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Pensiero consapevole e automatico – I bias che influenzano il terapeuta

Spesso basiamo le nostre inferenze su bias cognitivi e, senza accorgerci, tendiamo a considerarle conclusioni piuttosto che ipotesi di lavoro da verificare.

Di Antonio Scarinci, Roberto Lorenzini, Marika Ferri, Stefania Borghetti

Pubblicato il 21 Gen. 2020

Aggiornato il 24 Gen. 2020 11:10

Talvolta durante il lavoro clinico si incappa in bias cognitivi, in schemi che imprigionano e influenzano la percezione e la rappresentazione della realtà e fanno saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci e influenzare l’efficacia del terapeuta.

Il presente contributo è il terzo di una serie di articoli sull’argomento. Pubblicheremo i successivi contributi nei prossimi giorni. Nel presente articolo, così come nei prossimi, continueremo ad approfondire le teorie di Daniel Kahneman per meglio comprendere le conseguenze dell’attivazione del pensiero lento e veloce in psicoterapia.

La legge dei piccoli numeri

Spesso basiamo le nostre inferenze rifacendoci alla legge dei grandi numeri, scegliendo però un campione troppo ristretto. Con campioni piccoli il rischio di ottenere risultati senza senso è molto alto. Quando la legge dei grandi numeri vale anche per i piccoli numeri, il bias generale è quello che favorisce la certezza rispetto al dubbio.

Per questo è importante un’attenta lettura degli studi scientifici su campioni grandi e non fidarsi di osservazioni aneddotiche su pochi casi o singole esperienze.

Cerchiamo attraverso il sistema 1 di avere conoscenza certa da poche osservazioni, un “effetto alone” che ci fa credere, per esempio, di capire molto bene una persona di cui sappiamo pochissimo. Arriva un paziente all’osservazione è molto ordinato nell’aspetto, chiede educatamente se può mettersi seduto, si scusa per i due minuti di ritardo. Si accende la lampadina e il clinico salta alla conclusione: è un ossessivo! Il che va pure bene se invece di considerarla una conclusione, la riteniamo semplicemente un’ipotesi di lavoro da verificare.

L’effetto alone, presente anche nella vita di tutti i giorni ci fa anche pensare che se uno possiede una caratteristica positiva ne abbia anche molte altre che nella nostra mente sono a essa correlate. Per questo nell’ossessivo ci aspetteremo di notare altri segni e sintomi coerenti con l’ipotesi.

Interviene in questo caso anche una modalità di pensare in termini causali, che scotomizza la possibilità che i comportamenti sopra descritti siano semplicemente casuali e non siano raggruppabili e regolari. Lo schema ci imprigiona e influenza la percezione e rappresentazione della realtà e ci fa saltare a conclusioni che si possono rivelare fallaci.

L’effetto ancoraggio

Quando dobbiamo assegnare un valore, partiamo da un valore disponibile che assume una funzione di ancoraggio per successivi aggiustamenti. L’effetto priming con l’attivazione selettiva dell’attenzione e di ricordi comparabili con l’ancoraggio produce una coerenza associativa. Numeri alti o bassi attivano idee che producono associazioni e ancorano la valutazione.

L’effetto ancoraggio va quindi tenuto in considerazione in ogni giudizio poiché il sistema 1 rende alcune informazioni più accessibili al sistema 2 che ha invece il compito di elaborarle. Le ancore casuali producono il loro effetto, indipendentemente dalla loro verosimiglianza.

Questo è il motivo per cui la calunnia, anche quando si dimostra del tutto fallace è efficace secondo il ragionamento “ non sarà del tutto vero, ma qualcosa deve pur esserci”. Insomma una volta che ci siamo messi in testa una cosa cacciarla non è semplice.

Basti pensare alle informazioni che ci sono fornite da un collega che ci invia un paziente. Il nostro pensiero è influenzato da quanto ci racconta, soprattutto se stimiamo il collega e lo riteniamo molto autorevole, anche se non ne siamo pienamente consapevoli (effetto priming) i dati che ci fornisce rappresentano una guida che può limitare la nostra valutazione, indirizzando l’attenzione, la memoria e facilitando associazioni che producono un ancoraggio il cui effetto può essere fuorviante.

La stessa necessità di avere una diagnosi categoriale seguendo i segni e i criteri del DSM 5 può essere fuorviante in relazione a una diagnosi interpretativo-esplicativa che ci dia il funzionamento del paziente, la dinamica dello scompenso e i fattori di mantenimento del disagio, più utile ai fini della comprensione e del trattamento. La sola diagnosi categoriale ci fornisce solo il prototipo di un paziente e trascura una serie di specificità che definiscono la complessità di quella particolare persona, ancorandoci a strategie d’intervento predefinite o all’esperienza accumulata nel trattamento di quella diagnosi, o alla disponibilità di protocolli e linee guida in letteratura.

