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Aspetti depressivi nelle madri biologiche e nelle madri adottive: uno studio esplorativo – Recensione

Che cosa accomuna le madri biologiche a quelle adottive? Che cosa hanno in comune la depressione post-partum e la depressione post-adozione? Queste sono solo alcune delle domande a cui Maria Giovanna Cruini, Sara Cirillo e Ariella Tomaselli cercano di dare risposta nello studio esplorativo da loro condotto, e i cui risultarti sono stati presentati al XVII Congresso Nazionale SICC.

 

Il tema centrale è quindi quello della maternità, intesa come quel momento di profondi cambiamenti biologici, psicologici e sociali che la donna si trova a vivere, e che richiedono la messa in gioco di molteplici risorse a diversi livelli per essere affrontata. Maternità quindi intesa non solo come momento di immensa gioia, ma soprattutto come momento di stress psico-fisico, che può, in una percentuale del 10-20% delle donne, trasformarsi in un vero e proprio disturbo depressivo nel corso del primo anno di vita del bambino.

Se questo è ciò che può accadere nella maternità biologica non da meno è la maternità adottiva, che sottopone la donna e la futura coppia genitoriale a molteplici fattori di stress già da tanto tempo prima dell’arrivo del bambino.

L’accettazione dell’infertilità e della impossibilità a procreare, il superamento dei colloqui e delle valutazioni di idoneità della coppia ad adottare, l’attesa del bambino e la gestione della quotidianità di vita della coppia ormai diventata famiglia sono solo alcune delle fasi che i genitori adottivi affrontano, e che possono rappresentare fattori di stress significativo. La depressione post-adozione tuttavia, sebbene nota è ad oggi ancora poco approfondita dal punto di vista scientifico.

Lo studio esplorativo delle autrici si inserisce in questa cornice teorica, ed ha come obiettivo generale quello di misurare l’eventuale presenza di depressione post-parto e post-adozione in un campione non clinico di 9 madri adottive e 12 madri biologiche. L’ipotesi è duplice: che l’incidenza della depressione sia simile nei due campioni e che se presente, essa non dipenda esclusivamente da fattori di tipo biologico.

La procedura sperimentale è consistita nella somministrazione al campione di una serie di questionari autosomministrati, misuranti i costrutti di interesse e si è avvalsa dell’uso di una serie di statistiche che hanno permesso di confermare le ipotesi delle autrici, secondo cui dunque medesimi livelli di depressione post-parto e post adozione sono osservabili nel campione: in linea con i dati di letteratura, la depressione post-adozione non dipenderebbe unicamente da fattori di tipo biologico.

L’evidenza di una natura non unicamente biologica della depressione post-parto e post-adozione richiede di spostare inevitabilmente l’attenzione sul ruolo che giocano i fattori psicologici, intesi come aspettative, credenze, bisogni e desideri nel diventare genitori.

Di qui la necessità non solo di progettare interventi volti ad individuare le donne a rischio, ma anche finalizzati alla presa in carico della donna e della coppia, sia essa biologica o adottiva, lungo il percorso di ridefinizione di sé e accettazione/adattamento ai cambiamenti che stanno avvenendo.

Il lavoro di Cruini, Cirillo e Tomaselli centra un tema attuale e di grande interesse scientifico, che merita certamente maggiori approfondimenti di ricerca e un maggiore impegno e professionalizzazione in ambito psicologico e psicoterapeutico proprio per quelle donne e coppie per le quali, diventare genitori, si trasforma da evento bellissimo a momento di grande sofferenza.

L’importanza di donare emozioni ai malati di Alzheimer

Nel presente articolo, dopo aver brevemente descritto cosa sia la malattia di Alzheimer e le conseguenze della stessa, si presterà attenzione all’ importanza di donare emozioni a questi malati, riportando in particolare uno studio condotto per dimostrare l’evidenza empirica di tale ipotesi.

La malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer prende il nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che ne descrisse i sintomi nel 1907 per la prima volta. Nel DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000, p. 165) è collocata nella sezione “Demenza”, in cui i disturbi descritti sono caratterizzati dallo sviluppo di deficit cognitivi. I disturbi presenti in questa sezione condividono un quadro comune a livello sintomatologico, ma si differenziano in base all’eziologia. La compromissione della memoria è richiesta per fare diagnosi di demenza (ivi, p. 166). L’età d’insorgenza della Demenza Tipo Alzheimer è precoce se sotto i 65 anni, tardiva se superiore ai 65 anni di età (ivi, p. 173). L’Alzheimer è una malattia che colpisce le funzioni cognitive indispensabili per relazionarsi con gli altri (memoria, attenzione, linguaggio). Il paradosso di questa malattia è che il malato appare fisicamente sano, ma nell’arco della malattia arriva a non sapere più come scrivere, parlare e non riconosce i famigliari.

Questa malattia è dunque una forma di demenza progressiva di cui ancora non si conoscono le cause. Nei malati di Alzheimer si assiste a una perdita di cellule nervose nelle aree celebrali vitali per la memoria e per altre funzioni cognitive. Si è riscontrato un basso livello di sostanze chimiche come il neurotrasmettitore acetilcolina, coinvolto nella comunicazione tra le cellule nervose. Questa malattia ha un decorso lento, in media i pazienti possono vivere fino a otto o dieci anni dopo la diagnosi della malattia e la rapidità dei sintomi varia da persona a persona.

 

Perdere la memoria

Come detto, la malattia colpisce la memoria, ma quest’ultima non è unica, e la perdita della stessa non è esclusiva nella malattia di Alzheimer. A seconda di ciò che colpisce l’individuo infatti, la perdita di memoria, può essere precedente all’avvento della malattia o successivo. Nel caso dell’Alzheimer l’amnesia è globale, riguarda ciò che è accaduto prima e ciò che accadrà dopo. Il processo di amnesia è lento e graduale, per cui si comincia dalla perdita di ricordi immediati fino a far fatica ad apprendere nuove cose arrivando a perdere i ricordi della vita precedente. Ovviamente questo processo è devastante in quanto dimenticare la vita precedente (memoria retrograda), equivale a dimenticare la propria identità personale, ma altrettanto devastante è la perdita di memoria anterograda in quanto non si può correggere il malato dagli errori commessi.

 

L’importanza di donare emozioni

Nei malati di Alzheimer viene meno la coscienza estesa, quella che permette all’individuo di percepirsi come il protagonista della propria vita (all’origine della coscienza autobiografica), ma il proto sé rimane intatto (Meini, 2012), elemento importante in quanto ci fa capire come, seppur con difficoltà, sia possibile comunicare, attraverso le emozioni, con questi pazienti.
Ciò è confermato anche da uno studio dell’ – i cui risultati sono contenuti sulla rivista Cognitive and Behavioral Neurology (Guzmán-Vélez E., Feinstein J., Tranel D., 2014) – in cui è emerso che il caregiver ha una profonda influenza sullo stato emotivo dei malati di Alzheimer, difatti, [blockquote style=”1″]i pazienti possono non ricordare la recente visita di una persona cara o di essere stati trascurati dal personale in una casa di cura, ma tali azioni possono avere un impatto duraturo su come si sentono [/blockquote](traduzione di Franco Pellizzari del testo inglese di John Riehl in University of Iowa Health Care, disponibile su www.alzheimer-riese.it).

 

Lo studio

Tale studio, portato avanti da Guzman-Vélez (studente di dottorato in psicologia clinica), Tranel (professore di neurologia e psicologia della UI) e Feinstein (professore assistente all’Università di Tulsa) è stato compiuto su 17 pazienti con l’Alzheimer e 17 partecipanti sani di confronto. Sono stati mostrati dei film della durata di 20 minuti sia tristi che felici a seguito dei quali si notò che: [blockquote style=”1″]queste clip hanno innescato l’emozione prevista: dolore e lacrime durante i film tristi e risate durante quelli felici. Circa cinque minuti dopo aver visto i film, i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti ad un test di memoria per vedere se potevano ricordare quello che avevano appena visto. Come previsto, i pazienti di Alzheimer hanno trattenuto una quantità significativamente inferiore di informazioni sia sui film tristi che su quelli felici, rispetto alle persone sane. In realtà, quattro pazienti erano in grado di recuperare qualsiasi informazioni fattuale sui film, e un paziente non ricordava nemmeno di aver visto un qualsiasi film[/blockquote] (traduzione di Franco Pellizzari del testo inglese di John Riehl in University of Iowa Health Care).

La cosa interessante e che conferma la necessità di sviluppare nuove tecniche di caregiving è che, nonostante l’incapacità di riportare alla mente ciò che aveva provocato il determinato stato d’animo provato, questo stesso stato d’animo permaneva. Ne consegue che i caregiver dovrebbero indurre sentimenti positivi che hanno – come emerge da questa ricerca – impatti nello stato d’animo del malato, nonostante esso non abbia memoria della causa che li ha generati.

La Guzman-Vélez scrive:[blockquote style=”1″] Questi risultati dovrebbero responsabilizzare i caregiver, mostrando loro che le loro azioni verso i pazienti contano realmente […]. Frequenti visite e interazioni sociali, esercizio fisico, musica, danza, scherzi, e dare loro i cibi preferiti sono tutte cose semplici che possono avere un impatto emotivo duraturo sulla qualità di vita del paziente e sul benessere soggettivo[/blockquote] (traduzione di Franco Pellizzari del testo inglese di John Riehl in University of Iowa Health Care).

 

Conclusioni

Questo studio si ricollega a quanto detto sul proto sé: permanendo tale forma di coscienza si ha un individuo che ha la capacità di provare emozioni, seppur non sia in grado di riportare la causa dello stato emotivo che sta vivendo.
Da ciò si evince quanto sia importante donare emozioni a un malato di Alzheimer.

Riflessioni di Italo Calvino sul nuovo millennio: possibili spunti per la Psicologia del Lavoro

Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio’ è un’opera – pubblicata postuma – che Italo Calvino scrisse nel 1985 in vista di un ciclo di sei lezioni da tenere all’Università di Harvard. Le lezioni, che non si tennero mai a causa della morte dell’autore, erano state pensate per orientarsi nelle trasformazioni e nelle innovazioni del nuovo millennio.

 

Calvino decise così di proporre sei parole chiave: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza, ognuna legata ad un valore letterario fondamentale da portare con sé nel nuovo secolo. Con queste parole Italo Calvino avrebbe aperto la prima delle sei lezioni ed avrebbe affrontato il tema della leggerezza:

Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza

Analizzando gli anni passati a scrivere, l’autore si rese conto che gran parte del suo lavoro era basato sulla sottrazione di peso, ovvero l’obiettivo che si poneva era quello di alleggerire i racconti nella struttura e nel linguaggio. Come lo scultore, anche il romanziere deve fare emergere la forma da una materia grezza da cui va rimosso il superfluo.

Ciò che è leggero è anche rapido. Calvino definisce la rapidità come caratteristica del pensiero umano, a lui interessa il rapporto tra la velocità fisica e la velocità mentale e scrive:

Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni’ disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto.

Per quanto riguarda la esattezza, Calvino sottolinea tre cose:

Un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili; un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.

Sulla visibilità Italo Calvino scrive:

Se ho incluso la visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.

Nell’affrontare il quinto valore, quello della molteplicità, l’autore dichiara che la natura del romanzo coincide con una precisa impostazione filosofica, quella di una casualità plurima del reale e definisce il romanzo come ‘una rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo’.

La sesta conferenza, quella sulla coerenza, Calvino non ebbe il tempo di scriverla: molto probabilmente avrebbe sottolineato l’importanza della coerenza tra parole e contenuti, della coerenza dello stile, della coerenza tra parole ed immagini.

La riflessione proposta da Calvino è quanto mai attuale: ritengo infatti che i sei valori che oggi dovremmo cercare di salvare siano medesimi, ovvero leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza.

In un contesto organizzativo, per me la leggerezza – che associo alla determinazione – significa non cedere alla pesantezza della paura alimentata dall’incertezza del futuro. La paura è esattamente il contrario di ciò che oggi serve alle organizzazioni per lavorare in maniera flessibile: è necessario essere fluidi e veloci, se necessario, a cambiare direzione. Veloci e rapidi: per me rapidità significa non solo essere pronti al cambiamento, ma anche e soprattutto velocità di pensiero e quindi anche agilità e mobilità.

Esattezza per me significa non solo lavorare con cura, scrupolo, precisione e diligenza, ma esattezza è soprattutto imprenditività e responsabilità, ovvero i lavoratori dovranno essere sempre più imprenditori di se stessi, abbandonando la mentalità per compiti ed abbracciando lo sforzo sui risultati: solo così si potrà riportare il lavoro ad una dinamica positiva e realizzativa.

Visibilità è il ‘potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi’, cioè una sensazione composita di creazione, partecipazione ed autorealizzazione che il lavoro deve restituire all’essere umano.

Molteplicità per me significa accettare le diversità con la consapevolezza che ogni essere umano è un insieme di caratteristiche ed esperienze da rispettare, scoprire e valorizzare. E’ un raccontare delle storie di vita diverse, che si arricchiscono nell’incontro.

Infine, coerenza per me vuol dire affrontare le sfide del futuro con serietà e costanza di idee e di comportamenti.

La scienza delle coppie che durano di Werner Bartens (2015) – Recensione

In Italia ogni anno si celebrano circa 200.000 matrimoni, ma si sanciscono anche oltre 50.000 divorzi. Secondo Werner Bartens, medico ricercatore e autore di best seller, una domanda che bisognerebbe porsi quando si discute di relazioni di coppia, è per quale motivo si decide di stare assieme ad una persona e ci si impegna per far funzionare quel rapporto. Secondo Bowlby (1988), non solo durante l’infanzia si percepisce il bisogno di instaurare una relazione di attaccamento con la figura di riferimento che fornisce accudimento, ma anche durante l’età adulta si esprime il desiderio di circondarsi di persone che garantiscano sostegno reciproco.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le varie tipologie di relazioni di coppia

All’inizio del testo, l’autore fornisce una panoramica delle relazioni di coppia. La relazione solida e appagante è quella caratterizzata da stima e affetto reciproci e in cui entrambi i partner sono aperti al compromesso e alla negoziazione. La relazione mediocre, invece, appare meno stabile e uno dei due partner esperisce la sensazione che l’altro viva sulle proprie spalle in termini emotivi, temporali o materiali. La relazione orientata al conflitto è principalmente caratterizzata da rabbia, litigi ed emozioni negative e sono proprio queste emozioni a continuare a tenere insieme i partner, senza che subentrino indifferenza e appiattimento. La relazione che evita i conflitti, invece, caratterizza quelle coppie che riconoscono di non essere d’accordo su alcune questioni, ma evitano di coinvolgersi in scontri e litigi, in quanto ritengono che non sarebbero comunque in grado di trovare un punto d’incontro. La relazione di salvataggio subentra per rimarginare le ferite derivanti da precedenti delusioni, ma rischia di sopravvivere solo per un breve periodo. Nella relazione amichevole, invece, l’amore e la passione lasciano il posto all’amicizia. Infine nella relazione defunta i sentimenti reciproci, l’amore e il sesso risultano ormai scomparsi.

 

Trovare l’anima gemella nel momento giusto

Incontrare l’uomo e la donna giusta per la vita può risultare piuttosto difficile, sebbene esistano alcune condizioni che possono agevolare la scelta. La psicologa Julia Berkic dell’Istituto Statale bavarese di pedagogia infantile (2006) ha dimostrato che l’intesa migliore e a lungo termine è quella tra uomo insicuro e donna sicura. Si ritiene infatti che una persona esitante e dubbiosa abbia paura del nuovo e di prendere decisioni di cui non conosce l’esito, per questo preferisce continuare la relazione in cui è già coinvolta. Julia Berkic e il suo team hanno anche osservato delle coppie sposate da 28 anni (2006). Dai risultati è emerso come buona parte delle coppie fosse formata da un partner con attaccamento sicuro e uno con attaccamento insicuro e questo consentiva alla relazione di resistere a lungo.

Karl Grammer (2005) ha inoltre dimostrato come le donne siano molto più selettive rispetto agli uomini. La ragione potrebbe risiedere nella biologia evolutiva: le donne hanno a disposizione un numero limitato di ovuli per la riproduzione, mentre gli uomini non hanno questa limitazione.
Rispetto al momento in cui si sancisce l’unione tra i due partner, attualmente è stato dimostrato come le donne si sposino in media a 31 anni e gli uomini a 34. Tuttavia, uno studio scientifico di Glenn e al. (2010) ha messo in evidenza come i giovani sposi siano più soddisfatti di coloro che convolano a nozze in età matura e sembrano avere una relazione più serena ed equilibrata.

Dopo aver incontrato l’anima gemella per tenersela stretta è importante non sottovalutare i contatti fisici e le piccole tenerezze. Il team di Coan (2006) ha ad esempio dimostrato come il semplice tenersi per mano riduca la tensione motoria ed emotiva e favorisca il mantenimento della relazione a lungo. Anche la vicinanza affettiva, la comunicazione, il pronunciare parole tenere e l’evitare commenti negativi nei confronti del partner ha dei benefici sulla durata della relazione (Bartens, 2015).

