ronconi mi sono occupato del ‘Pasticciaccio’ (ndr riscrittura drammaturgica di ‘Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana’ di Gadda), che ha accresciuto la mia sensibilità al tema dell’educazione al pubblico; oggi gli attori con cui lavoro hanno la medesima sensibilità. Un passaggio importante è stato poi il progetto ‘Il Ratto d’Europa’, costruito sempre con ERT, in occasione del quale sono iniziate le diverse esperienze che proseguono con Carissimi Padri, accomunate dall’idea che lo spettatore sia il depositario di un lavoro complesso, quello della decodifica del linguaggio teatrale. Questi progetti nascono dunque dal desiderio di far recuperare l’abitudine al linguaggio teatrale, importantissima ma persa negli anni.

 

4. Al Teatro Storchi di Modena e al Teatro Bonci di Cesena sono andati in scena gli spettacoli del progetto, con il coinvolgimento di partecipanti non professionisti, di ogni età e anche con nessuna esperienza teatrale. Questi atelier teatrali permettono l’incontro di persone e la riflessione su tematiche passate (e presenti!) come nel teatro greco. Ci può dire qualcosa in merito?

Sicuramente gli atelier (ovvero quegli spettacoli che facciamo coinvolgendo direttamente i cittadini in scena) hanno come riferimento il teatro greco: a misura della città e volto a uno scopo culturale, prima che estetico. Mi sta a cuore l’idea di uno spettacolo che accenda i pensieri, prima che esser bello. Come affermava Ronconi “il teatro è una forma di conoscenza che matura con l’esperienza”.

 

5. La rappresentazione teatrale è spesso stata considerata un’esperienza di catarsi o di sublimazione dell’esperire umano. Oltre a ciò, in passato, era l’unica occasione di divulgazione e discussione di idee. A mio parere, il Progetto Carissimi Padri mostra che il teatro può tornare ad avere anche queste funzioni, crede sia possibile riscoprirlo oggi in questi termini, considerando il successo catalizzante evidente tra i partecipanti?

Direi di sì. L’unica parola che mi vede perplesso è ‘catarsi’, perché è da capire bene cosa intendessero i greci per ‘catarsi’. Mi trovo più vicino alle opinioni di Brecht e Sanguineti. Penserei piuttosto al teatro come a un luogo di messa in evidenza, diciamo di espressione: un’emozione fortissima che nasca però dal ragionamento. È importante che emerga il potenziale riflessivo del teatro, senza tralasciare l’importanza del resto.

 

6. L’esperienza di questo Progetto verrà presto replicata anche in Toscana, al Teatro Niccolini di Firenze. Spero che la divulgazione culturale, attraverso la partecipazione attiva e divertita della popolazione (nonostante l’argomento), possa procedere su tutta Italia. Crede sia possibile?

Credo che operazioni di questo genere siano necessarie. Credo ci sia la necessità di ricostruire la relazione col pubblico, di radicare il teatro nel territorio e restituirlo alla comunità. Credo ci sia bisogno di questo.

Disturbo da stress post traumatico: intervenire col modello metacognitivo

Il modello metacognitivo ha allargato la propria riflessione teorica, empirica e applicativa anche al disturbo da stress post traumatico. In particolare, l’approccio metacognitivo propone che i sintomi traumatici siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento stressante-traumatico.

Il modello metacognitivo (Wells, 2009) ha allargato la propria riflessione teorica, empirica e applicativa anche al disturbo da stress post traumatico. In particolare, l’approccio metacognitivo propone che i sintomi traumatici siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento stressante-traumatico, in quanto sarebbero parte di un processo naturale di adattamento (in inglese, Reflexive Adaptation Process -RAP) che influenza la cognizione e l’attenzione allo scopo di identificare e utilizzare nuove strategie di coping.

 

Il rimuginio nel disturbo da stress post traumatico

Normalmente tale percorso evolve senza ostacoli e la persona esce dal circolo ansioso dal momento in cui i processi cognitivo-attentivi cessano di focalizzarsi su stimoli minacciosi. Vi sono dei casi in cui però l’evoluzione adattiva di questo percorso viene bloccata quando la persona continua a rimuginare su stimoli potenzialmente minacciosi o connessi all’episodio traumatico.

Il rimuginio appartiene alla sindrome cognitive-attenzionale (CAS). Nel caso del disturbo da stress post traumatico, tale stile cognitivo consiste in una perseverazione ripetitiva del pensiero, dell’attenzione e dei ricordi allo scopo di trovare significati, monitorare e prevenire simili minacce future.

Secondo il modello metacognitivo, i sintomi del disturbo da stress post traumatico si manterrebbero perché la sindrome cognitivo-attenzionale non consente un’attività cognitiva flessibile e libera dall’incombenza del monitoraggio degli stimoli minacciosi. E sarebbero proprio le credenze metacognitive (come ad esempio, ‘Analizzare continuamente ciò che ho sbagliato nel passato mi aiuterà a prevenire cose negative in futuro‘) a spingere verso il rimuginio. Inoltre alcune credenze metacognitive negative relative all’incontrollabilità dei pensieri concorrono a un’aumentata percezione di minaccia sia nel presente che nel futuro.

 

Il modello metacognitivo nel trattamento del disturbo da stress post traumatico: uno sguardo alla letteratura

A livello empirico diversi contributi dimostrano la rilevanza della metacognizione nel mantenimento del disturbo da stress post traumatico, avendo questa anche secondo alcuni autori un ruolo predittivo dei sintomi post-traumatici (si vedano ad esempio Bennett and Wells2010; Guthrie and Bryant2000; Holeva et al.2001; Roussis and Wells2008).

Dal punto di vista clinico, il modello metacognitivo propone un trattamento focalizzato sulla sindrome cognitivo-attenzionale, sui relativi processi di pensiero e sulle credenze metacognitive disfunzionali, con l’obiettivo di flessibilizzare la rigidità della sindrome cognitivo-attenzionale. Di nuovo, il target del trattamento, non sono i contenuti traumatici bensì i processi mentali cognitivi e attentivi che sottostanno l’intrusitività e la perseveranza ripetitiva maladattiva di tali stati mentali.

In aggiunta a precedenti ricerche preliminari, il recente studio di Wells, Walton, Lovel & Proctor (2015) consiste in un trial controllato in cui viene messa a confronto la terapia metacognitiva (MCT) con la terapia di esposizione prolungata (PE) su un campione di 32 pazienti con diagnosi di disturbo post traumatico da stress insorto da almeno tre mesi. Il protocollo di terapia di esposizione prolungata implica nella sua essenza principale una serie di graduali esposizioni in immaginativo e in vivo, con riflessioni psicoeducative riguardo l’evitamento e i circoli viziosi ad esso correlati nel mantimento del distress a lungo termine e della sintomatologia post-traumatica.

D’altra parte, la terapia metacognitiva – anche nel caso del disturbo da stress post traumatico – mira a lavorare sulla sindrome cognitivo-attenzionale, sui processi di pensiero ripetitivi e sulle credenze metacognitive disfunzionali relative alle funzioni mnestiche e ai ricordi traumatici.

Tutti i pazienti sono stati sottoposti per otto settimane a un’ora di terapia individuale di tipo metacognitivo o espositiva. Tra le misure di outcome impiegate vi sono la Impact of Events Scale (IES; Horowitz et al.1979) che misura il livello di intrusività ed evitamento, e la Post-traumatic Stress Diagnostic Scale (PDS; Foa 1995) che valuta la sintomatologia del PTSD secondo i criteri del DSM-IV. Lo studio dimostra che entrambe le tipologie di trattamento – confrontate anche con un gruppo di pazienti in lista d’attesa- sono efficaci, e cioè sono in grado di migliorare i sintomi del disturbo da stress post traumatico, e anche i livelli di ansia e depressione.

Nella fase di post-test la terapia metacognitiva risulta essere anche maggiormente efficace (con maggiori dimensioni dell’effetto) rispetto alla terapia espositiva; tuttavia nel follow-up si riscontrano elevate percentuali di recupero e miglioramento della sintomatologia per entrambe le terapie analizzate. Dunque entrambi i protocolli, secondo la ricerca, si possono definire empiricamente efficaci per il trattamento del disturbo da stress post traumatico. Ulteriori studi dovranno dimostrare la replicabilità dei risultati secondo cui la terapia metacognitiva portebbe pure a un maggiore e più rapido miglioramento sintomatico per questa tipologia di disturbo, oltre che verificarne l’efficacia confrontandola anche con altre terapie che lavorano sul trauma.

 

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Il quoziente intellettivo e l’età mentale – Introduzione alla Psicologia

Quoziente intellettivo: Gli studi sull’intelligenza nascono all’inizio del secolo scorso, quando nell’ambito della psicologia vigeva l’esigenza di misurare una serie di costrutti che riguardavano i comportamenti manifesti esistenti tra i soggetti. Lo scopo era di oggettivare, quantificare numericamente, degli atteggiamenti o tratti che rappresentano la misura diretta di qualcosa che non è immediatamente misurabile. Quindi, si partiva dal manifesto, dall’agito, dal comportamento, inteso come misura di qualcosa non tangibile, per arrivare al latente. In questo ambito, tra tutti, ricordiamo gli studi sull’intelligenza.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Cos’è esattamente l’intelligenza? In tantissimi hanno cercato di dare una risposta a questa domanda, Socrate, Einstein, Locke, le recenti neuroimaging, ma gli studi più accreditati sono stati svolti all’inizio del XX secolo, in ambito psicometrico. Ricostruiamoli.

 

Definizione di intelligenza

Cominciamo col dire che Intelligenza deriva dal verbo latino intelligere, che significa comprendere o percepire. L’intelligenza, in generale, può essere definita come la capacità di acquisire informazioni che costituiranno l’insieme di conoscenze apprese da ciascun individuo.
Pur indicando una definizione generale, il concetto d’intelligenza è molto più complesso e strutturato e per capire esattamente di cosa si sta parlando è necessario tornare nel 1900.

 

I primi studi sull’intelligenza

Charles Spearman, psicometrista e allievo di Wundt, giunse alla conclusione che non esisteva un’unica forma d’intelligenza, ma diversi tipi di intelligenza manifesta, tutti correlati tra loro, da cui emerge un unico fattore latente che è il famosissimo fattore di intelligenza generale chiamato G.

Più tardi, Cattel individuò due tipi di intelligenza: l’intelligenza fluida e quella cristallizzata. L’intelligenza fluida, è la capacità di applicare la logica a situazioni di vita comune; attraverso l’analisi di una serie di schemi acquisiti si applica la logica che permette di giungere a soluzioni efficaci. Questa procedura prese il nome di problem solving, in cui è possibile utilizzare sia il ragionamento induttivo che quello deduttivo.
L’intelligenza cristallizzata è la capacità di fruire di conoscenze apprese ed esperienze acquisite. Essa raggruppa le conoscenze generali derivanti dalle esperienze ed è in costante interazione con l’intelligenza fluida.

Intelligenza fluida e cristallizzata tendono a cambiare nel corso della vita. La prima dura fino all’adolescenza e l’altra perdura fino all’età adulta.
L’intelligenza fluida e quella cristallizzata sono quindi correlate fra loro, e molti test d’intelligenza tentano di misurarle entrambe, giungendo a un punteggio globale, il Quoziente Intellettivo (QI).

 

Il quoziente intellettivo

Francis Galton, cugino di Darwin, era uno scienziato britannico, che diete vita all’eugenetica. Egli suppose che l’intelligenza fosse un comportamento misurabile e per questo poteva essere inferito dalle capacità visive, dai tempi di risposta a uno stimolo somministrato, dalla sensibilità della pelle, etc. Si tratta di capacità umane facilmente valutabili e osservabili, che derivano da caratteristiche innate nel soggetto.
Solo nel 1904, però, è stato possibile realmente quantificare in termini psicometrici l’intelligenza.