L’euristica della disponibilità

La facilità di recuperare dalla memoria un consistente numero di esempi condiziona il giudizio relativo a una categoria cui gli esempi sono riferiti.

Eventi salienti, avvenimenti drammatici, esperienze personali, rappresentano potenziali bias di disponibilità cui resistere è faticoso anche perché la fluidità del ricordo e la salienza del contenuto sono più importanti del numero complessivo dei ricordi.

Immaginate che nella casistica del Dr. Pinco il numero di pazienti con disturbo di personalità narcisistico sia considerevolmente maggiore rispetto a qualsiasi altro disturbo. Il giudizio del terapeuta in questione su un paziente sarà influenzato dall’euristica della disponibilità. E’ possibile, pertanto, che si tenda a diagnosticare maggiormente un disturbo piuttosto che un altro, o se si sono ottenuti numerosi successi, a riprodurre quei trattamenti utilizzati di prassi, escludendo la possibilità che nel caso specifico possano determinare un insuccesso.

In questo tipo di errore incorrono soprattutto i superspecialisti cui arrivano sempre casi già selezionati, mentre ne sono più protetti i colleghi alle prime armi che, assediati da dubbi e incertezze, rischiano meno di prendere “lucciole per lanterne”.

Euristica dell’affetto

La raccolta di una grande mole d’informazioni che oggi con la rete più di ieri siamo propensi a fare suscita emozioni e crea aspettative e bias.

La facilità con cui un fobico si rappresenta i rischi crea una reazione emotiva di paura e a sua volta la paura influenza il giudizio e la decisione rispetto al pericolo. Le persone si formano opinioni e prendono decisioni, affrontano o evitano eventi, esprimendo le proprie emozioni senza esserne pienamente consapevoli.

L’euristica dell’affetto (Slovic, Lichtenstein, 1968) sostituisce la risposta a una domanda, “che sensazione provo?” con una domanda diversa, “cosa ne penso?”. D’altra parte è ciò che sostiene Damasio: le valutazioni emotive sono centrali nel processo decisionale e possono anche portarci a prendere buone decisioni.

L’importante è avere la perspicacia di analizzare le situazioni valutando costi e benefici di scelte e comportamenti. Un conto è controllare il sopraggiungere di un’auto prima di attraversare la strada, un altro è restare bloccati sulle strisce pedonali in virtù della notizia letta sul giornale di un uomo morto investito da un’auto mentre attraversava.

Forse chiunque eviterebbe di attraversare la strada se per una settimana tutti i mass media avessero dato notizie dei numerosissimi pedoni morti nell’ultimo mese con statistiche di raffronto annuali che testimoniano di un incremento vertiginoso dei casi. Si aggiunga che nei media una notizia catastrofica (ad esempio un treno che deraglia) rende degne di essere riportate notizie della stessa area che altrimenti non avrebbero trovato spazio (un casello di passaggio a livello che s’incendia, un guasto agli scambi in stazione, il dissesto dei binari per il terremoto).

Siamo, in continuazione sollecitati da una “cascata di disponibilità” su tantissimi argomenti compresi quelli clinici che esercitano una forte influenza sui nostri stati emotivi (mood congruity effect).

Il bias della rappresentatività

I giudizi di rappresentatività sono guidati da stereotipi, che hanno in sé qualcosa di vero ma quel qualcosa può farci ignorare altre informazioni, per questo l’euristica è fuorviante.

Se una persona, per esempio, riferisse di sentire delle voci potremmo pensare di essere in presenza di un esordio psicotico, con la possibilità di scartare l’ipotesi che le voci possano essere l’effetto collaterale di un farmaco assunto dalla persona stessa.

I dati epidemiologici ci dicono che il rapporto di prevalenza del disturbo istrionico di personalità è sbilanciato a favore delle femmine. Se ci fosse chiesto di formulare una diagnosi in due soggetti di sesso opposto di cui uno solo è affetto dal disturbo e che presentassero entrambi una marcata ricerca d’attenzione, l’euristica della rappresentatività ci influenzerebbe nel giudizio, soprattutto se la vigilanza del sistema 2 che riduce l’eccessiva fiducia in sé non si attivasse.

Detto in altri termini siamo vittime dei nostri pregiudizi molto più di quanto pensiamo.

Negli anni 70 in un famoso esperimento Rosenhan (1973) decise di verificare se soggetti senza disturbi psichiatrici sarebbero stati ricoverati erroneamente in reparti psichiatrici.  Reclutò dei volontari e gli chiese di recarsi in strutture psichiatriche per essere ricoverati.  Al colloquio di accettazione gli pseudo pazienti lamentarono di sentire delle voci e un senso d’insoddisfazione per la vita. Alle domande rivolte in sede di colloquio, altresì, i pazienti risposero in modo sincero secondo la loro esperienza. Tutti furono ricoverati e dimessi a distanza di tempo con diagnosi di schizofrenia in remissione.

