Gender studies: cosa sono gli studi di genere
I Gender studies o studi di genere si occupano dei significati socio-culturali legati all’identità di genere e ai ruoli di genere e sono trasversali a diverse discipline, sia scientifiche che umanistiche; hanno il merito di sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto al tema dell’identità di genere e alla sua relazione con la biologia sessuale dell’individuo, relazione complessa e influenzata da fattori psicologici, educativi e socio-culturali, quindi per nulla scontata e predefinita.
Il termine gender, in italiano genere, viene utilizzato per riferirsi al concetto di identità di genere, ci permette, cioè, di parlare di mascolinità e femminilità andando al di là della differenza sessuale biologica.
Grazie agli studi di genere cominciati negli anni ’50 e portati avanti fino ad oggi, il concetto di genere è andato complessificandosi; è doveroso quindi fare una distinzione tra identità di genere (come ciascuno si sente), ruolo di genere (è socialmente e culturalmente definito) e orientamento sessuale (l’attrazione sessuale che ciascuno sente verso uno dei due sessi, o verso entrambi).
È l’antropologa Gayl Rubin nel 1975, con The traffic women, la prima a parlare di sex-gender system, un sistema binario asimmetrico per cui la differenza tra i caratteri sessuali biologici viene trasformata in modo arbitrario in una disparità tra uomo e donna. I primi studi di genere però nascono negli Stati Uniti negli anni ’50 e si occupano di identità sessuale nelle due diverse dimensioni, negli anni ’70 e ’80 comincino ad occuparsi della condizione femminile e si diffondono anche in Europa dove si collocano all’interno di una riflessione culturale, politica ed emancipativa più ampia, sulla condizione della donna nella società e di come sia cambiato il suo ruolo, e più in generale sulla condizione delle minoranze sessuali, etniche, linguistiche e delle disabilità. Lungi dal negare le differenze di genere, gli studi di genere ne approfondiscono lo studio al fine di comprenderne meglio le varianti.
Gender studies e discriminazione di genere
Gli studi scientifici di genere (o gender studies) insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.
Le evidenze empiriche raggiunte da questi studi mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative, il linguaggio, la comunicazione mediatica, le norme sociali. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, da ormai più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali, scientifiche e professionali, che promuovono la salute mentale (tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.), le quali, derubricando l’omosessualità dal novero delle malattie, hanno ribadito una concezione dell’omosessualità come variante normale non patologica della sessualità umana.
L’Unicef, nel Position Statement del novembre 2014, ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo. La seria e appropriata diffusione di tali studi attraverso corrette metodologie didattico-educative può dunque offrire occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico e a contrastare le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici, valorizzando una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza.
L’AIP riconosce la portata scientifica di Gender Studies, Women Studies, Lesbian and Gay Studies e ribadisce l’importanza della diffusione della cultura scientifica psicologica per la crescita culturale e sociale del nostro paese.
Anche il fenomeno del femminicidio merita di essere ricordato come una drammatica conseguenza di stereotipi di genere, veicolati anche dai mass media, in grado di incoraggiare e giustificare la violenza di genere. Da una ricerca di Gius e Lalli sui giornali italiani del 2012 emerge una spiegazione del femminicidio basata su un frame pericolosamente idealizzato di amore romantico – spiega Alessandra Dino, Professore associato di Sociologia giuridica e della devianza presso l’Università degli Studi di Palermo – Ecco che per l’uomo sarebbe naturale perdere il controllo, per gelosia, per cui la violenza viene considerata un atto estremo con cui preservare un oggetto d’amore. Stereotipi deleteri per le donne, in qualche modo responsabili di violenze che spaziano da quella coniugale allo sfruttamento sessuale alla riduzione in schiavitù, consistono in frasi quali “Le donne serie non vengono violentate” oppure “Una donna non deve vestirsi in modo provocante”; stessa funzione di mancanza di tutela svolgono frasi di giustificazione del comportamento del violento quali “Era da tanto che non faceva sesso” oppure “Era ubriaco”. Stereotipi che, in qualche modo, legittimano una violenza sociale, lasciando la donna impaurita, indifesa, al limite, spingendola a non denunciare, per il timore della riprovazione familiare e sociale.
