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La ruota del tempo – Racconto

Un racconto allegorico del periodo del Covid-19 e del suo impatto sulla società con i cambiamenti e le difficoltà che tutti noi abbiamo dovuto affrontare

Di Isabella Cencioni

Pubblicato il 25 Ago. 2020

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Similmente siamo stati colpiti tutti noi dal virus Covid-19 e dalle sue conseguenze.

 

La mente è come una macchina del tempo.
Rimette insieme i pezzi per rivivere il passato;
Consente di immaginare e proiettarsi nel futuro;
Gira ed elabora ogni istante, scandendo il momento presente.

Come ogni giorno la ruota aveva preso a girare nel suo consueto orario. Una alla volta le persone arrivavano e prendevano il proprio posto: i mattinieri in fila già alle prime luci dell’alba, pronti a salire, i ritardatari, con affanno e di gran fretta, sperando nell’ultima corsa.

Era un venerdì come tanti, così si pensava.

Tutti realizzavano i propri giri: chi sbadigliava, ancora assonnato; chi sorrideva, già pensando al fine settimana a venire; ognuno attendeva, più o meno pazientemente, che la giornata trascorresse per poter scendere dalla ruota e, finalmente, tornare nella propria casa.

Ogni tanto si udiva qualche strano scricchiolio ma nessuno sembrava preoccuparsi più di tanto, del resto, se il capo-giostra continuava ad osservarli con il volto sereno ed un sorriso lieto, non avevano alcun motivo di dubitare. E allora pensavano ‘va tutto bene’. Era ormai pomeriggio, il sole cominciava ad abbassarsi rendendo l’aria più fresca e la ruota cominciava a rallentare la sua corsa, creando un’atmosfera sempre più distesa e leggera. Poi, improvvisamente, ecco l’imprevisto, l’inaspettato che tutto cambia.

La rottura era avvenuta così, senza dare alcun preavviso e senza lasciare a nessuno il tempo di prepararsi. Il capo-giostra inizialmente aveva provato a tranquillizzare gli animi, sarebbe bastato avvisare il tecnico e portare un po’ di pazienza per risolvere la situazione, così diceva, ma le cose non andarono proprio così. Non si trattava del solito ‘guasto tecnico’, nulla che si potesse risolvere con qualche semplice indicazione: dopo aver borbottato a bassa voce al telefono, costringendo la mimica facciale ad un sorriso rassicurante, era giunto il momento di condividere con tutti la verità. Bisognava attendere che passasse il fine settimana per ricevere un aiuto esperto e consentire alle persone di tornare alla loro vita: la discesa dalla giostra avrebbe, infatti, compromesso inevitabilmente l’equilibrio dell’intera ruota fino a un possibile crollo.

Il capo-giostra era stato allora sommerso di domande e di un bisogno di rassicurazioni. La paura di cadere dalla ruota pervadeva gli animi, ognuno aveva le sue buone ragioni per desiderare di scendere come alla fine di ogni giornata e andare incontro ai propri progetti e alla propria libertà.

Cercando di non oscillare, con movimenti cauti e mani salde intorno alle barre, sarebbe stato possibile ridurre il margine di rischio; in fondo si trattava di resistere pazientemente fino al lunedì, così ognuno pensava e ripensava per darsi coraggio.

Potevano farcela, anzi: dovevano farcela.

Quella del venerdì era stata una serata strana e, dopo tanto parlare di quanto accaduto, tutti si erano addormentati profondamente in cerca di un riparo lontano nel tempo e nello spazio in cui trovare conforto.

Il sabato mattina, come ogni sabato del villaggio che si rispetti, anche se in quella situazione nuova, anomala, gli adulti si svegliarono colmi di buoni propositi: era così tanto tempo che non riuscivano a godersi il panorama offerto dalla ruota, presa solitamente dal suo girare incessante, e potevano finalmente ascoltare i propri pensieri, solitamente coperti dai rumori della giostra, dal parlottio della gente, raccontare delle storie ai propri bambini, godere del loro sguardo meravigliato. La paura era tanta ma, chiusi e protetti all’interno della propria cabina, quella giocata del destino rappresentava forse una possibilità. I bambini erano smarriti, non era mai capitato nella loro vita di poter osservare il tempo trascorrere così lentamente e, francamente, non sapevano proprio che farne. Allo stesso tempo, tuttavia, era facile per loro lasciarsi guidare dai grandi ed era bello vivere quel tempo familiare che una parte di loro aveva sempre desiderato, coltivato come una piccola fiamma accesa.