All’inizio del 1900 , il governo francese avevo reso obbligatoria la frequenza scolastica, e per questo aveva chiesto allo psicologo Binet di capire in che modo si potesse agire sugli studenti che non riuscivano a ottenere un buon rendimento concedendogli, in questo modo, assistenza specializzata.
Binet e il suo collega Simon avevano ideato una serie di domande (60 item) su grandi aree di apprendimento scolastico: l’attenzione, la memoria e la capacità di problem solving. Alla fine ottennero il primo reattivo psicometrico che permetteva di misurare l’intelligenza.
Questo primo test d’intelligenza, la scala Binet –Simon, restituiva un unico punteggio totale chiamato Quoziente Intellettivo. Questo test, ancora oggi in uso, divenne la base per i futuri questionari sull’intelligenza.

Binet ha, però, sottolineato l’esistenza di una serie di limiti presentati dal test, evidenziando che l’intelligenza è un costrutto troppo vasto da racchiudere in un unico numero. Infatti l’intelligenza è condizionata da una serie di fattori, tra cui ricordiamo una serie di abilità cognitive, la cultura e l’ambiente familiare da cui si proviene.
Osservò, inoltre, che alcuni dei bambini sottoposti al test erano in grado di rispondere a domande rivolte a soggetti più grandi, ottenendo chiaramente punteggi maggiori. Nacque, in questo modo, il concetto di età mentale e di età cronologica.

L’età cronologica rappresenta l’età di un individuo, ovvero quanto vecchio è, e si calcola a partire dal giorno di nascita. Quindi, una persona nata il 22 luglio del 1990, oggi ha un’età cronologica pari a 25 anni e 8 mesi.

L’età mentale, invece, è una misura delle capacità cognitive di un soggetto equiparate al rendimento medio dei soggetti aventi la stessa età. Un ragazzo di 15 anni che riesce a rispondere a domande tipiche dei 19 anni, avrà 19 anni di età mentale e 15 di età cronologica. Insomma, l’età mentale si basa sullo sviluppo intellettuale e cognitivo, mentre l’età cronologica fa riferimento alla data di nascita. Se l’età cronologica coincide con l’età mentale, allora si ha una intelligenza nella media.

Il test Binet-Simon ha mosso molto interesse soprattutto oltre oceano, nella Stanford University. In quell’ambito lo psicologo Terman standardizzò il test, ormai chiamato Standford-Binet, ovvero individuò norme standard cioè uguali per tutti, su un campione di soggetti americani. Questo test aveva sempre un unico punteggio totale, QI (quoziente intellettivo), calcolato dividendo l’età mentale del soggetto per l’età cronologica e moltiplicando questo numero per 100, punteggio medio ottenibile al test. Ad esempio, un bambino con un’età mentale di 12 anni e un età cronologica di 10 avrebbe un quoziente intellettivo di 120 = (12 / 10 x 100 ) .

La Stanford- Binet rimane uno strumento di valutazione popolare anche oggi, nonostante sia stato revisionato più volte in tutti questi anni.

 

La Scala Wechsler

Wechsler, più tardi, partendo dai limiti dalla Stanford-Binet, propose un nuovo test d’intelligenza. Egli sosteneva che l’intelligenza derivasse da una serie di abilità cognitive e mentali, correlate tra loro ma valutabili singolarmente: la comprensione verbale, la working memory, l’organizzazione percettiva e la velocità di elaborazione dell’informazione in un compito. Ognuna di queste aree a sua volta era formata da una serie di sotto-scale, che permettevano di misurare i costrutti in maniera più accurata. Inoltre, sviluppò una versione della scala adatta ai bambini (WISC) e un’altra per valutare forme di Intelligenza primaria (WPPSI). La versione per adulti del test è stata rivista più volte dalla sua pubblicazione originale ed è ora conosciuto come la WAIS-IV, che presenta norme e taratura diverse da quelle originarie.

La WAIS fornisce punteggi in quattro principali aree di intelligenza, come detto sopra, e prevede anche due punteggi generali che possono essere utilizzati come una sintesi di intelligenza generale: un quoziente intellettivo derivante dalla somma dei punteggi nelle quattro aree, e un indice di abilità generale derivante dalla somma dei punteggi a sei sotto-scale del test (General Ability Index, GAI).
Il punteggio medio ottenibile è sempre 100 con deviazione standard pari a 15. In questo modo, si individua un range che varia da 85 e 115 che costituisce il range della media. Punteggi bassi al test indicano possibili difficoltà di apprendimento da parte del soggetto sia in generale sia in aree specifiche.

 

Conclusione e aspetti neuroscientifici

Concludendo, esistono due grandi teorie sull’intelligenza: la prima che sostiene l’esistenza di un unico fattore e la seconda che individua più forme di intelligenza.
Un recente studio pubblicato da Hampshire e collaboratori condotto presso la University of Western Ontario ha esaminato le aree del cervello implicate nell’esecuzione di test per valutare l’intelligenza durante una sessione di risonanza magnetica funzionale. Lo scopo era individuare un’area globale, o aree dominio specifiche in relazione ai diversi compiti eseguiti.
I risultati evidenziarono le attivazioni di regioni specifiche per compiti specifici. Quindi, si hanno aree diverse per capacità cognitive diverse. Questo risultato andrebbe verso la conferma dell’esistenza di diverse forme di intelligenza sottese da aree specifiche: memoria a breve termine, ragionamento induttivo e le capacità verbali.

Poco si conosce ancora circa il funzionamento specifico di queste aree, di come comunichino tra di loro e di come influenzino le performance in un compito. Sicuramente possiamo dire che compiti diversi sono elaborati in aree cerebrali diverse, ma sono necessari studi ulteriori per approfondire o implementare tali risultati.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Effetti del Calcio Sociale sulla recovery: i primi risultati di uno studio sperimentale controllato

Calcio Sociale: Il CSM di Civita Castellana dell’ASL di Viterbo da due anni ha avviato un programma di riabilitazione psichiatrica che non poteva che riscuotere un grande successo vista la storia d’amore tra gli italiani e il calcio. Il progetto, denominato Calcio Sociale è partito nel 2014, si fonda su principi e valori volti a promuovere l’inclusione, l’accoglienza e l’accettazione della diversità.

Antonio Scarinci, Fabio Massimo Maurelli, Maurizio Menichelli, Martina Fantera, Jessica Galluzzi, Angelo Alessandro Scarinci

Introduzione

L’attività di riabilitazione dei pazienti coinvolti che presentano diagnosi e problemi di varia natura si svolge in un contesto caratterizzato da un’atmosfera emotiva calda e accogliente che permette l’interazione tra tutti i partecipanti. Le squadre che si affrontano, durante la partita di Calcio Sociale, perseguono uno scopo comune secondo regole condivise. L’agonismo è temperato dal coinvolgimento cooperativistico, e dalla valorizzazione delle risorse e dei punti di forza di ognuno messi a servizio della squadra.

Il calcio sociale diventa metafora della vita.

Le finalità di questa attività sono molteplici:
– promuovere interventi contro lo stigma;
– sollecitare la partecipazione attiva non solo degli utenti ma anche dei familiari delle associazioni, delle istituzioni locali;
– operare interventi di riabilitazione e psicoeducazione;
– promuovere una cultura dell’inclusione che favorisca la piena partecipazione alla vita sociale di soggetti troppo spesso esclusi ed emarginati.

Nei due anni trascorsi, i ragazzi coinvolti si sono impegnati con regolarità ad incontrarsi ogni lunedì della settimana al campo di calcio di una parrocchia assistiti da un infermiere psichiatrico, uno psichiatra e uno psicologo per svolgere gli allenamenti settimanali. La parrocchia e le associazioni che si muovono intorno ad essa sono stati ben lieti di ospitare la squadra. Sono state organizzate, inoltre, partite amichevoli con la partecipazione di utenti di altri servizi e tornei interregionali, nella primavera dello scorso anno ne è svolto uno a San Benedetto del Tronto.

A maggio p.v. gli utenti parteciperanno al V Torneo Internazionale di calcio a 6 dei DD.SS.MM. denominato “La testa nel pallone” che si terrà in Puglia.

Tra gli obiettivi della manifestazione, vi sono quelli di offrire ai partecipanti un’opportunità di crescita personale attraverso l’interazione con gli altri, stimolare il senso d’appartenenza, migliorare i deficit cognitivi e comportamentali.

Le abilità che consentono di identificare gli stati mentali e di intervenire su di essi, attribuendo a se stessi e agli altri emozioni, scopi e credenze sono essenziali per adottare piani funzionali per la vita di relazione e l’adattamento all’ambiente (Carcione, Nicolò; Procacci, 2012).
Le modalità di tipo esperienziale volte al cambiamento sono l’asse portante della riabilitazione ma l’intervento per dimostrarsi efficace deve essere valutato con rigore e metodo (Brenner, 1997; Ballack et al., 2003).

 

La valutazione dei pazienti prima e dopo l’esperienza del Calcio Sociale

Proprio a tal fine i pazienti che hanno aderito al Calcio Sociale sono stati fatti oggetto di valutazione all’inizio dell’attività e a distanza di un anno e confrontati con un gruppo di controllo in relazione alla diminuzione dei sintomi, all’incremento della metacognizione e al loro funzionamento complessivo. Gli strumenti di valutazione utilizzati sono stati la SCL-90-R (Derogatis, 1994) , il Metacognitions Questionnaire (Cartwright, Wells, 2002) e la Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento (APA, 2000).

La Symptom Checklist-90-R è uno strumento autosomministrato. Nella sua versione definitiva la scala risulta composta da 90 item e valuta la presenza e la gravità di sintomi di disagio psichico nell’ultima settimana (incluso il giorno in cui avviene la valutazione) in diversi domini. A ogni item viene attribuito un punteggio su una scala Likert a cinque punti. La natura multidimensionale della SCL-90-R consente di ottenere informazioni specifiche rispetto al disagio sintomatologico nei diversi domini indagati, oltre che informazioni più generali attraverso la lettura degli indici globali.
Il Metacognitions Questionnaire misura contenuti metacognitivi. E’ composto da 65 item che formano 5 sottoscale: credenze positive riguardo alla preoccupazione; credenze di incontrollabilità e pericolo; convinzioni di competenza cognitiva; credenze negative generali; autoconsapevolezza cognitiva. Gli item sono valutati su una scala Likert a 4 punti.

La Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento considera il funzionamento psicologico, sociale e lavorativo nell’ambito di un ipotetico continuum salute-malattia mentale. Si compone di 11 range con un punteggio che varia da 1 a 100. Il punteggio è assegnato dal curante che dispone delle informazioni sul paziente.

Quattro dei sette pazienti che hanno dichiarato la disponibilità a intraprendere il programma hanno una diagnosi di schizofrenia di tipo paranoide (DSM IV F.20.0X), uno ha una diagnosi di disturbo psicotico NAS (DSM IV F.29), tutti vengono trattati farmacologicamente con neurolettici di nuova generazione; un soggetto ha diagnosi di disturbo depressivo maggiore ricorrente (DSM IV F. 33. X) e viene trattato con neurolettico di nuova generazione, stabilizzatore dell’umore e psicoterapia; il settimo partecipante ha diagnosi di disturbo borderline di personalità (DSM IV F. 60.31) con trattamento psicoterapeutico. La scala per la Valutazione Globale del Funzionamento dei pazienti in fase di stabilizzazione al momento dell’intervento presenta un range che varia da 55 a 60 punti (sintomi moderati – es: affettività appiattita e linguaggio circostanziato, occasionali attacchi di panico oppure moderate difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo e scolastico – es: pochi amici, conflitti con i compagni di lavoro).

I soggetti del gruppo di controllo sono stati selezionati in modo da avere omogeneità con il gruppo sperimentale relativamente alla diagnosi, al trattamento e alla valutazione globale del funzionamento (range 55-60).
L’ipotesi avanzata era che i partecipanti potessero migliorare la propria metacognizione, diminuire la sintomatologia e mantenere stabile o migliorare il funzionamento a distanza di un anno.