Gender Studies e Gender Medicine
Il genere biologico di un individuo ha un ruolo determinante nel caratterizzare gli aspetti fisici del corpo, la struttura del cervello, le tendenze comportamentali, nonché la sensibilità e la reazione agli stati di malattia. Le differenze di genere sono inoltre il frutto di una sottile interazione tra fattori biologici e ambientali, il ruolo nella società, la concezione di sé e la propria storia personale.
La letteratura scientifica in molte discipline evidenzia come i maschi siano più studiati rispetto alle femmine: la biologia di base dei testi di medicina rispecchia la biologia maschile, lo sviluppo dei farmaci è basato sulla ricerca al maschile. Una ricerca medico-scientifica basata sul genere è l’obiettivo dell’approccio definito Gender Medicine, nella quale si tiene conto di fattori quali la classe sociale, il livello di istruzione, l’età, le condizioni psicologiche, ma soprattutto il genere.
Gender studies e differenze anatomiche cerebrali
Un team dell’Università di Cambridge ha eseguito una revisione su tutti gli articoli pubblicati dal 1990 al 2013, per un totale di 126 articoli. Si tratta della prima meta-analisi in cui si analizzano oltre 20 anni di ricerca in neuroscienze sulle differenze di struttura cerebrale nei due sessi biologici. Analizzando questi articoli si è rilevato che i maschi, in media, hanno un cervello più grande rispetto alle donne (da 8-13 %), hanno un maggiore spazio intracranico (12 %), maggiore materia grigia (9 %), maggiore sostanza bianca (13 %), maggior liquor (11,5 %), e un cervelletto più grande (9 %). Insomma, hanno la testa strutturalmente più grande delle donne.
Guardando più da vicino, i ricercatori hanno trovato differenze di volume in diverse regioni: i maschi in media hanno maggiori volumi e densità della parte sinistra dell’amigdala, dell’ippocampo, della corteccia insulare, del putamen; densità più elevate del cervelletto e del claustrum di sinistra, volumi più grandi della circonvoluzione anteriore paraippocampale bilaterale, del giro cingolato posteriore, del precuneus, dei lobi temporali, e del cervelletto, della circonvoluzione del cingolo anteriore e dell’amigdala destra. Al contrario, le femmine in media avevano una maggiore densità del lobo frontale sinistro, e maggiori volumi del lobo frontale destro, delle circonvoluzioni frontali inferiore e media, della pars triangularis, del planum temporale/parietale, del giro del cingolo anteriore, della corteccia insulare, del giro di Heschl del talamo bilaterale, del giro paraippocampale di sinistra e della corteccia occipitale laterale. Anche se ci sono chiare differenze strutturali cerebrali tra i maschi e le femmine, un importante ruolo è svolto dall’ambiente e dalla società nella quale si vive. Inoltre a fare la differenza è la presenza dei neurotrasmettitori che determinerebbero il carattere, il temperamento. Infatti, questi propagatori di informazione risultano avere una concentrazione specifica per ognuno di noi.