Stando attenti e restando uniti, il peggio sarebbe passato velocemente, il lunedì sarebbe arrivato in un battito di ciglia.

Il momento desiderato era giunto quasi rapidamente e quella mattina nessuno sembrava avere sonno, gli occhi erano tutti ben aperti, spalancati per la trepidante attesa. Il tecnico era arrivato, occhiali scuri e una valigetta stretta nella mano destra: passava in rassegna, scrutava con attenzione ogni ingranaggio, cercava di capire cosa si nascondesse, quale fosse l’origine del danno. Più passava il tempo, più la sua confusione pareva aumentare. Non poteva fare a meno di scuotere il capo. Era il capo-giostra che ora aveva l’ingrato compito di comunicare a tutti la necessità di prolungare quell’attesa, di dover aspettare una settimana o, chissà, forse due, per lasciare che tecnici esperti trovassero una soluzione a quel guasto inatteso, così inconsueto.

Le persone a questo punto erano davvero disorientate, si chiedevano come sarebbe stato possibile rimanere così immobili, sospendere all’improvviso la loro vita; d’altra parte si rendevano conto, però, che nulla in quel momento poteva essere più importante di proteggersi, di proteggere l’altro. A questo punto tutti avevano cominciato a stringersi silenziosamente all’interno delle proprie cabine, stando attenti a non sporgersi e, soprattutto, a non farle oscillare: era una questione di equilibrio, la noncuranza di una singola persona avrebbe potuto produrre oscillazioni a catena e mettere così in pericolo la vita di ognuno di loro.

Il tempo non era mai trascorso così lento, quella specie di frenesia da cui erano stati così a lungo presi per mano e guidati li aveva lasciati così, in sospeso, con un semplice ‘torno presto’ si era allontanata senza lasciare alcuna indicazione. Abituati a correre durante la giornata come in una maratona spalla a spalla con il tempo, gli adulti avevano sentito da subito l’istinto di riempire le loro giornate, di intrattenere, propositivi e stimolanti, i propri bambini: forse era questo l’unico modo che possedevano per reagire, senza sentire troppo chiaramente i propri pensieri, senza doversi chiedere, perciò, se fossero dei bravi genitori a tempo pieno.

La cabina poteva essere così ridipinta, i vetri tirati a lucido, i cuscini rinnovati con colori e fantasie e, perché no, un tocco di verde in più magari avrebbe reso l’atmosfera più calda. I bambini, dal canto loro, avrebbero potuto dipingere, inventare storie, giocare a carte ed aiutare ad impastare biscotti. Quante cose sarebbe stato possibile fare! Pensando e ripensando, si sarebbe potuto farsi venire sempre nuove idee, l’importante era riuscire a non fermarsi. La verità era che, per i bambini, quel tempo sconosciuto non era poi così male, sapeva di famiglia, di carezze sulla testa e di sorrisi condivisi, sapeva di calma e di riparo dalle proprie paure, quelle che spesso li avevano fatti sentire così fragili ed arrabbiati, che avevano fatto loro desiderare intensamente di poter essere stretti forte in un abbraccio, di sentirsi sussurrare piano ‘andrà tutto bene’.

Le prime giornate erano state scaldate dal sole, guardare verso il basso sporgendosi dalla cabina poteva suscitare molta paura ma, restando all’interno e dedicandosi alle cose semplici, diventava addirittura possibile, a volte, dimenticare quanto stava accadendo. Il rientro degli angeli custodi, quello sì, che era un momento in cui non si poteva tentare nessuna evasione o rimozione difensiva: gli angeli custodi, così venivano chiamati, ogni mattina scendevano cautamente dalle loro cabine e passavano l’intera giornata tenendo salda tra le proprie mani una fune con tutte le forze che avevano, permettendo in questo modo di mettere in sicurezza il più possibile la stabilità della giostra. I loro volti stanchi, le mani ferite e doloranti, tutto di loro raccontava una storia seria, una storia che faceva paura, che ricordava a tutti quelli al riparo ciò che poteva sembrare così surreale e lontano.