 

Gli effetti benefici della relazione di coppia

Secondo alcuni cardiologi di Toronto (Tobe e al., 2007), l’amore ha il potere di abbassare la pressione arteriosa soprattutto a fronte di eventi esterni stressanti e questo può proteggere dall’insorgenza di infarti, ictus e altre patologie. Le relazioni di coppia, quando risultano soddisfacenti, consentono, dunque, di proteggersi maggiormente dalle malattie e generano un maggiore benessere personale. Invece la fine di una relazione o la morte del partner possono generare problemi di salute, anche nel caso in cui ci si risposi. È stato dimostrato come il matrimonio, la presenza di una buona rete sociale e attività lavorative gratificanti possano rendere più longevi.

Tuttavia, non è sufficiente avere una relazione di coppia, ma essa deve risultare soddisfacente e solo in questo caso si percepiscono gli effetti benefici. In particolare la felicità aumenta il rilascio di dopamina e ossitocina che costituiscono un antidoto nei confronti delle situazioni stressanti. Insomma l’amore consente di tollerare maggiormente le sofferenze e lo stress della vita e di ammalarsi più raramente.

 

L’infedeltà e la gelosia

Le relazioni di coppia possono essere messe alla prova da situazioni di infedeltà. Alcuni studi hanno cercato di individuare quali possano essere i fattori che predispongono a relazioni extraconiugali. In particolare uno studio su 107 coppie di coniugi ha individuato 3 fattori: alcuni tratti di personalità come il narcisismo o la bassa autostima, la presenza di conflitti nella relazione e le disparità di valore personale tra i membri della coppia (Buss e al., 1997).
È stato anche dimostrato come esistano delle differenze tra uomini e donne rispetto alla gelosia e al sospetto di infedeltà: in particolare, gli uomini temono e si irritano soprattutto per eventuali infedeltà sessuali, mentre le donne sono più gelose nei casi di infedeltà emotiva. Inoltre, non sono emerse delle differenze di genere in termini di probabilità di tradimento.

Per quanto concerne la gelosia è emerso come essa sia più elevata quando i partner si attribuiscono un diverso fascino e sembra inoltre diminuire quando i partner convivono o passano molto tempo assieme e il rivale è lontano. Inoltre, le donne tendono a irritarsi maggiormente con la rivale rispetto agli uomini.

 

Come salvare le relazioni di coppia

Il divorzio e l’interruzione della relazione di coppia risultano frequenti quando si instaura una situazione in cui la donna pretende mentre l’uomo si tira indietro e non è disposto ad andare incontro alla partner. Le coppie che invece riescono ad evitare il divorzio sono quelle in cui le donne non adottano toni di rimprovero nei confronti del partner mentre gli uomini non si mostrano aggressivi.

Schmitt a al. (2007) hanno messo in evidenza come per prevenire le rotture sia fondamentale comunicare e mostrarsi comprensivi. I litigi costruttivi consentono di portare avanti una relazione duratura. Emerge, inoltre, come si tollerino maggiormente le differenze reciproche se queste sono compensate da altrettanti pregi.
Le relazioni in pericolo risultano, invece, quelle in cui emergono disparità rispetto a quanto ciascuno investe nel rapporto e viene fatto continuamente un bilancio tra ciò che ciascuno dà e riceve dal partner.
Essere gelosi, controllare il partner, monopolizzare il suo tempo libero sono alcuni degli atteggiamenti che possono soffocare il partner e mettere a rischio la relazione di coppia.
Alcune strategie che possono invece mantenere a lungo una relazione di coppia sono: accettare che l’amore ripercorre diverse fasi e avere aspettative realistiche, non mettere continuamente in discussione l’amore per il partner, essere indulgenti nei confronti dei difetti altrui, conservare l’amicizia, ricercare gioie piccole e grandi, avere figli, avere una buona rete di amici e conoscenti, esserci l’uno per l’altra.

 

Le coppie che durano: conclusioni

Il libro si presenta di facile lettura e fornisce una serie di indicazioni e informazioni supportate dalla letteratura scientifica su come funzionano le relazioni di coppia, quali sono i fattori determinanti per un buon mantenimento della stessa e quali comportamenti possono invece indurre il divorzio o la fine della storia.

Veloce come il vento: la storia di Carlo Capone (2016) – Cinema & Psicologia

In poche parole, Matteo Rovere scrive un capolavoro. E la recensione potremmo chiuderla qui.

Ispirato liberamente alla vita di Carlo Capone: pilota di rally all’apice della gloria negli anni ‘80 e campione europeo nel 1984, noto per il suo carattere aggressivo e poco incline a seguire le indicazioni della scuderia, Capone ha concluso la carriera l’anno dopo ritirandosi improvvisamente dalle corse. Poco dopo il suo ritiro emergono notizie che parlano di una tossicodipendenza, di una figlia morta, di problemi con la moglie; comunque sia, al momento è all’interno di una struttura psichiatrica in Piemonte.

Nel film Carlo Capone diventa Loris, nei panni di Stefano Accorsi, che i più si ricorderanno per l’esordio al grande pubblico in Radiofreccia e importanti interpretazioni dirette da Ferzan Ozpetek (Le fate ignoranti e Saturno contro).

La trama

Protagonista indiscusso del film, all’inizio, diciamolo, non si fa volere bene per nulla. Compare vestendo perfettamente i panni dell’eroinomane anni ‘80, con tutti i crismi richiesti: vive in una roulotte con un cane e una ragazza anoressica, ex ballerina, anche lei dedita alle sostanze; non ha una stabilità, non ha un lavoro, non ha un’entrata economica. Si presenta ai fratelli Giulia e Nico dopo non essersi fatto vedere per dieci anni, in occasione della morte del padre, che ha avuto un infarto. Dopo un tentativo di appropriarsi della casa paterna con la forza, e dopo essere stato cacciato, inizia una convivenza forzata con i fratelli e con la fidanzata, dal nome forse non casuale (Annarella, cavallo di battaglia dei CCCP d’epoca). Se prima dava fastidio, adesso fa proprio arrabbiare. Si impossessa degli spazi del fratellino, usa sostanze in casa, cerca continuamente soldi. E fin qui, la parte del tossico la fa benissimo.

Poi c’è la sorella Giulia, 17 anni, pilota, capelli mezzi neri e mezzi blu, da sempre allenata dal papà che appunto muore di infarto durante una sua gara. La mamma è scappata più di una volta, lasciando i ragazzi con il padre, e Giulia ha imparato presto a badare a se stessa e al fratellino. Loris, fino a quel momento, non si era fatto vedere più di tanto. Visto il pericolo che il fratello maggiore rappresenta in casa per il piccolo Nico, Giulia cerca di allontanarlo in tutti i modi, ma alla fine è costretta a tenerlo con loro per vincoli legali. E inizia la conoscenza forzata con il fratello maggiore, quello inaffidabile, il tossico, il fuori di testa. Un po’ per convenienza e un po’ per disperazione, Giulia arriva a chiedere a Loris, ex campione di GT, di allenarla per vincere il campionato. E sotto questa stella abbiamo modo di vedere l’aspetto più bello del film. Perché oltre a essere il tossico, Loris diventa quello esperto, quello che osa ma che sa a che punto fermarsi, che le insegna come vincere in pista: [blockquote style=”1″]Tu pensi troppo. Libera la mente da tutti i problemi, l’unico pensiero deve essere: anticipo la prossima curva, quando ancora non la vedo![/blockquote]

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La parte più bella del film non è, come sembrerebbe, il rapporto tra fratelli e la riscoperta della famiglia. Forse la parte migliore del film è la ridefinizione di Loris, che passa dall’essere un tossicodipendente opportunista a mostrare vicinanza e bene vero, anche quando non gliene viene data la possibilità. Pronto a pensare che comunque la gente gli volterà sempre le spalle, quando vede che Giulia fa di loro due una squadra recupera impegno e dedizione e diventa una spalla sicura su cui appoggiarsi. Chi l’avrebbe mai detto. Consapevole della sua condizione (“guarda che di disperati veri ne siam rimasti in pochi”) non cerca mai un riscatto, non cavalca il tema della grande rivalsa dell’escluso, ma semplicemente si impegna in un patto con la sorella, si spende e la fine conviene che non la diciamo.

 

Conclusioni

Un film molto toccante e molto genuino (complice un accento bolognese meravigliosamente ai limiti della credibilità), dove si vede chiaramente come la costanza e la precisione (di Giulia) spesso non bastino senza una componente di rischio e di passione che portano davvero ad azzardare un poco di più. Quel poco che serve per vincere. Perché alla fine

[blockquote style=”1″]se hai tutto sotto controllo vuol dire che non stai andando abbastanza veloce.[/blockquote]

Fallimenti terapeutici: pazienti incurabili e inguaribili e quelle volte in cui la psicoterapia non ha funzionato

Credo che tutti noi abbiamo alcuni pazienti cui, per dirla eufemisticamente, la terapia non ha giovato e, per dirla invece chiaramente, sono stati dei fallimenti terapeutici.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Credo che tutti noi abbiamo alcuni pazienti cui, per dirla eufemisticamente, la psicoterapia non ha giovato e, per dirla invece chiaramente, sono stati un nostro fallimento. Chi di voi sta per dire che ciò non lo riguarda corra prima ad aprire la finestra in modo che il naso non trovi ostacoli all’allungamento. Personalmente penso a volte che per me questa sia la norma e cioè che non ci sia nessuno che ottenga una guarigione grazie al mio lavoro. Ritenendo da buon popperiano che proprio da questi casi potrei ricavarne un miglioramento del mio operare ne ho fatto un elenco che  sta al primo punto dell’ordine del giorno della mia agenda di progetti da realizzare sotto il nome di ‘Progetto: capirci qualcosa‘.

Ne traggono gran beneficio i progetti successivi nell’ordine del giorno perché il solo sfogliare quell’elenco di nomi mi provoca irritazione e ad ogni nome associo commenti del tipo: ‘Resistenze insuperabili‘, ‘Era uno stronzo‘, ‘Non voleva guarire‘, ‘Gli facevano troppo comodo i vantaggi secondari‘, ‘Troppo scemo‘.

Se con la luce del sole riesco a contenere i fantasmi di tali fallimenti terapeutici, di notte si ripresentano suggerendomi un cambio professionale che solo la mia totale incompetenza in tutto e quindi incollocabilità sul mercato del lavoro, unita al fatto che tengo famiglia, mi fa escludere. Credo però che dirselo, almeno tra noi, potrebbe essere utile e smettere di credere che le cose vadano veramente come nei brevi esempi clinici che troviamo e scriviamo sui libri in cui tutto si risolve perfettamente e in poco tempo.

 

Fallimenti terapeutici: riconoscere il problema

Il primo passo è proprio riconoscere il problema. Immagino un gruppo di auto aiuto di terapisti anonimi in cui ci si presenti  dicendo ‘Mi chiamo Roberto Lorenzini sono un terapista pippone che non riesce a smettere, solo i pazienti che si suicidano non droppano almeno da non considerare tale il gesto definitivo‘. Come contributo al gruppo di auto aiuto tento alcune riflessioni sul tema fallimenti terapeutici. Intanto va distinta incurabilità da inguaribilità.

La prima non appartiene al paziente ma parla della relazione di un paziente con uno specifico terapeuta che adotta specifiche terapie: quindi il problema è nell’incontro tra queste cose e non riferibile a nessuna di esse singolarmente.

L’inguaribilità invece è riferita esclusivamente al paziente e alla sua patologia ed esiste in ogni campo della medicina, tant’è che l’abitudine a morire non è stata mai abbandonata. Come contributo per il gruppo di autoaiuto faccio alcune riflessioni sulla categoria degli incurabili suddividendola a sua volta in due gruppi.

 

Il ruolo dei temi irrisolti del terapeuta

Quella degli incurabili non dalla psicoterapia cognitiva ma da Roberto Lorenzini che indicano un problema, non nella terapia cognitiva ma in me stesso. Non vi tedio con le categorie di pazienti a me intollerabili perché sarebbe rivelare i mie temi irrisolti e a me imbarazza e a voi non ve ne frega niente. L’importante è il concetto generale ovvero che i pazienti che ci sono intollerabili ci segnalano un nostro problema perché si dibattono in una trappola che imprigiona anche noi e non possiamo aiutarli o ne sono brillantemente usciti e li invidiamo.

Ognuno avrà i propri fallimenti terapeutici e dunque i propri pazienti intrattabili a cui sarà meglio rinunciare a meno di non risolvere prima i propri nodi interiori. Ciò che posso consigliare ai colleghi del gruppo è molto banalmente di esserne consapevoli (vi invito dunque a identificarli) e di non prenderli in carico.

Prima di passare ad una categoria superiore di fallimenti che non riguarda il singolo terapeuta, cioè noi, ma un certo approccio terapeutico, nello specifico quello cognitivo, con ampie categorie di pazienti, è utile restare sui fallimenti terapeutici individuali per valutarne le conseguenze, i rischi e i pericoli ed evitare il terribile fenomeno del terapista imbizzarrito alle cui ferite su di sé e sul paziente, ho dovuto spesso tentare di porre rimedio. Così come ognuno di noi, dicevamo prima, ha avuto fallimenti terapeutici oppure ha una capacità straordinario di autoinganno, così a tutti sarà capitato di fronte ai racconti di un paziente sul suo precedente terapeuta di sentirsi indignati, vergognarsi della comune appartenenza e aver voglia di denunciare il collega. Tranquilli avete buone probabilità di essere descritti allo stesso modo al prossimo terapeuta.

Come è possibile che un terapeuta diventi ostile verso il suo paziente e seppur non deliberatamente finisca per danneggiarlo? E’ importante capirlo ed esserne consapevoli perché può capitare a tutti  anche con pazienti che non appartengono alle categorie dei personalmente  intollerabili di cui sopra ed anzi a volte si tratta di pazienti su cui ci siamo spesi entusiasticamente e di cui, poi, commissioniamo la bamboletta con la faccetta copiata dal profilo face-book alla sarta di fronte allo studio per usarla come porta spilloni, nel periodo immediatamente precedente al drop out che in questo caso si configura come legittima difesa.

Ragioniamo su cosa trasforma l’amorevole curatore d’anime nella bestia dell’Apocalisse. Chi fa il nostro lavoro presenta le più svariate tare psicopatologiche ma una tende ad accomunarci, ed è una ipertrofia del sistema dell’accudimento. Su di essa costruiamo la nostra professione e la nostra stessa identità. Un paziente che non migliora nonostante i nostri sforzi invalida la nostra identità. Ci troviamo nella stessa situazione di una madre che non riesce a trovare il modo di far cessare il pianto disperato del suo bambino. Ha dato tutto, è stremata ma non basta. Il suo pianto inconsolabile è un affronto al suo ruolo. Il cassonetto diventa un rischio reale. Oppure, meno drammaticamente, siamo come la donna convinta di avercela solo lei che si concede benevolmente e viene rifiutata. Chi le ha fatto tale affronto sarà suo nemico per sempre.

Per fortuna i pazienti non entrano nei cassonetti ma li possiamo colpire in altro modo colpevolizzandoli per il mancato successo e con mille piccoli dispetti che proprio la conoscenza della loro psiche ci permette di fare in punta di fioretto. Naturalmente questa inconsapevole reazione iatrogena ai fallimenti terapeutici è tanto maggiore quanto più la professione di curante (non riguarda infatti solo gli psicoterapeuti) è una vera e propria vocazione, vissuta come una missione che da senso alla vita.  Coloro che lo fanno come un lavoro qualsiasi non sono pericolosi. Ad esempio solo gli infermieri che volevano alleviare il dolore del mondo rischiano di evolvere verso angeli della morte. Non certo chi si è trovato a farlo perché era l’unico lavoro accessibile.

Lasciamo i singoli, le nostre personali meschinità, i cassonetti, le dame rifiutate e gli infermieri serial killer per occuparci di questioni più generali.

 

Fallimenti terapeutici e terapia cognitiva

L’aspetto più interessante su cui ragionare in tema di fallimenti terapeutici e che può spingerci a nuove riflessioni teoriche e all’apprendimento di nuove tecniche è quello dei pazienti, motivati, che condividono e comprendono perfettamente il lavoro terapeutico ma continuano a soffrire. Essi non sono intolleranti al terapeuta ma scalfiti solo superficialmente dalla terapia cognitiva. E’ come se la neocorteccia ci seguisse con passione sempre pronta a darci ragione, ma amigdale, il resto del cervello e tutto il corpo continuasse con i vecchi modi di funzionare. Il mio vissuto è di non avere più armi. Non io personalmente ma proprio il modello generale e la prassi che conosco. Questo non vuol dire che il modello e la prassi siano sbagliate ma solo che non si adattano a tutti.

Mi sembra che molte prassi terapeutiche della cosiddetta terza ondata ed in particolare l’EMDR , il modello di Porges e il modello di Pankseep indichino  strade di accesso al cambiamento del SNC che partendo dal corpo e dalle emozioni efficaci nei non responder alla TCC classica. Quello che resta fondamentale per il cambiamento, e che è stato il cavallo di battaglia vincente del comportamentismo e del cognitivismo, è l’esposizione, solo che non sarà l’esposizione a nuove idee ma alle emozioni o, addirittura a sensazioni corporee. Faccio solo marginalmente notare che cambiare attraverso l’esposizione alle esperienze è il normale modo in cui gli esseri umani cambiano nel tempo modellati dalle esperienze che vivono.