In uno dei più importanti studi sulle differenze di genere condotto all’Università della Pennsylvania, i ricercatori hanno trovato ampie connessioni neurali intraemisferiche antero-posteriori nei cervelli maschili, il che suggerisce che il cervello dell’uomo sia strutturato per facilitare la connessione tra la percezione e la coordinazione dei movimenti. Al contrario, nel cervello femminile, sono più ampie le connessioni interemisferiche, a dimostrazione del fatto che le donne hanno maggiore facilità di comunicazione, capacità analitiche e intuizione. Per esempio, mediamente, i maschi sono migliori nell’imparare e nell’eseguire un singolo compito alla volta, come andare in bicicletta o guidare, mentre le femmine hanno una memoria maggiore e migliori abilità cognitive sociali, il che le rende maggiormente attrezzate per il cosidetto multitasking, che sottilinea un approccio di tipo mentalistico. Altri studi precedenti hanno dimostrato differenze legate al sesso a livello cerebrale, ma il circuito neurale che connette le regioni dell’intero cervello connesso a quelle specifiche abilità cognitive non è stato scientificamente dimostrato. Questo gruppo di ricerca ha dimostrato che le donne hanno una maggior connettività interemisferica nelle aree sovratentoriali, al contrario degli uomini che hanno una maggior connettività intraemisferica. Accade l’opposto, invece, nel cervelletto, il quale ha un ruolo principale nel controllo motorio e in cui i maschi mostrano maggior connessione interemisferica mentre le femmine maggior connessione intraemisferica. Tutte queste connessioni specifiche nei maschi forniscono loro un sistema efficiente per la coordinazione dei movimenti in cui il cervelletto e la corteccia favoriscono il collegamento tra le esperienze percettive (parte posteriore del cervello) e l’azione (parte frontale). Nelle femmine queste connessioni facilitano l’integrazione tra processi analitici e sequenziali (emisfero sinistro) e le informazioni spaziali e intuitive (emisfero destro).
Gli autori hanno riscontrato poche differenze di genere nei bambini di età inferiore ai 13 anni, ma differenze più pronunciate negli adoloescenti tra i 14 e 17 anni e nei giovani adulti oltre i 17 anni.
I risultati dimostrano anche che le femmine hanno prestazioni migliori dei maschi nell’attenzione, nel linguaggio, nel riconoscimento delle espressioni facciali e nei test di cognizione sociale. I maschi, invece, sono migliori nel processamento spaziale e nella percezione sensori-motoria. Queste differenze sono maggiormente evidenti tra i 12 e i 14 anni.
Gender studies: maschi e femmine quanto sono diversi?
Uomini e donne sono sottoposti a pressioni evolutive diverse e a separare i due sessi c’è un solco profondo, sosteneva Darwin. Negli ultimi anni ci si è dati da fare per sfumare le differenze e declassare al rango di boutade la tesi secondo cui le donne provengono da Venere e gli uomini da Marte. Dall’università del Wisconsin la ricercatrice Janet Shibley Hyde controbatte a suon di dati: “maschi e femmine sono uguali, fatta eccezione per piccole variabili psicologiche”. Le teoria dei due mondi separati è stata distrutta.
Uno studio eseguito da italiani dell’università di Torino, pubblicato sulla rivista Public Library of Sciences invece ci dice che lo scarto fra i due sessi esiste, eccome e “l’idea che ci siano solo piccole differenze di personalità fra uomini e donne va ripensata perché è basata su metodi inadeguati”. La ricerca è stata condotta su un campione di 10 mila soggetti aventi 15 diversi tratti della personalità. La discrepanza maggiore riguarda la sensibilità, tradizionale dominio femminile. Le donne registrano valori molto alti anche per quanto riguarda il calore e l’apprensione, mentre gli uomini si distinguono per equilibrio emotivo, coscienziosità e tendenza alla dominanza. Perfezionismo, vitalità e tendenza all’astrazione vedono invece la quasi totale parità fra i sessi.
I maschi sono più stabili emotivamente, più dominanti, più legati alle regole e meno fiduciosi, mentre le femmine sono più calde emotivamente, meno sicure di sé e più sensibili.