Una sera, sul calare del sole, una voce sottile aveva cominciato ad intonare una canzone: le note di quella melodia, come tante piccole chiavi, erano riuscite ad entrare nel cuore delle persone che subito si erano sentite pervadere da un senso di euforia e di fiducia, che dalla pancia era salito velocemente fino alla testa; era bastato uno sguardo complice per sentirsi così vicini gli uni con gli altri e per unirsi timidamente a quel coro ormai crescente di voci. Sera dopo sera, quel momento di condivisione era diventato ormai un appuntamento irrinunciabile, un’esperienza capace di risollevare gli animi, di dare loro quella carica che li avrebbe resi pronti ad affrontare il giorno successivo. O quasi.

Al termine della settimana, la possibilità di dover rimanere sospesi per quindici giorni ancora era ormai diventata certezza. Era necessario a questo punto riorganizzarsi perché bambini e ragazzi non smettessero di imparare: pensando e ripensando, era stato deciso di comune accordo di trasmettere ogni giorno una lezione attraverso l’altoparlante finora addetto alla diffusione della musica e delle comunicazioni di servizio all’interno del parco. Non sempre l’ascolto riusciva ad essere fluido, talvolta la voce risultava gracchiante ed era difficile comprendere bene; aggiungiamoci, inoltre, il fatto di non poter vedere i maestri di persona, di sentirsi inevitabilmente osservati dai propri familiari ed ecco che riuscire ad essere ricettivi, ancor prima che produttivi, poteva rivelarsi una vera e propria missione. Proprio in quanto al sentirsi osservati, quel che stava venendo a mancare a molti in quei giorni di invischiamento era la possibilità di garantirsi un proprio spazio personale o, quantomeno, di poterlo reclamare senza suscitare troppi sensi di colpa e risentimenti.

Era una grande prova di equilibrio per tutti, un equilibrio che certamente non sarebbe stato più lo stesso. Quel che all’inizio sembrava così difficile, impensabile quasi, stava ora accadendo piuttosto naturalmente, come ogni ‘legge della sopravvivenza’ racconta. Ognuno a suo modo stava trovando, un passo alla volta, la strada migliore per adattarsi all’imprevisto.

Incredibilmente la necessità impellente di riempire il tempo e di muoversi si stava mitigando, in quella pausa dalla realtà di ogni giorno alcune consapevolezze stavano emergendo gradualmente e si palesavano con estrema chiarezza: il modo migliore per fare tesoro di tale esperienza era portare con sé un bagaglio del viaggio introspettivo appena compiuto, collocare scatti e souvenir all’interno del proprio mondo interiore perché, anche tornando alla vita abituale, non venisse mai dimenticato.

Nel corso delle giornate poteva capitare che la cabina oscillasse, come se il vento, passando, si divertisse a darle una piccola spinta per poi scappar via veloce come solo lui sa fare: proprio in quei momenti, nonostante la ruota fosse completamente immobile, l’umore poteva cominciare un nuovo giro sulle montagne russe e salire, scendere, risalire e poi riscendere senza sosta fino alla fine di quella corsa impetuosa.

Era naturale che alcune domande risuonassero nella testa e che fosse difficile metterle a tacere: ci si chiedeva come sarebbe stato tornare alla vita abituale e quanto tempo avrebbe richiesto, se il lavoro ne avrebbe risentito, ma anche quando sarebbe stato finalmente possibile abbracciare di nuovo un caro amico. Insomma, nonostante fosse chiaro più che in altri momenti quanto la vita fosse un dono, in quel ciclo continuo di pensieri non risultava affatto semplice riuscire a porre un freno ed interrompere la corsa: conveniva lasciarla fluire fino al suo arrivo.