I modelli cognitivisti del funzionamento normale e patologico non vanno affatto rigettati. Descrivono acutamente il funzionamento a livello della corteccia e della consapevolezza (a mio avviso meglio delle altre modellizazioni in campo psicoterapeutico) ma questa galleggia su un mare di circuiti più arcaici che producono emozioni e sensazioni che, proprio perché fondamentali per la sopravvivenza e premiati dall’evoluzione, pur in interscambio con essa, non ne sono del tutto controllati e mantengono una certa autonomia soprattutto in situazioni di minaccia.

Compito ambizioso (un po’ come il ‘Progetto per una psicologia scientifica‘ di Freud) potrebbe essere quello di tentare una modellizzazione unitaria guidati dai neuroscienziati cercando di mappare tutto il SNC e le sue interconnessioni. A ciò seguirebbe l’elaborazione di una terapia senza più aggettivi qualificativi che includerebbe psicoterapia, fisioterapia, farmacoterapia, interventi sociali e riabilitativi e che si differenzierebbe non in partenza ma nell’incontro con il singolo paziente su cui calibrare il linguaggio più adeguato per parlare con il suo SNC.

Questo è un compito il cui fascino è superato solo dalla sua difficoltà e lo lascio volentieri ai colleghi giovani dotati di strumenti concreti e concettuali per me inimmaginabili.

Nel frattempo però nella pratica clinica che facciamo? Credo che dobbiamo assumere una prospettiva pragmatica e utilizzare ciò che funziona. Si pensi che la teoria quantistica che è alla base di tutti gli strumenti tecnologici più sofisticati inventati negli ultimi 80 anni ha delle incongruenze teoriche tuttora irrisolvibili.  Intendo dire che ogni terapeuta può associare alla conoscenza della TCC la dimestichezza con alcune di queste tecniche scegliendo quelle che più si confanno al proprio modo si essere. Poi di fronte ad ogni paziente ed alla formulazione del suo funzionamento in termini classici cercherà di raggiungere gli obiettivi fissati utilizzando il linguaggio che quel particolare individuo è in grado di capire.

Ad oggi non esiste un test che ci dica cosa sia più efficace per ciascuno (ma non è detto che non si potrebbe elaborare) e considerato che un intervento a 360° sarebbe troppo complesso, costoso e di difficile formazione per un operatore in grado di attuarlo, credo che si possa procedere, più umilmente per tentativi ed errori.

Personalmente, ma solo per mie caratteristiche, tenderei a procedere in modo top down (modo raffinato per dire dall’alto in basso) partendo dagli interventi più cognitivi e corticali per scendere verso la base cerebrale e il corpo. Credo però che altri potrebbero procedere assolutamente all’inverso. Unica raccomandazione in caso di fallimenti terapeutici in vista: non insistere su strategie inefficaci e soprattutto non colpevolizzare il paziente con concetti come ‘resistenze’ e non considerare l’invio o l’appalto ad altri di pezzi della terapia come un insuccesso.

 

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Psicologo nella Scuola. Esperienze di consulenza scolastica all’interno di un C.I.C. (2015) – Recensione

L’esperienza raccontata dal libro si è svolta all’interno dei Centri di Informazione e Consulenza (C.I.C.), regolati dalla legge 162 del 1990. L’apertura di un Centro di Ascolto ha permesso di ricavare uno spazio in un’aula della scuola, in cui per tre ore settimanali è presente lo psicologo, a disposizione di chiunque chieda un colloquio. Al Centro possono accedere tutti i protagonisti della scuola: studenti, insegnanti, genitori, collaboratori scolastici, dipendenti scolastici.

 

Chi è lo psicologo scolastico?

La figura dello psicologo scolastico in Italia non è definita da una norma che ne veda l’inserimento “stabile” nella struttura; in sostanza si lascia alle scuole l’autonoma iniziativa d’avvalersi o meno di un servizio psicologico. L’Italia è rimasta il solo Paese europeo a non avere veri e propri psicologi scolastici.

Questo libro, rivolto a giovani psicologi e in parte anche ad insegnanti e genitori, si propone di riassumere venti anni di esperienza nella scuola superiore; si articola in due parti: la prima parte affronta gli aspetti teorici che riguardano le norme che regolano la presenza a scuola dello psicologo, e il suo ruolo secondo l’approccio cognitivo-costruttivista; la seconda parte racconta l’esperienza sul campo (il centro di ascolto, il progetto accoglienza, i sondaggi).

 

Le competenze richieste allo psicologo scolastico

Per lavorare a scuola, è utile poter contare su una serie di competenze, di cui alcune personali e altre professionali. Tra le competenze personali elencherei la personale sensibilità e predisposizione verso questo specifico periodo evolutivo (l’adolescenza) insieme ai temi che lo caratterizzano. Sul piano professionale aiuta sicuramente una preparazione clinica fatta attraverso un percorso personale o una specializzazione psicoterapica.

Avere anche un minimo di competenze sul funzionamento dei gruppi è un altro elemento favorevole. La quotidianità scolastica è caratterizzata dalle vicende di gruppo, dal gruppo classe, al collegio dei docenti e conoscere le dinamiche di gruppo può favorire letture e interventi adeguati. I ragazzi che frequentano la scuola superiore prima che studenti sono adolescenti. Lo psicologo lavora per favorire la comunicazione tra i protagonisti della scuola, per migliorare la reciprocità, ma il servizio è soprattutto un punto di riferimento per l’adolescente, uno spazio protetto a cui rivolgersi per qualsiasi motivo perciò buona parte del lavoro è rivolto a loro, al loro rapporto con i compagni, con gli insegnanti, con i genitori.

 

L’esperienza nei Centri di Informazione e Consulenza (C.I.C.)

L’esperienza raccontata dal libro si è svolta all’interno dei Centri di Informazione e Consulenza (C.I.C.), regolati dalla legge 162 del 1990. L’apertura di un Centro di Ascolto ha permesso di ricavare uno spazio in un’aula della scuola, in cui per tre ore settimanali è presente lo psicologo, a disposizione di chiunque chieda un colloquio. Al Centro possono accedere tutti i protagonisti della scuola: studenti, insegnanti, genitori, collaboratori scolastici, dipendenti scolastici.

Si ha un primo colloquio in cui viene valutata la richiesta. Se il problema può essere affrontato a scuola, lo studente viene seguito per un numero limitato di colloqui, altrimenti si rimanda alle strutture presenti nel territorio (consultori, centri adolescenti, ecc.). I Progetti Accoglienza prevedono un percorso di accompagnamento degli studenti del primo anno della scuola superiore, realizzato attraverso un gruppo di coetanei degli anni successivi, preventivamente formati a questo scopo. A partire dal primo giorno di scuola e per alcuni giorni i primini vengono accolti in classe dai compagni più grandi che li stimolano e li sostengono nella conoscenza reciproca e nella costruzione del gruppo classe attraverso una serie di attività guidate, l’illustrazione delle novità della scuola superiore, la guida nel giro conoscitivo della scuola. L’abbassamento delle attivazioni emotive favorisce l’inizio della reciprocità e la costruzione del senso di appartenenza al nuovo gruppo. Si realizza così un modulo di prevenzione primaria che si basa sullo stare bene a scuola e consente di uscire dalla logica dell’emergenza che genera interventi solo di fronte a problematiche conclamate.

Il Progetto Accoglienza prevede infatti due fasi: una fase di formazione degli studenti che ricopriranno la funzione di tutor e una fase di accoglienza. C’è un tema in particolare che accomuna molti insegnanti ed è l’insofferenza verso il modo in cui gli studenti affrontano i loro doveri scolastici, secondo loro lo fanno in maniera superficiale, immatura, insufficiente. Difficilmente uno studente viene al Centro di Ascolto per parlare delle sue assenze, perciò è stato somministrato un breve questionario, che potesse fornire qualche informazione in più sulla forma e sulle motivazioni che queste assenze assumono. Il questionario è costituito da 12 domande. È stato somministrato qualche anno fa su un campione di 30 classi su 38 dell’istituto, per un totale di 593 studenti di cui 300 femmine e 293 maschi. I risultati dei sondaggi sono nelle due appendici del libro.

L’educazione competenziale: come rendere le potenzialità individuali delle risorse

Ogni individuo possiede delle potenzialità. Il compito dell’educazione deve essere quello di coltivare le potenzialità individuali per farle divenire risorse e sono alla base delle competenze.

Abstract

Il fine che l’educazione deve avere nella nostra società è quello di dotare le nuove generazioni di strumenti utili per governare la propria vita, per rapportarsi con l’alterità, per orientarsi nel futuro, per vivere serenamente la propria adultità. L’adultità contemporanea ha il suo nucleo paradigmatico nell’instabilità e nella provvisorietà. In virtù di questo, l’educazione deve essere ripensata, ovvero avere come scopo prioritario lo sviluppo delle competenze legate al “saper fare” in ambito relazionale, decisionale e diagnostico.

Il costrutto di educazione

Per educazione possiamo intendere [blockquote style=”1″]l’insieme degli interventi volti a formare la personalità intellettuale e morale di un individuo[/blockquote] (A.A. V.V., 1993, pag 615).

Il fine che l’educazione deve avere nella nostra società è quello di dotare le nuove generazioni di strumenti utili per governare la propria vita, per rapportarsi con l’alterità, per orientarsi nel futuro, per vivere serenamente la propria adultità (Batini, 2013).
L’adultità contemporanea ha il suo nucleo paradigmatico nell’instabilità e nella provvisorietà. Infatti, in accordo con Cunti (1995), citato in Schettini (2005, pag. 7), [blockquote style=”1″][…] Essere adulti oggi significa soprattutto convivere con l’instabilità e con la provvisorietà, essere disposti a gestire il nuovo e l’incerto, a controllare la pluralità e il cambiamento. Questa condizione, per molti versi scoraggiante, presenta tuttavia un enorme vantaggio: la possibilità di vivere la propria esistenza non solo secondo modalità più duttili ma nella qualità di protagonista del proprio vivere.[/blockquote]

Il binomio educazione – istruzione

L’educazione è sempre stata appannaggio di due istituzioni sociali, storicamente e culturalmente orientate, ovvero la famiglia e la scuola.
Nei contesti scolastici si è considerata l’educazione sinonimo di istruzione e, in virtù di ciò, i docenti hanno avuto il compito prioritario di trasmettere alle nuove generazioni, organizzate in raggruppamenti omogenei per età, i contenuti declinati in discipline. L’obiettivo principale di tale paradigma trasmissivo è stato quello di fornire ai futuri adulti, attraverso il sapere veicolato, gli artefatti essenziali per la navigazione nella loro quotidianità. Questa ideologia per essere epistemologicamente euristica deve fondarsi sulla staticità sociale, lavorativa e culturale.
In altre parole, questa educazione – istruzione fornisce uno strumentario che si rivela obsoleto e inservibile in una società che nella mutevolezza e precarietà ha i suoi archetipi (Batini, op. cit.).

Le competenze

Alla luce di queste considerazioni, l’educazione, come finalità principale delle istituzioni scolastiche, deve essere ripensata, ovvero avere come scopo prioritario lo sviluppo delle competenze. Il costrutto di competenza ha più declinazioni. Per Barnett (1994) e Kirschner (1997), citati in Batini (op. cit., pag. 27), per competenza [blockquote style=”1″][…] si intende la capacità di assumere decisioni e di saper agire e reagire in modo soddisfacente in situazioni contestualizzate e specifiche, prevedibili o meno […]. [/blockquote] Secondo Batini (op. cit., pag. 31)[blockquote style=”1″] […] le competenze possono essere considerate come un insieme integrato di conoscenze (knowledge), abilità (skill), qualità umane (habits) […] la competenza è il patrimonio complessivo di risorse di un individuo nel momento in cui egli affronta una prestazione lavorativa oppure il proprio percorso professionale o la risoluzione di un problema, di una situazione, lo svolgimento di un compito nella sua vita quotidiana […].[/blockquote]

L’educazione competenziale

Ogni individuo possiede delle potenzialità. Il compito dell’educazione, in ultima analisi, deve essere quello di coltivare le potenzialità individuali per farle divenire risorse e sono alla base delle competenze.
Le competenze possono essere ascrivibili a tre domini:
– relazionale,
– decisionale,
– diagnostico.

Le competenze relazionali sono assimilabili alle seguenti attività:
– saper comunicare,
– saper interagire,
– saper lavorare in gruppo,
– sapersi confrontare nei contesti multiculturali odierni (Batini, op. cit., pag. 35).

Le competenze decisionali si possono compendiare nel:
– saper risolvere i problemi,
– saper valutare,
– saper decidere,
– saper effettuare delle scelte (Batini, op. cit., pag. 35).

Le competenze diagnostiche sono rapportabili ai seguenti “saper fare”:
– saper analizzare,
– saper controllare più variabili,
– saper reperire e trattare più informazioni,
– saper valutare una situazione in corso d’opera (Batini, op. cit., pag. 36).

L’educazione, quindi, deve avere come finalità epistemologica la formazione di una persona che sappia comunicare e relazionarsi con l’alterità in ogni contesto (personale e lavorativo), sia in grado di risolvere i problemi piccoli o grandi che la vita presenta, affronti con responsabilità le scelte ed abbia l’attitudine alla riflessione, quale monitoraggio costante del proprio agire.

La gelosia in un corpo vivo: i diversi profili di gelosia nella popolazione non patologica

Marazziti e collaboratori (2010) hanno recentemente sviluppato un questionario inerente al tema della gelosia, con lo scopo di classificare le manifestazioni di gelosia nella popolazione non patologica, sulla base di quattro ipotetici profili: gelosia ossessiva, depressiva, associata ad ansia da separazione e paranoide.

Laura Carelli 

 

[blockquote style=”1″]… Quel che noi crediamo il nostro amore, la nostra gelosia, non è la medesima passione continua, indivisibile. Essi sono composti d’un’infinità d’amori successivi, di gelosie diverse ed effimere, che tuttavia per la loro moltitudine ininterrotta danno l’impressione della continuità, l’illusione dell’unità…[/blockquote] (Proust. Alla ricerca del tempo perduto; Dalla parte di Swann, 1919).

 

Gelosia: introduzione

Marrazziti e collaboratori (2010) hanno recentemente sviluppato un questionario inerente al tema della gelosia, con lo scopo di classificare le manifestazioni di gelosia nella popolazione non patologica, sulla base di quattro ipotetici profili: gelosia ossessiva, depressiva, associata ad ansia da separazione e paranoide. Per compilare il questionario, le persone sono invitate a pensare alla più recente o all’attuale relazione affettiva.

Tipologia di gelosia

Le tipologie di gelosia si caratterizzano per i seguenti aspetti: nella forma ossessiva, sono presenti sentimenti egodistonici ed intrusivi di gelosia che la persona non riesce a far cessare; nella forma depressiva, la persona prova un senso di inadeguatezza rispetto al partner, aumentando il rischio percepito di tradimento; nella forma con associata ansia da separazione, la prospettiva di una perdita del partner appare intollerabile, e vi è un rapporto di dipendenza e di continua ricerca di vicinanza; nella forma paranoide, vi è un’estrema diffidenza e sospettosità, con comportamenti controllanti ed interpretativi. Tale strumento rappresenta un utile collegamento tra normalità e patologia, ed ha lo scopo di portare luce su un fenomeno molto diffuso, sebbene poco studiato, e fonte di disagio psicologico in un’ampia parte della popolazione.

Nell’applicazione di tale classificazione ad un paziente specifico, tuttavia, un primo problema che incontriamo è nel riferirci unicamente all’ultima relazione affettiva; se guardiamo la sua storia di vita, infatti, possiamo vedere come la sua ispeità, l’essere mio dell’esperienza ogni volta nel commercio con il mondo (Heidegger, 1927; Arciero, 2009), si è declinata in modi assai differenti nei diversi momenti e con i diversi partner. Il caso clinico brevemente presentato, e la discussione che segue, illustra alcune problematicità insite nell’applicazione ad uno specifico paziente di un modello di inquadramento di un’esperienza complessa, quale la gelosia, all’interno di cluster definiti.

 

Gelosia: breve descrizione di un caso clinico

Alberto, avvocato di 50 anni, è un paziente giunto in consultazione psicologica per un problema di Ipertensione Arteriosa, aggravata da fattori emotivi tali da esacerbare o rendere difficoltosa la gestione della stessa, come anche supportato da uno spiccato effetto ‘white coat’ (Parati e Mancia, 2003). Dopo alcuni colloqui, emerge come i rialzi pressori siano elicitati da esperienze tali da suscitare sentimenti di rabbia in associazione ad un senso di scarsa efficacia sia fisica che relazionale. In particolare, Alberto soffre per la mancanza di relazioni intime da alcuni anni, aspetto che si pone in forte discontinuità rispetto all’esperienza precedente. A tale mancanza di relazioni affettive si accompagna una riduzione dell’eccitazione sessuale, comparsa a seguito dell’assunzione di farmaci antipertensivi, tuttavia perdurante anche a fronte della sospensione degli stessi. La dimensione dell’attivazione sessuale assume particolare importanza alla luce delle pregresse relazioni affettive di Alberto che, da un’iniziale narrazione, appaiono connotate in termini di intensa intimità fisica e passionalità.