Nella tab. 1 sono riportate le statistiche descrittive dei due gruppi in relazione alle 10 sottoscale del test SCL-90-R (SCL1…SCL10) e alle 5 sottoscale del test MCQ (MCQ1…MCQ5).

 

I risultati

I dati sono stati elaborati con il programma SPSS 21. E’ stata fatta una ANOVA per verificare gli effetti dell’intervento di riabilitazione nell’arco di tempo di un anno confrontando il gruppo sperimentale con il gruppo di controllo. Gli effetti della variabile GRUPPO indicano differenze che dipendono principalmente dalle caratteristiche del campione.

Gli effetti della variabile TEMPO indicano differenze che dipendono principalmente dal trascorrere del tempo e che agiscono parimenti su entrambi i gruppi. Occorre notare che i valori medi delle sottoscale sintomatologiche del SCL-90-R e delle sottoscale del MCQ sono tutti diminuiti.

Gli effetti di interazione delle variabili GRUPPOxTEMPO indicano differenze che dipendono in qualche modo dall’interazione delle variabili stesse. L’effetto sulle dimensioni MCQ1 (Convinzioni positive riguardo alla preoccupazione) e MCQ5 ( Autoconsapevolezza cognitiva) e SCL1 (somatizzazioni) sono quelle su cui ha agito l’intervento svolto in quanto risultano significative (rispettivamente F= 4,935 – p< .05; F= 4,694 – p<.05; F= 4,934 – p<.05).

Queste variabili sono diminuite nel tempo per gli sperimentali e non tra i controlli.

Le convinzioni positive riguardo alla preoccupazione utilizzate per prevenire ed evitare minacce e pericoli rappresentano strategie di fronteggiamento disadattive che causano rimuginio e ruminazione e attivano memoria e attenzione selettive, contribuendo a creare problemi di elaborazione emotiva. L’autoconsapevolezza cognitiva (per es: presto molta attenzione al modo in cui funziona la mia mente) nel modello della funzione autoregolatoria di Wells (2012) è associata a effetti deleteri sulla cognizione con esiti emozionali patologici.

Lo sport e l’attività fisica in genere è un ottimo rimedio per chi tende a somatizzare gli stati emotivi e i dati riguardanti la sottoscala SCL1 lo attestano.

I valori medi riportati dal gruppo sperimentale per MCQ1 pari a 35,38 al post test sono inferiori a quelli di un campione non clinico (35,8) riportati da Wells (2002) nello studio di validazione del test, e questo vale anche per la sottoscala MCQ5 pari a 15,88 al post-test a fronte di un punteggio pari a 18,2 del campione non clinico (Cfr. Tab.1).

Di seguito si riportano i dati della varianza (la differenza media è significativa al livello ,05) con la correzione dell’errore del primo tipo in presenza di test multipli sugli stessi dati (test di Bonferroni).

 

La valutazione rispetto al funzionamento dei pazienti è stata operata attraverso la scala VGF.
I punteggi medi riportati dai pazienti del gruppo sperimentale sono passati dal range 50-60 (Sintomi moderati – es: affettività appiattita e linguaggio circostanziato, occasionali attacchi di panico – oppure moderate difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo o scolastico – es: pochi amici, conflitti con i compagni di lavoro) al range 60-70 (Alcuni sintomi lievi – es: umore depresso, insonnia lieve – oppure difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo o scolastico – es: assenze ingiustificate a scuola o furti in casa – ma in genere funziona bene e ha alcune relazioni personali significative) mentre i punteggi dei pazienti del gruppo di controllo sono rimasti invariati (range 50-60).

Naturalmente occorrerà effettuare ulteriori verifiche nel tempo ma i risultati ottenuti in questa prima fase sembrerebbero incoraggianti in relazione all’efficacia dell’intervento riabilitativo Calcio Sociale per la recovery, anche se una serie di variabili confondenti (ad esempio gli eventi critici di vita) che non sono state prese in considerazione potrebbero agire sugli stati interni dei pazienti e condizionare i risultati.

Nell’allegato è possibile visualizzare le analisi dei dati.

Dipendenza affettiva: recensione del libro ‘Dipendenza e controdipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota’

La dipendenza affettiva è una condizione che non ha ancora trovato pieno riconoscimento in nessuna classificazione ufficiale, ma che tante volte chi svolge attività clinica ha incontrato, portata dai pazienti più disparati.

 

Dipendenza e controdipendenza affettiva‘ è il titolo di un libro molto interessante, scritto da Massimo Borgioni e uscito per Alpes a settembre 2015.

Se già il titolo suscita interesse, ancor più interessante è il sottotitolo: ‘dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota‘. Ma iniziamo dall’inizio, appunto.

 

Cosa si intende per dipendenza affettiva?

La dipendenza affettiva è una condizione che non ha ancora trovato pieno riconoscimento in nessuna classificazione ufficiale, ma che tante volte chi svolge attività clinica ha incontrato, portata dai pazienti più disparati. Possiamo pensare che senza dipendenza affettiva non ci sarebbero state tante canzoni, tanti romanzi, e sicuramente tante poesie. Una forma di dipendenza affettiva è senza dubbio quella che Buzzati racconta in ‘Un amore‘ dove in sostanza troviamo un signore di mezz’età che ha sempre evitato ogni forma di relazione intima e che improvvisamente e catastroficamente si innamora di una giovane Adelaide; la fanciulla si sente autorizzata a fare il bello e il cattivo tempo, certa che il suo spasimante si farà andare sempre tutto bene pur di starle accanto. In uno dei dialoghi più rappresentativi, che ci aiuta a capire meglio il concetto, troviamo un’amica di Adelaide che interroga Antonio sui suoi sentimenti per la ragazza:

E tu che cos’eri per lei?

Io le ho voluto bene sul serio

Bene sul serio? Semplicemente te ne eri ammalato, ne avevi bisogno, hai fatto di tutto per averla, in modo bestiale ma l’hai fatto. Ma la consideravi una disgrazia, è vero o no che la consideravi una disgrazia?”

Era, una disgrazia”

E questo lo chiami amore? Ma l’hai fatta entrare nella tua vita? L’hai ammessa in casa tua? L’hai fatta conoscere alla tua famiglia?”

Queste sono assurdità”

Ecco, in queste poche righe troviamo già una bella mappa di che cosa sia la dipendenza affettiva. O almeno, una sua versione. La dipendenza affettiva è essere ammalati di qualcuno, è considerare una persona la causa e la cura della propria malattia, è sentire di non poter smettere ma di non poter continuare così. Qualunque cosa quel ‘così’ voglia dire. E già qui, ci risuona molto il rapporto che le persone con una tossicodipendenza hanno con la sostanza: sapere che ti fa male ma che non puoi farne a meno, e sapere anche che più andrai avanti così più la cosa peggiorerà e sarà difficile trovare un’alternativa.

L’altro aspetto interessante è quello riportato dall’amica di Adelaide: “ma l’hai fatta entrare nella tua vita?” Sottointeso: no. Perché la dipendenza è anche questo: tenere qualcosa da parte, per una motivazione che racchiude sia la gelosia (per cui non vogliamo dividere l’oggetto della nostra dipendenza con nessuno), sia in parte la sensazione che in effetti qualcosa non sia del tutto limpido, che forse, nel caso della dipendenza affettiva, questa relazione non ci fa proprio tanto bene.

Una relazione che si configura come sostanzialmente scotomizzata dalla vita quotidiana, in cui non si parla di come è andata la giornata, ma si rimane altro da noi stessi, esseri astratti che si rapportano in un modo astratto e poco conciliabile con la quotidianità. Una dipendenza che diventa anche non integrazione, quindi, che non ci aiuta a vivere un’esistenza lineare e fluida, ma ci costringe a continui scatti per passare da una realtà all’altra.

 

Un’altra forma di dipendenza affettiva

Dicevamo però che questa è una delle diverse forme che la dipendenza affettiva può assumere. Accanto a questa versione, che senz’altro ben rappresenta l’amore scriteriato di cui parla Borgioni, abbiamo l’indifferenza vuota, che può risultare altrettanto devastante. Si tratta di una sorta di evitamento obbligato e compulsivo delle relazioni intime, guidato dal terrore di potersi scomporre e disgregare lasciando entrare un’altra persona nella nostra vita.

Allora visto che la serenità sta nel potersi rapportare a qualcosa in modo consono alla nostra volontà e alle nostre esigenze, possiamo pensare che la difficoltà (o addirittura la patologia) sia rappresentata tanto dall’abbuffare di una relazione, quanto dall’evitarla in modo spaventato. Come con il cibo, la soluzione alle abbuffate non sta nel digiuno, ma anzi questi comportamenti si configurano come due condizioni che componendo un’alternanza patologica si esacerbano l’una con l’altra.

Allo stesso modo, non è infrequente che le persone che hanno conosciuto una faccia della dipendenza affettiva oscillino poi nell’altro versante, quasi come una reazione estrema e disperata per allontanarsi da quello che ha fatto male. Così, capita di incontrare sia persone che dopo una relazione vissuta in modo scriteriato, appunto, si siano rifugiate nella sicurezza dell’indifferenza vuota, così come l’opposto, come è successo al nostro Antonio: persone che non si sono mai esposte a relazioni percepite come pericolose perché intime, e quando lo fanno si buttano in toto, chiedendo all’altra persona di prendere tutto e farne qualcos’altro. Di fare di loro stessi qualcos’altro, quasi a dire ‘salvami la vita!‘, emotivamente parlando. Ma purtroppo le cose non funzionano così, e spesso collocarsi negli opposti di un continuum porta agli stessi disastrosi effetti.

 

‘Dipendenza e controdipendenza affettiva’

La prima parte del volume è dedicata proprio alla definizione della Love Addiction e delle sue diverse forme. Uno dei primi aspetti sottolineati è che il dipendente affettivo fatica a concepire il cambiamento all’interno di una relazione, e ha la necessità di mantenere il rapporto in un’idealizzazione cristallizzata che non consente un suo adeguamento alla realtà dei fatti. Se è vero che la patologia dipende dalla rigidità degli schemi, in questo senso il dipendente affettivo si mostra rigido in uno schema relazionale, che lui non consente di modificare nel terrore che ogni cambiamento possa comportare una perdita dell’equilibrio e di conseguenza una frattura. Proseguendo, l’autore propone un’ipotesi sull’eziologia della dipendenza affettiva, che affonderebbe le sue radici per lo più nello stile di attaccamento.

Il secondo capitolo rappresenta senz’altro la sezione più interessante del libro, passando in rassegna le diverse tipologie di dipendenza affettiva.

La prima forma è quella che l’autore chiama ‘passivo-dipendente‘: si tratta di persone che hanno alla base la sensazione di non farcela da soli davanti alle difficoltà della vita e che cercano nel partner una forma di salvezza neanche tanto metaforica. L’idea è che da soli non ci se la fa, con il conseguente terrore costante di perdere l’altro e la relazione. Il dipendente delega tutta la propria felicità al partner, e a lui chiede di rimanere nella diade per sempre.

Mette in atto una costante svalutazione di sé e idealizzazione del partner, verso cui prova ammirazione mista a invidia e competizione, che facilmente emergono con comportamenti passivo-aggressivi. L’atteggiamento prevalente è, infatti, un’oscillazione continua tra la compiacenza dell’altro e forme passive di protesta, nell’aspettativa irrealistica che, dichiarando la sua completa impossibilità di badare emotivamente a se stesso, l’altro si preoccupi di accudirlo e sostenerlo.

La seconda forma di dipendenza affettiva è la ‘codipendenza‘, che solitamente ritroviamo nelle persone che tendono a legarsi a partner in evidente necessità. La codipendenza è forse qualcosa che si avvicina alla sindrome della crocerossina, nell’ottica del ‘grazie al mio amore un giorno guarirai‘. Va da sé che questo tipo di rapporto nasce sotto la stella dello squilibrio di potere e di risorse all’interno di un legame mediato esclusivamente dalla condizione di bisogno.