Rosenhan fece un ulteriore esperimento avvisò l’equipe curante di una struttura di ricovero che nei successivi 3 mesi avrebbero fatto richiesta di ricovero alcuni pseudo-pazienti. Gli psichiatri individuarono un 10% di pazienti simulatori e i membri dello staff un 20% di persone sospette. Pessime intuizioni dato che Rosenhan non aveva inviato nessun finto paziente.

C’è in sostanza ciò che vedo e ciò che vedo è coerente con il pensiero associativo. Questi bias aggiunti all’ignoranza (scarsa attenzione alla probabilità statistica) e alla pigrizia (poca attenzione al compito) determinano errori. La ricetta da seguire è mettere in discussione la “valenza diagnostica” delle prove.

Un’altra fonte di bias è la sostituzione della probabilità con la plausibilità, in questo caso un’illusione cognitiva saliente ci fa scegliere. Un paziente è ricoverato in una comunità socio-riabilitativa per due anni e sta molto meglio, ha risolto gran parte dei suoi problemi e adotta comportamenti adattivi, è plausibile che anche fuori della comunità si adatti funzionalmente alle varie situazioni che si troverà a fronteggiare. Con sorpresa e incredulità scopriamo, però, che la plausibilità non si correla con la probabilità. Infatti, una larga percentuale di pazienti che soggiornano in strutture residenziali è soggetto al fenomeno del revolving door.

Esempi e statistiche

E’ più facile imparare da casi individuali rappresentativi che da dati statistici. E’ più facile inferire il generale dal particolare che dedurre il particolare dal generale. Perché vi sia apprendimento è importante stupire (Nisbett, Borgida, 1975).

Nella formazione, come anche in psicoterapia, l’integrazione di diversi canali comunicativi (iconico, sonoro, ecc) possono essere più efficaci del solo parlato. Mostrare video di sedute terapeutiche, suggerire la visione di film (Coratti et al. 2012), può favorire un terreno d’incontro tra paziente e terapeuta capace di creare sintonia e alimentare una più forte alleanza terapeutica. In altre parole fare esperienza concreta è molto più efficace per il cambiamento sia in contesti formativi, sia terapeutici (da cui la superiorità delle terapie che prevedono l’esposizione).

La letteratura è ricca di esempi e casi da cui trarre insegnamenti. L’esperienza è maestra di vita come scrive Jung:

Colui che vuol conoscere l’animo umano non imparerà quasi nulla dalla psicologia sperimentale. Dobbiamo consigliargli di appendere a un chiodo la scienza esatta, di spogliarsi del suo abito di scienziato, di dire addio a questo suo tipo di ricerca e di camminare per il mondo con cuore umano, nel terrore delle prigioni, dei manicomi, degli ospedali; di vedere le taverne dei sobborghi, i bordelli, le bische, i salo­ni della società elegante, la borsa, i comizi socialisti, le chiese, i revival e le estasi delle sette; di provare nella propria carne amore e odio, le passioni sotto tutte le forme. Allora ritornerà carico di una scienza ben più ricca di quella che gli avrebbero dato i manuali alti un piede e potrà essere per i malati un vero conoscitore dell’animo umano (Jung, 1959).

Regressione verso la media

Le ricompense funzionano meglio delle punizioni quando operiamo in addestramento. Le fluttuazioni, però, di un processo casuale portano alla regressione verso la media: le performance migliori tendono a peggiorare e quelle peggiori a migliorare.

La difficoltà a tenere presente il fenomeno è dovuta al sistema 1 propenso a dare interpretazioni causali, perciò se ottengo risultati positivi con i pazienti sono un bravo clinico. I gruppi estremi tendono a regredire verso la media, dobbiamo, per esempio, aspettarci che i pazienti più gravi tenderanno a stare meglio indipendentemente dal nostro intervento.

Attenzione, quindi, ad attribuirsi falsi meriti! Ed anche colpe immeritate, insomma siamo molto meno influenti di quanto pensiamo e questo schiaffo alla nostra onnipotenza è una benefica carezza rispetto al peso della responsabilità.

Per avere un risultato certo che l’intervento sia stato efficace, abbiamo sempre bisogno di confrontare un gruppo sperimentale con un gruppo di controllo cui non è stato applicato il trattamento e verificare se i pazienti del gruppo sperimentale migliorano più di quanto sia giustificabile dalla regressione verso la media.

 

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Il pensiero veloce ci fa percepire il mondo ordinato, coerente, con l’illusione di previsione e controllo, il pensiero lento attiva elementi di correzione.

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