Nel corso della terapia, lavorando sia sui vissuti attuali negli incontri relazionali, che sulla ricostruzione della storia dei legami affettivi, riusciamo a cogliere nel qui e ora l’effetto generato dall’incontro con l’Altro. Dopo alcuni incontri, riprendendo la rottura dell’ultima storia importante alla luce di come è cambiata la percezione di sé dopo tale evento, Alberto riferisce di avvertire che quella, per lui, rappresentava l’ultima possibilità per costruire una famiglia, attribuito da lui a ragioni cronologiche. Pertanto, solo ora Alberto riesce ad afferrare il senso di quella rottura affettiva, come il venir meno di una progettualità e di un poter-essere, in mancanza di una conseguente ricostruzione di un alternativo scenario di possibilità. Data la riduzione del senso di autoefficacia relazionale evidente dal racconto di Alberto, che lo limita nelle proprie possibilità d’azione, appare utile proporre dei compiti al fine di accompagnare Alberto verso nuove esperienze e coglierne l’effetto su di sé, aprendo nuove possibilità d’azione.

Al ritorno da una vacanza, Alberto arriva in visita con un aspetto molto riposato e solare, e mi annuncia di aver conosciuto una ragazza, Stefania, con cui ha intrapreso una relazione. Tuttavia, alcuni avvenimenti, come messaggi ricevuti in tarda serata da parte di Stefania, alimentano in lui la sensazione di essere, forse, tradito. La gelosia di Alberto non è rivolta verso una persona specifica, ma è piuttosto legata alla sensazione di non potersi fidare della persona che ha accanto. Ogni situazione ambigua diventa fonte per lui di macchinazioni, con l’avvio di catene di associazioni con altri eventi ambigui e potenzialmente indicatori di tradimento. A questo segue, quasi repentinamente, l’innalzamento della pressione arteriosa, l’insorgere di mal di testa e di una stretta allo stomaco, che permangono per ore e rendono difficoltoso il riposo notturno. Alberto avverte con profondo disagio queste sensazioni legate alla gelosia, disagio che scaturisce dal sentire la propria corporeità in balia dei comportamenti di un’altra persona, anziché sotto il proprio controllo; questa sensazione di perdita di controllo suscita inoltre un senso di profonda vergogna in Alberto, anche alla luce di una propria personale avversione verso la violenza, sviluppata anche a seguito di esperienze lavorative pregresse. Il disagio, unito alla vergogna, spingono Alberto a desiderare di chiudere la relazione; dopo questi episodi, diventa infatti distaccato con Stefania e comincia a pensare di investire su altri ambiti della propria vita.

Anche grazie alla disponibilità della ragazza, questi episodi rientrano e non si concludono in una rottura affettiva. In questa fase della terapia, cerchiamo di dare un senso alla gelosia di Alberto, fonte per lui di sofferenza e tale da mettere a rischio la sua relazione. Ripercorrendo la sua storia di vita, emerge come il sentirsi a proprio agio con le donne è da sempre, per lui, l’esito di una serie di pre-condizioni da soddisfare, che comprendono, oltre alla realizzazione lavorativa, anche la prestanza fisica. Vediamo con Alberto come la gelosia verso Stefania nasca da questo senso di incertezza nei rapporti con l’Altro, che alimenta un’iper-razionalizzazione del modo di stare con l’Altro, tale da scatenare una catena di ipotesi e di dubbi potenzialmente infinita. Al contrario, grazie ad un lavoro quotidiano basato anche sull’impiego di un diario, Alberto inizia a cogliere il proprio senso di benessere esperito nel rapporto con Stefania a livello viscerale e, familiarizzando man mano con le proprie emozioni, riesce infine a fidarsi di esse come guida per l’azione. Alberto comincia, inoltre, a cogliere un aspetto positivo della gelosia, ovvero una maggiore attivazione fisica che si traduce a livello sessuale in una maggiore passionalità.

 

Considerazioni sulla comprensione dell’esperienza della gelosia nella pratica clinica

La ricostruzione della storia dei legami affettivi di Alberto ci ha consentito di cogliere la salienza del tema dell’incertezza e del conseguente timore del rifiuto da parte dell’Altro, con importanti correlati a livello sia di corporeità che di gelosia. Tali temi si declinano in modi differenti nei diversi momenti di vita, e difficilmente possono essere intesi come invarianti dei modi di essere di Alberto. Dal suo racconto, infatti, negli ultimi quindici anni la gelosia non è stata significativamente presente, riemergendo solo oggi nella relazione con Stefania. I modi della gelosia di oggi, inoltre, non sono i modi della gelosia di ieri.

Emerge un’ulteriore difficoltà rispetto all’operazione di inclusione, all’interno di una categoria specifica, dell’esperienza di gelosia riportata da Alberto. Potremmo infatti definirla come ‘depressiva’, in quanto vi è, in effetti, un’incertezza del valore di sé. Tuttavia, sarebbe anche possibile inquadrarla come ‘paranoide’, in quanto vi ritroviamo una sospettosità pervasiva ed iper-razionalizzazioni con sfumature interpretative.

D’altro canto, l’emozione della gelosia, di per sé, ‘… prevede sentimenti di rabbia, paura della perdita, sospettosità, ansietà …’ (Liccione, 2007).
Inoltre, tra gli elementi che guidano l’agire psicoterapeutico, un aspetto essenziale è rappresentato dal senso del racconto del paziente, il quale può emergere unicamente dalla sua storia di vita; allo stesso modo:

[blockquote style=”1″]… ogni emozione, il cui processo d’attivazione basico è indubbiamente biologicamente determinato, non può essere compresa appieno in assenza dell’intera storia di vita del singolo soggetto … [/blockquote](Liccione, 2007).

Nel caso descritto viene riportata una sofferenza che rimanda a motivi sia psicopatologici, che esistenziali. Emerge con forza la presenza di un ‘corpo vivo’ (Merleau-Ponty, 1945), corpo che veicola la manifestazione del disagio esperito; corpo, quindi, quale teatro delle alterazioni dell’identità personale (Liccione, 2011).

Sebbene si sottolinei la rilevanza, nell’ambito della ricerca interconnessa alla pratica clinica, della realizzazione di strumenti di assessment in grado di portare luce e semplificare argomenti complessi e poco esplorati, quale l’esperienza della gelosia, l’agire psicoterapeutico necessita di arricchire la concettualizzazione e l’inquadramento nosografico mediante la risorsa dell’ascolto empatico, nonché della ricostruzione della storia di vita del paziente. Un continuo dialogo tra ricerca e pratica clinica può consentire l’apertura di nuovi percorsi di comprensione nel continuum tra normalità e patologia; l’ascolto del paziente, infatti, può fornire spunti da approfondire mediante ricerche sistematiche, i cui risultati vengano poi declinati e contestualizzati, nonché storicizzati, nella singola persona portatrice di significati. Tale circolo virtuoso, tuttavia, non annulla la specificità di questi due linguaggi, quello categoriale-nosografico (in ‘terza persona’) e quello della comprensione (in ‘prima persona’), che perseguono finalità differenti sebbene intrinsecamente connesse.

Libera professione e imprenditoria femminile “Psicologhe: che impresa!” – Report dal Convegno ENPAP

Venerdi 15 aprile, presso l’Hotel Universo a Roma, ho avuto l’opportunità di assistere ad un convegno brillantemente strutturato dall’ENPAP (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi), il quale, istituendo la Commissione per le Politiche al Femminile, ha reso possibile un reale sostegno verso le capacità professionali e le risorse femminili della categoria.

Hanno preso parte al convegno ospiti d’eccezione, offrendo al pubblico vari spunti di riflessione, sull’attuale situazione lavorativa degli psicologi e sull’imprenditoria al femminile; bellissime storie di vita, considerazioni in ambito economico e finale premiazione delle vincitrici per il progetto “Psicologhe: che impresa!”.

Le prime battute di apertura spettano ovviamente al Presidente ENPAP, Felice Torricelli, il quale introduce quella che sarà la chiave di lettura dell’intera giornata e argomento centrale su cui si focalizzeranno inevitabilmente tutti gli interventi successivi: il mondo del lavoro è evidentemente cambiato, è richiesta un’immancabile flessibilità in ogni tipo di occupazione. L’idea dello psicoterapeuta “inchiodato nel suo studio privato” è ormai un concetto lavorativo superato.

Le ricerche di mercato partono da un dato allarmante, ovvero la diminuzione, anno dopo anno, del reddito medio degli psicologi, situato al di sotto della cosiddetta soglia di povertà, non garantendo una pensione adeguata ai professionisti.

Per sopravvivere nel mercato del lavoro occorre prestare attenzione alle richieste dei cittadini, i quali oggi chiedono alla psicologia un aiuto ad affrontare i cambiamenti, la precarietà, la liquidità delle relazioni… è necessario uscire dagli studi e guardare il mercato!

Come suggerisce successivamente Chiara Santi, Consigliera di amministrazione e Coordinatrice commissione per le politiche al femminile ENPAP, le soluzioni per ovviare tale problematica esistono, e l’unico reale ostacolo sono gli psicologi stessi che perdono occasioni e non sanno valutare attentamente le opportunità, focalizzandosi solamente sulle difficoltà della professione: attualmente solo uno psicologo su dieci utilizza un personale sito internet per promuoversi. Nel 2016, prosegue la dottoressa, è impensabile non aggiornarsi, non utilizzare i social network; è indispensabile differenziarsi, trovare un valore aggiunto da offrire alla richiesta delle persone. E’ fondamentale inoltre lavorare in equipe: laddove non arriva un professionista, ne arriva un altro della nostra rete, specializzato in altro settore.

Per quanto riguarda la condizione lavorativa al femminile in Italia, in termini di difficoltà, soluzioni  e opportunità, sono intervenuti la D.ssa Monica Parrella, Consigliera e Direttore Generale Ufficio per gli interventi in materia di parità e pari opportunità; la D.ssa Paola Muratorio, architetta e Presidentessa INARCASSA; la D.ssa Paola Biondi, psicologa e segretaria Consigliera dell’Ordine Psicologi del Lazio e componente del Consiglio di indirizzo generale ENPAP e il Prof. Carlo Odoardi, professore associato del Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia presso l’Università degli studi di Firenze; la D.ssa Tiziana Tafaro, attuaria dello Studio Attuariale Orrù e Associati.

Tutti i loro interventi hanno sottolineato che le donne guadagnano meno degli uomini, sono pochissime quelle “al comando” nei vertici più alti ed esiste ancora oggi, la convinzione che una donna in carriera non possa avere una famiglia e viceversa, soprattutto in Italia.

Per quanto la nostra nazione stia accorciando la distanza con l’Europa, esiste quindi ancora un divario retributivo notevole, e soprattutto, non esiste ancora una cultura imprenditoriale, che dovrebbe risiedere già nell’area scolastica, una vera e propria educazione all’imprenditorialità.

A seguire, nel pomeriggio, sono arrivate le testimonianze di Elena Fucci, imprenditrice e proprietaria di un’importante azienda vinicola e Chiara Burberi, Docente, Consulente, Manager e Cofondatrice di REDOOC; grazie ad entrambe, è stata sottolineata l’importanza del saper riconoscere e usare intelligentemente le opportunità, conoscere le proprie risorse e saperle utilizzare al meglio nel percorso di realizzazione personale.

Il Dott. Giuseppe Settani, commercialista e docente de Il Sole 24 ore, ha elencato e approfondito in maniera chiara e lineare, nonostante il poco tempo a disposizione, le agevolazioni e le opportunità per quanto concerne l’imprenditoria, in particolare quella al femminile.

Le ultime due ore del convegno sono state totalmente dedicate alle cinque vincitrici del progetto “Psicologhe: che impresa!”: l’idea di realizzare un progetto al femminile nasce da un’esigenza nei confronti della categoria, in quanto attualmente l’82% degli iscritti all’albo degli psicologi aventi una partita iva, è rappresentato da donne.

Le vincitrici si sono raccontate, non solo elencando dati e percorsi seguiti, ma offrendo consigli, esponendo difficoltà e opportunità, creando delle storie altamente coinvolgenti.

La prima classificata è la D.ssa Giovanna Giuffedi, fondatrice di Life Coach Italy Srl,  una libera associazione di professionisti con particolare riferimento alla metodologia del coaching, la quale racchiude la sua testimonianza in una semplice frase ma molto efficace: “la vita che vuoi è la sola che avrai”.

A seguire, in ordine di classifica, la D.ssa Annalisa Mascia, Presidente e Socio Fondatore di Agape Società Cooperativa Onlus, attiva sul campo della disabilità psichica per promuovere la centralità della persona e lo sviluppo delle sue potenzialità; la D.ssa Sara Mazzucchelli, Psicologa e Specialista in Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica presso Elice Onlus, che sostiene la cura del paziente oltre la patologia; la D.ssa Marcella Peroni, cofondatrice dell’Associazione Oltremodo, incentrata sul benessere psicologico, con particolare riferimento alle persone con disturbi specifici dell’Apprendimento; infine la D.ssa Maria Russiello, psicologa e psicoterapeuta presso la Cooperativa Sociale Zetesis, che promuove attivamente la creazione di servizi di qualità per la prima infanzia.

Per conoscere nel dettaglio i loro progetti, vi invito a seguire le loro attività, facilmente reperibili online sui vari motori di ricerca e social network.

Cliccando QUI si può scaricare il programma del convegno.

 

Libera professione e imprenditoria femminile - 01

Libera professione e imprenditoria femminile - 02

Libera professione e imprenditoria femminile - 03

Libera professione e imprenditoria femminile - 04

Libera professione e imprenditoria femminile - 05

Acceptance and Commitment Therapy: le chiavi per superare insidie e problemi nella pratica dell’ACT (2016) – Recensione

Il volume di Harris, tradotto recentemente da Serena Guerzoni e Francesco Dell’Orco per Franco Angeli è un libro molto interessante, avanzato e esperienziale, dedicato a chi ha già dimestichezza e pratica clinica con la Acceptance and Commitment Therapy

Come si legge anche in quarta di copertina, il nuovo volume di Russ Harris, conosciuto in tutto il mondo come un ottimo scrittore e comunicatore, si propone come naturale continuazione dell’importante lavoro Fare ACT, disponibile in italiano sempre grazie a Franco Angeli Editore.

Già dalle prime pagine dell’indice si assapora il taglio esperienziale del libro. In particolare, la prima metà del volume è dedicata solo al clinico, a come “uscire” dalle insidie e dai blocchi che incontra nell’applicare la terapia ACT con i pazienti. Le prime cinquanta pagine parlano direttamente al clinico, ai suoi “moti interni”, alle difficoltà che può incontrare durante il suo lavoro con i pazienti. Come molti sanno, infatti, la Acceptance and Commitment Therapy si propone come terapia cognitivo comportamentale di terza ondata con una fortissima impronta relazionale e l’unico modo per comprendere i processi coinvolti in questa tipologia di psicoterapia è quello di “incarnarli”, di sperimentare su di sé ciò che viene proposto ai propri clienti.

Dunque, i primi capitoli del libro di Harris sono finalizzati allo “sbloccarsi”, declinato nei processi “conosci te stesso”, “dove stai andando?” , “flessibilità e rinforzo” e “cause e conseguenze”.

Spesso, i blocchi e le difficoltà che incontriamo come clinici con i nostri pazienti, come sappiamo, sono legate a difficoltà relazionali o a difficoltà legate alle nostre aree di vulnerabilità e di sofferenza. Questo credo sia il motivo principe per cui il lavoro di Harris parla direttamente al clinico, tramite un invito chiaro: [blockquote style=”1″]più il paziente è bloccato e più finisce per esserlo anche il terapeuta e viceversa[/blockquote] (p.14). E’ quindi nostro dovere (e valore a parere mio) notare cosa ci blocca e a sua volta blocca il paziente e agire di conseguenza.

In buono stile dei libri ACT, nelle pagine troviamo moltissimi esercizi e molte esperienze a cui il clinico è invitato a sperimentarsi, utili per notare i processi implicati nell’ACT prima su se stessi (facendo del nostro meglio per superarli) e poi proporre interventi che favoriscano nei nostri pazienti i processi per “sbloccarsi”.

Leggendo il volume ACT, la sensazione che colgo tra le pagine è di essere in compagnia di un supervisore d’eccezione, il quale non ha intenzione di trasmettermi concetti teorici né di farmi comprendere l’ACT, ma che piuttosto è interessato insieme a me a risolvere e a procedere nei momenti clinici di impasse, in cui i processi di inflessibilità psicologica sono in agguato.
Un esempio: processi come evitare di provare emozioni dolorose, giudicarsi, rimuginare, non agire, e distrarsi sono processi che accomunano tutti gli esseri umani, clinici o non clinici che siano. Nei momenti di blocco in terapia, tutti i suddetti processi si presentano spesso e aumentano lo stress e il senso di inconsistenza del processo terapeutico. NOTARLI e AGIRE IN MODO UTILE (detto in altri termini: praticare la Acceptance and Commitment Therapy…) è la strada proposta da Harris nel suo libro.

Nella seconda parte del volume, il supervisore Harris accompagna il lettore attraverso le varie insidie che si possono incontrare nel proseguire di una psicoterapia ACT. Si inizia ad imparare insieme a Harris come relazionarci con un paziente maldisposto, come interrompere il dialogo rimuginante, come aiutare i nostri pazienti a mantenersi lungo la rotta delle cose per loro importanti, come motivare i pazienti poco motivati e così via.
Chiunque si occupi di clinica nella propria vita conosce bene la ricchezza e l’importanza della continua etero e auto-supervisione come strada per il continuo miglioramento, conoscenza di sé e aumento della propria efficacia terapeutica. Il libro di Harris credo contribuisca proprio a questo, sapendo e condividendo con il lettore che [blockquote style=”1″]il successo è l’abilità di passare di fallimento in fallimento senza perdere l’entusiasmo[/blockquote] citando Winston Churchill (p.19).