Secondo un altro recente studio, pare che i due sessi affrontino le situazioni di decision making in maniera globalmente diversa. Infatti, gli uomini tendono a organizzare il mondo in categorie distinte, mentre le donne affrontano le cose con maggiore flessibilità. Gli psicologi dell’Università di Warwick hanno sottoposto un gruppo di uomini e donne a un compito di decision making e hanno concluso che gli uomini giudicano in maniera più generale e frettolosa mentre le donne sono state solo in parte più accurate. La scoperta più intrigante, però, è stata quella che uomini e donne sono ugualmente fiduciosi nelle decisioni prese. Questo significa che la differenza di genere non è dovuta al fatto che gli uomini sono più decisi nelle cose rispetto alle donne, come si tende a credere, ma semplicemente che uomini e donne percepiscono il mondo in modo diverso. In sostanza, dipende dai significati che si attribuiscono alle cose.
Secondo un altro studio ancora gli uomini utilizzano maggiormente il pensiero astratto su molti argomenti e lavorano mentalmente su categorie e generalizzazioni, mentre le donne sono disposte ad affrontare le situazioni più nello specifico, in termini di situazioni concrete e di relazioni. Ciò è evidente, ad esempio, nei giudizi morali. Gli uomini sono più legati a principi astratti di giustizia, dovere, correttezza, ecc. e li applicano a tutte le persone e in tutte le situazioni. I giudizi morali delle donne, invece, si basano su sensazioni soggettive, considerando spesso molte attenuanti, piuttosto che in base a principi astratti.
Lo studio di Steel e Ferrari (2012), rispettivamente delle università di Calcary e Chicago negli Stati Uniti, indaga le caratteristiche degli individui che avrebbero la tendenza a rimandare. La procrastinazione si può definire come una decisione volontaria di ritardare il corso di un’azione, nonostante la consapevolezza che il ritardo potrebbe avere conseguenze negative. In sintesi, posticipiamo anche sapendo che è la scelta peggiore. Lo studio è stato condotto su un imponente campione di 16.413 soggetti, raccolto nell’arco di tre anni, di madrelingua inglese, reclutati attraverso internet. Le variabili prese in considerazione hanno riguardato: sesso, età, stato coniugale, numerosità del nucleo familiare, educazione e nazionalità. I risultati, emersi dalla ricerca, indicherebbero che la procrastinazione sarebbe maggiormente connessa a sesso, età stato coniugale e livello educativo. I procrastinatori sarebbero di sesso maschile, giovani, single, con una bassa scolarità.
Vi sono poi in letteratura numerosi studi condotti con tecniche di neuroimaging, riguardanti l’effetto del pianto dei bambini sulla risposta neurale degli individui adulti, ma la maggior parte di questi ha preso in considerazione esclusivamente le madri e soli pochi hanno coinvolto anche soggetti di sesso maschile. Una delle eccezioni è rappresentata dallo studio di un gruppo di ricerca dell’Università di Trento, guidata dal dott. Nicola De Pisapia, che ha analizzato, avvalendosi dell’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, la risposta cerebrale di individui adulti (maschi e femmine) in stato di mind wandering (quel particolare stato di “riposo mentale” in cui non siamo cognitivamente impegnati in nessuna specifica attività e il nostro pensiero è libero di vagare) in reazione a stimoli uditivi corrispondenti al pianto di bambini affamati. I ricercatori hanno scelto di studiare la risposta neurale in stato di mind wandering poiché rappresenta la modalità di pensiero più comune, che caratterizza quasi la metà della nostra attività mentale quotidiana in stato di veglia. I risultati dello studio hanno evidenziato che, indipendentemente dal fatto di essere già genitori o meno, il cervello degli uomini e quello delle donne reagisce in maniera differente al pianto dei bambini piccoli. In particolare, durante l’esposizione al pianto dei bambini, due delle principali aree neurali che formano il default mode network, il circuito responsabile del mind wandering, ovvero corteccia prefrontale mediale e cingolata posteriore, regioni tipicamente associate all’auto-riflessione e al pensiero centrato sul sé, restavano attive negli uomini, mentre subivano una deattivazione nelle donne. Ciò dimostrerebbe una peculiare modulazione genere-dipendente nella risposta dei circuiti cerebrali alla richiesta del bambino di essere nutrito, che si manifesta in una rapida interruzione dello stato di mind-wandering nelle donne (madri e non). Questi risultati confermerebbero, a livello evolutivo, una tendenza naturale da parte del genere femminile a una modalità di “cura alloparentale” nei confronti dei figli. Tale predisposizione, infatti, risulta comune a diverse specie di mammiferi, dove le femmine adulte cooperano e si aiutano reciprocamente nella cura della prole.