La contropartita dell’abnegazione con cui il codipendente si dedica al partner tossicodipendente o al compagno alcolista solitamente è la sensazione di essere unico e speciale, nella consapevolezza che senza di lui/lei, il partner non potrebbe farcela da solo. Una forma di narcisismo quindi? Può darsi. Sicuramente a caro prezzo. Anche perché non è insolito che persone che sviluppano per esempio una dipendenza da sostanze, una volta guarite decidano di tagliare tutte quelle relazioni che possono ricordare a loro stessi momenti di difficoltà e che possono richiamare un’idea di sé come debole e bisognoso.

In secondo luogo, una relazione con una persona in evidente stato di necessità può dare l’illusione di essere una relazione che durerà per sempre: se l’altro ha bisogno di me, non può lasciarmi. Per questo, può succedere che sia proprio il partner codipendente a sabotare più o meno esplicitamente i percorsi di cura del compagno in difficoltà, nell’ottica che mantenendo lo stato di necessità riuscirà a mantenere anche la loro relazione.

La terza forma è quella ‘aggressivo-dipendente‘, che porta in primo piano la componente maltrattante e addirittura violenta della dipendenza affettiva: questa persona vede il partner come figura su cui scaricare il fardello di rancore e frustrazione che può portare con sé da sempre o può aver acquisito in precedenti relazioni fallimentari, per una sorta di inversione di ruoli da vittima a carnefice. L’altra faccia della medaglia di questa continua aggressività è una sottostante svalutazione di se stessi, fatta di senso di colpa e autoaccusa, e appoggiata soprattutto su un’idea estremamente negativa di sé.

Sono quelle coppie che costruiscono la loro stabilità nella continua svalutazione dell’altro e nelle continue angherie, che si configurano come l’unico modo che i partner hanno di stare in relazione. In questo caso abbiamo una visione di sé come profondamente immeritevole di affetto e cattivo, e dell’altro come sbagliato e fallace.

La quarta e ultima configurazione di dipendenza affettiva proposta dall’autore è quella del contro-dipendente. A mio avviso, uno degli aspetti più interessanti e innovativi di questo volume è stata proprio la scelta di inserire anche questo aspetto nella rosa di dipendenti affettivi. Parliamo di persone che hanno risolto il proprio terrore dell’abbandono evitando puntualmente ogni tipo di legame intimo e rendendosi affettivamente indisponibili. Sono persone che hanno imparato molto presto a fare a meno del caregiver, e hanno capito anche che prima si diventa autonomi prima ci si può sottrarre da un possibile rifiuto o abbandono dell’altro. A causa di una disconferma e di un non riconoscimento dei propri bisogni da parte dei genitori, questi bambini hanno imparato che doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato in loro, e per evitare la vergogna che deriva da questa consapevolezza hanno semplicemente smesso di chiedere.

L’autonomia raggiunta è però solo fittizia, visto che gioco forza nessuno ha insegnato a questi bambini diventati adulti le competenze per poter fare da soli. Più che autonomi, quindi, si sentono in un equilibrio precario, che sicuramente non metteranno a rischio esponendo la propria emotività alla possibilità di essere mortificata o rifiutata dall’altro. Dietro all’illusione nucleare di non avere bisogno di niente e di nessuno si nasconde in realtà una problematica di dipendenza che semplicemente non è mai stata elaborata e resta lì irrisolta, esponendo la persona a rischio di dipendenza da una gratificazione compulsiva alternativa, come può essere la dipendenza da sostanze o da comportamenti a rischio.

Nei capitoli successivi del libro, l’autore affronta il legame tra dipendenza affettiva e dipendenza da sostanze, così come la presenza della dipendenza affettiva e il ruolo che questa può giocare nelle diverse professioni di aiuto. Infine, il volume si conclude con alcune note sul trattamento che tuttavia sono solamente preliminari, anche per la natura non ancora ben precisata della love addiction, che più spesso si identifica come modalità relazionale prevalente in pazienti che si presentano ai servizi per problematiche di altro genere.

Complessivamente, il libro di Borgioni si configura come un ottimo apripista di una problematica che ad oggi non è stata ancora ben delineata ma che sempre di più si presenta nell’attività clinica, richiedendo con urgenza un suo riconoscimento non solo all’interno di dinamiche di coppia, ma identificando la dipendenza affettiva anche come modalità preferenziale con cui le persone entrano in relazione con gli altri.

Assertività. Vincere quasi sempre con le tre A – Recensione del libro

Oggi il training per l’ assertività è essenzialmente un percorso psicologico in cui vengono fornite indicazioni e prescrizioni per modificare il proprio comportamento e rendere più funzionale l’interazione tra pensieri, emozioni ed azioni.

Diletta Maria Ghisleri – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Come nascono i training per l’ assertività

A partire dagli anni ’60, una serie di studi nell’ambito della psicologia clinica e applicativa si sono interessati di alcuni aspetti specifici del comportamento; facendo riferimento ai lavori di Pavlov (1931) e Salter (1949) alcuni psicologi come Alberti (1977), Lieberman (1973) e Goldstein (1981) hanno indirizzato il proprio interesse verso il comportamento interpersonale, le abilità sociali comunicative e il ruolo delle emozioni in questi contesti.

Da questi studi si sono sviluppate una serie di tecniche di terapia comportamentale (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2000) chiamate training per l’ assertività: si tratta di interventi di de-condizionamento dalle idee irrazionali, precostituite e dogmatiche (Ellis, 2000), che prevedono l’utilizzo del disputing e soprattutto dell’esposizione comportamentale. Oggi il training per l’ assertività è essenzialmente un percorso psicologico in cui vengono fornite indicazioni e prescrizioni per modificare il proprio comportamento e rendere più funzionale l’interazione tra pensieri, emozioni ed azioni (Kelley, 1979); spesso si inserisce all’interno di percorsi psicoterapeutici personali.

 

 

‘Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività’

Il libro “L’ Assertività. Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività” (Giusti, Testi, 2006) propone un percorso di conoscenza guidato di quello che può essere riconosciuto come comportamento assertivo, facilitando l’aumento di consapevolezza del proprio modo di interagire con l’ambiente e con gli altri.

Si tratta di un manuale snello e pratico, di auto-aiuto, che attraverso la proposta di schede ed esercizi promuove lo sviluppo di abilità cognitive e comportamentali, utili ad affermare se stessi e a risolvere conflitti con gli altri attraverso uno stile di comunicazione adeguata alle varie situazioni di vita quotidiana.

Il termine assertività deriva dal latino asserere e significa asserire, affermare con tenacia ciò che si sostiene. Essere assertivi significa ‘tenere un comportamento efficace ed adeguato per ottenere il risultato desiderato, comunicarlo con autenticità, senza essere sottomessi o aggressivi, mantenendo il rispetto di sé e del proprio interlocutore’ (Giusti, Montanari, Montanarella, 1995).

Così definita, l’ assertività rappresenta un costrutto prevalentemente sociale: la modalità d’azione comunicativa e comportamentale più funzionale per esprimere in modo autentico ed efficace se stessi, nel rispetto del bisogno di interazione e integrazione con gli altri.

 

Caratteristiche del comportamento assertivo

La comunicazione assertiva, così come lo stile di comportamento assertivo (Hare, 1988) in generale, possono essere descritti come una modalità di espressione di sé che prevede la ricerca dell’equilibrio tra il rispondere incondizionatamente ai bisogni dell’altro ed il far prevalere esclusivamente i propri. Galeazzi (1994) attraverso un’analisi della letteratura ha individuato le seguenti componenti, espressione del comportamento assertivo:

  • Assertività positiva e negativa: le capacità di esprimere e di ricevere dagli altri manifestazioni di stima, affetto e approvazione o critica e disapprovazione in modo adeguato;
  • Difesa dei propri diritti: capacità di proteggere la libertà e le preferenze personali;
  • Assertività di iniziativa: abilità di problem solving e soddisfare dei bisogni personali (es. fare richieste);
  • Assertività sociale: capacità di interagire con le altre persone e stabilire nuove relazioni;
  • Direttività: attitudine ad assumersi delle responsabilità e guidare gli altri nelle situazioni interpersonali problematiche.

Se gli estremi comportamentali sono da considerarsi lo stile passivo e lo stile aggressivo, lo stile comportamentale assertivo rappresenta il giusto mezzo.

 

Stile passivo

Con il termine comportamento passivo si intende l’atteggiamento di un soggetto che subisce le azioni altrui senza apparenti reazioni, che si assume responsabilità di eventi che possono anche non riguardarlo in prima persona e che antepone i bisogni e il benessere degli altri al proprio.

I pensieri irrazionali legati a questo stile comportamentale si rifanno al bisogno di accettazione, al timore per le conseguenze delle proprie azioni, al timore di perdere il controllo e al timore di giudizio (Ellis, 2000).

 

Stile aggressivo

Il comportamento aggressivo si esprime quando un soggetto tende ad affermare ed imporre se stesso in modo prepotente e prevaricante, senza tenere in considerazione i bisogni, i pensieri e le emozioni altrui. I pensieri connessi a questo stile comportamentale sono legati a idee di prevaricazione e sensazioni di minaccia al proprio ruolo.

 

Stile manipolativo

Lo stile manipolativo è caratterizzato da comportamenti di tipo passivo-aggressivo. Le persone che manifestano questo stile di comportamento utilizzano una modalità di comunicazione e interazione interpersonale indiretta. Esprimono passivamente l’aggressività al fine di raggiungere un obiettivo mai esplicitato o condiviso con l’altro, attraverso metodi come l’ironia o i discorsi allusivi.

Spesso si riscontra in soggetti con bassa autostima, poco espansivi, che nutrono forti emozioni di rabbia non espressa (o che credono non sia lecito esprimere liberamente).

 

Stile assertivo

Si parla di stile di comportamento assertivo quando le componenti emotive, cognitive ed espressive dell’azione sono modulate a seconda degli obiettivi, delle circostanze e delle persone coinvolte nel momento specifico. Il soggetto che esprime assertività riconosce ed accetta il proprio valore e quello altrui, nonché la libertà reciproca di espressione e pensiero: comunica in modo sincero e autentico, è pronto al dialogo e al confronto nel rispetto dell’identità dell’altro.

 

Le componenti dell’ assertività

All’ assertività è attualmente attribuita una struttura multidimensionale, di cui fanno parte diversi fattori, espressione ciascuno di specifiche abilità.

Possiamo individuare sei componenti, ciascuna delle quali rappresenta un insieme di competenze cognitive, emotive e comportamentali:

  1. Immagine positiva di sé,
  2. Contatto con gli altri,
  3. Libertà espressiva,
  4. Gestione delle richieste,
  5. Gestione del feedback,
  6. Gestione del conflitto.

 

Essere assertivi significa saper comunicare senza troppe paure e senza troppe riserve mentali e possedere quel coraggio e quella decisione che derivano da una buona stima di sé. Non essere imbrigliati da sentimenti di inferiorità e neppure compiacersi narcisisticamente di se stessi o vivere il rapporto con altri in modo ostile

(Bonenti, Meneghelli, 1992).

Per potersi esprimere in modo assertivo, le persone devono riconoscere i propri bisogni tanto importanti quanto quelli degli altri, fare affidamento sulle proprie capacità e possedere una sensazione generale di adeguatezza personale: saper ‘esprimere chi siamo in piena autonomia‘ (Townend, 1991).

L’uomo ha una naturale tendenza all’interazione sociale: i Sistemi Motivazionali Interpersonali (Liotti, 2001) sono sistemi cerebrali ontogeneticamente e filogeneticamente precedenti allo sviluppo della cognizione esplicita umana. Tuttavia questi stessi sistemi posso essere intesi come strutture funzionali che si sviluppano attraverso l’esperienza, le contingenze ambientali e l’interazione con gli altri (ad esempio il sistema dell’attaccamento può tipizzare in 4 possibili forme, Bowlby, 1989).