Un libro da leggere con curiosità, per chi già conosce e soprattutto pratica l’ACT e per chi riconosce un valore nella consapevolezza di sé e del proprio agire nella stanza con il paziente e nelle altre stanze in cui abitiamo nella nostra vita…

Tecnostress e iperconnessione: gli effetti collaterali dell’uso smodato dei nuovi media

Alcune importanti multinazionali hanno deciso di introdurre misure straordinarie per far staccare i propri dipendenti dalla posta elettronica, il cui uso smisurato è tra le cause principali del cosiddetto tecnostress, ovvero lo stress provocato dall’uso smodato delle nuove tecnologie.

 

Le relazioni nell’era digitale

Quella digitale è la rivoluzione più importante del XXI secolo; un rivolgimento radicale che ha modificato completamente il nostro modo di vivere e di lavorare e che ha determinato un’epocale crisi delle relazioni interpersonali.

Le relazioni tra le persone si stanno trasformando in modo deleterio.

Secondo me c’è qualcosa che non va in un mondo in cui una persona ha centinaia di amici su Facebook e pochi, se non nessuno, nella vita reale che, dopotutto, è quello che conta.

Secondo me c’è qualcosa che non va se il tuo collega della porta accanto, anziché parlare con te, ti invia decine di email al giorno.

Scrivetevi di meno, incontratevi, comunicate di più di persona.

 

 

Cosa si intende per Tecnostress?

Alcune importanti aziende di fama internazionale, quali Ferrari, Bmw, Microsoft hanno deciso di introdurre misure straordinarie per far staccare i propri dipendenti dalla posta elettronica, il cui uso smodato è tra le cause principali del cosiddetto tecnostress, ovvero lo stress provocato dall’uso smodato delle nuove tecnologie, che può avere gravi effetti collaterali sulla salute fisica e mentale e sulla sfera emotiva delle persone.

Craig Brod (1984) definisce il tecnostress come:

Un disagio causato dall’incapacità di affrontare le nuove tecnologie del computer in modo sano. Si manifesta in due modi distinti: nello sforzo di accettare la tecnologia informatica e, nella forma più specifica di iper-identificazione con la tecnologia informatica.

Un ulteriore contributo alla definizione è stato fornito da Weil e Rosen (1997), secondo cui il tecnostress include anche l’insieme di atteggiamenti, comportamenti e disagi fisici e psicologici che sono causati in modo diretto o indiretto dalla tecnologia.

 

 

Gli effetti del Tecnostress

Negli anni, vari studiosi si sono occupati del tema del tecnostress, evidenziando le ricadute negative sullo stato psicofisico degli individui: senso di impotenza sul controllo del tempo e dello spazio personale, sovraccarico di informazioni provenienti da fonti diverse, fino alla riduzione della fiducia e del confort nell’uso delle tecnologie digitali.

La ricerca sugli effetti del tecnostress è ancora piuttosto giovane ed i risultati sono tutt’altro che sedimentati; si può tuttavia tentare di tracciare una sintesi dei risultati finora raggiunti.

L’utilizzo delle tecnologie può causare ansia e tensioni: ciò dipende dalla predisposizione individuale verso le tecnologie, ma non solo. L’uso delle ICT può causare stress anche per via della sensazione di perdita di controllo oltre il tempo e lo spazio dovuta alla connettività costante e/o al sovraccarico cognitivo.

Il fenomeno del cosiddetto sovraccarico cognitivo – meglio conosciuto con il termine inglese di information overload – si verifica quando si ricevono troppe informazioni per riuscire a prendere una decisione coerente sulla quale focalizzare la nostra attenzione.

Com’è noto, maggiori sono le cose tra cui dividiamo l’attenzione, minori saranno le risorse mentali utilizzate per ogni singola cosa e di conseguenza il risultato sarà meno soddisfacente rispetto a quello che avremmo potuto ottenere focalizzandoci su una cosa soltanto alla volta.  Analogamente, quando dividiamo la nostra attenzione tra troppe informazioni, non siamo in grado di allocare le risorse mentali necessarie per capirle appieno e farle fruttare e così ci troviamo a leggere tante cose in modo approssimativo, illudendoci di incrementare la nostra conoscenza. E invece no, io credo che la conoscenza richieda molta attenzione ed approfondimento.

Chi soffre di sovraccarico cognitivo non è mai soddisfatto del materiale che trova, e perpetua la propria incessante ricerca, fino al punto in cui questa si trasforma in ossessione.

 

 

Tecnostress: come fronteggiarlo?

Nel 2007, con una sentenza della procura di Torino, il tecnostress è stato riconosciuto come malattia professionale, le cui sintomatologie sono facilmente individuabili: ansia, attacchi di panico, nervosismo ed irritabilità, difficoltà di concentrazione, insonnia, mal di schiena, mal di testa, dolori cervicali.

Per fronteggiare il tecnostress è necessario intervenire su abitudini e stili di vita: regolarizzare i ritmi sonno-sveglia, sconnettersi dalla rete ed imparare a godersi il mondo reale, uscire o leggere un buon libro, anziché navigare in continuazione sui social network, scaricare la tensione praticando attività sportiva o facendo una passeggiata giornaliera,  sfruttare al meglio la vita privata e sociale per ricaricarsi, passando momenti gratificanti in compagnia di familiari, amici e partner.

 

 

Tecnostress e dipendenza da internet

Strettamente collegata al tecnostress è la Dipendenza da Internet, conosciuta nella letteratura psichiatrica con il nome inglese di Internet Addiction Disorder (IAD): si tratta di una problematica collegata all’uso eccessivo di Internet, associato a comportamento irritabile ed umore negativo quando se ne è privati.

Il termine Internet Addiction Disorder venne coniato nel 1995 da Ivan Goldberg, psichiatra e docente alla Columbia University di New York; nel 1996 la psicologa statunitense Kinberly Young per la prima volta presentò un proprio lavoro sull’argomento a Toronto in occasione alla conferenza annuale dell’American Psycological Association dal titolo ‘Internet Addiction: The Emergence of a New Dosorder‘. La psicologa Kimberly S. Young (1996) parla di Pathological Internet Use (PIU) e descrive un’ossessione maladattiva all’uso di internet accompagnata da stress e difficoltà a scuola, lavoro, vita relazionale, con alterazioni del comportamento, disturbi dell’umore, fastidi fisici.

La Internet Addiction Disorder è una dipendenza comportamentale che racchiude in sé diverse forme e sottocategorie legate al mondo virtuale: dipendenza da videogiochi, dipendenza dalle relazioni interpersonali virtuali, giochi d’azzardo online, frequentazione di chat per soli adulti, ecc…

La maggior parte degli studiosi ritiene che un uso ossessivo di Internet e la conseguente alienazione dalla vita reale siano determinanti per l’instaurarsi di una situazione patologica che va a compromettere le attività quotidiane: lavoro, scuola, uscite sociali e, soprattutto, le relazioni affettive.

Le modificazioni psicologiche che si producono nell’individuo che diviene dipendente dalla rete sono innanzitutto la perdita delle relazioni interpersonali, poi le modificazioni dell’umore e le alterazione del vissuto temporale. La rete ha la potenzialità di sviluppare una dipendenza psicologica e di imporsi come sostituto della vita reale. Internet è come un grosso contenitore dal quale possiamo attingere moltissime informazioni, ma è anche un contenitore di emozioni: essa possiede caratteristiche allettanti, in particolare per quei soggetti con bassa autostima o con difficoltà relazionali.

I problemi che ne possono derivare sono di varia natura e si manifestano in diversi ambiti della sfera personale. Sia in ambito familiare, sia in ambito professionale i problemi si manifestano quando il soggetto aumenta progressivamente le ore di collegamento, diminuendo il tempo disponibile da dedicare alla famiglia e al lavoro. A questo punto o ci si riconnette con se stessi e con gli altri o si rischia di cadere nell’isolamento causato da tutto questo tecnostress.

FaceReader e la valutazione delle emozioni attraverso la lettura delle espressioni del volto

FaceReader, un recente strumento per la valutazione oggettiva delle emozioni, riconoscerebbe le espressioni facciali con un’accuratezza pari all’89%, anche se per alcune emozioni questa stima risulta essere più elevata, mentre per altre leggermente più bassa.

Giulia Pellegrinuzzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

 

La misurazione delle emozioni in psicologia

Nel campo della psicologia, nel corso del tempo, si sono fatti molti sforzi al fine di trovare una metodologia finalizzata alla misurazione degli stati emozionali. Negli ultimi anni molti ricercatori operanti in campi differenti hanno mostrato un profondo interesse nello sviluppo di strumenti per valutare le emozioni.

In generale è utile fare una distinzione tra gli strumenti di misura espliciti soggettivi verbali e quelli impliciti oggettivi non verbali.

I primi misurano la componente soggettiva dell’emozione, valutata attraverso questionari autosomministrati. Questi ultimi consentono di valutare un’ampia gamma di emozioni, compresi gli stati emozionali misti. Una problematica però a cui vanno incontro è legata al livello verbale su cui si focalizzano: le misure esplicite si basano sul linguaggio che differisce da una cultura all’altra.

Per far fronte a ciò e per misurare la componente oggettiva delle emozioni oltre a quella soggettiva, si utilizzano strumenti di misura di tipo implicito. Le misure implicite delle emozioni, rispetto a quelle esplicite soggettive, in generale possiedono un gran numero di vantaggi: sono obiettive, sono indipendenti dal linguaggio verbale e non sono troppo complicate da utilizzare (Zaman e Smith, 2006).

Gli strumenti di misura oggettivi degli stati emozionali possono misurare la componente fisiologica delle emozioni o quella espressiva. I primi si focalizzano sulla registrazione di parametri neurofisiologici, mentre i secondi si basano sulla valutazione del comportamento manifesto ove la componente espressiva dell’emozione è valutata oggettivamente attraverso strumenti che misurano l’espressione facciale. Le misure che si focalizzano su tali valutazioni, partono dal presupposto che le differenti emozioni siano correlate con specifiche configurazioni del volto.

Le emozioni di base quindi, ossia la sorpresa, la paura, il disgusto, la rabbia, la tristezza e gioia sono registrate da cambiamenti dei muscoli della fronte, delle sopracciglia, delle palpebre, delle guance, del naso, delle labbra e del mento.

 

 

Facereader: lo strumento per leggere le emozioni del volto umano

Tra gli strumenti di misura oggettivi principali utilizzati frequentemente in ambito di ricerca rientra ad esempio l’elettromiografia facciale (EMG), un’indagine strumentale di tipo neurofisiologico che misura l’attività dei muscoli facciali rilevando e amplificando gli impulsi elettrici generati dalle fibre muscolari quando si contraggono. Tale strumento è molto utilizzato nello studio delle emozioni, poiché in relazione alle sei emozioni fondamentali, genera un indice sensibile della valenza positiva/negativa delle reazioni affettive, anche se non ci dice nulla riguardo l’intensità di esse.

FaceReader, un recente strumento per la valutazione oggettiva delle emozioni, sembrerebbe ovviare tali limitazioni.

Tale strumento è stato recentemente sviluppato dalla VicarVision e dalla Noldus Information Technology in grado di leggere sul volto umano le sei emozioni di base e l’espressione di tipo neutrale. FaceReader nello specifico, riconosce le espressioni facciali con un’accuratezza pari all’89%, anche se per alcune emozioni questa stima risulta essere più elevata, mentre per altre leggermente più bassa (Den Uyl e van Kuilenburg, 2005). In particolare FaceReader classifica le emozioni di gioia, di paura e l’espressione neutra con una precisione rispettivamente del 97%, 93% e 96%, mentre identifica le espressioni di rabbia, tristezza, disgusto, sorpresa con un’accuratezza dell’80%, dell’85%, dell’88% e dell’85% (Terzis e Moridis, 2010). FaceReader è basato sul sistema di Ekman e Friesen che si basa sul presupposto che alle differenti emozioni primarie corrispondano specifiche configurazioni facciali (Zaman, Shrimpton-Smith, 2006).

 

 

I tre passaggi operativi del funzionamento di Facereader

FaceReader può classificare le espressioni del viso o dal vivo con l’utilizzo di una webcam, o indirettamente attraverso file video o immagini. Le espressioni facciali vengono valutate dal programma attraverso tre passaggi consecutivi.

Il primo passo nel riconoscimento delle emozioni è rappresentato dal cosiddetto ‘Face finding’. Per rilevare il volto, FaceReader si avvale di una combinazione di due algoritmi: l’algoritmo Viola-Jones (Viola e Jones, 2001) che viene utilizzato per rilevare la presenza del viso e la tecnica della ‘deformable template’ che stabilisce invece un inquadramento più accurato, includendo le informazioni riguardanti la rotazione del volto (Sung e Poggio, 1998).

Il passo successivo è il ‘Face modeling‘, una modellazione accurata del viso ottenuta utilizzando un approccio algoritmico basato sul metodo ‘active appearance’ (AAM) delineato da Cootes e Taylor nel 2000. L’AAM descrive la posizione di 55 punti chiave sul viso del soggetto esaminato e la struttura facciale dell’area circoscritta da questi punti. I punti chiave includono le parti che delimitano il volto e i tratti facilmente riconoscibili quali labbra, sopracciglia, naso e occhi. L’AAM però, non ci dà alcuna informazione per classificare l’espressione facciale, si limita a fornir informazioni sulla posizione e sulla forma globale del viso dell’individuo.

Il terzo e ultimo passaggio consiste nella ‘Face classification‘, ossia nella classificazione dell’espressione del viso vera e propria. Quest’ultima può essere ottenuta attraverso la formazione di una rete neurale artificiale (Bishop, 1995), costituita per classificare le sei emozioni primarie di Ekman e l’espressione neutra.

 

 

Avvertenze prima dell’utilizzo di Facereader

Prima di utilizzare FaceReader, in alcuni casi, è necessario calibrare lo strumento. Alcuni soggetti possono apparire, per esempio, sorpresi o tristi non perché stiano realmente esperendo condizioni di sorpresa o tristezza nell’attualità ma per loro natura, per la loro conformazione facciale specifica che presentano. La calibrazione fa sì che, dopo aver campionato le stime di intensità delle emozioni che compaiono sul volto del soggetto in questione, possa venir applicata una correzione. Tale processo è un procedimento del tutto automatico che permette di bilanciare le varie emozioni e di rimuovere la quota di errore legata all’individuo.

 

 

Calcolo dell’intensità e della valenza delle emozioni

Gli output di FaceReader consistono in un numero di tabelle e logfiles. Primariamente, lo strumento rileva le intensità delle emozioni che sono espresse sul volto del soggetto esaminato in uno specifico momento e le traduce in una tabella riassuntiva.

 

FaceReader e la valutazione delle emozioni attraverso la lettura delle espressioni del volto - TABELLA
Output di Facereader – esempio di tabella

 

Le espressioni del viso spesso esprimono più stati emotivi simultaneamente, di conseguenza è possibile che due o più emozioni compaiano presentando entrambe alti livelli di intensità.

L’intensità di ciascuna emozione è espressa con un valore compreso tra 0 e 1. Il valore 0 significa che l’emozione non è visibile nell’espressione facciale, 1 invece indica la completa presenza di essa.

FaceReader, al di là della valutazione dell’intensità delle singole emozioni, comunque, ne calcola anche la valenza. Quest’ultima indica se lo stato emotivo corrente del soggetto sia positivo o negativo. La gioia è l’unica emozione considerata interamente positiva, mentre la tristezza, la rabbia, la paura e il disgusto sono considerate negative. La sorpresa, invece, può essere considerata sia positiva che negativa.

Oltre alle espressioni facciali, FaceReader può fornire anche altre informazioni; per esempio è in grado di valutare se il soggetto analizzato sta tenendo aperti o chiusi gli occhi o la bocca e se le sopracciglia sono alzate o abbassate. Lo strumento inoltre, può analizzare, focalizzandosi su un modello tridimensionale del viso, la posizione della testa, l’orientamento generale dello sguardo e anche caratteristiche soggettive come il genere, l’età, l’etnia, o la presenza di barba, baffi o occhiali sul viso del soggetto. Le informazioni relative all’orientamento dello sguardo o della testa possono essere utili per valutare per esempio, l’impegno e l’interesse che il soggetto mostra per un particolare compito.

 

 

Limitazioni dell’utilizzo di Facereader

FaceReader presenta comunque un numero di limitazioni non trascurabili: non è uno strumento applicabile a bambini di età inferiore ai 3 anni o provenienti dalle regioni sud-orientali dell’Asia; il movimento del soggetto è limitato; le condizioni di illuminazione tali per cui lo strumento possa funzionare sono assai rigide, è necessario difatti che l’immagine abbia un contrasto sufficiente; il viso non dovrebbe essere nascosto nemmeno parzialmente; è analizzabile solo un soggetto alla volta ed infine non è possibile classificare individui con paralisi facciali. Lo strumento quindi può classificare le espressioni facciali correttamente solo se si ottiene una buona immagine video.

Per questo motivo FaceReader è dotato di una barra indicante la qualità dell’immagine che si è in procinto di analizzare. Bisogna far attenzione sia alla posizione della telecamera che all’illuminazione del viso del soggetto, tali elementi difatti sono di cruciale importanza per ottenere una classificazione delle espressioni affidabile.