I bambini, dal canto loro, non sembravano altrettanto provati. Desideravano di certo poter sgranchire un po’ le gambe con una bella corsa, correre in bici e sdraiarsi sul prato con gli amici per riprendere un po’ il fiato ma, a parte questo, a parte un po’ di nostalgia per la libertà perduta, per il resto, tutto sommato, stavano vivendo quella rilassatezza che prima era difficile anche solo immaginare. Del resto, anche prima erano abituati a vivere gli amici per lo più affacciandosi dalla cabina, a raccontarsi sogni nel cassetto e ridere a crepapelle facendo a meno della vicinanza fisica. Ma era proprio così? Davvero riuscivano ad affrontare quei giorni sospesi a mente libera e cuor leggero?

Forse, in realtà, la loro vocina interiore poneva delle domande che spesso però rimanevano dentro, silenziose, senza che nessuno potesse ascoltarle, per poi cercare una risposta nel volto e nelle espressioni dei più grandi. Forse il guscio che già si erano costruiti intorno, in quella immobilità forzata, stava divenendo via via sempre più spesso, duro, e avrebbe reso ancor più difficile ritornare ad affacciarsi al mondo esterno. E’ vero infatti, seppur paradossale, che più a lungo genitori e figli trascorrevano il tempo fisicamente vicini più cresceva tra di loro un muro di silenzio che li rendeva emotivamente distanti: non essendo abituati infatti a dialogare, risultava difficile riuscire ad avere un confronto costruttivo che non facesse esplodere le parole come nel lancio di una navicella spaziale o, al contrario, che non creasse un nodo alla gola incapace di farle uscire, mettendole a tacere.

Finalmente il capo-giostra aveva delle buone notizie da dare, esisteva una soluzione che da lì a poche ore avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare. Finalmente il momento tanto atteso era ad un passo. Quanto lo avevano desiderato! Quante cose avrebbero voluto fare per recuperare il tempo perduto! Si sentivano emozionati e grati al pensiero di poter trascorrere attimi che un tempo avrebbero considerato abituali ma che invece, ora, apparivano così pieni di vita.

Certo, forse all’inizio sarebbe sembrato tutto un po’ strano ma c’era quella voglia di non perdersi nulla, di catturare ogni istante e viverlo intensamente che spesso si avverte quando l’esperienza ci porta ad aprire gli occhi come per la prima volta e ci rende consapevoli dell’unicità che contraddistingue ogni singolo attimo.

Il grande entusiasmo che aveva pervaso i presenti era stato però contenuto da una comunicazione ulteriore, arrivata subito dopo, quando le grida di gioia di tutti avevano permesso al capo-giostra di riprendere a parlare. Se era vero che probabilmente esisteva una possibile soluzione al problema, era altrettanto vero che sarebbe stata sperimentale, che non era possibile prevedere se avrebbe funzionato o quale sarebbe stata la sua evoluzione: l’ingranaggio da sostituire, infatti, era ormai fuori produzione e l’unica possibilità era creare un nuovo meccanismo. Ricominciare portava con sé un margine di rischio, richiedeva il coraggio di compiere, tutti simultaneamente, un salto nel vuoto. Non sarebbe stato di certo facile uscire dalla propria zona di comfort, tollerare l’incertezza, l’instabilità che avrebbe accompagnato la nuova partenza fino ad un nuovo assestamento, ma era l’unica possibilità che avevano. Dopo aver cercato sostegno l’uno nello sguardo dell’altro, una persona alla volta cominciava la cauta discesa dalle proprie cabine attraverso delle funi. L’entusiasmo era tale che spesso occorreva richiamare all’ordine chi non prestava sufficiente attenzione alle indicazioni date, ma per loro era difficile riuscire a controllarsi, inebriati come erano. Si sentivano, infatti, come sotto l’effetto di un innamoramento, confusi ma al tempo stesso felici. Era, però, assolutamente necessario che non perdessero la rotta, che la stella polare non smettesse di orientarli tra le onde di quel mare di cui non potevano avere il pieno controllo: la stella polare andava ricercata dentro di sè e, una volta trovata, quando cioè si fossero ritrovati, le acque non avrebbero certo smesso di oscillare sotto l’effetto delle correnti, ma di sicuro sarebbe stato più difficile perdersi, sapendo da dove ripartire.