Il loro ruolo è quello di segnalare l’avvicinamento o l’allontanamento dallo scopo che essi stessi perseguono (es. sistema attaccamento: il bisogno segnalato è di protezione), attraverso sequenze emozionali. Secondo una prospettiva interazionista, ciascuna sequenza in un individuo comporta l’attivazione di una sequenza complementare di emozioni nell’individuo con il quale sta interagendo (Bara, 2005).

Le emozioni, il loro riconoscimento e la loro espressione sembrano quindi essere al centro dei processi di condivisione sociale, presenti ancor prima dello sviluppo dell’interazione verbale.

Ognuno di noi nasce con un corredo genetico, unico e personale, ma è attraverso l’apprendimento che si acquisiscono nel tempo schemi di comportamento e di interazione con gli altri. Più gli schemi appaiono flessibili, più risultano adattivi e funzionali.

Guardando alla psicologia cognitiva e cognitivo-evoluzionista, l’ assertività risulta uno stile comportamentale composito di abilità che regolano l’intersoggettività e che vedono come obiettivo principale la massima espressione autentica e rispettosa di emozioni e pensieri di ciascuno degli individui interagenti. Le parole chiave sono: Autenticità, Accettazione e Flessibilità.

 

Come potenziare lo stile assertivo

Come le principali sequenze comportamentali, lo stile assertivo può essere appreso e/o potenziato nel corso dello sviluppo o attraverso dei training specifici. Per raggiungere questo scopo i passaggi si possono riassumere in: conoscere, esprimere e riconoscere, agire/cambiare, accettare. Conoscere noi stessi, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Riconoscere l’espressione situazionale delle emozioni e degli stili comportamentali propri e altrui. Modificare tramite azioni comportamentali e/o verbali il nostro stile di interazione. Accettare se’ stessi e accogliere l’altro per quello che è.

L’altro è altro e diverso da me. E’ parte ignota.(…) guardarlo negli occhi e fare in sé il silenzio per poterlo accogliere

(Giusti, Perfetti, 2004).

‘Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività‘ (Giusti, Testi, 2006) risulta quindi un piccolo manuale molto utile, in cui si possono trovare proposte conoscitive e di autoriflessione, ma anche schede di valutazione del proprio stile comportamentale e proposte d’azione pratica.

Le capacità assertive si esprimono anche scegliendo di tacere il proprio pensiero

(Giusti, Testi, 2006).

Le credenze metacognitive sul gioco online: una scala per misurarle

Il gioco online (online gaming) è una pratica altamente diffusa e porta con sé diverse problematiche, al pari di una dipendenza. In questo filone di ricerca, Spada e Caselli hanno costruito e testato uno strumento volto a indagare le credenze metacognitive dei giocatori online.

 

Internet gaming disorder

Il gioco online è una pratica altamente diffusa, diventata sempre più popolare negli ultimi anni. Meno note invece sono le problematiche che il gioco online porta con sé: questa pratica può diventare una vera e propria dipendenza, caratterizzata da:

(1) un aumento del tempo dedicato all’attività, fino a tralasciare compiti della vita quotidiana;

(2) conseguenze negative sulle relazioni sociali e sulle prestazioni personali;

(3) sintomi d’astinenza (Cole & Griffiths, 2007; Ng & Wiemer-Hastings, 2005; Peters & Malesky, 2008).

Quando si presentano tali sintomi, si parla di Internet gaming disorder (POG, Demetrovics & Griffiths, 2012; Kuss & Griffiths, 2012), che viene spesso affiancato da disturbi dell’attenzione (ad esempio Chan & Rabinowitz, 2006), depressione o ansia sociale (Gentile et al., 2011; Peng & Liu, 2010). Per questo motivo il Internet gaming disorder può essere assimilato ad altre dipendenze comportamentali, come lo shopping compulsivo o la dipendenza da internet (Billieux et al., 2015), messa in atto allo scopo di gestire emozioni negative o pensieri spiacevoli.

In questo filone di ricerca, Spada e Caselli (2015) hanno costruito e testato uno strumento volto a indagare le credenze metacognitive dei giocatori online.

 

Cosa si intende per credenze metacognitive

Le credenze metacognitive (Wells, 1995) sono definite come le conoscenze dei soggetti sul proprio funzionamento mentale: ad esempio Carlo può credere che sia utile continuare a giocare perché questa attività riduce il suo livello di stress lavorativo. La convinzione di utilità del gioco online è quindi la credenza metacognitiva che porterà Carlo a continuare a giocare. Allo stesso modo, esistono anche credenze metacognitive negative, che purtroppo hanno spesso lo stesso effetto di mantenimento dell’abitudine dannosa: Carlo potrebbe infatti credere che giocare sia diventato incontrollabile e che non sia per lui possibile fare altro.

Le credenze metacognitive positive e negative si sono dimostrate un elemento fondamentale nei percorsi di intervento sui disturbi d’ansia e dell’umore (Wells, 2013), tanto da dar vita a numerose ricerche per evidenziare il loro ruolo in altri disturbi, come ad esempio la dipendenza da alcol (Spada, Caselli & Wells, 2009).

 

La scala delle crededenze metacognitive sul gioco online

La scala sulle credenze metacognitive rispetto al gioco online, Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS) nasce proprio in questo ambito, dall’ipotesi dei ricercatori che alti punteggi rilevati dalla scala fossero collegati al numero di ore trascorse dai soggetti nel gioco online e al livello di dipendenza da Internet. Per lo studio sono stati coinvolti 225 soggetti che praticavano il gioco online, ai quali è stato chiesto di compilare la MOGS e l’Internet Addiction Test per la dipendenza da internet.

Il nuovo strumento creato dai ricercatori consiste in un set di affermazioni che si dividono in:

  1. Controllo sui pensieri (‘giocare fermerà le mie preoccupazioni‘);
  2. Controllo sulle emozioni (‘giocare placa la mia ansia‘);
  3. Incontrollabilità del gioco (‘non posso controllare il gioco online‘);
  4. Pericoli derivanti il gioco (‘pensare al gioco online interferisce con altre attività‘)

L’analisi dei dati ha rivelato la presenza di correlazione tra la MOGS e le ore trascorse a giocare online, mentre non vi è correlazione con la dipendenza da internet, a dimostrazione della capacità di discriminazione tra i due comportamenti.

Lo studio presentato ha alcune limitazioni metodologiche: ad esempio non si hanno dati nel lungo periodo, non sono stati indagati disturbi d’ansia o depressione e il campione contava solo 12 donne. Inoltre rimangono da indagare altre variabili che potrebbero avere un ruolo nel determinare condotte di gioco patologiche, come l’autostima, la motivazione o l’autocontrollo.

I risultati tuttavia suggeriscono che le credenze metacognitive abbiano un ruolo anche in questa problematica e che i princìpi della terapia metacognitiva, ampiamente validata per ansia e depressione (Wells, 2013), possano trovare un’applicazione anche in quest’area.

 
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Cognitismo Clinico: uscito il nuovo numero. Editoriale e indice dei contenuti

È in uscita il primo numero 2016 della rivista Cognitivismo Clinico. Si tratta di un numero monografico dall’intrigante titolo:

ASPETTI NEUROFISIOLOGICI E PSICOBIOLOGICI IN PSICOPATOLOGIA SPERIMENTALE

Sono coinvolti diversi autorevoli autori che possono dare un contributo alla comprensione di aspetti psicopatologici rilevanti ed essere di utilità per allievi in formazione.

Riportiamo l’indice e l’interessante editoriale dei curatori del numero Simone Gazzellini e Francesco Mancini

Antonino Carcione

 

 

INDICE:

Simone Gazzellini e Francesco Mancini. EDITORIALE: Aspetti neurofisiologici e psicobiologici in psicopatologia sperimentale

Simone Gazzellini Marcatori comportamentali e psicofisiologici correlati al pensiero introspettivo, alla ruminazione e alla vulnerabilità psicopatologica

Cristina Ottaviani, Leila Shahabi, David Shapiro IL PENSIERO INTRUSIVO NELLA DEPRESSIONE MAGGIORE: CONSEGUENZE SULL’UMORE E SULLA SALUTE

Giordano D’Urso, Carla Iuliano, Teresa Sassi, Anna D’Alessandro, Andrea de Bartolomeis Le tecniche di neuromodulazione nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Barbara Basile Una rassegna sul substrato neuronale del senso di colpa, del disgusto e dell’intenzionalità nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Federica Visco-Comandini e Valeria Carola Lo sviluppo di psicopatologie come risultato di traumi vissuti in età precoce: il disturbo depressivo

 

Editoriale a cura di Simone Gazzellini e Francesco Mancini

Una delle conseguenze del fondare la psicoterapia sulle prove evidence based è stato permettere l’unione della ricerca in neuroscienze e in psicopatologia. Ad oggi è difficile ignorare le conoscenze che i molti laboratori di ricerca di neuroscienze apportano ai modelli psicopatologici e di trattamento. Tuttavia bisogna definire i margini di applicazione delle neuroscienze alla psicopatologia e soprattutto alla psicoterapia.

Ad esempio, la conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo? Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto (vedi il lavoro di Basile nel presente numero). Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Ciò considerato, è doveroso definire perché le neuroscienze possono apportare un valore aggiunto alla psicopatologia e alla psicoterapia. A nostro avviso l’obiettivo più allettante non è individuare le cause neurologiche dei disturbi psichiatrici, ma quello di arricchire i modelli psicopatologici attuali, arrivando a modelli complessi basati su disegni sperimentali e integranti livelli di osservazione: ad es. quello psicologico (pensieri, scopi, credenze, emozioni, stati mentali, tentativi di soluzione.

 

La rivista è scaricabile gratuitamente dai siti:

http://www.fioriti.it/riviste/cognitivismo.php

http://www.apc.it/cognitivismo-clinico/cognitivismo-clinico

Difficoltà di apprendimento e ansia sociale: il ruolo del concetto di sè e dell’autoefficacia percepita – ASSISI 2015

L’obiettivo del presente studio è indagare la relazione esistente tra difficoltà di apprendimento, concetto globale di sé, senso di auto-efficacia e ansia sociale.

Tatiana Bortolatto, Martina Torresi, Cristina Fratini, Claudio Travaglini, Marika Di Egidio, Stefania Riberti, Debora Valentini, Lucia Candria, Simona Tripaldi

Studi Cognitivi, Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, Milano, sede di San Benedetto del Tronto (AP)

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

INTRODUZIONE

Le difficoltà accademiche indicano che i bambini con difficoltà di apprendimento (DSA) sono a rischio di sviluppare difficoltà sociali ed emotive (Grolnick & Ryan, 1990). I sintomi di ansia sociale spesso variano tra gli studenti (Cooley, 2007), anche tra quelli con disabilità di apprendimento (DSA) che spesso mostrano più ansia rispetto agli studenti con una educazione generale nella norma (Nelson & Harwood, 2011). Il concetto di sé, il modo in cui una persona si valuta, insieme al senso di auto-efficacia influiscono sul comportamento e risultano essere fattori critici nel processo di apprendimento (Chapman & Boersma, 1991). Gli studi hanno trovato che concetto di sé, rendimento scolastico e senso di auto-efficacia sono forti predittori di queste difficoltà sociali ed emotive (Muijs, 1997). I risultati a disposizione sono contrastanti; tuttavia, hanno lasciato lo stato di queste aree di sviluppo dei bambini con disturbi dell’apprendimento poco chiaro e richiede ulteriori indagini.

L’obiettivo del presente studio è indagare la relazione esistente tra difficoltà di apprendimento, concetto globale di sé, senso di auto-efficacia e ansia sociale.