 

Facereader e ricerca

Malgrado FaceReader possa essere utilizzato in differenti settori di ricerca, non sono molti i dati in letteratura che mostrano l’impiego di tale strumento.

Nel 2006 Zaman e Shrimpton-Smith, hanno svolto una ricerca con l’obiettivo di valutare l’accuratezza di FaceReader nella lettura delle emozioni. Ai partecipanti veniva chiesto di svolgere dei compiti al computer in un intervallo di tempo definito e uguale per tutti i soggetti. Al termine di ciascun compito veniva fatto compilare un questionario in cui si chiedeva di valutare su una scala a cinque punti l’emozione esperita. I soggetti, inoltre, durante l’esecuzione del compito, erano registrati con l’utilizzo di una telecamera. Dopo aver analizzato accuratamente i risultati, gli autori hanno concluso che FaceReader è uno strumento utile per registrare le emozioni, anche se è consigliabile utilizzarlo in combinazione con delle altre metodologie.

In tale ricerca, gli outcome di FaceReader non sembrano concordare con le risposte che i soggetti danno al questionario, probabilmente perché queste ultime sono maggiormente legate ad una considerazione sul contenuto caratterizzante il compito più che ad una riflessione su come si siano sentiti durante lo svolgimento di esso (Zaman e Shrimpton-Smith, 2006).

Anche un altro studio ancor più recente (Terzis et al., 2010) ha valutato l’efficacia di FaceReader. In tale ricerca hanno partecipato studenti universitari ai quali veniva chiesto di fare un test facoltativo di autovalutazione successivo ad un corso a cui avevano assistito. Ciascuno studente mentre svolgeva il test isolato in una stanza veniva registrato a sua insaputa da una telecamera. L’espressione facciale veniva registrata da FaceReader e valutata contemporaneamente da due ricercatori, che facevano delle stime riguardo l’emozione percepita dallo studente in questione. Lo scopo di tale studio era di valutare l’efficacia di FaceReader durante il test di autovalutazione compilato dallo studente e per perseguire tale fine i risultati di questo strumento sono stati comparati con le stime dei ricercatori.

Le analisi hanno mostrato che FaceReader è in grado di misurare le emozioni con un’efficacia pari all’87% e le emozioni che il programma riconosce meno facilmente sono la rabbia e il disgusto.

FaceReader è stato utilizzato anche in ambito educativo in uno studio pilota (Drape et al., 2009) che si è proposto di servirsene per valutare la risposta emotiva degli studenti a diverse tecniche di insegnamento. L’impiego di questo strumento quindi, avrebbe aiutato i ricercatori a determinare quali fossero le emozioni suscitate dagli insegnanti e che tecniche questi potessero usare per migliorare la loro didattica e il loro rapporto con gli studenti.

Un’ulteriore ricerca (Chentsova-Dutton e Tsai, 2010), il cui obiettivo è stato quello di studiare il ruolo che la cultura ha nelle risposte emotive degli individui, ha previsto l’impiego di FaceReader. Tale studio si è sviluppato in tre parti distinte. Nell’ultima parte in particolare, si sono mostrati a due gruppi, l’uno formato da americani di origine europea e l’altro da americani di origine asiatica, diversi film di connotazione emotiva differente e si sono registrate: le loro risposte fisiologiche, (la frequenza cardiaca, la conduttanza cutanea e la frequenza respiratoria) l’espressione facciale suscitata e l’emozione evocata. I risultati mostrano che durante la visione di immagini divertenti, emergono differenze culturali rispetto alle emozioni positive suscitate, sia nei questionari autosomministrati, che nell’espressione facciale registrata tramite FaceReader, che nelle risposte fisiologiche. Durante la visione di immagini tristi invece, si identificano differenze nei questionari autosomministrati ma non nelle reazioni emotive e fisiologiche.

Oltre alle ricerche menzionate, in altri studi si è impiegato FaceReader per valutare l’espressione facciale suscitata da particolari stimoli o durante l’esecuzione di specifici compiti (Truong et al., 2008; Melder et al., 2007, Grootjen et al., 2007), ma in letteratura non sono presenti dati relativi all’utilizzo dello strumento con campioni clinici.

In conclusione, FaceReader può rappresentare una valida alternativa rispetto agli altri strumenti impliciti di valutazione delle emozioni, tra i suoi innumerevoli vantaggi, difatti, consente di risparmiar tempo e risorse e di aumentare l’affidabilità della misurazione.

L’educazione montessoriana: caratteristiche ed effetti sulle funzioni cognitive nell’età infantile

Educazione montessoriana: Maria Montessori parla del bambino come di un embrione spirituale nel quale lo sviluppo psichico si affianca allo sviluppo biologico. Nello sviluppo psichico sono presenti dei periodi sensitivi, periodi specifici in cui il bambino è predisposto a sviluppare particolari capacità. Essa aveva una grande fiducia nello spontaneo interesse del bambino ad apprendere e studiò le condizioni necessarie perché ciò accadesse.

Maura Crivellenti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Gli effetti dell’educazione montessoriana sulle funzioni cognitive in età infantile

L’educazione montessoriana è nata in Italia oltre 100 anni fa. Nonostante i grandi cambiamenti storici avvenuti nell’ultimo secolo, oggi è ancora diffusa e apprezzata in tutto il mondo. Solo negli Stati Uniti ci sono oltre 4000 scuole, ma si trovano anche in India, in Canada, in Giappone, in Nuova Zelanda. In Europa sono numerose soprattutto in Germania, nel Regno Unito, in Irlanda, in Svezia, nei Paesi Bassi e in Italia, dove le scuole riconosciute sono circa un centinaio.

Maria Montessori fu la prima donna italiana a laurearsi in medicina, con una tesi in psichiatria. Nei primi anni della sua carriera si occupò dei bambini allora chiamati oligofrenici, bambini con insufficienza mentale. Si interessò a loro più dal punto di vista educativo che medico. Intraprese anche un viaggio verso Parigi, dove seguì gli insegnamenti di due medici, Jean Marc Itard ed Eduard Séguin, che si occupavano di bambini definiti “idioti”. Grazie anche alla loro esperienza si convinse sempre di più che per migliorare le condizioni di vita dei bambini oligofrenici, l’unico modo era quello di utilizzare l’educazione per potenziare le loro capacità mentali.

Dopo anni di studio, Maria Montessori aprì la prima Casa dei Bambini nel 1907, nel quartiere di San Lorenzo a Roma. Per la prima volta aveva la possibilità di occuparsi dello sviluppo dei bambini sani.
Da questo momento in poi, non solo svilupperà un metodo di osservazione scientifico dello sviluppo infantile, ma creerà anche materiali adatti a sviluppare competenze cognitive specifiche per ogni età, materiali che ancora oggi vengono utilizzati con grande successo nelle scuole Montessori di tutto il mondo.

 

Principi guida dell’ educazione montessoriana

Maria Montessori parla del bambino come di un embrione spirituale nel quale lo sviluppo psichico si affianca allo sviluppo biologico. Nello sviluppo psichico sono presenti dei periodi sensitivi, periodi specifici in cui il bambino è predisposto a sviluppare particolari capacità. Essa aveva una grande fiducia nello spontaneo interesse del bambino ad apprendere e studiò le condizioni necessarie perché ciò accadesse.

 

Il metodo Montessori

[blockquote style=”1″]Aiutami a fare da solo[/blockquote] è il più importante slogan della pedagogia montessoriana. Adulti ed educatori non devono sostituirsi al bambino. Maria Montessori aveva massima fiducia nell’interesse spontaneo del bambino e nel suo impulso naturale ad agire e a conoscere l’ambiente che lo circonda. Non un ambiente qualsiasi, ma un ambiente adatto e preparato scientificamente, che permetta al bambino di seguire la propria predisposizione, che sappia accendere il suo interesse ad apprendere, a lavorare, a costruire e a portare a termine un’attività: per questo Maria Montessori parla di auto-educazione. Il compito dell’adulto è quello di eliminare ciò che ostacola il disegno naturale dello sviluppo del bambino.

L’apprendimento è individualizzato, cioè focalizzato sul singolo bambino, cercando di rispettare gli specifici bisogni interiori di quel momento evolutivo, i suoi tempi e i suoi personali modi di apprendere. Questo è esattamente l’opposto delle scuole tradizionali, dove l’apprendimento è rivolto al gruppo, con tempi e modi stabiliti dall’adulto. Nell’educazione montessoriana non è il bambino che si adatta all’adulto, ma l’adulto che si adatta al bambino, nel rispetto dei suoi bisogni. Ogni azione dell’adulto è modulata per aiutare il singolo bambino, coinvolgendo contemporaneamente lo sviluppo fisico e psichico. Per questo motivo la didattica montessoriana viene chiamata psicogrammatica, psicoaritmetica, psicogeometria, ecc.

 

L’ambiente del metodo Montessori

L’ambiente deve essere adatto a soddisfare i bisogni naturali del bambino, ad accogliere bambini di età eterogenea e adatto al lavoro individuale e di gruppo.

[blockquote style=”1″]La scuola materna deve essere strutturata in funzione dell’autosviluppo del bambino, fornendo un ambiente accogliente e familiare in cui tutti i mobili e gli oggetti siano modellati sulle misure e sulle esigenze dei piccoli, i quali si organizzano da soli e si aiutano a vicenda. Non una scuola per i bambini, ma una scuola dei bambini.[/blockquote]

Il tipico ambiente montessoriano è uno spazio vivo, interamente posseduto e usato dai bambini. Per questo motivo ogni arredo deve essere a misura di bambino, in modo che anche gli oggetti riposti in esso siano fruibili senza l’intervento dell’adulto. Gli oggetti presenti devono essere i più veri possibile, cioè oggetti della vita di tutti i giorni e strumenti che funzionino davvero. Il gioco del “far finta” diventa significativo quando gli oggetti soddisfano il bisogno di fare e ciò significa anche rispettare le capacità del bambino.
È un ambiente molto ordinato e curato, in modo da essere invitante. L’atmosfera deve essere calma. Le voci dei bambini sono naturalmente controllate, perché le voci degli adulti non si alzano mai per gridare, chiamare a raccolta o per rimproverare.

 

Il materiale dell’educazione montessoriana

I materiali hanno lo scopo di regolare l’acquisizione graduale di capacità senso-motorie e sono stati costruiti unendo le esperienze di altri pedagogisti con le ricerche della stessa Montessori. Essi favoriscono lo sviluppo intellettuale del bambino e permettono l’autocorrezione.
Esistono diversi tipi di materiali:
-materiali per esercizi di vita pratica: perché nella Casa dei Bambini si svolge una vita vera e concreta, in cui tutte le mansioni domestiche sono affidate ai piccolini;
-materiali di sviluppo: altri oggetti che si prestano a uno sviluppo graduale dell’intelligenza che conduce alla cultura. Di questi fanno parte i materiali sensoriali (ad esempio: Torre Rosa, Aste della lunghezza, ecc.) e materiali didattici (linguaggio, aritmetica, ecc.).
Particolare interesse è stato rivolto al materiale sensoriale, che permette di dare ordine e chiarezza all’enorme quantità di “impressioni” che il bambino ha “assorbito” da 0 anni ai 2 anni e mezzo. Il bambino ha bisogno di mettere ordine e chiarezza.

Le caratteristiche che contraddistinguono questi materiali sono:

-Astrazioni materializzate: ogni concetto (grande-piccolo; pesante-leggero) è comprensibile grazie all’isolamento di una singola qualità.
-Gradualità: ogni gruppo di oggetti rappresenta la medesima qualità con gradazioni matematicamente stabilite tra un oggetto e l’altro.
-Contrasti: ogni gruppo di oggetti ha agli estremi il massimo e il minimo della serie.
-Estetica: gli oggetti devono essere attraenti.
-Spinta all’attività: l’oggetto per come è fatto stimola interesse nel bambino ma anche un’attività, ad esempio riconoscere, appaiare, graduare, fare combinazioni.
-Controllo dell’errore: ogni materiale è costruito in modo tale che abbia il controllo dell’errore già insito nel materiale, così il bambino potrà correggersi autonomamente. Questo conduce il bambino anche ad accompagnare i suoi esercizi con la critica e il ragionamento.
-Limiti: il materiale è limitato in quantità. Vi è una sola versione di ogni materiale.
-Precisione: le parole utilizzate dall’insegnante durante la presentazione di ogni materiale devono essere precise.

 

La libera scelta

L’ambiente montessoriano è studiato per suscitare nel bambino curiosità. Il bambino potendo scegliere di dedicarsi a ciò che desidera, lavorerà con sincera motivazione e interesse. Questo rende il processo di apprendimento molto più efficiente.
[blockquote style=”1″]La maestra presenta ora l’uno ora l’altro materiale, secondo l’età del bambino e secondo la progressione sistematica degli oggetti. Ma tale presentazione non è che un primo atto, che serve a far conoscenza. Secondo le attrattive varie, il bambino andrà scegliendo spontaneamente qualcuno tra gli oggetti di cui ha fatto conoscenza, già presentati.[/blockquote]

 

L’indipendenza

Non si può essere liberi se non si è indipendenti. Un’azione pedagogica efficace sui bambini deve essere quella di aiutarli a crescere sulla via dell’indipendenza.
[blockquote style=”1″]Tutto quanto è aiuto inutile, è impedimento allo sviluppo delle forze naturali.[/blockquote] Spesso gli adulti quando vedono un bambino in difficoltà tendono a fare al posto loro. Per l’adulto è più facile compiere l’azione al posto del bambino, piuttosto che fermarsi e fargli vedere come fare. In questo modo però il bambino non apprende e non sviluppa un senso di competenza.
[blockquote style=”1″]L’uomo che fa da sé concentra le forze sulle proprie azioni, conquista se stesso, moltiplica il suo potere e si perfeziona. Bisogna fare delle generazioni future uomini potenti, cioè indipendenti e forti.[/blockquote]

 

L’educatore montessoriano

L’insegnante è colui che veicola conoscenza e metodo di lavoro, cura gli spazi e li organizza con gli strumenti necessari alle attività autoeducative del bambino.
Il ruolo dell’insegnante per Maria Montessori perde di centralità e assume un ruolo di aiuto e facilitazione, organizzazione e osservazione della vita psichica e sociale del bambino. Il bambino viene guidato dall’insegnante nella scoperta dell’uso del materiale di sviluppo, creando una relazione ricca di affetto e stima reciproca. La maestra inoltre non è mai chiamata a giudicare!
[blockquote style=”1″]La maestra deve spiegare l’uso del materiale. Essa è un punto di collegamento tra il materiale e il bambino. La maestra facilita e chiarisce al bambino il lavoro attivissimo e continuo: scegliere gli oggetti ed esercitarsi con essi.[/blockquote]

La maestra deve conoscere bene il materiale e tenerlo di continuo presente in mente. Deve apprendere con esattezza la tecnica (sperimentalmente determinata e non casuale e soggettiva) della presentazione del materiale e seguire il bambino per guidarlo in modo efficace. Il ruolo dell’insegnante non riduce l’educazione a semplice spontaneismo. L’insegnante deve lasciare liberi i bambini solo quando avranno compreso l’uso del materiale e le regole della scuola.

 

Le regole nel metodo Montessori

Libertà non significa assenza di regole! Questo è uno dei più frequenti luoghi comuni sulle scuole montessoriane. Le regole però devono essere chiare e condivise, rispettate da adulti e bambini. Inoltre, devono essere discusse, comprese e non vissute come un’imposizione dall’alto, poiché permettono a tutti di vivere serenamente. Alcune regole riguardano ad esempio il tono della voce, il modo di muoversi nella stanza, le buone maniere a tavola, l’uso del bagno e dello spogliatoio…
Anche il materiale ha precise regole. Ciascun oggetto ha un luogo determinato. Il bambino può prendere un materiale soltanto dal luogo in cui è posto e una volta terminato di usarlo deve rimetterlo al suo posto, nella stessa condizione in cui l’ha preso. Chiunque inizi un lavoro deve concluderlo fino alla fine, per rispetto dell’ambiente e delle regole che lo dirigono. Nessun bambino può cedere il proprio materiale a un compagno, né prenderlo da lui. Questo permette di eliminare la competizione. L’oggetto che non è al suo posto non può essere preso e se il bambino lo desidera intensamente non può far altro che aspettare e pazientare che il suo compagno abbia finito di usarlo e l’abbia riposto nell’apposito spazio.