Gender studies: uomini e donne di fronte alla malattia
I dati epidemiologici (ISTAT, 2005) evidenziano alcune differenze tra uomini e donne: le donne vivono più a lungo ma in condizioni peggiori di salute. L’indagine ISTAT del 2005 “Condizioni di salute e ricorso ai sevizi sanitari” suggerisce le seguenti percentuali: le donne riferiscono di essere affette, in modo maggiore degli uomini, soprattutto da artrosi/artrite (21,8% contro 14,6%), osteoporosi (9,2% contro 1,1%) e cefalea (10,5% contro il 4,7%); depressione e ansia (7,4% contro il 3,1%); malattie allergiche (11,2% contro 10,3%); ipertensione arteriosa (15,4% contro l’11,8%), diabete (4,7% contro il 4,3%), malattie della tiroide (5,5% contro lo 0,9%), tumore (1,1% contro lo 0,9%).
Continuando con i dati ISTAT, in alcune patologie le donne hanno valori più elevati degli uomini anche nella fascia di età più giovanile (34-35 anni), in particolare per quanto riguarda le malattie della tiroide, allergiche, artrosi e artrite, depressione e ansia, tumore, cefalea (che ha il picco nella fascia d’età 35-44 anni). La disabilità è più diffusa tra le donne (6,1% contro 3,3% degli uomini).
Infine, tra le cause di morte, quelle più frequenti tra le donne sono le malattie dell’apparato circolatorio (46,8%) e il cancro (23,8%). Le malattie dell’apparato respiratorio sono responsabili del 5,5% dei decessi e le causa violente del 3,7%.
Volendo considerare solo le patologie strettamente correlate allo stress, l’Agenzia del Lavoro cita, insieme alle malattie cardiache, anche le malattie psichiche, per le quali le donne sono vittime in percentuali maggiori rispetto agli uomini. In particolare, il 20% di donne rispetto al 17% di uomini riportano sintomi di stress, depressione e ansia (Duprè, 2002).
Uno dei tanti luoghi comuni a proposito delle differenze tra uomini e donne riguarda come si affronta la malattia. Una recente ricerca dimostra che effettivamente sia il genere che la personalità influenzano il modo in cui si affronta la malattia. Uno studio longitudinale condotto alla Washington State University ha coinvolto 2859 persone del Regno Unito: lo studio ha raccolto molti dati tra cui quelli relativi alle malattie fisiche e mentali, la personalità dei partecipanti, la loro felicità e il livello di soddisfazione della propria vita. Secondo quanto raccolto per gli uomini è più una questione di numeri: più sono i sintomi maggiore è la preoccupazione, per le donne invece è la personalità a fare la differenza sulla gestione della malattia ma la reazione non cambia al cambiare dei sintomi.
Anche rispetto alla malattia mentale sono state registrate delle differenze: mentre per gli uomini non sussiste alcuna correlazione tra personalità e malattia, per le donne due tipi distinti di personalità sembrano essere correlati a una minor incidenza di malattie mentali rispetto a tutti gli altri: il primo tipo è caratterizzato da alti livelli di amabilità, il secondo da bassi livelli di coscienziosità. Le donne appartenenti alla prima categoria hanno più probabilità di avere una migliore rete sociale e quindi di ricevere maggior supporto per far fronte a eventuali malattie e dunque riprendersi prima e meglio e subirne meno le conseguenze, nel secondo caso invece l’autore sostiene che esperendo con più frequenza la sensazione di non avere il controllo di ciò che accade non risentono eccessivamente dell’impatto di una malattia mentale.