CONCLUSIONI

I risultati sono in linea con la letteratura evidenziando che i bambini con DSA sperimentano un basso senso di autoefficacia circa le proprie abilità accademiche e sociali (Bursuck, 1989; Grolnick & Ryan, 1990). Inoltre lo studio mette in luce che già nel corso della scuola primaria i bambini con DSA iniziano a sviluppare un’immagine negativa di sé (Ayres & Cooley, 1990; Clever, Bear, e Juvonen , 1992; La Greca & Stone, 1990). Il basso senso di auto-efficacia e la valutazione negativa di sè contribuiscono a incrementare i livelli d’ansia sociale nei bambini con DSA (Cowden, 2009). Se uno studente ha ansia sociale, potrebbe non essere in grado di completare le attività di gruppo o potrebbe non sentirsi a proprio agio per chiedere aiuto in classe. Diversi studi hanno trovato che i bambini con DSA hanno più problemi comportamentali (Eliason & Richman, 1988; Toro, Weissberg, Guare, e Liebenstein, 1990) e più elevati livelli di ansia e lamentele somatiche rispetto ai loro coetanei non disabili (Margalit e Shulman, 1986).

La letteratura, ad oggi, ha prodotto risultati non univoci sul concetto di sé globale e accademico, e la competenza sociale dei bambini con DSA. Questi dati, se replicati e confermati, potrebbero avere importanti implicazioni a livello clinico, suggerendo la possibilità di integrare gli interventi generalmente utilizzati per il trattamento delle difficoltà di apprendimento con interventi di tipo cognitivo mirati a migliorare il concetto di sé.

Il trattamento della bulimia: attaccamento come possibile moderatore di esito e cambiamento

Trattamento della bulimia: In Europa la psicoterapia psicoanalitica è stata utilizzata ampiamente nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, ma studi sulla sua efficacia a lungo termine sulla bulimia nervosa non sono mai stati eseguiti. Per tale ragione Poulsen e collaboratori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Copenaghen hanno confrontato l’efficacia della psicoterapia psicoanalitica di lunga durata (PPT) con la Terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica (CBT-E), il trattamento con più evidenze di efficacia nel trattamento della bulimia nervosa e degli altri disturbi dell’alimentazione non sottopeso.

 

Il trattamento della bulimia: la psicoterapia psicoanalitica di lunga durata e la psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica a confronto

La psicoterapia psicoanalitica di lunga durata è stata sviluppata dagli autori danesi specificamente per i pazienti affetti da bulimia nervosa. L’intervento prevede un incontro settimanale di 50 minuti per un periodo di 24 mesi. Gli obiettivi principali di questo trattamento non direttivo sono aumentare la capacità di riflettere e di tollerare l’esperienza affettiva e di facilitare l’insight dei meccanismi che nascondono gli aspetti inconsci e rimossi dei pazienti – due fattori principali coinvolti nel mantenimento di episodi bulimici secondo l’ipotesi degli autori.

La terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica è stata sviluppata presso il centro CREDO dell’Università di Oxford per trattare tutti i disturbi dell’alimentazione e, per la bulimia nervosa, prevede 20 incontri di 50 minuti, della durata di 20 settimane. Il trattamento coinvolge attivamente il paziente nel modificare la psicopatologia specifica e centrale del disturbo dell’alimentazione, utilizzando procedure e strategie atte a interrompere la restrizione dietetica cognitiva, a ridurre l’eccessiva valutazione della forma del corpo e del peso e a sviluppare specifiche abilità per la gestione degli eventi e delle emozioni che influenzano l’alimentazione.

 

L’efficacia delle 2 psicoterapie nel trattamento della bulimia

I risultati principali del trial pubblicati nel 2014 nell’American Journal of Psychiatry hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica è marcatamente più efficace nel trattamento della bulimia nervosa, rispetto alla terapia psicoanalitica di lunga durata. Nel gruppo della terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica, il 42% dei pazienti ha interrotto gli episodi bulimici e purgativi dopo cinque mesi e il 44% dopo 24 mesi. Invece soltanto il 15% dei pazienti sottoposti a psicoterapia psicoanalitica di lunga durata ha interrotto gli episodi bulimici e purgativi dopo due anni. I due trattamenti hanno determinato miglioramenti sovrapponibili in termini di psicopatologia specifica globale e generale, ma i miglioramenti nel gruppo della psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica sono avvenuti con maggiore rapidità.

 

La validità dello studio

Lo studio è stato molto importante per almeno due motivi. Primo, i risultati mettono in dubbio l’opinione generale che qualsiasi psicoterapia abbia un esito similare perché opera su fattori aspecifici comuni. La psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica non ha ottenuto solo un risultato superiore, ma anche in un tempo nettamente più breve e di conseguenza è risultata anche meno costosa (20 sedute in 20 settimane, contro più di 70 sedute in due anni).

Secondo, lo studio ha una buona validità interna ed esterna, cosa difficile da ottenere in studi randomizzati e controllati di psicoterapia. La validità interna dello studio (cioè se i due trattamenti sono stati condotti correttamente) è stata ottenuta e mantenuta per l’intera durata dello studio, grazie al training intensivo e alla supervisione ravvicinata nel tempo (una volta ogni 15 giorni) da parte degli autori che hanno ideato i due trattamenti. La validità esterna (cioè, se i risultati possono essere generalizzabili fuori dal contesto di questo studio) è stata ottenuta somministrando la psicoterapia psicoanalitica di lunga durata e la terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica come vengono utilizzate nella pratica clinica, mantenendo cioè il diverso numero di sedute e di durata dei due trattamenti. Questo è in contrasto con la tendenza dei ricercatori a pareggiare la quantità di contatto terapeutico quando valutano gli effetti di due trattamenti psicologici diversi.

 

Lo studio sull’attaccamento come moderatore di esito e di cambiamento nel trattamento della bulimia

In questo nuovo studio gli autori danesi presentano le seguenti analisi secondarie del trial clinico randomizzato che ha confrontato la terapia psicoanalitica con quella cognitivo-comportamentale transdiagnostica: (1) la relazione tra attaccamento e livello dei sintomi pretrattamento; (2) se l’attaccamento pretrattamento del paziente modera l’esito del trattamento; (3) se il cambiamento dell’attaccamento del paziente è associato a un cambiamento dei sintomi e (4) se l’attaccamento del paziente cambia in modo diverso nei due trattamenti.

Sessantanove donne e un uomo di età media di 25,8 anni con diagnosi di bulimia nervosa sono stati assegnati in modo casuale a due anni di psicoterapia psicoanalitica di lunga durata settimanale o a cinque mesi di terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica. Le valutazioni basali, dopo 5 mesi, e dopo 2 anni hanno incluso l’Eating Disorder Examination per valutare la psicopatologia e i comportamenti specifici dei disturbi dell’alimentazione, l’Adult Attachment Interview per valutare l’attaccamento del paziente e la Symptom Checklist 90-R per valutare il disagio psichiatrico generale. Le misure ripetute sono state analizzate usando un’analisi multilivello.

Punteggi più elevati nell’attaccamento insicuro evitante e nell’attaccamento ansioso sono risultati associati con una maggior frequenza di abbuffate prima del trattamento. L’attaccamento pretrattamento non ha invece predetto l’esito del trattamento della bulimia. Nella terapia psicoanalitica di lunga durata, ma non nella terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica, la riduzione della frequenza delle abbuffate è risultata associata a un aumento dell’attaccamento sicuro. Infine, i due tipi di trattamento non sono stati associati a modalità significativamente diverse di cambiamento attaccamento-relate.

In conclusione, lo studio ha trovato che il grado e il tipo di attaccamento insicuro sembrano associarsi alla frequenza delle abbuffate nella bulimia nervosa e che l’incremento dell’attaccamento sicuro potrebbe essere uno specifico meccanismo di cambiamento della terapia psicoanalitica, ma non della terapia cognitivo-comportamentale transdiagnotica.

Innovazione: quando discutere aumenta la creatività

La creatività nei contesti lavorativi è un tema che sta riscuotendo crescente interesse da parte della comunità accademica, in relazione all’impatto che essa ha sull’ innovazione e sulla performance organizzativa.

 

Nell’ambito della psicologia sociale e delle organizzazioni, il concetto di innovazione viene teoricamente distinto dalla creatività. In letteratura, troviamo diverse interpretazioni delle due dimensioni: Scott e Bruce nel 1994 affermano che la creatività rappresenta una delle componenti maggiormente correlata al comportamento innovativo dell’individuo dato che ‘ha a che fare con la produzione di nuove e utili idee, mentre l’ innovazione ha a che fare con la produzione, l’adozione e l’implementazione delle idee ritenute utili’.

 

Il Task Conflict per raggiungere creatività e innovazione

La creatività è spesso emersa dall’incontro delle diverse strade che portano alla conoscenza (Amabile, 1996), dall’unione di varie prospettive o dalla combinazione di approcci differenti alla risoluzione di un problema (Mumford e Gustafson, 1988). Più specificamente, all’interno di un gruppo di lavoro, la creatività viene descritta come la produzione di innovazione ed idee utili, relative ai prodotti, servizi, processi e procedure (Shin & Zhou, 2007).

Per questo motivo, in un recente studio orientale, Farh, Lee & Farh (2010) si focalizzano sul ruolo del task conflict, inteso come il processo che porta al conflitto tra i membri di un team, circa la distribuzione delle risorse, le procedure, le politiche, i giudizi e l’interpretazione dei fatti (De Dreu & Weingart, 2003). I risultati emersi dalla ricerca portata avanti da Farh, Lee e Farh, precedono l’ipotesi secondo la quale, un determinato grado di conflitto legato al compito, aumenti il pensiero divergente in modo tale da ridurre il consenso prematuro e incrementare la creatività (De Dreu e West, 2001) e di conseguenza l’ innovazione. Nello studio del task conflict e team creativity, vengono presi in considerazione: la fase del ciclo di vita del progetto ed altri tipi di variabili di controllo, utili a descriverne la relazione. I risultati mostrano che il task conflict incrementi la produzione di idee creative, ma solo se viene raggiunto un livello ottimale di conflitto e solo se esso si presenti nelle fasi iniziali del ciclo di vita del progetto.

Tuttavia è possibile ipotizzare che alcune variabili, possano influenzare le conseguenze del task conflict. Van de Vliert e West (2004) ad esempio, sottolineano che i membri del team dovrebbero essere caratterizzati da bassi livelli di job involvement, che si riferisce al grado di identificazione da parte della persona nei confronti del lavoro che svolge e quanto essa investe per la realizzazione di se stessa nel senso di accrescere la propria autostima. Alti livelli di job involvement in concomitanza con il task conflict, porterebbero infatti condurre i membri del gruppo all’interpretazione delle resistenze dei collaboratori, come un’espressione di dissenso nei confronti della propria identità e quindi pericolosa per la propria autostima, con conseguenze negative sulla performance.

 

La creatività prima di tutto: saper gestire il conflitto per non perdere di vista l’obiettivo

West (2002) distingue le conoscenze, le skills e le abilità (rilevanti per la performance relativa al compito) dalle integration skills, intese come le capacità individuali di gestione del conflitto tra i membri di un gruppo, in grado di influenzarne positivamente i processi.

Il conflict resolution ad esempio, si riferisce alla capacità di riconoscere e incoraggiare il conflitto costruttivo legato al compito, scoraggiando quello interpersonale.

West inoltre, sottolinea l’importanza del problem solving di gruppo, del goal setting e della coordinazione e sincronizzazione di attività, informazioni e compiti tra i membri. Secondo l’autore infatti, più è alto il livello di queste skills e maggiore sarà l’integrazione all’interno del team, che porterà ad un miglioramento non solo in termini di performance, ma anche in termini di innovazione.

Le integration skills dunque, costituiscono un imprescindibile elemento per la gestione del task conflict ed indirettamente influiscono sulla produzione di idee creative e processi di innovazione.