 

Educazione dei movimenti

Il movimento è essenziale per la vita. Secondo Maria Montessori l’educazione dei movimenti è inscindibile dalla più ampia educazione del bambino. I bambini piccoli hanno un bisogno irresistibile, naturale, di muoversi: l’educazione dei movimenti è un aiuto a spendere meglio le energie. Per questo motivo occorre inserire l’educazione muscolare nella vita pratica quotidiana dei bambini.
Ogni azione complessa ha movimenti successivi ben distinti tra loro: un atto segue all’altro. Cercare di riconoscere e di eseguire esattamente e separatamente quegli atti successivi è l’analisi dei movimenti.
[blockquote style=”1″]L’analisi dei movimenti va unita all’economia dei movimenti: non eseguire nessun movimento superfluo allo scopo è il grado supremo della perfezione. [/blockquote]Nelle Case di Bambini sono previsti diversi esercizi per l’analisi dei movimenti come quello del travasare, del vestirsi, dello spogliarsi, dello sfogliare un libro…

 

Gli studi sull’efficacia dell’educazione montessoriana

Nonostante la grande diffusione del metodo, gli studi che hanno analizzato l’impatto che l’educazione montessoriana ha sullo sviluppo infantile non sono molti. Gli studi esistenti presentano inoltre un quadro misto di risultati: alcuni mostrano risultati migliori di quelli di altri programmi, alcuni mostrano risultati simili e altri ancora addirittura peggiori. Un recente studio svolto nel 2012 negli Stati Uniti, con 172 bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni, ha dimostrato che la spiegazione di questi risultati contrastanti risieda nella fedeltà con cui viene applicato il metodo, cioè quanto il programma educativo sia aderente a quello originale studiato da Maria Montessori. Questa ricerca ha dimostrato che quanto più il programma era aderente con quello riconosciuto dall’AMI, l’Associazione Montessori Internazionale che ancora oggi ha il compito di supervisionare la rigorosità della formazione Montessori in tutto il mondo, migliori erano i risultati, rispetto ai programmi che integravano l’educazione montessoriana con attività tradizionali e programmi più convenzionali (non Montessori). I migliori risultati ottenuti dai bambini che seguivano un’educazione montessoriana classica, cioè fedele all’originale, riguardano le funzioni esecutive, la lettura e il vocabolario, la matematica e il problem solving sociale. Questi risultati sono molto importanti, perché vantaggi in queste aree predicono un miglior successo scolastico e migliori relazioni sociali.

 

Le funzioni esecutive nel metodo Montessori

Il miglior risultato è stato riscontrato nelle funzioni esecutive. Per funzioni esecutive si intendono quei processi necessari a programmare, a mettere in atto e a portare a termine con successo un comportamento finalizzato a uno scopo.
I punteggi dei bambini che seguivano un’educazione montessoriana classica erano molto più alti, rispetto a quelli dei bambini che seguivano un’educazione montessoriana integrata o non tradizionale. Avere delle forti competenze nelle funzioni esecutive in età prescolare comporta migliori competenze sia dal punto di vista didattico, che sociale, questo perché tali capacità sono viste come la chiave che permette di ottenere una migliore preparazione scolastica, oltre che un miglior successo nella vita.

I materiali montessoriani sviluppano appunto queste capacità. Ne è un esempio la Torre Rosa, un materiale che viene presentato in età prescolare alla Casa dei Bambini, dai 3 anni in poi. Questo materiale è costituito da 10 cubi rosa di dimensione crescente, ognuno di 1 cm più grande rispetto al precedente.

La presentazione prevede che il materiale venga disposto in modo sparso su un tappeto e debba essere ricomposto mettendo in ordine i blocchi, dal più grande al più piccolo, ricreando appunto una torre. Per fare questo il bambino deve pianificare. Inoltre, ogni volta che il bambino sceglie un cubo, deve farlo mettendolo a confronto con gli altri disposti sul tappeto per escludere che non ci sia un altro cubo tra quello scelto e l’ultimo posizionato. Questa fase richiede l’utilizzo della memoria di lavoro.

In terzo luogo, è necessario che il bambino inibisca la tentazione di scegliere il blocco più vicino a lui, in favore di quello corretto (inibizione della risposta) e, quarto, deve porre grande attenzione a come colloca i cubi uno sopra l’altro, in modo che la torre risulti simmetrica (controllo del movimento). Una volta portato a termine il compito, dovrà riporre nell’ordine corretto i blocchi sullo scaffale dove il materiale era riposto inizialmente, richiedendo flessibilità e reversibilità.

Utilizzando dei semplici cubi le cose vanno diversamente, perché con essi si può fare qualsiasi cosa senza avere per forza un piano di insieme, senza mettere cioè in relazione i blocchi gli uni con gli altri. Inoltre, in alcune scuole materne può non esserci la regola di rimettere a posto il materiale subito dopo l’utilizzo. Spesso esiste un momento specifico a fine giornata per riordinare e non è comunque detto che il riordino preveda un ordine preciso. E’ più probabile che venga richiesto di riporli in modo casuale dentro una scatola o un cestino. Queste differenze comportano appunto un minor utilizzo delle funzioni esecutive e spiegherebbe i migliori risultati dei bambini che seguono un’educazione montessoriana, dove tutti i materiali hanno queste specifiche caratteristiche.

 

Lettura e vocabolario

Anche nelle capacità di lettura e di vocabolario i bambini che frequentavano programmi montessoriani classici hanno mostrato punteggi migliori, anche se non così importanti quanto quelli delle funzioni esecutive. I punteggi erano comunque il doppio rispetto agli altri due gruppi con cui sono stati confrontati.

I motivi che spiegano tali risultati possono essere rintracciati ancora una volta nei materiali utilizzati nell’educazione montessoriana per insegnare la scrittura e la lettura e al fatto che tali bambini li utilizzassero più frequentemente rispetto agli altri gruppi di confronto.
Nelle scuole montessoriane i bambini familiarizzano con le lettere e i suoni ancora prima di saper leggere. Vengono utilizzate infatti le lettere smerigliate (fatte di carta vetrata) che il bambino tocca nel senso della scrittura e contemporaneamente ne pronuncia il suono. Inoltre comincia a mettere insieme i suoni attraverso l’utilizzo di lettere mobili (alfabetario mobile) per comporre parole che inizialmente non vengono corrette, perché si tratta di un puro e semplice esercizio di scoperta.

È stato dimostrato che il movimento che il bambino fa nel ripassare le lettere smerigliate, fatto con l’utilizzo di due dita e non di una, favorisce un miglior apprendimento, perché stimola anche la memoria muscolare.
Rispetto al vocabolario più ampio, probabilmente hanno un importante ruolo le nomenclature Montessori, cioè schede con immagini da abbinare a cartellini con il nome corrispondente. Nei programmi educativi che usano materiali montessoriani abbinati ad altri esercizi supplementari è probabile che vedano i bambini meno impegnati con gli esercizi di nomenclatura. Questo spiegherebbe i punteggi inferiori rispetto ai programmi montessoriani classici.

 

Matematica

I bambini che seguivano un’educazione montessoriana hanno mostrato punteggi maggiori nei compiti di matematica usati nella ricerca, confermando risultati già evidenziati in precedenti ricerche.
I migliori risultati in questi compiti sono spiegati dalla raffinatezza con cui sono stati pensati i materiali montessoriani di matematica, che riescono a rendere concreto ogni concetto aritmetico, sviluppando anche il ragionamento.

 

Problem solving sociale

I bambini che hanno frequentato un’educazione montessoriana hanno mostrato strategie più mature nella gestione del problem solving sociale, in particolare quelli che riguardavano il senso di giustizia e quelli in cui era prevista la presa in considerazione degli obiettivi di un’altra persona. Per esempio, erano più propensi a utilizzare strategie in cui offrivano o proponevano qualcosa per ottenerne un’altra (“Posso guardare quel libro mentre tu guardi un altro libro che potrebbe piacerti?”, “Possiamo fare dei turni da dieci minuti ciascuno per vedere lo stesso libro?”). La spiegazione del vantaggio nell’utilizzo di queste strategie rispetto ai bambini che seguono programmi tradizionali potrebbe risiedere nel fatto che essi abbiano a disposizione una sola serie di materiali montessoriani, creando così situazioni frequenti in cui è necessario risolvere conflitti per le risorse limitate.
La letteratura riporta che una buona competenza sociale in età prescolare è associata a migliori risultati in campo accademico e sociale. Questo risultato quindi sembra avere un significato pratico molto importante.

 

Conclusioni

Questi risultati sono molto importanti per i genitori che si apprestano a fare delle scelte scolastiche.
Esiste però una scarsità di studi in letteratura in questo ambito, in contraddizione alla crescente tendenza a scegliere un’educazione montessoriana.
Questi nuovi risultati potrebbero fungere da stimolo per nuove ricerche e promuovere una migliore comprensione dello sviluppo cognitivo nei bambini in contesti educativi montessoriani, perché suggeriscono che alcuni elementi dell’educazione montessoriana classica in età prescolare sono particolarmente utili per lo sviluppo infantile.

Inoltre, i programmi convenzionali potrebbero essere migliorati introducendo modalità montessoriane, come la pratica, l’uso di materiali tattili per l’inizio della lettura e attività che esercitino le funzioni esecutive.
L’ importanza di questa ricerca riguarda anche la formazione di educatori e insegnanti. L’attuazione di un programma a un alto livello di fedeltà richiede una profonda preparazione, che può richiedere anche anni di studio.
Gli insegnanti che comprendono appieno i vantaggi offerti da questo tipo di programma educativo però, dovrebbero essere meno propensi a cercare di integrare i materiali montessoriani con altri che non lo sono.

Nella ricerca in esame sono state individuate anche differenze nello stile educativo nei genitori dei bambini. Non si può escludere infatti che i genitori attratti dall’educazione montessoriana abbiano caratteristiche differenti rispetto ai genitori che non lo sono. Si sa infatti che i genitori hanno una grande influenza sul percorso di crescita del figlio e per ovvie ragioni i geni, seppur importanti, interagiscono con l’ambiente domestico con cui sono a contatto.

Le future ricerche dovrebbero esaminare quali aspetti dell’educazione montessoriana classica sono più importanti per spiegare i vantaggi evidenziati dai bambini. Potrebbe essere ad esempio che gli insegnanti che scelgono di non integrare il programma con materiali supplementari, interagiscano anche in modo differente con i bambini. Alcuni studi hanno dimostrato infatti che l’interazione dell’insegnante, come ad esempio il calore e la sensibilità, correla positivamente con il successo dei bambini.

Sebbene questa ricerca abbia dei limiti e i risultati necessitino di essere ulteriormente approfonditi, una cosa è chiara, al di là della fedeltà del programma, l’educazione montessoriana merita maggiore attenzione visti gli indiscussi vantaggi cognitivi e sociali che determina già dall’età prescolare.

ALLEGATO

L’approccio psicoanalitico e socioanalitico allo studio delle organizzazioni

Le organizzazioni sul lettino: Kenneth Eisold a Milano

Venerdì 22 aprile all’Università Cattolica di Milano, seminario del Centro Milanese di Psicoanalisi: il grande psicoanalista e consulente americano presenta le sue ricerche sulle Group Relations

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Venerdì 22 aprile 2016 si terrà il seminario L’approccio psicoanalitico e socioanalitico allo studio delle organizzazioni, organizzato dal Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore. L’incontro si svolgerà presso la Cripta Aula Magna dell’Università Cattolica, in Largo Gemelli 1, dalle 9.30 alle 17.30.
La giornata è dedicata allo studio del funzionamento delle organizzazioni, dal punto di vista della psicoanalisi, secondo i modelli di Group Relations del metodo Tavistock. Istituzioni, scuole, ospedali, aziende possono migliorare efficienza e qualità delle relazioni di lavoro, ma devono prima di tutto prendere consapevolezza di ciò che non funziona.

Al seminario interverrà tra gli altri Kenneth Eisold, importante psicoanalista e consulente statunitense, autore di libro, What You Don’t Know You Know: Our Hidden Motives in Life, Business, and Everything Else (Other Press, 2010), in cui esplora il ruolo preponderante dell’inconscio nella nostra vita di tutti i giorni, pubblica e privata. A questo proposito, Eisold parla di un “nuovo inconscio”, guidato dalle identità che assumiamo, dai gruppi di appartenenza, dalle idee che ereditiamo e dalla lingua che parliamo – più in generale, di tutti quegli elementi che conferiscono una struttura e un significato al nostro mondo.

Interverranno Sergio Astori, Domenico Bodega, Carlo Albino Bosio, Kenneth Eisold, Anna Ferruta, Giovanni Foresti, Franca Fubini, Ronny Jaffé, Cesare Kaneklin, Mario Marinetti, Luca Mingarelli, Enrico Molinari, Osmano Oasi, Mario Perini, Antonio Samà, Giuseppe Scaratti.

 

INFORMAZIONI PRATICHE

L’ingresso è libero. Per informazioni:
www.cmp-spiweb.it | [email protected]

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Il modello cognitivo come base teorica del protocollo di Fairburn per la bulimia – Magrezza non è bellezza Nr. 9

Il modello cognitivo dei disturbi alimentari si è affermato negli anni Ottanta del secolo scorso, imponendosi progressivamente come il migliore, quello con maggiore capacità esplicativa e in grado di fornire una prassi clinica e terapeutica efficace.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA -I DISTURBI ALIMENTARI: Il trattamento di Fairburn per la bulimia: le basi teoriche (Nr 9)

 

Assunti del modello cognitivo

Il modello cognitivo ha tre assunti teorici fondamentali (Dobson, 2000): a) l’attività cognitiva influenza il comportamento; b) l’attività cognitiva può essere monitorata e modificata; e c) il cambiamento desiderato del comportamento può essere facilitato attraverso il cambiamento cognitivo.

Il modello cognitivo concepisce l’attività mentale come elaborazione d’informazioni. Attenzione: elaborazione consapevole e non inconscia. Quando la terapia cognitiva sostiene che l’elaborazione mentale può sostenere il cambiamento emotivo, intende proprio la gestione cosciente e volontaria delle informazioni. Gli stati mentali cognitivi sono dunque consapevoli, verbalizzabili e comunicabili ad altri.

 

Differenze tra modello cognitivo e modello psicoanalitico

Può sembrare una banalità, ma gli altri modelli clinici e psicologici non hanno sottolineato con altrettanta forza che il modo più semplice ed esplicativo per comprendere la mente è concepirla come un elaboratore di informazioni.

Il modello psicoanalitico e poi psicodinamico concepiscono la mente come campo di scontro di istinti e pulsioni in conflitto. È vero che l’Io in Freud svolge una funzione cognitiva di elaborazione dell’informazione e regolazione degli istinti, ma in questa sua funzione cognitiva l’Io appare debole, fragile.

Inoltre, a differenza del modello cognitivo, la terapia psicoanalitica e psicodinamica sembra suggerire che il cambiamento terapeutico avviene non solo per elaborazione cosciente ma anche attraverso un meccanismo inconsapevole di apprendimento nella relazione terapeutica. Analoghe considerazioni si possono fare per il modello sistemico/familiare, che sottolinea la funzione curativa dei modelli relazionali.

Naturalmente, queste differenze sono in parte forzate. I modelli cognitivi più evoluti non negano né l’esistenza di processi di esecuzione automatica degli stati emotivi, né un certo grado di elaborazione inconsapevole. Anche il ruolo del pensiero cosciente è stato in parte ridimensionato da controllore attivo a regolatore degli stati emotivi. Tuttavia, nella terapia cognitiva si continua ad attribuire un ruolo preminente e caratterizzante all’elaborazione cosciente.

 

Il modello cognitivo dei disturbi alimentari

Il modello cognitivo dei disturbi alimentari si è affermato negli anni Ottanta del secolo scorso, imponendosi progressivamente come il migliore, quello con maggiore capacità esplicativa e in grado di fornire una prassi clinica e terapeutica efficace.

Nel 1981 Christopher Fairburn pubblicò un protocollo dettagliato di cura per la bulimia che stimolò la diffusione del trattamento cognitivo nei servizi pubblici e privati dei paesi occidentali. La diffusione del modello cognitivo rese possibili studi di efficacia su campioni molto estesi e i risultati furono confortanti (Fairburn, 1985; Fairburn, Cooper, 1989). Il protocollo di Fairburn era specifico per la bulimia. Questa specificità non è un dettaglio, e occorrerà tornarci sopra per riflettere su alcuni limiti di quel modello terapeutico. Ma per ora vediamone i punti di forza, facendo un piccolo passo indietro.

 

I punti di forza del modello cognitivo

La terapia cognitiva aveva fatto la sua comparsa negli anni Cinquanta del secolo scorso grazie alle riflessioni cliniche di Albert Ellis. Nato nel 1913 a Pittsburgh, Ellis aveva cominciato la sua carriera di terapeuta come psicoanalista, formandosi nel prestigioso Karen Horney Institute di New York. Iniziata nel 1949 la pratica terapeutica, dopo qualche tempo Ellis cominciò ad essere insoddisfatto. La tecnica psicoanalitica consisteva nell’attendere il flusso verbale libero del paziente, mantenendo un atteggiamento rigorosamente neutro, anche quando il paziente restava in silenzio. In quei casi – racconta Ellis – calavano lunghi e insopportabili silenzi, a cui il paziente poteva anche reagire con fastidio, rivolgendo frasi pungenti al terapeuta. Questi atteggiamenti del paziente andavano interpretati come una resistenza al cambiamento, risposta che, peraltro, rientrava nell’ortodossia psicoanalitica. Talvolta il paziente rimaneva convinto, talaltra no.

Chi non era per niente convinto era proprio Ellis che pensò bene di elaborare una tecnica meno ortodossa. Una tecnica non proprio del tutto originale ma già utilizzata da molti psicoanalisti come una variante della psicoanalisi pura, in cui l’analista aveva un atteggiamento più attivo e meno focalizzato sul passato e sull’infanzia del paziente, e più attento all’analisi e al trattamento della sofferenza emotiva quotidiana. L’intuizione di Ellis fu quella di sviluppare una tecnica alternativa dotata di una sua dignità e di una sua base teorica. La nuova tecnica, che Ellis battezzò rational therapy nel saggio ‘New approches to psychoterapy techniques‘ (1955), privilegiava l’esplorazione dei pensieri consapevoli che, per Ellis, precedono la manifestazione degli stati di sofferenza psicologica.