Una volta disposte le misure necessarie, era arrivato il momento di lasciare la giostra: dopo aver abitato quel tempo sospeso, ecco infine la possibilità di tornare al tepore delle proprie case. Era stata data la precedenza agli anziani, i più fragili in questa imprevedibile discesa, per poi far scendere, a turno, prima gli adulti e poi bambini e ragazzi, perché, sebbene solitamente fossero considerati le creature più delicate, da proteggere, in tale situazione potevano contare su un’agilità e una resistenza superiori a chiunque altro.

Solo una volta scesi e posti gli uni accanto agli altri si era potuto tirare un sospiro di sollievo e sentir dissolvere parte della tensione accumulata. In cerca di quella rassicurazione che avrebbe reso il riposo ristoratore, prima di allontanarsi avevano osservato ancora una volta il volto del capo-giostra ma questa volta, nonostante i suoi sforzi, il suo sguardo esitante aveva lasciato trapelare una mancanza di risposte.

Quella notte avrebbero goduto del rientro nella propria casa, sentendosi al sicuro e tuttavia estraniati, come al rientro da un lungo viaggio. Nel frattempo tecnici esperti ed angeli custodi avrebbero lavorato silenziosamente al nuovo ingranaggio che l’indomani avrebbe permesso alla ruota di ricominciare a girare e al tempo reale di tornare a scorrere. Se avrebbe funzionato o no, nessuno poteva ancora saperlo. Non avevano dunque certezze ma erano convinti di una cosa, fra tutte: andare avanti voleva dire non voltarsi indietro.

Almeno per quella notte avevano deciso di distogliere la mente da quanto accaduto e soprattutto di non crearsi aspettative rispetto alla nuova fase a venire. Al risveglio, riportata la mente conscia alla lucidità perduta, ogni persona aveva cominciato a prepararsi per questo nuovo inizio come in ogni primo giorno che si rispetti. Ognuno affrontava la situazione a suo modo: c’era chi correva frettolosamente verso la propria cabina con fare impavido, probabilmente avventato, chi non si sentiva ancora pronto ad una risalita che lasciava così tante incertezze e infine chi, nonostante nutrisse delle perplessità, era convinto di dover prendere il coraggio a due mani spinto della necessità di voler andare avanti, per rimettere in moto la giostra, per il bene collettivo. Del resto, ‘chi si ferma è perduto’ recita un noto detto popolare.

Al di là del vissuto personale di ciascuno, vi era comune accordo rispetto alla necessità di sentirsi più protetti, reclamando di diritto delle misure che rendessero ogni risalita ed ogni discesa meno rischiose: ecco allora che un’imbracatura e dei guanti protettivi avrebbero reso gli spostamenti abituali sicuramente meno rapidi e agevoli ma al tempo stesso più sicuri. Non era semplice stabilire come fosse meglio comportarsi, quanto potersi rilassare e quanto dover restare in allerta; al di là dei timori primordiali legati alla sopravvivenza propria e dei propri cari, il dubbio che la struttura della ruota non tornasse più alla stabilità di un tempo continuava a far capolino nella mente di ciascuno.

Tutti questi pensieri, tuttavia, assumevano un’importanza secondaria per coloro che avevano atteso il ritorno alla libertà come l’attracco di un’ancora di salvezza per sfuggire ad un disagio interiore, amplificato a dismisura in quella dorata prigione, o alla necessaria tolleranza di vicinanze dolorose e deleterie: essere resi di nuovo liberi, questa era l’unica vera nuova occasione per tutti loro.

I giorni passavano e le persone senza rendersene conto si adattavano sempre di più alla loro nuova realtà, con pazienza e resilienza. Sicuramente rimettersi in moto, con la condivisione partecipe di tutti, aveva aiutato ad allontanare inerzia e senso di solitudine ma, obiettivamente, molto era stato reso possibile dalle riflessioni maturate in quei lunghi giorni e dalla consapevolezza raggiunta su quanto tutto possa cambiare improvvisamente senza alcun preavviso, sull’importanza di potersi fermare, di poter osservare la propria vita e leggere, con occhi diversi, dinamiche disfunzionali ormai consolidate e tentare di produrre un reale cambiamento.

Del resto, non è questo il saggio segreto della vita, riuscire a tollerare l’incerto e trovare il coraggio di mettersi in discussione?

 

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