Le precedenti osservazioni conducono ad una serie di implicazioni, per quanto riguarda il management dei gruppi, finalizzato allo sviluppo dei processi di creatività e innovazione all’interno di un’organizzazione.

In primo luogo, i managers dovrebbero concentrarsi sul ruolo di facilitatori del processo che vede il task conflict come antecedente della creatività, sviluppando integration skills, volte a far emergere diverse prospettive e combinazione di modi di vedere le cose nei gruppi, che generano idee creative (Mumford e Gustafson, 1988).

 

Il ruolo dei managers nella produzione di innovazione

Sarebbe opportuno quindi, che i managers, si focalizzassero sul monitoraggio dei processi all’interno del gruppo di lavoro, favorendo la comparsa di task conflict nella parte iniziale del ciclo di vita del progetto e promuovendo le controversie costruttive durante tutto il ciclo di vita, con l’intento di accrescere la motivazione al raggiungimento dell’obiettivo, seguendo la miglior pista possibile. In secondo luogo, i managers dovrebbero porre maggiormente il focus sui processi attraverso cui gli individui si approcciano al lavoro, cercando di creare un clima che favorisca un adeguato livello di job involvement (Van de Vliert e West, 2004), al fine di prevenire l’insorgenza di conflitti interpersonali tra i membri. In questo senso gli interventi di coaching da parte di uno psicologo, potrebbero favorire la risoluzione positiva dei problemi e l’elaborazione di modalità più adattive di approccio alle problematiche.

Zuckerman & Cole (1994) infatti, hanno dimostrato che gli individui possono incrementare le proprie performance creative e i processi di innovazione quando dispongono dell’aiuto di coach che forniscono strategie e metodi alternativi per l’elaborazione dei problemi.

Uno studio sperimentale su mindfulness e flessibilità cognitiva

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

Uno studio sperimentale su mindfulness e flessibilità cognitiva

Giulia Lancello (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

Abstract

Background: La ricerca scientifica ha mostrato, negli ultimi anni, un particolare interesse nei confronti delle pratiche meditative, in particolare della mindfulness. Infatti, a partire dagli anni Settanta sono nate diverse forme di intervento clinico mindfulness-based. Tra queste, Jon Kabat-Zinn ha sviluppato il training Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), cioè il programma sistematico della durata di 8 settimane basato sull’insegnamento di pratiche meditative di consapevolezza, il cui obiettivo è quello di imparare a gestire e ridurre lo stress.

Obiettivi: La presente ricerca sperimentale ha l’obiettivo di contribuire ad ampliare le conoscenze relative agli effetti della mindfulness sui processi cognitivi. Nello specifico, viene analizzata la relazione tra mindfulness e flessibilità cognitiva. In particolare, l’oggetto di studio è la capacità del programma MBSR di modificare lo stile cognitivo olistico vs. analitico in relazione alle richieste del compito sperimentale. Metodo: La ricerca ha coinvolto un campione di 37 soggetti. Nello specifico sono stati formati due gruppi sperimentali, uno costituito dai partecipanti al training MBSR (N=13, 35,1%) e uno formato da soggetti di controllo (N=24, 64,9%), questi ultimi reclutati all’interno di liste d’attesa o newsletter dei centri di mindfulness e all’interno di un gruppo di interesse presente su un noto social network. Ai soggetti sperimentali è stato chiesto di rispondere al Five Facet Mindfulness Questionnaire e di svolgere il Navon Letter Task (un compito di misura dello stile cognitivo; Navon, 1977). Dal momento che il training MBSR ha durata di 8 settimane, i test sono stati somministrati in due momenti diversi: il Tempo 1 (t1) corrisponde alla settimana 0 e il Tempo 2 (t2) corrisponde alla settimana 9. Il gruppo sperimentale, quindi, ha svolto i test prima dell’inizio del training e alla fine delle 8 settimane, mentre il gruppo di controllo, che non ha ricevuto nessun tipo di trattamento tra il t1 a il t2, ha comunque svolto i test a distanza di 8 settimane. Risultati: Dall’analisi dei dati relativi al Navon Letter Task emerge che sia il gruppo sperimentale sia il gruppo di controllo tendono a diventare più veloci al t2. Tuttavia, i soggetti che hanno partecipato al training MBSR mostrano un tempo di elaborazione dello stimolo minore al t2 rispetto ai soggetti di controllo, in particolare nella condizione dello stile cognitivo analitico (caratterizzato dall’elaborazione dei dettagli di uno stimolo). Seppur in modo non statisticamente significativo, sono emersi tempi di elaborazione ridotti anche nel compito che implicava uno stile cognitivo olistico. Conclusione: I soggetti appartenenti al gruppo sperimentale, dopo il training MBSR, sono cognitivamente più flessibili, cioè sono in grado di adattare in tempi più brevi lo stile cognitivo olistico/analitico a seconda delle richieste del compito, in particolare per quanto riguarda lo stile cognitivo analitico.

 

Abstract (english)

Background: There is a growing interest in the scientific research field about meditative practice, in particular about mindfulness. So, different kind of mindfulness-based clinical interventions have been created. Jon Kabat-Zinn has developed the Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) training. This is an 8-week program based on the teaching of meditative practices about awareness, whose aim is to learn how to decrease and cope with stress.

Objective: The aim of this experimental study is to contribute to the expansion of the current knowledge about the effects of mindfulness practice on cognitive processes. In particular, it has been investigated the relation between mindfulness and cognitive flexibility. Specifically, the subject matter of the research is the ability to shift between global and local cognitive styles depending on experimental task’s request. Method: The study includes 37 experimental subjects divided into two experimental groups: one is constituted by MBSR’s participants (N=13, 35,1%), recruited within mindfulness centre’s waitlist or newsletters, while the other is the control group (N=24, 64,9%). Subjects were asked to complete the Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ) and to carry out the Navon Letter Task (a task that measures the cognitive style; Navon, 1977). Because of the duration of the MBSR training, the study is made of two different moments:  Time 1 (t1) corresponds to the week 0 and Time 2 (t2) corresponds to the week 9. So, the experimental group did the tests before the beginning of the 8-week program, and after the 8-week program. The control group acted accordingly to this timetable, but no treatment during the 8 weeks has been given. Results:  The analysis of the data of the Navon Letter Task shows that both the experimental and the control group tend to be faster in t2. However, a group effect is present only in the experimental group: the training MBSR’s participants show a shorter stimulus processing time than the control group, especially in the local cognitive style’s condition (characterized by the processing of stimulus’ details). The experimental group also shows a global effect, but it isn’t statistically relevant. Conclusion: The MBSR’s participants show a more flexible cognitive response, that means that they are able to fit their global or local cognitive styles faster than the control group, depending on the experimental task’s requests. In particular, this effect is evident in the local cognitive style.

 

Parole chiave: mindfulness, MBSR, flessibilità cognitiva, olistico, analitico

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

 

La Scala della Valutazione del Benessere: un nuovo strumento di valutazione del costrutto

La Scala della Valutazione del Benessere costituisce un ottimo strumento di assessment soprattutto per i clinici che nella loro attività si occupano di promozione del benessere psicologico e non solo.

 

Nonostante il benessere sia un tema ancora oggi attuale e altamente discusso, manca in letteratura una definizione universalmente condivisa su cosa sia e quali elementi lo compongano. Lo stesso benessere psicologico risulta ad esempio composto da dimensioni differenti rispetto al benessere soggettivo (Lorenzini e Scarinci, 2013).

Scarinci e collaboratori (2016), allo scopo di creare uno strumento in grado di misurare il costrutto benessere, definiscono il benessere psicologico come derivante dalla ‘percezione della possibilità positiva di modellare il proprio mondo secondo scopi‘, mentre il benessere soggettivo risulta essere ‘il vissuto emotivo derivante dal significato che se ne ricava‘.

Al di là di queste differenze gli autori individuano alcuni elementi trasversali e comuni alle diverse interpretazioni del benessere, come la presenza di un progetto di vita e la creazione di una rete sociale appagante da un punto di vista affettivo. Un ruolo chiave in questi processi risulta svolto dalle abilità di accettazione, ovvero dalla capacità di accogliere e dare spazio a emozioni e sentimenti negativi (Harris, 2011), rinunciando a contrastarli attivamente. A sua volta, tale atteggiamento pone le giuste basi per riuscire a vedere oltre e prepara il terreno per maturare una consapevolezza metarappresentativa (Lorenzini, Scarinci, 2013, p. 94), che permette all’individuo di dare un senso alle esperienze del quotidiano.

Da questo modello teorico nasce la volontà degli autori di sviluppare uno strumento completo, in grado di misurare le diverse componenti che sono risultate significative nel determinare il benessere: senso della vita, consapevolezza, relazionalità, trascendenza e accettazione.

Per fare ciò, i ricercatori hanno creato un questionario a partire da altri strumenti, a loro volta validati per le dimensioni considerate, selezionando 40 item che sono andati a comporre la Scala per la Valutazione del Benessere (SVB). Attraverso il canale informatico, hanno partecipato alla validazione dello strumento 136 individui, a cui era richiesto di esprimere il loro accordo rispetto alle affermazioni di ciascun item su una scala Likert a 5 punti.

Le analisi dei risultati hanno portato alla selezione di 22 item, afferenti a 4 diversi fattori: senso della vita e consapevolezza (che sono risultati raggruppabili in un’unica dimensione dello strumento), relazionalità, trascendenza e accettazione. Questa seconda versione è stata riproposta a un nuovo campione di 176 soggetti, affiancata al Psychological Well-Being Scales (PWB, Ryff & Singer, 1996), strumento storicamente utilizzato nella ricerca sul benessere e alla Symptoms Checklist – 90 (SCL-90, Derogatis et al., 1994; Sarno et al., 2011) per la raccolta di eventuali sintomi psicologici.

La Scala per la Valutazione del Benessere ha nel complesso mostrato buona affidabilità e la correlazione inversa con la SCL-90 indica capacità predittiva per il costrutto indagato.

I fattori maggiormente predittivi risultano essere senso della vita e consapevolezza, confermando precedenti studi svolti con tecniche di neuroimaging (Schacter et al., 2007; Heller et al., 2009). La scala trascendenza risulta la meno rappresentativa, dato coerente con la letteratura e probabilmente dovuto alla scarsità di item (4) che la compone.

La scala costituisce un ottimo strumento di assessment soprattutto per i clinici che nella loro attività si occupano di promozione del benessere. In quest’ambito, Lorenzini e Scarinci (2013) hanno teorizzato un intervento specifico che si basa proprio sulle dimensioni analizzate dalla SVB, utilizzabile in modo autonomo o integrato, che si pone come ‘obiettivo uno spostamento dell’attenzione verso aspetti positivi dell’esistenza del soggetto, l’incremento del decentramento per favorire la costruzione di una rete di relazioni soddisfacenti, l’accettazione dei limiti che l’esistenza propone, l’individuazione di scopi-valore come direttrici esistenziali per la scelta di piani di vita funzionali’ (Scarinci et al., 2016). La sinergia tra strumenti di assessment e modalità di intervento non può che riflettere l’effettiva efficacia delle dimensioni affrontate durante la terapia, permettendo di cogliere i passi svolti verso il reale raggiungimento del benessere.

Autoefficacia: come apprendere (auto)efficacemente

L’autoefficacia si riferisce alla credenza nella propria capacità di organizzare ed eseguire delle serie di azioni atte ad ottenere un certo risultato (Bandura, 1997). Bandura ritiene che le credenze di autoefficacia determinino cosa le persone provano e pensano, come si motivano e quali comportamenti attuano (Bandura, 1994).