Questi pensieri, che secondo Ellis sono coscienti e non inconsci, si presentano in forma di valutazioni automatiche che vengono accettate acriticamente dalla persona che soffre. La rapidità e l’automaticità di questi pensieri fa sì che il paziente non sappia considerarli con distacco nel loro contenuto (eventualmente) disfunzionale e disadattivo.

Ellis insomma, diversamente altri indirizzi teorici della psicologia – non solo la psicoanalisi, ma anche il comportamentismo – che concepivano la sofferenza mentale come uno stato appreso in una condizione di inconsapevolezza e di pensiero irriflesso, sostiene che la sofferenza mentale dipenda da elaborazioni verbali esplicite che il soggetto si autoinfligge non inconsapevolmente (ma con un certo automatismo), dandone per scontati il valore di verità e la fondatezza razionale.

Le convinzioni di Ellis ebbero immediate ricadute sulla tecnica. Per Ellis, infatti, è possibile aiutare il paziente a padroneggiare in maniera attiva le sue sofferenze emotive e i suoi comportamenti patologici incoraggiandolo a riflettere a quali scopi e obiettivi consapevoli corrispondono, come se si tratti di pensieri intenzionali.

Ad esempio, si ha paura perché si ritiene che ci sia un pericolo. E questo vale anche per la preoccupazione patologica che si prova nelle fobie e nei disturbi d’ansia. Perché si prova ansia? Di cosa ci si preoccupa? Cosa si teme? Per Ellis, e in seguito per Beck, è possibile chiarire le ragioni di qualsiasi emozione, anche quella apparentemente più infondata e illogica, da intendere non come una forza irrazionale e insensata, ma come un nostro stato intenzionale volto a uno scopo.

La terapia di Ellis assume definitivamente la denominazione di cognitiva negli anni Sessanta con lo psicoanalista Aaron T. Beck. Anche Beck rovescia il principio psicoanalitico di considerare i sintomi il risultati di elaborazioni inconsce radicate nel passato, proponendo invece di concepirli come il frutto di errori cognitivi legati alle situazioni presenti.

La terapia cognitiva, nella formulazione di Beck, viene descritta in termini molto precisi, procedure dettagliate e formalizzate di psicoterapia per disturbi specifici, da applicare come se si trattasse di farmaci. E come per i farmaci, fu verificata la loro efficacia, che risultò spesso significativa. Si dimostrò empiricamente che il modello cognitivo era in grado di diminuire il grado di sofferenza emotiva nella depressione e nell’ansia (Beck et al. , 1979; Beck et al. , 1985), nel disturbo di panico (Clark, 1986), nella fobia sociale (Clark, Wells, 1995), nel disturbo post-traumatico da stress (Elhers, Clark, 2000), nel disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985) e nei disturbi alimentari (Fairburn et al. , 1999).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

 

Maternity blues e depressione post partum: quali differenze?

La condizione di maternity blues è anche detta sindrome del terzo giorno, vi è un’incidenza tra il 50 – 80% ed emerge tipicamente 2-3 giorni dopo il parto per poi scomparire entro un decina di giorni circa.

 

Per effettuare diagnosi di maternity blues occorre sapere che il suo decorso è transitorio e reversibile, determinato dalla brusca caduta dei livelli estroprogestinici, e che tende alla risoluzione spontanea all’interno di una settimana/10 giorni.

 

Sintomi del maternity blues

Tra i sintomi caratteristici del maternity blues troviamo:

  • Deflessione timica di grado lieve
  • Sentimenti di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo di madre
  • Labilità emotiva (crisi di pianto)
  • Disforia (irritabilità)
  • Ansia
  • Insonnia

Nelle donne affette dal maternity blues è stato riscontrato, rispetto alle madri non affette, un rischio di sviluppare depressione post partum di 3.8 volte maggiore e un rischio di 3.9 volte maggiore di manifestare una patologia dello spettro d’ansia.

Bisogna dunque prestare attenzione al riconoscere le donne con maternity blues ed effettuare un controllo a distanza di un mese per valutare l’andamento dei sintomi e la loro evoluzione.

Fattori di rischio per l’arrivo di una maternity blues sono una anamnesi familiare positiva per disturbi psichiatrici.

 

 

Come si tratta il maternity blues?

Il maternity blues è una condizione che scompare da sola, quello che si può comunque fare per il benessere di mamma e bambino è di sostenerli, dare alla mamma la possibilità di sfogare i propri sentimenti e le paure, sostenerla e ascoltarla. Inoltre risulta essere molto efficace il contatto pelle a pelle col neonato. Pertanto bisogna informare, rassicurare e supportare. Infatti sebbene la sintomatologia sopra esposta possa essere dolorosa, non si riflette sulle capacità della mamma di prendersi cura di sé e del proprio bambino.

E’ importante fornire indicazioni alle dimissioni dal parto circa l’assetto di vita, possibilmente da promuovere nei primi mesi dopo il parto, in modo particolare per quelle neomamme che hanno nella loro storia dei fattori di rischio per una depressione post partum:

  • Un sonno adeguato per quantità e qualità;
  • Eliminazione di caffeina, nicotina ed altro;
  • Riduzione degli stress psicosociali;
  • Indicazioni al rilassamento del corpo.

Il campanello di allarme deve quindi accendersi quando viene compromessa troppo la funzionalità psico-fisica e sociale della donna ed in quel caso parliamo di depressione post partum.

 

 

Differenze con la depressione post partum

La depressione post partum invece, si distingue innanzi tutto dal fatto che lo stato di umore alterato dura molto di più di 10 giorni, la mamma tende a non rasserenarsi, continua ad essere nervosa, irritabile, triste o non volersi occupare del bambino, avere disturbi del sonno o dell’alimentazione per più di due settimane. A volte la depressione inizia a manifestarsi anche tre, quattro mesi dopo il parto.

Spesso si riscontra un’anamnesi psicopatologica positiva per depressione, disforia premestruale, eventi di vita stressanti, scarso adattamento sociale e sentimenti ambivalenti, modalità ansioso-depressive durante la gravidanza.

La depressione post partum si può manifestare a diversi livelli di gravità: Lieve, Moderata, Grave. Per ciascun livello di gravità cambiano le modalità di presa in carico.

La valutazione dei fattori di rischio e della gravità psicopatologica è fondamentale per costruire percorsi di cura personalizzati (es.: valutazione del rischio di atti auto ed etero lesivi).

La depressione ha comunque in ogni caso un impatto sulla donna, sul bambino, sul partner, sulla coppia e sulla relazione madre-bambino

Per effettuare diagnosi di depressione postpartum bisogna valutare la presenza dei seguenti sintomi:

  • Umore depresso
  • Anedonia perdita della capacità di provare piacere
  • Modificazione peso e/o appetito
  • Alterazione del sonno (aumento/riduzione tempi di sonno)
  • Astenia: affaticabilità o mancanza di energie
  • Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccesivi o inappropriati (che possono essere deliranti), quasi tutti i giorni (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per il fatto di essere ammalato/a)
  • Riduzione della concentrazione
  • Pensieri ricorrenti di morte e/o progettualità di suicidio
  • Agitazione / rallentamento psicomotorio

Per formulare diagnosi devono essere esserci almeno 5 dei sopra-elencati sintomi, presenti e persistenti per almeno due settimane per quasi ogni giorno (questi sono i criteri diagnostici del disturbo depressivo maggiore), con esordio nel Post partum (durante la gravidanza o nelle 4 settimane successive al parto).

Il 50% degli episodi depressivi maggiori nel post partum inizia prima del parto pertanto questi episodi sono definiti peripartum. Le donne con episodi depressivi maggiori peripartum spesso presentano anche grave ansia e attacchi di panico.

Studi prospettici hanno dimostrato che i sintomi dell’umore e dell’ansia durante la gravidanza, così come il baby blues o maternity blues aumentano il rischio per un episodio depressivo maggiore post partum.

 

 

Approfondimento dei sintomi

Le donne possono presentare un’ideazione depressiva rispetto al proprio ruolo materno che si esprime con:

  • Percezione di esser incapaci di prendersi cura del figlio
  • Paura ed insicurezza nella gestione del bambino
  • Sentimenti ambivalenti o negativi verso il figlio
  • Percezione di isolamento dal contesto familiare

Vi sono poi altri elementi rilevanti nella depressione postpartum grave:

  • Le madri possono spesso riportare pensieri o immagini intrusive ed ossessive rispetto a fare del male al loro bambino.
  • Sentimenti di colpa o di vergona possano portare la madre a non esprimerli né con la famiglia né con i professionisti e quindi non raggiungere un intervento di aiuto.
  • Tali pensieri ossessivi sono intrusivi ed egodistonici, pertanto quando si riconosce un pensiero ossessivo è importante inviare la donna dallo specialista psichiatra per raggiungere una diagnosi corretta del quadro clinico e la cura più adeguata.

 

 

Quale trattamento per la depressione post partum?

Oltre all’atteggiamento di calore, sostegno e accoglienza, è importante rivolgersi ad uno specialista che provvederà a prendersi cura della mamma attraverso un sostegno o una terapia adeguata al caso specifico, come la Terapia cognitivo-comportamentale che prevede interventi di tipo individuale o di gruppo allo scopo di insegnare un modo alternativo di pensare e di agire.

Lo scopo è quello di identificare i pensieri disfunzionali e le emozioni conseguenti ad essi con l’obiettivo di introdurre pensieri alternativi che modifichino lo stato emotivo ed i comportamenti della paziente.

Le caratteristiche di questo orientamento sono:

  • pratica e concretezza;
  • focalizzazione sulla risoluzione di problemi psicologici concreti centrata sul “qui ed ora”;
  • breve termine;
  • orientamento allo scopo;
  • ruolo attivo: sia il paziente che il terapeuta giocano un ruolo attivo, il terapeuta cerca di insegnare al paziente ciò che si conosce sui suoi problemi e sulle possibili soluzioni ad essi.

Il paziente lavora anche al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica le strategie apprese in terapia svolgendo dei compiti che gli vengono assegnati di volta in volta. Associate al trattamento cognitivo comportamentale, molto utili risultano essere, in caso di depressione post partum, anche le tecniche di rilassamento come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.

Disortografia evolutiva: caratteristiche cliniche e trattamento

La disortografia evolutiva è descritta come una difficoltà di apprendimento relativa all’espressione scritta, caratterizzata da prestazioni notevolmente al di sotto di quelle attese in base all’età cronologica e che persistono per almeno sei mesi, nonostante la messa in atto di interventi mirati.

 

Cosa si intende per disortografia evolutiva?

La disortografia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento caratterizzato da un’evidente lentezza esecutiva nella realizzazione dei grafemi, contraddistinta da errori di tipo fonologico (come aggiunta o omissione di grafemi), visivo-ortografico (come scambio di c con q) o fonetico (omissione o aggiunta di consonante doppia), attribuibili sia a insufficienti abilità nella conversione grafema-fonema sia nel difettoso richiamo in memoria della forma ortografica della parola (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012). Particolare rilevanza, per il suo carattere di indicatore di rischio, assume l’errore fonologico dello scambio di grafema (per esempio vilo per filo) (Cornoldi, Re e Tressoldi, citato in Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

Il DSM-V (American Psychiatric Association, 2013), nell’accorpare tutti i disturbi specifici dell’apprendimento in un’unica diagnosi di disturbo specifico dell’apprendimento, descrive la disortografia come una difficoltà di apprendimento relativa all’espressione scritta, caratterizzata da prestazioni notevolmente al di sotto di quelle attese in base all’età cronologica e che persistono per almeno sei mesi, nonostante la messa in atto di interventi mirati.

 

Disortografia e DSA: la situazione italiana

Per potersi porre diagnosi di disortografia è necessario che tale difficoltà non sia conseguente a disabilità intellettive o alterazioni a carico dell’acuità visiva o uditiva, non derivi da disturbi mentali o neurologici, svantaggio socio-culturale o inadeguata istruzione scolastica, purtuttavia interferendo significativamente con il rendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana.

Un disagio che incide sulla qualità e l’efficienza della vista scolastica, quindi, e che interessa anche altre abilità, quali la lettura, vista la frequente associazione con la dislessia (Angelelli, citato in Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

I numeri del problema, secondo l’ultimo aggiornamento del Miur relativo all’anno scolastico 2014-2015, parlano di 47.000 alunni con Disortografia evolutiva frequentanti le scuole, sia statali che non statali, di ogni ordine e grado (contro circa 109.000 dislessici). Nel complesso si è assistito a un forte incremento di tutti i disturbi specifici dell’apprendimento nell’anno scolastico 2014/2015, con una percentuale di alunni con disturbi specifici dell’apprendimento sul totale pari al 2,1%, mentre nell’anno scolastico 2010/2011 tale percentuale era di appena lo 0,7%.

 

Possibili cause della disortografia evolutiva

Varie le cause indagate all’origine della disortografia evolutiva, in particolare fattori quali la familiarità in linea diretta (Lo Presti e Franceschi, 2013), storie di alcolismo o uso di sostanze nei genitori e un basso peso alla nascita.

Nell’analizzare l’associazione tra lo sviluppo successivo di un disturbo specifico dell’apprendimento e l’esposizione alle anestesie generali prima dei quattro anni di età, Wilder e colleghi (2009) hanno rilevato che i soggetti sottoposti ad anestesia generale prima dei quattro anni di età presentavano un rischio aumentato di sviluppare un disturbo della scrittura in correlazione con disturbi a carico di lettura e calcolo, se avevano ricevuto due o più di tre anestesie generali.

 

Riconoscere la disortografia evolutiva

Dagli elementi fin qui esposti si delinea il quadro di un problema pervasivo e potenzialmente invalidante, non solo in ambito scolastico, poiché coinvolge l’immagine di sé e che pertanto necessita di tempestive diagnosi e trattamenti di comprovata efficacia.

Gli elementi cardine su cui poggia una corretta valutazione in fase precoce della disortografia evolutiva consistono, da un lato, nell’osservazione diretta dei quaderni, al fine di rilevare la presenza degli errori tipici prima definiti, dall’altro nell’ascolto di quanto riferito da insegnanti e genitori (tipicamente il bambino resta indietro nel segnare compiti sul diario, nel dettato e nel copiato) (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

La procedura più naturale per valutare la competenza ortografica sembra essere quella del dettato di un brano-standard. Eventuali difficoltà dovute alla modalità in cui si detta possono essere superate attraverso l’utilizzo di dettati registrati o di copiati di testi scritti, perché il bambino con disortografia evolutiva commette errori anche in fase di copiatura (Brotini, 1998).

 

Il trattamento per la disortografia evolutiva

Posta la diagnosi, l’obiettivo generale di un trattamento per la disortografia evolutiva consiste nel raggiungere una corretta e rapida corrispondenza tra rappresentazione fonologica e ortografica delle parole, stabilendo come criterio di efficacia il miglioramento del processo di scrittura, in maniera tale da osservare dei progressi maggiori di quelli attesi da un’evoluzione naturale del problema stesso.

Attualmente gli interventi che si sono dimostrati efficaci nel migliorare l’apprendimento dell’ortografia, condotti durante la scuola d’infanzia o il primo anno di scuola primaria, da insegnanti opportunamente preparati, presentano le seguenti caratteristiche (Tressoldi, 2013):

  1. Attività per favorire le abilita meta-fonologiche, come la segmentazione fonetica, che interviene nel passaggio dalla parola orale a quella scritta, e l’associazione tra grafemi e fonemi.
  2. Esplicitazione delle abilità da insegnare;
  3. Sessioni di circa 15-30 minuti l’una, con una frequenza non inferiore a due volte alla settimana, individuali o in piccoli gruppi, per un totale di 1-2 mesi

La validità di tali interventi risiede anche nell’individuazione di quei soggetti resistenti al trattamento stesso, che potranno perciò essere indirizzati verso Servizi a carattere specialistico.

Accanto a trattamenti di tipo riabilitativo, è consigliato l’uso degli strumenti compensativi in presenza di un carico di lavoro che limita fortemente l’autonomia, come nelle verifiche che richiedono molta lettura e scrittura, e solo se tale utilizzo non venga percepito come stigma dall’utente. Esistono differenti strumenti, da quelli ad alta tecnologia (correttore ortografico, riconoscimento vocale) a quelli a bassa tecnologia (dizionario) (Lo Presti e Franceschi, 2013).

Riguardo invece alle misure dispensative esse sono suggerite quando le misure compensative non sono di per sé sufficienti a garantire una sufficiente autonomia, in tal caso preferendo sostituire le verifiche scritte con quelle orali e la valutazione del contenuto e non della correttezza ortografica nelle produzioni scritte (Tressoldi, 2013).

La collaborazione tra il clinico che si occupa di diagnosi e scuola è fondamentale e deve basarsi su un’idea chiara della disortografia evolutiva, insieme realista e ottimista, che il clinico può agevolare negli insegnanti. A tal fine è importante che le famiglie e la scuola comprendano il carattere cronico della disortografia evolutiva, abbandonando l’idea della ‘guarigione’, e nel contempo l’idea erronea della semplice mancanza di impegno quale spiegazione del disturbo, puntando invece su un concreto sostegno lungo tutto il percorso formativo, attraverso la personalizzazione dell’apprendimento, capace di rafforzare l’autoefficacia e l’autostima del bambino (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

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