Basilico Cesare, Grillini Mauro, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Autoefficacia: introduzione

Questo concetto è stato usato in ricerca secondo due accezioni: come autoefficacia riferita all’abilità percepita di effettuare un particolare comportamento; come autoefficacia riferita all’abilità percepita di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di una particolare prestazione (Kirsh, 1995; Maddux e Gosselin,2003). La ricerca suggerisce che l’autoefficacia funziona come un’organizzazione gerarchica di credenze con diversi livelli di concretezza e complessità dell’azione da compiere, ciascuna delle quali differisce per il livello, per la forza e la generatività; tali credenze influenzano profondamente l’apprendimento ed anche lo sviluppo a lungo termine (Bandura, 2000a; Ehremberg, Cox e Koopman, 1991).

Ciò significa che oltre ad una percezione generale di autoefficacia, ci sono credenze molto specifiche di auto-efficacia riguardanti differenti domini del sé (ad es. forza fisica nel calcio, resistenza alla fatica nel prepararsi ad un difficile test di matematica). Prendendo l’autofficacia nell’utilizzo di una lingua come esempio esplicativo: il livello di auto-efficacia nell’utilizzo di una lingua si riferisce alle variazioni di padronanza percepita per esempio tra una prima ed una seconda lingua; la forza nell’autoefficacia percepita si riferisce al grado di sicurezza nell’usare questa lingua in occasioni formali o sociali, mentre la generatività si riferisce al trasferimento delle credenze di autoefficacia tra differenti compiti legati alla lingua (ad es. esposizioni scritte o orali).

Ciascuna credenza e le sue conseguenze sono sensibili a variazioni di situazione, di contesto e nel compito; queste credenze guidano ed organizzano la performance e l’insieme delle azioni di ciascuna persona, queste ultime a loro volta avranno conseguenze positive o negative a livello fisico, sociale e di autostima. Ogni valutazione successiva alla performance modificherà le credenze di autoefficacia della persona, modificando la probabilità che lo specifico compito venga ripetuto in futuro (Bandura, 1997).

 

Autoefficacia e teorie dell’apprendimento

La formulazione teorica che ha come oggetto l’autoefficacia discende dalla teoria dell’apprendimento, dalla teoria cognitiva e da quella socio-cognitiva; essa è stata capace di mostrare la natura, le fonti e i processi psicologici implicati in questo insieme di credenze.
Le teorie dell’apprendimento, cercando di spiegare la causa del comportamento, si sono focalizzate prima sul condizionamento e poi sulle conseguenze dei comportamenti stessi. Le teorie cognitive dell’apprendimento hanno introdotto le cognizioni all’interno dei processi di generazione dei comportamenti e hanno enfatizzato l’importanza dei guadagni e delle perdite risultanti dal comportamento come un fattore decisivo per la sua attuazione. La teoria Socio-Cognitiva di Bandura concepisce il funzionamento degli esseri umani come la risultante di un gioco dinamico tra influenze personali (cognizioni, affetti ed eventi biologici), comportamentali e ambientali. Tali fattori esercitano la loro influenza attraverso processi di determinismo reciproco (Klassen e Usher, 2010).

Dalla letteratura si evince che le credenze di autoefficacia inerenti la propria capacità di svolgere un compito ed i risultati aspettati predicono fortemente il comportamento effettivo; le credenze di autoefficacia sono state utilizzate con successo per predire la performance accademica ed anche le scelte professionali. Il concetto di autoefficacia è inoltre associato a costrutti motivazionali chiave, quali le attribuzioni causali, il concetto di sè, l’ottimismo, l’achievement goal orientation, la ricerca di aiuto durante il percorso accademico, l’ansia e l’autostima. Tale costrutto è considerato come il più importante elaborato dalla teoria Socio-Cognitiva.

La teorizzazione sull’autoefficacia afferma che le credenze e di conseguenza le performance dipendono dall’interscambio tra quattro processi psicologici.
1)I processi cognitivi: questi includono la valutazione delle proprie capacità, abilità e risorse, la selezione degli obiettivi, la costruzione degli scenari di successo e fallimento nel processo di raggiungimento dell’obiettivo, la generazione e la selezione delle opzioni nel problem solving, il mantenere l’attenzione ed il funzionamento necessari allo svolgimento del compito.
2)I processi motivazionali: le credenze di autoefficacia influenzano l’auto-regolazione della motivazione tramite tre “motivatori cognitivi”, l’attribuzione, il valore dei risultati attesi e la chiarezza ed il valore degli obiettivi.
3)I processi affettivi: la percezione della propria padronanza della situazione influenza l’attivazione emotiva e la tolleranza ad emozioni negative quali l’ansia o la depressione che porta allo scoraggiamento (Ehremberg, Cox e Koopman, 1991).
4)I processi di selezione: la scelta della residenza, di carriera, del tipo di nucleo familiare ed anche l’utilizzo del tempo possono influenzare direttamente il funzionamento di una persona. Le persone con alta autoefficacia, per raggiungere gli obiettivi di loro interesse, sono decisamente proattive nel selezionare e nel crearsi un ambiente fisico e sociale che si accordi alle loro capacità e risorse percepite. In tale processo la possibilità di raggiungimento dei propri obiettivi e di sviluppo personale sono massimizzate.

Le credenze di autoefficacia formatesi tramite i processi appena illustrati non sono statiche, anzi sono costantemente modificate da almeno cinque fonti a loro volta influenzate dalle interpretazioni che le persone danno delle esperienze passate e presenti.

1) Esperienze di mastery: precedenti esperienze di padroneggiamento e successo nello stesso compito aumentano l’autoefficacia percepita, essa a sua volta aumenta la perseveranza nel superare le difficoltà durante l’esecuzione del compito stesso.

2) L’esperienza vicaria: l’osservazione di performance positive compiute da modelli sociali (come genitori ed insegnanti) e da persone le cui capacità sono simili alle proprie (come il gruppo dei pari) può generare un forte senso di autoefficacia. Una buona mastery e la presenza di modelli sociali, come genitori, insegnanti o pari, che affrontano efficacemente delle sfide possono mostrare come stimolare l’apprendimento di nuove abilità e strategie (Schunk e Zimmerman, 2007).

3) La persuasione sociale: una persuasione sociale convincente fornita da altri significativi, come genitori e insegnanti, può aumentare l’autoefficacia di un giovane, sempre che egli possieda almeno un po’ quella capacità (Fan e Williams,2010; Tsang e Leung, 2006). Il fallimento dopo aver intrapreso un compito difficile con false aspettative di successo può essere molto dannoso per le credenze di autoefficacia in quell’ambito. Una persuasione sociale di successo dovrebbe includere la modificazione di tutte le variabili processuali precedentemente considerate: l’espansione del repertorio comportamentale tramite uno skills training ed il controllo ambientale per facilitare una performance di successo, così come il rimarcare la desiderabilità dei risultati.

4) Stati fisiologici ed affettivi: le condizioni fisiologiche ed emozionali attuali e percepite lavorano direttamente attraverso i processi affettivi sopra descritti per influenzare le credenze di autoefficacia di una persona. Queste condizioni includono la prontezza fisica e mentale all’azione, il tasso di affaticamento e influenzano direttamente la decisione di continuare o arrendersi. Profonda importanza rivestono anche le credenze riferite al sé riguardo queste condizioni. I giovani possiedono buone risorse in tal senso derivate dallo sviluppo, come l’energia fisica e l’accessibilità alle proprie emozioni e se apprendono presto ad utilizzarle con criterio ciò porterà loro grande beneficio in futuro.

5) Esperienze immaginative: ripetizioni immaginative di performance positive o negative, cercate deliberatamente oppure frutto di un’abilità rimuginativa, possono migliorare le capacità di coping e l’autoefficacia (tecniche cognitivo-comportamentali che usano le esperienze immaginative sono ad esempio la desensibilizzazione sistematica e il covert modeling) (Klassen e Usher, 2010; Williams, 1995).

 

Autoefficacia in ambito scolastico

L’autoefficacia può trovare una vasta applicazione anche nel contesto scolastico, nella definizione e nell’organizzazione delle modalità di apprendimento dello studente e nel mantenere un livello adeguato di motivazione nello svolgimento delle attività proposte (Tsang, Hui e Law, 2012).
Bandura suggerisce ad esempio di favorire in classe insegnamenti personalizzati su ciascun allievo, elemento che ridurrebbe drasticamente confronti sociali demoralizzanti e massimizza valutazioni personali sui propri standard interni e maggiore competenza personale percepita (Bandura, 2000b).
In secondo luogo potrebbe essere utile strutturare attività didattiche su base cooperativa e favorire pratiche di tutoring attivo tra studenti, in modo che i più svantaggiati possano contare su un sostegno sociale e su modelli efficaci rappresentati dagli studenti più abili che a loro volta, assumendo temporaneamente il ruolo attivo di insegnamento, perfezionino e affinino la padronanza della materia, le proprie abilità comunicative e la propria autoefficacia scolastica.

Suddividere attività complesse in sotto-obiettivi relativamente semplici da conseguire, al fine di ottenere periodici feedback positivi circa le proprie abilità costituisce un’ulteriore modalità di potenziamento della propria autoefficacia, assieme all’invito agli studenti ad auto-istruirsi verbalmente per trovare le soluzioni più appropriate per ciascun compito.

Cruciale, da parte dell’insegnante, il fornire feedback appropriati tanto sulla buona qualità del lavoro svolto quanto sui risultati ottenuti dagli studenti, promuovendo quindi un locus of control prevalentemente interno

Infine Bandura sottolinea la necessità, da parte degli insegnanti, di potenziare a propria volta la propria autoefficacia e a stringere proficue collaborazioni con le famiglie degli alunni (Bandura, 2000b).

Torna a Torino il Festival internazionale della psicologia

COMUNICATO STAMPA

Torna a Torino il Festival internazionale della Psicologia

(Torino, 31 marzo / 3 aprile 2016)

 

Molti ospiti, fra cui Massimo Recalcati, Moni Ovadia, Enzo Bianchi, Luca Mercalli Jean Searle, Vassilis Saroglou, e Vittorio Lingiardi indagheranno il tema della FIDUCIA

Dopo il successo dell’edizione 2015 anche quest’anno Torino per 4 giorni diventa capitale italiana della psicologia, ospitando la seconda edizione del Festival della Psicologia. Organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte, il Festival indaga, quest’anno, il tema della fiducia in tutte le sue più note o recondite sfaccettature.

Eventi, workshop, dibattiti, laboratori creativi e spettacoli, costituiranno il ricco programma della manifestazione che si rivolge a tutte e tutti, a bambini e adulti, a studiosi, studenti o semplici appassionati e curiosi con il preciso intento di aprire la mente per imparare a conoscerla: questione di fiducia. In sé e negli altri.

Un festival multidisciplinare che si svolgerà in varie location del capoluogo subalpino e che avrà, per 4 giorni, come protagonisti: psicologi, studiosi, attori, artisti, docenti universitari, scrittori, creativi e musicisti.

Massimo Recalcati, Moni Ovadia, Enzo Bianchi, Luca Mercalli, Jean Searle, Vassilis Saroglou e Vittorio Lingiardi, Alessandro Perissinotto, Adriano Zampierini e Bruno Bara sono solo alcuni degli ospiti attesi a Torino per parlare di fiducia.

Un festival all’insegna dell’apertura e dell’inclusione a 360 gradi destinato a un pubblico ampio ed eterogeneo: il tema 2016, infatti, sarà messo in relazione con argomenti di scottante attualità come le unioni civili, la disabilità, la religione, l’arte, il desiderio, la gelosia e il crimine.

Gli appuntamenti serali, curati da Maurizio Gasseau, Leandra Perrotta e Luigi Dotti, propongono un format innovativo: Torino In Treatment. Laboratori che spazieranno dalla danza terapia allo psicodramma, condotti da psicologi di tecniche attive che animeranno Torino nelle serate del festival.

Il festival è organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte con il patrocinio e la partnership della Città Metropolitana di Torino, della Città di Torino e il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino.

Il Festival della Psicologia è on line su Facebook su Twitter e su

http://psicologiafestival.it/

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